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FOCUS Islam in Italia dialogo, pluralità, convivenza ATTUALITÀ Nigeria terrorismo permanente Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA MEDITERRANEO In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito DOSSIER Oscar Romero Giornata Missionari Martiri 3 ANNO XXXIV MARZO 2020 La Chiesa per la pace

MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA€¦ · Khalifa Haftar. Nel resto dell’Africa af-facciata sul Mar Mediterraneo, violenze sempre meno sporadiche e altri segnali non

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FOCUSIslam in Italiadialogo, pluralità, convivenza

ATTUALITÀNigeriaterrorismo permanente

Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

MEDITERRANEO

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DOSSIEROscar RomeroGiornata Missionari Martiri

3ANNO XXXIV

MARZO2020

La Chiesaper lapace

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MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIATrib. Roma n. 302 del 17-6-86. Con approvazione ecclesiastica.

Editore: Fondazione di religione MISSIO

Direttore responsabile: GIULIO ALBANESE

Redazione: Miela Fagiolo D’Attilia, Chiara Pellicci, Ilaria De Bonis.

Segreteria: Emanuela Picchierini, [email protected]; tel. 06 6650261- 06 66502678; fax 06 66410314.

Redazione e Amministrazione: Via Aurelia, 796 - 00165 Roma.

Abbonamenti: [email protected]; tel. 06 66502632; fax 06 66410314. Hanno collaborato a questo numero: Massimo Angeli, ChiaraAnguissola, Mario Bandera, Roberto Bàrbera, Eleonora Borgia,Gaetano Borgo, Loredana Brigante, Franz Coriasco, Angelo Esposito,Stefano Femminis, Emanuel Jicmon, Francesca Lancini, Paolo Manzo, Sergio Marcazzani, Pierluigi Natalia, Enzo Nucci, Maria Lucia Panucci, Michele Petrucci.

Progetto grafico e impaginazione: Alberto Sottile.

Foto di copertina: Andreas Solaro / Afp

Foto: Fati Abubakar / Afp, Audu Marte / Afp, Olukayode Jaiyeola / Nurphoto,Olukayode Jaiyeola / Nurphoto, Comision Interamericana Derechos Humanos,Hitomi Sadasue / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun, Afp Photo / Marvin Recinos,Safin Hamed / Afp, Antonio Masiello / Nurphoto, Str / Afp, Atta Kenare / Afp,Alberto Pizzoli / Afp, Sia Kambou / Afp, Herve Lequeux / Hans Lucas, Yang Guanyu/ Xinhua, Hector Retamal / Afpkoki , Kataoka / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun, Str /Afp, Eliano Imperato / Controluce, Afp Photo, Issouf Sanogo / Afp, Paolo Annechini,Archivio Curia Arcivescovile di Lucca, Gaetano Borgo, Ilaria De Bonis, ClaudiaFavaro, Stefano Femminis, Emanuel Jicmon, Fiorenzo Priuli, Giorgia Roda. Abbonamento annuale: Individuale € 25,00; Collettivo € 20,00;Sostenitore € 50,00; Estero €40,00.

Modalità di abbonamento:- Versamento sul C.C.P. 63062327 intestato a Missio

o bonifico postale (IBAN IT 41 C 07601 03200 000063062327)- Bonifico bancario su C/C intestato a Missio Pontificie Opere

Missionarie presso Banca Etica (IBAN IT 03 N 05018 03200000011155116)

Stampa:Graffietti Stampati - S.S. Umbro Casentinese km 4,5 - Montefiascone (VT)Manoscritti e fotografie anche se non pubblicati non si restituiscono.

Mensile associato alla FeSMI e all’USPI, Unione StampaPeriodica Italiana.Chiuso in tipografia il 25/02/20Supplemento elettronico di Popoli e Missione:www.popoliemissione.it

Fondazione MissioDirezione nazionale delle Pontificie Opere Missionarie

Via Aurelia, 796 - 00165 RomaTel. 06 6650261 - Fax 06 66410314E-mail: [email protected]

Presidente: S.E. Mons. Francesco Beschi

Direttore:Don Giuseppe Pizzoli

Vice direttore: Dr. Tommaso Galizia

Tesoriere: Gaetano Crociata

Responsabile riviste e Ufficio stampa: P. Giulio Albanese, M.C.C.I

• Missio – adulti e famiglie(Pontificia Opera della Propagazione delle Fede)

• Missio – ragazzi(Pontificia Opera dell’Infanzia Missionaria)

• Missio – consacrati (Pontificia Unione Missionaria)

Segretario nazionale: Don Valerio Bersano

Pontificia Opera di San Pietro ApostoloSegretario nazionale: Dr. Tommaso Galizia

Missio – giovaniSegretario nazionale: Giovanni Rocca

CON I MISSIONARI A SERVIZIO DEI PIÙ POVERI:

- Offerte per l’assistenza all’infanzia e alla maternità, formazione dei seminaristi, sacerdoti e catechisti, costruzione di strutture perle attività pastorali, acquisto di mezzi di trasporto.

- Offerte per la celebrazione di Sante Messe, anche Gregoriane.Conto corrente postale n. 63062855 intestato a: Missio - Pontificie Opere Missionarie

Conto corrente bancario presso Banca Etica (IBAN IT 03 N 05018 03200 000011155116)

- Eredità, Lasciti e Legati La Fondazione MISSIO, costituita il 31 gennaio 2005 dalla Conferenza Episcopale Italiana, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto(Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 2006), è abilitata a ricevere Eredità e Legati anche a nome e per conto delle Pontificie OpereMissionarie.Informazioni: amministrazione (tel. 06 66502629; fax 06 66410314; E-mail: [email protected]).

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1P O P O L I E M I S S I O N E - M A R Z O 2 0 2 0

Q uesto mese di marzo 2020 ècaratterizzato da un evento dinotevolissimo rilievo per la

vita della Chiesa e per il futuro del-l’umanità. Papa Francesco ha convoca-to ad Assisi giovani imprenditori edeconomisti, per parlare dell’economiadel futuro: l’incontro chiamato “TheEconomy of Francesco”, l’economia diFrancesco (vedi pag.26).Il tema dell’economia sta molto acuore a papa Francesco, non tantoperché intenda portare la Chiesa ainterferire in ambiti che non le sonopropri, ma perché egli si è sempremanifestato molto sensibile e prossi-mo alle persone e alle popolazioni piùpovere, che soffrono maggiormente leconseguenze di un sistema economicoche allarga ulteriormente la forbice traricchi sempre più ricchi, e poveri sem-pre più poveri. Di questo problema papa Francescoaveva già parlato nell’esortazione apo-stolica Evangelii Gaudium e ancor piùampiamente nell’enciclica Laudato Si’.Già nel suo primo documento papale,la Evangelii Gaudium, papa Francescofece una denuncia molto significativae forte: «Oggi dobbiamo dire “no aun’economia dell’esclusione e dellainequità”. Questa economia uccide»(EG 53). Ma papa Francesco non si ferma alladenuncia e nella stessa esortazioneapostolica indica alcuni valori per il

superamento dei limiti dell’attualesistema economico: «Vi esorto allasolidarietà disinteressata e ad un ritor-no dell’economia e della finanza adun’etica in favore dell’essere umano»(EG 58). Ed invita a pensare ad una“conversione” della politica e dell’eco-nomia perché siano realmente al servi-zio del bene comune: «Sono convintoche a partire da un’apertura alla tra-scendenza potrebbe formarsi unanuova mentalità politica ed economi-ca che aiuterebbe a superare la dicoto-mia assoluta tra l’economia e il benecomune sociale» (EG 205). Questo invi-to alla ricerca di nuovi cammini vieneribadito nell’enciclica Laudato Si’:«Oggi, pensando al bene comune,abbiamo bisogno in modo ineludibileche la politica e l’economia, in dialogo,si pongano decisamente al serviziodella vita, specialmente della vitaumana» (LS 189). Sappiamo che papa Francesco è unuomo dalle grandi vedute, ma anchemolto concreto. E su questo tema nonha voluto fermarsi alle affermazioni diprincipio, ma ha avviato un camminoconcreto rivolgendosi ai giovaniimprenditori ed economisti per dareconcretezza alle sue esortazioni. Nellalettera di invito per “The Economy ofFrancesco”, del 1 maggio 2019, parla-va di «un evento che mi permetta diincontrare chi oggi si sta formando esta iniziando a studiare e praticare

EDITORIALE

di GIUSEPPE [email protected]

(Segue a pag. 2)

»

Per una economia a favore

degli esseri umani

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Indice

EDITORIALE

1 _ Per una economia a favore degli esseri umani di Giuseppe Pizzoli

PRIMO PIANO

4 _ La Chiesa cerca strade di pace nel Mediterraneo Il lavoro di un’ostinata speranza di Pierluigi NataliaATTUALITÀ

8 _ Cristiani (e non solo) nel mirino Nigeria, terrorismo permanente di Ilaria De Bonis11 _ Haiti a dieci anni dal terremoto L’isola dimenticata di Paolo Manzo FOCUS14 _ L’islam in Italia Dialogo, pluralità, convivenza di Stefano Femminis

SCENARI18 _ Chiesa missionaria a Casalnuovo di Napoli

Angeli guerrieri nella Terra dei Fuochi di Ilaria De Bonis

SCATTI DAL MONDO

22 _ Il contagio dalla Cina

Se il virus è nei comportamenti Testo di Pierluigi Natalia A cura di Emanuela Picchierini

PANORAMA

26 _ L’economia di Francesco Per una Terra più abitabile e felice di Chiara Pellicci

DOSSIER

29 _ Nel 40esimo anniversario della morte di monsignor Romero Quei martiri che sono tra noi di Miela Fagiolo D’Attilia e Chiara Pellicci

P O P O L I E M I S S I O N E - M A R Z O 2 0 2 02

una economia diversa, quella che fa vivere enon uccide, include e non esclude, umanizzae non disumanizza, si prende cura del creatoe non lo depreda. Un evento che ci aiuti astare insieme e conoscerci, e ci conduca a fareun “patto” per cambiare l’attuale economia edare un’anima all’economia di domani». Larisposta a questo invito è stata sorprendenteed entusiastica: nel progetto iniziale eranoprevisti un massimo di 500 giovani. Invece gliiscritti sono circa duemila, provenienti da 115nazioni. Non sappiamo cosa ne uscirà concre-tamente, ma certamente questo incontrocostituirà un inizio, un precedente, del qualein futuro non si potrà non tenere conto.

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37 _ Umanesimo digitale Lo smartphone del contadino etiope di Michele Petrucci

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

38 _ Intervista ad Alessandro Pucci Dai camaleonti a Dio di Ilaria De Bonis

40 _ Nell’ospedale di Tanguietà Dove i missionari indossano il camice bianco di Massimo Angeli

42 _ Coltivazioni vegetali alternative La nuova agricoltura si chiama Idroponica di Roberto Bàrbera

45 _ Beatitudini 2020 Tetsu Nakamura Dal Giappone per aiutare l’Afghanistan di Stefano Femminis

46 _ L’altra edicola Elezioni politiche e proteste Iran, la débâcle del riformismo di Ilaria De Bonis

MO(N)DI DI DIRE

48 _ KARIBU, BENVENUTO! di Loredana Brigante

49 _ Posta dei missionari La speranza è il coraggio dei poveri

a cura di Chiara Pellicci

RUBRICHE52 _ Ciak dal mondo Parasite Vite ai margini della globalizzazione di Miela Fagiolo D’Attilia

3POPOL I E M I SS I ONE - M A R Z O 2 0 2 0

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OSSERVATORIDONNE IN FRONTIERA PAG. 6

Anna e i bambini di Duhokdi Miela Fagiolo D’Attilia

GOOD NEWS PAG. 7

Musulmani accolti da ebreidi Chiara Pellicci

AFRICA PAG. 16

Lotta alla malariadi Enzo Nucci

ASIA PAG. 17

Scuole lagerdi Francesca Lancini

MEDIO ORIENTE PAG. 28

No al piano Trumpdi Ilaria De Bonis

14

54 _ Libri Poche regole per vivere meglio di Maria Lucia Panucci I martiri di El Salvador di Chiara Anguissola55 _ Musica HOPE MASIKE La principessa della mbira di Franz Coriasco VITA DI MISSIO

56 _ “Il Ponte d’Oro” per i sacramenti dei ragazzi

Un abbonamento speciale57 _ Missione andata e ritorno Giorgia Roda, fidei donum per la diocesi di Reggio Emilia Dal Madagascar sempre col sorriso di Loredana Brigante

58 _ Agorà della Mondialità a Verona Sfogliamo l’Agenda del futuro di Eleonora Borgia

60 _ Missio Giovani #COSTRUISCI di Emanuel Jicmon

MISSIONARIAMENTE

62 _ Intenzione di preghiera La Chiesa del Regno di mezzo di Mario Bandera

63 _ Inserto PUM La missione? È un colpo di Grazia di Gaetano Borgo

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4 P O P O L I E M I S S I O N E - M A R Z O 2 0 2 0

PRIMO PIANO

Il lavoro diun’ostinatasperanza

Già dall’inizio di quest’annodiverse iniziative hannomostrato la determinazionedella Chiesa nel cercare stradedi pace nella tormentataregione del Mediterraneo. Come emerge dall’incontro diBari, “Mediterraneo frontiera di pace”, tra le Chiese locali deiPaesi rivieraschi.

La Chiesa cerca strade di pace nel Mediterraneo

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L’appuntamento a Bari “Mediter-raneo frontiera di pace”, orga-nizzato dalla Conferenza epi-

scopale italiana (Cei), è l’occasione peruna lettura comune e approfondita diuna situazione che sotto tanti punti divista si presenta precaria e tormentata.A partire dalla Libia dove le tregue nonreggono e i belligeranti sembrano con-vinti di poter ottenere la soluzione dellacrisi con le armi, anche per il sostegnoche ottengono da alleati internazionali,in particolare la Turchia, per il governodi Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj ela Russia, ma non solo, per le forzedella Cirenaica comandate dal generaleKhalifa Haftar. Nel resto dell’Africa af-facciata sul Mar Mediterraneo, violenzesempre meno sporadiche e altri segnalinon nascondono più gli inneschi di unpossibile incendio sotto la cenere diuna quiete apparente. Lo stesso valenella sponda orientale, a partire dal Li-bano, il Paese che ospita tra l’altro ilnumero maggiore, in assoluto e soprat-tutto in percentuale rispetto alla propriapopolazione, dei profughi dalle diverseguerre dell’area. E in guerra, oltre all’Irane l’Iraq, resta la Siria, altro Paese rivierascodel Mediterraneo, dove pure si fron-teggiano le truppe di Russia e Turchiadopo l’attacco sferrato da quest’ultimanella regione settentrionale del Rojavacontro i curdi, costretti ad abbando-narla.E intanto minaccia un’ennesima rie-splosione il pluridecennale e mai risoltocontrasto tra israeliani e palestinesi, ilpadre di quasi tutte le guerre nell’area.Da fine gennaio scorso si susseguonoscontri e proteste dopo che il presidentestatunitense Donald Trump ha presentatoun presunto piano di pace concordatocon gli israeliani (vedi pag. 28). A questiultimi verrebbe avallato tutto quanto

scono ad arrivare, come confermanotutti i rapporti internazionali. Perché lepartenze non si interrompono - anzi lavicenda libica le ha fatte tornare a cre-scere - e oggi sono molto più pericolose,dati i crescenti ostacoli posti alle orga-nizzazioni di soccorso in mare. E in ognicaso, anche nel momento di massimoafflusso, solo i più poveri tra questisventurati attraversavano il mare. Lamaggior parte sono sempre entrati inEuropa attraverso la cosiddetta Rottabalcanica.C’è un’aria cupa sia sulle sventuratepopolazioni delle sponde meridionali eorientali del Mediterraneo, sia su quelleindurite e spinte da pressioni economicheinconfessabili e da forze politiche becerea un egoismo che si veste di disumanità.Ed è ancora lento lo sforzo dell’Europa,che pure esiste, di contrastare quei fe-nomeni di nazionalismo aggressivo -oggi si dice sovranismo - che furonoorigine e causa delle pagine più buiedella sua storia nella prima metà delsecolo scorso. Ma ancor più nelle diffi-coltà del momento attuale, occorre chel’Unione Europea (UE) si riappropri dellasua storia migliore, quella che per il pe-riodo più lungo mai trascorso nella suavicenda plurimillenaria, le ha consentitodi preservare la pace, il bene più prezioso.Quel bene si nutre di tutela dei dirittiumani, di implementazione dello statosociale, ha imparato a usare le paroledella giustizia, da troppo tempo or-

5P O P O L I E M I S S I O N E - M A R Z O 2 0 2 0

di PIERLUIGI [email protected]

ottenuto con le armi in questi decenni,dal possesso praticamente esclusivo diGerusalemme, compresa la città vecchiacon i suoi quartieri arabi e la spianatadelle moschee ai Territori palestinesioccupati e, secondo indicazioni filtratecon insistenza da Washington, anche ilGolan siriano. Ai palestinesi andrebberoun po’ di soldi e il riconoscimentoformale del proprio Stato, formato daquanto resta loro della Cisgiordania edalla Striscia di Gaza, da collegare conun tunnel, oltre a un quartiere all’estremaperiferia Est di Gerusalemme per porvila propria capitale. Un piano che i pale-stinesi - e per inciso tutti i Paesi islamicidell’area, non solo gli arabi, ma anchela Turchia - non accetteranno comunque.E che suscita non poche perplessitàanche nel resto della comunità inter-nazionale, se non altro perché discuterlocon una sola delle parti interessate sem-bra più un dictat che un contributocostruttivo alla ricerca della pace.

IL TRAFFICO DEI BARCONIIncombono ombre cupe sul Mediterraneoche continua a inghiottire tanti sventuratiin cerca di scampo dalla guerra o dallafame. E nonostante quanto sostengonoin Europa e in Italia i fautori delle fron-tiere sbarrate e dei porti chiusi, non èvero che meno barconi partono, menogente muore. O meglio, potrà esserlo innumeri assoluti, ma non certo nel rap-porto tra quanti partono e quanti rie- »

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PRIMO PIANO

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Q uando è arrivata l’ora di andare in pen-sione, Anna Pelamatti, docente univer-

sitaria di Psicologia all’Università di Trieste,ha fatto una scelta radicale. Ha scelto dimettersi al servizio dei bambini vittime ditraumi della guerra all’Isis e si è trasferitanella regione autonoma del Kurdistan nelNord dell’Iraq, per curare i piccoli pazientidel Centro di Salute mentale di Duhok. Incollaborazione con l’Associazione italianaper la solidarietà tra i popoli (Aispo), unaong creata dai medici dell’Ospedale SanRaffaele di Milano, la professoressa Pelamattisi è impegnata a gestire questo progetto dicooperazione sanitaria internazionale perassistere i profughi curdi della minoranzayazida sfuggiti alla violenza delle milizie delCaliffato, in particolare i bambini affetti dasindrome post traumatica da stress. I piccolihanno difficoltà cognitive, di apprendimento,di linguaggio, soffrono di enuresi notturna,non riescono a vincere la paura in cui sonocresciuti. Per alcuni l’orrore dei ricordi è di-ventato rigidità degli arti, incapacità di im-pugnare una matita e scrivere o disegnare:molti infatti sono orfani ed hanno assistitoalla morte di un genitore, di parenti e amici.Sono cresciuti nei rifugi, hanno passato nottia dormire all’addiaccio, nascosti in ripari difortuna e pronti a sussultare per ogni rumore.Oltre 10.100 rifugiati siriani sono entrati inIraq e il 75% di questi sono donne e bambini:in particolare la provincia di Duhok, dal2012 ad oggi, ha visto aumentare la popola-zione del 60% per le ondate successive deglisfollati dalla crisi siriana e in questa partedell’Iraq. Nel Centro di Salute mentale, i pa-zienti della professoressa Pelamatti sonoquasi tutti yazidi, una minoranza religiosaall’interno dell’etnia curda che vive tra ilSud-est della Turchia, il Caucaso e l’Iran. Iloro disegni raccontano l’emergenza di unaintera generazione segnata dal trauma dellaviolenza. Una sindrome molto delicata chesi cura con amore, attenzione e ascolto. Perritrovare fiducia nel mondo degli adulti enel futuro.

di Miela Fagiolo D’Attilia

ANNA EI BAMBINI DI DUHOK

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA

l’unità dei cristiani quest’anno si è con-centrata sull’attenzione benevola per inaufraghi e sulla necessità di sostituirealle parole del conflitto le parole dellapace. Come titolo si è scelto proprio “Citrattarono con gentilezza”, dal branodegli Atti degli Apostoli che racconta ilnaufragio di san Paolo a Malta. «Unastoria di divina Provvidenza e al tempostesso di umana accoglienza», si leggenel documento di presentazione, conl’augurio che si rafforzi in tutti i credentie in tutte le Chiese la determinazione a

mai soverchiate dalla cacofonia sguaiata,feroce e odiatrice che trova tanto spazionei cosiddetti social media e purtroppoin una parte non abbastanza minoritariadella politica. E forse deve imparare, omagari solo ricordare, che linguaggio egesti sono altrettanto importanti e chese entrambi esprimono gentilezza e ri-spetto contribuiscono alla pace.

LE PAROLE DELLA PACENon a caso, per tornare allo sforzo dellaChiesa, la Settimana di preghiera per

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Chatila, campo profughipalestinesi a Beirut, Libano.

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La Chiesa cerca strade di pace nel Mediterraneo

È successo a Milano, nell’ambito del progettoCorridoi Umanitari, sempre più diffuso in

Italia e in alcuni Paesi europei. Sono molte,infatti, le persone che credono nell’accoglienzae uniscono le loro forze per poter dare con-cretezza ad un ideale irrinunciabile, quellodell’accoglienza. E così, in diverse regioni, co-munità più o meno eterogenee (gruppi par-rocchiali, aderenti ad associazioni o movimenti,ecc.) si impegnano per dare ospitalità ad unafamiglia di rifugiati e per assicurarle una vitadignitosa e un’integrazione nel tessuto socialeitaliano.Tra chi ha fatto dell’accoglienza uno stile diservizio e un impegno concreto c’è anche laComunità ebraica di Milano, diventata prota-gonista di un Corridoio Umanitario a favoredi una famiglia siriana di religione musulmana,originaria di Aleppo.Se l’esperienza dei Corridoi Umanitari è, sì,una buona pratica, ma abbastanza diffusa, lacircostanza che siano degli ebrei a prendersicura di musulmani è del tutto singolare, almenonell’immaginario collettivo che contrapponespesso le due religioni. Eppure, non è affattocosì. A spiegare perché è Giorgio Mortara, vi-cepresidente dell’Unione delle Comunità Ebrai-che Italiane (UCEI), che a Redattoresociale.itha detto: «Sono molti i passaggi della Torah incui si fa riferimento all’obbligo di aiutare ilprossimo, il forestiero. “Se tuo fratello impoverirà[…] lo dovrai sostenere: che sia straniero o re-sidente, vivrà con te” (Lv 25,35). È evidente,dalle ultime parole, che il termine fratello deveavere un’accezione universale. Il malessere dichi arriva da fuori è un punto sensibile per gliebrei, sollecitati come siamo dalla nostra stessaesperienza storica. Su queste basi è nato l’im-pegno dell’Unione delle Comunità EbraicheItaliane a sostegno delle comunità che attuanoprogetti a favore dei migranti/rifugiati».La famiglia siriana arrivata a Milano alla finedello scorso gennaio è composta dai genitori,quattro figli e un parente. Nella foto che laritrae con i bagagli alla Stazione centrale, è in-sieme ai volontari ebrei che hanno scelto di“adottarla”, di farla sentire come a casa propria.Prova che la fratellanza umana rompe davveroogni barriera.

di Chiara Pellicci

MUSULMANIACCOLTI DA EBREI

OSSERVATORIO

GOODNEWS

quello della conferenza sulla Libia or-ganizzata dall’Ue a Berlino il 19 gennaioscorso. Era domenica e papa Francescovi aveva fatto riferimento all’Angelus:«Auspico vivamente che questo vertice,così importante, sia l’inizio del camminoverso la cessazione delle violenze e unasoluzione negoziata che conduca allapace e alla tanto desiderata stabilitàdel Paese», aveva detto. E se è lecitochiosare il papa, in questi anni di “guerramondiale a pezzi”, il negoziato devesomigliare un po’ alla carità, come laintende san Paolo nella prima lettera aiCorinzi. Oggi chi ha davvero la pacecome scopo del negoziato, deve esserepaziente e benigno, privo di invidia e divanagloria, non mancare di rispetto, nécercare il proprio interesse, né adirarsi,ma cercare la verità. Anche nelle situa-zioni drammatiche come quella di ogginel Mediterraneo. E la verità, nei negoziatiinternazionali come nell’esperienza quo-tidiana di ciascuno di noi è che nelcantiere della pace lo strumento prin-cipale è il dialogo.«La gravità delle crisi che stanno colpendoil bacino del Mare Nostrum è sotto gliocchi di tutti; come Chiesa abbiamo ildovere non solo di non chiudere gliocchi, ma di comprenderla e denunciarlacon forza», aveva detto il cardinaleGualtiero Bassetti, presidente della Cei,presentando l’incontro “Mediterraneofrontiera di pace”. «La Chiesa italianaha deciso di non unirsi al coro deiprofeti di sventura, per riconoscereinvece che qualcosa di nuovo può edeve nascere anche nell’area mediter-ranea», ha aggiunto. In questa tormentache investe le loro terre, le Chiese me-diterranee dell’Europa, dell’Africa e delVicino Oriente a Bari hanno rafforzatole strutture di comunione esistenti e nehanno prospettate di nuove. Soprattuttohanno mostrato di voler essere un la-boratorio di sinodalità, non solo neirapporti ecclesiali, ma nello slancio dipromuovere una cultura del dialogo percostruire la pace.

vivere l’accoglienza come strumento diconversione, ma anche di cambiamentonei rapporti tra esperienze e culture di-verse. Questi segnali di cambiamentoforse cominciano a farsi strada anchenella politica europea. Il forse è d’obbligo,perché saranno gli eventi a dimostrarese agli annunci seguiranno i fatti. Tut-tavia, sulla crisi libica, l’Ue e, in essa,l’Italia in questa prima parte del 2020hanno incominciato a muoversi lungola strada giusta, per quanto difficile,del negoziato. Un primo passo è stato

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ATTUALITÀ

zone la minaccia è perenne. Tanto chei campi profughi del vicino Niger sisono riempiti di sfollati e rifugiati: mi-gliaia di donne e bambini che scappanodalle loro case, minacciati di continuodalle imprevedibili incursioni armate.Le formazioni jihadiste sembrano ri-prodursi all’infinito e sotto svariate for-me: l’Iswap, lo Stato islamico dell’Africa

Occidentale affiliato all’Isis, imperversanel Borno. Alle porte di Maiduguri loscorso 3 febbraio sono morte 30 persone,uccise dalla furia omicida di uominiche hanno come unico obiettivo quellodi destabilizzare, atterrire, uccidere.Smembrare un Paese.I jihadisti «hanno ucciso almeno 30persone, in gran parte gente che viag-

L a Nigeria è sotto attacco. E l’at-tacco è oramai uno stillicidio quo-tidiano. Fatto di rapimenti, omicidi,

violenze di ogni tipo. Durano da quasidieci anni e stanno stremando un’interapopolazione. «Questa carneficina devefinire!», dice la gente, protestando perle strade del Paese. La zona maggior-mente colpita dal terrorismo di matriceislamica Boko Haram (in lotta contro ilgoverno legittimo nigeriano), è quelladel Borno, nel Nord-est del Paese. No-nostante l’esercito affermi ciclicamentedi avere sconfitto i terroristi, in queste

Cristiani (e non solo) nel mirino

Nigeria,terrorismopermanente

di ILARIA DE [email protected]

Rapimenti, attentati, uccisioni, violenze dimassa: il terrorismo di Boko Haram e dellesue ramificazioni jihadiste, in Nigeria, sista rafforzando. Sempre di più i cristianisono in pericolo.

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ristica a livello globale. Il nostro Paeserappresenta la “speranza” futura delfondamentalismo islamico».Mentre gli occhi del mondo erano con-centrati sul Medio Oriente e le forzemilitari ingaggiate contro l’Isis, in Nigeriai terroristi, con finalità analoghe a quelledello Stato Islamico, rafforzavano la lororoccaforte. «Gli esseri umani vengonomassacrati regolarmente da terroristiche sembrano ormai aver preso di mira icristiani. La sicurezza della vita e delleproprietà non può più essere garantitain Nigeria». Ad affermarlo all’Agenzia distampa Fides è monsignor Paulinus Chuk-wuemeka Ezeokafor, vescovo di Awkanello Stato di Anambra, nel Sud dellaNigeria.L’ondata di violenze ha provocato finoraoltre 10mila sfollati interni e la distru-zione di centinaia di case. Nel mirinodi Boko Haram, e sue derivazioni, cisono prioritariamente (ma non solo) icristiani, la popolazione maggioritariadel Sud della Nigeria e minoritaria alNord.È di poche settimane fa la notizia della

barbara uccisione del pastore Lawa An-dimi decapitato per mano dei terroristidi Boko Haram. È la goccia che hafatto traboccare il vaso. L’AssociazioneCristiani della Nigeria (CAN) ha indettoun digiuno di tre giorni e una lungamarcia ad inizio di febbraio, subitodopo l’uccisione di Andimi, in favoredei cristiani perseguitati e costretti afuggire. «Ricordiamo con tristezza cheil reverendo Lawan Andimi, mentre eraprigioniero, ha fatto un appello appas-sionato alla leadership della sua Chiesae al Governo federale affinché inter-venissero in suo soccorso», ha detto »

giava sulla strada tra Maiduguri e Da-maturu e bruciato 18 veicoli», ha di-chiarato Bundi, il portavoce del gover-natore del Borno. Le vittime si eranofermate per la notte in un posto diblocco, per la chiusura di una strada.L’allarme parte dalle stesse autoritàlocali, che si sentono impotenti di frontead un pericolo imprevedibile e costante.«Alle violenze di Boko Haram si sonounite oramai da tempo quelle dei pastoriislamisti fulani - ha dichiarato ad Aiutoalla Chiesa che Soffre don Joseph BatureFidelis, sacerdote della diocesi di Mai-duguri - Se in Iraq e in Siria l’Isis haperso terreno, la Nigeria è oggi lo Statoche registra la maggiore attività terro-

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ATTUALITÀ Cristiani (e non solo) nel mirino

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Kwamkur Samuel Vondip, direttore degliaffari pubblici e legali della CAN, inuna lunga dichiarazione rilasciata alThe Christian Post. «La Chiesa ha fattotutto ciò che era in suo potere per ga-rantire la liberazione sicura di questopastore, ma non è stato possibile perchénon aveva il potere militare per farlo»,ha aggiunto.L’imperversare della doppia matrice diBoko Haram è segno della crescenteinsicurezza che monta in Nigeria, il cuiprezzo viene pagato dai civili inermi edagli uomini e le donne di pace, comei religiosi. «Alla luce della molteplicitàdegli attori armati non statali che ope-rano attualmente in Nigeria – ha di-chiarato Christian Solidarity Worldwide(CSW), impegnata nella difesa dei dirittiumani e della libertà religiosa – si riba-disce che i crescenti livelli di insicurezzain tutto il Paese costituiscono una mi-naccia anche per lo sviluppo sostenibile».Il CSW chiede con urgenza all’attualepresidente Buhari «una soluzione com-

hanno parlato del brutale assassiniodel seminarista Michael Nnadi – scriveAiuto alla Chiesa che soffre – Ma siamocerti che non rimarrete indifferenti difronte al viso angelico e pulito diquesto ragazzo che non aspirava a fareil rapper o l’influencer, bensì a servireil Signore e la sua comunità persegui-tata». Perché tutto questo continua adaccadere e a che cosa puntano i terro-risti? L’analista Jan De Volder qualchetempo fa per Limes aveva scritto chelo scopo di Boko Haram «è geopolitico:smantellare l’odiata Unione federaledi questo grande Paese africano, dovei cristiani sono maggioritari al Sud e imusulmani al Nord, e liquidare i leaderdi entrambe le zone, giudicati corrotti,nonostante la legislazione islamica siain vigore in tutti gli Stati federati delSettentrione».Il punto è che negli ultimi cinque annianziché sconfitti i terroristi sembranorafforzati e il Borno è la loro roccaforte,merito anche del rifornimento di armied equipaggiamenti che hanno ricevuto.«Boko Haram si distingue da altri gruppijihadisti per almeno tre ragioni: perchéodia in modo speciale l’istruzione occi-dentale (di qui il nome: boko, in linguahausa, si riferisce al “libro”, all’alfabetolatino e a tutta la cultura occidentale,da boicottare) – scrive ancora De Volder-; per via del suo leader, AbubakarShekau, che nelle violente tirate videosembra più un uomo in preda alla folliache un leader islamista spirituale e po-litico; per i sempre più sanguinosi at-tacchi a chiese, moschee e mercati (l’ul-tima novità è l’uso di bambine di otto- dieci anni utilizzate come kamikazeinvolontarie, con cariche esplosive de-tonate a distanza)». Eppure non è semprestato così: Boko Haram è diventato unmarchio universalmente noto solo dopoil 2011. «La sua nascita, agli inizi diquesto secolo, a Maiduguri, capitaledello Stato del Borno, nel Nord-estdella Nigeria, non lontano dai confinicon il Niger, il Ciad e il Camerun, nonfece notizia nemmeno in Nigeria».

pleta ed efficace, offrendo collaborazionequalora se ne ravvisasse la necessità».La gente in Nigeria è stanca ed hapaura. Ma inizia a denunciare. Durantela marcia di protesta organizzata dalleassociazioni cristiane in tutto il Paese,agli inizi di febbraio scorso, la gentesfilava con cartelli con su scritto: «Questacarneficina deve finire! I cristiani inNigeria sono sotto attacco».Stando ai dati ufficiali sarebbero almenomille i cristiani uccisi dai radicali diBoko Haram e dai Fulani solo nel 2019.I leader del CAN dubitano della buonafede del presidente Mohammadu Buhari.Difficile credere che «non stia colludendocon gli insorti per sterminare i cristianiin Nigeria», denunciano. «Un governoche non è capace di proteggere il suopopolo è un governo fallito», hannoaffermato i rappresentanti del CAN.È evidente che sebbene abbia fattopiù notizia delle altre, la morte violentadel reverendo Andimi è solo una tra letante: «Pochissimi mezzi di informazione

Manifestanti contro Boko Haram

sfilano per le strade di Lagos.

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Haiti a dieci anni dal terremoto

L’isola dimenticata

non è affatto migliorata.Per Fiammetta Cappellini, responsabiledell’ong Avsi nella capitale Port-au-Prince, sembra proprio che «l’opinionepubblica non voglia sentir parlare

sacrata dagli uomini e dalla natura. Adistanza di due lustri Haiti continua adessere una terra dimenticata dal mondose è vero che, da quando morironooltre 300mila haitiani, la situazione

S ono passati dieci anni, era il 12gennaio 2010, da quando un ter-remoto del settimo grado della

scala Richter trasformò Haiti in un’enor-me nube di polvere. L’ospedale di Pé-tionville si accartocciò tra le urla deimalati intrappolati, la cattedrale che sipreparava al vespro seppellì sotto ilcrollo il suo arcivescovo, il quartieregenerale dell’Onu venne giù portandosivia decine di vite su questa terra mas-

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È il Paese più povero dell’emisfero occidentale dove lamaggior parte della popolazione sopravvive con due euroal giorno. Dopo il terribile sisma del 12 gennaio 2010,Haiti non è ancora riuscita a rialzare la testa, anche acausa della corruzione che ha dirottato gli aiutiinternazionali su interessi di pochi politici.

»

di PAOLO [email protected]

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ATTUALITÀ

Canaan, la bidonville costruitain prossimità di Port-au-Prince,capitale di Haiti.

di Haiti». Forse perché a pochi interessaun Paese che, pur essendo il più poverodell’emisfero occidentale e dove granparte della popolazione sopravvive condue euro al giorno, è troppo lontanodal mondo che conta, ovvero da StatiUniti, Europa ma anche da Cina e Russia.Ad Haiti non c’è il petrolio del Venezuela,né lo scontro geopolitico in atto inSiria e, dunque, quasi nessuno ne scrive,se non a inizio gennaio di quest’anno,in occasione del decennale del sisma.Subito dopo quel terremoto gli sfollati,oltre un milione, finirono ammassatinelle tendopoli, poi in rifugi temporanei,infine si spostarono moltissimi fuoridalla capitale. Il risultato oggi è desolantese è vero che ancora 300mila personesopravvivono ammassate su un terrenoincolto a tre chilometri da Port-au-Prince. Qui hanno costruito un’immensabidonville, dal nome biblico di Canaan,un vero e proprio inferno, un ammassodi catapecchie tirate su alla bell’e megliocon materiali di scarto recuperato daicrolli e senza fognature, acqua, elettri-cità. «Le condizioni sono disumane»,lancia l’allarme Cappellini a PatriziaCaiffa dell’Agenzia Sir, aggiungendoche «se domani ci fosse un nuovo ter-remoto, farebbe il doppio dei morti. Èuna situazione che fa paura».

VITTIME DEL SISMA E DELLA CORRUZIONEGran parte della responsabilità del di-sastro attuale è della corrottissima po-

litica locale, in primis dell’ex presidenteMichel Martelly che, insediatosi unanno dopo il sisma, rifiutò di rinnovareil mandato della Commissione per ilrecupero di Haiti, patrocinata dagliStati Uniti e presieduta da Bill Clinton.Obiettivo dell’ex cantante con un passatoda consumatore di crack? Gestire luistesso i soldi delle donazioni interna-zionali per la ricostruzione, con i risultatiche sono oggi sotto gli occhi di tutti.Su Martelly piovvero inevitabili accusedi corruzione, come piovvero sul 51enneJovenel Moïse, un ex produttore e com-merciante di banane ma, soprattutto,dal 2016 presidente di Haiti. Anche lui- come tutti i 15 presidenti succedutisidal 1986, anno della fine della dittaturadi Jean-Claude Duvalier (più noto con

il soprannome “Baby Doc”) - accusatodi corruzione.Se il terremoto di dieci anni fa si fosseverificato in Giappone o in Cile nonavrebbe ucciso quasi nessuno; sull’isolacaraibica, invece, massacrò 316milapersone secondo le ultime cifre ag-giornate e obbligò un milione e mezzodi haitiani a sfollare, oltre a ferirne al-trettanti. La comunità internazionalee la Chiesa cattolica si mobilitaronosubito e per i 10 milioni di haitiani fu-rono raccolti oltre 10 miliardi di euro.Il problema, però, è che come semprein quest’isola che 300 anni fa era ilPaese più ricco delle Americhe, la cor-ruzione la fece da padrone. Invece dipartire dalla tragedia del 2010 per ri-costruire il Paese, gran parte di quei

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maggiori poveri al mondo, insieme al-l’Africa.

L’EPIDEMIA DI COLERAPer l’insoddisfazione contro il malgo-verno di Moïse, dalla seconda metàdello scorso anno, gli haitiani sonoscesi in strada quasi ogni giorno perprotestare contro la mancanza di acqua,di cibo e di una sanità degna di questonome oltre, naturalmente, per il ritornoalla democrazia, visto che tenere chiusoun Parlamento, senza consentirne ilrinnovo per via elettorale, è sicuramenteun segnale di autoritarismo. Anche per-ché, quando venne eletto nel 2016 trale denunce di frodi, Moïse ottenne soloil 21% dei suffragi e da quando sonoiniziate le manifestazioni contro il suoautoritarismo, la Polizia ha già uccisooltre 40 persone, tra cui donne e bam-bini.Come se non bastasse, nella martoriataisola, dopo il terremoto ci fu un’epidemiadi colera, malattia che era stata debellatadall’isola da oltre un secolo e, secondomolti, fu riportata ad Haiti dai CaschiBlu dell’Onu.«Il colera è una malattia figlia per ec-cellenza della disuguaglianza che quidomina, poiché i casi e le morti sonoconcentrati in modo sproporzionatotra le persone più povere e vulnerabili,

che non hanno accessoall’acqua potabile e aiservizi igienico-sanitari»,spiega Carissa Etienne,direttore dell’Organizza-zione Panamericana dellaSalute. L’epidemia di co-lera diffusasi nell’ottobre2010 ha colpito quasi unmilione di persone(820mila casi sino a no-vembre 2019), quasi il10% della popolazione,mietendo oltre 10milamorti (9.792 quelli con-tabilizzati, ma molti nonsono stati registrati). Inol-tre ad Haiti ogni ora

Haiti a dieci anni dal terremoto

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muoiono due bambini per malnutrizionee malattie curabili, il 70% delle personenon ha lavoro, un bambino su quattronon va a scuola e 265 figli sono natidalle violenze su giovanissime haitianeper mano dei Caschi Blu delle NazioniUnite, in missione umanitaria tra il2004 e il 2017.

fondi sparirono e oggi il 60% deglihaitiani vive senza acqua potabile ecentinaia di migliaia abitano in baracchedi fortuna.Come se non bastasse, poi, da inizio2019 ad Haiti non c’è nessun governo,da gennaio neppure più un Parlamentoe neanche una legge elettorale; e cosìadesso Moïse governa per decreto. Ilproblema è che invece di dare la pre-cedenza all’emergenza in cui vive ilpopolo affamato, la sua priorità è quelladi scrivere una nuova Costituzione perfarla approvare con un referendumentro fine 2020. Lui è sicuro che questo«cambierà la percezione con cui ilmondo guarda ad Haiti» ma non ha ri-sposte per spiegare che fine abbianofatto i 100 miliardi di euro di donazionise non con cinque parole: «Corruzione,corruzione, corruzione, corruzione eancora corruzione». Come se lui nefosse immune e come se cambiare lamassima legge dello Stato risolvessequalche problema alla gente. Lo sannobene in America Latina e nei Caraibidove, negli ultimi due decenni, la modaè stata proprio quella di cambiare Co-stituzioni, soprattutto per consentireai governanti di turno di mantenersisaldi al potere, mentre nulla è miglioratoper i popoli, essendo ancora oggi questaparte di mondo la più diseguale e con

L’IMPEGNO DI CARITASChi oltre all’Avsi non dimentica Haiti,però, c’è: la Caritas italiana, che con221 progetti di solidarietà e un importodi 25 milioni di euro raccolti dalla Con-ferenza episcopale italiana, è molto at-tiva nella diocesi di Port-au-Prince; ela Fondazione Francesca Rava, che sottola guida di padre Rick Frechette, arrivatoqui in missione nel 1987, da 20 anninon ha mai smesso di occuparsi deibambini haitiani con l’ospedale pedia-trico Saint Damien e che grazie alleadozioni a distanza aiuta oltre settemilabambini. Ma ad Haiti ci sono anche iCamilliani, grazie alla stoica forza d’ani-mo di padre Massimo Miroglio, da 15anni alla guida di un progetto umanitarioe socio-assistenziale tra la città di Jé-rémie e la capitale Port-au-Prince. Epoi gli Scalabriniani che hanno costruitouna serie di villaggi per chi aveva persocasa, le Piccole Missionarie del Vangeloe le religiose di Gesù Maria. Senzal’aiuto della Chiesa cattolica, insomma,ad Haiti sarebbe già scoppiata l’ennesimaguerra civile.

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FOCUS L’islam in Italia

«Per tre anni ho studiato i ser-moni tenuti da imam di varieregioni d’Italia. Mi ha colpito

ascoltare spesso espressioni come “la no-stra Italia”, “il nostro amato Paese”, “inostri concittadini”. Quando chiedevocome interpretare queste frasi, ricevevopiù o meno sempre la stessa risposta:“Siamo italiani, molti di noi hanno lacittadinanza, i nostri figli sono nati qui,hanno fatto tutti i cicli di scuola in Italiae parlano italiano: perché non do-vremmo esprimerci così?”». A parlare èil professor Youssef Sbai, marocchino damolti anni in Italia, docente nel master

in Religions, politics and citizenshipdell’Università del Piemonte Orientale,che abbiamo intervistato a margine delconvegno “L’islam in Italia, un’identitàin formazione”, promosso a Milano dallaFondazione Oasis a fine gennaio scorso.È stata l’occasione per presentare alcuniprimi risultati di una ricerca di Oasische verrà diffusa nei prossimi mesi, masoprattutto per riflettere sui volti cheoggi assume l’islam nel nostro Paese esui suoi rapporti con le istituzioni pub-bliche e le altre religioni. «Il primo datoche emerge - spiega Michele Brignone,direttore esecutivo di Fondazione Oasise coordinatore della ricerca - è la pluralitàinterna all’islam italiano ed europeo.Non c’è un’autorità statale che indirizza

le varie sensibilità religiose come avvienenei Paesi a maggioranza musulmana.Vediamo invece un proliferare di correnti,una grande pluralità». Alla base c’è sen-z’altro l’eterogeneità dei luoghi di pro-venienza, regioni e Paesi a maggioranzamusulmana ma con culture, identità,storie molto diverse tra loro: pensiamoa quali e quante differenze esistono traMarocco e Bangladesh, tra Bosnia e Pa-kistan, tutti Paesi ampiamente “rappre-sentati” in Italia.A questo, che è un tratto peculiare deiflussi migratori in Italia rispetto ad altrenazioni europee, si aggiunge un’ulteriorespecificità del Belpaese: le enormi dif-ferenze - culturali ed economiche - trale nostre regioni. «Spesso ci dimenti-

Dialogo, pluralità,convivenzaDialogo, pluralità,convivenza

di STEFANO [email protected]

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A fianco:Youssef Sbai, professore al master in

Religions, politics and citizenship

dell’Università del Piemonte Orientale.

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Musulmani in preghiera nellaGrande Moschea di Roma.

È una “identità informazione” quella deimusulmani che da diversegenerazioni vivono in Italia,con i figli che vanno ascuola e parlano la nostralingua. Se ne è parlato aMilano, durante unConvegno sul tema che si èsvolto il 10 gennaio scorsopromosso dalla FondazioneOasis presso il Centro SanFedele dei gesuiti.

chiamo - spiega Sbai - che essere mu-sulmano in Sicilia è molto diverso cheesserlo nel Triveneto. Un esempio? Pensoagli adattamenti che sono necessari acausa della scarsa capienza dei luoghidi culto al Nord: in alcune città si orga-nizza la preghiera del venerdì in due otre turni, con l’imam che ripete il sermone.Questa è tra l’altro una novità assolutanella storia dell’islam, inconcepibile neiPaesi a maggioranza islamica. Nel SudItalia non c’è questo problema. C’è peròuna grossa difficoltà a reperire fondi

per la comunità. Viceversa in una regionecome il Trentino molte organizzazioniislamiche sono riconosciute dalle am-ministrazioni locali come associazionidi culto e partecipano agli appalti perprogetti. Cosa che favorisce l’integra-zione».Ecco: l’integrazione. A che punto siamoin questo percorso? Una risposta auto-revole arriva dal cardinale Angelo Scola,arcivescovo di Milano dal 2011 al 2018,e ideatore di Oasis, intervenuto al con-vegno. «Siamo di fronte a una sfidaepocale. Da un lato l’islam d’Europa ècostretto a ripensare se stesso. Ma èanche vero che la presenza musulmanainterroga l’assetto delle società europee,così come la Chiesa cattolica. Mi chiedoper esempio quanto gli studenti di teo-logia delle nostre facoltà siano formatisui temi del dialogo e della gestionedelle differenze, come ha auspicatoanche papa Francesco. In generale dob-biamo ancora passare da uno stadio re-attivo a uno collaborativo, nella consa-pevolezza che è fuorviante continuarea parlare di “noi” e “loro”. È dai tempi diCarlo Magno che, in un modo o nell’altro,islam e cristianesimo sono in relazionein Europa. Certo, non dobbiamo mai di-menticare che parliamo di due mono-teismi, entrambi portatori di una pretesaveritativa universale. Questo dato nessunbuonismo lo può cancellare».Se il cardinale Scola si concentra »

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FOCUSFOCUS

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Chiara Ferrero è vicepresidente della Comunità religiosa islamica (Coreis), associa-zione con sede a Milano storicamente molto attiva nel dialogo interreligioso.

Intervenuta al convegno promosso dalla Fondazione Oasis, la Ferrero si è concentrata suun aspetto particolare ma tutt’altro che secondario: le difficoltà con cui la minoranza reli-giosa islamica vive le proprie ritualità e tradizioni nei luoghi di cura. «Da alcuni anni abbia-mo notato che poter svolgere i riti musulmani dentro le strutture sanitarie è diventato piùdifficile. Indubbiamente questo ha a che fare con una società secolarizzata. Nascita,matrimonio, malattia, decesso: sono momenti difficili da gestire nel rispetto della propriafede. Penso ad esempio alla preparazione della salma e alla particolare vestizione richie-sta dai riti islamici, cose molto problematiche se si muore in ospedale. Problemi analoghisi riscontrano per le esigenze alimentari e per la possibilità di pregare secondo le abitu-dini islamiche».Con lo scopo di accendere i riflettori su questo tema, Coreis ha pubblicato nel 2018 la“Carta delle buone pratiche nei luoghi di cura”, nell’ambito del progetto “Insieme perprenderci cura”. Un prezioso contributo, disponibile sul sito www.prendercicura.it, forseutile anche a fare riflettere gli stessi cattolici sull’importanza di difendere - senza eccessio strumentalizzazioni - le proprie tradizioni religiose. S.F.

SE L’INTEGRAZIONE PASSA DAGLI OSPEDALI

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O gni due minuti un bambino di età inferioreai cinque anni muore a causa della malaria,

una malattia curabile. I Paesi africani più colpitisono Nigeria, Mozambico e Repubblica Demo-cratica del Congo. Sono dati dell’Organizzazionemondiale della sanità (Oms). Da alcuni anni lascienza sta studiando un trattamento vegetale al-ternativo contro la malaria a base di artemisia(vedi Good News sul n.10/2019), una pianta concui in Cina ci si cura da migliaia di anni. Maalcune organizzazioni internazionali si oppongonoduramente a queste ricerche, mentre Francia eBelgio hanno addirittura messo al bando la pianta.L’artemisia cresce anche in Africa ed è moltodiffusa. Durante la guerra del Vietnam, la piantafu usata con un discreto successo nella cura deisoldati nordvietnamiti decimati dalle punture dizanzare. Nel 2001 l’Oms dichiarò l’artemisia «lapiù grande speranza del mondo contro la malaria»per poi fare bruscamente marcia indietro 11 annidopo. Nel 2015 ricercatori cinesi hanno ottenutoimportanti riconoscimenti scientifici per l’efficacianei trattamenti della pianta.Tutte queste polemiche ed il mancato investimentosu specifiche ricerche conducono ad una riflessionesulle multinazionali che controllano la produzionedi farmaci. L’Africa importa il 95% dei farmaci ingran parte da India e Cina. Le aziende farmaceuticheoccidentali stanno perdendo capitali nei confrontidelle due superpotenze orientali che ormai operanoin regime di monopolio. La malaria è un grandeaffare. I trattamenti farmaceutici usati sono moltoinvasivi e lasciano pesanti effetti collaterali neu-ropsicologici. I sostenitori dell’artemisia sostengonoinvece la necessità di individuare un percorsoscientifico condiviso per accertarne l’efficacia e lamancanza di controindicazioni, oltre a costi irrisoririspetto ai farmaci deputati. Una strada in ognicaso ostacolata da quanti hanno interessi nelsettore e a cui si sono accodati – secondo i fautoridella pianta – anche le grandi organizzazioni in-ternazionali. Sulla lotta alla malaria si procede atentoni. Basti pensare alle zanzare geneticamentemodificate rilasciate in Burkina Faso che dovrebberofermare la diffusione della malaria. Ma è ignotoagli stessi sperimentatori quale sarà l’impatto am-bientale di questo test.

LOTTA ALLAMALARIA

AFRICAOSSERVATORIO

di Enzo Nucci

sugli atteggiamenti della comunità cri-stiana, un discorso più ampio, e pernulla incoraggiante, è quello di MicheleBrignone: «In Italia c’è una crescita deimovimenti anti-islamici e questo è moltopreoccupante. L’aspetto aberrante nonè solo l’ostilità che manifestano molte

persone, ma anche la totale incompren-sione o ignoranza: la conoscenza del-l’islam si riduce ad alcuni stereotipi,pochi ed estremamente generici, su unarealtà che è invece molto complessa».Un dato confermato anche dall’indaginedella società di ricerche Ipsos, citata da

Un momento delConvegno promossodalla Fondazione Oasis.

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B ambini morti, abusati, picchiati, strappatiai genitori, alla loro lingua e alla loro

cultura. Almeno due milioni di piccoli indigeni,in varie zone del mondo, sono costretti a fre-quentare le cosiddette “scuole residenziali”che, in realtà, dietro al nome rassicurante na-scondono l’orrore. In Asia, Africa e AmericaLatina alcuni governi fanno pressione sulleminoranze etniche e religiose affinché chiudanole loro realtà educative e mandino i bambiniin quelle che Survival International ha decisodi rinominare factory school. Il termine factory(fabbrica) – ci spiega la direttrice per l’Italia,Francesca Casella – è stato scelto per indicarelo schema di assimilazione di massa al sistemadominante imposto agli allievi. Dal tragicorapporto dell’organizzazione emerge che sitratta di campi di prigionia e rieducazione perminori. I piccoli non possono uscire dagliistituti né parlare la loro lingua originaria coni compagni. Nelle factory dello Stato indianodel Marashtra circa 1.500 alunni sono mortifra il 2001 e il 2016; la maggior parte percause non precisate, 30 di loro per suicidio. Ein un recente processo si è provato che,proprio nel Marashtra, 15 bambine sono statedrogate e stuprate in una struttura studentesca.In aula, inoltre, è venuto a galla uno scioccantelivello di abusi in altre scuole simili della re-gione.Spesso, a finanziare le factory school sono lemultinazionali con interessi nei territori indi-geni. Fra queste, la compagnia minerariaAdani – denuncia sempre SurvivalInternational – ha aperto una scuola residen-ziale in un altro Stato indiano, l’Odisha, con loscopo di «trasformare i bambini indigeni».Adani, con le sue miniere di carbone, è sottoaccusa, sia in India che in Australia, per danniall’ambiente e corruzione. Questo modello dicancellazione delle minoranze è tuttora pre-sente dalla Malesia alla Papua Nuova Guinea,dal Bangladesh al Messico. E ricalca quellodelle boarding school (scuole di frontiera),utilizzato nel XIX e XX secolo – e poi vietato -da Canada e Stati Uniti contro i nativi ameri-cani. Si conta che solo in Canada, fra il 1883e il 1996, sono morti seimila bambini.

di Francesca Lancini

SCUOLE LAGER

OSSERVATORIO

ASIA

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L’islam in Italia

sitare il loro luogo di culto”.Allora devo spiegare che ilmotivo non è la chiusura, mail fatto che si vergognano diun luogo che non ritengonoadatto. L’ospitalità nel mondoislamico è sacra, quando unoospita deve rispettare certistandard».C’è il rischio che il continuorinvio di scelte politiche forseimpopolari ma necessarie fi-nisca con il radicalizzare l’islamitaliano? «Per il momento -risponde Brignone - questatendenza non la vediamo, adifferenza di altri Paesi europei,come la Francia, dove alcunezone sono state conquistatedalle correnti più radicali. InItalia c’è un rapporto più dia-logico con la società, anchegrazie al ruolo giocato dalla

Chiesa cattolica. Certo il processo nonè sempre lineare, ci sono anche posizionipiù rigide, di chiusura».Pur tra difficoltà e incognite, prendeforma dunque un “islam italiano”, omeglio un “islam d’Italia”, secondol’espressione che - spiega Sbai - i mu-sulmani stessi preferiscono: «Anche fra20 anni non avremo un unico islamd’Italia. Questo percorso di continuoadattamento non finirà, anche perchéla stessa società italiana cambia. E sonoconvinto che questo sia un elementobenefico per tutti. Penso a un temacome il dialogo interreligioso: nei Paesia maggioranza islamica era un argo-mento sostanzialmente inesistente, laquestione non si poneva. Ora si cominciaa parlarne perché i musulmani emigratiin Europa vivono questa esperienza e laraccontano. La pluralità, insomma, puòdiventare una preziosa occasione perfare ciò che nei Paesi di origine i mu-sulmani fanno meno frequentemente eche forse anche in Europa non abbiamoancora imparato davvero: includerel’altro nella costruzione della propriaidentità».

un altro dei relatori intervenuti a Milano,il professor Giovanni Valtolina. A livelloeuropeo, gli italiani sono uno dei popolicon la più alta “distorsione percettiva”rispetto al fenomeno migratorio: adesempio, secondo le persone intervistatenell’indagine i musulmani in Italia sa-rebbero il 20% della popolazione, afronte di un dato reale che è del 3,3%.Se queste sono le premesse, non stupisceche, dopo anni di dibattiti, resti di fattonon affrontata la questione dei luoghidi culto islamici. «In Italia - denunciaSbai - nonostante la Costituzione san-cisca e tuteli la libertà religiosa, abbiamosolo cinque o sei moschee costruite se-condo le norme dell’architettura sacraislamica e che sono riconosciute comeluoghi di culto dalle istituzioni. Poi cisono altre 1.200 “moschee” per le qualioccorre usare le virgolette perché sitratta di prefabbricati, garage, capannoni,in genere luoghi non costruiti secondole norme religiose e non “riconosciuti”socialmente. Questo ha ovvie ricadutesull’integrazione. Ho amici italiani chea volte mi dicono, lamentandosi: “I mu-sulmani non ci hanno mai invitati a vi-

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SCENARI

rieri della Terra dei Fuochi”, a Casalnuovodi Napoli.

BAMBINI E CANCROIn questa striscia di territorio verdissimo,tra colline e campi coltivati – i famosi“orti di Napoli” - una ventina di anni fai più piccoli iniziarono ad ammalarsi dilinfomi, leucemie, tumori cerebrali ecancri fulminanti. Loredana racconta

«Q uando 15 anni fa persiEnrico che ne avevaappena otto, iniziai a

pensare: “Qui c’è qualcosa che non va.Perché questi nostri bambini sanissimi,nel giro di dieci mesi si sono ammalatiin tanti, di tumore?”. All’epoca ancoranon si parlava di Terra dei Fuochi e noimamme non sapevamo nulla. Per annisiamo state attaccate perché cercava-mo di capire il legame tra il territorio eil cancro. Addirittura qualcuno ci dice-va che portavamo sfortuna! Non aveteidea di quello che abbiamo dovutosubire: dicevano che eravamo pazze einvece purtroppo avevamo ragione».A parlare è Loredana Barrisciano, unadelle fondatrici della onlus “Angeli Guer-

Angeli guerrieri nellaTerra dei FuochiAngeli guerrieri nellaTerra dei Fuochi

che poco prima che Enrico si ammalasse,ad ottobre 2004, era a Lourdes contutta la famiglia. «Enrico era molto at-tratto dall’acqua della piscina di Lourdes,voleva sempre bagnarsi. Mi disse: “Devovedere Gesù”. Gli risposi: “Che vai apensare, a mamma!”. A dicembre miaccorgo che qualcosa in lui non va. Erasempre più stanco: mi pareva che i suoiocchi fossero spenti. Allora l’ho portato

Tina, Ida, Loredana e Giulia, mamme della Terradei Fuochi, hanno fondato una onlus con l’obiettivodi aiutare altre famiglie ad affrontare al meglio lalotta contro il cancro. «Rubare attimi allasofferenza di un bambino è la nostra missione»,dicono. Il papa sarà in visita alla diocesi di Acerra ilprossimo 24 maggio, anniversario della Laudato Si’.

di ILARIA DE [email protected]

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in ospedale e subito se ne sono accorti.Ma già non c’era più niente da fare:sono quei tumori che esplodono all’im-provviso… Il suo era interno al cervellettoe non fu possibile operare».«Da allora è stato un continuo. «Noinon ci rendevamo conto di quello chestava succedendo. Ma le Asl che vede-vano una incidenza di mortalità infantilecosì elevata, però, sapevano! L’età mediadei bambini che si ammalavano all’epocaera di otto-dieci anni. Oggi vediamosoffrire di tumore bimbi anche di pochimesi: nascono già ammalati». Tina Zac-caria è un’altra mamma della Terra deiFuochi.«Mia figlia Dalia si è ammalata a 11anni ed è andata via dopo soli 14 mesiad ottobre 2012 per un linfoma diHodgkin – racconta - Tina Zaccaria, enon può trattenere le lacrime – Per

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Però adesso sentiamo soprattutto il bi-sogno di fare».E fare significa, per esempio, finanziaretramite la onlus, le spese per le famiglieche devono affrontare viaggi o perma-nenze fuori sede per le cure. Hannoanche creato gruppi di terapia psicologicaper l’elaborazione del lutto. Non mancachi porta un sorriso in ospedale; chi or-ganizza corsi di educazione ambientalee di raccolta differenziata. «Tutelarel’ambiente è la forma più alta di amoreverso i nostri figli», dicono. L’ispirazionerimane naturalmente la Laudato Si’ enon a caso tutto quello che “AngeliGuerrieri” fa, è nel solco degli insegna-menti di papa Francesco. «Chi crede inDio ha una marcia in più – confermaLoredana – Ogni cosa che succede »

Chiesa missionaria a Casalnuovo di Napoli

molto tempo io non ho voluto elaborareil lutto… Il 15 novembre di quell’annoc’è stata una prima marcia di genitoriorganizzata da don Maurizio Patriciello.Non sono andata a quella manifestazione,ma le altre mamme hanno partecipato,portando con sé le foto dei figli».

MISSIONE E AIUTO ALLE FAMIGLIE“Angeli Guerrieri” è nata nel 2016 conl’obiettivo di assistere in ogni modo lefamiglie che stanno ancora combattendocontro la malattia. La struttura, fruttodi una donazione privata, è anche unasilo d’infanzia gestito dalle mammeche l’hanno fondato.Sulle pareti bianche, le foto dei bambiniscomparsi: Alessia, Dalia, Enrico, Martina.E poi Giuseppe e Francesco. Tutto è co-

loratissimo, dalla ludoteca alla mensa.L’atmosfera è allegra. Con Loredana eTina c’è anche Ida Pariante, mamma diMartina. Queste donne hanno sorrisigrandi e occhi che brillano. Nonostanteil dolore. Sono una forza per tutte lealtre.«Abbiamo scelto di portare aiuto concretoa chi sta passando quello che abbiamopassato noi», dicono. «Se c’è da mani-festare per denunciare, come in passatoabbiamo fatto con don Patriciello, noinon ci tiriamo indietro – precisano -

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anni nel mirino della società civile. LaRamoil, Raffineria Meridionale Oli Lu-brificanti è qui dal 1963, in pieno centroabitato, appena un po’ nascosta daicancelli. I dirigenti affermano di averetutte le autorizzazioni necessarie e le«certificazioni di qualità, ambiente esicurezza rilasciate da enti internazionali».

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SCENARI

terra. Dall’interramento dei rifiuti e dairoghi tossici; dai frutti marci del terrenoe dall’atmosfera satura. Acque inquinatee cibo a rischio. Dopo il terremoto del-l’Irpinia del 1980 ci fu un boom edilizioe un trasferimento massiccio di personenell’area metropolitana di Napoli, daCasalnuovo, ad Afragola, a Nola. È inquesto periodo che la camorra si dà piùda fare per i suoi commerci illeciti. Il si-stema mafioso di “gestione” dei rifiuticrebbe alla fine degli anni Ottanta; nelDuemila raggiunse il picco. Non c’è maistata la volontà politica di smantellarlo.Anzi. Oggi i cittadini continuano a pro-testare senza che nulla cambi.«Abito al centro di Casalnuovo – raccontaAntonio, insegnante di teatro - L’altrasera sono venuto da queste parti ed eroseduto al tavolino di un bar con laporta aperta. Sentivo una puzza strana.Forte. Sui gruppi Facebook leggevo didenunce di roghi. Ma non avevo maicapito quanto fosse vero. La puzza dibruciato fa male, toglie il respiro». An-diamo insieme a vedere l’impianto diraffineria più contestato, già da alcuni

la vivi alla luce della tua fede. Puoisubire tutta l’ingiustizia del mondo mapoi cerchi di rialzarti. Ci sono tantepersone che questa fede invece non cel’hanno e allora subentrano sconforto,abbandono, sofferenza». Ed è con loroche bisogna stare.

TRA ROGHI TOSSICI E RAFFINERIENella Terra dei Fuochi non c’è quasi piùscampo. I veleni che uccidono arrivanoda sotto e da sopra: dall’aria e dalla

Sotto:

La sede di “Angeli Guerrieri” a Casalnuovo.All’interno un asilo e una ludoteca per bambini.

Loredana Barrisciano

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cino a chi soffre: dalla parrocchia diSanta Maria dell’Arcora a Casalnuovo,va in ospedale e ovunque ci sia bisognodi lui. Non si dovrebbe aver paura di«stare dove c’è più dolore e anche piùrepulsione verso la fede». Il dolore tipuò provocare anche rabbia e allora bi-sogna saper gestire il rifiuto. «La Chiesaper anni è rimasta troppo chiusa – fanotare Loredana – è diventata una isti-tuzione fatta di paramenti».Il papa invece non ha esitato un attimoa dire di sì quando è stato invitato dalvescovo di Acerra. Francesco sa dove ènecessario stare e il prossimo 24 maggioincontrerà le famiglie della Terra deiFuochi.

Chiesa missionaria a Casalnuovo di Napoli

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«Noi, nella nostra onlus –sono ancora parole di Lore-dana - non vogliamo che lepersone si sentano in obbligodi avvicinarsi a Dio. Quandoci conoscono, devono avere

la curiosità di dire: “Ma questa mammatutta ‘sta forza che tiene arò a piglia?”.Allora puoi rispondere: “Io ho conosciutoDio, l’ho visto. Ecco da dove viene lamia forza”». È il significato autenticodell’essere missionari e martiri, ossia te-stimoni di Dio.Tina ha scritto una poesia che riassumeil senso di tutto: «Quelle come noihanno imparato a fare pace con la vitaquando questa faceva a noi la guerra.Quelle come noi hanno imparato a ri-spettare il silenzio di Dio custodendonel cuore l’intima speranza che quel si-lenzio non fosse assenza, ma la certezzadi una promessa esaudita solo con unpo’ di ritardo».

Sta di fatto che la gente respira fumitossici. «Dicono che bruciano oli. Manon è così. Sappiamo che hanno i per-messi della Regione per poter bruciareaddirittura scarti industriali e ospedalieri.Praticamente è un inceneritore in pienocentro città», denunciano le mamme.«In certi momenti dai tombini esconofuori fumi grigi e vapori bianchi. È lacondensazione. Tutti parlano ma nessunosi espone», racconta la gente.

CHIESA MISSIONARIA TRA LA GENTEIn una realtà così contaminata e soffe-rente, la Chiesa può fare la differenza.Deve essere una Chiesa missionaria atutti gli effetti però, ci spiega padreCiro Biondi, missionario fidei donum.Come si fa a parlare di Dio a chi soffreper una malattia improvvisa? È impor-tante «spostare l’attenzione dalle situa-zioni di normalità a quelle “speciali” –dice Ciro - Ci vuole molta attenzione.Perché questa è una situazione anomalae le persone devono essere accompa-gnate». Si tratta di stare davvero vicinoalla gente, di trovare le parole giuste, diessere missionari fino in fondo.«Nell’agosto di due anni fa – ricordapadre Ciro - ho celebrato il matrimoniodi due ragazzi. Lei, Antonella, è rimastaimmediatamente incinta. Andò a farele prime visite e scoprì di avere un tu-more. Fu una “fortuna” prenderlo cosìin tempo. Quando partorì comunque ledovettero togliere alcuni organi. Poiiniziò tutte le terapie necessarie… Daallora è ancora più vicina a Dio e tuttele domeniche mattine è qui, in chiesa».Don Raffaele è un altro prete molto vi-

Le quattro mammefondatrici di “Angeli Guerrieri”.

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Se il virus è neicomportamentiS i possono trarre almeno un paio di lezioni dall’epidemia

causata dal Coronavirus finora non conosciuto, partita dallacittà di Wuhan, nella provincia centrale cinese dello Hubei, e cheha raggiunto in maniera più che contenuta anche altri Paesiasiatici, americani ed europei. La prima è che non esistonostrumenti sanitari, salvo il ricorso a normali pratiche igieniche ea iniziative prudenziali pubbliche, per contrastare questo tipo divirus, come accade per esempio con i vaccini antinfluenzali. Ilche fa riflettere sulla necessità di affidare la ricerca medica piùalle strutture pubbliche, cioè determinate dall’interesse generale,

che a quelle private, per loro natura orientate al guadagno. Non èun caso se a “tracciare” il virus e a dare la prospettiva di una so-luzione terapeutica in tempi relativamente brevi, siano stati iricercatori - anzi le ricercatrici, tre donne - di una strutturapubblica italiana, l’Ospedale Spallanzani di Roma, che ancoraresiste al massacro praticato da decenni nel Servizio Sanitarionazionale.Di Coronavirus (CoV), così chiamati per le punte a forma dicorona sulla loro superficie, se ne sono scoperti finora sette: iprimi quattro, che non ebbero gravi conseguenze, già negli anniSettanta del secolo scorso. Il primo episodio rilevante, incominciatoanch’esso in Cina nel 2002, fu causato dal quinto ceppo, quellodella Sars (Severe acute respiratory syndrome), che in alcunimesi ebbe a livello mondiale circa ottomila casi, con 774 morti,compreso il medico italiano Carlo Urbani, il primo a identificare il

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A cura di EMANUELA [email protected]

Testo di PIERLUIGI [email protected]

Controlli sanitari all’aeroportointernazionale di Sanya Phoenix,nell’Isola di Hainan, Cina.

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IL CONTAGIO DALLA CINA

virus che lo uccise. Più letale, in percentuale, fu dieci anni dopoquello della Mers (Middle East respiratory syndrome) che colpìla penisola arabica e che nel suo primo impatto e in una recrude-scenza nel 2015 uccise 624 persone su 1.616 casi accertati.Quello attuale è appunto il settimo ceppo, per ora contrassegnatosolo con la sigla 2019-nCoV. L’Organizzazione mondiale dellasanità (Oms) ne ha presto corretto la valutazione da “rischiolieve” a “rischio elevato”, dichiarando poi lo stato di “allertaglobale”. Il che non significa fine del mondo in arrivo imminente,ma necessità di vigilanza sul pericolo di contagio in altri Paesi.Pericolo ovviamente da non sottovalutare, ovunque e soprattuttoin quelli asiatici e africani, con fitti interscambi con la Cina emeno efficaci protocolli sanitari rispetto a Europa e Nord America.Anche perché ci sono stati ritardi, ammessi dalle autorità locali,nell’adozione dell’unica forma di contenimento efficace, cioè la

quarantena a Wuhan, una città di 11 milioni di abitanti. Di contro,è stato probabilmente frettoloso, secondo l’Oms, l’annunciocinese che due farmaci già esistenti sarebbero efficaci contro ilvirus. Ciò detto, bisogna ricordare che le conseguenze del virus,almeno fino al momento in cui questo articolo viene scritto,appaiono in percentuale meno gravi di quelle della Mers e dellaSars, con circa 2.500 decessi su oltre 80mila contagi accertati,in Cina, Filippine, Corea del Sud e Italia (cifre registrate al

momento in cui questo numero sta andando in stampa).E questo ci riporta alla seconda lezione da imparare. Cioè cheoggi la disinformazione si diffonde ben più dei virus, soprattuttocon le cosiddette fake news sui social media, secondo quello“stile” che ha fatto di internet uno strumento di menzogna più omeno quanto lo è di conoscenza. Le epidemie di questo secolo,almeno per quanto riguarda i Coronavirus, sono ben diverse,

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Pechino ai tempi del Coronavirus.

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grazie a protocolli sanitari decisamente migliori, da quelleinfluenzali terrificanti del Novecento. L’influenza del 1918, chiamataSpagnola per la virulenza con cui in Spagna esplose, anche seera stata identificata per la prima volta in Kansas, colpì mezzomiliardo di persone, uccidendone almeno 25 milioni, cioè il 3%dell’allora popolazione mondiale (anche se alcune stime parlanoaddirittura di 50-100 milioni di morti). Nel 1957 fu la volta del-l’influenza Asiatica, incominciata in Cina, che uccise due milionidi persone, prima che fosse individuata la terapia che frenò e poidebellò la pandemia, dichiarata conclusa nel 1960. Nel 1968 cifu l’influenza detta di Hong Kong, abbastanza simile all’Asiatica,che in due anni causò dai 750mila ai due milioni di morti (i datiasiatici dell’epoca sono discordanti), prima che a fermarla prov-vedesse ancora una volta la ricerca scientifica.

Ma queste considerazioni purtroppo non impediscono oggi divarcare con estrema e pericolosa facilità il confine tra allerta eallarmismo, tra vigilanza e isterismo. E non solo in questo caso.Per fare uno dei tanti esempi, l’influenza detta suina (impropria-mente) provocò nel 2009 uno spropositato terrore, soprattuttoin Italia, dove si parlò di un milione e mezzo di casi, prima cherivelasse un tasso di mortalità molto più basso di quello di unanormale influenza stagionale. Nell’epoca di internet, aggiungeretre zeri ai numeri reali è solo il minore dei crimini - perché il pro-curato allarme è un reato - di quei costruttori di paura cheproliferano (e purtroppo non solo generici utenti del web, mapersino giornalisti che hanno perso l’abitudine deontologica diverificare le notizie prima di darle, per non parlare degli esponentipolitici e istituzionali, del tipo dei presidenti di tre Regioni e di

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Personale medico nell’ospedaledella Croce Rossa di Wuhan.

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una Provincia che hanno avanzato la proposta di negare l’ingressoa scuola ai bambini cinesi). Si va dalle teorie complottiste sulvirus creato a scopo militare in laboratorio - statunitense ocinese a seconda delle simpatie di chi le propaga - all’attribuireil blocco di arrivi e partenze in Cina, un’opportuna misura pre-cauzionale in attesa che il contagio sia contenuto, ad uncomplotto per colpire questo o quel Paese, questo o quell’interessecommerciale. Fiumi d’inchiostro - anzi di clic di tastiere - e oredi programmi radiofonici e televisivi insieme a notizie reali, tipoandamento delle borse o conseguenze sui consumi e sul com-mercio, danno spazio a dicerie, opinioni e posizioni che appar-tengono non al diritto/dovere di cronaca, ma a un sensazionalismopericoloso.Accade un po’ in tutto il mondo, con episodi eclatanti quanto

grotteschi. Ma siamo ben oltre il grottesco: la mai morta,stupida e feroce caccia all’untore di manzoniana memoria siveste oggi sempre più di razzismo, di odio per il diverso. Ealimenta, per ignoranza o per scopi inconfessabili, una discri-minazione vergognosa verso chi è originario delle terre in cui ilvirus si è manifestato. Lo mostra il precipitare delle presenzenegli esercizi commerciali gestiti da cinesi. Ma non è solo didanni materiali che occorre parlare. Si pensi alle chat suWhatsapp che usano i genitori dei bambini di una stessa classee che in diverse località si sono subito riempite di notizie senzafondamento e di inviti a segregare i cinesi da considerarenemici. Sì, ci sono epidemie sociali ben peggiori di quellesanitarie, quando si dimentica che per i malati deve essercicura e per i morti pietà, non l’azzannare degli sciacalli.

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Huoshenshan, l’ospedale costruito in tempi recorda Wuhan per far fronte all’epidemia.

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C’è un solo obiettivo che muove un grande fermento intorno ad una “nuo-va economia” tutta da inventare: è quello di rendere la Terra più abita-

bile, cioè più giusta, fraterna, sostenibile e con un nuovo protagonismo di chioggi è escluso.E chi, se non i giovani, può impegnarsi nell’ideare nuovi schemi, pratiche, pro-cessi che ridiano un’anima all’economia globale?Papa Francesco ne è convinto e per questo ha convocato ad Assisi dal 26al 28 marzo duemila giovani economisti, imprenditori e change-maker pro-venienti da 115 Paesi diversi per la stipula di un patto, nello spirito di san Fran-cesco. Con loro, a “The Economy of Francesco”, non mancheranno PremiNobel del calibro di Amartya Sen e Muhammad Yunus, e relatori come Van-dana Shiva e Stefano Zamagni (solo per citarne due), insieme a tanti altri esper-ti di economia, filosofia, sviluppo sostenibile, intelligenza artificiale e impren-ditori di fama internazionale. Tutti riuniti nella città del Poverello, il cui vesco-vo, monsignor Domenico Sorrentino ha spiegato: «Lo svolgimento dell’even-

Per una Terrapiù abitabilee felice

Dal 26 al 28 marzo si svolge ad Assisi“The Economy of Francesco”, un eventomai visto prima nella storia della Chiesa:

la convocazione, da parte del papa, dimigliaia di giovani economisti,

imprenditori e change-maker provenientida quasi tutti i Paesi del mondo, chiamati

a stringere con lui un Patto per dareun’anima all’economia di domani.

Le iniziative organizzate dalle singolediocesi in Italia e nel mondo, in

preparazione all’evento internazionale diAssisi, sono una miriade. Come, del resto,

quelle che a livello locale si sviluppanoalla ricerca di un’economia diversa,

attenta agli aspetti ambientali e sociali. In quest’ottica, presentiamo il Tavolo

sull’Economia civile che ha recentementepreso vita nell’arcidiocesi di Lucca.

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to ha una relazione con san Francesco, conla sua esperienza di vita e con le sue scel-te, che hanno valore anche nell’economia.Fu lui a scegliere tra un’economia dell’egoi-smo e un’economia del dono. La sua spo-gliazione davanti agli occhi del padre e delvescovo di Assisi è una icona ispirante perl’evento di marzo ed è il motivo per cui ilpapa lo ha voluto ad Assisi».Effettivamente, di fronte ad un mondo dovegli uomini più ricchi (solo 2.153 individui)possiedono più ricchezza di 4,6 miliardi dipersone e i 22 uomini più facoltosi del pia-neta hanno più ricchezza di tutte le donneafricane messe insieme (dati dell’ultimo re-

port di Oxfam International), non è più il tem-po di perseverare con gli schemi e le impo-sizioni del sistema economico attuale. È in-dispensabile porre al centro del modello disviluppo quell’economia civile di cui siparla per la prima volta nel 1753, anno incui l’Università di Napoli istituisce la primacattedra al mondo di economia, affidando-ne la titolarità ad Antonio Genovesi, la cuiopera fondamentale del 1765 è intitolata, ap-punto, “Lezioni di economia civile”. Si trat-

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ta di un’economia basata su alcuni princi-pi come reciprocità, gratuità, fraternità,che superano la supremazia del profitto odel mero scambio e mettono al centro l’uo-mo e l’ambiente.Economia civile è un’espressione tornata re-centemente all’attenzione della società an-che grazie alla riflessione di economisti comeStefano Zamagni e Luigino Bruni, quest’ul-timo direttore scientifico di “The Economy

of Francesco”.A confermare che il tema dell’economia èuna frontiera più che attuale della Chiesa dipapa Francesco, è anche monsignor Pao-lo Giulietti, arcivescovo di Lucca e delega-to per i giovani della Conferenza episcopa-le toscana. Nella sua diocesi ha recentemen-te preso vita il “Tavolo sull’Economia civi-le”, un esperimento innovativo promossodalla Caritas locale insieme ad associazio-

ni e istituzioni del territorio. MonsignorGiulietti descrive così il contesto nel qualesi colloca l’iniziativa: «Il Tavolo sull’Econo-mia civile riveste una grande importanza per-ché, come papa Francesco ci sollecita a fare,va nella direzione di un ripensamento del-l’economia: un’economia diversa, che aiu-ti ad evitare i fenomeni di scarto, che ridu-ca le disuguaglianze e al tempo stesso va-lorizzi l’ambiente rispettandolo ed esaltan-done le possibilità, che produca una casa,perché questo vuol dire economia, il gover-no della casa, una casa più abitabile e piùfelice per tutti. Da questo punto di vista - con-tinua l’arcivescovo di Lucca - abbiamo dainventare delle cose nuove perché l’econo-mia che oggi ci governa non assicura evi-dentemente questi obiettivi. C’è bisogno diluoghi di pensiero, di sperimentazione, di in-novazione». Sicuramente il Tavolo sul- »

La prima riunione delTavolo sull’Economia civilenel territorio lucchese.

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glianze stanno aumentando vertiginosamen-te e perché l’ambiente si sta degradando al-trettanto vertiginosamente».Allargando lo sguardo all’evento “The Eco-

nomy of Francesco”, monsignor Giulietticommenta: «Adesso il papa dice chiaramen-te: “Bisogna cambiare il sistema”. E questoè ambizioso, ma è dettato da circostanze diparticolare urgenza. Che siamo di fronte aduna situazione complessa da tanti punti divista e particolarmente rischiosa per l’uma-nità è un dato di fatto. Che siamo di frontead un processo di concentrazione della ric-chezza del mondo nelle mani di pochi è al-

trettanto evidente:questo è disfunzio-nale, quando va al dilà di un certo livello,e diventa patologico,quando sottrae ri-sorse alla capacitàdi sopravvivenzadella gente. Ciò inne-sca tensioni sociali,possibilità di guerre:è l’umanità che di-strugge la sua casa.E questo non ce lopossiamo permet-tere».Dal livello locale aquello globale, l’esi-genza di un cambia-mento radicale del

sistema economico è chiara. «Per questo– aggiunge monsignor Giulietti – il papa con-voca i giovani: il cambio di sistema chiedeun pensiero nuovo, che sia capace di inver-tire la tendenza a livello ambientale e socia-le. E i giovani hanno la capacità di un pen-siero nuovo che immagini scenari diversi».Insomma, immaginare un’altra economia,da misurare e costruire in maniera diversa,bisognosa di strategie innovative, vuol direcambiare i parametri di riferimento. Solo igiovani possono osare tanto. Ad Assisi sicerca di gettare le basi per questa rivoluzio-ne copernicana dell’economia, di cui esse-re veramente protagonisti.

l’Economia civile che ha preso vita sul ter-ritorio lucchese è un processo che può por-tare ad una vera opportunità di cambiamen-to, soprattutto se sarà in grado di coinvol-gere anche realtà del mondo profit. «Eco-nomia civile – precisa monsignor Giulietti -non vuole dire solo economia no profit: vuo-le dire anche un’economia che, pur gene-rando profitto, è attenta agli aspetti ambien-tali e sociali della sua attività. Non è contrad-dittoria l’idea del profitto con l’idea di eco-nomia civile. Certamente al Tavolo a cui ab-biamo dato vita si comincia con i “soliti noti”,cioè con il mondo del no profit, cercandopoi un ampliamentoverso l’economia chemuove i flussi mag-giori di produttività edi occupazione, per-ché questo ripensa-mento possa coinvol-gere tutta la filieraeconomica del no-stro territorio. Il per-corso non è sicura-mente semplice, maè obbligato dalla con-statazione che l’eco-nomia tradizionalenon è più efficace».Il Tavolo è quindil’espressione dicome una diocesi o,meglio, un intero ter-ritorio è impegnato nella ricerca di una pos-sibile altra economia, attenta all’ambiente,all’equità, alle nuove tecnologie che metto-no al centro l’uomo, allo sviluppo sosteni-bile. Per monsignor Giulietti non c’è dubbio:«Oggi è proprio necessario rinnovare il si-stema. Cioè non basta introdurre dei corret-tivi (come le cooperative bianche, il mutuosoccorso, ecc.). L’economia di papa Fran-cesco non è solamente una raccolta di buo-ne prassi tampone, ma è il tentativo di dire:dobbiamo trasformare radicalmente un si-stema economico non più sostenibile am-bientalmente e non più capace di garantirelo sviluppo equo per tutti, perché le disugua-

L’ unica soluzione possibile per la pace inPalestina rimane quella dei “due popoli

per due Stati”. Tutte le altre strade che si di-scostano da questa, non sono percorribili.Il verdetto è piuttosto unanime. Anchel’Alto rappresentante della politica esteraper l’Unione Europea, Josep Borrell, lapensa così e ha sostanzialmente bocciato ilpiano della Casa Bianca per la pace in Me-dio Oriente. Lo si era capito fin da subitoche l’elaborato “Peace to Prosperity” diDonald Trump, non poteva rappresentareun’alternativa fattibile, perché troppo pena-lizzante per i palestinesi. Quello che dovevaessere il “piano del secolo” si è rivelato unennesimo flop e soprattutto la solita trap-pola per i palestinesi. «Si discosta dai para-metri concordati a livello internazionale»,dice Borrell. Soprattutto sullo status di Ge-rusalemme che non può essere ritenutacapitale di Israele. Oltre ai contenuti delPiano, che avrebbe tolto ulteriore terra aipalestinesi facendone una sorta di popolorelegato in un bantustan modello Suda-frica sotto apartheid, quello che proprionon convince l’Unione Europea e la Chiesa,è il metodo. «Per costruire una pace giustae duratura le questioni devono essere de-cise attraverso negoziati diretti tra le dueparti», dice l’Alto rappresentante per la po-litica estera. Sulla stessa linea anche la Con-ferenza episcopale degli Stati Uniti: palesti-nesi ed israeliani devono concordare unpiano tra di loro, che sia accettabile per en-trambi, dicono i vescovi americani. Perché«sono loro i protagonisti e gli unici in gradodi risolvere le differenze». Serve una «riso-luzione comune all’impasse cronica».La novità adesso è che anche la popola-zione palestinese protesta, non solo controIsraele e Trump ma contro la propria lea-dership, che non ha la forza di imporsi.Abu Mazen deve fare molto di più perchéil tempo stringe e soprattutto i più giovanisono stanchi.

di Ilaria De Bonis

NO ALPIANO TRUMP

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTE

Monsignor Paolo Giulietti,vescovo della diocesi di Lucca.

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NEL 40ESIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI MONSIGNOR ROMERO

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Quei martiriche sono tra noi

UNO SLOGAN CHE PARLA IL LINGUAGGIO DELL'AMORE ARRIVA A TUTTI. DUE AGGETTIVI DI IMPATTO IMMEDIATO “INNAMORATI E VIVI” RAPPRESENTANO ILPARADIGMA DEI CONTENUTI CHE MISSIO GIOVANI PROPONE ALLE DIOCESI ITALIANE PERLA 28ESIMA GIORNATA DI PREGHIERA E DIGIUNO IN MEMORIA DEI MISSIONARI MARTIRI. COME SPIEGA GIOVANNI ROCCA, SEGRETARIO NAZIONALE DI MISSIO GIOVANI.

di Miela Fagiolo D’[email protected]

e Chiara [email protected]

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«C i siamo chiesti cosa significa essere “Inna-morati e vivi” alla luce del martirio come

conclusione di una vita donata, ma anche comeinizio del cammino verso la santità – dice GiovanniRocca, segretario nazionale di Missio Giovani - .Quest’anno ricorre il 40esimo anniversario dell’uc-cisione di monsignor Oscar Arnulfo Romero, unevento che è stato sempre al centro dell’identitàstessa della Giornata, e che continua ad ispirarci. Ilsacrificio di questo pastore ancora oggi parla atutti: ai giovani, ai gruppi missionari, alle parrocchieche si riuniscono per farne memoria e pregare. Unmomento speciale da quando la Giornata di preghierae digiuno in memoria dei Missionari Martiri è stataistituzionalizzata nel 1992, cioè presa in consegnadalla Chiesa italiana su proposta dell’allora MovimentoGiovanile Missionario delle Pontificie Opere Mis-sionarie, oggi Missio Giovani». Risalendo all’originedi questa Giornata è emerso che già un paio dianni dopo, la gente di El Salvador e di altri Paesicelebrava il 24 marzo, data del sacrificio di quelloche già subito dopo l’uccisione nel 1980 era chiamato“El santo de America”.

«Anche in Italia - continua Rocca - Romero èsubito diventato icona di una Chiesa che affiancail suo popolo fino al sacrificio estremo. Pensandoal recente Mese Missionario Straordinario e al-l’eredità che ci ha lasciato Romero, abbiamo indi-viduato lo slogan “Innamoràti e vivi” che si puòleggere anche come l’esortazione “Innamòrati evivi”. Questa seconda chiave di lettura definisce ilmartire come una persona che si innamora diuna causa, di un popolo perché guarda con gliocchi del Vangelo, e decide di vivere per quellacausa, per quella gente. Oggi soffriamo dellaperdita dei grandi ideali, è importante riproporreai giovani l’entusiasmo e il coraggio di un martireche dice: “Solo se ti innamori di una causa puoivivere pienamente e trovare la tua vocazione”».Ma c’è ancora una terza lettura: anche dopo lamorte i martiri restano per sempre segno d’amoree di vita, come testimonia tutto ciò che è natointorno al ricordo di monsignor Romero. Spiega ilSegretario di Missio Giovani: «Il sangue dei martiriè seme di Vangelo, e per le tematiche che evoca,la Giornata si avvicina molto allo spirito del Venerdì

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Santo. La preghiera e il digiuno accomunano idue appuntamenti e ci ricordano che Cristo è ilprimo martire. Ha vissuto la disperazione dell’uc-cisione, nella solitudine dell’incomprensione perfinodei suoi amici più fedeli. Quel Venerdì Santo è ilgiorno della morte non solo di un uomo ma anchedelle sue idee, del suo progetto e di quelli delpopolo di Israele che da secoli aspettava il Messia.Invece nel giorno della Pasqua, risorge proprio inforza di quello che aveva annunciato. Nel martirioc’è il principio della resurrezione».La Giornata dei Missionari Martiri è diventata unappuntamento fisso della Quaresima e dell’annopastorale e i materiali di animazione preparati daMissio Giovani sono diffusi in tutte le diocesiitaliane. «Il materiale viene preparato dai giovaninon solo per i giovani ma per tutta la comunitàecclesiale, per le diocesi. Oltre ai materiali cheproponiamo ogni anno, ci sono anche due strumentiparticolarmente vicini al mondo giovanile: il cine-forum con cinque film su tematiche di vite vissutenel martirio, e l’animazione di strada con iniziativedi piazza per sensibilizzare la gente» (vedi box inquesta pagina).Ma il martirio non è solo una vicenda individuale,ci sono anche dei popoli martiri, come sottolineaRocca: «I missionari che girano il mondo si trovanoin situazioni e contesti in cui si può toccare conmano ciò che accade ad intere popolazioni. Làdove un popolo viene impoverito, là dove viene

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fomentata una guerra che lo costringe alla fuga,là dove la gente viene privata dei diritti fondamentali,non ci troviamo forse di fronte ad un popolomartire? Un giovane della mia età che vive in unadelle aree geografiche dove c’è sfruttamento,guerra, è in gravi difficoltà. Cosa lo spinge a nonlasciare la propria terra se non il senso di appar-tenenza e di rispetto dell’identità della gente dicui fa parte? Speriamo che queste condizioninon conducano alla morte, però abbracciare ap-pieno certe sfide significa essere disposti anchea rischiare la vita».

Miela Fagiolo D’Attilia

Giovanni Rocca, Segretario nazionale Missio Giovani.

P er celebrare appieno la Giornata di preghiera e digiuno inmemoria dei missionari martiri, il materiale non manca. E

l’invito è quello di vivere quest’appuntamento in maniera completa,andando oltre all’attività da calendarizzare il giorno del 24 marzo.Sì, perché Missio Giovani ha messo a punto una serie di iniziativeda proporre in diocesi (parrocchie, gruppi giovanili, associazioni,movimenti, ecc.) con la varietà e la versatilità di strumenti di ani-mazione missionaria che si adattano a diversi destinatari e sipossono collocare anche oltre la data della Giornata, in uncammino quaresimale più ampio.Oltre alla Veglia di preghiera, pensata per essere celebrataproprio il 24 marzo in ricordo del 40esimo anniversario dellamorte di monsignor Romero e in comunione con tutti i popolidel mondo e con chi ha donato la vita per il Vangelo, vieneproposta la Via Crucis, da vivere durante i venerdì di Quaresima.Lo schema ideato per le 15 stazioni della storia del Cristo verso il

Golgota è arricchito dalle riflessioni di monsignor Romero che halottato, fino a dare la propria vita, per i poveri, gli ultimi, glioppressi. Tra il materiale messo a disposizione delle diocesi c’èanche la Liturgia penitenziale: durante la Quaresima, infatti,sono molte le occasioni per celebrare questo appuntamento informa comunitaria. Un altro momento significativo per la preghiera,da vivere davanti al Santissimo, è l’Adorazione eucaristica ac-compagnata da brevi letture della biografia di santi e martiri.Una proposta speciale, rivolta principalmente ai giovani, è l’Ani-mazione di strada da organizzare al meglio per le vie cittadine,possibilmente anche con il coinvolgimento diretto di missionaririentrati in diocesi. Le attività suggerite sono tre, con altrettantiobiettivi: far conoscere la realtà di un Paese del Sud del mondoche sta vivendo una situazione di oppressione; invitare all’impegnopersonale per rendere questa Terra più giusta e fraterna; contribuireal progetto di solidarietà legato alla Giornata di preghiera edigiuno in memoria dei missionari martiri.Sempre per i giovani, anche quest’anno viene proposto un pro-gramma di Cineforum con la selezione di cinque film cheinvitano a riflettere sul tema dello slogan “Innamorati e vivi”.

Chiara Pellicci

Ben più di una Giornatada animare

IL MATERIALE PROPOSTO

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Un appuntamento nel cuore della Quaresimache le diocesi italiane celebrano ricordando i

martiri di ieri e di oggi che hanno speso la vita perannunciare il Vangelo. Don Giuseppe Pizzoli, direttoredi Missio, sottolinea la vitalità della Giornata di pre-ghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri,che «è sempre stata accolta nei Centri missionaridiocesani come una occasione molto significativadi attenzione al mondo missionario. Molto utilizzato

DON GIUSEPPE PIZZOLI

è il materiale di animazione proposto a gruppi eparrocchie che organizzano per tutta la comunitàquesto appuntamento di riflessione e di preghiera,con testimonianze e veglie molto partecipate».La Chiesa italiana ha dunque fatto sua la sollecita-zione a rileggere la testimonianza degli uomini edelle donne di Dio che hanno vissuto la missionefino all’ultimo respiro. E nel giorno del 24 marzo,continua don Pizzoli, «non si ricordano i martiri insenso generale ma coloro che hanno sacrificato laloro vita nell’annuncio del Vangelo, cioè i missionariche nell’anno precedente hanno perso la vita apartire dalla lista che è resa nota dall’Agenzia dinotizie Fides. Si parla del martirio di chi offre la suavita nell’annuncio ad gentes, ma non tutti questipossono essere considerati martiri della fede. Nelsenso che non sono stati uccisi in odio esplicito allafede, ma di fatto hanno messo a rischio la loro vita,lasciando la loro terra e le loro culture per annunciareil Vangelo anche laddove è fortemente contrasta-to».Negli ultimi anni nell’elenco del martirologio, oltre areligiosi e religiose sono comparsi anche laici alservizio dell’annuncio come operatori pastorali. Unsegnale interessante di come la missione possaesprimersi attraverso vocazioni diverse? «Sì - ri-sponde don Pizzoli -. È un segnale di come ilConcilio stia portando frutti. Il Concilio ha aperto ladelega che per secoli era stata data agli Istitutireligiosi specializzati, a tutta la Chiesa, poiché “tuttala Chiesa è per sua natura missionaria” e tutti i bat-tezzati, in virtù di questo sacramento sono missionari.Anche il recente Ottobre Mese Missionario Straor-dinario 2019 ci ha ricordato che la vocazione mis-sionaria è radicata nel battesimo e quindi che nonoccorre essere religiosi consacrati per essere mis-sionari».

M.F.D’A.

Don Giuseppe Pizzoli, direttore di Missio.

Nel cuore dellaQuaresima

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fatti di microcriminalità purtroppo frequenti in contestisociali di povertà e degrado. Come nel caso di donDavid Tanko, ucciso il 29 agosto 2019 presso il vil-laggio di Takum in Nigeria, dove era andato perpartecipare ad un incontro tra etnie in conflitto datempo. Come lui altri due sacerdoti: don ClementRapuluchukwu Ugwu, parroco a Obinofia Ndiuno,nello Stato di Enugu, nel Sud della Nigeria la seradel 13 marzo 2019; e don Paul Offu, ucciso il 1°agosto 2019, parroco nella diocesi di Enugu, cadutosotto i colpi di arma da fuoco sparati da un gruppodi persone mentre viaggiava in automobile. Trepreti sacrificati anche in Burkina Faso: padre AntonioCésar Fernández Fernández, vittima di un attaccojihadista il 15 febbraio dello scorso anno; donSiméon Yampa, parroco di Dablo, ucciso il 12maggio da terroristi jihadisti mentre stava celebrandola messa; padre Fernando Fernández, pugnalatoa morte il 17 maggio 2019 nel Centro Don Bosco diBobo Dioulasso. In Kenya troviamo la morte di duesacerdoti: don Eutycas Murangiri Muthur, uccisoda individui che lo hanno aggredito mentre

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L’elenco annuale diFides riguarda

non solo i missionariin senso stretto ma,con una precisazioneche elimina possibiliconfusioni in merito,«tutti i battezzati im-pegnati nella vita dellaChiesa morti in modoviolento, non espres-samente “in odio allafede”. Per questo pre-feriamo non utilizzareil termine “martiri”, senon nel suo significatoetimologico di “testi-moni”, per non entrarein merito al giudizioche la Chiesa potrà eventualmente dare su alcunidi loro proponendoli, dopo un attento esame, per labeatificazione o la canonizzazione». Secondo il do-cumento di Fides sono 29 i missionari uccisi nelmondo nel 2019: 18 sacerdoti, tre suore, due laici,due religiosi e un diacono permanente. Il reportevidenzia un cambiamento di tendenza, definito«una sorta di “globalizzazione della violenza”: mentrein passato i missionari uccisi erano per buona parteconcentrati in una nazione, o in una zona geograficaa rischio, nel 2019 il fenomeno appare più genera-lizzato e diffuso». Altro elemento interessante èche, mentre per otto anni il numero più alto divittime si è concentrato in America Latina, dal 2018il triste primato è passato al continente africanodove si contano ben 15 uccisioni avvenute in dieciPaesi. In otto Paesi d’America (tra Nord e Sud)sono stati uccisi sei sacerdoti, tra loro un diaconopermanente, un religioso, un religioso e una laica(12 vittime); in Asia una laica, in Europa una suora.Molte di queste morti sono state spesso conseguenzadi furti e aggressioni a scopo di rapina, rapimenti e »

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Il coraggiodi annunciareil Vangelo

IL MARTIROLOGIO FIDES DEL 2019

COME OGNI ANNO L’AGENZIA DI NOTIZIEDELLA CONGREGAZIONE PERL’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI PUBBLICAL’ELENCO DEI MISSIONARI E DELLEMISSIONARIE UCCISI NEL CORSO DELL’ANNOPRECEDENTE. SCORRENDO IL DOCUMENTO,SCOPRIAMO COME E DOVE SONO MORTIQUESTI FEDELI SERVITORI DEL VANGELO.

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C ome ogni anno, anche per la Giornata di preghiera edigiuno in memoria dei missionari martiri edizione

2020 è stato indicato un progetto di solidarietà da sostenerecon le offerte di chi vorrà contribuire. Stavolta si è scelto diaiutare i giovani di Taunggyi, in Myanmar, con l’obiettivo diprevenire la dipendenza da droghe tra bambini e ragazzi.Purtroppo in questa regione la produzione di stupefacenti ènotevole: secondo le Nazioni Unite, il Myanmar è il secondoproduttore di oppio (dopo l’Afghanistan) e il primo di anfe-tamine. Anche se una gran quantità di droga viene esportata,il problema della tossicodipendenza è molto diffuso tra lapopolazione birmana, soprattutto tra i giovani che abitanonell’area dove si coltiva l’oppio. La maggior parte dellepersone non è neppure a conoscenza dei rischi e delle con-seguenze che un tale consumo comporta, e quasi tutte le fa-miglie hanno almeno un membro con problemi di dipendenzada droghe.«Per i giovani la mancanza di orizzonti, futuro, formazione èun martirio. Ecco perché abbiamo scelto di sostenere que-sto progetto proprio in occasione della Giornata dei martiri»,spiega Giovanni Rocca, Segretario di Missio Giovani. In con-creto il sostegno prevede un piano per la prevenzione dalladipendenza da droghe che coinvolga: 24 studenti universi-tari che verranno formati sulla “teoria dello sviluppo emoti-vo e dell’attaccamento”; 10 operatori che parteciperanno aiworkshop; 4mila bambini e 1.250 adulti che parteciperannoalle sessioni di sensibilizzazione; 18 adulti che verrannoospitati alla House of Dreams nel corso dell’anno; 40 fami-glie con problemi legati all’abusoche riceveranno supporto psicolo-gico. A gestire il progetto è la onlusNew Humanity International fon-data dal Pontificio Istituto MissioniEstere (Pime) per implementareprogetti di sviluppo specialmentenei Paesi, come il Myanmar, dove imissionari non possono operaredirettamente a causa di ragionipolitiche.Non c’è dubbio che formazione,prevenzione e cura siano indispen-sabili per permettere ai giovani diavere dei sogni per il proprio futu-ro e per essere in grado di trasfor-marli in realtà. C.P.

guidava presso Makutano il 4 giugno 2019; donMichael Maingi Kyengo, rapito l’8 ottobre 2019, etrovato sepolto nei pressi del fiume Mashamba, aMakima, il 15 ottobre. Viaggio fatale anche per ilcappuccino Toussaint Zoumaldé, ucciso mentrerientrava nella sua Fraternità in Ciad, il 19 marzodello scorso anno. Ancora rapimenti in Congo, dovedon Paul Mbon è stato sequestrato tra il 28 e il 29giugno e il suo corpo è stato ripescato nelle acquedel fiume Sangha. In Uganda fratel Norbert Em-manuel Mugarura è stato ucciso il 3 luglio 2019

House of Dreamsin Myanmar

Don David Tanko

Suor InesNieves Sancho

Veduta di Taunggyi.

PROGETTO DI SOLIDARIETÀ

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E ra un interrogativo che ha fatto versare fiumi diinchiostro: conservatore o progressista? Lo si

scriveva di un vescovo diversamente giudicato, inun contesto difficile da decifrare. La chiave dilettura decisiva è stata quel pomeriggio del 24marzo 1980: quarant’anni fa. In una cappellaspoglia e lontano dalla folla, un solo colpo di armada fuoco gli squarcia il cuore: «Hanno assassinatol’arcivescovo!», la voce si sparge immediatamentenel piccolo Stato centroamericano dove già lo pro-clamano “san Romero d’America”, ma fuori – nelgrande mondo - il silenzio è assordante.Devo confessare che personalmente me ne sonoaccorto molto – troppo – tardi: qualche anno fapellegrinavo su quella terra intrisa del sangue diuno stuolo di martiri. Mi domandavo: «Dov’eravamonoi, occidentali, in quel tempo? Mentre bandearmate irrompevano negli ambienti parrocchiali efacevano strage di giovani riuniti per la catechesi,quale Vangelo annunciavamo? Dov’era la solidarietàumana e cristiana dell’Occidente? Di che cosa

tinua con don Nicolas Ratodisoa, morto in ospedaleil 14 febbraio per le ferite di una aggressionestradale; padre Landry Ibil Ikwel, ucciso il 19maggio in Mozambico per l’aggressione subita nellaComunità a Beira; suor Ines Nieves Sancho,religiosa spagnola di 77 anni, delle Figlie di Gesù,barbaramente assassinata il 20 maggio nel villaggiodi Nola, in Kenya. Impossibile non ricordare tutti icoraggiosi servitori del Vangelo che ci hanno lasciatoin eredità il marchio della loro fede, tra cui il gesuitaitaliano padre Paolo Dall’Oglio, rapito il 29 luglio2013 a Raqqa, in Siria, di cui si sono perse letracce; e la missionaria colombiana suor GloriaCecilia Narvaez Argoty, rapita l’8 febbraio 2017nel villaggio di Karangasso, in Mali, dal gruppo AlQaeda del Mali. M.F.D’A.

»

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di Sergio [email protected]

Padre ToussaintZoumaldé

Murales in ricordo di San Oscar Romero e padre Rutilio Grande, gesuita,assassinato il 12 marzo 1977 a El Paisnal, San Salvador.

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PELLEGRINANDO PER SAN SALVADOR

Romero,coerenza eimmolazione

A 40 ANNI DALL’ASSASSINIO DI MONSIGNOROSCAR ARNULFO ROMERO, LA FIGURA DEL“SANTO DE AMERICA” È PIÙ VIVA CHE MAI NELCUORE DEI FEDELI CATTOLICI. L’ATTUALITÀ DELSUO MESSAGGIO CRESCE DI GIORNO INGIORNO E LA CHIESA ATTINGE DAL SUOMARTIRIO LA FORZA PER IMPEGNARSI SEMPREDI PIÙ AL FIANCO DEGLI ULTIMI.

nel suburbio di Banda, Kampala, e in Costa d’Avoriouna laica, Faustine Brou N’Guessan, segretariadella parrocchia Sainte-Cécile du Vallon di Abidjan,è stata pugnalata a morte nell’ufficio parrocchiale il10 agosto 2019. L’elenco delle vittime africane con-

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erl’amore sconfinato di Dio nel quotidiano di sofferenzadegli uomini e donne del suo tempo; la stessaidentica passione per la pastorale popolare che siesprimeva in modalità differenti. Se i punti dipartenza erano diversi, la conclusione però è statala stessa: alle ore 17 del 12 marzo 1977 su unajeep viaggiavano diretti ad una celebrazione religiosaal Nord della capitale, padre Rutilio assieme al72enne Manuel Solorzano e al 17enne Nelson R.Lemus; tutti e tre vengono trucidati barbaramente.Erano nella località Tres Cruces del Comune di ElPaisnal. Sostarvi, incredulo e perplesso per la miaignoranza circa fatti tanto tragici, è stata una

ulteriore stazione dolorosa nelpellegrinaggio in El Salvador,trasformato in una inedita ViaCrucis. Lì ho scoperto l’influssodeterminante che l’assassiniodi padre Rutilio a pochi giornidall’ingresso in diocesi ebbe sulneo arcivescovo di El Salvador:una «svolta nella mia vita» lodefiniva lui stesso, «un particolaredono di fortaleza (fortezza) pa-storale» capace di fargli affron-tare con coraggio conflitti e per-secuzioni, senza vacillare davantial dramma di sacerdoti, catechistie fedeli torturati o uccisi, senzaindietreggiare di fronte alle divi-sioni laceranti che spaccavanoil Paese e la Chiesa salvadore-gna. Non c’è stato in Romeroun “colpo di fulmine” né una ca-

duta da cavallo sulla via di Dama-sco, ma una maturazione della coscienza, comeegli stesso spiegò al neo eletto pontefice GiovanniPaolo II.Così oggi è a tutti chiaro che il 12 marzo 1977 ed il24 marzo 1980, se il popolo e la Chiesa salvadoregnihanno perduto due testimoni, l’umanità ha guada-gnato due martiri. Le due date sottolineano ancheil percorso virtuoso dell’arcivescovo: quando nel1977 Romero arrivò a San Salvador come Pastore,era comunemente ritenuto un “conservatore”, sen-sibile ai problemi sociali ma molto legato alla istitu-zione ecclesiastica; in tre anni si è realizzata in luiuna totale evoluzione che supera le caratteristichedi quella che comunemente è definita “conversione”.Il suo modo di essere, pensare, credere, predicare,relazionarsi con la gente e trattare con i diversi po-tentati, lo ha radicalmente trasformato, ed è nato ilMartire, il Santo, il Difensore dei sofferenti, immagineviva dell’unico Liberatore dell’umanità di tutti i tempiche è il Cristo principe di pace.

erano preoccupate le cancellerie degli Stati?Romero, conservatore o progressista?». Questoera l’interrogativo di chi in quel tempo aveva giratola testa da altre parti, di chi aveva chiuso occhi,orecchi e cuore allo sterminio di uomini e donneche, alla prepotenza delle armi, opponevano ladebolezza del Vangelo della pace, della libertà,della solidarietà e del rispetto dei diritti dei poveri.La risposta l’ha data quella pallottola che, squarciandoil cuore dell’arcivescovo, ha messo in chiarol’intreccio malefico tra potere, interessi e oppressione.Il 24 marzo 1980 ha decretato la coerenza di unuomo e l’immolazione di un Pastore: la coerenzadi un uomo che vive la storia, el’immolazione di un Pastoreche costruisce il futuro.Oggi, nel 2020, la descrizionedel conservatore diventato pro-gressista non risponde più aifatti: Romero era un teologo,uno studioso del Vangelo, uninnamorato del Gesù liberatoree, nello stesso tempo, innamo-rato di una popolazione alla ri-cerca di liberazione totale e diun riscatto profondo.È stato illuminante per me, du-rante il breve ma intenso pelle-grinaggio in El Salvador, scoprirel’amicizia sincera e profondadi Romero con un altro martire,il gesuita Rutilio Grande: «Duevite intrecciate nell’impressio-nante analogia in vita ed inmorte: analogia nel carattere, nellavicenda umana, nell’apostolicità e nel martirio»(Spadaro-Tojeira). Due vite solo apparentementeseparate: Rutilio sceglie di vivere tra i contadininella parrocchia di Aguilares, e Romero senza en-tusiasmo accetta l’episcopato prima a Santiago deMaria e poi a San Salvador. Alla denuncia di politi-cizzazione nelle istituzioni educative dei gesuitianche nella Aguilares di Rutilio, Romero reagiscee salva il gesuita dimostrando esplicitamente lasua estraneità e il suo non coinvolgimento nellescelte di alcuni collaboratori; nel contempo, però,non esita a denunciare che la maggiore minacciaalla pace e alla giustizia nel Paese è dovuta aisoprusi del governo militare e al potere oligarchicoimperante. Romero e Rutilio avevano un forte en-tusiasmo apostolico, che si manifestava, però, informe diverse: una forte spiritualità, quella delvescovo teologo, che lo portava ad elevare uominie cose; una altrettanto intensa umanità, quella delgiovane gesuita, che si preoccupava di far scoprire

Don Sergio Marcazzani

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L’ utilizzo degli smartphone da partedei contadini etiopi, per migliorare -

attraverso il crowdsourcing, ovvero losviluppo di progetti - la previsione e l’in-cremento dei raccolti, conferma che laprincipale scommessa per la tecnologiadigitale è riscrivere la geografia dello svi-luppo economico che finora ha separatoi Paesi avanzati da quelli (perennementepurtroppo) in via di sviluppo.Segnali positivi già arrivano dall’Africa,dove, nonostante una penetrazione ancorainsufficiente (secondo Internet World

Stats gli utilizzatori di internet al 30 giugno2019 erano solo il 39,8 %), esistonorealtà come la Sheba Valley di Adis Abebain Etiopia, la Yabcon Valley di Lagos inNigeria o la Silicon Savannah di Nairobiin Kenia. La presenza di infrastrutture di-

di Michele [email protected]

Lo smartphone delcontadino etiope

UMANESIMO DIGITALE

gitali porta sviluppo e competenze e per-mette alle giovani generazioni di pro-grammare un futuro simile a quello deiloro coetanei in altre parti del mondo.Una sfida che, però, occorre gestire egovernare se si vuole che i cambiamentidiventino una concreta opportunità perridurre le disuguaglianze tra i Paesi delpianeta, senza comportare per gli Statipiù svantaggiati un inaccettabile inquina-mento della democrazia, con ripercussionisulla sovranità nazionale, a causa dellaenorme quantità di dati e informazioniche i loro cittadini rendono disponibili aigestori delle piattaforme web. I dati sonouna merce preziosa che le aziende utiliz-zano come leva principe per sostenere lacrescita dei business più vari. Peraltro insettori nei quali ci sono sostanzialmentedei monopoli non regolati: Google nellaricerca di informazioni, Amazon nell’e-

commerce, Facebook nei social network

e via di seguito. Di qui la preoccupazioneper gli equilibri dei sistemi democratici diquei Paesi. Se infatti nelle democraziemature la maggiore pluralità dell’infor-mazione costituisce pur sempre un con-trappeso ai tentativi, frequenti, di mani-polazione, le democrazie dei Paesi in viadi sviluppo sono molto più vulnerabilialla diffusione di contenuti falsi che, incontesti senza norme certe, diventanostrumenti incontrollati di propaganda po-litica, diretta e indiretta. Fino a rappre-sentare fattori di sovversione (vedi i di-sordini in Kenya nelle ultime due elezioni).Ben vengano dunque i programmi destinatia portare innovazione digitale (come ilprogetto di Google di realizzare una co-pertura wi-fi di tutta l’Africa con palloniaerostatici), purché non rappresentinouna nuova forma di colonizzazione conle piattaforme digitali usate come cavallidi Troia.

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lenta, rimuginata, sofferta. Durata ottoanni. L’effetto finale è di una immediatezzastraordinaria. Una storia che si dipanaveloce. I dialoghi sono freschi, il ritmoserrato. Si narrano le avventure di Fran-cesco, biologo e ricercatore di nuovespecie di rettili e anfibi, diretto alle TaitaHills, in Tanzania. Ad accompagnarlo,Angelo, medico della Cooperazione allosviluppo, professionista appassionato esgangherato essere umano. «Naturalmente i nomi non sono casuali:Angelo è un vero angelo custode perFrancesco, e lui rappresentasimbolicamente il santo diAssisi», spiega Alessandro. Chenon usa mai un linguaggioscontato o “confessionale”.La religione non trapela ne-anche un po’ dalle pagine diquesto libro. Non subito, al-meno. E il motivo è semplice:l’autore vuole raggiungeretutti, credenti e non credenti.Il suo è un occhio laico. «Nonvoglio entrare nella questionedella fede», dice.

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

Dai camaleonti a Diodi ILARIA DE BONIS

[email protected]

«Tutto è una grande rete doveogni organismo è connessoall’altro e lo stesso ciclodell’acqua non si compirebbe semancassero questi giganti dilegno». “Il Corno del camaleonte”,di Alessandro Pucci, è unromanzo di formazione. Un viaggio alla scoperta di sé.

Non si tratta di camuffare un sentimentoreligioso, ma di svelare le cose che contanodi più, usando una narrazione convincente.«Il protagonista fa un viaggio per ritrovarese stesso e sotto traccia incontra Dio. Èuna spoliazione che lo porta alle originidella sua umanità (come san Francesco,appunto). Non a caso proprio nell’AfricaOrientale, dove è nato l’uomo», spiegaAlessandro. E che cosa scopre? «Che lanatura non gli basta più». Quello cheprima lo appagava non è più sufficiente.Francesco è un alter ego molto vicino ad

«C’è qualcosa di divino nellarelazione; se ce ne scordia-mo rischiamo di perdere

tutto, anche il pianeta. Dio è Trinità, equesto vorrà pur dire qualcosa!». Siamoalle battute finali della lunga intervistacon Alessandro Pucci. Quarantuno anni,naturalista, insegnante di matematica escienze, consulente familiare, scrittore,disegnatore. Iniziamo parlando di natu-ra incontaminata e foreste; di Africaprimordiale, cascate meravigliose,camaleonti ed elefanti. E terminiamocol senso della vita. «Oggi più che maic’è un’esigenza di spiritualità - dice-.L’uomo si è stufato di ricercare il sensodelle cose nella scienza. Il rischio però èla deriva del panteismo». La chiave divolta può essere il ritorno all’uomo, pas-sando attraverso Dio.Alessandro ha appena pubblicato perProspero Editore il suo secondo libro, “IlCorno del camaleonte”, viaggio nell’Africanera. Il romanzo è frutto di una stesura

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padre Alex Zanotelli. «Nel 2001sono stato a Korogocho –racconta - La fede mi ha aiu-tato a non arrabbiarmi per ilresto della mia vita. Lì i poverinon ti lasciano dormire, te lisogni anche di notte. E tisenti responsabile di una in-giustizia che non è umana-mente possibile. Zanotelli cidisse: “Ricordate, bisogna darela vita per qualcosa che vale”.Questo mi ha profondamentetoccato».Successivamente Alessandro trascorreràotto mesi in foresta, in Tanzania, da solo,osservando specie animali. Ed è forseper questo che il suo occhio e la suapenna di narratore risultano depurati daqualsiasi forma di stereotipo. Il lettoreassapora un’Africa fresca, che respira,assieme al respiro degli alberi. Straordi-nariamente dignitosa.L’Africa di Pucci ha un odore: quellodelle foreste dopo la pioggia. Delle cascateal mattino quando l’acqua diventa unacatarsi. O della terra secca quando il solenon smette di battere.«Volevo che si capisse l’interconnessionetra le cose. Il sentirsi parte di un tutto.Che non è un panteismo della natura -“faccio parte dell’energia cosmica” - maancora una volta, una relazione. La sco-perta di essere tutti figli di Dio».«Dopo essere stato nella foresta così alungo ho capito che non avrei mai datola vita per la natura - dice -. I mieicolleghi lo fanno ed è molto gratificante.

Alessandro. Si muove con lo stupore diun bambino. Va per studiare camaleontie si ritrova a scoprire la potenza del-l’universo. L’autore passa con disinvoltura dal rac-contare con penna fluida un’Africa de-purata da ogni pregiudizio, al disegnaresulla carta e su lucidi baobab ed elefanti,camaleonti e capanne.In Africa è andato diverse volte, perstudio e per ricerca, dal 2000 in poi, maanche per fare volontariato. Fin da subitocompare infatti nel suo romanzo il mondovariegato delle ong della Focsiv. In Kenyae Tanzania Alessandro ha conosciuto me-dici, infermieri, progettisti della Coope-razione. E soprattutto missionari, come

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Intervista ad Alessandro Pucci

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Ma attingono alla creatura e non al crea-tore». Non si tratta di rinunciare a qualcosa,argomenta l’autore, ma di capire qual èil proprio desiderio più profondo. «Bisognasempre ridomandarsi: come posso spen-dermi oggi per qualcosa che vale davverola pena? In Africa io ho preso tantissimo,la mia restituzione è questo libro».Il senso dell’esistenza Alessandro lo hatrovato nel quotidiano: nell’insegnamentonelle scuole e soprattutto nella famiglia.Sposato con Monica, hanno due bambini:Clara e Samuele. Lui continua a portarela sua storia africana nelle scuole: “IlCorno del Camaleonte” è anche un pro-getto editoriale. «Terminato il libro hocapito che sotto traccia avevo usato ilparadigma dell’ecologia integrale di papaFrancesco. E questo è un canale comuni-cativo importante per i ragazzi. È unaecologia delle relazioni. Da preservarenon c’è solo il pianeta, ma ci siamo noi,con la nostra sacralità e la sacralità deltutto».

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guito, ortopedia, urologia e ginecologia,ed oggi l’ospedale di Tanguietà è il centrodi riferimento per una regione di 250milapersone. Non è un caso che riusciamo aparlare con fra Fiorenzo al termine diuna giornata con 12 ore passate in sala

aprirà i reparti nel 1970. «Ci è volutomolto lavoro e molta pazienza prima diottenere la fiducia della gente – ricordafra Fiorenzo -. La popolazione seguiva lostregone-guaritore, in forza delle proprieconvinzioni religiose feticiste ed era dif-fidente verso la novità portata dai bianchi».La svolta avvenne tra il 1979 e il 1980,quando una terribile epidemia di morbillofece morire cinquemila bambini nel girodi pochi mesi. «In quell’occasione la gentesi accorse che chi veniva in ospedale sisalvava, ed allora iniziarono a frequentarlocon regolarità».Ai primi servizi di medicina, chirurgia,maternità, pediatria, radiologia, laboratorioanalisi e farmacia, si aggiungono, in se-

D icono che l’abito non faccia ilmonaco, ma in questo caso sì.Quando indossa il camice e infila

i guanti sterili prima di entrare in salaoperatoria, fra Fiorenzo Priuli, religiosodell’ordine dei Fatebenefratelli, deveprima togliersi il saio. È lui il primario dichirurgia dell’ospedale Saint Jean de Dieua Tanguietà (nel Benin), una cittadina di60mila abitanti nell’altopiano di Atakora.Siamo ai confini con il Niger e l’AltoVolta (ora Burkina Faso), una terra aridae assetata, che risente come tutto ilSahel dell’influsso del deserto del Sahara.La stagione delle piogge dura solo quattromesi - tra Natale e Pentecoste - poiarriva la siccità che dura i restanti otto,e che mette a dura prova la salute ditutti gli abitanti, ma specialmente deibambini. In questa terra, alla fine deglianni Sessanta, i Fatebenefratelli, che giàavevano un ospedale in Togo, iniziano lacostruzione di un nuovo nosocomio, che

di MASSIMO [email protected]

Nella cittadina ai confinitra Niger e Burkina Faso, ifrati dell’ordine deiFatebenefratelli sonoimpegnati a curare lapopolazione dell’altopianodi Atakora. Fra FiorenzoPriuli racconta la sua gioiadi missionario e dichirurgo ortopedico nelcurare la gente a cui hadedicato la sua vita.

Dove i missionariindossano ilcamice bianco

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Nell’ospedale di Tanguietà

Italia. Prende la specializzazione in or-topedia ed è fra i primi al mondo adoperare poliomielitici paralizzati allegambe e a farli camminare di nuovo.Ma a Tanguietà è solo, e davanti a situa-zioni che non lascerebbero scampo amalati si trova ad operare di tutto.Inventa il “Cono di autoemorecupero”,brevettato dall’Organizzazione mondialedella sanità (Oms), per recuperare ilsangue durante le emorragie e restituirloai malati, e la stessa Oms lo convocaspesso a Ginevra come massimo espertodi una particolare forma di ulcera. Haricevuto la Legion d’Onore francese ed il

premio Cuore Amico, praticamente il“Nobel della carità e solidarietà cristiana”,ma non ha perso la disponibilità e l’umiltàche lo avevano spinto a fare il missionarioin Africa.Tra una confessione ed un intervento insala operatoria, fra Fiorenzo trova ancheil tempo di occuparsi di fundraising.«Qui non esiste un sistema sanitariocome il nostro, lo Stato ci riconosce unrimborso solo per i parti cesarei e siamoalla ricerca continua di benefattori –spiega fra Fiorenzo -. Per il clima parti-colare in cui ci troviamo, l’ospedale habisogno di frequenti manutenzioni edanche la vita ordinaria dei reparti è unproblema». Ora poi c’è la necessità dipotenziare il Pronto Soccorso. Ogni annol’ospedale riceve 20mila nuovi malati, dicui 15mila in emergenza. L’associazioneUniti per Tanguietà e Afagnan (UTA),che raccoglie fondi per i malati poveri diquesti due ospedali, ha già raccolto oltre500mila euro per questo scopo, ma nemancano ancora la metà per iniziare ilavori. «Sono sicuro che ce la faremoanche in questo caso – chiude fra Fiorenzo-. La Provvidenza non ci ha mai abban-donato e non lo farà neanche in questaoccasione».

operatoria. «Fare il chirurgo in Africa èun’esperienza incredibile – racconta ilfrate -. Si vive tra la gratificazione per levite che si riescono a salvare e la dispe-razione per le situazioni in cui non sipuò fare nulla, ma che avrebbero avutoun altro esito se si fosse intervenutiprima o se si fosse stati in Occidente».È una vita straordinaria quella che puòraccontare fra Fiorenzo. Arrivato in Africaper fare l’infermiere, è costretto da unatubercolosi a tornare in Italia. A casainizia a studiare medicina, che riesce aterminare facendo la spola tra i duePaesi. Lo studio in Benin e gli esami in

È una tradizione secolare quella che vanta l’ordine dei Fatebenefratelli nelmondo della sanità. Fu il suo stesso fondatore, San Giovanni di Dio, ad

erigere a Granada il primo ospedale, dopo aver conosciuto la realtà dei malatiemarginati o abbandonati a sé stessi. Era il 1539. Da allora le attività non hannocessato di crescere ed oggi l’ordine è presente in 13 nazioni dell’Africa, 11 del-l’America centrale e meridionale, otto dell’Asia e 16 di Europa ed America delNord. Le strutture sono 387: di queste, 84 sono centri ospedalieri, 59 servizisanitari di base, 64 servizi per malati mentali, 68 per disabili fisici, 39 per anzianie 73 di tipo socio-assistenziale. Nel 2017 i posti letto hanno raggiunto le 38.994unità, cosa che ha consentito 1.003.210 ricoveri.In Italia i Fatebenefratelli contano 28 centri, suddivisi quasi equamente tra laProvincia romana e quella lombardo-veneta. Tra questi, ospedali di eccellenzacome l’IRCCS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) di Brescia,specializzato nella riabilitazione psichiatrica e nella malattia di Alzheimer; el’ospedale San Giovanni Calibita - Isola Tiberina di Roma, punto di riferimentoper la maternità e l’ostetricia. M.A.

NEL MONDO PER CURARE I MALATI

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L e previsioni sono inquietanti: en-tro il 2030 si potrebbero avere135 milioni di profughi climatici

e, di questi, 60 milioni sono destinati aspostarsi dall’Africa subsahariana alNord Africa e all’Europa. L’azione com-binata di desertificazione, erosione esoil sealing – impermeabilizzazione deiterreni – interessa il 24% delle terreproduttive del pianeta, con ripercussioniper 1,5 miliardi di persone. Sulla basedei dati pubblicati dalla United NationsConvention to Combat Desertification(UNCCD, Convenzione delle NazioniUnite per combattere la desertificazione),

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di ROBERTO BÀ[email protected] nuova

agricolturasi chiamaIdroponica

Il cambiamento del clima è ormai una certezza e leconseguenze di questo fenomeno sonodrammatiche in numerosi luoghi del pianeta. In Africa ed in generale nel Sud del mondo daalcuni anni si assiste ad un drammaticoincremento delle terre colpite dalla siccità e dallaconseguente desertificazione. L’Idroponica in futuropotrà cambiare questi scenari.

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dai parassiti. I vantaggi per l’ambientesono grandissimi perché con l’Idroponicanon si usano diserbanti e sostanze chi-miche. Sebbene questa tecnica facciaricorso all’energia elettrica per l’attivitàdelle pompe e per l’eventuale illumi-nazione delle serre, grazie alle fonti al-ternative, come i pannelli solari, leemissioni di CO2 ed i livelli di inquina-mento prodotti sono molto bassi.Veronica Magli, Head of Sustainabilityand Social Impact di Bloom Project,una start up che si occupa di sistemiinnovativi per l’agricoltura del futuro,è impegnata nella realizzazione diun’importante serie di progetti di col-tivazione idroponica in diversi Paesidell’Africa subsahariana. «La nostraesperienza – spiega Magli – è nata nelsettembre 2017, dopo una ricerca durata18 mesi svoltasi in più di 12 Paesi.L’obiettivo dello studio era quello disviluppare e sostenere interventi concretiper favorire lo sviluppo sostenibile nelcampo dell’agricoltura, principalmentenei Paesi del Sud del mondo. I tre socifondatori di Bloom, Lorenzo Giorgi,Giacomo Battaini e Giorgio Giorgi, già

da anni erano protagonisti di un altroprogetto, Liter of Light, che si occupadi illuminazione sostenibile».

AGRICOLTURA FUORI SUOLOContinua la manager: «Ad un certopunto, nelle aree nelle quali eravamopresenti, i piccoli coltivatori non eranopiù in grado di produrre neppure quantoserviva loro per coprire il fabbisognoalimentare di famiglia ed erano quasialla fame. E questo, in un mondo nelquale quasi 800 milioni di persone (cioèpiù o meno un essere umano su nove)sono denutrite, è terribile». La deserti-ficazione ha conseguenze sociali gi-gantesche. Il 19 dicembre 2018, dopodue anni di negoziati, all’Assembleagenerale delle Nazioni Unite 164 governihanno approvato il Global Compactfor Migration, un accordo intergover-nativo (tuttavia osteggiato dagli Usadi Trump con Italia, Israele ed altri) fi-nalizzato all’obiettivo di rendere le mi-grazioni il più possibile ordinate, regolarie sicure. Da quel momento, numeroseorganizzazioni internazionali, visto l’im-patto sociale che producono, hanno

la perdita economica stimata è compresatra 1,5 e 3,4mila miliardi di euro, equi-valente al 3,3-7,4% del Pil mondiale.Porre argini a questo disastro, sempreche si riesca a rafforzare una volontàpolitica delle grandi potenze industrialial momento molto flebile, sarà il compitoche impegnerà ricercatori, cooperantie governi negli anni a venire. La man-canza o la sensibile diminuzione del-l’acqua disponibile per l’agricoltura èuno dei primi ostacoli da affrontare euna soluzione possibile esiste da secoli.Inventata dagli antichi Assiri e Babilonesi,ma riscoperta nel 1929 dal professorWilliam Frederick Gericke, fisiologo ve-getale dell’Università di Berkeley in Ca-lifornia, si chiama Idroponica. Di cosasi tratta? Di un metodo di coltivazionefuori dal suolo per mezzo del qualegrazie a sistemi di serre, tubi, invasi epompe è possibile un enorme risparmiodi acqua. In pratica le piante cresconoin una soluzione (acqua che contienenutrienti) con o senza l’uso di supportisolidi.

RISPARMIO DI ACQUANello specifico esistono due grandi ti-pologie di coltivazione idroponica: quellache impiega substrati, ovvero misceledi perlite, sabbia, argilla espansa, chevengono inumiditi e irrigati con acquae sostanze nutritive; quella senza sub-strato, dove le radici delle piante sonoimmerse direttamente nella soluzionenutritiva.I vantaggi offerti da questa tecnicasono evidenti. È possibile coltivare ovun-que, all’aperto o al chiuso ed anche inverticale, risparmiando così anche moltospazio. Il sistema permette un controlloefficacissimo del consumo d’acqua edil riutilizzo di quella in eccesso dopol’irrigazione, e nello stesso tempo per-mette di gestire in modo mirato, piùefficace e senza sprechi le sostanzenutritive necessarie per far crescerebene le piante. Infine, è facilitato ancheun controllo maggiore dei danni prodotti

Coltivazioni vegetali alternative

»

Coltivazioneidroponicadi pomodoria Bingerville,Costa d’Avorio.

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con Andrea Giro, un ricercatore delDipartimento di Agronomia, Animali,Alimenti, Risorse Naturali e Ambientedell’Università di Padova – ricorda Magli- e abbiamo scoperto che loro eranogià avanti con l’Idroponica. Lui in par-ticolare se ne era occupato osservandoattività al Cairo e in Palestina e cosìnel 2017 abbiamo stretto un accordocon il suo istituto per attivare una ri-cerca della durata di un anno e da noifinanziata ed abbiamo lavorato su unprimo prototipo che abbiamo chiamatoAgritube, un circuito di tubi forati col-legati ad una vasca nei quali passaacqua in circolazione continua, spintada una pompa alimentata ad energiasolare. Con questo sistema si cambial’acqua una o due volte al mese, mavolendo anche meno, e se ne risparmiacirca il 90% rispetto ad una coltivazionetradizionale. Durante l’anno di ricercae sviluppo abbiamo coltivato insalata,cavolo, piante da foglia tipiche del-l’alimentazione dell’Africa subsahariana

cominciato a premere per includere trai motivi di migrazione anche siccità,desertificazione e innalzamento deimari. Oggi l’obiettivo finale di attribuireuno status legale ai migranti climaticiappare ancora lontano, ma non irrag-giungibile.«Un modo importante per cercare diaffrontare le conseguenze della impro-duttività dei campi – insiste VeronicaMagli - è l’agricoltura fuori suolo, l’Idro-ponica. Ma abbiamo visto che la tecnicanon riusciva ad affermarsi. A Dakar,per esempio, si vedono giardini sui tetticon installazioni di questo tipo, perònei contesti rurali il sistema non pene-trava. Ci sono i kit di Idroponica che sitrovano in vendita persino su internet,ma hanno un costo estremamente alto.Noi abbiamo avuto l’idea di progettaredegli apparati semplificati, realizzaticon materiali semplici e reperibili inloco».La strategia scelta da Bloom Project èstata chiara: «Siamo entrati in contatto

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ Coltivazioni vegetali alternative

e poi peperoncino e fragole».Bloom Project alla fine del test ha co-minciato a partecipare ai bandi dellaCooperazione e a diffondere il progetto.Siamo molto contenti: dopo una primainstallazione di verifica in Kenya, staper partire la costruzione di una rete inSenegal. È in fase di elaborazione unprogetto in Madagascar e con altreong piemontesi si sta studiando unamissione in Tanzania. Il Marocco hachiesto un prototipo di Agritube e sista chiudendo un altro accordo con laFacoltà di Agraria dell’Università di Bo-logna, già impegnata nel Sud-est asia-tico. Magli, però, avverte: «È importantestudiare come le comunità reagisconoe come si appassionano a questa inno-vazione. Gli impianti idroponici sarannocostruiti insieme alla popolazione equindi noi crediamo che i contadini,coinvolti direttamente nell’opera, avran-no una maggiore disponibilità nell’ac-cettare il cambiamento. L’innovazionecresce dove si lavora insieme».

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per poi dedicarsi agli sfollati della guerracon l’Urss. Intenzionato a tornare inpatria dopo sei, sette anni, il mediconon lascia più l’Afghanistan aprendodue ospedali negli anni Novanta e af-frontando poi una nuova battaglia:quella contro la malnutrizione, che luiidentificava come la radice di tutte lepovertà. Negli ultimi anni, anche a se-guito della siccità che ha colpito la re-gione, il medico si è focalizzato suiproblemi idrici, ispirandosi ai canali ar-tificiali che, 200 anni prima, i suoi an-tenati avevano costruito in Giapponesenza poter contare su grandi tecnolo-gie.A Nangarhar, dal 2008, Nakamura co-ordinava i progetti dell’ong nipponicaPeace Medical Service, avendo sostituitoun connazionale rapito e ucciso. A dareancora più forza ai progetti di irriga-zione, aveva dato impulso alla costru-zione di 11 dighe sul fiume Kunar.«Missili e carrarmati non sono la solu-zione. Il rilancio dell'agricoltura, invece,è la pietra angolare della ripresa del-l'Afghanistan».Con tanto bene seminato, il dottor Na-kamura era inevitabilmente entrato nelcuore degli afghani tanto da meritarsil’affettuoso soprannome di “zio Murad”.Nell’aprile dello scorso anno il presidenteAshraf Ghani gli aveva conferito la cit-tadinanza onoraria. Dopo la sua morte- a cui i talebani si sono detti estraneie che potrebbe invece essere attribuitaa cellule dello Stato Islamico - il por-tavoce dello stesso presidente ha definitol’assassinio «un atto vergognoso e co-dardo contro uno dei più grandi amicidell’Afghanistan», ricordando con com-mozione un uomo che «ha dedicatotutta la sua vita a cambiare le vitedegli afghani».

di STEFANO [email protected]

Dal Giapponeper aiutarel’Afghanistan

Tetsu NakamuraBEATITUDINI 2020

H a fatto fiorire il deserto, lette-ralmente. In un’ampia zona delNangarhar, la regione afghana

con capoluogo Jalalabad, dove primac’erano sassi e terra arida, oggi ci sono24mila ettari di foreste lussureggiantie campi di grano. È stato forse il suodono più prezioso, o almeno il più visi-bile, tra i tanti, frutto dei 36 anni tra-scorsi in questo Paese così diverso dalproprio, il Giappone. Ma tutto questo

non è bastato a salvare Tetsu Nakamuradalla violenza cieca del fondamentalismoche ancora infesta il Paese asiatico. Il 4dicembre dello scorso anno è statoucciso insieme ad altre cinque personein un agguato premeditato e sinoraimpunito.Nato nel 1946, laureato in medicina,Nakamura era arrivato in Afghanistannel 1984 come volontario di un’asso-ciazione cristiana, la Japan OverseasChristian Medical Cooperative Service:la sua prima missione, a Peshawar, erastata quella di curare i malati di lebbra,

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L’altra edicola

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LA NOTIZIA

LE MANIFESTAZIONI DEGLISTUDENTI A TEHERAN, TRAGENNAIO E FEBBRAIOSCORSI, IN PIENA CRISI USA-IRAN, HANNO RIACCESO IFARI SULLA SOCIETÀ CIVILEIRANIANA. MA ILCOMPLESSO SISTEMASTATALE IRANIANO HASERRATO I RANGHI E ALLEULTIME ELEZIONI HAELIMINATO MOLTI DEICANDIDATI RIFOMISTI.

di ILARIA DE [email protected]

P oche settimane prima del voto che avrebbe dovuto ridisegnare ilvolto del Parlamento iraniano, era già chiaro che i cosiddetti “riformi-sti” avrebbero perso la battaglia. E non perché non avessero sosteni-

tori, ma perché sono stati in gran parte eliminati dalla competizione ancorprima di iniziare. I principali organi di stampa internazionali – dal Guardianal Financial Times, dalla Reuters alla tv panaraba Al Jazeera e ad Al Moni-tor – per giorni hanno denunciato la “grande purga” del Consiglio dei Guar-diani della Rivoluzione. Quest’organismo costituzionale dello Stato, compo-sto da sei teologi e sei giuristi, scelti indirettamente dall’ayatollah, ha messoil veto su almeno 90 parlamentari, la maggior parte dei quali moderati. Mai numeri delle “bocciature” sono davvero elevati: in totale, su 16mila candi-

IRAN, LA DÉBÂ

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dati, circa novemila sono stati squalificati, scrive Radio Farda.È da notare però, che il concetto di riformismo in Iran non cor-risponde affatto a quello che comunemente intendiamo noiin Occidente. La corrente politica riformista va contestualiz-zata in un sistema statale complesso, di stampo conservatore,sì, ma comunque non dittatoriale.«La narrazione che la propaganda occidentale propone dellasocietà iraniana è banalizzante e non aiuta a comprendere –ha dichiarato al giornale on line Ortica Lab, il docente di sto-ria e filologia della civilizzazione islamica a Teheran, RaffaeleMauriello - Gli iraniani non sono sottomessi al potere, parte-cipano alla vita politica, si candidano e, un po’ come i fran-cesi, sono abituati a scendere in piazza per protestare». Eperò certo che con il deteriorarsi delle relazioni diplomaticheUsa-Iran, le istituzioni si sono irrigidite e il sistema si è com-pattato in funzione di maggior controllo delle libertà civili.Tant’è che gli studenti sono scesi ripetutamente in piazza ele manifestazioni della società civile si sono fatte più accese.«L’assassinio del generale Soleimani è il più grande favore chegli Stati Uniti potessero fare al sistema iraniano – dice anco-ra Mauriello - il più grande favore che potessero fare ai con-servatori iraniani, dopo la decisione di uscire dall’accordo sulnucleare. In questo modo hanno compattato ulteriormente ilsistema, unito ulteriormente la società iraniana».Già nell’ottobre 2018, Maral Karimi per Al Jazeera scriveva:«The reformist project in Iran is dead», ossia il progetto rifor-mista è morto. Di che riformismo si tratta? Il «movimentoriformista sta rapidamente perdendo legittimità e rilevanza,soprattutto ora che la cittadinanza vede che non è poi cosìdifferente dalla leadership conservatrice. La realtà sul campoin Iran, ancora una volta, svela l’errore di valutazione nel

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didature. Ma la purga quest’anno è con ogni probabilità lapeggiore mai vista dai tempi della Rivoluzione del 1979». Ilche fa riflettere sulle possibili conseguenze.Il Financial Times analizza il caso dell’esclusione di AliMotahhari, un parlamentare considerato riformista, ma noncerto antiregime. È stato un sostenitore della Rivoluzioneislamica (che trasformò la monarchia in Repubblica islamica)ed è figlio di una guida religiosa, eppure anche lui è statofatto fuori dalla tornata elettorale. «Sono preoccupato per ilfuturo della rivoluzione islamica – ha detto Motahhari alFinancial Times - Quest’approccio del Consiglio dei Guardianirestringerà ancora di più la libertà di parola e la possibilitàper le persone di determinare il proprio destino». MohammedAtrianfar, attivista politico e giornalista a capo del quotidia-no indipendente e riformista iraniano Shargh, ha detto che«tutti i fattori politici indicano che l’Iran si sta muovendoverso un sistema autoritario».Interessanti le analisi di due periodici americani come il NewYorker e il The Conversation che fanno notare come gli Stati

semplificare il binomio “moderati vs integralisti”».Tornando alle elezioni, i criteri di selezione dei candidati afebbraio scorso, sono stati molto stringenti, non ammetten-do divergenze dalla linea ufficiale: la fedeltà all’islam e allaRepubblica islamica è tra i primi elementi di valutazione perogni candidatura.Alcuni organi di stampa occidentali hanno voluto intravede-re pericoli anche per l’accordo nucleare. The Guardian èapparso preoccupato per una eventuale marcia indietrorispetto agli impegni già assunti. Tanto che in un pezzo data-to 9 febbraio titola: “La purga verso i riformisti potrebbecondannare l’accordo sul nucleare”. «In tutte e dieci le torna-te elettorali, dal 1980 ad oggi – scrive il quotidiano - ilConsiglio dei Guardiani ha rifiutato circa un 15-49% di can-

Uniti, in questi anni, anziché combattere l’Iran sul piano eco-nomico, aumentando le sanzioni e mettendo il Paese in seriadifficoltà, avrebbero dovuto sostenere gli studenti e glioppositori politici iraniani. I manifestanti di Teheran sonostati lasciati soli: non c’è stato alcun sostegno da parte digoverni o fondazioni straniere. Il New Yorker titola: “Theanger and anguish fueling Iran’s protests”, la rabbia e losconforto che alimentano le proteste in Iran. I giovani in Iran non sopportano più le bugie di Stato e vor-rebbero trasparenza e riforme. È con loro che bisognerebbestare, anziché contro un intero Paese, boicottato da anni disanzioni e limitazioni internazionali. Il popolo iraniano soffreun isolamento che non ha meritato. E per rinnovare la poli-tica ha bisogno di alleati.

Elezioni politiche e proteste

ÂCLE DEL RIFORMISMO

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MO(n)DI DI DIRE

«U na cosa che ho imparato subito della Tanza-nia è la natura incredibilmente accogliente del-

la sua gente. Da quando sono arrivata, ogni perso-na che ho incontrato mi ha accolto come un mem-bro della famiglia, a casa, nel negozio o a scuola. Ka-ribu (benvenuto in kiswahili) deve essere la parolapiù comune qui e questa natura accogliente, da quel-lo che posso vedere, è una parte importante dellacultura». Inizia così, su un articolo pubblicato da ANS(Agenzia Info Salesiana), la testimonianza in ingle-se di una giovane che partecipa al progetto di vo-lontariato salesiano dell’Ispettoria della Gran Breta-gna “Bosco Volunteer Action”.Rebecca potrebbe avere molti altri nomi. Chiunquesia anche solo passato dall’Africa, infatti, ha avutola grazia di sentirsi subito a casa. Karibu o, al plu-rale, karibuni è il primo approccio, la chiave di ac-cesso dove non ci sono porte chiuse.Il kiswahili o swahili è la principale lingua bantu, par-lata in Africa orientale, centrale e meridionale (Tan-

zania, Kenya, Uganda, ecc.). Si tratta di circa 110 mi-lioni di persone che, ogni giorno, ne incontrano un’al-tra e le dicono «benvenuto/a», in una dimensionesemplice e pura di ospitalità. È un’espressione mol-to utilizzata ma per nulla scontata, come ricorda dopotanto tempo padre Fernando Paladini, per 25 anniin missione, quando la Repubblica Democratica delCongo si chiamava ancora Zaire. Cambiano i nomi(e le vicende) dei Paesi, ma le parole importanti diuna lingua e di una cultura restano. «E restano im-presse, insieme agli abbracci che accompagnava-no i saluti della gente africana», aggiunge il missio-nario della Consolata.È così anche per padre Stefano Camerlengo, dal2011 superiore generale dello stesso Istituto: «Ka-ribu è una filosofia di vita, un messaggio positivo chepassi alle persone e al mondo, una trasmissione dilinfa vitale». Ci spiega che si dice anche per dare laparola e per richiederla, per attirare l’attenzione suun punto, un problema, una situazione. «È l’espres-sione più usata perché in Africa non ci può esserevita se non insieme. È mettere l’altro al centro, far-lo sentire il benvenuto; è disponibilità a far entrarequalcuno nella nostra vita». A dargli tempo e farglispazio. Padre Stefano l’Africa la conosce bene e sache «fra le tante parole importanti, occupa un postod’onore perché dice, in sintesi, quello che è una cul-tura quando si fa accoglienza». Tant’è che anche albambino appena nato si dice: «Karibu, benvenutoal mondo! Sentiti a casa! Questa è casa tua!».

KARIBU,benvenuto!

Ci sono parole oespressioni che apronomondi: di valori,atteggiamenti, approccialla vita. In ogni numeroapprofondiremo modi didire diversi, attraversandopopoli e culture dei cinque continenti eattingendo all’esperienzadiretta di persone del luogo, missionari,volontari, migranti.

di Loredana Brigante

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supio, avvolto e legato sulle spalle, haun bambino con una mascherina sani-taria che gli copre il naso e la bocca. Lagiovane volontaria deve quasi trascinarela mamma per farla giungere fino ame. I volontari mi dicono: «Padre Angelo,aiutala, ha molto bisogno, te l'affidia-mo!» e vanno via sorridendo, rincuo-rando la donna.La ragazza è seduta sulla panca, il capobasso, i lunghi capelli che le scendonosul volto. Prendo dalla sacrestia dellecoperte e vi sistemo sopra il bambino.La donna timidamente inizia a parlare:«Ho 22 anni, sono di Tacanà, mi chiamoPatricia e mio figlio Alan Fernando hadue anni ma è malato di leucemia». Uncolpo al cuore, un pugno nello stomacoe il sangue si gela nelle vene. Penso: «Èterribile! Tanti, troppi bambini sono af-fetti da questa orribile malattia... Signore,aiutami! Aiutami ad aiutare!».Patricia continua il suo racconto: «A19 anni ho conosciuto Marino, l'amoredella mia vita. Ci siamo innamorati eamati tantissimo: era un ragazzo

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«No, non ci si abitua mai aldolore, alla sofferenza, allamiseria, alla fame, alla

morte... soprattutto a quella dei bam-bini!». Tante volte ho dovuto dare que-sta risposta, spiegare che i poveri nonstanno "comodi" nella loro condizione:vorrebbero reagire, combattere, lottarecontro una vita dura, miserabile, unavita che li schiaccia ogni giorno e cheli fa camminare su strade piene di osta-coli spesso insormontabili. I poveri nonsi abituano, ma hanno il coraggio disperare sempre in un mondo diverso,un mondo dove le persone siano tutte

Posta dei missionari

»

La speranza è ilcoraggio dei poveri

uguali, dove ogni risorsa possa esseredistribuita in maniera equa ad ogni po-polo, dove vi siano il rispetto per l'uomoe per la natura, la giustizia e la pace. Ipoveri non si abituano a essere soli, ab-bandonati, discriminati, non curati:muoiono prima di morire, conoscono ilsapore e il valore delle cose anche se ildolore è il loro compagno di viaggio.

PATRICIA E ALAN FERNANDOÈ un pomeriggio come tanti altri. Mitrovo davanti all'altare quando sentoche qualcuno entra in chiesa. Mi voltoe vedo un gruppo di volontari dell'As-sociazione Hermana Tierra, che colla-borano con me per la tutela delle fa-miglie povere. Uno di loro tiene permano una giovane donna che nel mar-

a cura diCHIARA PELLICCI

[email protected]

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in tanti ma pur sempre rischiando, unavolta giunti in Messico, di essere presie rispediti indietro in quanto clandestini,o nel peggiore dei casi, arrestati e messiin prigione, per poi essere rimpatriati.In tanti – continua Patricia - avevamopassato la frontiera: eravamo stanchi,sporchi, sfiniti, demoralizzati, ma nonancora sconfitti. Quanto abbiamo pre-gato, quanto abbiamo supplicato perchépotessimo giungere fino a Cancun! Eroallo stremo delle forze, avevo pauradei controlli, mi lasciai cadere a terra edissi: “Marino, amore mio, non ci vo-gliono, torniamo indietro... Sai, avreivoluto dirtelo in un altro momento:sono incinta, aspettiamo un figlio!".Marino mi abbracciò, mi strinse a sé emi disse: "Patricia, questo è il dono piùbello, più grande che Dio poteva farci.E sai perché proprio in questo momento?Perché vuole darci la forza per andareavanti, la forza che scaturisce dall'amoreche già proviamo per questa creatura".

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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Mi prese la mano e mi trascinò non soper quanto tra i sassi, sotto la pioggiae improvvisamente avvenne il miracolo:eravamo arrivati a Cancun, senza chenessuno ci fermasse. Sento ancora lastretta della mano di Marino nella mia,non mi avrebbe lasciata mai».

DA CANCUN A TACANÀA Cancun i due giovani trovarono lavoroin un ristorante e questo permise lorodi affittare una camera dove poter dor-mire e finalmente mangiare. «A 20 anni,con l'aiuto di Dio, dopo un parto difficile,diedi alla luce Alan Fernando: era il 26maggio 2017. Eravamo poveri, ma felici.Marino lavorava tantissimo, svolgevaanche le mie mansioni perché dovevobadare al bambino. Ogni momento rin-graziavamo Dio per averci benedettocon la nascita di Alan. La nostra gioia,però, durò poco: quando Alan compìsei mesi, Marino ebbe un malore, lo

pieno di attenzioni e con un animodolcissimo. Desiderava donarmi unavita diversa da quella che avevamoavuto nelle nostre famiglie. Eravamoentrambi poveri, senza un lavoro, senzauna casa e così decidemmo di emigrarein Messico a Cancun. Avevamo pauradi affrontare il durissimo viaggio, diattraversare il deserto e soprattuttoavevamo il cuore attanagliato dalla tri-stezza al pensiero di dover lasciare lanostra terra. Abbandonare le nostre fa-miglie e i nostri amici è stato straziante,ma non avevamo altra scelta: il nostrofuturo senza un lavoro sarebbe statoimpossibile. Ci prendemmo per mano edicemmo addio a tutti e a tutto».

DA TACANÀ A CANCUNIl viaggio fu faticosissimo. «Abbiamocamminato fino a consumare le nostrescarpe, poi, finalmente, la frontiera. Unpassaggio senza controlli, senza militari,un punto cieco dove riescono a passare

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No, non può morire senza battesimo!Corro per il corridoio del reparto: l'in-fermiera chiama il cappellano dell'ospe-dale che accorre immediatamente e inextremis gli amministra il sacramento.Ho pregato fino allo sfinimento e permiracolo, perché di miracolo si tratta,Alan è uscito fuori pericolo. Sono cadutain ginocchio e ho ringraziato il Signoretra lacrime e preghiere. In ospedale glihanno dato una terapia: continuamentedevo portare il piccolo nella capitale.Padre Angelo, la mia famiglia è poverae per andare e venire ci vogliono moltisoldi e una notte di viaggio. Non ab-biamo denaro per le cure! Inoltre mihanno detto che ci vorrebbero altri in-terventi con macchinari e farmaci chenella capitale non hanno. Aiutatemipadre, aiutate il mio bambino a nonmorire!».Patricia alza il capo che per tutto iltempo del racconto ha tenuto basso.Una forza d'animo traspare da quellosguardo, una speranza, l'unica che latiene ancora viva: spera in qualcunodisposto a condividere con lei queldolore così grande per una mamma. Lastringo in un abbraccio: ogni parolasarebbe inutile e superflua. Ho il cuorein gola: ha solo 22 anni, ha vissutol'impossibile e ora ancora una tragedia

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da affrontare. Prendo fiato e la rassicuro:«Patricia, ora non sei più sola, io e imiei ragazzi ti accompagneremo ovun-que sia necessario e Dio farà in mododi aiutarci ad incontrare le personegiuste e a trovare i mezzi per curaretuo figlio». Telefono ai volontari cheprontamente vengono a prendere ladonna per accompagnarla all'ospeda-letto. Salgo sull'altare e mi siedo difronte alla croce: Gesù è lì, sofferente,ha le braccia spalancate e dice: «Vieni,non temere! Ho sofferto tanto e capiscociò che provi. Io sono con te, sanerò letue ferite. Abbi fede, abbi il coraggio disperare. Il vero miracolo è credere nel-l'impossibile».Alan, con il suo dolore, ci spinge acamminare sul sentiero della solidarietà,perché il suo desiderio è vivere. La do-manda di papa Francesco (per la scorsaGiornata mondiale dei poveri, ndr) devemetterci in discussione: «Ho un amicopovero?». Diventiamo tutti amici diAlan! Regaliamogli la vita... Sì, aveteinteso bene: non vuole un cellulare, ungiocattolo, un capo firmato, le scarpealla moda. Questo bimbo vuole vivere!

Don Angelo Esposito, missionario

fidei donum della diocesi di Napoli

Tacanà (Guatemala)

Posta dei missionari

portai in ospedale dove gli diagnosti-carono un'epatite fulminante. Non ebbineanche il tempo di stringerlo tra lebraccia. Marino se ne è andato così.Non sapevo cosa fare, così decisi ditornare a Tacanà dalla mia famiglia.Piansi per tutto il viaggio: ero disperata,ma sapevo che Dio era con me, che miavrebbe donato la forza per affrontareogni cosa. Una volta a casa, tra lelacrime, abbracciai i miei cari».

LA CROCE E LA SPERANZAAveva appena compiuto un anno, quan-do un giorno Alan si sentì malissimo.Gli fu diagnosticata la leucemia e datoun solo giorno di vita. Racconta ancoraPatricia: «In quel momento le mie gambesono scosse da un tremito irrefrenabile:mio figlio morirà come è morto suopadre... Poi un altro pensiero agghiac-ciante: Alan non è stato battezzato.

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O Parasite

una narrazione ironica che alterna tensioneda thriller ad annotazioni sociali. Semprecol cellulare in mano, i quattro membridella famiglia Kim - Ki-taek (l’attore SongKang-ho), sua moglie Chung-sook (HyaeJin Chang), il figlio Ki-woo (Choy WooSik) e la figlia Ki-jung (Park So–dam) -abitano in un seminterrato dei quartieripoveri della capitale sudcoreana. Vivono,o meglio sopravvivono, facendo piccolilavori temporanei, dato che sono tutti di-soccupati e passano le giornate montandole scatole di cartone per le pizze daasporto. Nel povero appartamento infestatodi insetti, la preoccupazione dei ragazzi èquella di agganciarsi a sbafo a qualche

rete wi-fi dei vicini per poter usare icellulari ed essere in contatto colmondo.Ma un giorno la sorte bussa allaporta della loro catapecchia e unamico offre a Ki-woo di fare lezionidi inglese ad una ragazza dei quartierialti. La famiglia Park è molto ricca,vive in una splendida villa costruitada un architetto sulla collina di Seul,e la signora (interpretata dalla popolareattrice Yoe-jeong Jo) è una donnaingenua, annoiata, servita e riveritadalla governante e dall’autista. PerKi-woo è una gita in paradiso e, di-ventato insegnante privato dell’ado-lescente, subito si ingegna a costruireuna complessa messa in scena persistemare tutta la famiglia, all’insaputadi mr e msr Park. Papà Ki-taekdiventa autista, la sorella viene as-sunta come insegnante di disegnodel piccolo Park, mentre la vecchia

governante viene licenziata di botto e so-stituita da mamma Chung-sook. Finalmentequattro stipendi, sembra un sogno. Iltutto però ad un prezzo che si rivelerà il

I l mondo dei ricchi, il mondo deipoveri: due universi separati da

distanze siderali, acuite dalle impla-cabili leggi della globalizzazione. Inquesti scenari illuminati dalla luceazzurrina degli schermi degli smar-

tphone, chi non produce si ritrovaai margini del sistema, come un pa-rassita costretto a vivere di espedientio a cercare una tana in cui nascon-dersi come uno scarafaggio. Maanche i ricchi, prigionieri delle lorobelle case, hanno problemi a com-prendere ciò che accade al di fuoridella bolla d’aria del lusso. Su questocanovaccio si dipana la trama di“Parasite”, il film del regista sudco-reano Bong Joon-ho, vincitore diben quattro premi nell’ultima nottedegli Oscar hollywoodiani (migliorefilm, regia, film internazionale, sce-neggiatura originale). Primo film inlingua straniera a vincere la presti-giosa statuetta d’oro, “Parasite” ha raccoltoun notevole paniere di riconoscimenti tracui una Palma d’oro al Festival di Cannes2019 e un Golden Globe, mettendo inscena la lotta di classe a Seul attraverso

VITE AI MARGINI DELLAGLOBALIZZAZIONE

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costo fatale di una truffa. Tutti e quattroquando sono al lavoro devono fingere dinon conoscersi, ma c’è qualcosa che litradisce: un odore che emana dai loroabiti e che sa di saponi a poco prezzo, dimuffa, di metropolitana. Una “puzza” chea pelle ribadisce la lontananza dei recintidi provenienza: quello dei poveri che en-trano nel cerchio delle vite “perfette” deiricchi. Per la famiglia dei neoassunti nonresta che festeggiare alla grande, e l’oc-casione arriva quando i padroni di casa

decidono di andare al cam-peggio per un fine settimana.Mentre la “servitù” al com-pleto si ubriaca nel grandesalotto affacciato sul giardino,la vecchia governante riap-pare al videocitofono dellavilla. Supplica, chiede di en-trare, ha lasciato qualcosadi suo in cantina. In realtà sidirige in un sotterraneo creatocome bunker antinucleare

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dall’architetto che ha costruito la casa.«Sì, è un bunker, come ce ne sono tantisotto le ville dei ricchi di Seul, luoghisicuri dove potersi rifugiare in caso di at-tacchi nucleari da parte della Corea delNord» spiega la vecchia governante chenel sotterraneo tiene nascosto da anni ilmarito disoccupato, nullafacente, parassitaappunto. Finché lei aveva servito pressoi Park, l’uomo di notte saliva per mangiare,per incontrare la moglie, ma rimasto solo,rischiava di morire di fame. Qui scoppiala guerra tra poveri: si scattano foto suicellulari, si minacciano, si viene alle mani,fino alle peggiori conseguenze a cui ine-vitabilmente si arriva con l’improvvisorientro degli ignari padroni di casa. Colpadelle piogge monsoniche che hanno fattostraripare i fiumi e allagano i quartieribassi della città. Quando Ki-taek riesce atornare a casa, fradicio di pioggia, troval’appartamento completamente allagato,i pochi arredi distrutti, l’impatto con lamiseria e la fragilità della loro vita reale è

molto duro. Di qui in poi il film prende unaltro passo narrativo e si trasforma intragedia (ma non racconteremo gli eventiperche “Parasite” è un’opera da non per-dere). Possiamo dire invece che la sce-neggiatura ha qualche pennellata auto-biografica, perché il regista Bong da gio-vane aveva lavorato, grazie alla presen-tazione di quella che sarebbe poi diventatasua moglie, come insegnante privato peruna ricca famiglia di Seul. Dopo averefirmato film di qualità come Snowpiercer

(2013) e Okja (2017 per Netflix), Bongha cominciato il lungo lavoro sulla sce-neggiatura di questo film che ora vede ilsuo trionfo internazionale. Nei suoi film ilregista sudcoreano punta l’obiettivo sullecondizioni di vita e le aspirazioni dei piùpoveri, dei lavoratori, degli emarginati,celebrando la loro resilienza e i tentatividi riscatto, anche se finiti male come nelcaso di “Parasite”.

Miela Fagiolo D’Attilia

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P agine di sangue nel più piccolo Stato dell’America Latina:El Salvador. Un muro di granito di 70 metri di lunghezza

e tre di altezza ricorda, nella capitale San Salvador, le oltre30mila vittime della repressione; i loro nomi sono incisi amemoria dei massacri dei militari e degli squadroni dellamorte che si sono susseguiti nell’ultimo ventennio del Novecento.Nel 2004 i Francescani salvadoregni hanno inviato a GiovanniPaolo II i nomi di 102 assassinati in difesa della fede e dei dirittiumani. Sono i martiri per la giustizia, simboli di un nuovo modellodi santità, sottolinea nella prefazione padre José Maria Tojeira.Le persecuzioni in El Salvador si sono protratte per quasi 15anni comprendendone 11 di conflitto sociale. Una lunga catenadi odio e violenza contro chi si era impegnato cristianamente afianco dei poveri e chi chiedeva giustizia e rispetto dei dirittiumani. Sacerdoti, laici, campesinos, insegnanti, leader politici esindacali, torturati, assassinati o fatti scomparire da un regimeche si dichiarava cristiano e affermava di lottare contro la sov-versione.Anselmo Palini, nel suo libro “Una terra bagnata dal sangue.Oscar Romero e i martiri di El Salvador”, oltre alla vicenda dimonsignor Oscar Romero, ricostruisce altre storie a nome ditutte quelle vittime che invece sono destinate a rimanere nel-

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C ostruire un’altra società fondata su re-gole economiche più sobrie che ri-

spettino il pianeta. È questo l’obiettivo dellibro di Gennaro Sanniola e Carmela Ta-gliamonte, “Vivere insieme con stile nuovo”,una sorta di piccolo manuale d’istruzionidestinato ai giovani che vogliono sposarsie creare un nuovo nucleo familiare. È su diloro che bisogna puntare per fermare il di-lagante inquinamento ambientale e migliorarela qualità di vita in termini di benessere esalute.Anche il magistero pontificio negli anni siè interessato al problema della progressivadistruzione ambientale e nel 1991 san Gio-vanni Paolo II affermò nell’enciclica Cen-

tesimus Annus che un reale cambiamento

LIB

RI

a basso consumo idrico. Si possono ridurrei consumi elettrici sostituendo le vecchielampadine con quelle a led o abbassandola temperatura dei locali anche solo di ungrado centigrado. Si può avere più rispettodell’aria preferendo le auto elettriche a quelletradizionali, andando più in bici e facendolunghe passeggiate a piedi. L’elenco deicomportamenti da mettere in atto per viveremeglio è lungo, anche nelle relazioni inter-personali, recuperando quei rapporti dalvivo che aiutano a superare la solitudineed incoraggiano la convivialità. L’uomo ela famiglia non sono soli in questo processodi cambiamento. Anche la scuola, la Chiesa,lo Stato devono contribuire affinché la co-struzione di un mondo più pulito, ecologicoe sano sia possibile.

Maria Lucia Panucci

l’anonimato: quella di padre IslandOctavio Ortíz, attivo nella formazionespirituale dei giovani; quella di padreRutilio Grande, particolarmente vi-cino ai campesinos; quella di Ma-rianella García Villas, presidentedella Commissione per i diritti umani; quelle di Ignacio Ellacuriae di cinque padri gesuiti dell’Università Centroamericana.Don Vicente Chopin, dell’Università Salesiana di San Salvador,nella postfazione scrive che, per quanto possa sembrare para-dossale, «ci sono morti che generano speranza, come la mortedei profeti e quella dei martiri». La speranza restituisce dignitàalla vittima: «Il sangue dei martiri è stato sparso, ha fecondatola terra e quindi viene il momento della raccolta. Possiamoassistere ora alla magnifica opportunità di rifondare la Chiesasalvadoregna a partire dal sangue versato».

Chiara Anguissola

Anselmo Palini

UNA TERRA BAGNATA DAL SANGUE OSCAR ROMERO E I MARTIRI DI EL SALVADOREdizioni Paoline - € 16,00

I martiri di El Salvador

Gennaro Sanniola e Carmela Tagliamonte

VIVERE INSIEME CON STILE NUOVOPER VIVERE IN FAMIGLIA STILI DI VITA SOBRI E SOLIDALIArcidiocesi di NapoliCentro missionario diocesano

Pocheregole pervivere meglio

era possibile solo con l’impegno di tutti nelmettere in discussione il proprio stile di vitaed avviarsi ad un uso responsabile dei con-sumi.Poche semplici regole ogni giorno possonofare la differenza in tutti i campi. L’importanteè iniziare. Si può, per esempio, prestarepiù attenzione all’acqua che è un bene pre-zioso e non va sprecato, facendo doccebrevi al posto del bagno o scegliendo lavatrici

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L a mbira è uno strumento tipico del-l’Africa subsahariana. È composto da

una serie di lamelle metalliche posizionatesu una tavoletta di legno e la cui vibrazione,ottenuta tramite i pollici, genera un suonoche lontanamente ricorda uno xilofono oqualcosa a mezza via tra un’arpa e deicampanellini. Ne esistono di diverse forme,dimensioni e materiali, ed è uno strumentoantichissimo, utilizzato nei riti della tradizioneanimista, anche se ne esiste una versionemoderna denominata array mbira.La mbira è lo strumento base della musicapopolare dello Zimbabwe ed ha tra i suoimaestri Hope Masike, una 35enne pro-veniente da Harare, la popolosa capitaledel Paese. Nata in una famiglia numerosa(otto figli, fra fratelli e sorelle), Hope ècresciuta intrisa nella cultura della suagente, approfondendone i risvolti nellematerie più diverse: dall’antropologia el’etnologia fino alla giurisprudenza, masenza mai perdere l’amore per le proprieradici e sognare un’Africa finalmenteemancipata e pacifica.Lo Zimbabwe, come molti altri Paesi del-l’Africa meridionale, è nel pieno di questoprocesso, reso più complesso dalla con-vivenza di diverse culture (basti dire cheha tre lingue ufficiali e 13 idiomi locali),un passato di colonialismo (era la vecchiaRhodesia di Cecil Rhodes) e i travagli del-l’indipendenza riconosciuta solo 40 anni

fa, cui seguirono gli anni bui di Mugabe eil colpo di Stato del 2017. Sulle scene dauna dozzina d’anni, Hope ha tre album al-l’attivo e in bacheca premi prestigiosi comeil Kora (una sorta di Grammy Awards pa-nafricani) ed alterna l’attività solista a quelladi leader della band dei Manoswezi. Il suoultimo album, pubblicato qualche mesefa col titolo di The exorcism of a spinster

(L’esorcismo di una zitella), è un suggestivomix di sonorità, melodie ancestrali e ritmifolk pop. Dodici frammenti di sapore eso-tico che tuttavia racchiudono anche con-tenuti profondi: «È un album intriso di de-siderio e speranza – ha dichiarato di recente– con brani come Dreams of Dande incui prego Dio e gli affidotutto ciò che è mio per-ché se ne prenda curaper illuminare il mio per-corso, mentre in Tona-

naira esprimo tutta la fi-ducia e il mio ottimismoper il futuro dell’Africa.Sento i nostri antenatiinvitarci a trovare la no-stra Terra Promessa ea ribellarci contro le in-giustizie. Come artistaed espressione del miopopolo, creo musicache faccia pensare, mami va bene anche che

HOPE MASIKE

MU

SIC

A

La principessadella mbira

ci sia chi l’ascolta semplicemente per di-vertirsi».Le canzoni di Masike in effetti conquistanofin dal primo ascolto, con i ritmi intriganti,i cori, le vocalità inconfondibilmente afro,e lo stesso vale per i videoclip coloratissimima che, non di rado, esprimono le mille-narie sofferenze del suo popolo. Buttatel’occhio a quelli di Ndinewe e di Mbira

Gospel che trovate sul web, e avrete laperfetta sintesi dell’anima bipolare di Hopee della sua Africa, dove struggimento egioia di vivere s’intersecano continua-mente.

Franz Coriasco

[email protected]

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Un abbonamentospeciale

VITA DI mIssIo

56 POPOL I E M I SS I ONE - M A R Z O 2 0 2 0

Versare la quota dovuta sul conto

corrente postale n. 63062327

intestato a MISSIO oppure

tramite bonifico bancario su c/c

intestato a Missio – Pontificie

Opere Missionarie presso Banca

Etica, cod. IBAN: IT 03 N 05018

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MODALITÀ DI VERSAMENTO

“Il Ponte d’Oro” per i sacramenti dei ragazzi

È consuetudine di tutte le parroc-chie fare un piccolo dono airagazzi che celebrano un sacra-

mento, che sia la Prima Confessione oComunione oppure la Confermazione.In genere viene regalato un oggetto(icona, rosario, ecc.) che troppo spessofinisce in un cassetto, dimenticato daltempo e sepolto da altre decine dicose.In occasione della celebrazione di un sa-cramento, la Fondazione Missio propo-ne un regalo speciale: si tratta di un ab-bonamento annuale al mensile per ra-gazzi “Il Ponte d’Oro”, un regalo che sirinnova di mese in mese per 10 numericonsecutivi.Ogni bambino riceve il primo numerodella rivista direttamente dalle mani delparroco o del catechista il giorno stes-so della celebrazione del Sacramento,come dono per quanto vissuto. Dal nu-mero successivo, poi, ciascun ragazzo ri-ceverà a casa propria la copia del gior-nale: un modo per tenere in allenamen-to di mese in mese gli occhi e il cuoreaperti sul mondo, imparando a fare te-soro di quanto insegna il Vangelo.

Il costo degli abbonamenti è a carico del-la parrocchia, ma il prezzo proposto dal-la Fondazione Missio è davvero specia-le (paragonabile a quanto si può spen-dere per l’acquisto di un oggetto comeun’icona). È importante sapere che dopol’invio dei 10 numeri, a ciascun abbona-to verrà proposto di rinnovare l’abbona-mento: chi lo farà, continuerà a riceve-re la rivista; per gli altri, l’abbonamen-to si concluderà senza niente in sospe-so, né dovuto.Per attivare gli “abbonamenti Sacramen-ti” occorre che un rappresentante dellaparrocchia effettui un versamento del-la cifra dovuta secondo le modalità in-dicate nel box (6 euro per il numero deibambini che celebrano il Sacramento) einvii per e-mail all’indirizzo [email protected] i seguenti dati:

1. copia del versamento effettuato, in-dicando nella causale ABBONA-MENTI SACRAMENTI;

2. elenco completo degli indirizzi deibambini a cui spedire la rivista (dal se-condo numero in poi);

3. indirizzo della parrocchia (e un reca-pito telefonico per la consegna) a cuispedire il pacco con le copie del pri-mo numero;

4. data della celebrazione del sacra-mento (per far arrivare il pacco in tem-po utile).

Si noti che la proposta è solo per i bam-bini che celebrano un sacramento: nonsono previste deroghe, né l’offerta èestendibile ad abbonamenti per cate-chisti/adulti.

Costi - Una proposta speciale prevede prezzi speciali (molto più bassi del costo standard dell’abbonamento). Per saperne di più, contatta la Redazione scrivendo a [email protected]

Come ricordo del Sacramento celebrato, fai un regalo che si rinnova di mese in mese per un anno!

Idea - In occasione di Prime Confessioni e Prime Comunioni, regala IL PONTE D’ORO!Come ricordo di quanto celebrato, anziché un oggetto che spesso finisce in un cassetto, laparrocchia può donare un regalo che si rinnova di mese in mese per un anno: l’abbonamentoa ciascun ragazzo.

Significato - Un modo per tenere gli occhi e il cuore aperti sul mondo, imparandoa far tesoro di quanto insegna il Vangelo.

Modalità - L’invio del primo numero avverrà in un unico pacco, recapitato in parrocchia,perché il giorno della celebrazione del Sacramento il parroco possa consegnare a mano ad ogniragazzo una copia della rivista. Dal mese successivo, ogni ragazzo la riceverà a casa propria.

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1,40

PER CATECHISTI E PARROCI

PROPOSTA SPECIALE

PER I SACRAMENTI

DEI RAGAZZI

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Missione andata e ritorno

di LOREDANA [email protected]

GIORGIA RODA, FIDEI DONUM PER LA DIOCESI DI REGGIO EMILIA

Q uando, nel 2005, il film d’ani-mazione “Madagascar” uscìnelle sale, Giorgia Roda era una

bambina. Oggi ha 24 anni e proprio lìha vissuto un’esperienza missionaria diun anno per conto della diocesi di Reg-gio Emilia, come laica fidei donum, puressendo originaria di Bologna. Partitail 20 febbraio 2018 per la diocesi di Fia-narantsoa, nel distretto di Manakara, èrientrata il 19 gennaio 2019: il tempogiusto per capire quanto la realtà sia di-versa da un cartone animato. Ed anche

cordi. Quelli di un Paese «la cui ricchez-za è la filosofia del “mora mora”: si vivealla giornata confidando nella Provvi-denza, sempre con il sorriso». Un Ma-dagascar di cui, oltre ai frutti tropica-li, le mancano il calore e il senso di co-munità: «È un aspetto che credo man-chi anche alle pastorali delle nostreChiese, dove ci si sente invincibili da solie spesso ci si dimentica di quanto è bel-lo essere in comunione con gli altri econdividere». È la lezione che GiorgiaRoda ricorda meglio, anche ora che ètornata dalla sua famiglia e ha ripre-so a studiare (frequenta il corso di lau-rea magistrale in Antropologia cultu-rale e scrive per un giornale on line).Lontana dalle aule universitarie e da-gli agi della sua generazione, in mez-zo all’Oceano Indiano, ha fatto l’espe-rienza tutt’altro che virtuale dell’esse-re Chiesa in uscita: «Portare un pezzodi sé e perderlo lì, mischiato con quel-li degli altri. Spalancare le porte e la-sciare entrare. Poi, camminare ed an-dare ad incontrare pensieri diversi,mettersi in ascolto e creare qualcosa dinuovo, sinergico e condiviso».

dalle idee iniziali.«Nonostante i tanti mesi dipreparazione, ci sono coseche ti sono chiare soloquando le vivi in primapersona», spiega. «E l’esse-re fidei donum è una diqueste, perché capisci diavere una sorta di respon-sabilità rispetto alla Chie-sa che ti ha mandato e undovere nei confronti diquella che ti accoglie».Ad Ampasimanjeva, Giorgia,laureata in Scienze dellacomunicazione, era respon-sabile del progetto “Salutemadre-figlio” in collabora-

zione con il reparto ostetrico della Fon-dacion Medicale; e tutte le mattine, alCentre Papillon, con un’altra missiona-ria laica (Giulia), si occupava dellecure dei tubercolotici.Non ha altri termini di paragone, ma saper certo quanto «la diversità in ambi-to missionario» sia «una ricchezza, percui una giovane donna laica dà un con-tributo differente da quello di unuomo adulto consacrato, ma ugual-mente importante e necessario».Le sue idee sono chiare, come i suoi ri-

Dal Madagascar sempre col sorriso

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della moda tenuti da alcunimembri della Rete #human-firsts. L’obiettivo 12 - con-sumo e produzione respon-sabili – ci ha permesso diconoscere più da vicino ilmondo dei jeans che tanto cipiace indossare. A differenzadel denim degli anni della suainvenzione, viviamo oggi itempi della fastfashion, lamoda del «lo indosso duevolte e poi ne compro un al-tro» a discapito di una filierache indubbiamente mette indiscussione noi stessi (che in-dossiamo capi che nuoccionoalla nostra salute) e anche unsistema basato su un’econo-mia di sfruttamento dellepersone e dell’ambiente.Successivamente Silvia Sca-ramuzza ci ha presentato unnuovo modo di fare moda:Silvia fa parte di ProgettoQuid, una cooperativa socialeche produce capi di abbiglia-mento recuperando tessuti in

eccesso e dando lavoro “agli ultimi”,un’iniziativa che merita di essere co-nosciuta e abbracciata.La giornata di domenica ci ha per-messo di soffermarci sul tema del-l’Economia del Bene Comune. MartaAvesani, vicepresidente della Federa-zione dell’Economia del Bene Comunein Italia, che partecipa anche all’incon-tro di fine marzo ad Assisi “The Eco-nomy of Francesco”, ci ha coinvoltoattraverso simulazioni e giochi diruolo, nella presa di coscienza cheun’economia corresponsabile verso lepersone e l’ambiente è possibile se cia-scuno impegna un po’ delle proprieforze verso il bene comune.

Eleonora Borgia

zione e animazione sull’educazionealla mondialità e all’intercultura.Attraverso la tecnica del Kahoot –gioco-quiz interattivo, molto interes-sante soprattutto per l’approccio conle nuove generazioni – nella matti-nata di sabato Lucia Vesentini e Fran-cesca Dal Ben, membri dell’équipe diAgorà della Mondialità, ci hanno aiu-tato a conoscere e ad analizzare i 17obiettivi dell’Agenda 2030. Con datialla mano inerenti agli ambiti di cia-scun punto, abbiamo spaziato dai temidella salute a quelli della povertà, dal-l’ambiente alla parità di genere.Il pomeriggio è stato caratterizzato dalaboratori creativi e interattivi sui temi

Agorà della Mondialità a VeronaVITA DI MISSIO

P O P O L I E M I S S I O N E - M A R Z O 2 0 2 058

C ome cambierà il mondo neiprossimi 10 anni? Siamo prontia mettere in gioco un po’ di

noi stessi per il bene di tutti? Sonoqueste le domande che hanno caratte-rizzato l’incontro nazionale di Agoràdella Mondialità, svoltosi a Verona neigiorni 25 e 26 gennaio scorsi, sul tema“L’Agenda 2030 delle Nazioni Uniteper lo sviluppo sostenibile e in partico-lare l’Obiettivo 12: Consumo e produ-zione responsabili”.Il week-end di formazione ha vistoprotagonisti rappresentanti dei Centrimissionari diocesani, di Istituti mis-sionari e ong che nelle scuole e nelleparrocchie svolgono attività di forma-

Sfogliamol’Agendadel futuro

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È la rivista che dà voce ai Paesi del Sud del mondo e

alle giovani Chiese,raccontando le mille storie che

arricchiscono il grande libro della missione. In una società globalizzata

tenersi informati su cosa accade al di là delle nostre frontiere è un diritto-dovere di ognuno,

per essere in grado di raccogliere le sfide del futuro.

È la rivista che dà voce ai Paesi del Sud del mondo e

alle giovani Chiese,raccontando le mille storie che

arricchiscono il grande libro della missione. In una società globalizzata

tenersi informati su cosa accade al di là delle nostre frontiere è un diritto-dovere di ognuno,

per essere in grado di raccogliere le sfide del futuro.

Sessantacinque pagine a colori fanno di questa rivista - ricca di analisi, reportage,interviste, testimonianze da ogni angolo remoto del globo - una finestra aperta sul mondo.

Abbonati per un anno versando 25,00 €sul conto corrente postale n. 63062327 intestato a Missio.

Abbonati per un anno versando 25,00 €sul conto corrente postale n. 63062327 intestato a Missio.

È possibile anche effettuare abbonamenti collettivi per più copie della rivista, spediteall’indirizzo di una sola persona che si incarica di consegnarle personalmente agli altriabbonati, al costo annuale è 20,00 €.

Richiedi una copia omaggio a: [email protected] sfogliare un numero arretrato vai sul sito: www.missioitalia.it

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L a terra rossa sotto i piedi stanchi e ruvidi, la polveretrafitta dai raggi ardenti, le spighe di grano cullate dal

vento gelido, le stelle che pizzicano l’intera volta celeste,gli occhi di chi, invece di una lacrima amara, riesce a do-nare un dolce sorriso.Ci troviamo a Kisinga, un villaggio nel distretto di Maketenel Sud della Tanzania. A più di duemila metri sopra il li-vello del mare, un’epidemia di Hiv ha sterminato la mag-gior parte della popolazione medio-adulta nei primi annidel 2000 lasciando oltre 600 bambini orfani, soli o con inonni malati di cui prendersi cura.Nella foto, 15 anni dopo, due donne tanzaniane portano30 chili di mattoni in testa verso il cantiere: hanno inizioi lavori alla Guest House, il mio primo progetto di architet-tura, una casa che ospiterà decine di volontari ogni annospinti dalla curiosità di toccare con mano la realtà missio-naria.La missione nel villaggio di Kisinga è nata in seguito ad unsogno, un progetto più grande di noi rivelatosi nel tempopossibile grazie anche a Deborah, una missionaria laicatanzaniana che ha lasciato la sua realtà benestante e hadeciso di dedicare la sua vita intera agli orfani del villag-gio. Oggi vive in una casa-famiglia in mezzo alle monta-gne di Kisinga con una decina di bambini orfani ed è unamamma meravigliosa. Non è necessario avere un legamedi sangue per creare una famiglia. A volte le sofferenzenon sono semplicemente fogli bianchi ma tele per dipin-gere, non sono ferite ma feritoie per la luce, non sonovuoti da colmare ma spazi per costruire.È iniziata così la mia esperienza in Tanzania; grazie a Fe-derico, Francesca, Giuseppe e Lucia, fondatori dell’asso-ciazione “Venite e Vedrete Onlus”, grazie a quella curio-sità di scoprire la realtà missionaria, grazie ad unachiamata alla quale non puoi dire di no, grazie a quellavoglia di dedicare agli altri la cosa più preziosa che ab-biamo: il nostro tempo. Perché in fondo, oltre a farequalcosa per l’altro, a volte è più importante essere qual-

di Emanuel Jicmon

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#COSTRUISCI#COSTRUISCIcuno per l’altro,e nella nostra so-cietà oggigiornopurtroppo nondiamo molta im-portanza a que-st’ultimo aspetto.Abbiamo bisogno,quindi, di costruirepiù legami con glialtri, abbiamo biso-gno di costruire piùponti e meno muri,abbiamo bisogno dicostruire più strade e camminare per mano a piedi nudi,lentamente, per ricominciare ad ascoltare il ritmo delcuore. Bisogna fare silenzio per poter udire i battiti, ipropri e quelli degli altri. Capisci a fondo che, a prescin-dere dalla condizione sociale e dal colore della pelle, ilcuore che batte nel mio petto è identico a quello chebatte nel tuo, e che nelle mie vene scorre lo stesso san-gue che scorre nelle tue. Purtroppo, spesso, si ha pauradi chi apparentemente può sembrare diverso. C’è unastrada infatti che va dalla mente al cuore e a volte non ba-sta una vita per percorrerla. Perché in fondo ci è dato untempo limitato per amare, in altre parole per vivere; e nonvivere appieno ogni singolo istante significherebbe sem-plicemente ucciderlo. La vita non è stare comodi, e viverecomodi non significa vivere veramente. La vita è amare,andare incontro all’altro, costruire relazioni. Se vivi sola-mente per te stesso non sarai mai felice appieno perchécercherai sempre di soddisfare un bisogno ma subitodopo ne avrai un altro. Vivere per sé stessi rende l’uomoinsaziabile, infelice oppure soddisfatto per un tempobreve. Ma vivere per gli altri è tutta un’altra storia: quandoci si dona agli altri la felicità è condivisa, la felicità è per-manente e si moltiplica.

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Un hashtag per ogni mese

Gennaio 2020

Febbraio 2020

Novembre 2019

Marzo 2020 (Quaresima)

Aprile 2020

Dicembre 2019 (Avvento/Natale)

Maggio 2020 (Pentecoste)

E sulla Missione Giovani Dashboard,

l’itinerario per giovani e adolescenti,

trovi spunti per l’animazione

missionaria nella tua realtà.

www.mgd.missioitalia.it

Contest Missio Giovani

SOCIALOgni mese una foto

sarà pubblicata su

Popoli e Missione

1 - Segui @missio.giovani su Instagram e Facebook2 - Like all’ultimo post pubblicato3 - Pubblica la tua foto con l’hashtag del mese e tagga

@missio.giovani4 - Lo scatto migliore sarà pubblicato su Popoli e Missione e

sulle nostre pagine accompagnato dalla storia che racconta

COME PARTECIPARE:

VITA DI MISSIO

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Intenzioni missionarieM A R Z O

I N T E N Z I O N E D I P R E G H I E R AM

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di MARIO [email protected]

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La Chiesa del Regnodi mezzo

“AFFINCHÉ LACHIESA IN CINAPERSEVERI NELLAFEDELTÀ ALVANGELO E CRESCANELL’UNITÀ

della Chiesa in Cina. Abbiamo uncompito importante: accompagnarecon fervente preghiera e con fraternaamicizia i nostri fratelli e sorelle inCina. Infatti, essi devono sentire chenel cammino, che in questo momen-to si apre di fronte a loro, non sonosoli. È necessario che vengano accol-ti e sostenuti come parte viva dellaChiesa. Ogni comunità cattolica lo-cale, quindi, si impegni a valorizzaree ad accogliere il tesoro spirituale e cul-turale proprio dei cattolici cinesi. Ègiunto il tempo di gustare insieme ifrutti genuini del Vangelo seminatonel grembo dell’antico “Regno diMezzo” e di innalzare al SignoreGesù Cristo il canto della fede e delringraziamento, arricchito dalle freschenote autenticamente cinesi.

Secondo fonti ufficiali, la Chiesacattolica in Cina è formata da cir-

ca quattro milioni di fedeli. Il dato,però, riguarda gli aderenti all' “Asso-ciazione patriottica dei cattolici cine-si”, la sola Chiesa cattolica riconosciu-ta dal governo. Altri parlano di unapresenza che sfiora i 45-50 milioni dicredenti. Comunque, anche tenendopresente altre minoranze cristiane, iltotale non si discosta di molto da quel-lo indicato.Purtroppo la Chiesa cattolica in Cinasi presenta divisa: accanto a quella “uf-ficiale” i cui vescovi fanno capo al go-verno di Pechino, dal quale ricevonoil mandato e che segue tutte le loro at-tività pastorali, i credenti sono moni-torati da vicino in tutti i loro movi-menti.Esiste, però, un’altra Chiesa, che po-tremmo definire delle “catacombe”,dove gerarchia e fedeli non fanno ri-ferimento al governo cinese ma alpapa. Questa Chiesa non ha modo dimanifestarsi pubblicamente, ma atten-ti analisti della realtà cinese afferma-no che il giorno in cui sarà possibileper questi fedeli praticare il culto cat-tolico alla luce del sole, sarà una sor-presa per molti vedere la consistenza

numerica di questa comunità cristia-na che praticamente ha vissuto perlunghi decenni (e tutt’ora vive) nel-l’anonimato più completo.Recentemente la Santa Sede ha firma-to un accordo col governo di Pechi-no per la nomina condivisa dei vesco-vi. L’accordo è considerato storico: ilgoverno cinese, che ha perseguitato icattolici per decenni, da alcuni annipermette loro solo il culto liturgico al-l’interno dell’ “Associazione patriot-tica dei cattolici cinesi”, controllatadallo Stato, anche se nel contempomolti altri credenti frequentano conmolta discrezione la Chiesa “sotterra-nea”.In ogni caso, tutti siamo chiamati ariconoscere tra i segni dei nostri tem-pi quanto sta accadendo oggi nella vita

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di GAETANO [email protected]

P O N T I F I C I A U N I O N E M I S S I O N A R I A

La missione?È un colpo di Grazia

Perù, per Chavín de Pariarca, un pae-se a tremila metri, sulle Ande peruvia-ne. Il lavoro era tanto, i paesi a cui at-tendevo erano più di 30, divisi in cin-que comuni su una superficie gran-de come la Valle d’Aosta».

DUE INCONTRI COMEDUE SCINTILLE!Nel raccontare questo primo passag-gio peruviano, gli occhi di padreEsteban brillano. Questa luce che col-go nel suo sguardo è il segno più pa-lese che la missione fa sempre brec-cia nel cuore di chi si lascia educaree guidare da un’esperienza fortemen-te vitale. Non c’è teoria o conferen-za che tenga di fronte ai sentieri »

Incontrare padre Esteban Moriniè abbracciare un uomo appassio-nato del Vangelo, è ascoltare un

missionario infaticabile nell’annunciodel Regno, è confrontarsi con un fra-tello che ama la sua terra, dove vivee opera; è camminare con un amicoche sa mettersi a fianco di ogni vitae di ogni storia. «Il Signore è stato in-finitamente buono con me - dice pa-dre Morini - ponendo nel mio cam-mino tante persone con un cuoregrande che mi hanno profondamen-te arricchito, a partire anche da chi miha ordinato presbitero. Era il 1990quando l’arcivescovo Ersilio Tonini haposato le mani sul mio capo, un gran-de uomo innamorato di Dio che miha trasmesso e donato veramente tan-to». Il suo primo impegno ministeria-le lo svolge come vicario parrocchia-

le nella parrocchia di San Biagio a Ra-venna per circa sei anni, successiva-mente assume la parrocchia di SanGiuliano Martire, un paese tra le pro-vince di Ravenna e Ferrara. «Nel 2002una finestra bellissima si apre nella miavita: accolgo la chiamata missionariache da tempo coltivavo e parto per il

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sulle tracce della missione di padre Ba-diali. L’esperienza di quei primi gior-ni passati sulle Ande a stretto contat-to con quelle persone, con la loro po-vertà e semplicità, diedero al prete ra-vennate il “colpo di Grazia”.

A SERVIZIO DELLA REALTÀDIOCESANARientrato da Chavín de Pariarca,padre Esteban porta la sua esperien-za nel Centro missionario diocesano,cerca forme nuove per invitare i gio-vani a scoprire la missione. Nel frat-tempo è amministratore nella parroc-chia di San Severo e consegue il dot-torato in Teologia. Da questo primopassaggio in Italia da prete viandan-te, comprende molte cose: «Davantial calo delle vocazioni in Italia si pen-

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sa a unire parrocchie, a fare unità pa-storali, vendere chiese… ma credo chela sfida più grande sia quella di esse-re innanzitutto testimoni gioiosi del-la propria appartenenza ecclesiale e poiannunciatori convinti e coerenti del-la bellezza del Vangelo. Così pensoquanto sia importante che l’esperien-za della missione dovrebbe far partedel programma di tutti i Seminarid’Italia, senza eccezioni. Così comeuno scambio fra Chiese sorelle dovreb-be essere un elemento di ogni dioce-si: è nel donarsi che si cresce».

LA RIPRESA DELLA STRADARacconta ancora: «Sono ripartito peramore della missione, ho ripresoquella strada perché quelle due scin-tille sono più che mai accese in me.Oggi sono nella periferia Nord diLima, parroco di Jesús Misericordio-so, una nuova parrocchia che avrà cir-ca 30-40mila abitanti. Abbiamo co-minciato a gennaio 2016, costituen-do appunto questa nuova realtà eccle-siale priva di tante strutture e senzaidentità. Negli ultimi anni, insiemealla gente abbiamo camminato tan-to sia nella costruzione degli ambien-ti per accogliere le persone, sia nell’es-sere una comunità cristiana di disce-poli missionari. L’idea principale èquella di crescere insieme con i variministeri parrocchiali e i vari gruppie movimenti presenti in parrocchia,cercando di vivere il Vangelo e di te-stimoniarlo con la nostra vita. I pro-getti concreti per il 2020 sono due:continuare l’evangelizzazione casaper casa che abbiamo cominciato l’an-no scorso e costituire la Caritas par-rocchiale perché vada cercando le si-tuazioni di povertà che la periferia diLima molte volte nasconde». Il pro-getto è appena iniziato, ma l’entusia-

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calcati, ai lunghi saliscendi andini pervisitare comunità. «Due sono stati gliincontri fondamentali, e ognunoporta il nome di una persona. Il pri-mo – racconta il missionario - è sta-to con padre Dante Barbanti, sacer-dote diocesano di Ravenna per 40anni missionario in Brasile a Candi-dio Mendes nel Maranhão. Andai atrovarlo nel 1997 e lì scoccò la primascintilla per la missione. L’anno suc-cessivo venni invitato ad andare inPerù dove era stato ucciso padre Da-niele Badiali, sacerdote diocesano diFaenza. Studiammo contemporanea-mente a Bologna, nel seminario arci-vescovile; la sua esperienza era legataall’ “Operazione Mato Grosso”». È quiche scoccò la seconda scintilla per pa-dre Esteban, proprio quando si mise

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T ra il 2002 e il 2013, il Perù si è distinto come uno dei Paesi più dinamici del-l’America Latina con un tasso di crescita medio del Pil del 6,1% annuo. Per dare

un’idea, basti pensare che l’Italia durante il suo boom economico degli anni Ses-santa raggiunse il livello record del 6% di crescita del Pil. Tra il 2014 e il 2018, l'espan-sione dell'economia è rallentata a una media del 3,2% annuo. Eppure nonostantequesta crescita la povertà non è scesa di molto, anzi assai poco, e sicuramenteper niente proporzionata alla ricchezza che ha prodotto il Perù. Perché? La rispo-sta è una sola: la causa è in buona parte la corruzione. Nella graduatoria annualedi Transparency International del 2019, il Perù occupava il 101esimo posto tra lenazioni maggiormente condizionate da questo problema. Attualmente tutti gli ulti-mi cinque presidenti o sono in carcere, o agli arresti domiciliari, o ricercati dallagiustizia, o sotto processo per corruzione.Una corruzione, dunque, che è presente in tutti i settori della vita sociale, nella po-litica in primis, ma anche nella giustizia, nelle forze dell’ordine, nell’educazione, ecc.Sono attualissime le parole di papa Francesco quando dice che «la corruzione av-vilisce la dignità della persona e frantuma tutti gli ideali buoni e belli. Tutta la so-cietà è chiamata a impegnarsi concretamente per contrastare il cancro della cor-ruzione che, con l'illusione di guadagni rapidi e facili, in realtà impoverisce tutti».Davanti a questo panorama mancano voci profetiche che abbiano il valore e l’au-dacia non solo di denunciare, ma di agire diversamente rinunciando ai piccoli o gran-di privilegi che l’amico di turno può offrire.

POLITICA ED ECONOMIA DEL PERÙ

terribile, deve affrontare con corag-gio il problema degli abusi sui mino-ri e le persone vulnerabili, una real-tà che finora non ha esaminato. Mainsieme a questo deve saper propor-re una coscienza e un’opera di preven-zione, sia da vivere all’interno dellaChiesa, sia da proporre a tutta la so-cietà peruviana, dove i casi di abusie di violenza sulle donne sono anco-ra tantissimi».Padre Morini conclude sottolinean-do che «si va in missione per conver-tirsi, non per convertire gli altri… Lamissione è la vita, la missione è do-vunque, senza missione non c’è vita.Auguro alla Chiesa peruviana chepossa scoprire sempre più che la suaforza starà nella sua unità e nel capi-re che la sua credibilità arriverà dal-la strada e dagli incontri che essa re-galerà: solo lì raccoglierà la sfida peressere veramente missionaria».

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I N S E R T O P U M

smo è grande. Anche i giovani delladiocesi ravennate si stanno affac-ciando su questa missione peruvianae certamente stanno già trovando unbuon terreno di accoglienza e dicondivisione con le famiglie dellagrande ed estesa parrocchia di padreEsteban.

LA CHIESA IN PERÙ E LE SUE SFIDECon questa esperienza missionaria or-mai consolidata, padre Morini fa ilpunto della situazione: «Il popolo pe-ruviano è profondamente religioso,di una forte religiosità naturale, maessere discepoli di Gesù è un’altracosa. O meglio, può trovare in que-sta sensibilità un terreno fecondo, maa volte anche un ostacolo. In Perù esoprattutto a Lima c’è una grande ri-chiesta di sacramenti, di benedizio-ni, di messe, di processioni… ma ilpiù delle volte, purtroppo, tutto fi-nisce lì. Il Vangelo, la Parola di Dionon è più per il popolo in generale,ma per gruppi e persone che hannodavvero incontrato Cristo Risorto. LaChiesa del Perù è ancora molto lega-ta alla sacramentalizzazione e credoche avrebbe bisogno di aumentarel’ascolto, di lasciarsi scuotere dalla Pa-

rola di Dio». Vibra il cuore di que-sto missionario di periferia. Lui stes-so con le sue comunità sta metten-do in atto percorsi specifici per far cre-scere famiglie, per formare laici im-pegnati sul versante dell’evangelizza-zione e dell’incontro. «La Chiesaperuviana deve affrettare i suoi pas-si su quello che riguarda una piaga

Page 68: MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA€¦ · Khalifa Haftar. Nel resto dell’Africa af-facciata sul Mar Mediterraneo, violenze sempre meno sporadiche e altri segnali non