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Luca Poggi, cyberpunk

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LUCA POGGI

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MENS Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-467-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2012 Stampato da

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1. Il suono del bicchiere che si rompeva fermò per un attimo le mascelle dei miei familiari. Nessuno alzò la testa: i piccoli mi scoccarono un'occhiata distratta, Diana mi avvicinò la salvietta senza guardarmi. La colazione mi colava lentamente sull'avambraccio destro e rimasi a fissarla più a lungo del necessario, mentre afferravo la salvietta con la mano sinistra. Intercettai il colaticcio sul gomito con un vago senso di disgusto. «Dovresti parlarne con il dottor Berliz» disse Diana, riprendendo a masticare. Berliz era il mio psichiatra. Scossi la testa. Mia figlia era sempre troppo protettiva nei miei confronti, ma in realtà sapevo benissimo perché accadeva. Era il terzo bicchiere che stritolavo, quella settimana. Non lo facevo volutamente; anzi, cercavo di controllarmi come potevo. Ero diventato bravo, con il mio corpo. Ma non riuscivo ad accettare che la mia colazione si fosse ridotta a un miscuglio di sostanze chimiche insapori. Il mio cervello ne aveva bisogno per sopravvivere, certo, ma dentro di me non volevo rinunciare a darle un significato diverso; ricordavo benissimo quando ero un uomo vero e mia moglie era ancora in vita: allora la colazione era un'occasione per stare assieme alla famiglia. Ogni volta speravo di ricreare quei momenti di serena complicità, ma ogni volta era una delusione. Mi liberai dei frammenti di vetro e finii di pulirmi. Avrei dovuto usare un dispenser di plastica, per mangiare, ma esitavo: era troppo asettico. «Bambini, la scuola» disse Diana. Teo e Gena terminarono il latte con i cereali in un istante, dettero un bacio alla mamma e indossarono gli zaini. L'autista del pulmino era già davanti casa. Teo mi dette un pugno di saluto facendo tintinnare la mia pancia d'acciaio. Gena non rinunciò al suo bacino. Non potevo ricambiare, naturalmente. Né potevo percepire il tocco delle sue labbrucce rosse. Ma apprezzai il gesto. Vidi i bambini

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sparire oltre la porta. «Che programmi hai oggi?» chiese Diana, sparecchiando. «Esercizi di postura, credo» risposi. Mi alzai da tavola con attenzione. Stavo imparando ad essere meno goffo, ma non è banale muoversi quando non hai sensibilità tattile in tutto il corpo tranne che nelle mani. E quella era stata una vera conquista; il dottor Dei aveva piazzato dei sensori di pressione dentro le mie dita e sul palmo. Erano semplici, ma avevo impiegato sei mesi per riuscire a utilizzarli: il mio cervello doveva sempre riprogrammarsi per l'uso di nuovi recettori. All'inizio il cervello non capiva; ebbi tutto un insieme di sintomi psicotici che mi portarono all'ennesimo ricovero. Poi, gradualmente, collegai ciò che vedevo toccare dalle mie mani a quel che la mente sentiva; ora ero in grado di sapere se e cosa toccavo. Non come per una mano umana, ma potevo afferrare e muovere le cose senza guardarle. «Be', immagino che ci vedremo più tardi. Vado all'università» disse Diana. «Ciao, papà.» Sarei arrossito per l'irritazione, se avessi avuto una faccia. Mossi il mio testone verso di lei, anche se non ne avevo bisogno, per vederla. C'era una fascia di sensori ottici tutto intorno alla mia testa e funzionavano piuttosto bene. Più che altro lo facevo per non turbare: qualcuno che ti osserva dalla nuca deve mettere parecchio a disagio. «Mi chiamo Angel» dissi, dando un'intonazione piatta alla mia voce. Diana e i ragazzi erano la mia famiglia, ma per loro io ero Angel. Mia figlia mi squadrò con il suo tipico sguardo ironico. «Anche di questo dovresti parlare a Berliz.» Emisi un fischio basso di protesta, come spesso mi accadeva quando ero irritato. Il mio cervello modulò la frequenza salendo agli ultrasuoni. Il cane del vicino prese ad abbaiare furiosamente. Feci uno sforzo consistente per riuscire a fermarmi. L'involontaria manifestazione di alienità inasprì il mio umore. Diana cambiò espressione; mi salutò con la mano e salì sullo scooter, infilando il casco. «Adesso sì che mi somigli, figlia» mormorai fissandola, con il capoccione metallico poggiato sui vetri. Vedevo il profilo del mio volto riflesso sul cristallo: un bidone di ferro senza sporgenze, con placche impermeabili a protezione dei sensori per vista e udito disposte circolarmente attorno al mio capo. Andai in camera mia e presi il beverone versandomelo direttamente in gola dalla sacca dell'ospedale. Richiusi manualmente l'orifizio che solo

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un temerario avrebbe chiamato bocca. Stavolta non avevo versato una goccia. Mi vestii, uscii e chiusi la porta d'ingresso dietro di me. Per fortuna l'università era vicino casa; quella mattina non sopportavo gli sguardi perplessi dei passanti.

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2. Questa faccenda dei vestiti era davvero ridicola; me ne rendevo conto perfettamente, ma andare in giro nudo mi imbarazzava. Anche se non c'era gran che da vedere. Il mio corpo era tozzo e privo di escrescenze, come quello dei robot umanoidi che sono presenti nelle case dei ricchi per fare le pulizie e gestire le faccende domestiche. Credo che se avessi dismesso gli abiti sarei passato più inosservato: nessuno aveva mai visto un robot vestito. Non so da dove venisse quell'attacco di pudore, sono sempre stato ragionevolmente disinibito con il mio corpo. Forse era per la struttura scarna: avevo braccia e gambe a traliccio, cave ma resistenti e molto leggere, assai diverse dall'aspetto di un arto umano. Il torso era forte e flessibile, irrobustito da costolature in acciaio rinforzato che affioravano sotto la mia pelle coriacea; una volta avevo provato a tagliarmi con un buon coltello: la lama si era scheggiata e avevo dovuto buttarlo. Mi abbottonai con attenzione l'unica giacca buona che mi restava, e m'incamminai per le strade di New Sealon, ingombrate di gente. Camminare mi era difficile. Non avrebbe dovuto esserlo: di tutte le funzioni che riuscivo a compiere col mio corpo, quella della deambulazione era una delle più semplici. In teoria. Secondo il dottor Berliz c'era qualcosa d'altro che non andava, e aveva poco a che fare con le mie gambe. Scettico, insistevo a pesticciare il selciato con i miei grossi piedi, esitante e tremebondo. Sembravo un bradipo vestito e calzato. La gente mi passava accanto disinvolta: mi scambiava probabilmente per un automa da ricchi eccentrici, di quelli che servono il caffè o puliscono il giardino con aria pretenziosa e aristocratica, solo che io camminavo assai peggio. Il brutto è che ingombravo: grosso e goffo com'ero, molti esitavano a superarmi sul marciapiede. Più d'uno, specialmente persone d'età, spesso mi si accodavano sperando che deviassi in qualche traversa. Non si risparmiavano borbottii di riprovazione. Era imbarazzante. Avevo cercato di convincere Berliz a procurarmi un mezzo di trasporto, ma il medico accampava mille scuse. «Cammina tra la gente, Angel» diceva sempre. «È la cosa più naturale

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del mondo.» Raggiunsi a piedi l'area di ricerca dell'università che portava il mio nome. Angel era scritto su molti cartelli indicatori. Superai i giardini e incrociai il vecchio che da sempre se ne prendeva cura; aveva in mano una rosa recisa e la stava annusando compiaciuto, un gesto che per me ormai non aveva alcun significato. Potevo usare le mie mani per il tatto, la vista era una conquista recente. L'udito l'avevo avuto quasi subito; ricordo quando me lo implementarono, dopo mesi di silenzio sensoriale. Avrei voluto piangere. Ma del gusto e l'odorato non se ne parlava. In compenso avevo una bella voce baritonale, con infinite possibilità di modulazione. Salutai il giardiniere con invidia e lui ricambiò sorridendomi. Era sempre gentile. Entrai direttamente nel laboratorio. Stranamente non si vedeva nessuno; c'era un fuscello di donnina che stava lavando per terra, mi aveva appena dato un'occhiata, e da lei non ebbi di più. Mi avvicinai lentamente per non spaventarla. Sembrava così vulnerabile, con le sue quattr'ossa, che mi pareva di ferirla solo guardandola. Stavo per chiederle qualcosa quando entrò Vladi, un giovanotto emotivo con due guanciotte rotonde sempre rosse. Non stava mai fermo, si agitava tra i banchi del laboratorio come un furetto. Lavorava con me, e su di me. Non avrei saputo dire esattamente quali fossero le sue competenze, sapevo di lui che era uno specializzando e aveva studiato sotto la supervisione del dottor Dei. Il che significava che doveva essere in gamba. Quando mi vide mi scoccò un'occhiata fuggevole. «Signor Angel» salutò; rovistò in un cassetto alla ricerca di non so che. «Mi ha trovato per caso.» «Non si lavora, oggi?» chiesi. Era il terzo pomeriggio consecutivo che se la prendevano comoda tutti quanti, al laboratorio. I due giorni precedenti le porte erano proprio chiuse e al telefono non rispondeva nessuno. «No, mi spiace» disse Vladi, in imbarazzo evidente. «Avevo preparato dei test, ma il dottor Dei mi ha detto che potrebbero essere inutili…» Era la prima volta che sentivo una cosa del genere da Vladi: di solito mi sottoponevano agli esperimenti più assurdi con somma aspettazione. «Che sta succedendo?» dissi lentamente, mettendomi di fronte al ragazzo. «Dov'è Berliz?» Vladi gonfiò le guance e arrossì un poco. Sembrava sulle spine. Poi smanacciò per aria, come se non ne potesse più di sostenere la tensione. «Bene» disse. «Tanto l'avrebbe saputo comunque: pare che ci taglino i fondi.»

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«Cosa?» feci io incredulo. «Già» disse Vladi; arrabbiato, adesso. «Quegli stronzi. Mesi e mesi di lavoro buttati via. Dovrò ricominciare un'altra ricerca da zero per il dottorato.» Parlava del suo lavoro su di me: era quello che buttavano via. E quindi buttavano via me. Senza qualcuno che si impegnasse a migliorare il mio corpo sarei rimasto privo di tutto: manutenzione, assistenza, energia. In una parola: vita. Un certo tipo di vita, certo, ma era tutto ciò grazie al quale ero rimasto in piccola parte umano. Un nonno. Un papà. Non avevo mai mostrato di apprezzare questo dono delicato, lo so, anche se facevo il possibile per rendere la vita familiare più serena possibile. Ora me lo toglievano, quel dono; soprattutto lo toglievano a Diana e ai bambini. «Sei sicuro?» chiesi, fissando Vladi con la massima attenzione. «No. Voglio dire… il dottor Berliz sta perorando la nostra causa da qualche giorno, ormai.» «Anche oggi?» «Sì. È a una riunione dei finanziatori. Con me non si sbottona, ma non pare ottimista.» «Perché non me l'ha detto? Potevo andare con lui.» Vladi scosse la testa. «Lei è troppo coinvolto. Quelli vogliono soltanto risultati. Numeri.» «Risultati?» feci io, in un moto improvviso di avversione. «È stato fatto un lavoro incredibile qui, da tutti voi.» «Non lo dica a me» disse Vladi, gentile. «Ma non ho idea di come la pensi, quella gente. Hanno l'animo del burocrate e lo spirito del contabile.» «Dove stanno?» chiesi deciso. Non avrei permesso loro di staccarmi la spina senza dire la mia. Era la mia vita, maledizione. Ebbi paura. Una sensazione che non provavo da un sacco di tempo. «Non penso sia una buona idea» rispose Vladi. «Dove?» Il giovane appariva infastidito. Quando gli misi una mano sulla spalla stringendo le dita passò dal fastidio al panico. Non gli avrei mai fatto del male, doveva saperlo: eppure mi dette un indirizzo, si divincolò e se ne scappò dalla porta. La donnina mi lanciò un'altra occhiata, con evidente disapprovazione. Rimasi sorpreso di me stesso per qualche attimo, poi uscii anch'io. Sarei andato a quella riunione, non era lontano. Mi immersi nel via vai mattutino senza piacere: il marciapiede era pieno

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di gente, ma nessuno si curava di me. Non sapevo esattamente che fare: nessuno mi avrebbe dato un passaggio, tanto meno potevo chiamare un tassì. Dovevo andare a piedi per tre isolati. Iniziai a camminare con il maggior impegno possibile, ma quando abbassai lo sguardo vidi che le gambe stantuffavano rumorosamente contro il selciato, in verticale: una lumaca era più veloce di me. Ricordai le parole di Vladi. «Rotondo» diceva durante i miei esercizi. «Il movimento deve essere rotondo e pieno. Rilassati, le tue gambe sono rigide come camini di stufa. Sii creativo.» Creativo. Certo. Erano mesi che cercavo di camminare decentemente, non potevo risolvere il problema in due minuti. “D'accordo” mi dissi, “variazioni sul tema.” Cominciai a strusciare i piedi per terra. «Ci sono un sacco di camice da stirare. Forza, ferri da stiro» borbottai. Funzionava. Portai il destro in avanti, stridendo lievemente sul marciapiede: stendevo le grinze di un vestito steso per terra. Passai al sinistro. Poi al destro di nuovo. Andavo lento come prima, in realtà, ma almeno adesso i piedi mostravano l'anelito al moto orizzontale. Alcuni passanti rallentavano intorno a me, studiandomi le suole per capire l'utilità dell'operazione. Mi fermai un secondo: mi pareva di sudare. No, dovevo combinare le due cose: la mia stupida camminata in verticale e la strusciata in orizzontale. Dovevo stirare le camice alzando le ginocchia. Mi concentrai e cominciai a farlo: non correvo, ovviamente, ma slanciavo il piede in obliquo e spostavo in avanti il peso del corpo, poggiavo il piede su un colletto e alzavo l'altro per andare a lisciare un polsino. Camminavo più veloce, ora, ma non ero sistematico: ogni passo era portato in modo diverso, così avanzavo a scossoni in equilibrio precario. Ora i passanti mi fissavano decisamente divertiti. «Strano automa» disse un vecchietto. «Dev'essere un modello vecchio» disse la moglie. Erano dietro di me, avanzavano lentamente, poggiando entrambi il peso sul proprio bastone. Cercai di allontanarmene a modo mio, ma quelli mi raggiunsero e mi batterono sulle gambe con i bastoni. «Togliti di torno, ragazzo» disse la vecchia. Mi infuriai con me stesso. Accelerai. Il metodo era lo stesso, ma ora camminavo (poco) più svelto. Le gambe mi saettavano qua e là in modo inefficiente, un uomo si sarebbe stancato in due minuti. Mi sforzai di rotearle come bielle: lasciai indietro i due vecchietti e percorsi il tragitto

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inveendo contro le mie deficienze. La gente mi guardava ancora, distratta e un po' sorpresa: barcollavo, in effetti, e avevo una traiettoria tutt'altro che regolare, ma comunque procedevo innanzi. Ce ne volle: contai i minuti con impazienza facendo quanto potevo. Finalmente mi fermai. Ero stato lento, ma avevo impiegato meno tempo del previsto. Ero proprio davanti al palazzo della riunione. Sperai di non essere arrivato tardi. Entrai. All'ingresso non c'era nessuno, così andai a osservare il pannello sinottico contro la parete; c'erano le indicazioni per raggiungere gli uffici e la sala riunioni che m'interessava: era al quinto e ultimo piano. C'era un ascensore di fronte a me: andai alla porta, ma una striscia gialla la sbarrava e un cartello con su scritto “fuori servizio” penzolava dalla maniglia. Non me ne andava bene una: dovevo salire a piedi dieci rampe di scale. Inforcai la prima determinato: dovevo camminare inclinato adesso, non in piano. Il tentativo d'approccio mi fece quasi cadere: detti qualche calcio ai primi gradini, poi persi l'equilibrio e mi afferrai alla ringhiera. Per fortuna era robusta. Studiai la situazione, poi feci un altro tentativo. Chinai il busto in avanti sollevando di più le ginocchia. Andava quasi bene: urtavo ancora i gradini, ma rimasi in piedi senza difficoltà. Dietro di me lasciavo un bel po' di scalini sbreccati. «Nessuno» mormorai. «Meno male.» Le scale erano sgombre, potevo muovermi liberamente senza preoccuparmi di anima viva. Sentii qualche rumore sotto le rampe, ma chiunque fosse non badò a me. Quando arrivai in cima, avrei voluto sdraiarmi. Non ero stanco, ovviamente, non potevo esserlo, ma sentivo che avrei dovuto. Cercai la sala dove stava Berliz. Fu facile, in fondo al corridoio c'era una massiccia porta di legno dischiusa e una grossa scritta sopra la porta che diceva, per l'appunto, “SALA RIUNIONI”. Mi avviai verso la porta, ricordando che adesso mi muovevo di nuovo in piano. Filavo benino. Non vedevo gente da nessuna parte, gli uffici che superavo mostravano sempre sedie vuote. Udii un paio di volte una bambina chiamare la mamma, ma la voce proveniva da una stanza chiusa e non potei ascoltare risposta. La bambina chiamò ancora; la ignorai, ero giunto a destinazione. Spalancai la porta e sbirciai dentro. La stanza era grande e quadrata, ben ammobiliata e confortevole. E vuota. «In ritardo» mugugnai.

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Ero stato troppo lento. Non sapevo l'ora, ma se l'edificio era quasi vuoto, doveva essere davvero tardi. La riunione si era chiusa senza di me. Entrai, anche se era inutile. Guardai il grande tavolo di mogano e le numerose sedie lasciate un po' in disordine. Sul tavolo c'erano dei fogli con dei ghirigori confusi. Era un'abitudine che avevo avuto anch'io, quando ero uomo completo: un modo come un altro per ammazzare la noia di certi incontri di lavoro. «Signore?…» La voce, argentina, proveniva dalle mie spalle. Mi voltai: la bambina di prima era entrata nella sala e mi guardava con apprensione. La capivo, non sapeva come gestirmi. Era carina, ma non così piccola come avevo creduto. Doveva avere undici o dodici anni, con un bel vestito a fiori e i capelli biondi raccolti in una lunga coda di cavallo. Mi accucciai con precisione, non senza sforzo, vicino a lei. «Dimmi, cara» esortai. Le ragazzine di quell'età mi hanno sempre suscitato un forte istinto paterno. «Posso fare qualcosa per te?» La bambina strinse un poco gli occhi, come per capire che cosa fossi; le avevo parlato un po' da papà e lei aveva altre urgenze, così mi catalogò come umano e lasciò perdere il mio strano aspetto. «La mamma» disse. «La cerco da un po' ma non la trovo. Mi ha detto di aspettarla, ma è passato tanto tempo…» Lo squillo del telefono la interruppe; c'erano due telefoni sul tavolo, per la verità, e squillarono entrambi. Dalla porta udii che anche i telefoni degli uffici vicini si erano messi a suonare, tutti insieme, ognuno col suo trillo particolare. Continuarono a squillare per qualche attimo; esitai, ma gli apparecchi non volevano saperne di zittirsi. La stranezza della cosa mi indusse a rispondere. «Sì?» dissi cautamente. «Che diavolo ci fa lei lì?» disse una voce burbera dalla cornetta. «Cosa?» «L'edificio doveva essere evacuato da un pezzo» disse l'altro. «È la polizia. Se ne vada da lì. Subito.» «Cosa?» ripetei. «Esca dal palazzo. Non vede che non c'è più nessuno? Le fondamenta dell'edificio sono minate. Terroristi Globalisti. Ordigni troppo complessi e poco tempo per eliminarli. Se ne vada di lì di corsa. Secondo i timer ha solo cinque minuti.» Il poliziotto tolse la comunicazione bruscamente. Il terrorismo globalista era una vera piaga, ultimamente; aveva già

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colpito varie zone della città, spesso coinvolgendo la popolazione indifesa. Sentii la ragazzina che usciva invocando la madre. Rimasi un attimo inebetito col telefono tra le mani. Udii lo scalpiccìo della bimba sulla scala, un tonfo e poi un pianto dirotto. Mi ripresi. Poggiai il telefono e uscii dalla sala più rapido che potei. Accidenti alle mie gambe. Dinoccolato come non mai raggiunsi la rampa e guardai giù: la ragazzina era caduta dalle scale e giaceva sul primo pianerottolo tenendosi una caviglia con le mani. Si lamentava di brutto. Un paio di impreviste parolacce solcarono l'aria. «Ti sei fatta male?» gridai, un po' troppo forte per un essere umano. L'urlo rimbombò forte per la tromba delle scale raggiungendo i piani bassi. La bambina sgranò gli occhi, ma subito riprese a lamentarsi. Non mi rispose. Scesi quei gradini che mi separavano da lei con grande attenzione: andavo in discesa, ora, dovevo spostare il busto all'indietro e reggermi al parapetto. Non male, la raggiunsi subito. «Come va, piccola?» domandai. «La caviglia» disse lei, respirando forte. «Un passo falso.» Si teneva la caviglia destra con entrambe le mani, le labbra atteggiate a una smorfia di dolore. «Dobbiamo uscire da qui subito» dissi io. «Perché?» fece lei. Mi guardava in faccia, come se potesse leggere qualcosa dai miei lineamenti immutabili. «Cerchiamo la tua mamma. È uscita dal palazzo con tutti gli altri» tagliai corto. Bella madre, lasciare la figlia da sola in quelle condizioni. Ma, forse, era colpa della polizia: aveva trattenuto la madre e si era scordata di recuperare la piccola. Comunque fosse, qualcuno si meritava una paternale con i fiocchi. «Come ti chiami?» chiesi. Porsi il mio braccio per far alzare la ragazzina. «Sonia» disse lei. Afferrò la mia mano e cercò di tirarsi su; non riusciva ad appoggiare il piede destro. «Angel. Sbrighiamoci. La tua mamma sarà preoccupata.» Sonia scosse la testa con espressione neutra. «Oh no, non lo è mai. Dice sempre che so cavarmela.» «Uhm…» mugugnai, senza aggiungere altro. Non ci restava molto tempo. Se avevamo davvero cinque minuti, avremmo dovuto percorrere ogni rampa di scale in meno di trenta

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secondi. Assai meno, se contavo il tempo necessario per superare l'androne, uscire in strada e portarci a distanza di sicurezza. Con Sonia in quelle condizioni non potevamo farcela. Se il palazzo fosse crollato, lei sarebbe morta di sicuro ed io l'avrei seguita con ogni probabilità: il mio corpo è resistente, d'accordo, ma non tanto da sostenere impunemente la pressione di qualche tonnellata di ferro e cemento. Forse però sarei vissuto a sufficienza per vedere il corpo della ragazzina straziato accanto a me. Il solo pensiero era insopportabile. E terribilmente frustrante. Mi montò la rabbia, feroce e selvaggia, spazzando via il panico: non accettavo la situazione, era impossibile che succedesse questo. Sonia poteva essermi figlia o nipote. Il mio indefesso spirito tutelare esplose in tutta la sua furia. Le braccia mi tremavano per il furore: non sono mai stato un violento, ma se avessi avuto sotto mano il responsabile di tutto questo, l'avrei ridotto a minutaglia. Terroristi: feccia. «Ce la fai a salirmi sopra?» chiesi a Sonia. Dovetti controllare la mia voce per mostrarmi calmo. Non era facile, da tempo ormai il mio stato emotivo tendeva a riflettersi sulle mie manifestazioni esteriori. Era come se ci fosse una connessione impalpabile tra il mio ego umano e l'ammasso di ferraglia che ero. «Come?» disse Sonia. «Afferra il mio braccio con tutte e due le mani. Bene, così.» Sonia strinse forte ed io alzai il braccio sopra la testa; la ragazzina si alzò con lui. Porsi l'altro braccio e con un minimo di pudore usai l'avambraccio, non la mano, per poggiare e forzare sui glutei della piccola, sollevandomela sopra le spalle. Ricordavo com'era Diana a quell'età: fino a qualche anno prima era sempre stata appiccicata a papà, anche fisicamente e senza vergogna, ma poi aveva cominciato a difendere l'intimità del suo corpo da adolescente in modo molto tenero. Afferrai la ragazzina per i fianchi e completai il movimento poggiandola sulle mie spalle: era seduta su di me, ora, le gambette nude ciondolavano battendo i talloni sul mio petto ritmicamente. Iniziai a camminare. Il polso di Sonia era all'altezza dei miei sensori visivi: c'era un bell'orologio dalla cassa rosata, ma mi rifiutai di guardarlo; sapevo che il tempo correva, non mi sarebbe servito a niente fare il conteggio alla rovescia. Era tutto difficile: c'era la ragazzina appollaiata su di me, apparentemente tranquilla, e dovevo procedere veloce con un carico imprevisto. Mi detti un ritmo. Un passo alla volta iniziai a scendere la seconda

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rampa. Mi rendevo conto che non andava, c'era qualcosa di ritenuto in me, qualcosa che mi impediva di spostare il mio catafalco metallico come volevo. «Cosa c'è?» chiese Sonia. Anche lei l'aveva notato. Ero lento. Persi leggermente l'equilibrio, perché Sonia, nel desiderio di un incedere più spedito, si era sporta in avanti. Per evitare di cadere slanciai la gamba più del solito: saltai un gradino, atterrai sul successivo con un piccolo tonfo. Fu una rivelazione: perdindirindonzolina, camminare era un incessante cadere in avanti! Ripresi il controllo e chinai lievemente il busto avanzando il baricentro; allungai l'altra gamba per arrestare la caduta e il piede colpì il gradino successivo nel punto sbagliato, vicino l'aggetto della pedata. Il marmo si sbreccò di brutto e il piede cadde sullo scalino dopo. Ma eravamo al sicuro: anche se non avevo sensibilità negli arti inferiori, la percezione di stabilità partiva dalla suola e raggiungeva il mio cervello secondo un canale insondabile quanto reale. Forse erano le vibrazioni o forse avevo dei sensori di cui nessuno mi aveva mai parlato: erano sempre stati tutti molto reticenti sul mio hardware. Mi lanciai in avanti per cadere di nuovo, poi bloccai l'inesorabile ruzzolone con l'altra gamba. Sì, camminare era un continuo atto di coraggio. «Va meglio» disse Sonia, con la fronte corrucciata dalla concentrazione. Partecipava al mio impegno. Mi rincuorai. Avevo sprecato secondi preziosi, però. «Eh!… Eh!…» esclamai, imponendomi una cadenza. A ogni fonema sollevavo uno zampone e procedevo innanzi. «Eh!… Eh!… Eh!…» faceva Sonia insieme a me, ridacchiando per l'assurdità della scena. Non le permisi di distrarmi. Aumentai la concentrazione e cercai di dare più armonia al movimento. Tacevo, adesso, era Sonia che mi dava il ritmo, costante e sollecito. Come se sapesse che non c'era tempo da perdere, ma in realtà con l'impazienza tipica dei ragazzi, iniziò ad aumentare il volume e la frequenza delle sue grida; lo fece così gradualmente che quasi non me ne accorsi: fu alla quarta rampa che mi resi conto di filare niente male. Non correvo, ma camminavo quasi come una persona normale. Nessun problema di equilibrio. Ogni tanto Sonia mi sbilanciava di lato perché accompagnava l'incitamento sbracciando contenta, ma ormai l'equilibrio non era un problema. Sapevo come fare. Accettavo di cadere e poi

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risolvevo la cosa recuperando con il moto. «Vai… vai… vai…» diceva la ragazzina, veloce. Le andavo dietro a fatica ma tenevo duro. Quest'altra rampa, più o meno a metà percorso, la stavo macinando a dovere. Forse ce l'avremmo fatta. «Sta andando bene» dissi a voce alta, senza volere. «Zitto e pedala» disse Sonia. «Vai… vai… vai…» Tacqui, stupito: aveva usato un tono che non mi sarei aspettato, pareva la tipica strigliata di Diana. “Ecco un'altra che mi comanda” pensai sconfortato. Le detti un'occhiata di sbieco: aveva un'espressione accigliata, come se si rendesse conto improvvisamente che c'era qualcosa d'importante in gioco. Non sembrava più tanto infantile. Tornai ad ascoltare la sua voce. Urlava forte, ora, infondendomi un senso di urgenza che mi portò ad affrettare il passo. Non mi tenevo più alla ringhiera, non ne avevo bisogno. Sonia mi colpiva il petto con i calcagni al ritmo del suo sprone vocale. Sentivo che tutto partecipava alla discesa, il mio corpo e Sonia, i suoni che rimbombavano intorno, gli spiragli di sole che filtravano dalle finestre e che davano luce ai pianerottoli. Imparai a guadagnare qualche attimo derapando leggermente ai cambi di direzione; scivolavo leggermente suscitando le ansie della ragazza, che tratteneva il respiro e si teneva ben aggrappata. Non aveva torto: se fossi caduto con lei sulle spalle, ne avrebbe patito duramente le conseguenze. Sonia non disse niente, però, e continuò a incitarmi. Era un'atmosfera irreale. Non sembrava fuggissimo per la vita, quello mi pareva un semplice lavoro, un lavoro che dovevo compiere e basta, senza altre sfumature. Non ricordo quando Sonia smise di vociare. In effetti, non ce n'era più bisogno, camminavo speditamente e con una certa sicurezza. Un uomo spaventato avrebbe saputo fare di meglio, ma me la stavo cavando anch'io. Le ultime rampe non furono un problema: mi rifiutai di prendere anche solo in considerazione la possibilità che fosse troppo tardi, ero così intento a deambulare che avevo quasi dimenticato l'emergenza. Quando raggiunsi l'atrio, sentii il sospiro di sollievo della ragazza: ero così determinato che raggiunsi il portone d'ingresso d'impeto e lo spalancai un po' troppo, deformandolo contro le pareti perimetrali dell'edificio, anche se era grosso e pesante. Un vetro s'incrinò e la maniglia mi rimase in mano; al diavolo, stava per venire giù tutto, quel danno non era certo un problema. Uscimmo al sole della tarda mattinata.

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Allungai il passo per allontanarmi dal palazzo e terminai la nostra fuga quasi corricchiando. Mi guardai intorno con una buona dose di sbigottimento: mi sarei aspettato un cordone di poliziotti, strade sgombre e curiosi in attesa dell'inevitabile. Invece c'era il normale traffico cittadino e l'anda e rianda dei pedoni sui marciapiedi. Molti rasentavano l'edificio da cui eravamo usciti senza alcuna preoccupazione. Non si vedeva in giro neanche un poliziotto. Mi fermai contro un palazzo signorile, a distanza di sicurezza. «Puoi farmi scendere Angel» disse Sonia. Aprii le braccia con cui avevo inconsapevolmente serrato le sue gambe sino allora; Sonia fece una manovra agile e cadde a terra come una molla. Si mise in piedi con uno scatto felino senza mostrare alcun problema fisico. Ero senza parole. «Sei stato in gambissima» disse Sonia. Aveva un tono molto serio, mi guardava senza sorridere. La fissai, consapevole che c'era qualcosa che mi sfuggiva. «Sonia ha ragione. Accidenti!» disse una voce alle mie spalle. Mi voltai: era Vladi, e c'era il dottor Berliz accanto a lui che mi fissava raggiante. Il mondo attorno proseguiva le sue faccende tranquillamente; notai diverse persone che entravano nel palazzo in procinto di crollo, calme e compassate, per continuare la loro giornata feriale come sempre. Immaginai gli uffici che si ripopolavano. «Niente esplosivi» conclusi. «Niente esplosivi» confermò Berliz. Mi fissavano tutti e tre compiaciuti e fui lieto di non essere in grado di esprimere le mie emozioni con i lineamenti del viso. «Ti dobbiamo delle scuse» disse il medico arrossendo. «L'avete organizzata bene» dissi io. Non sapevo ancora di cosa parlasse, ma era ovvio che la faccenda fosse molto diversa da quel che credevo. «Sì» ammise Berliz. «Mi spiace. Dovevi essere sotto pressione per imparare a camminare. Non avevi il giusto atteggiamento mentale. Ci è costato un po', far sgombrare quel palazzo.» Pensai a tutti quei gradini rovinati dalla mia dabbenaggine: sperai si trattasse di costoso marmo italiano. Fissai Berliz con acredine: per quella messa in scena avrei voluto frazionarlo in sottomultipli d'intero, e certo mi sarebbe stato assai facile. Il medico intuiva il mio pensiero e strascicava i piedi come a fare disegni sulla sabbia. Indossava, come sempre, un paio di occhialini antidiluviani che gli

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davano l'aspetto da talpa; se li calzava e ricalzava sul naso, in un tic nervoso abituale, di cui in quel momento stava decisamente abusando. Il naso sottile, con le nari pelose e rotonde, era il particolare del suo volto che rimaneva più impresso: un arco di curva perfetto come un becco di civetta. Il suo sguardo era solitamente diretto e indagatorio, da vero psichiatra, ma ora non era in grado di sostenere il mio; ero rivolto verso di lui con tutto il corpo, proteso innanzi senza quasi accorgermene, dibattuto tra una collera sorda e la gioia per i miei progressi: mi avevano bassamente usato, anche se a fin di bene, sia loro che mio. Senz'altro ci doveva essere stato un altro modo, questo mi faceva sentire abbondantemente imbecille. Ma… camminavo, accidenti! Correvo persino. Come potevo volerne a quella gente, se ora avevo questo? Potevo camminare come un uomo! Beh… quasi. Ma non ero più in balìa di qualche vecchietto scorbutico. E potevo andare a spasso per la città con Diana e i bambini senza sentirmi doppiamente handicappato. «Signor Angel» disse Vladi affiancandosi alla ragazzina. «Le presento mia sorella Sonia.» Sonia mi scoccò un sorriso furbetto. Volsi il capoccione nella sua direzione. «Hai fatto un buon lavoro» commentai, guardandola. Lei non mostrò alcun imbarazzo. «Grazie» disse. «Ma non abbastanza. Sono morta sotto le macerie.» Indicò l'orologio che aveva al polso: aveva tenuto d'occhio i miei tempi, probabilmente i cinque minuti erano scaduti prima che uscissimo dall'edificio minato. «Che peccato» osservai. Le feci una carezza, consapevole che tra noi lei era l'unica ad aver rischiato davvero qualcosa: potevo cadere e trascinarla con me, su quelle scale, potevo lasciarmela scivolare da sopra le spalle… mi venivano in mente un sacco di incidenti seri che a me non avrebbero causato danni, ma da cui lei sarebbe uscita malconcia. Guardai Berliz e Vladi con uno sguardo critico, per questo, ma naturalmente loro non furono in grado di recepirlo. Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi. Volevano lasciarmi digerire la cosa, ma io non avevo bisogno di rifletterci gran che. «Sta bene» dissi. «Ma che sia l'ultima volta che mi fate uno scherzo del genere. Trovate altri sistemi o mi ricorderò di avere due braccia di

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ferro.» Il dottor Berliz abbozzò un pallido sorriso e mi porse la mano. Gliela strinsi leggermente forte. Il sorriso di Berliz sparì com'era venuto. «Siamo d'accordo» disse con solennità. Era un patto cui non avrebbe mancato. Ai margini del mio campo visivo notai che Sonia sgomitava Vladi alla bocca dello stomaco. Il fratello, riluttante, estrasse il portafoglio e le porse un ciuffo di banconote. Sonia le intascò senza profferire parola. Beh, questo è proprio un mondo mercenario.

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3. Le successive settimane le trascorsi in maniera ossessiva: ero diventato un camminatore morboso. A tutte le ore del giorno e della notte me ne andavo per le strade della città sfiorando negozi e abitazioni, affamato della nuova sensazione di libertà che mi comunicava il mio corpo. Ero libero di muovermi come credevo, adesso, senza rendermi ridicolo, senza la fatica dei poveri veri esseri umani. Diana sopportò più a lungo di quanto io meritassi, poi un giorno non ne poté più. Ero andato a zonzo tutta la notte ed ero rientrato facendo un fracasso d'inferno; per la verità avevo bisogno di riposo e la mia mente non era molto lucida, così non vidi in tempo lo zaino di Teo lasciato disteso là per terra. Inevitabilmente inciampai e caddi su un pezzo di mobilia cui Diana teneva molto. Non furono molti i pezzi rimasti interi. Naturalmente avevo svegliato tutti. Diana saltò giù dal letto e mi corse incontro. «Aaahh!» gridò quando vide il disastro. Mi si piantò davanti incrociando le braccia. Era deliziosa con quegli occhi azzurri ancora cisposi, però l'espressione era temporalesca. Ma Diana era una signora. Non inveì, non urlò: parlò come faceva ai ragazzi quando ne combinavano una grossa. Lentamente, con un bisbiglio e lo sguardo furente. «Papà…» disse. «Andrai a letto. Riposerai. Domani farai quel che farai e poi ti coricherai a un orario decente. Resterai nel letto tutta la notte. Ti alzerai per colazione assieme a noi. E così anche i giorni successivi.» Lei mi guardava intimidatoria, senza pretendere di esserlo: le veniva naturale. Aveva davanti un marcantonio d'acciaio, ma era lui a sentirsi di spirito fiacco innanzi a lei. «Sì» dissi io. Andammo a letto. La cosa finì lì; da allora iniziai a comportarmi in maniera più regolare, ma non avrei più perduto il piacere di camminare.

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4. Un giorno, qualche tempo dopo, mi alzai un po' più tardi del solito e uscii per passeggiare al sole. Podismo libero per un paio d'ore, poi mi diressi al laboratorio. I ragazzi mi stavano aspettando; Kurt e Vladi stavano ripulendo un po' in giro con estrema malavoglia. Erano in gamba, ma disordine era il loro secondo nome. Entrambi erano affascinati da me, se avessero potuto mi avrebbero sottoposto anche ai test di gravidanza. «Cosa abbiamo oggi?» domandai. Kurt, un ragazzotto lentigginoso con rossi capelli a spazzolone, mi indicò una sedia e un minuscolo tavolino. Si era unito al gruppo di ricerca da un paio di settimane ed era diventato subito grande amico di Vladi. I due si somigliavano di carattere, ed entrambi erano stati pupilli del dottor Dei durante l'università. Kurt era più giovane di Vladi di un anno, ma non si sarebbe detto, visto il mare di rughe che gli circondavano gli occhi. Diceva che era per il vizio di studiare di notte dormendo poco. Tutti gli concedemmo il beneficio del dubbio, finché non dette qualche dimostrazione delle sue abitudini notturne: spesso terminava il suo lavoro rimanendo nel laboratorio fino alle ore piccole. Detti un'occhiata al fascicolo poggiato sul tavolo. «Sembra un test per il Q.I.» azzardai. Vladi batté le mani come un ragazzino. «Bravo. Oggi, cambio di programma» mi disse, incoraggiandomi a sedere. «Devo supporre che sospettiate quel che so segretamente da un pezzo» scherzai. «Mi sto rincretinendo. Volete sapere di quanto.» Era una battuta, ma fino a un certo punto. Era la terza volta che mi facevano il test nelle ultime sei settimane. Stavano cercando qualcosa ma nessuno mi diceva nulla. Avevo provato a parlare con Berliz e poi con Dei, ma mi propinavano solo delle ciance. Vladi rise in maniera forzata e mi passò una penna. La prima volta che qualcuno me ne passò una ovviamente la ruppi. Da

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allora i miei movimenti erano diventati sofisticati; la presi con delicatezza dalle mani del giovane e sedetti con pazienza. Kurt mi indicò l'orologio a muro. «Quando la lancetta raggiunge le tre» disse. Attesi docilmente il mezzo minuto necessario, poi cominciai a leggere. Mi resi subito conto che il test era strano: mi sarei aspettato una difficoltà medio alta, adeguata a mettermi a dura prova; invece fu piuttosto semplice trovare le soluzioni. Doveva esserci qualcosa sotto. Impiegai due terzi del tempo disponibile per finire e restituii carte e penna ai ragazzi. Non degnarono i moduli di un'occhiata; mi pregarono di aspettare lì e uscirono entrambi. La vita è una perenne attesa. Mi alzai e andai alla finestra, guardando fuori: a New Sealon era una bella giornata, il sole creava larghe ombre sotto i platani del viale che serpeggiava tra i laboratori. Pensare che tutto quello fosse stato creato per me aveva un che di soddisfacente. Prima che il mio corpo morisse, là c'erano solo campi. Poi, ricordai, in quel lettuccio di ospedale mi fu proposta l'inverosimile operazione di espianto. Negli ultimi giorni ero tenuto in vita dalle macchine, il mio povero corpo non funzionava più. Era stato un processo graduale e penoso. Tutto era iniziato con una caduta senza motivo apparente. Ero lì a fare spese in un grande magazzino quando, senza perché e percome, mi ero ritrovato a terra: a lungo avevo rivissuto il momento della caduta, come se fosse stato questo il punto di transizione tra una vita vissuta in salute e gli stenti della malattia progressiva. In realtà, cadere era solo la prima avvisaglia del problema, un sintomo: ma dentro di me, nella mia coscienza, nella mia memoria, la vivevo e rivivevo come causa prima delle mie disgrazie successive. Forse era quello che mi aveva impedito a lungo di camminare bene. L'avevo scoperto io stesso: per la mia mente camminare era un permanente cadere. Comunque fosse, il mio corpo umano aveva iniziato a deteriorarsi, non so se gettandomi più nella cupa disperazione o in un'irata condizione di raccapriccio ribelle. Ero spaventato, ma anche infuriato. Non solo per me stesso. Diana lottava per resistere alla violenza della cosa; doveva proteggere i figli e aiutare me, ma non le restavano molte energie per prendersi cura della sua persona. Fu un pessimo periodo per tutti.

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Dopo alcuni mesi solo il mio cervello era rimasto intatto, la malattia non l'aveva toccato. E reagiva straordinariamente bene ai trattamenti. Fu allora che l'università mi fece la proposta. Un'idea che in sé aveva qualcosa di innaturale e osceno. Ciononostante, se avessi accettato, avrei potuto vivere; in maniera diversa, ma vivere. I medici avrebbero avuto la loro cavia per sperimentare, io avrei avuto la mia famiglia, portando anche un concreto aiuto al menage casalingo con i contributi dell'università. Fu quello il vero pensiero che mi invogliò. Diana era meravigliosa con i bambini, ma era sola. Prima era morta sua madre, poi il marito l'aveva piantata e ora moriva anche suo padre. Con quel che restava della mia voce, le spiegai della possibilità. Lei la abbracciò con energia. Non voleva assolutamente che morissi; in qualunque forma fossi stato, lei sentiva il bisogno di papà. Così accettai; intorno a me, lentamente, era nato quel centro di ricerca. Ma allora non sapevo delle sofferenze che ancora mi aspettavano. Poggiai lo sguardo sugli studenti che passeggiavano con i libri in mano; molti di loro mi conoscevano, anche se nessuno mi dava confidenza. Facevo paura, in un certo modo. Ebbi una visione circolare del mio mondo; mi aggredì all'improvviso: stavo guardando fuori, spalle alla porta, ma mentre sbirciavo i passanti, vedevo anche tutti i quadri delle quattro pareti e la maniglia della porta che ruotava. Combattei il senso di capogiro. Ondeggiai. «Angel» disse il nuovo entrato. Mi voltai verso di lui. «Dottor Berliz» dissi. Vidi che aveva in mano il test che avevo appena fatto. Il medico dovette accorgersi del mio equilibrio instabile e increspò la fronte. «Ti senti bene?» mi chiese, facendo istintivamente il gesto di sorreggermi. Si ritrasse all'ultimo istante, consapevole che se fossi caduto l'avrei trascinato con me. «Sì, ora sì.» Mi ero ripreso subito. «Come l'altra volta?» «Già. Che mi succede, dottore?» Berliz dette poca importanza alla cosa; sventolò la mano con noncuranza. «Ti stai adattando alle potenzialità dei tuoi sensori. Tutto qui. Ci vuole del tempo per passare da una visione binoculare a una circolare.» Poi mi sorrise compiaciuto.

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«Molti colleghi non pensavano che ci saresti riuscito» confidò. «Be'» commentai. «Una spiegazione. Non male.» Berliz mi fissò per un momento. «Non ti diciamo mai molto, lo so. Ti assicuro che è meglio così. Vorrei che ti abituassi a ciò che sei senza analizzarti troppo. Non sei un ammasso di componenti che funzionano in un certo modo, sei una persona.» Ci pensai su; forse non aveva torto, ma oramai si era sbottonato e pensai di approfittarne. «Una persona che sottoponete a test senza spiegazioni» commentai. Berliz sbuffò leggermente, poi sorrise. «Alludi al test sul quoziente di intelligenza di oggi.» «A quello e all'ACP. L'ho fatto quattro volte negli ultimi otto mesi.» ACP stava per Analisi Cerebrale Profonda. La macchina era stata realizzata da poco e tarata su di me. Era portatile, ma scomoda e pesante. Essendo quel che ero potevo indossarla senza problemi. Nessuno mi aveva mai detto a cosa servisse esattamente. Immaginavo fosse una specie di TAC di dimensioni ridotte. Berliz annuì e sedette, sovrappensiero. «Il fatto è che… stai cambiando» cominciò. Sembrava teso, forse consapevole che stava marciando su un terreno minato. Ne andava della mia identità. «Era nel conto, naturalmente. Il tuo cervello ora ha stimoli diversi. È sollevato dal compito di gestire respirazione, circolazione sanguigna, percezioni tattili diffuse e tutti i meccanismi complessi di cui a livello cosciente non ci accorgiamo e che compongono l'uomo. Allo stesso tempo, ti stiamo dotando di risorse nuove. I tuoi sensori sono migliori dei miei. Il mio cervello ha stimoli primitivi che deve elaborare completamente per cavarne qualcosa; tu hai stimoli più complessi, perché i tuoi organi di senso elaborano da soli una gran mole di informazioni e propongono al tuo cervello un input molto più sofisticato. Per ora stai sfruttando una piccola parte di quell'input. Ma i tracciati ci dicono che le cose si evolvono. Stai afferrando di più. Il tuo cervello si sta… riconvertendo. Alcune delle aree che adesso, con il tuo nuovo corpo, non ti servirebbero più, stanno mutando la loro funzione. Si adattano. Si attivano quando di norma non dovrebbero. Elaborano nuovi dati. Il vecchio elettroencefalogramma è inapplicabile a te, ormai.» Intendeva che, se avessi fatto quel test, la macchina non mi avrebbe più riconosciuto come umano. Non lo disse, ma era abbastanza evidente. «E il test del Q.I.?» domandai.

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Berliz sorrise. «Una mia curiosità. Mi spiace se la cosa ti ha disturbato. Ma avevo ragione. Anche la tua intelligenza sta cambiando. L'ACP mostra una grande attività cerebrale. Nuove zone attive, con nuovi apporti all'insieme. Il tuo Q.I. sta lentamente aumentando.» Mi ero sentito così stupido e inetto, ultimamente, che lo guardai meglio per vedere se scherzava. Berliz si alzò, leggermente deluso. Penso si aspettasse che manifestassi più interesse per le sue parole. Mi porse la mano senza neanche temere che gliela stritolassi: aveva molta più fiducia in me di quanta ne avessi io stesso. Gliela strinsi con forza, ma non troppo; non mi è mai piaciuta la mano moscia, neanche da essere umano. Ci salutammo, Kurt e Vladi rientrarono chiacchierando del più e del meno. Volevano proseguire con il programma. «Mani» esordì Kurt. «Presa di precisione. Vediamo come se la cava.» «Ali di mosca?» domandai. I due si guardarono senza capire. Mossi il braccio sinistro in modo fulmineo e schiacciai l'indice sul pollice con uno snap davvero soddisfacente. Mostrai le due dita con i polpastrelli a contrasto, come se avessi veramente strappato un'ala a una mosca di passaggio. Vladi fissò la mia mano; cercava di vedere l'ala. Quei due mi prendevano sempre sul serio. Ci volle un intero minuto prima che capissero lo scherzo e proseguissero con i test previsti.

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5. Diana era una donna in gamba. Lavorava e da poco aveva ripreso l'università con impegno notevole. Direi che la nostra convivenza non era facile, ma lei aveva una serenità che non vedevo da anni. Stava allevando i miei nipoti magnificamente; erano aperti e non avevano paura di ciò che non capivano. Non avevano paura di me, soprattutto. Il periodo nero forse era finito. Ricordo quando cominciò: il marito, ora ex, le aveva dato del filo da torcere. Amava scommettere su tutto, frequentava bische e casinò e spesso allungava le mani. La polizia aveva fatto il viottolo, a casa loro. Non voleva figli, quando nacque il primo prese ad assentarsi continuamente e quando nacque il secondo dichiarò apertamente il suo disinteresse e la piantò. Non aveva più chiamato da allora. I bambini crescevano bene, non avevano mai conosciuto il loro padre e certo qualche conseguenza la pativano; ma tutto sommato erano gioiosi ed equilibrati. Talvolta, quando Diana doveva lavorare e non avevano scuola, li portavo a scorrazzare nel parco; ce n'era uno enorme vicino a casa, pieno di ragazzi che galoppavano dappertutto come puledri. I nonni si conoscevano un po' tutti, e conoscevano di vista anche me. Nel quartiere ero noto come un camminatore incallito, ma ci misero diversi mesi a sapere che non ero un semplice automa. Alcuni presero a salutarmi gentilmente, altri erano troppo preoccupati dal mio aspetto per farlo. Se alcuni sedevano sulla stessa panchina, incidentalmente parlavano di me. Se erano lontani, lo facevano liberamente: non sapevano che potevo sentirli, essendo il mio udito notevole. I loro commenti a volte erano toccanti. Gli esseri umani sanno essere pregevoli, quando vogliono. Diana di certo lo era. Non ero mai riuscito a dirle quanto fossi orgoglioso di lei. Avevo voglia di vederla; cercai di sbrigarmi con quei maledetti test per tornare presto a casa. Ma fu un errore: andavo troppo bene. Kurt prolungò le prove

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aumentandone la difficoltà. Quando rientrai, era sera inoltrata. C'erano tutti e mi accolsero con calore. La piccola Gena mi corse incontro e mi saltò al collo. «La mamma ci porta alla Frusta, domattina!» urlò entusiasta. «Fantastico!» commentai. «E dove? Ai cinema o a fare spese?» L'indomani non c'era scuola e Diana aveva il giorno libero. Mia figlia mi sorrise e mi strizzò l'occhio. «Perché non vieni anche tu. Un bagno di folla non ti può far male.» Probabilmente aveva ragione. La Frusta era interessante; la costruzione già lo era di per sé. Era un grattacielo, ma del tutto anomalo. Anzitutto aveva una forma conica; partiva da una base circolare di circa cento metri di diametro per poi restringersi sempre più: all'altezza di quaranta metri era già alla metà, a cento si riduceva a un diametro di circa dieci metri. Dal piano terra a lì si succedevano luoghi di intrattenimento, supermercati e ristoranti. Oltre, la Frusta si restringeva ancora, gradualmente, diventando trasparente. Si prolungava per altri cento metri e terminava a punta. Il miglior parafulmine del mondo. Gli ultimi tratti, dove si arrivava ai tre metri di diametro, erano usati dagli amanti delle sensazioni forti: la Frusta, infatti, non era rigida. I venti la muovevano di continuo, giungendo a spostarne la punta anche di duecento metri in orizzontale con flessioni arcuate e impressionanti. Tutto questo era possibile grazie all'anima del palazzo, un tubo di acciaio rinforzato, forte e articolato, che partiva dal centro dell'edificio e affogava in un pozzo di calcestruzzo speciale nel bel mezzo delle strutture fondali. Il progetto era stato criticato da quasi tutte le città vicine, credo esclusivamente per invidia: da parecchi anni si era innescata una competizione non dichiarata in tutta la regione. Le città facevano a gara per dare lustro alla propria architettura e le varie amministrazioni promuovevano iniziative artistiche in ogni campo. Tra la mia città e New Delon la competizione aveva ormai assunto toni accesi, figlia com'era di una concorrenza economica in cui però eravamo inevitabilmente in vantaggio: New Sealon aveva il mare, New Delon solo l'entroterra. Sembra che inizialmente fossero un'unica città il cui nome è andato perduto nei meandri di una storia sorprendentemente breve; per quanto molti lo negassero, l'ipotesi appariva ovvia: solo un ponte le separava, circa cinquecento metri di calcestruzzo sospeso su un canale artificiale costruito decenni prima. Molti auspicavano una fusione politica ed

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economica tra le due città e il Consesso Mondiale dei Sindaci si era più volte pronunciato a favore. In un'epoca in cui il globalismo era visto come fumo negli occhi, quest'unione appariva naturale ai più. L'ipotesi aleggiava nell'aria. Nel frattempo, le amministrazioni delle due città si punzecchiavano a vicenda, talvolta con notevoli cadute di stile. La Frusta fu forse la scudisciata più recente che i nostri politici avevano inferto all'alterigia urbanista di New Delon: svettava alta nel cielo in perenne movimento e di notte era uno spettacolo che faceva bella mostra di sé a chilometri di distanza. I fari colorati inseriti nell'affusto terminale proiettavano coni di luce vibratile che seguivano le flemmatiche movenze delle strutture sotto la spinta dei venti, illuminando a dolci ondate le nubi e i quartieri circostanti. La Frusta era bella da vedere e il nome era azzeccato. Purtroppo le amministrazioni delle città vicine, con sottile perfidia, avevano trovato un nome ancora più azzeccato: il pelo. E, in effetti, sembrava veramente un grossissimo pelo trapiantato nel bel mezzo del centro residenziale. La cosa era peggiorata dalla ferrovia a monorotaia sospesa che passava a pochi metri dalla costruzione: era stata fatta in tempi antecedenti, ma caso volle che i piloni di sostegno assai fitti e la monorotaia stessa sembrassero un enorme pettine in procinto di riordinare il pelone ribelle. Comunque, non c'ero mai stato, e mi sarei guardato bene dall'andarci. Per fortuna avevo una buona scusa. «Mi spiace» dissi. «Ho qualcosa da vedere in TV.» Era vero. Kurt mi aveva consegnato la registrazione dei test motori della giornata, raccomandandomi di visionarli. In effetti, era utile: era l'unico modo per vedere come gestivo il mio corpo nelle varie situazioni di crisi. Fu in quella maniera che scoprii, per quanto sembrasse impossibile, che stavo assumendo lo stesso modo di camminare di quando ero tutto di ciccia. Diana mi scoccò un'occhiata torva, per dirmi che sapeva benissimo che ero lieto dell'impegno. Il resto della serata lo passai giocando con i bambini sotto gli occhi compiaciuti di Diana. Quelli erano e sono i miei momenti migliori. La sera rimboccai loro le coperte e mi sdraiai sul mio letto. Avevo sonno. In effetti, si sarebbe potuto dire che la cosa che facevo in modo più normale era dormire.

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6. Sentii Diana e i piccoli che uscivano da casa. Ero rimasto a dormire fino a tardi, il sole era già alto. Sentivo il bisogno di riposare, ed era anche una precisa prescrizione medica: il mio cervello aveva bisogno di rielaborare i progressi della giornata, classificarli e disporli nel modo più utile e ordinato. Teo sghignazzava da impudente mentre Diana infilava tutti in macchina. Sentii l'auto che partiva e si allontanava rapidamente. Scesi dal letto e per prima cosa mi alimentai (parola molto più adeguata di mangiai); non mi vestii, ma scesi dabbasso. Mi sentivo svogliato, quel giorno. Accesi il visore dopo un bel po' e presi a fissare quel tizio di ferro vestito con l'abito domenicale mentre faceva acrobazie e indulgeva in facezie con i suoi due analisti preferiti. Passarono due ore in un lampo. Ero veramente annoiato. Interruppi il video per scorrere qualche notiziario; lo facevo spesso, quando avevo tempo, nella vana speranza che lo speaker di turno si alzasse e scuotendo il capo costernato dicesse: «Nessuna brutta notizia, oggi va tutto magnificamente.» Passai presto ai film. Ne snocciolai parecchi, poi indugiai qualche minuto in più su una vecchia pellicola di Frankenstein. Era stata digitalizzata, restaurata e parzialmente integrata con nuove scene impressionanti. Ovviamente, mi immedesimavo nel mostro. Dopo un po' mi scocciai e passai coscienziosamente a rivedere le mie mosse in laboratorio. Notai qualche miglioramento, ero senz'altro più consapevole della mia mole e del mondo intorno a me. Dopo un'altra mezz'ora ne ebbi abbastanza; feci una rapida scorsa dei canali commerciali e tornai alle notizie. C'erano le immagini di un'esplosione o robe simili, osservata da terra e da un elicottero. Non capivo bene, ma sembrava coinvolto un treno che aveva sviato saltando i quindici metri che lo separavano dal suolo della città. Tutto intorno era un disastro, assai più apocalittico di quanto mi sarei aspettato da un deragliamento. Incuriosito, alzai il volume.

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«…morti e feriti…» diceva la speaker, con una certa partecipazione emotiva «…a causa di un probabile attentato terroristico. Il centro commerciale è inagibile e le prime squadre di pompieri stanno arrivando sul posto…» Vidi una panoramica più ampia. I vagoni del treno erano sparsi sul terreno, pieno di rottami e macerie. La carrozza e i primi vagoni erano balzati di sotto dalla rotaia rialzata. Il motivo appariva evidente: nel punto in cui cominciava un'ampia curva, la rotaia mancava. Un'esplosione o un cedimento strutturale avevano asportato parte del manufatto, e il treno aveva semplicemente proseguito diritto, lanciandosi con un balzo di una trentina di metri contro il piano terra di un edificio che non riconobbi, tanto era malridotto. Si vedeva la coda di una carrozza che ancora si muoveva oscillando sui gradoni semidistrutti dell'ingresso. Tutte le macerie mi dicevano che la parte superiore dell'edificio doveva essere crollata, e questo era strano: ne era stata colpita la parte bassa, sarebbe dovuto crollare interamente o rimanere interamente in piedi. Poi vidi sul terreno qualcosa di incomprensibile: era un serpente d'acciaio dal corpo enorme che abbracciava a spirale il fabbricato danneggiato; premeva sulle strutture residue, grosso com'era, e doveva avere avuto una parte tra le cause del crollo. I mezzi dei pompieri arrivarono a sirene spiegate. La polizia stava circondando la zona per impedire ai curiosi e agli incauti volenterosi di avvicinarsi troppo. La speaker, dopo una pausa d'effetto, riprese a descrivere l'evento. «…il treno ha colpito duramente la struttura inserendosi come un cuneo sin nelle sue parti nevralgiche… chiunque abbia progettato questo è stato diabolico…» Smisi di ascoltare. Avevo capito cos'era il serpentone e perché non avevo riconosciuto l'edificio. Il treno si era infilato nella Frusta a duecento all'ora penetrando fino alla base del lunghissimo tentacolo di acciaio. L'urto doveva essere stato spaventoso: la sua base ne doveva essere uscita così malconcia che l'enorme condotto, non più vincolato ma anzi spostato lateralmente dalla forza del colpo, aveva perso stabilità. Le immagini che mi scorrevano davanti erano chiare; benché scioccato, una parte del mio cervello valutò che il danno aveva portato il condotto a muoversi più del dovuto rovinando le infrastrutture di contenimento e sciabolando le superfici interne ed esterne del grattacielo. Fuori controllo, quell'enorme massa serpeggiante aveva demolito ciò che trovava: quasi l'intero palazzo era

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crollato, lasciando forse qualcosa di vivo all'interno del centro commerciale che occupava i primi piani. Non riuscii a smettere di guardare. Diana e i ragazzi erano là dentro. Ciò che dava senso a tutto quanto era là dentro. L'attacco di panico venne all'improvviso. Non potevo muovermi. Era una sensazione che avevo provato altre volte, soprattutto nei primi mesi in cui il mio cervello doveva adattarsi a vivere nel nuovo corpo. Non ero stato in grado di agire, in quei frangenti, né di parlare. Era terribile. I farmaci mi avevano aiutato, allora; il mio cervello ne era stato praticamente imbevuto per scelta dei medici. Ma ora non c'erano farmaci per risolvere quello. Una sensazione terribile, di totale e irrimediabile impotenza, mi agghiacciò. Mi sentivo morto, peggio che morto. Immagini e commenti mi circondavano. Poi guardai la foto sul tavolo di Diana, Teo e Gena sorridenti; l'avevo scattata in una giornata ventosa, in mezzo alla neve. Ridevano tutti ed erano rossi in viso, con i capelli luccicanti di cristallini di ghiaccio. Abbassai lo sguardo. Avevo le mani in grembo come una stanca vecchietta. Ma non ero una vecchietta: le mie mani erano grosse e possenti. Avevo imparato a usarle bene, in un modo che spesso sorprendeva i medici che mi stavano intorno. Non ero inerme. Io potevo. Il mio umore cambiò: qualcosa dentro di me cominciò a ribellarsi al feroce senso di impotenza. Io potevo. Non ero più un debole essere umano predisposto suo malgrado al fatalismo, erano molte le cose che sapevo di poter fare. Qualcosa dentro di me si indurì, fu una sensazione quasi fisica: immaginai di avere ancora gli occhi e che questi si stringessero in una nuova e assorta determinazione. Mi concentrai sugli eventi studiando una linea di approccio che mi consentisse di aiutare la mia famiglia. Ecco, adesso avevo un compito, altro non serviva. La mia orribile carcassa forse sarebbe stata utile a qualcosa. Spensi le emozioni, o forse diedi loro una diversa direzione. Non importa. Non c'era tempo di pensare. Ci fu come un'esplosione dentro di me. Fu magnifico: sino allora avevo sempre lottato per reprimere le emozioni, perché il controllo mi pareva l'unica strada sensata da percorrere per affrontare la mia condizione. Ma ora mi lasciai andare. Balzai in piedi e corsi verso la porta. Non riuscii a

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controllarmi e non volli: la porta esplose in tante schegge disperdendosi nel giardino, ma non mi fermai. La Frusta era a cinque chilometri da lì, dovevo attraversare diversi isolati gremiti di traffico e pedoni. Svoltai per il parco: da lì la strada era più lunga, ma avrei potuto muovermi liberamente. Aumentai l'andatura; stavo camminando piuttosto forte, almeno come un uomo, e molto più di un automa. Quelli non sono fatti certo per correre. Ringraziai mentalmente i ricercatori che mi avevano dotato di quel corpo. Ma camminare non poteva essere abbastanza; detti regolarità al movimento e spinsi di più, perdendo più volte l'equilibrio ma recuperando sempre bene. Spinsi ancora, finché non arrivai al limite che mi consentiva a mala pena di non cadere. Correvo. Ero ridicolo, certo; mi sembrava di avere uno stile ampolloso e innaturale, molto diverso da quando correvo dietro a un pallone da ragazzo. Cercai di tornare a quel remoto passato, alle sensazioni che mi pervadevano quando inseguivo o ero inseguito. La capacità tattile delle mie mani fu essenziale: la percezione del vento sui palmi era parte dell'esperienza umana del correre e ora io non sentivo niente. Le braccia ciondolavano, senza dare gran cadenza. No, le braccia dovevano impegnarsi quanto le gambe, innescando quelle sinergie meccaniche alla base del movimento veloce. Ci provai. Contai ogni bracciata per alcuni minuti, sinché non mi accorsi che il torso seguiva quei gesti ruotando leggermente, consentendo al bacino di sporgersi in avanti per anticipare lo slancio successivo della gamba. Andavo ancora più svelto, ora, più di quanto credessi di potere. Dovevo aver superato definitivamente una specie di blocco, il mio corpo comunicava armonia a tutti i miei sensori. Le auto mi scivolavano accanto con i loro miserevoli cinquanta all'ora. Sentivo l'ululato del vento che scorreva attraverso gli anfratti dei miei arti forellati. La gente mi vedeva passare come un treno, qualcuno si spaventava di brutto: colsi dei commenti stupefatti e il fischio di un poliziotto. Ignorai quel mondo e accelerai. Ora non riuscivo a vedermi bene le braccia, si confondevano con i colori dell'ambiente circostante, tant'ero veloce. Entrai nel parco a tutta velocità. Non me ne resi conto, allora, ma i miei piedi lasciavano impronte enormi nel prato, sollevando interi blocchi di terra che i talloni proiettavano in alto. Affondavo un po' nel terreno ma non me ne curai. Dei bambini che giocavano lì intorno si bloccarono a bocca spalancata. Li aggirai. C'era una giostra davanti a me, per fortuna non c'era salito ancora

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nessuno. La saltai; non avevo mai saltato prima, ma mi raccolsi ancora correndo e portando il baricentro più in basso. Per un istante le mie ginocchia si alzarono più in alto della testa, poi spiccai il balzo. Dovetti saltare su di almeno quattro metri, perché la giostra cigolava molto molto in basso. Atterrai affondando fin sopra le caviglie ma continuai a correre riemergendo a ogni passo. I suoni intorno mi disturbavano, così tolsi il volume: non ero mai stato così concentrato. Vedevo innanzi a me e dietro, senza girare la testa; ai miei lati vedevo gli arbusti fustigati dal mio corpo, coglievo i battiti d'ali degli uccelli sopra di me e il luccichio fioco dei piedi che riflettevano il sole mattutino. Il parco era molto grande, arrivava fino alla Frusta e oltre. Non impiegai gran che a giungere sul luogo del disastro. Vedevo già in lontananza gli uomini della polizia intenti a fare rilievi sulla linea ferroviaria e i mezzi dei pompieri che cercavano di farsi strada in quella bolgia. Qualche ambulanza lampeggiava, parcheggiata lì vicino. Giunsi indisturbato a un centinaio di metri dalla Frusta, o da quel che ne restava; frenai bruscamente, sollevando una porzione di prato di una decina di metri, che si alzò arricciolandosi sotto i miei piedi. Ma non ero bravo come speravo: mi ero inclinato troppo per frenare e scivolai sull'erba umida cadendo malamente per terra. Ero ancora veloce; cercando di appoggiarmi su una mano arai il terreno con le dita e sprofondai sino al gomito. Il mio corpo ruotò: avevo perso definitivamente il controllo. Per un attimo pensai di riuscire a rimettermi in piedi dandomi un impulso improvviso, ma ottenni solo di ruotare ancor di più, infilando i piedi nel suolo. Sollevai un sacco di zolle. Senza capire come avevo fatto, ero fermo, semi sdraiato a terra con i quattro arti infissi al suolo in maniera disarticolata. Sperai che nessuno mi avesse visto: non avrei fatto una bella figura. Poi mi sovvenne l'assurdità del mio pensiero; in un altro momento l'avrei trovato buffo. Mi alzai in piedi, calmato dalla corsa furibonda, e mi avvicinai lentamente alle prime transenne. Valutai la situazione. Sembrava che i primi tre piani fossero rimasti in piedi, ma erano completamente coperti dai detriti. Non si riusciva a vedere neanche una finestra della facciata. L'involucro trasparente della lunga anima metallica si era disintegrato e si era sparso dappertutto; le pareti perimetrali dei piani più bassi si erano ribaltate e la forma conica della costruzione aveva favorito l'impilamento dei materiali, provocando

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ulteriori crolli. Oltrepassai le transenne, attirando l'attenzione di un poliziotto. L'uomo venne verso me squadrandomi con attenzione. Dovevo essere un buffo spettacolo; grande e grosso, scuro e sporco di terra come un bambino pasticcione. Il poliziotto si fermò dietro di me, mettendosi le mani contro i fianchi. Non sapeva che lo stavo fissando con la nuca. Aprì la bocca, ma io fui più svelto. «Agente Suiko» dissi; avevo letto il nome sul distintivo. «C'è un modo per entrare là dentro?» L'uomo sbatté le palpebre un paio di volte: non si aspettava che lo chiamassi per nome. Era incerto su che cosa fossi. Un robot non avrebbe avuto il mio atteggiamento, né avrebbe parlato in quel modo. «Al momento non lo sappiamo» disse cautamente. «Lei chi è?» Mi guardai attorno. I mezzi pesanti per asportare le infrastrutture crollate non erano ancora arrivati. «La vostra prima ruspa» risposi. Mi guardò un po' inebetito. Lo lasciai e mi avvicinai all'edificio; non c'era verso di raccapezzarsi, non si riconosceva nulla. Vidi un gruppo di persone a breve distanza che consultavano un grosso foglio di carta. Mi avvicinai. Avevo avuto la sensazione giusta: erano le piante della costruzione, se l'erano procurate in fretta. Mi davano le spalle, non mi avevano ancora visto. Mi avvicinai ancora e sbirciai sopra di loro studiando le entrate e i percorsi interni. Memorizzai quanto potei; non potevo portarmi dietro quei progetti, avevo bisogno delle mani libere. Un ingegnere sollevò la testa, colto da un sospetto, e si voltò verso di me. Alzai una mano. «Salve» dissi. Quello strabuzzò gli occhi, subito imitato dai colleghi. Gli tolsi dalle mani la carta e finii di studiarmela, mentre i presenti mi lasciavano fare. Un paio di poliziotti si stavano avvicinando incuriositi. Alcuni vigili del fuoco confabulavano più in là. I poliziotti venivano verso me, io passai loro accanto e andai dai vigili del fuoco. «Signori?» dissi, per attirare la loro attenzione. Mi guardarono sorpresi, uno si tolse il casco per guardarmi meglio. «Vorreste spostarvi per favore?» «Certo» disse uno di loro. Si spostarono, ma non abbastanza. «Una decina di metri, prego» aggiunsi.

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Lo fecero, con riluttanza. Di fronte a me c'erano i resti di una parete divisoria in mattoncini. Non sapevo esattamente di cosa ero capace. Mi avvicinai e le sferrai un pugno. Ero stato troppo cauto: la parete resistette. Ne sferrai un secondo più convinto e la parete si sgretolò. Spostai i calcinacci da un lato. Dietro c'erano le inferriate contorte delle balconate, ben incastrate in blocchi di calcestruzzo. Afferrai le sbarre e le piegai, ne feci un fagottino e lo lanciai a un paio di metri da me. Adesso mi si parava innanzi il balcone vero e proprio, una soletta in cemento armato spessa quindici centimetri, lunga quattro metri e larga due. Doveva pesare quasi tre tonnellate. La colpii nel centro con un rumore assordante, e poi ancora, e ancora, finché il calcestruzzo venne via a pezzetti scoprendo l'armatura interna d'acciaio. Continuai a sgretolare, finché non mi parve sufficiente. Trascinai la soletta ridotta a un colabrodo fuori dalle scatole. Mi aspettavo di vedere l'ingresso, ma c'era un grosso anello di acciaio deformato, una volta senz'altro parte del lunghissimo condotto. Doveva pesare sui cinquecento chili. Lo alzai e lo feci rotolare lontano. Gli uomini nei pressi si scansarono tempestivamente. Non era finita: una larga fetta di calcestruzzo, spessa sessanta centimetri e di circa dieci metri quadri si ergeva innanzi a me, infissa in buona parte nel terreno. Era una barriera invalicabile anche per me. «Provi con questo» mi disse un pompiere tirandomi il braccio. Aveva un assurdo martellone in mano, fatto interamente d'acciaio. Lo manovrava a fatica. Lo afferrai con facilità provandone il peso. «Guardi» disse ancora, indicandomi il blocco massiccio. «È danneggiato.» Era vero. Era coperto di crepe e attraverso le più grandi si intravedevano i tondini del ferro. Presi il martello e colpii una delle crepe. Si allargò, di poco. Colpii più forte, due volte, senza grandi risultati. Afferrai meglio l'attrezzo e mi detti un ritmo; ogni colpo rimbombava facendo vibrare il materiale adiacente. Dovevo stare attento se non volevo causare altri crolli. Presi a colpire un po' meno forte, ma aumentai la velocità. Ero una macchina, ora, una macchina possente e ben oliata; colpivo rapidissimo innaffiando i dintorni di frammenti di ferro e cemento. Sentii che qualcosa non andava, mi fermai; il martello mi penzolava dal pugno, storto e deformato. «Un altro?» chiesi.

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Il pompiere aveva già il ricambio in mano. Tipo sveglio. Ripresi a mazzolare di buona lena, finché il blocco non presentò una fessura passante e infine si divise in due parti. Non avevo ottenuto gran che: da un muro enorme ne avevo ricavati due. Scossi la testa. Un altro pompiere si era avvicinando e valutava i miei progressi. «Direi che bisogna cambiare approccio» commentò. «Già» dissi. «Proverò a rovesciarlo.» La base del muro spariva nel sottosuolo. Mi misi di fronte alla parete e mi abbassai. Cominciai a scavare come fanno i cani. Resi subito l'atmosfera irrespirabile e mi confusi in una nuvola di polvere. Due minuti furono quanto ci volle per eliminare un paio di metri cubi di terra mista a pietra. Colpii il muro a tutta forza; vibrò, ma in maniera appena percettibile. Gli balzai sopra e cominciai a dimenarmi come una scimmia, cercando di oscillare con regolarità. Le due metà del muro si mossero. Persi l'appiglio e caddi a terra come un deficiente. «Attento!» gridò un pompiere. La massa di calcestruzzo mi aveva seguito; mi stava cadendo addosso. Comandai alle gambe di flettersi e saltai come una rana, cadendo scompostamente sei metri più in là. Il muro toccò terra sollevando un altro polverone. «Bel lavoro» disse un terzo vigile del fuoco. Adesso si vedeva un anfratto buio che portava verso l'ingresso dell'edificio. O, almeno, così speravo. Il buco era abbastanza grande da lasciarmi passare attraverso. Sbirciai dentro, regolando la mia vista sulle frequenze infrarosse. Era uno stretto pertugio contornato da un'accozzaglia di materiali diversi, tutti compressi e in equilibrio instabile. Il pompiere fece per entrare. Gli misi una mano sulla spalla. «No» dissi. «Vado io. C'è un bel rischio di crolli, là dentro.» «Lei è grande e grosso, ma non credo che sia invulnerabile» ribatté l'uomo. «Lo sono più di lei» affermai. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era un manipolo di pompieri che facesse cadere altre strutture cercando i superstiti. La mia priorità era cercare Diana e i ragazzi, non pensavo a nient'altro. Mi infilai nel pertugio e presi a scivolare lentamente. La mia vista funzionava egregiamente; incontrai una longarina che mi sbarrava il passo, per fortuna non troppo grossa. La afferrai con entrambe le mani e forzai; l'acciaio si flesse lentamente, consentendomi di passare. Avevo percorso cinque metri, forse sei, in senso orizzontale.

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Secondo i miei calcoli mi trovavo quasi in corrispondenza della muratura esterna. Se avevo fortuna uno sguardo in avanti e avrei visto una finestra; mi contorsi lentamente scansando dei mattoni. Innanzi a me c'era la porzione integra del muro perimetrale in cemento armato. Niente finestre. La sorte non mi aiutava. Cercai di spostare i gradini della scalinata d'ingresso che mi premevano la schiena: erano praticamente polverizzati, il treno era passato da lì prima di entrare nell'edificio. Mi guardai le mani: erano sporche di terra. Lì per lì non capii, poi spostai il mio corpo e vidi che poggiavo su un misto di marmo, cemento e terriccio. Con la mano scavai rapidamente e trovai un solaio malconcio. Lo sfondai; un'ondata di luce mi avvolse da sotto. Ripresi la visione normale e la luce si fece fioca ma sufficiente. Sotto di me, a circa tre metri, c'era un pavimento in cemento grezzo. Aprii il buco ancora di più e saltai giù. I miei piedi produssero un rimbombo impressionante. Sapevo dove mi trovavo: era l'interrato del palazzo. In qualche modo ero entrato. L'ambiente era illuminato fiocamente dalle lampade di emergenza, la corrente doveva essere saltata, o era stata staccata da qualcuno per prevenire gli incendi. Mi guardai intorno: sì, ero nello scannafosso, il lungo corridoio che girava intorno all'edificio. Cercai una porta che mi conducesse più all'interno e la trovai quasi subito. L'aprii: ero in un vano tecnico; c'erano vari quadri elettrici, delle grosse pompe e tubazioni che si ramificavano penetrando in vari punti del soffitto. Non mi presi la briga di approfondire: schizzai fuori correndo, trovai delle scale che portavano su al piano terra, ma quando le imboccai vidi che l'ultima rampa era crollata sotto il peso di un blocco enorme di ferro e cemento. Da lì non si passava; tornai indietro e percorsi altre stanze. Cominciai a muovermi in modo frenetico, passando da una stanza all'altra, frustrato dall'impossibilità di salire al piano superiore. Rientrai nello scannafosso e cercai un'altra porta. La trovai dopo un bel po'. Mi ci infilai e trovai il vano tecnico di un ascensore. Aprii la porta e guardai all'insù. La mia vista passò all'infrarosso senza che me ne rendessi conto: vedevo il vano che si allungava in verticale per circa trenta metri, finché una massa di detriti aveva finito con chiuderlo ermeticamente là in alto. L'ascensore non si vedeva, durante il crollo si doveva trovare ai piani superiori, ma le sue funi penzolavano ancora a tutt'altezza, incastrate nella presa delle macerie. Afferrai una fune: sarei salito facendo una bella scalata.

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Mi issai e feci un paio di metri; all'improvviso sentii un rumore lontano e la fune perse rigidezza. Stavo cadendo, il mio peso le aveva dato il colpo di grazia. Caddi a terra coprendomi istintivamente il volto. La fune mi cadde addosso, spiraleggiando. Fu una bella botta, un essere umano ne sarebbe uscito malridotto. «Maledizione» mormorai. Guardai su: solo ora notavo un lieve chiarore, dieci metri sopra di me; filtrava dalle porte dell'ascensore al primo piano. Le porte del piano terra, più vicine, apparivano scure, e capivo il perché. La porzione centrale sembrava danneggiata, c'era un blocco di cemento di grosse dimensioni che premeva su essa; una parte aveva sfondato le vetrate opaline e sporgeva, mostrando il moncone del grosso tondino di ferro che aveva punzonato un'anta. Difficile passare, da lì. Dovevo provare al primo piano, ma non c'erano scale, né appigli, la superficie del vano ascensore era in calcestruzzo massiccio privo di sporgenze. Ed erano dieci metri. Non avevo idea di quanto ero capace di saltare. Mi accucciai a terra e mi concentrai un momento. Balzai in alto usando tutte le mie energie, senza un'idea precisa; restai sospeso per un momento, poco sopra la porta dell'ascensore danneggiata, quindi ricaddi. Avevo coperto circa sei metri dei dieci necessari. Mi venne un'idea: mi misi spalle alla parete delle porte d'ascensore e mi accucciai di nuovo. Stavo per fare qualcosa di difficile, per me. Saltai il più possibile, in alto e verso la parete opposta; andai a sbattervi con più energia del previsto, ma reagii bene: ammortizzai con le braccia, poi puntai i piedi contando sulle asperità del calcestruzzo grezzo e balzai all'indietro. Non ero capace di girarmi volando, la cosa avrebbe richiesto grande consapevolezza corporea, però andò comunque bene: la mia schiena colpì il muro da cui ero partito, ma più in alto, e subito sbracciai all'indietro tenendo le dita delle mani unite. La sinistra colpì il cemento, ma la destra affondò nelle porte scorrevoli del primo piano come fossero di burro. Aprii subito le dita per evitare di ricadere di sotto, arpionando le lamiere metalliche perforate. Penzolai come un prosciutto appeso. Mi tirai su lentamente. Quando fui all'altezza della porta, colpii forte anche con la mano sinistra affondando nella lamiera fino al gomito. Poi ruotai il mio corpo. Il resto fu facile: ridussi la porta a fisarmonica e poggiai i piedi sul pavimento del piano. Finalmente. Anche lì c'era la fioca luce delle

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lampade di emergenza. Camminai per il corridoio e incontrai le scale che salivano al piano superiore. Erano inagibili, ma non importava: il centro commerciale e il ristorante dove Diana andava spesso con i bambini stavano entrambi ai primi due piani. Percorsi il corridoio notando i danni sul soffitto provocati dalle strutture cadute sul solaio soprastante; chi si trovava ai piani superiori difficilmente aveva potuto cavarsela. Uno squarcio nel soffitto mi consentì di guardare di sopra. Era buio, ma quel che riuscii a vedere non prometteva niente di buono: un sacco di materiale premeva da sopra, non sapevo quanto avrebbero resistito i solai. Il corridoio sfociò nel vasto salone del centro; mi trovavo al piano più alto, sulla vasta terrazza che aggettando di un paio di metri contornava l'intero esercizio. Avevo una visione perfetta, da lì, ma drammatica: c'erano molti morti. Il soffitto concavo era estremamente danneggiato, una quantità di macerie l'aveva trapassato bombardando clienti e operatori con una sassaiola terribile. Interi blocchi di cemento erano caduti sulla folla, cui si erano aggiunti i pezzi del solaio stesso. Non c'era luce lì: la stragrande maggioranza delle lampade di emergenza era andata perduta e solo grazie alla mia visione notturna riuscivo a osservare quella scena. L'attacco di panico si riaffacciò, ma reagii rapidamente; corsi dabbasso infilando le scale e mi mossi tra i cadaveri in cerca di mia figlia. Erano talmente tanti che disperai. Benché a quel punto importasse poco, compresi la ragione di tutti quei morti. Non potevano essere state semplicemente le macerie; dal soffitto disastrato erano penetrati i lastroni in vetro che avvolgevano il lunghissimo condotto tentacolare, ormai sconnessi dal resto della struttura. Cadendo da quell'altezza in pezzi interi di diversi metri, all'impatto col suolo erano come esplosi, sollevando una gragnuola di frammenti affilati come coltelli che erano schizzati in tutte le direzioni. Molta gente che giaceva vicino a me era orrendamente mutilata, c'era sangue dappertutto. Un frastuono improvviso mi fece alzare la testa: una porzione di soffitto se ne venne giù, seguita da un insieme eterogeneo di oggetti, tra cui altri cadaveri. L'impatto con il terreno fu sconcertante. Qualcosa mi diceva che non avevo molto tempo prima che la struttura collassasse. Avrei impiegato troppo per trovare Diana, così. Corsi di nuovo sulla terrazza e mi sporsi. «Diana!» urlai. Urlai a lungo, poi regolai al massimo il volume della mia voce artificiale;

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la voce si sarebbe un po' distorta, ma non aveva importanza. «DIANA!» urlai. L'ambiente mi amplificò in maniera impressionante. Il nome di mia figlia echeggiò a lungo. Mi detti per l'ennesima volta dell'idiota: anche il mio udito poteva fare di più. Amplificai gradualmente anche quello, finché riuscii a sentire due cose che mi spaventarono parecchio: gli scricchiolii delle strutture un po' dappertutto e la voce flebile e sofferente di mia figlia. Ruotai la testa cercando di orientarla nella giusta direzione, rendendo più direttiva la captazione di rumori. Individuai il punto d'origine del richiamo e corsi per la terrazza senza badare a nulla: Diana mi chiamava. La voce era vicina, ora; rallentai e vidi a pochi metri delle figure sdraiate e una seduta, appoggiata contro il muro. Aveva il volto coperto di sangue. Mi avvicinai. La voce proveniva da lei. Era una giovane donna, ma non era Diana. «C'è qualcuno?» disse la donna, con la voce tremula. «Sono qui» dissi. Mi avvicinai ancora e mi chinai su di lei. Il suo volto era pieno di tagli e gli occhi erano feriti. Aveva cercato di coprirli con un fazzoletto, ma a giudicare dalle lesioni la stoffa doveva essersi subito inzuppata di sangue. Non si era più mossa, rimanendo in attesa di aiuto. Non potevo restare lì, dovevo cercare Diana. Poi pensai che anche lei era la figlia di qualcuno; forse aveva dei bambini anche lei, magari l'aspettavano a casa, avevano visto i fatti in TV e speravano che un tizio qualunque, fatto di carne o di ferro, gliela riportasse sana e salva. Ma, se aiutavo lei, forse non avrei più potuto fare lo stesso per Diana e i ragazzi. Fu un momento di terribile indecisione, non potrò scordarlo mai. Una specie di tortura. Ma fu la giovane donna a scuotermi: si lamentò, non con me, non per me, semplicemente espresse la sua sofferenza, senza chiedere. La presi delicatamente tra le braccia. Dopo gli sforzi fisici che avevo fatto, mi sembrava leggerissima. «Ce la fa a stringermi al collo?» domandai. «Cos'è?» chiese lei. «Una specie di tuta, c'è un incendio?» Aveva toccato la mia pelle. «Non si preoccupi. Non c'è alcun incendio.» Corsi al vano ascensore da cui ero venuto. Guardai di sotto. Un balzo di dieci metri con un ferito in braccio. «Mi stringa forte» avvertii. Saltai, tenendo la donna più in alto che potevo. Atterrai duramente

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danneggiando il pavimento e lasciai che le mie braccia con sopra la giovane si abbassassero gradualmente, ammortizzando il colpo per quanto potevo. Fermai le braccia a pochi centimetri dal suolo, ma anche così sentii un sospiro di dolore. Tornai di corsa nello scannafosso, posai la ferita per terra e balzai colpendone il soffitto per ampliare l'apertura da cui ero entrato. Ora il foro era sufficiente. «Ehi, faccia attenzione!» Un pompiere stava osservando le mie acrobazie con interesse. «Che ci fa qui?» chiesi alquanto irritato. «Abbiamo allargato e consolidato il tunnel che ha fatto. Pensava davvero che saremmo rimasti ad aspettare?» Ovviamente aveva ragione. «Ce la fa a prendere la ferita?» domandai. L'uomo scosse la testa. «Dovrà pensarci lei. Io deve scendere lì sotto.» Stavo per rispondergli per le rime, ma non avevo tempo per litigare. Saltai in alto di circa tre metri e mezzo atterrando nell'anfratto da cui mi ero calato. Avevano ampliato e consolidato anche quello. Il tunnel era comodo; potevo passarci bene anche con la ragazza in braccio. L'avevano costellato di pilastrini fitti in acciaio, mettendo delle travi a traliccio per sostenere il soffitto. Il tutto aveva un'aria dannatamente fragile, ma erano stati incredibilmente veloci e al momento quella era la cosa più importante. Camminai per qualche metro e mi ritrovai all'aperto. Il sole mi aggredì, brutale. Mi allontanai dall'edificio e mi diressi alla più vicina ambulanza. C'era un sacco di gente intorno a me, ma non badai a nessuno. Deposi la ferita sulla lettiga. «Ora starà bene» dissi, un po' troppo ottimista ma speranzoso. «Grazie» disse lei, volgendosi verso di me, anche se non poteva vedermi. Mi allontanai dal veicolo per lasciar fare ai medici. «Angel?» disse qualcuno dietro di me. Mi voltai. Era un poliziotto. Sarei corso di nuovo nel luogo del disastro, ma sentirmi chiamare per nome mi bloccò. Il poliziotto sorrise e indicò poco lontano. In piedi sull'erba c'erano i miei nipoti e mia figlia, che mi fissava con le mani sulla bocca. Caddi a terra di schianto. Avrei tanto voluto poter piangere.

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7. «Ma… guardati, papà» disse Diana, con la voce rotta dall'emozione. Io non dissi nulla; non avevo più i vestiti, non ricordavo dove li avevo lasciati, o forse non li avevo mai messi, ma non importava. La mia brutta carcassa si era graffiata tutta, ma neanche questo importava. E Diana mi aveva chiamato papà: anche questo non importava. Rimasi un po' in quella posizione, con le ginocchia affondate nell'erba; sembrava che quel giorno non riuscissi a fare altro che sporcarmi di terra. «Eravamo ancora nel parco e ti abbiamo visto passare come un razzo» disse Diana. «Quando ho saputo del disastro, ho immaginato il resto.» Andai ad abbracciare la mia famiglia. Teo mi bussò sulla spalla. «Perché non mi hai detto che sai correre così?» mi disse. «La prossima volta lo fai con me in braccio, eh?» Era la mia famiglia; amplificai tutti i miei sensi per apprezzarne meglio la presenza. Erano salvi, e quindi lo ero anch'io. Il pompiere furbacchione, quello che mi aveva spinto a uscire di persona con la ferita, mi venne vicino sorridendo. «Me l'ha fatta» gli dissi, grato. Lui mi fissò. «Be', abbiamo finito per oggi?» Mi guardava, in attesa. Portai lo sguardo sul palazzo distrutto, poi sbirciai Diana. «No» risposi. «Diana, ti spiace tornare a casa da sola con i bambini? Sembra che io abbia un lavoro da fare.» «No, papà.» Diana sorrise apertamente. Mi volsi al pompiere e gli cinsi le spalle, spingendolo verso il nostro buco. La sensazione di urgenza tornò. Là dentro era pieno di figlie e figli di qualcuno. Accelerai, finché i miei arti divennero troppo veloci per essere visti chiaramente.

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8. I morti della Frusta furono centinaia. Fu un'esperienza molto forte, che mise duramente in discussione la mia stessa umanità; io, che ero fatto di ferro, a confronto con tutta quella carne disfatta, affettata o semplicemente ferita, con quella sofferenza lancinante per me ora solo pallido ricordo… come potevo continuare a definirmi uomo? Avevo trasportato decine di corpi all'esterno, con un disagio crescente; poi qualcosa nei miei meccanismi si era inceppato e avevo iniziato a muovermi con difficoltà; sapevo che non c'erano avarie di alcun tipo, ma il mio corpaccio si rifiutava di obbedirmi. La faccenda era semplicemente troppo penosa. Dovetti trovare il sistema di dare aiuto in altro modo: mi adoperai per aprire nuove brecce, e fu la scelta giusta. Ripresi a muovermi agilmente e detti agio a più soccorritori di accedere agli ambienti disastrati. Vidi anche belle cose, però: l'impegno di professionisti e volontari e un sacco di solidarietà da parte dell'intera cittadinanza. E non solo: anche le città vicine, con cui intrattenevamo solitamente delle relazioni politiche freddine, deprecarono quello che parve certo essere uno spietato attentato; ci inviarono addirittura degli aiuti. Persino New Delon, città nostra consorella e avversaria commerciale da sempre, condannò l'evento dimostrandoci simpatia. Ebbi, purtroppo, anche un momento di celebrità: qualche dannato giornalista si era aggirato tra le macerie a piacer suo e aveva visto più di quanto sperassi. Il giorno dopo comparve una mia foto (pessima, per fortuna) sul web e alla TV, e un articolo (ottimo, per sfortuna) che parlava di me e della mia vita. Il giornalista aveva scavato con accortezza nei database dell'università e dell'ospedale, ma almeno aveva avuto il buon gusto di dare alla cosa un'importanza assai secondaria rispetto alla tragedia umana della Frusta. Per qualche giorno la gente mi salutò passandomi accanto, ma la mia indifferenza e l'ostracismo di medici e parenti intervistati scoraggiarono chiunque. In capo a due settimane tutti sapevano ancora di me, ma probabilmente mi consideravano solo una bizzarria della ricerca scientifica di cui non

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valeva più la pena parlare. Tutto tornò com'era prima. Ma io, in qualche maniera, ero cambiato. Sentivo dentro di me una spinta nuova, minuscola all'inizio, che poco a poco ingigantì e divenne un'ossessione. Ero un uomo. Mi sentivo uomo, anche se non lo sembravo. Ero come quella gente che avevo salvato, come la ragazza ferita, che avrebbe potuto essere mia figlia. Fino ad allora ero stato anestetizzato dalla mia ostilità nei confronti della mia vecchia natura umana, rancoroso verso ciò che in passato mi aveva tradito e troppo in conflitto con la mia monumentalità meccanica. Accettavo per forza di cose la mia paternità: Diana era uno stato di fatto, e ne ero orgoglioso. Ero anche nonno, cosa fantastica anche quella. Ma come uomo cos'altro ero? Finivo lì, nei discendenti della mia vecchia genetica, o mi restava qualcosa di più? Erano cose cui presi a pensare un sacco. Per quanto migliorassi costantemente nelle mie prestazioni e nell'accettazione di ciò che ero, c'erano sempre delle giornate nere, in cui queste domande producevano puro dolore. Giornate in cui avrei voluto disfare ciò che la scienza aveva messo miracolosamente insieme. Ero un uomo, anche se senza corpo; un uomo con i suoi bisogni e le sue debolezze. Con il desiderio di essere accettato, per esempio, o di essere considerato interessante per quel che ero dentro o, più semplicemente, normale. Da quanto una donna non mi guardava in un certo modo? Mi mancava quella lieve emozione che potevo sentire un tempo nella voce di una sconosciuta che mi fermava per un'informazione; senza secondi fini, certo, ma riconoscendo, con quel suo tremito emotivo, con quel pizzico di timidezza, il mio status di maschia potenzialità. Non alludo al sesso. Anche quello mi mancava, naturalmente; ma era piuttosto ciò che vi stava intorno a farsi sentire per la sua assenza. Mi mancava quel senso di aspettazione quando sei in compagnia dell'altra, la parvenza di una possibile promessa, il delizioso senso di fragilità tuo e altrui; perché le persone si possono far male a vicenda, ma anche bene. Dov'era, il mio bene? In quei giorni, in cui tutta la mia opprimente voglia di tenerezza lottava per esplodere e il mio buon cinismo non prevaleva, sentivo un gran bisogno di sfogarmi. E allora ricordavo di avere un corpo per farlo. Non potevo stancarmi come gli esseri biologici ma potevo fiaccare la mia mente: in quei momenti correvo. La prima volta che lo feci volevo solo allontanarmi da New Sealon e da tutto quel che c'era. Presi a camminare lungo la strada che lasciava la città per le campagne senza una meta precisa; ma camminare godendomi la natura non era abbastanza, quel giorno. Avevo avuto un attacco di

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panico cocente e inatteso, al laboratorio: un intervento indebito di Vladi sul mio hardware, una piccola imprecisione di troppo, e il cervello aveva protestato a suo modo. Il mio corpo aveva cominciato a vibrare dappertutto sferragliando come una vecchia caffettiera. Vladi aveva capito subito e si era fatto pallidissimo; non gliene volevo, ma non riuscii a dirglielo. Era troppo dura. Ci vollero sei tecnici per posizionarmi sul lettino e consentire a Vladi di rimediare all'errore. Smisi di tremare gradualmente e ripresi il controllo di me. Ero spossato. Vladi era costernato; gli battei sulla spalla e uscii dal laboratorio in fretta per nascondere la rabbia. Le scuse di Vladi m'inseguirono oltre la porta. Non ce l'avevo con lui, naturalmente, ma con me, con quel che ero. Mi allontanai con la mente confusa e l'umore a terra, evitando i passanti il più possibile. Imboccai la strada per il mare casualmente, solo perché sembrava la meno frequentata. Uscito dalla città, cominciai a sentirmi meglio, il senso di prostrazione che seguiva l'attacco di panico era passato, ormai; restava solo la rabbia. Iniziai a correre. Dapprima per distrarmi, per quel senso di autodifesa che mi aveva insegnato a tenere occupata la mente nei momenti difficili; poi notai che il moto funzionava anche come sfogo, proprio come quando ero un vero essere umano. Che fosse retaggio psicologico del passato o un reale beneficio non lo so, ma mettermi a dura prova rendeva le cose più sopportabili. Mi misi a lato della strada, sull'inerbito, e cominciai a darmi da fare di brutto; presto gli arti sciabolarono l'aria sibilando forte, i piedi sollevavano zolle discrete. Raggiunsi una velocità tale da superare con facilità le rare auto che percorrevano lo stradone; passavo loro accanto, spesso attirando l'attenzione stupita di guidatore e passeggeri. Un bambino spalancò la bocca, sdraiato nel suo seggiolino, impugnando un biscotto semisciolto nella manina alzata; mi salutò ridendo. Lo salutai anch'io, poi accelerai. L'auto rimase indietro mentre il mare, là davanti, mi s'avventava incontro. Lasciai strada e prati per la sabbia, presi a correre sul bagnasciuga sollevando polveroni e altissimi spruzzi: era fantastico avere quella potenza. Qualcuno se ne stava a poltrire sulla battigia, una coppietta solitaria: la saltai di parecchi metri e atterrai sprofondando come non mai. Mani e braccia collaborarono e saltai fuori dalla buca con un balzo enorme, senza rallentare l'andatura. Quei ragazzi erano rimasti senza parole. Accelerai ancora, al di là della prudenza, sbandando lateralmente come un pazzo. Entrai troppo nell'acqua e sollevai una colonna di schiuma di

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dieci metri; mi coprii di goccioline che brillavano al sole del tardo pomeriggio. Vidi in lontananza che la spiaggia finiva per lasciare spazio alla scogliera. In breve giunsi là, sentendomi come un camionista che guida al suo massimo da ore: stanco, anche se senza un briciolo di sudore. Saltai sul primo masso atterrandovi con uno stridio soddisfacente; saltai dal primo al secondo, dal secondo al terzo, e così via, cercando di non rallentare. Non correvo, saltavo. La scogliera iniziò a farsi più imponente; tra un masso e l'altro, sotto di me, il mare si faceva capriccioso e insolente. Ondate si frangevano alla base delle rocce, rumoreggiando cupe. Gli schizzi s'alzavano alti, talvolta raggiungendomi. Proseguii la mia corsa, balzando da un punto all'altro, finché non compresi, tardi, che stavo approfittando della mia fortuna. Con la velocità e il fondo vischioso delle rocce era solo questione di tempo, e infatti accadde: scivolai, perdendo l'equilibrio. Saltai nella direzione sbagliata, verso il masso sbagliato, ma reagii bene: mi rannicchiai e assorbii l'impatto con i quattro arti, poi scattai all'indietro come una molla. Disegnai nell'aria un arco morbido e all'apparenza lentissimo: in realtà ero io che avevo spinto le mie funzioni ricettive al massimo cogliendo talmente tanti particolari della zona circostante che quando caddi a terra seppi esattamente cosa fare. M'inclinai di lato per cambiare direzione verso una meta precisa. E lì commisi il mio secondo errore. Non potevo immaginare che colpendo la superficie scabra con i piedi inclinati quella avrebbe ceduto: produssi tanti sassolini e un po' di polverina umidiccia. Poggiai la mano per rialzarmi ma era troppo tardi. Giunsi scivolando e stridendo alla fine del masso, e poi nel vuoto. Caddi per sette o otto metri, poi urtai il masso di fronte, assai più basso, e caddi nell'acqua immergendomi fino al bacino. Rimasi per alcuni secondi immobile, infisso con i piedi nella sabbia del fondo invisibile. «Iuuuuuuuu!» ululai, col massimo del volume. Il grido rimbalzò tra le rocce e scappò via verso il mare. Era stato fantastico. Stetti lì una decina di minuti, guardandomi attorno. Mi sentivo libero, una sensazione diversa. Doveva esser così che si sentivano i lupi caracollando nelle più sperdute brughiere. Terrorizzante. Magnifico. Tornai su usando le mani come rampini da scalata. Fu facile. Mi allontanai dalla scogliera galoppando come un puledro felice. Mi affiancai alla strada e presi la direzione per il ritorno. Andava molto meglio, adesso, come mi fossi liberato di un peso. Aumentai l'andatura senza rischiare troppo.

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Affiancai una macchina della polizia, e l'uomo al volante dapprima non mi notò; facemmo un centinaio di metri affiancati, poi il poliziotto si voltò distrattamente e strabuzzò gli occhi. Dovevo fargli un bell'effetto: viaggiavamo a un'ottantina di chilometri l'ora e le mie gambe disegnavano ampie e precise falcate sul prato adiacente alla strada. Vidi il tizio che sempre fissandomi parlottava alla radio; poi lo vidi rilassarsi. Notai i suoi muscoli facciali distendersi, anche se di un nonnulla. Non avrebbe potuto apprezzarlo nessun altro, ma la mia vista era concentrata su ogni sua ruga, ogni poro e pelucchio. L'uomo depose la radio e mi sorrise. Sapeva chi ero, adesso. Gli feci un cenno con la mano, e quello mi rispose tranquillamente. Ne avevo abbastanza: accelerai alla grande, divertito, osservando dalla nuca l'espressione dell'agente mentre seminavo il suo veicolo inadeguato. Ridacchiai a mio modo pensando che l'ultima cosa che vide di me, prima che sparissi all'orizzonte, erano le mie chiappone d'acciaio.

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9. C'era un'altra abitudine che avevo imparato ad apprezzare. Quando ero meno furioso e avevo del tempo libero, andavo in un posticino appartato del parco, quattro panchine a contorno di una piazzetta con una fontana in perenne zampillo. L'avevo scoperto per caso, un giorno in cui non sopportavo più la presenza dei giornalisti fuori la porta di casa; ero uscito e mi ero infilato nel parco. Mi avevano seguito fin lì: mi trovarono seduto su una panchina a contemplare il putto dal braccio amputato che dispensava acqua ai passerotti di passaggio. Per un po' tentarono di approcciarmi: fu gratificante stare lì, immobile come solo io so fare, ascoltando le domande prima curiose, poi stupite e infine disilluse di quei tizi ricoperti di attrezzature televisive. Poi continuai a tornarci. Non c'era quasi mai nessuno e comunque chi c'era si faceva i fatti suoi. Una volta passai l'intera giornata al laboratorio per dei test. Noia mortale. La sera mi lasciarono andare e giunsi al parco quasi di corsa: avevo bisogno di stare per conto mio. C'era una persona seduta a una panchina. Mi avvicinai con calma, per non turbarla, ma quella non mi degnò di uno sguardo. Sedetti lontano, alla panchina opposta; il getto della fontana ci separava. Mi rilassai e come d'abitudine presi a guardarmi intorno. La mia visione circolare era pressoché perfetta, adesso; senza sforzo osservavo contemporaneamente in tutte le direzioni. Avevo inventato anche un altro esercizio: modulavo velocemente la banda delle frequenze elettromagnetiche che i miei occhi percepivano, passando dagli infrarossi alle radio onde e oltre, ciclicamente. Nel cervello mi si formava un'immagine unica che compendiava l'intero spettro: il merlo che mi sbirciava da tergo diventava un soggetto assai più complesso che per un normale essere umano, in un modo che avrei trovato difficile spiegare anche ai miei dottori. Era divertente. «Buona sera» disse una voce accanto a me.

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Fui preso di sorpresa: il merlo aveva assorbito la mia completa attenzione. C'era una ragazza al mio fianco, si era spostata dalla panchina di fronte alla mia e mi si era appena seduta accanto. Non mossi la testa, dimentico del mio buon proposito di girarmi verso l'interlocutore. «Salve» dissi io un po' infastidito. «Allora è proprio lei» disse la donna. Sorrise tranquillamente. La scrutai con attenzione con i toni dell'intero spettro. Non mi pareva di conoscerla, ma non aveva l'aria di una ficcanaso. «Mi era sembrato di riconoscerla dal passo» aggiunse «ma la sua voce certo non potrò dimenticarla.» La guardai ancora. Lei non mi fissava: come me, teneva la testa in tutt'altra direzione. Era cieca. «Mi chiamo Lise» disse. «Volevo ringraziarla.» Attese che digerissi la cosa. La voce che sentivo, gli occhiali scuri che coprivano alcuni solchi attorno agli occhi, ferite recenti… la ragazza che avevo scambiato per mia figlia nel centro commerciale. «Certo» risposi, senza sfumature. «Come mi ha trovato?» Lei sorrise ancora. «So un sacco di cose su di lei. È abbastanza famoso.» «Già» feci io. «Grazie» disse lei. «Veramente. Forse c'è una ragione, dopotutto, per quello che le è successo. Ha fatto un gran bene laggiù.» Normalmente mi sarei infuriato. Ma con lei non potevo. Aveva una condizione simile alla mia, prigioniera com'era del proprio corpo, anche se in realtà appariva solida come la roccia. Pronunciava le sue parole come fossero verità assoluta. Non c'erano spazi per il mio dissenso e non mi dette modo di replicare. «Ci vediamo, uomo di ferro» disse sorprendentemente. Non era un'offesa. Era una semplice constatazione. Ed era anche uno strano saluto: se ci fossimo incontrati ancora lei non mi avrebbe visto ed io l'avrei riguardata con i miei cento occhi. Si alzò silenziosamente e se ne andò con passo deciso, oscillando un sottile bastone bianco che prima non avevo notato. Rimasi per un certo tempo in solitudine, pensando a lei. Strana ragazza. Poi i sussurri del web divennero un richiamo; mi avevano implementato funzioni aggiuntive, ultimamente: ero permanentemente collegato, senza bisogno di apparecchi sussidiari. Potevo contemporaneamente sostenere

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un colloquio telefonico senza inviare sonoro all'esterno del mio corpo, esplorare la rete e chiacchierare tranquillamente col vicino di panchina. All'inizio era dannatamente difficile: la mente è fatta per ragionare in maniera seriale, un passo alla volta, in sequenza. Il mio cervello stava imparando a portare avanti più processi mentali in parallelo. Chi mi cercava? La comunicazione richiedeva un contatto audio-video: inviai un'immagine di me stesso e accettai la comunicazione. «Angel?» disse una voce, interdetta. Mai web-cam aveva inviato figura d'interlocutore più inquietante della mia, lo sapevo. Quella voce non mi diceva nulla, però. Quando tradussi i segnali ricevuti nell'immagine dell'altro trasalii: il volto pallido di mio fratello minore mi fissava dal web. «Dan» conclusi, quasi sussurrando. Non sentivo mio fratello da anni, da prima di diventare quel che ero. Non me l'aveva mai perdonata, la mia sopravvivenza: rifiutava di considerarsi parente di una macchina e m'incolpava di assoggettare i miei a una presenza che aveva definito “un abominio”. Non me lo aveva mai detto; non sarebbe stato così duro quando ancora ero intrappolato in un corpo malato, né aveva mai avuto l'intenzione di parlarmi dopo il trapianto. Sapevo che aveva litigato con mia figlia, riguardo a me, e che Diana aveva perso le staffe; quando le chiedevo cosa si erano detti lei traccheggiava, ma una linea di tensione le solcava il viso e le risposte erano poco più che monosillabi. Era sorprendente vederlo. Qualcosa mi si strinse dentro: non ricordavo l'ultima volta che gli avevo parlato e non vedevo i miei nipoti da molto tempo. «Dan» dissi più forte. «Sì» disse lui, timidamente. Mi allarmai. «È successo qualcosa? I bambini…» Dan sventolò la mano. «Tutto normale» fece. «Volevo solo sentirti.» Lo fissai con la più grande attenzione, esplorando ogni centimetro del suo volto. Era nervoso, certo, ma c'era anche qualcos'altro. L'emozione m’impedì di capire di più. «Voi state bene?» riprese. «Ho sentito dell'attentato. È terribile.» «Dan» dissi io; mi piacque pronunciare il suo nome, non lo facevo da un sacco di tempo. «Hai ragione, è stato orrendo.» «Eri là» disse. «Nessun… danno?»

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Già. Le macchine non si feriscono, hanno avarie. Strinsi mentalmente i denti che non avevo. «Tutto a posto» risposi. «Sono arrivato lì a cose fatte.» Dan chinò gli occhi, come se quella chiamata gli stesse costando grande sforzo. «Volevo solo sentirti» ripeté. «Salutami Diana e i ragazzi.» Stavo per ricambiare il saluto ma la linea si interruppe. Rimasi lì come intontito per parecchi minuti. FINE ANTEPRIMAContinua...