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Giuseppe Trevisan METODI DI COSTRUZIONE E RESTAURO nel Basso Veneto tra i secoli XIX e XX NOMENCLATURA VENETA DEI TERMINI usati da muratori, carpentieri e falegnami

METODI DI COSTRUZIONE E RESTAURO nel Basso Veneto tra … · ratori, che pensano di poter risolvere i problemi di restauro con facilità e in fretta, senza studiare prima i problemi

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Giuseppe Trevisan

METODI DI COSTRUZIONEE RESTAURO

nel Basso Venetotra i secoli XIX e XX

NOMENCLATURA VENETA DEI TERMINIusati da muratori, carpentieri

e falegnami

Stampato in proprioMonselice, Vicolo Mandiferro 1

Marzo 2014Tutti i diritti riservati

In copertina: il restauro del campanile della chiesa di San Giacomo a Monselice, con ponteggio in legno, fine anni ‘20

3INTRODUZIONE

Ho lavorato nell’edilizia dal 1946 al 2000. In qualità di geo-metra, sono stato dapprima, fino al 1970, aiutante del capo-mastro Andolfo Massimiliano, mio suocero; poi, dopo la sua morte, ho lavorato in proprio fino al 2000, specializzandomi nei restauri monumentali.Ho conosciuto e sperimentato diversi materiali e metodi di lavoro manuali tradizionali che ora non vengono più usati, essendovi nell’edilizia la supremazia del cemento armato, di molti materiali preconfezionati industrialmente e di vari macchinari specifici.Per tenere vivo il ricordo del lavoro del passato, presento questi ricordi coi nomi, le tecniche e i materiali, perché mi sono accorto che in giro vi sono parecchi pseudo restau-ratori, che pensano di poter risolvere i problemi di restauro con facilità e in fretta, senza studiare prima i problemi e sen-za conoscere a fondo le vecchie metodologie secondo le quali sono stati realizzati.Spero pertanto che queste mie note possano servire a chi desidera veramente eseguire interventi meditati e durevoli, senza alterare le armoniose costruzioni realizzate dalle gene-razioni passate. In aggiunta desidero mettere in evidenza le parole del nostro dialetto veneto, in rapporto ai lavori della vecchia edilizia.Infine, ho il piacere di dedicare questi ricordi a mia nipote Irene Trevisan, laureata e specializzata nella conservazione delle opere artistiche.

Monselice, marzo 2014

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Per non dimenticareParole della parlata veneta relative a oggetti, utensili, mate-riali, usati nelle costruzioni (escluse le parole simili a quelle della lingua italiana)

Oggetti e utensili murariArèle: graticci di canna palustre in pannelli da due metri quadrati. Fino a circa il 1970 le canne erano legate tra loro con erbe secche, poi con filo sottile di ferro zincato; servi-vano per costruire soffitti e come porta intonaco su tramez-zature di tavole di legno. Quei graticci che venivano usati anche per l’allevamento dei bachi da seta, o per seccare la frutta, si chiamano, alla veneta grisòle. Àrpesi: lame di ferro che uniscono due strutture per ren-derle solidali. In particolare venivano molto usati nelle case quando i solai erano realizzati con travi di legno. Gli àrpesi sono lame piegate a caldo, nel senso della lunghezza, con forma a 7 o, doppie, a forma di T. La parte minore veniva posta all’esterno dei muri, la parte più lunga era forata e veniva inchiodata sulle travi di legno dei solai.Baroàro: abbaino sui tetti delle case, una volta serviva per la manutenzione dei tetti senza usare scale o ponteggi: l’ope-raio saliva sul tetto attraverso l’abbaino.Batùa: battuta, piccolo scasso sui muri per fissare i controte-lai dei serramenti, oppure la battuta di una porta eseguita sullo stipite.Becanèa o becanèla: serviva per costipare il terreno; era un pezzo di trave con due manici per la manovra, era costruita in cantiere di volta in volta, ora vi è il costipatore meccanico.

5Betonàta: calcestruzzo che si prepara con sabbia, ghiaia, cemento (dal francese béton). Betonièra: impastatrice meccanica.Broòto: malta formata da sabbia e calce aerea, subito dopo che le zolle calcaree venivano bagnate. Questa operazio-ne doveva essere eseguita con le badile perché produce una malta calda che è urticante. Questa malta indurendosi diventava molto tenace, praticamente era la malta di ce-mento di una volta.Bolognìno: massello di pietra squadrato a cubo, con lati di 20/25 centimetri, molto usato fino al 1700 perché qui nel basso Veneto i bolognìni venivano ricavati dalla trachite dei Colli Euganei.Brusòn: mattone che si è vetrificato, durante la cottura in fornace, perché troppo vicino alla fonte di calore; serviva solo per decorazioni.Cagnòlo: tondino di ferro del diametro di 6/14 millimetri, lungo 40/60 cm, curvato alle estremità a L, formando due bracci che finiscono a punta. Anche oggi sono usati per col-legare travi di legno. Per i prolungati collegamenti si usano cagnoli robusti, forniti di occhioli che servono per lo stacco, con l’uso di leve.Càgna: tenaglia artigianale formata da un pezzo di trave leggero, di circa un metro, che finisce con un grosso gancio di ferro incernierato: per esempio serviva per far entrare di forza un lavoro di legno entro un contenitore di ferro, come le ruote di legno dei carri agricoli quando venivano incer-chiate con ferro a caldo.Calàndro: semplice sistema, di varie forme, per ottenere una

6sicura linea a piombo. Può essere una staggia verticale fis-sata, un filo di ferro teso fra due supporti inchiodati; in com-mercio vi sono oggi dei tubi a sezione quadrata, allungabili a cannocchiale, che hanno naselli porta filo (la calandra è invece una macchina utensile).Calzìna = calce aerea o bianca. Una volta i capimastri ave-vano nel cortile del loro magazzino delle grandi buche, ove veniva raccolta la calce spenta, trasformando le zolle di calcare cotto in poltiglia: più restava ferma nella buca, con sopra un velo d’acqua per evitare l’essiccazione, più la cal-ce spenta era considerata di buona qualità. Per fare questo lavoro occorreva attenzione perché pericoloso. Su un lato della vasca veniva posto uno scivolo in legno con spondine, poi un po’ alla volta, l’operatore bagnava le zolle che veni-vano trattate con una zappa dal manico lungo per sbricio-larle, mentre l’acqua le trasformava in poltiglia. L’operatore con la zappa doveva poi far cadere nella buca la poltiglia. La zappa serviva per lavorare l’impasto da lontano giac-ché il risultato dell’operazione era molto urticante e caldo. L’abilità dell’operaio era quella di polverizzare, con acqua e zappa, le zolle senza lasciare grumi, perché poi questi creavano difetti negli intonaci. La calce così trattata finiva col diventare una massa molle gelatinosa che si prelevava con bidoni per fare la malta mescolandola con la sabbia.Caldèa: è un pezzo di tavola inchiodato su due travi vicine.Cantinèla o cantinèa: asta di legnoCiavaròlo: sistema che permette di realizzare dei grandi fori nei solai di legno, anche se bisogna tagliare qualche trave prima dell’appoggio. Per esempio, se le travi sono poste con

7interasse 0.60 metri e si deve fare una botola da un metro quadrato, la trave che cade entro il foro viene tagliata e supportata dalle due vicine, mettendo di traverso un pezzo di trave: l’unione fra le travi è realizzata con spìza e pèca cioè con tagli e incastri obliqui.Ciavesèo: asticciola di ferro per il fissaggio = coppiglia.Ciodèla: chiodo forgiato, grande anche più di 30 cm, con asta a sezione quadrata lavorata a piramide che termina a punta; ha una testa grossa perché non possa entrare nel legno.Ciòdi da vetùro: fabbricati come le ciodèle, però lunghi cm 4/8, vengono usati come borchie sugli infissi di tavole e an-che sui vetùri (vasi vinari a forma rettangolare da 3.00 x 0.80 metri circa, che servivano per pigiare l’uva coi piedi).Diàna: i contorni delle pavimentazioni che si distinguono dal restante pavimento.Dìma: sagoma o guida preparatoria per eseguire certi lavori a regola d’arte, per esempio delle fasce grezze verticali di intonaco da servire come guida della staggia nella stesa del rinzaffo.Filàgna: trave sottile e lunga (gioàta) posta in senso orizzon-tale nei ponteggi di legno.Flessìbile: macchinetta portatile, generalmente elettrica che fa girare un disco tagliente per legno, mattoni, marmo e ferro, in uso dagli anni 1950. I dischi hanno particolarità diverse secondo i tagli da eseguire. Per le pietre una volta i dischi erano abrasivi, ora diamantati. Tecnicamente è una smerigliatrice.Fratòn: frattazzo formato da una tavoletta di legno con

8manico a maniglia per gli intonaci comuni, tavoletta rive-stita di gomma piuma per l’intonaco a grassello; se è tutto di ferro, serve per stendere il gesso o il marmorino.Ganzèga: pranzo offerto dal committente a tutti gli addetti ai lavori, quando la costruzione stava per finire. Oggi in disu-so perché le case vengono costruite dagli immobiliaristi.Gioàte: le travi non grosse, lunghe 5/7 metri, facilmente ma-novrabili per il loro peso modesto.Gravéto: piccola sporgenza del tetto di 5 cm, costruita sui muri esterni spioventi, è formato da tavelle, serve per evitare infiltrazioni di acqua piovana tra manto di coppi e intonaci delle fiancate.Làte de càlce: latte di calce. Serviva per le tinteggiature esterne ed interne delle case. Era formato da abbondan-te acqua nella quale venivano sciolte cazzuolate di calce bianca spenta. Nel caso si fossero volute tinte tenui veniva-no aggiunte cucchiaiate di terre colorate. Veniva steso sugli intonaci con pennelli rettangolari, le penelése.Lecàda: strato sottile di intonaco o passata leggera di colo-re, che lascia intravedere ciò che viene ricoperto (da lec-care).Levarìn: piccola leva di acciaio lavorata alle due estremità: da una parte uno scalpello senza filo di taglio, dall’altra un piede di porco. Serve per demolire le casserature di legno (ma lo usano anche gli scassinatori!).Menarèto: piccola ascia col manico corto che adopera il muratore (menàra = la scure).Modìna: l’insieme di picchetti e assi di legno che servono per tracciare un edificio.

9Fig. 1. Arpesi: lame per unire i muri.

Fig. 2. Cagnòli: per unire le travi di legno. Da diametro millimetrato 6 - 10 per brevi collegamenti. Da diametro millimetrato 12 - 14 per lunghi collegamenti.

Fig. 3. Càgna: a sinistra; tenaglia artigianale con un pezzo di trave di legno fornito di un grosso arpione di ferro.

Fig. 4. Ciavaròlo: sostegno a chiave di una o più travi di legno sostenute da un traverso supportato dalle travi laterali.

10Paiàsa: struttura di legno, pietra, mattoni, calcestruzzo ecc., da rivestire con lastre di marmo, listelli di legno ecc.Palàncola: asse di legno per fare ponteggi; la legge oggi prescrive che lo spessore debba essere di 5 cm. Una volta invece era di 3 cm.Paravèe: sostegni trasversali per supportare una lunga cas-seratura necessaria per i getti di travature in calcestruzzo di cemento armato.Pèca.: è l’incastro fatto a scivolo su una trave per appog-giarne un’altra formata a spìza, cioè anch’essa tagliata a scivolo.Pénola o pénoa: cuneo di legno o di ferro.Pòlese: cardine fissato nel muro, o nel legno oppure saldato su una piastra di ferro.Quarèo: mattone di argilla cotta. Le misure unificate attuali sono di 25 x 12 x 5,5 cm, ma in passato erano comuni misure diverse come 26 x 13 x 6 cm. In dialetto i mattoni vengono anche chiamati (impropriamente) pière.Rabòco: è l’aggiustaggio frettoloso di un muro che ha di-verse deficienze. Generalmente il rabòco viene fatto con malta bastarda - calce idraulica e cemento.Ramenàto: archetto ribassato di mattoni, costruito sopra gli architravi di pietra (serve per assorbire il peso superiore onde evitare che la pietra venga rotta al taglio).Roveròti: chiodi forgiati corti, fino a 8/10 cm, con la testa grossa che non può penetrare nel legno.Rugolòn: è il dente che si forma tra le fondazioni e il muro in alzato (le fondazioni sono sempre più larghe del muro sovra-stante).

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Fig. 5. Diana: fascia perimetrale diversa dal restante pavimento.

Fig. 6. Peca e spiza: incastri a dente fra travi di legno, utili nelle capriate e nei ciavaroli.

Sbadàcio: listello di legno posto obliquamente a sostegno di un paramento verticale; è inchiodato nelle due estremità.Sbrùfada: è dare una mano di scialbo di cemento che serve come base collante per realizzarvi sopra l’intonacoS-ciapìn: è uno scalpello che finisce con una base larga che ha uno spigolo tagliente. Serve per le pietre. (La par-te di acciaio tagliente è formata dal “vidia” dal tedesco

12“wiediamant”, come il diamante.)S-cénza: piccola scheggia di legno, pietra o metallo usata per turare una piccola fenditura. Con essa si indica anche una piccolissima scheggia che si infigge lavorando nella mani, specie di carpentieri e falegnami.Sélese: è una piastra di trachite a forma rettangolare o qua-drata con la faccia superiore bocciardata, o lavorata a punta sottile; può essere anche con faccia solo segata. Lo spessore è vario: perimetralmente 4/5 cm nel centro 12/18 cm. È chiamata anche maségna, però con questo nome si intende anche qualsiasi blocco di trachite. In senso estensi-vo sélese è un selciato. Da noi, una volta l’aia era di norma costruita con sélesi, così pure l’aia veniva chiamata sélese. In pianura, lontano dai colli, le aie erano lastricate con mat-toni fatti a mano. Ora le aie non servono più perché vi sono gli essiccatoi.Sottopié: un rialzo per lavorare senza approntare un piccolo ponteggio.Spalièro: tavola quadrata di circa 30x30 cm con sotto un piolo per l’impugnatura; serve per mettervi sopra una certa quantità di malta che poi il muratore stende con la cazzuola.Spìza: trave tagliata a sguincio, cioè con un taglio obliquo. Questa spìza va appoggiata sulla pèca per cui il peso sup-portato favorisce l’unione delle travi.Spolveràda: questa è l’operazione di cospargere polvere di cemento sopra una pavimentazione in calcestruzzo lavora-to a fratazzo lungo, per ottenere poi con la cazzuola rove-scia una superficie liscia: queste lavorazioni devono essere fatte contemporaneamente.

13Squàra: costruire in modo che i muri, o le tramezzature, si in-contrino ad angolo retto (se si è sprovvisti di strumenti adatti si può ottenere un angolo retto con la formula: un cateto 3 m, l’altro 4 m, l’ipotenusa deve essere da 5 metri (oppure, 30 - 40 - 50 cm). La squàra è anche la squadra del disegnatore.Stanghéto: un pezzo di trave leggero, o di un morale grosso, lungo 1,20/1,40 m, che serve come sostegno trasversale nei ponteggi di legno.Stàza: è la staggia molto usata dai muratori perché serve per tanti lavori, può essere di legno piallato con i bordi pa-ralleli, oppure è formata da tubi di alluminio con sezione ret-tangolare 3/10 - 3/12 - 2/5 cm, ecc. Lunghezze variabili da 1.50 a 3.00 metri.Tavolàme: l’insieme del legname necessario per le palànco-le (da 5 cm di spessore) e per i càsseri dei getti di calcestruz-zo (da 2.5 cm). Le misurazioni commerciali sono in centimetri per lo spessore e la larghezza delle tavole, ed in metri per la loro lunghezza.Trabatèo: piccolo ponteggio mobile.Véna: la posizione delle fibre del legno o delle venature do-vute alla cristallizzazione delle pietre, perché queste permet-tono una facile lavorazione con semplici utensili manuali.

14Modi di dire dei muratori

Muri a cassa da morto quando divergono; a squàra quando si incontrano a 90 gradi; a morèo quando sono paralleli, a madonéta quando, per un grosso muro di pietra viva, vengono costruiti prima i due pa-ramenti esterni, per un’altezza di 30-50 cm, lasciando un vuoto al centro che viene riempito alla rinfusa con sassi di scarto e, successivamente, completando con una rasatura di malta o con la colatura nei vuoti di una malta un po’ liquida.

Fare il cavaliere al solaio di laterocemento prima del getto: vuol dire rialzare di qualche centimetro il centro del solaio con la puntellazione. Questa operazione è utile perché permette di ottenere un solaio finito per-fettamente orizzontale, in quanto il cavaliere contra-sta le sue leggere flessioni a causa del peso che poi vi è posto sopra (tramezzature e pavimentazioni).

Còrso: indica un giro di mattoni o altri laterizi, posti tutti alla stessa quota.

Comesùre sorèe: in italiano commessure sorelle (o a sorella): quando due o più mattoni sovrapposti hanno la stessa giuntura in verticale. I laterizi nelle murature, per una migliore coesione degli elementi che le com-pongono, devono essere posti sfalsati su tutti i lati ad ogni corso, rispetto a quelli immediatamente sopra o sotto.

Fare le mòrse: realizzare piccole opere a dente di sega per ammorsare più solidamente due manufatti (per esempio: per realizzare il pilastro di un portone

15aderente allo spigolo di una casa è bene renderlo so-lidale al fabbricato con delle mòrse).

Fare dentro e fòra: quando si realizza un muro in al-zato a più riprese nel senso della lunghezza (e questo succede quando l’esecutore ha poco ponteggio), è bene lasciare nella muratura costruita per prima degli elementi (mattoni, blocchetti di laterizio, bolognini di pietra...) sporgenti per metà della loro lunghezza, a cui legare la nuova muratura.

Schèo: così è indicata una misura minima, un centi-metro. Schèo era, in dialetto, il centesimo della lira (ai tempi del regno d’Italia) come il centimetro è un cen-tesimo di metro.

Fig. 7. Corso: strato di mattoni sfalsati. Ogni corso poi è sfalsato rispetto agli altri sovrapposti. A destra i vari corsi mostrano le morse e la lavorazione dentro e fora.

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R E S T A U R I

PremessaOrmai l’edilizia deve applicarsi in modo frequente al restau-ro dell’esistente, perché la nostra società sta accorgendosi che la cementificazione estensiva non può più essere tolle-rata in Italia.Fortunatamente non si riparte impreparati perché, anche oggi, vi sono imprese, prodotti e tecniche pronti per i lavori di restauro edile.Io, che nel mio lavoro di impresario ho cercato di specializ-zarmi nel restauro, riscontro con piacere lo sviluppo che ha, e che avrà, questo settore della edilizia. È con questa otti-ca che mi propongo di scrivere quanto ho visto e fatto, sia perché i miei lavori hanno dato buoni esiti, e quindi si sono dimostrati validi per cui possono essere copiati, sia perché quanto ricordo può essere una base di partenza per chi de-sidera applicarsi in questo settore. D’altra parte se ormai per il restauro vi sono applicazioni specialistiche che richiedono strumentazioni e persone preparate, vi è anche la possibilità di un lavoro artigianale, quando la modesta quantità dei lavori impedisce alle ditte specializzate praticare costi con-correnziali.Per parlare dei restauri particolari, desidero precisare che il re-stauro richiede prima un attento esame, poi un lavoro esegui-to con cautela. Non bisogna fidarsi del colpo d’occhio perché le strutture da rifare o da restaurare possono rivelare in corso d’opera grosse problematiche improvvise ed impreviste.

17È necessario costruire sempre con ponteggi di lavoro e di rinforzo sicuri, e usare gli accorgimenti che prescrive la leg-ge. Va da sé, anche, che la qualità dei materiali adoperati per i restauri devono essere necessariamente simili a quelli esistenti. Se invece si adoperano materiali diversi, particolar-mente sintetici, secondo me è utile e opportuno ricorrere a consulenti specialistici, o seguire attentamente i dati forniti dalle ditte produttrici. Solo chi ha lunga esperienza acquisita può, a mio avviso, procedere di propria iniziativa. Capriate in legnoNei vecchi tetti la struttura più importante è la capriata; tal-volta è possibile restaurarla, a volte invece bisogna sostitu-irla. Tenuto conto che i carpentieri capaci di costruirle non sono sempre rintracciabili, ritengo utile ricordare come due miei falegnami ne hanno costruite diverse pur non essendo pratici fino in fondo del lavoro. Forse è stato per questa diffi-coltà che in una lunga sala di un fabbricato settecentesco di Monselice ho visto mezza dozzina di capriate costruite con metodo spiccio e moderno: tutti gli incastri erano sostituiti da perni di acciaio imbullonati, poi le capriate sono state finite con un mordente dato a pennello, invece di antichizzarle e usare le peche e le spize.

1) Costruzione Tracciare in grandezza naturale la capriata su un pa-

vimento, tenendo conto dei cornicioni, della pendenza (che da noi è del 40%) degli spessori delle strutture che appoggiano sulla capriata (arcarecci, murali, tavelle).

18Fig. 8. Capriata a tre monaci, ometi, e due catene, detta alla palladiana. Sopra, i vari incastri con peca e spiza.

19Fig. 9. Primo metodo dei tenoni per allungamento della catena. I capi delle travi che si incontrano, a destra e a sinistra, vengono assotigliate, in modo contrapposto, per una lunghezza del 6% della luce vano, in modo che, unite tra loro, formino una sezione uguale al restante. Il fissaggio viene ottenuto da almeno quattro chiodelle. Ogni lama di legno termina a punta ed è posta in una culla: questo per contrastare la flessione.

20Fig. 10. Secondo metodo di allungamento della catena, a spiza e peca, per sovrapposizione nello spessore orizzontale. Per una lunghezza di circa il 15% della luce del vano, devono essere fatte nel centro tre-quattro giunzioni perfettamente combacianti fissate con coppie di ciodele ribattute.

21La catena di base è sottesa da due puntoni uniti ad essa con due tacche a destra e a sinistra. Al centro c’è l’ometto, chiamato anche monaco, sul quale appog-giano con tacche i puntoni, uno a destra e uno a sini-stra. Perché poi tutte queste “spize e peche” siano per-fettamente combacianti, bisogna rialzare la capriata e passare il segazo, il saracco, su tutte le congiunture per eliminare le eventuali differenze del legno.

Per solidarizzare il tutto si devono eseguire inizialmente con la trivella dei fori piccoli per le chiodelle che de-vono essere battute con mazzetta. L’ometto non deve toccare la catena e deve essere fasciato con una lama inchiodata (braga) che passa sotto la catena, ma è da essa distante: la braga serve per evitare eventuali sban-damenti dell’ometto stesso. Se invece l’ometto pog-giasse potrebbe succedere che, per qualche difficoltà strutturale, il peso del tetto si scaricasse parzialmente sul-la catena, danneggiando così la sua funzione di tirante.

Le grandi capriate hanno anche i saettoni, cioè due bracci obliqui che dall’ometto arrivano ai puntoni: na-turalmente tutto unito con spize, peche e ciodele.

Vi sono poi anche capriate complesse a tre ometti, come vi sono quelle a due catene con due ometti: queste ul-time sono ribassate perché usate per i soffitti di legno.

2) Restauro capriate In genere le capriate sono deteriorate agli appoggi, spesso

per la pioggia che penetra perché verso il cornicione il vento e gli uccelli rovinano più facilmente i coppi.

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Fig. 11. Consolidamento di testate di appoggio delle capriate: taglio del legno ammalorato sostituito con un incalmo. Il fissaggio tra nuovo e vecchio viene fatto con l’infissione di lunghe lame d’acciaio messe in opera con colle epossidiche, previe fenditure con sega a catena.

23I danni sono essenzialmente di due tipi: o solo sulla catena,

o anche sul puntone. Per il consolidamento vi sono vari metodi.

- Sostituzione dell’intera catena o puntone con legno nuo-vo, previa puntellazione.

- Irrobustire gli appoggi ammalorati della catena: se il dan-no è piccolo è sufficiente porre un modiglione sottostan-te, infiggendolo nel muro e unendolo poi alla trave con chiodelle; se il danno è consistente bisogna irrobustire l’appoggio della catena con opere di ferro. Si devono porre ai due lati di base della trave dei profilati, a elle o a ci, dello spessore e lunghezza proporzionati alle luci del vano. Questi ferri devono essere posti sugli appoggi e finire almeno un metro dopo il guasto del legno. Per rendere solidale il ferro col legno è necessario porre in opera almeno due braghe regolabili per stringerle bene sulla catena. È utile però anche saldare sui ferri a elle del-le lame forate, per avvolgere la trave, e fissarle sul legno con viti mordenti.

- Per le capriate a vista si usa un altro sistema. Nelle testate delle catene vengono infisse due lame di acciaio a scom-parsa, di lunghezza e spessore a seconda dei danni e del-le luci. Esse vengono poste in opera facendo degli scassi con la sega a catena, ove fissare le lame con colle epossi-diche. Le lame servono per tenere uniti la parte sana della catena, col nuovo pezzo di trave che sostituisce l’amma-lorato: l’operazione di innesto si chiama incalmare.

- Consolidamento di catena e puntone, ammalorati negli appoggi sui muri. Mi è capitato di dover irrobustire una

24grossa capriata di una sala della biblioteca di Santa Giustina di Padova. Era guasta sia nella catena che nel puntone, tanto che precedentemente era stata cre-ata una grande mensola sporgente in mattoni, come appoggio sussidiario. Essa però impediva la posa in opera di una scaffalatura continua lungo la parete. Dovendo eliminare la mensola, ho interpellato delle ditte specializzate per realizzare i rinforzi sul legno. Poi-ché la cifra richiesta era troppo onerosa per la commit-tenza, ho provveduto con le mie maestranze eseguen-do il seguente lavoro. Fatte le puntellazioni, ho tagliato le due parti ammalorate, quella della catena e l’altra del puntone, sostituendole con pezzi di trave sano e ho fatto costruire in officina lo scheletrato in acciaio per unire le parti nuove con quelle vecchie. Ho messo alla base della catena due ferri angolari da 12 cm, lunghi 2 m, li ho uniti con robuste lame saldate, ponendo an-che in opera fra i due longheroni una piastra in ferro da 12 mm inclinata secondo lo spiovente. Ho poi unito il legno nuovo a quello vecchio, con lame fissate nei fianchi con viti mordenti e con 3 braghe strenturi sulla catena e altrettante sul puntone. Per finire, ho pennel-lato il ferro con due mani di minio, verniciato più volte il legno con olio di lino cotto e usato la colla epossidica dove ho ritenuto utile. Dopo trent’anni tutto è ancora a posto.

3) Oggi sono disponibili sistemi, ormai divulgati ovunque, per rinforzare il legno con colle epossidiche e barre al carbonio o con fibre di vetro.

25Castello mobile: se piccolo era chiamato trabatèo (traba-tello), se grande càro (cioè carro).Una volta i castelli da lavoro erano di legno, oggi di ferro perché danno sicurezza maggiore e più facilità di assem-blaggio.Negli ultimi anni 1940 ne vidi uno di legno smontato e poi rimontato per usarlo nei lavori interni di una chiesa. Aveva quattro ruote di legno pieno con snodi per ottenere spo-stamenti nelle direzioni volute. I sostegni verticali erano tutti costruiti con assi della spessore di 3 cm e lunghezza di 4 m inchiodati due a due nei bordi, in modo da formare degli angoli di 90°, I primi quattro avevano alla base un tubo di ferro, abbastanza lungo e ben fissato entro il quale furono infilati i lunghi perni delle ruote. I ritti furono uniti con crociere imbullonate in modo da ottenere una rigida base quadrata di 3.5 m di lato. Vennero poi posti in opera dei traversi per creare un impiantito a 2 m di altezza. Poi furono aggiunti in altezza altri assi, imbullonati con i sottostanti, fino a una altezza dell’ultimo impiantito di 10 m. Si saliva all’interno pas-sando per botole ricavate nei vari ripiani, usando delle sca-lette. Era un castello mobile robusto, fatto artigianalmente, in modo semplice ma ingegnoso che rispettava anche le norme di sicurezza.

Deumidificazione negli edifici esistentiGeneralmente i vecchi edifici hanno i muri di base e i pavi-menti impregnati di umidità. I primi intonaci erano stati co-struiti con calce aerea, che è osmotica, per cui l’umidità risalente usciva subito attraverso gli alveoli della malta, così

26non si notava l’umidità. Quando però quegli intonaci sfa-rinati vengono ricostruiti con leganti idraulici, che formano malte non osmotiche, poco dopo si evidenzia l’umidità. Il fatto è che la calce bianca aerea si indurisce con lo scam-bio gassoso: l’idrogeno dell’impasto si combina con l’ani-dride carbonica dell’aria, creando un carbonato di calcio con tanti alveoli che favoriscono l’uscita dell’umidità; le malte idrauliche invece si induriscono con l’evaporazione, formando un amalgama compatto.I pavimenti vecchi poi, che non hanno sottofondi aerati (spesso costruiti sopra uno strato di sabbia), sono sempre opachi per via dell’umidità risalente. Per risolvere questo problema oggi vi sono tecniche efficaci e semplici da realiz-zare. Per rifare gli intonaci bisogna invece scegliere soluzioni appropriate.

1) L’isolamento più sicuro è il taglio alla base delle murature per porvi uno strato isolante. Questo taglio però è sconsi-gliato negli edifici che da molto tempo sono a contatto con l’acqua: l’acqua salendo nei muri scioglie i sali dei matto-ni e si sostituisce ad essi così se poi, grazie all’isolamento, il mattone si prosciuga, si formano tante piccole cavità che gli fanno perdere consistenza e si formano crepe orizzontali; in questo caso, per completare l’isolamento orizzontale, è necessario sostituire i mattoni impregnati d’acqua.Se il manufatto è di mattoni, il taglio viene fatto con la sega lungo una commessura, infilandovi poi la lastra isolante e si-gillando con malta espansiva, lastra che può essere di vetro-resina, piombo imbustato, acciaio inox, ecc.

27Se invece le murature sono di sasso, la posa delle lastre iso-lanti si fa a tratti perché bisogna eseguire delle demolizioni di muratura, e queste si devono fare in modo saltuario per non compromettere la stabilità della costruzione. Alla base dello scasso occorre poi una pareggiatura in calcestruzzo, come letto della piastra di isolamento, sopra, si rifà la muratura in mattoni - almeno per alcuni corsi – e si chiude con cunei, di metallo o plastica dura, lavorati con malta cementizia, per evitare cedimenti e cavillature sui muri in alzato.Le lastre isolanti sono di vario tipo. Escludo quelle catramate perché il tempo le indurisce e poi si cavillano, le migliori sono di metallo o vetroresina; tutte però devono essere poste non solo sotto la muratura ma anche sotto gli intonaci.Le lastre metalliche devono essere inattaccabili dagli acidi e devono anche essere usate in modo che non diventino conduttrici di energia elettrica.Personalmente, per questi lavori, ho usato per tre grossi edifi-ci delle lastre di piombo imbustate in una guaina leggera. Il piombo gode di cattiva fama, ma avvolto in guaina ritengo che venga eliminata ogni sua reazione chimica nociva. In-fatti il peso delle murature finisce con incollare le guaine al piombo, creando così una specifica difesa.

2) In tanti edifici antichi non sempre è possibile l’isolamento precedentemente descritto, allora si può ricorrere agli into-naci osmotici, dei quali parlerò più avanti. In alcune chie-se, che erano circondate da spiazzi liberi, ho fatto, sotto il controllo delle Soprintendenze, dei cunicoli deumidificato-ri. Queste opere servono per arieggiare le fondazioni e per

28raccogliere il vapore acqueo condensato in goccioline che fuoriescono.Questa soluzione ha il vantaggio di avere un costo limitato, di non creare disturbi ai fedeli e, soprattutto, di essere vali-do. (Mi è capitato di costruire un cunicolo solo sul lato nord di una chiesa - per mancanza di fondi - e dopo vari anni ho constatato che quel muro era più secco di quello a sud.).Essenzialmente si tratta di scavare nel perimetro esterno dell’edificio una trincea che permetta di costruire un cuni-colo della larghezza di circa cm 50, e più profondo possibile. L’essenziale è lasciare scoperta e pulita la faccia della mu-ratura di fondazione. Per isolare le opere nuove da quelle esistenti, è necessario costruire, a ridosso ma leggermente staccato dalle fondazioni, un muretto di mattoni pieni, la-vorati in foglia a nido d’ape (foia a nido d’ave) in modo da creare tanti fori di aerazione: questa opera serve di so-stegno alla copertura del cunicolo, che non deve essere incassata sulla muratura esistente. Per il contenimento del terreno poi si devono costruire opere in cemento armato, tenendo conto delle spinte e dei pesi che devono suppor-tare. Alla base occorre una cunetta di raccolta acqua, al-lacciata a uno scarico, poi si devono costruire, specie negli angoli, dei pozzetti, una parte con chiusino e un’altra parte con caditoie. Queste ultime fanno entrare l’aria necessaria per creare una corrente di ventilazione; se dentro il cunicolo entra acqua, questa è smaltita dalla cunetta e dallo scarico relativo. (Spendendo di più si può ottenere cunetta, muro del terrapieno, copertura tutti collegati in cemento arma-to; i costi sono maggiori sia perché le opere devono avere

29spessori superiori, sia perché la casseratura della copertina è a perdere, mentre col muretto si può costruire la soletta di copertura ponendo in opera un tavellonato molto leggero).Il fisico Venturi studiò il sistema per accelerare la ventilazione e vi riuscì creando delle strozzature; all’uopo ha inventato anche uno strumento, il venturimetro formato da una serie di tubi di diversa sezione, per misurare la velocità della ven-tilazione.3) Per eliminare l’umidità nei pavimenti al piano terra biso-gna fare l’aerazione sotto i pavimenti, in pratica realizzare dei solaietti galleggianti. Nelle abitazioni lo si fa con le cupole di poliuretano poste su una soletta armata con sopra un’al-tra soletta e una guaina a catino sotto il pavimento.

Fig. 12. Cunicolo deumidificatore costruito all’esterno di edifici monumentali.

30L’aria imprigionata dalle cupole deve essere sfiatata per il ricambio, collegando con l’esterno quella zona mediante tubi incassati nei muri, chiusi all’esterno con griglie, lamiera forata o altro.

4) In due chiese invece ho fatto il pavimento galleggiante su un tavellonato che sosteneva anche i pannelli radianti.La sequenza dei lavori è stata:- scavo per circa cm 50;- soletta di base in c. a. secondo calcoli;- muretti a nido d’ape in mattoni da 13 (per la ventilazione),

posati su fette di guaina, per sostenere i tavelloni da un metro- soletta a solaio in c. a. secondo calcoli;- posa guaina su tutta la soletta e poi stesa dei pannelli ra-

dianti;- pavimentazione in quadrotti di cotto;- collegamenti con l’esterno a mezzo tubi e griglie all’u-

scita (ricordo che le bocchette sui muri devono essere sufficienti per una buona aerazione e che le bocchette devono essere dirimpettaie).

5) Se un muro molto umido non può essere tagliato alla base (per esempio se è addossato a un terrapieno) si può deumi-dificare il vano con un paramento costruito non aderente al muro umido.- si scrosta l’intonaco, si fa il restauro della muratura e la

pulizia finale;- si costruisce, ad almeno 4/5 cm dal muro umido, il paramen-

to che può essere formato da lastre di gesso coibentato, o

31da una tramezzatura di laterizio. In quest’ultimo caso biso-gna avere l’avvertenza che la malta, che cade all’interno, non faccia alla base da ponte; per ovviare a questo in-conveniente è preferibile stendere una guaina di raccolta posta tra muro vecchio e paramento nuovo;

- bisogna poi provvedere, per eliminare il vapore acqueo che si forma dietro il paramento, ad eseguire dei fori alla base e in alto ( in una parete di un vano normale almeno tre sotto e tre sopra). Il vapore acqueo della deumidifi-cazione entra così nella stanza e si disperde aprendo di tanto in tanto le finestre.

Intonaci di vari tipi specialiNelle case costruite nel secolo scorso, è utile sistemare gli intonaci esterni per costruirvi sopra il cappotto che serve per il risparmio energetico. Da ricordare che per eseguire gli intonaci negli edifici monumentali bisogna seguire l’an-damento dei muri, senza preoccuparsi di ottenere una su-perficie piana.

1) CocciopestoPersonalmente ho fatto intonaci di cocciopesto in una chiesa del settecento e nei fabbricati del “Palazzetto” a Monselice sotto il controllo del Prof. Carlo Scarpa. Il cocciopesto (pesto perché una volta pestavano il laterizio per ottenere i granuli) fornitomi a camionate da una fornace, con granulometria non omogenea, l’abbiamo prima forte-mente e lungamente bagnato. Poi abbiamo tolto dalla pa-rete ogni residuo di malta, scarificato le commessure ed eli-

32minate le parti incoerenti, sostituite con vecchi mattoni fatti a mano fissati con malta di cocciopesto. Abbiamo infine pulito e lavato le pareti con spruzzi d’acqua a 100 atmosfere, poi abbiamo iniziato la stesa dell’impasto, formato da almeno due parti di cocciopesto e una di calce di ciottolo (si può an-che mettere più cocciopesto). Abbiamo spalmato l’intonaco a spessore costante, seguendo l’andamento della muratu-ra, spianandolo a frattazzo lungo. Dopo abbiamo tenuto ba-gnato il rinzaffo perché l’essiccazione avvenisse lentamente e non si vedessero le congiunzioni tra le varie aree eseguite in ore diverse. Abbiamo poi finito con intonaco di calce aerea.

2) MarmorinoUna volta questo intonaco di calce aerea e polvere di mar-mo veniva fatto sopra il cocciopesto, eseguendolo a più riprese a distanza di tempo, per un lento indurimento. Ora, per tale lavoro è bene ricorrere a maestranze specializzate. Comunque scrivo le quantità da usarsi, su una base costitui-ta da un rinzaffo di cocciopesto di sabbia grossa di torrente e calce (meglio quella aerea, ma può essere anche idrauli-ca chiara). Per fare il marmorino finale occorre dosare due parti di polvere bianca di pietra d’Istria e una di calce di ciottolo (ciottolo perché dà una calce aerea bianchissi-ma). Anche qui bagnare moltissimo. L’impasto steso deve avere uno spessore di millimetri 2/5 e va lavorato a cazzuola rovescia (che può essere a ferro caldo o freddo). Seccato il tutto, dare una mano di olio di oliva e asciugare dopo un’ora. È necessario però sempre pulire precedentemente la muratura togliendo ogni scoria di malte idrauliche.

333) Granulato colorato finito a punta;È un intonaco che sostituisce il rivestimento di lastre marmo-ree bocciardate a punta grossa. Per questo intonaco usare leganti idraulici chiari.- Sottofondo da 1/2 cm con cemento e sabbia del Brenta

(sabbia grossa che non ha scorie ed ha la giusta varietà di granuli chiari).

- Il giorno successivo stesa del granulato con colore scel-to, impastato con ossido, del colore simile al granulato, e cemento. Dosaggio: un secchio da muratore di granula-to, cemento circa 25/30 kg, ossido per ottenere il colore voluto. Applicare la malta in due riprese, ogni volta di un centimetro. Pareggiatura a staggia e lisciatura a cazzuo-la rovescia, bagnando leggermente se necessario.

- Dopo 3 / 4 giorni effettuare una spuntatura con mazzetta e scalpello a punta (si consiglia di non usare macchine perché il lavoro deve essere controllato ad occhio affin-ché risulti uniforme).

4) Granulato finito a frattazzo lungoÈ un intonaco di colore rosa antico con superficie ruvida.Mescolare n. 10 secchi da muratore di cocciopesto acqui-stato dalle fornaci, 6 e mezzo secchi di calce aerea, due secchi di polvere di marmo rosa.Spalmarlo a più mani a distanza di tempo perché la presa è lenta.

5) Stuccatura crepe Negli intonaci le crepe verticali sono generalmente pro-dotte da assestamento del terreno e non presentano gravi

34pericoli. Per eliminarle bisogna creare una nuova fascia di intonaco sostenuta da rete di nylon che si trova in commer-cio. Se la crepa è orizzontale, è bene prima far controllare da un tecnico la causa, poi incuneare e rifare una fascia di intonaco con rete.

6) Per cercare di eliminare le tracce di umidità sui muri, bi-sogna usare gli intonaci multistrati osmotici. La muratura di sottofondo deve essere pulita, se ha bisogno di rifacimen-ti è cosa migliore usare malta osmotica; se si usa invece malta idraulica è necessario creare profonde connessure con punta e martello. Per costruire l’intonaco osmotico è necessario seguire le tabelle tecniche. Dopo qualche de-cina d’anni però l’umidità torna a rivedersi, perché i sali del laterizio portati verso l’esterno dal vapore acqueo, chiudo-no gli alveoli dell’intonaco aerante, così l’umidità si rivede.

Materiali da costruzioneNegli ultimi due secoli, con la diffusione dei leganti idrau-lici, che venivano venduti pronti all’uso in sacchetti da 50 kg, e in concomitanza con una crescente domanda di abitazioni, l’industria edilizia ha sviluppato materiali a bas-so costo, di facile reperimento e, in qualche caso, anche adatti al fai da te. Se una volta si usavano solo mattoni, tavelle, coppi, pietre, calcina e legno, oggi la gamma dei materiali è molto più ampia e si presta a lavori duraturi ed innovativi.Io qui voglio ricordare alcuni materiali del passato, alla cui lavorazione o produzione ho assistito di persona.

35- Blòchi, blocchi di calcestruzzo di cementoNel periodo che va grosso modo dal 1920 al 1980 vi è sta-ta una larga produzione di blocchi, per realizzare abitazioni ma soprattutto magazzini, stalle e tettoie. Produrre i blocchi era facile e, con modeste attrezzature, si potevano anche fare da sé chiedendo informazioni ai muratori: si riempivano stampi, anche in legno, con calcestruzzo che si poteva otte-nere facilmente impastando ghiaietta o pietrischetto, sab-bia e cemento in quantità prestabilita.Alcune ditte, tuttavia, cominciarono a produrli, su scala arti-gianale o industriale, con stampi di ferro, con forme studiate per renderli meno pesanti (realizzandoli forati), con misure standardizzate da cm 30x25x20 e con l’ausilio di macchine che rendevano molto veloce il ciclo produttivo (la più famo-sa di queste era la blocchiera Rosacometta). - La piéra, la pietra.Durante la mia attività ho avuto a che fare soprattutto con la pietra dei Colli Euganei: il calcare, del quale ho parlato a proposito della calcina, e la trachite, con la quale ho fatto una lunga esperienza.Fino ad una trentina di anni fa vi erano cave sparse ovun-que nei Colli, finchè una legge regionale non le ridusse a poche e defilate, per trachite da lavoro. A Monselice furono allora chiuse tutte le cave. I due colli di Monselice hanno pietre molto diverse tra loro. La Rocca dava una trachite grigia con venatura adatta a diverse lavorazioni. Il Monteric-co dava invece una trachite di colore tra il giallino ed il rosso sbiadito, senza una precisa venatura, che si prestava a rea-lizzare terrapieni e sottofondi. Questa ultima pietra cominciò

36ad essere usata nell’Ottocento ed ebbe un forte mercato solo per una trentina d’anni dopo il 1945, cioè dopo la fine della guerra. La pietra della Rocca, invece, fu molto usata nei secoli passati, tanto che il profilo del colle è oggi pro-fondamente intaccato dalle cave ed il suo volume origina-rio si è drasticamente ridotto. I prodotti che si realizzavano andavano dai davanzali agli architravi e stipiti per porte e finestre, dai conci scolpiti per porte di chiese e palazzi, a co-lonne e colonnine per balaustrate. Erano anche prodotti in gran quantità i sélesi usati nelle varie località che potevano essere raggiunte dai barconi, specie a Venezia, dove c’era anche un approdo riservato a loro. Il lastricato settecente-sco di Piazza San Marco è partito da Monselice. Nella nostra città la trachite della Rocca è stata ampiamente utilizzata, soprattutto nel Seicento e in particolare dai Duodo nella loro Villa sul Colle, che rappresenta una sorta di enciclopedia delle potenzialità di quel materiale, oltre ad una testimo-nianza dell’ abilità di quegli antichi scalpellini. Ritornato nel 1945 dalla prigionia conobbi Amabile, la non-na di un mio coetaneo, che mi raccontava come da giova-ne avesse trasportato con la carriola i sélesi dalla cava della Rocca fino ai barconi che ormeggiavano vicino al ponte della pescheria, dove esistono tuttora una mura per facilita-re lo scarico ed una scaletta che collega il livello dell’acqua alla strada. Mi spiegò anche come era fatta la carriola, che poi vidi nel suo cortile. Aveva lunghe stanghe ed il piano di carico vicino alla ruota. Per il trasporto si aiutava con una robusta fascia cinta al collo, terminante con due asole che venivano infilate nelle stanghe.

37Ho anche avuto modo di osservare all’opera diversi scalpellini che lavoravano i sélesi. Perimetralmente disegnavano i lati e poi rifilavano il blocco con lo sciapìn; il piano veniva finito, a seconda delle richieste, a punta fina o grossa, o anche boc-ciardato. Era un lavoro pesante, che veniva svolto sempre all’aria aperta per respirare polvere il meno possibile. Oggi agli scalpellini sono subentrati i marmisti che hanno a dispo-sizione molte macchine per eseguire le operazioni una volta fatte solo a mano e lavorano entro capannoni con impianti di aerazione e di recupero dell’ acqua di risulta.Attorno al 1950 abitavo in una casa vicino ad una piccola cava abbandonata ai piedi della Rocca. Là si installò un an-ziano ex scalpellino, da tutti chiamato Mescola. Costui si indu-striava a guadagnare qualcosa vendendo carretti di pietrisco che servivano per inghiaiare le diverse strade di campagna allora non asfaltate. Lo otteneva spaccando i copacàni, pic-coli sassi residui della lavorazione della trachite che si trova-vano ancora sul posto. Finiti i sassi piccoli il Mescola passò ai pezzi più grandi, le maségne. Un giorno mi accorsi che era riu-scito a rompere un masso. Mi fermai e gli chiesi come ci fosse riuscito da solo senza mazza e cunei di ferro, come si faceva nelle cave. In silenzio si accostò ad un altro masso, controllò attentamente le venature e poi prese uno scalpello a punta e cominciò a fare 4 - 5 incavi sulle venature. Prese poi dei cunei di robinia, rubìn, e ve li conficcò col martello. Bagnò abbon-dantemente il legno e mi disse di tornare l’indomani. Quando lo rividi, il masso era spaccato: il legno, assorbendo l’acqua, si era gonfiato separando la pietra lungo le sue venature. Mi disse: “è un trucco molto antico”.

38A proposito dei copacàni va ricordato che alla fine dell’ Ot-tocento alcune vie del centro cittadino vennero lastricate con questi sassi, infissi col martello su un letto di sabbia, da cui il nome di martellina per questa pavimentazione.Le cave del Montericco davano una pietra che serviva, come ho gia detto, per rinforzare gli argini dei corsi d’acqua e venne utilizzata ampiamente a seguito della esondazio-ne dei fiumi Reno e Po nei primi anni del 1950. In seguito, gli scavatori si dotarono di frantoi per ottenere pietrisco, per il quale c’era una forte richiesta. Passando attraverso dei vagli, il materiale frantumato era selezionato in base alla grossezza. Il pietrisco grosso era usato per le massicciate del-la ferrovia, quello medio per sottofondi di pavimentazioni, quello piccolo come manto per strade di campagna. Con una doppia passata al frantoio si otteneva pietrisco scelto, pulito e completo di sabbia trachitica, usato per impastare il calcestruzzo, e piuttosto ricercato perchè meno costoso della ghiaietta di fiume. Ho visto spesso al lavoro quei frantoi, anche per averne installato uno, costruendone la base ed i muri contenimento con l’utilizzo di materiale prodotto in sito.- Quarèi, mattoni e laterizi in genere.Fin da giovane, negli anni ‘30, ho raccolto varie notizie sulla produzione di laterizi (mattoni, tavelle e coppi), che erano fatti a mano. Allora abitavo a San Bellino (RO) e di continuo vedevo una bella casa isolata, con una piccola ciminiera quadrangolare ed un magazzinetto che girava attorno alla sua base. Dato che non la vedevo fumare, incuriosito, chie-si chiarimenti al proprietario, che era impiegato comunale. Mi spiegò che, per costruire la casa, suo padre e suo nonno

39avevano per prima cosa fatto erigere il fornaciotto, poi con l’aiuto di alcuni compaesani avevano cotto i mattoni neces-sari e con essi fatto erigere la casa dai muratori. Continuò dicendomi che una volta era uso preparare un fornaciotto il più vicino possibile al sito della nuova abitazione, se in loco si poteva trovare, sotto lo strato di terra arabile, dell’argilla e se si poteva realizzare un pozzo per avere acqua potabile a disposizione (per la ricerca dell’acqua c’era il rabdomante). La cottura dei mattoni veniva poi fatta con la legna trovata nei campi. Il sistema permetteva di risparmiare ed, in aggiun-ta, il fornaciotto poteva in seguito essere usato gratuitamen-te da chi ne aveva bisogno, perché tutto era fatto con aiuti vicendevoli gratuiti. Un ex fornaciaio, che conobbi in seguito a Santa Maria in Punta sul delta del Po, dove io sono nato, mi spiegò che sulle golene del fiume una volta c’erano molti for-naciotti che utilizzavano come materia prima il limo argilloso portato dalle piene e, per la cottura, la vegetazione che là cresceva rigogliosa. Questi ultimi furono soppressi durante il fascismo, con una legge intesa a preservare l’ambiente na-turale e, forse, anche per favorire lo sviluppo industriale delle grandi fornaci.Una volta anche nelle grandi fornaci il laterizio veniva lavo-rato a mano. L’argilla veniva cotta in celle poste lungo un tunnel a percorso ovale, con sopra un corridoio di servizio ove vi era sopra ogni cella un foro per infilarvi uno spruzza-tore di nafta per la cottura. In questo modo era possibile riempire di materiale da cuocere le prime celle e contem-poraneamente svuotare le ultime del materiale già pronto. Oggi la produzione è interamente automatizzata ed una

40serie di macchine impastano, trafilano, cuociono, sfornano ed impacchettano con teli di plastica i vari prodotti. Devo constatare che i laterizi così ottenuti hanno caratteristiche di resistenza superiori a quelli dei miei tempi.Ritengo utile dare poi qualche suggerimento sull’utilizzo dei laterizi, sulla base dell’ esperienza maturata durante il mio lavoro di impresario.• I coppi devono essere privi di punti bianchi, lo scaranto, perché la pioggia li gonfia facendo scoppiare delle scheg-ge che indeboliscono il coppo. Una volta il prodotto miglio-re e più sicuro era quello di Possagno.• L’argilla dei mattoni può avere delle impurità che fanno affiorare sui muri una patina bianca, il salnitro, che permane a lungo e chiazza anche gli intonaci.• Se nei restauri si demoliscono murature antiche è bene conservare i mattoni, pulendoli prima dalla calcina che si stacca facilmente con la martellina. I mattoni a mano pos-sono essere usati per realizzare modanature a vista, che ri-sultano più facili da eseguirsi di quelle fatte con i mattoni trafilati attuali. Ricordo comunque che i mattoni vecchi ave-vano misure leggermente diverse da quelle degli attuali.

Malta con calce aerea calda (broòto)Una volta il broòto era considerato una malta molto forte, oggi è sostituito da malta cementizia. Nel cantiere le zolle di calcare cotto venivano bagnate e polverizzate con zappe dal manico lungo entro un grosso cordone circo-lare di sabbia. La poltiglia calda che si otteneva veniva subito mescolata con la sabbia e posta in opera con una

41badila (perché calda). Prima però il muratore provvede-va a fare una casseratura di contenimento ponendo in opera nei due lati della muratura dei sassi ben lavorati e fissati con malta bianca fredda e cazzuola e poi all’inter-no venivano posti sassi e broòto.Questo sistema di muratura si chiamava lavorazione a madonéte, come ho precisato precedentemente. Il ri-empimento, per i lavori accurati, veniva fatto lentamente ponendo in opera sasso e broòto in modo da creare un muro solido, talvolta invece per risparmio, i sassi venivano posti all’interno alla rinfusa, facendo poi col broòto solo la rasatura.Ho visto fare una larga fondazione di circa un metro per una soprastante muratura in alzato dello spessore di 60 cm, il tutto lavorato con sasso e broòto. Per la muratura in alzato hanno eseguito, per ogni 80 centimetri di lavo-razione in sasso e broòto, due corsi di mattoni per creare un collegamento, usando qui però malta bianca fredda, il tutto fino a una altezza di circa 4 metri.

Opere di consolidamento per difetti o per varianti. Questi lavori sono diversi gli uni dagli altri, per le diverse qua-lità del terreno, delle modalità costruttive, della manutenzio-ne e del cambio d’uso. Essi presentano molteplici problemi e qui parlerò solo di quello che ho fatto o visto.

1. Acqua sorgiva negli scantinatiDiverse case costruite al tempo del boom del dopo guerra presentano grossi difetti, generalmente perché sono opere

42di muraréti (muratori improvvisati) che hanno lavorato con poca capacità e molta economia. Una di queste deficienze è la infiltrazione d’acqua negli scantinati. Io ne ho bonifica-ti due: uno seminterrato e uno addossato a un terrapieno. In entrambi mancavano le solette armate di sottofondo e le murature della zoccolatura in calcestruzzo erano molto porose, essendo state gettate in opera con poco cemento, per cui l’acqua entrava con facilità. Per evitare questo in-conveniente ho costruito una scatola di calcestruzzo arma-to ben pastoso, additivato e con una giusta granulometria degli inerti. Per primo ho demolito pavimento e sottofondo, picconato l’intonaco dove bisognava e pulito ben bene le pareti; poi ho gettato la soletta di base con doppia arma-tura di rete metallica (anche sopra per vincere la pressione dell’acqua sorgiva). Ho posto in opera perimetralmente nel getto del pavimento una fascia di gomma speciale, chia-mata in commercio water-stop che assicura la tenuta di infil-trazioni d’acqua tra soletta e muratura in alzato. Gli spessori sono stati, su una larghezza di 4 / 5 m: soletta cm 20, pareti cm 15. Dopo oltre vent’anni tutto è ancora valido.

2) Ampliamento vaniSe si desidera costruire al piano terra una sala, unendo più vani adiacenti, ma divisi da muri portanti, è possibile farlo usando profilati di ferro, perché questi permettono un ingom-bro parecchio inferiore alle opere di c. a. Prima dei lavori è necessario una estesa puntellazione che permetta di lavora-re in sicurezza, poi si può procedere alla posa delle strutture in ferro calcolate da ingegneri, previe le debite demolizioni.

43Con le opere in ferro (profilati HEA / HEB / IPE) si tratta di realizzare una cornìse cioè un rettangolo con i lati uniti da saldature, fazzoletti, piastre e bulloneria (i fazzoletti sono piccole lamiere poligonali di grosso spessore saldate nei fianchi delle putrelle per rinforzarle, distribuendo così i ca-richi supportati su tutta la lunghezza). Finita la posa, il ferro dovrà essere annegato in calcestruzzo grasso, per la difesa contro la ruggine e anche perché poi il paramento otte-nuto si può intonacare. Volendo, le travi di ferro si possono anche rivestire con mattoni, o listelli di laterizio, lavorandoli con malta grassa di cemento (la malta di cemento è un forte collante sul ferro, basti pensare alle opere di c. a.).È vero che c’è una difficoltà nel completare il getto di cal-cestruzzo sull’acciaio dell’architrave; però la si può supe-rare con qualche lavoro supplementare. Se il solaio supe-riore è di legno vi è senz’altro la possibilità di finire il getto da sopra, se c’è un solaio di laterizio si possono fare dei fori passanti sul solaio, oppure usare cazzuola e pazienza but-tando un po’ per volta del calcestruzzo per intasare i vuoti.

3) Consolidamento della muratura con opere di c.a.Il cemento armato si presta bene a risolvere i problemi statici, anche quelli che provocati dai terremoti. Le tec-niche ci sono, solo bisogna rispettare tutte le regole che richiede il lavoro, e ricorrere anche ai calcoli e ai consigli di tecnici preparati alle metodiche relative al risanamen-to delle vecchie costruzioni. Non ci si può fidare del col-po d’occhio perché le vecchie costruzioni non mettono in mostra tutte le loro deficienze; è meglio esagerare nel

44consolidamento che limitarsi a eliminare quello che è visibile.L’esecutore deve fare la massima attenzione, prima nei pon-teggi di sicurezza, poi nei getti di cemento armato. Bisogna posizionare il ferro con giustezza e poi procedere al getto in modo continuo, fino a che non è completato. Va da sé, anche, che il calcestruzzo deve essere pastoso, ricco di ce-mento, e posto in opera con attenta vibrazione.Due getti distinti si possono unire con “chiamate” cioè sovrap-posizione di tondini di ferro per 30/40 volte il diametro; è bene anche che le facce di unione siano ruvide e boiaccate.Ora descrivo i lavori di restauro statico eseguito sotto la di-rezione di un ingegnere usando il “metodo Friuli”, così l’ha chiamato il D.L. A Tribano, ho consolidato una lunga mura-tura interna, di sasso, che sosteneva due solai con grandi vani (uno a destra e uno a sinistra). Prima ho puntellato i solai, poi ho controllato le fondazioni, che sono risultate suf-ficientemente solide. Quindi ho fatto pulire le due facce del muro scalpellando gli intonaci e demolendo quanto era in-coerente. Dopo una lavata a spruzzo di 100 atmosfere, per togliere polvere e piccole scaglie, ho fatto mettere vertical-mente una rete di acciaio in ogni faccia con le giuste so-vrapposizioni, unendole con speroni sagomati a doppio set-te: lavoro fatto forando il muro ogni cm 30 sui due lati. Dato che le lame di calcestruzzo dovevano avere uno spessore minimo di cm 5, ho posto le reti a 2 cm dalla faccia esterna. Eseguito tutto questo lavoro preparatorio, ho cominciato il getto spruzzando il calcestruzzo; con piccola granulometria, poca acqua e usando additivi, adoperando le scodelle col-legate a un compressore. Ogni quattro ore ho eseguito un

45tratto di lastra sotto sopra, tirata a frattazzo lungo. Finita la costruzione delle lastre ho steso l’intonaco normale; ho de-molito i ponteggi dopo i classici 28 giorni richiesti dalla legge per la presa; per la cronaca quei solai erano parte degli uf-fici comunali, sempre piuttosto trafficati.

4) Ricostruzione di muratura in sasso a faccia vista di una casa.Ho ricostruito un muro di sasso a faccia vista molto deterio-rato. Dopo il solito ponteggio interno per sostenere il solaio e quello esterno per la lavorazione, ho forato in alto il muro e posto in opera dei sostegni trasversali in legno, cavalòti, per sostenere il muro di facciata, (i cavallotti sono pezzi di trave posti a cavallo di un muro per sostenere la parte alta e sono sostenuti con due ponteggi). Demolito il muro ho scelto i sassi migliori, mandando a discarica il rimanente. Ho com-perato sassi nuovi similari, mescolandoli nella ricostruzione a quelli vecchi. Ho demolito anche un tratto di fondazione per formare un anello di c. a. con piccole chiamate per la muratura. Ho realizzato l’isolamento di base con asfalto steso a caldo. Ho cominciato a ricostruire una madonéta di sasso all’esterno, mentre all’interno ho fatto una casseratu-ra con pannelli da cm 2,5 di Eraclit (elemento portaintona-co e nel contempo coibente), per ottenere una muratura di cm 40, come era prima. Poi ho gettato calcestruzzo fino al sasso più basso della madonéta, nel contempo ho posto in opera altre piccole chiamate e un ferro longitudinale an-negato nel calcestruzzo; continuando poi a fare così fino alla conclusione del lavoro.

46Preciso che ho usato la malta bastarda (calce e cemento), che il calcestruzzo era grasso di cemento e che il ferro ave-va un diametro di millimetri 10.

5) Consolidamento di mura di cinta.Una mura alle falde del colle Rocca aveva una larga crepa. L’ingegnere mi ha fatto costruire due tiranti orizzontali in c. a. incassati su due livelli nella muratura e terminanti, a destra e a sinistra, con un bulbo. Per realizzare il bulbo ho allargato i quattro ferri nervati del cordolo. I cordoli che tenevano uni-ti due tratti di mura, facevano lavorare, a mezzo dei bulbi, una fetta a destra e una a sinistra della muratura di cinta esi-stente. Alla fine ho chiuso la crepa con malta cementizia e con scaglie di sasso. Dopo trent’anni tutto è ancora a posto.

6) BarbacaniHo avuto l’occasione di consolidare una alta mura di cinta, lunga più di cento metri, che aveva varie crepe e cedimenti. Una volta costruivano il barbacane in mattoni, un grosso cuneo di laterizio parzialmente incassato nella muratura cui si addossava, con una base di ampie dimensioni che poi si rastremava, per finire in altez-za a zero. Io invece ho realizzato il consolidamento con colonne di c. a. nelle quali andavano a incastrarsi le murature laterali. Le colonne sono state armate con otto ferri e staffe ravvicinate per resistere a qualsiasi movimento, ancorandole alla base su robusti plinti posti a cavallo della muratura: qualcuno l’ho dovuto fare “zoppo”, cioè costruito da una sola parte, per via di un fosso. In via precauzionale ho sempre provveduto a parziali puntellazioni. Dopo trent’anni tutto è ancora in ottimo stato.

47Ristrutturazione totale di un edificio cittadinoOltre alle opere di restauro e consolidamento già dette, bisogna anche considerare la ristrutturazione completa di edifici, posti nei centri abitati: queste opere richiedono soluzioni tecniche parti-colari per lo specifico contesto in cui avvengono. Come linea indicativa trascrivo come mi sono comportato in un caso. Ho ri-fatto l’interno di un edificio, costruito nel primo ottocento, su tre piani ognuno di duecento metri quadrati circa. Era circondato su tre lati da vie pubbliche lastricate, aveva tre negozi al piano terra, appartamenti nei piani alti, e tutto era molto degradato.Ho iniziato facendo demolire pavimenti, tramezzi e manti di tavelle e coppi, lasciando intatte le strutture di legno e le murature portanti, sbadacchiando con crociere tutti i fori. Ho iniziato al piano terra, operando in modo graduale e co-struendo e demolendo successivamente i ponteggi di salva-guardia man mano che i lavori proseguivano. Eseguito l’escavo interno fino al terreno compatto ho fatto il getto di un grosso solettone che aveva incorporati sia robusti anelli perimetrali dai quali fuoriuscivano numerosi pettini infissi nelle fondazioni, sia le piastre basilari delle colonne. Puntel-lando poi sul solettone le murature dei piani superiori, ho de-molito lo scheletro del primo piano, sostituendolo con tiranti metallici agganciati nei fori dirimpettai. Così ho potuto get-tare le colonne di base e il primo solaio in laterocemento. Poi ho proseguito nello stesso modo per il secondo solaio e per il tetto. Mentre eseguivo questi lavori di getto ho incontrato lungo il percorso vari tubi di acciaio del ponteggio. Li ho via via fasciati con carta, per isolarli dal getto, ed ho continuato il lavoro; alla fine li ho recuperati con facilità.

48Mentre venivano eseguiti i lavori sul primo e secondo pia-no, ho fatto fare la bonifica generale delle murature lese, o per cambio di fori, usando il metodo del “cuci scuci”: al proposito ricordo che ne ho eseguito circa venticinque metri cubi. Il “cuci scuci” consiste nel demolire piccoli tratti di muratura ammalorata, ricostruendola contemporanea-mente con materiale similare integro (lavoro che si esegue specialmente nelle murature di mattoni).Completato il tetto aerante, ho fatto le varie tramezza-ture e la bonifica delle murature degli ultimi piani con un’altra decina di metri cubi di “cuci scuci”. Nel costru-ire le suddivisioni degli spazi per i servizi dell’unico salo-ne del piano terra, e per costruire quattro appartamenti negli altri due piani ho sempre tenuto conto della posa dei tubi coibentati per riscaldamento e ventilazione e dei tubi per gli altri impianti, raggruppandoli il più possi-bile per avere sul tetto poche torrette. Sono stati messi in opera isolamenti, coibentazioni e quant’altro necessario per il ricambio dell’aria stagnante negli appartamenti. Quest’ultimo è un problema che sorge perché oggi gli appartamenti hanno strutture quasi impermeabili che permettono l’aerazione solo aprendo le finestre. Una volta i mattoni fatti a mano e la calce aerea erano po-rosi, così pure i serramenti erano pieni di fessure: era sta-to calcolato che il ricambio dell’aria nei vani avvenisse per osmosi ogni otto ore. Oggi non più: bisogna evitare il formarsi di sacche d’aria che danno cattivi odori e che, d’estate possono creano scompensi sulle dilatazioni del-le strutture.

49Ponteggi, armaduraOggi sono tutti in ferro, una volta tutti in legno.Per memoria scrivo quanto ho visto parecchie volte per realizzare armature di legno nella costruzione di fabbricati. Il ponteggio era principalmente formato da una intelaia-tura esterna distante dalla muratura 1/1.2 metri. I ritti, af-fondati nel terreno, a seconda delle altezze da ottenere, erano delle gioàte o piànte poste alla distanza di circa 3.6 metri l’una dall’altra, per via delle palàncole da 4 metri che dovevano sovrapporsi alle estremità per non lasciare fori e che servivano per i camminamenti.Quando il ponteggio doveva essere più alto di 5/6 metri e le piànte non erano sufficientemente lunghe, si dovevano raddoppiare a partire dalla base con una più corta dell’al-tra, perché le giunture dovevano essere sfalsate. Le due piànte infisse erano rese solidali via via, con le caldèe in-chiodate. Per ogni due metri di altezza si doveva creare un impiantito di lavoro. Così si mettevano orizzontalmente le filàgne fissate alle piànte. Dapprima questo fissaggio era formato da un tappo di sostegno inchiodato, poi si doveva fare un legaccio di tenuta con la corda. Questo sistema è stato sostituito da un ferro a T sagomato: in basso ave-va una robusta punta che veniva infissa sulle piànte, sopra aveva la culla nella quale veniva posta la filàgna tenuta bloccata da una catena di acciaio che, agganciata al T, veniva avvolta sulla piànta mentre l’ultimo anello era as-sicurato con un chiodo di ritegno sul legno. Gli stanghéti trasversali venivano poi posti, senza legarli, poggiandoli sul-la filàgna e sul muro di costruzione. Sopra veniva fatto il

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Fig. 13. Ponteggi di legno armatura di una volta.A 1) Rugolòn: differenza di spessore tra la fondazione e il muro in

alzata. 2) Pianta/gioata, trave posto verticalmente. 3) Cadèna di ferro a supporto della trave orizzontale. 4) Filàgna/gioata, trave orizzontale. 5) Stanghèto: travicello posto sopra la filàgna e il muro che si sta

costruendo. 6) Palàncole, impiantito di lavoro. 7) Fermapiè: tavola antiscivolo verso l’esterno. 8) Stecàto: parapetto di sicurezza.B 9) Caldèe: tavolette inchiodate per unire due travi.C 10) Cadèna: particolare di come era il sostegno delle filàgne.

51camminamento con tavole, le palàncole (i fori che in certi palazzi antichi si vedono nelle murature perimetrali sono le vecchie sedi degli stanghéti).

Soffitti di tipo vecchio1) Soffitti con “arelle” Una volta si costruivano nelle abitazioni dei soffitti con gratic-ci di canne palustri, stesi e fissati su una intelaiatura di legno, indipendente da quella del solaio, in modo che le vibrazioni, prodotte da chi vi cammina sopra, non si ripercuotessero sul soffitto. Il telaio di legno veniva così costruito: sulle travi, poste con interasse di circa 1.3 m, venivano inchiodati, nella parte inferiore, dei murali con base di 3.5 cm e altezza di 7 cm, in numero di tre ogni metro lineare. Per irrobustire poi gli attacchi alle travi, venivano inchiodate delle liste (caldèe) che univano i murali con le travi. Costruito il supporto ve-nivano stesi i teli di arèle fissandoli con brocche da 3.5 cm attorno alle quali veniva attorcigliato un sottile filo di ferro zincato. Per eseguire questo lavoro di legatura, il muratore usava delle matassine di ferro, arrotolate su uno stecco di legno, per poter tendere al massimo il filo zincato usando lo stecco come punto di forza. Poi si procedeva a creare il rin-zaffo, una malta di sottofondo che veniva sbattuta per farla penetrare nelle fessure del graticcio. Dopo qualche giorno si finiva con l’intonaco frattazzato e, in certi casi, aggiungen-do poi un’altra mano di intonaco con calce aerea bianca: il grassello, grasèo. (In alcuni casi ho trovato dei graticci soste-nuti da spago di canapa ormai tutto rovinato dalla ruggine dei chiodi).

522) Soffitti negli edifici monumentaliNei vecchi palazzi e chiese, i soffitti generalmente sono cur-vilinei e hanno una struttura portante totalmente in legno.Molti anni fa, durante il mio apprendistato, ho visto la rico-struzione del soffitto di una chiesa settecentesca, che era stato distrutto da un incendio per un corto circuito. Posi-zionate le capriate ribassate su due ometti, sono stati mes-si in opera le centine sagomate, sia nel perimetro per fare un’ampia gola, sia in corrispondenza dei grandi finestroni. Quelle centine erano state costruite fuori opera, sagoman-do delle strisce di pioppo da cm 3 di spessore, inchiodate due a due. Il legno migliore per le centine di quel tipo è il pioppo, sia perché è leggero e tenero, sia perché è fibro-so e quindi antifessurazione. Tutta la superficie orizzontale è stata ricoperta invece da murali posti distanziati, per fissarvi dei pannelli di eraclit: materiale formato da un impasto di trucioli di legno annegati in una malta magnesiaca. Una vol-ta costruivano l’intelaiatura porta intonaco con tanti listelli, cantinèe, lasciando fra l’uno e l’altro delle fessure, in modo che il rinzaffo si ancorasse, penetrando negli spazi liberi e poi arricciandosi. Oggi tutti i soffitti vengono costruiti in lateroce-mento, cioè laterizio, ferro e calcestruzzo.

Restauro dei solaio in legno1) Restauri nelle abitazioniGeneralmente i vecchi solai sono oscillanti, o sono ammalo-rati agli appoggi.Nel primo caso è possibile irrigidirli con una soletta superiore in c. a., che però si può realizzare solo se il solaio ha travi

53sufficientemente grosse da sopportare un sovrappeso di kg 150/mq.Nel secondo caso si possono rinforzare gli appoggi con mensole dette anche modiglioni (pezzi di trave posti sotto alle travi portanti, infissi nei muri, e fissate a queste con chio-delle).Per costruire invece una soletta collaborante si deve proce-dere nel seguente modo.- Puntellare il solaio:- stendervi sopra un telo di nylon (perché il legno non assor-

ba poi l’acqua dell’impasto del calcestruzzo) ;- creare nel perimetro dei pettini sui muri ogni 50/100 cm;- stendere la rete di ferro Ø 6 mm oppure Ø 8 mm, con ma-

glie da 20x20 cm, (sempre sovrapponendole di una ma-glia nelle giunture), collegare la rete al solaio con ganci a sette, infissi nel legno per 10 cm circa (l’infissione deve essere fatta forando dapprima il legno, riempiendo il foro di colla epossidica e annegandovi il gancio che deve es-sere solidale con la rete);

- armare con ferro e pettini;- fare il getto finale.È possibile restaurare gli appoggi delle travi ricorrendo an-che al sistema già descritto per le capriate, cioè con infissio-ne di lame di acciaio annegandole nelle colle epossidiche.

2) Restauro solai di legno in edifici monumentaliLe Soprintendenze ai monumenti che li hanno in custodia, adoperano vari metodi di restauro. Personalmente ne ho usato uno nel 1993, calcolato da due fratelli laureandi,

54coordinati dal loro insegnante, per la loro tesi di laurea.Relaziono ora su come ho eseguito i lavori su dei solai li-gnei alla Sansovino, del tardo 1500, con interasse 50 cm e con luce di 5 metri:- Controllo generale con sostituzione delle parti molto am-

malorate (il controllo sui travi l’ho eseguito con un lungo punteruolo: se la penetrazione facile si arrestava dopo alcuni centimetri, significava che il nucleo centrale era ancora resistente; con questo sistema ho fatto poche so-stituzioni).

- Puntellazione del solaio, sia per correggere dove era pos-sibile le flessioni esistenti, sia perché lavorandovi sopra si potevano provocare altre deformazioni.

- Spianamenti con il “flessibile” dove andavano posti i rinfor-zi, perché il vecchio legno fosse combaciante col nuovo.

- Posa in opera di assi (che avevano ricevuta una sicura stagionatura) da 8/25 cm, lunghi 4.90 m (per lasciare agli appoggi degli spazi di 5 cm per la posa degli impianti).

- Fissaggio delle assi nuove con 18 cavicchi per asse, del diametro da 22 millimetri lunghi cm 18 posti a quinconce (comuni manichi di scopa in faggio).

- La posa dei cavicchi è stata fatta in questo modo: fora-ture con punte da 21 millimetri, infissione con mazzetta pesante previa spalmatura di colla vinavil del piolo

- Dopo la costruzione degli impianti negli interspazi fra i sostegni nuovi, ho posto in opera, per la pareggiatura, delle lastre di poliuretano, densità 30: così il solaio è sta-to anche coibentato.

- Sopra è stato costruito un pavimento alla veneta cioè

55un terrazzo di circa 5 cm armato con rete di ferro da 6 millimetri.

- Alla fine di lavori ho fatto rimuovere la puntellazione.

SottofondazioniSpesso le vecchie costruzioni che non hanno le fondazio-ni in c. a. presentano crepe verticali, dovute agli assesta-menti del terreno: in questi casi è consigliabile costruire delle sottofondazioni in c. a. Oggi vi sono ditte specializzate che le fanno, abbastanza rapidamente, con le iniezioni. Circa vent’anni fa, mi è capitato però di dover constatare che non sempre, le nuove tecnologie superano quelle tradizio-nali, forse perché la natura offre casistiche complesse, tutte misurabili solamente con una strumentazione e calcoli molto costosi.1) In una casa, ai piedi del Montericco di Monselice tren-ta anni fa, fu fatto il rinforzo delle fondazioni da una ditta specializzata che fece delle iniezioni. Alcuni mesi dopo, io feci delle sottofondazioni, col metodo tradizionale, in un’al-tra casa sita dieci metri a valle di quella precedente. Oggi, facendo il confronto, vi sono nuove crepe verticali nella pri-ma, e nessuna crepa nella seconda.Per eseguire questi lavori manuali bisogna operare a tratti di circa un metro, distanti gli uni dagli altri, per non creare dissesti nelle strutture.- Fatta una buca aderente alle fondazioni in modo che un ope-

raio possa lavorare, scavando fino sotto alla muratura esisten-te, si deve poi pulire bene le opere messe in luce, si esegue la posa del ferro e successivamente il getto di calcestruzzo.

56- L’armamento deve essere con staffe verticali e orizzonta-

li, ponendo poi dei ferri orizzontali distribuiti all’interno del-le staffe, avendo l’avvertenza di lasciare delle chiamate per il collegamento col futuro blocco: in questo modo il rinforzo deve avere una forma a elle. (Ricordo che se il getto in via normale richiede tre quintali di cemento per metro cubo, per queste opere fatte a più riprese è cosa migliore aumentare la percentuale di cemento fino a quattro quintali. Per qualsiasi fabbricato nuovo, invece, il calcestruzzo deve dare alla compressione i Newton ri-chiesti dai calcoli dell’ingegnere).

- Con questo sistema è possibile, secondo me, costruire an-che dei cantinati interni nelle case esistenti, purché vi sia la sicurezza di non trovare acqua sorgiva. Certamente questa opera è costosa e deve essere eseguita da mae-stranze capaci, sotto il controllo di tecnici.

2) Ho rifatto anche le basi del protiro del duomo duecente-sco di Monselice.- Ho costruita una struttura tubolare in ferro puntellando

tutto il protiro e sostenendo anche le due colonne di sup-porto di marmo.

- Fatte le fondazioni nuove, fino a una quota, inferiore di cm 10 rispetto allo zoccolo marmoreo, ho fatto centrare le co-lonne ben bene e poi ho completato il getto con cemento espansivo fino a una quota superiore allo zoccolo di pietra onde permettere che il calcestruzzo andasse a chiudere il vuoto sotto la zoccolatura. Per fare ciò ho rivestito lo zoc-colo di carta per evitare la presa del cemento sul marmo. Il giorno dopo ho fatto demolire il calcestruzzo eccedente

57in modo che lo zoccolo fosse totalmente visibile.

- Dopo i 28 giorni di presa ho tolto l’impalcato: ora a distan-za di parecchi anni non vi è stata nessuna cavillatura.

3) Un altro particolare consolidamento l’ho eseguito in una Villa veneta, sostituendo una colonna in precarie condizioni statiche. In un ampio salone del piano terra vi era il sovra-stante solaio di legno ricoperto da un pavimento di terraz-zo alla veneziana, sostenuto da una travatura primaria sulla quale poggiavano le travi secondarie. La travatura centrale era formata da due grosse travi di quercia che, unite di te-sta, poggiavano su una colonna di mattoni, piena di crepe. Un ingegnere strutturista fece i calcoli tecnici per porre in opera una colonna in acciaio, e io feci il lavoro seguendo questo schema:- Puntellazione totale del solaio, lasciando la possibilità dei

lavori manuali per costruire il plinto e la posa della nuova colonna di acciaio.

- Dopo aver demolito la colonna e creato sulle travi prima-rie sovrastanti una base a bolla, ho fatto precisi rilievi delle altezze, sia per costruire il plinto che per porre in opera la colonna, considerato che la base della stessa, compresi i fazzoletti, doveva stare sotto la pavimentazione;

- Fatto l‘escavo è stato gettato il plinto in c. a. annegando-vi una contropiastra con quattro tirafondi di grosse barre filettate, sporgenti verso l’alto di circa 10 cm.

- Ho avvitati quattro dadi sui tirafondi e vi ho poggiato sopra la piastra di base della colonna. Con questa operazione sono stati lasciati alcuni centimetri di differenza nell’altez-za necessari per poter posare la putrella senza difficoltà.

58- Posizionamento della colonna di ferro sulla piastra, fis-

sandola saldamente con ponteggi, per poter eseguire i lavori di saldature con fazzoletti, tra colonna e piastra.

- Sollevamento della colonna, girando con speciali chiavi graduate i dadi che erano stati posti sotto la piastra di base, in modo da portare la cima della colonna aderen-te alle travi portanti di legno, poi imbullonamento supe-riore della piastra di base.

- Getto di calcestruzzo espansivo in quantità da coprire i fazzoletti e quindi anche il vuoto sottostante fra le due piastre di base.

- Prima di eliminare i ponteggi dei solai, controllo sul giun-to di unione tra colonna e travi principali, con infissione forzata di lamine metalliche.

- Completamento con minio antiruggine e rivestimento della putrella con pannelli estetici.

Questo lavoro fatto con cura non ha prodotto nessuna ca-villatura.

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IL LEGNO NELLE ABITAZIONI

PREMESSAUna volta tutte le costruzioni avevano solai e tetto con strut-ture lignee, così pure solo di legno erano i serramenti.Il legno veniva lavorato totalmente a mano usando utensili che adesso sono scomparsi quasi del tutto, perché sono sta-ti sostituiti dalle macchine elettriche o a scoppio. Così pure la scienza moderna ha prodotto materiali e metodi innova-tivi che ora tutti usano.Dopo pochi anni dalla prima guerra mondiale quando fre-quentavo le elementari, curiosavo nelle botteghe artigiane che erano vicine alla mia casa, soprattutto in una falegna-meria. Era il tempo in cui nel paese non era ancora arrivata la corrente elettrica di forza motrice, Ricordo bene come lavoravano gli operai: era tutto un continuo segare e pialla-re a mano.Dopo la seconda guerra mondiale, da geometra, ho avuto molte occasioni di cooperare con artigiani, così ho ampliato le mie conoscenze di quello che è stato il prima e il dopo del grande sviluppo edilizio in Italia, allorché essa risorse dalle rovine provocate da cinque anni di guerra.Ho avuto anche la fortunata occasione di entrare più volte in una vecchia bottega di falegnameria. Così, sbirciando qua e là ho visto utensili e marchingegni che colpirono la mia curiosità. Quel falegname si chiamava Guelfo e, dato che era un reduce di guerra come me, fraternizzammo. Ho ancora davanti agli occhi quello che vidi e, nella memo-ria, tutto quello che mi raccontò. Mi spiegò che, escluse le

60macchine elettriche che usava, il restante l’aveva eredita-to da suo padre Leone e anche dal nonno, tutt’e due fale-gnami. Aveva un cassone pieno di vecchi utensili, mentre i marchingegni erano nascosti da legname da lavoro. Dato che gli utensili erano solo dei ricordi, parecchie volte gli dissi di offrirli a qualche museo etnografico, invariabilmente mi rispondeva che erano per lui motivo di orgoglio familiare da lasciare in eredità alle sue figlie, come testimonianza del tempo passato.Guelfo è morto ultranovantenne alcuni anni fa e, per quan-to mi risulta, tutto è ancora al solito posto.Via via descriverò quanto mi ha colpito in quella bottega e in altre.Aldùra: ascia particolare, usata solo per scorticare tronchi l’albero. Aveva la lama da taglio sfalsata rispetto al corto manico di manovra per evitare che il lavoratore sbattes-se le nocche, della mano che azionava l’ascia, sul tron-co. Questo strumento era usato dai falegnami anche per squadrare le travi dei solai e dei tetti delle case modeste, che erano ricavate da piante coltivate localmente (una volta ogni fosso o delimitazione dei campi erano fiancheg-giati da alberature).

Aldùra: ascia che serviva per scorticare i tronchi d’albero campestri per usarli poi nelle costruzioni.

61Botèga: il laboratorio dell’artigiano era la botéga. Ricordo quella dei falegnami che eseguivano per le case pavimen-tazioni, rivestimenti e serramenti. Erano stanzoni al piano terra, ove troneggiava il banco da lavoro di legno. Era un bancone pesante e grande perché non doveva subire spo-stamenti o vibrazioni durante il lavoro dell’artigiano. Aveva due morse: una per stringere verticalmente le tavo-le che si dovevano segare, un’altra per stringere orizzontal-mente gli assi da piallare. Le ganasce delle morse venivano

Banco da lavoro: notare la morsa per segare e la morsa per piallare. Sul piano di lavoro vi sono dei fori che servivano per infilarvi i fermi per piallare.

62strette con vitoni di ferro. Ho avuta però l’occasione di ve-dere delle morse tutte di legno compreso il vitone. Ho chie-sto il perché e il come il verme fosse di legno; mi fu rispo-sto che era una eredità dell’ottocento e che il vitone era di pero, che è legno durissimo. Le botteghe avevano poi dei

Morsa di ferro il cui uso era principalmente per fissare le lame delle seghe per affilarle con una piccola lima a forma triangolare, el triangolo.

Schizzo di una macchina artigianale per arrotare - guare o guzare i ferri delle piale, dei scarpei, delle sgube, delle forbici (pialle scalpelli, sgorbie e cesoie).1) Telaio di legno con quattro

piedi.2) Mola per affilare.3) Recipiente, busoloto, per

bagnare a goccia la mola.4) Recipiente, gamela, per

raccogliere l’acqua e la poltiglia della pietra.

5) Grande ruota, roda, che a mezzo cinghia fa girare la ruota piccola solidale con la mola.

6) Pedale di manovra.

63banchetti fissati al muro con una morsa di ferro per poter affilare, guzàre, i denti delle seghe o tagliare qualche pezzo di ferro. Sui muri vi erano scansie con utensili vari e, sparsi per terra, vi erano ricci e segatura, mentre in tutto l’ambiente vi era un velo di polvere di legno. Ricordo anche di aver visto ovunque la mola che serviva per arrotare le lame da lavoro. Era una vasca di legno contenente, nell’acqua, una mola rotonda che oggi ritengo di circa 30 centimetri di diametro. La vasca era rettangolare alta circa 20/25 cm, lunga 15/20 e lunga 50. Nella parte centrale superiore aveva due bron-zine entro le quali girava il perno della mola; ho visto però anche vaschette fatte alla buona, con una piccola mola che girava su boccole di latta. Il perno era da una parte lun-go almeno 15 centimetri fuori dalla vasca onde permettere che un garzone potesse far girare la mola con una mano-vella senza intralciare il falegname che affilava i ferri della pialla e le cesoie da lamiere. Sul tavolo di lavoro vi era poi una cote, incastonata nel legno che veniva usata per rifare di tanto in tanto il filo alle lame da taglio.Còla caravéa = colla caravella: era il collante molto in uso una volta. Vi erano in commercio delle mattonelle leggere di color marroncino che, scaldandole entro un recipiente, su-bito di liquefacevano diventando colla da spalmare. Dopo qualche ora il materiale si solidificava di nuovo e pertanto, per poterla usare ancora, si doveva riscaldarla e liquefarla.Graféto: parallelepipedo di legno duro, di circa 25x3x12 cm con al centro un foro quadrato, sede di un listello scorrevole avanti e indietro, che veniva fissato con un cuneo e, in un capo, aveva una punta d’acciaio. Facendo scorrere sulla

64faccia da 25x3 cm i listelli da sagomare, la punta d’acciaio faceva piccoli solchi che indicavano il punto dove l’artigia-no doveva procedere col suo lavoro.Piàle = pialle: strumenti di varie grandezze per sgrossare e levigare il legno: avevano diversi nomi a seconda dell’uso.

Piàla: parallelepipedo di legno di circa 25x7x7 cm, con nel mezzo una fenditura nella quale veniva inca-strata e fissata con un cuneo, la lama tagliente con filo orizzontale. Molti artigiani si facevano le pialle da soli. Serviva solo per levigare il legno.

Pialéto: pialla con lama dal filo convesso, serviva per sgrossare il legno.

Soramàn: pialla grande circa 60x10x10 cm, con lama a filo orizzontale, serviva per piallare le coste degli assi onde eliminare qualsiasi gobba e poterli affiancare senza che rimanesse alcuna fessura.

Spondaròla: pialla di misura variabile (mediamen-te cm 20x6x6), usata per sagomare le sponde, cioè le coste delle liste e degli assi. Erano di vari tipi: per fare gli incastri per infilare i vetri, per costruire i limbelli (limbèi), cioè piccoli scassi lineari per costruire le sedi di specchiature di legno o di vetro, per la finitura infe-riore delle portiere. Quelle pialle servivano anche per immaschiare gli assi dei pavimenti: in questo caso erano

Pialle. Nelle immagini 1-4 il soraman, visto nelle varie proiezioni. Serve per piallare le coste degli assi, che devono perfettamente combaciare tra loro. Le immagini successive si riferiscono alle piàle o piòle e ai vari feri necessari per piolàre o pialàre il legno. Esistono anche altre pialle, dotate di lame speciali, in funzione dei vari lavori da eseguire: sgrossare il legno, creare gli imbelli, fare cornici.

65

66di due tipi: le piàle màs-ci e le piàle fémene.

Fascèa: pialla, di misura simile alle spondaròle, che serviva per le cornici; aveva il filo della lama tagliente sagomato a seconda dei profili che si voleva ottene-re. Per questo ve n’erano di diversi tipi.

Sèga: lama dentata di acciaio posta su telaio manovrato a mano. Ve ne erano di vari tipi.

Sèga comune: era una lama sottesa da un telaio ret-tangolare di legno, manovrato da un solo falegname. Descrivo il telaio perché ora è stato sostituito da un archetto tubolare di ferro. Il telaio di circa cm 60 x 40, aveva i lati corti sagomati in modo che verso la lama vi erano le impugnature e, verso l’altra parte, delle sedi di alloggio di una doppia funicella. I lati lunghi comprendevano tre elementi: la lama dentata, un distanziatore centrale incastrato nei lati corti e la fu-nicella doppia. Questa veniva attorcigliata con una stecca che trovava il proprio fermo nel distanziatore. Diminuendo la lunghezza della cordicella, va da sé che il lato opposto (la lama) veniva teso, mentre il di-stanziatore si fissava sempre più negli incastri: la sega era pronta per il lavoro.

Segàzo = saracco: una larga e corta lama dentata, con spessore superiore alle seghe comuni, che aveva una manopola da un lato per manovrarla.

Seghe. Le immagini 1 e 2 mostrano il segòn, per grosse assi (vedi fig. 15). L’immagine 3 si riferisce alla normale sega; l’immagine 5 è un seghèto per lavori ad andamento curvo. Le diverse lame, hanno denti di dimensioni e angolature diverse, a seconda dei diversi lavori da eseguire. Le immagini 13 e 14 mostrano i tenditori , utili per regolare la tensione delle lame.

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68Segòn: lama dentata larga, grossa e lunga circa 180

cm; ve ne erano di almeno due tipi: uno per i tron-chi di albero che aveva alle estremità dei cilindri per fissarvi i bastoni di manovra, un altro con maniglie di acciaio per la manovra, che aveva denti e spesso-re superiori del precedente perché veniva usato per materiali duri. Infine c’era un segòn per le tavole di grosso spessore. Era un rettangolo di legno di circa cm 120/60. Aveva nei quattro angoli delle impugna-ture che venivano azionate da due falegnami. La lama centrale era parallela ai lati maggiori ed era sottesa da tenditori di acciaio con viti regolabili.

Seghéto: per i falegnami era un piccolo telaio di le-gno con lame a piccoli denti; serviva per fare tagli curvi o sagome non lineari; per il taglio del ferro inve-ce serviva il seghéto con un piccolo telaio robusto di ferro e una lama con denti piccolissimi.

Stucco: stùco Una volta era il falegname che se lo prepa-rava per ogni lavoro che eseguiva. Mescolava con una spatola, secondo i bisogni, una quantità di gesso statuario (diverso dal gesso da presa che usa il muratore) con l’olio di lino cotto e un pizzico di terre colorate. Doveva ottenere una poltiglia consistente per stuccare i fori sulle superfici la-vorate del legno. Esempio: quando univa due tavolati con i chiodi ribattuti rimanevano delle piccole tacche sulle due superfici; il falegname le ricopriva con stucco schiaccian-dolo più volte con la spatola perché otturasse completa-mente la tacca. Induritosi lo stucco, le superfici venivano scartavetrate.

69Tràpani: servivano per fare sul legno fori fino a 3 cm circa. Ora sono elettrici, una volta solo manuali. Ho avuto modo di ve-dere lo sviluppo tecnico di questo utensile. Il corpo principale, che rimase sempre di forma costante: era un archetto forma-to da un tondino robusto di acciaio a forma di U che termina-va con due ali: una per agganciarvi la punta da taglio vèrme, l’altra con un grosso bottone di legno per far forza nel forare, mentre nel centro della U vi era la manopola da lavoro. Sia il grosso bottone che la manopola permettevano al manovra-tore di far girare la punta, e nel contempo premerla perché penetrasse. Nei primi trapani ho visto che il gambo della pun-ta aveva una sezione quadrata che andava ad incastrarsi in un alloggio, anch’esso quadrato, fornito di una vite a farfalla per fermare la punta. In seguito, a questo scopo, fu adottato un mandrino. È questo un meccanismo costituito da una ghie-ra, entro la quale vi sono delle ganasce: girando la ghiera le ganasce si allentano o si stringono. Dopo poco al mandrino fu aggiunto lo scrocco, utile se il legno da lavorare fosse stato particolarmente duro. Ho visto anche un marchingegno arti-gianale che mi ha fortemente colpito. Era un telaio tutto di le-gno robusto, ma nel contempo sufficientemente leggero per poterlo spostare. Aveva la forma di un parallelepipedo di circa cm 70x25x40 di altezza. Era composto da quattro tavolati: due piccoli verticali che formavano le gambe, due grandicelli che erano i ripiani sovrapposti. I due più piccoli avevano finestrelle quadrate opposte che facevano da guida allo scorrimento, avanti e indietro, di una lunga asta orizzontale di manovra. Quelli più grandi invece avevano due grandi fori rotondi che erano di guida ad un grosso perno verticale porta punta.

70La rotazione era ottenuta con l’andare avanti e indietro dell’asta orizzontale, che costringeva due cordicelle, una a srotolarsi e l’altra a avvolgersi sul perno, in modo contempo-raneo, facendolo girare prima in senso orario poi antiorario. Per far penetrare la punta il falegname doveva premere sul pomolo superiore del perno che era snodato e contempora-neamente controllare la perforazione.

Fig. 16. Schizzo di un trapano artigianale costruito con legno.1) Telaio.2) Pomolo mobile per premere sulla punta.3) Asse rotante e cilindro, porta punta per forare, con guide sui due

ripiani.4) Lunga asta a sezione quadrata guidata dalle due finestrelle

esistenti nei fianchi. Il movimento di questa asta, fatto avanti indietro, faceva girare l’asse con due cordicelle, fissate da un capo all’asse rotante e dall’altro all’asta.

5) Un nasello, fissato sotto l’asta, tratteneva un capo della cordicella di sotto e nel contempo serviva da fermo nell’andata dell’asta.

6) L’altro nasello fissato sopra l’asta aveva la stessa funzione nel ritorno. Con questi movimenti di andata e ritorno le cordicelle erano costrette e rotolarsi e srotolarsi nel perno cilindrico facendolo girare.

71La punta d’acciaio aveva la particolarità di finire legger-mente conica con due fili di taglio rovesci, uno per l’andata e uno per il ritorno dell’asta.Parlando di trapani mi torna prepotentemente alla men-te il trapano dello Stammlager XVII A dove ero prigioniero. Nell’ottobre 1943 facevo l’interprete tra i miei commilitoni e un medico francese, che curava un ambulatorio per i pri-gionieri francesi, russi e italiani. Mi venne un feroce mal di denti e chiesi aiuto al medico. Egli mi guardò in bocca, pre-se un trabiccolo di legno, che era in un angolo coperto da un telo, mi spruzzò un po’ di etere in bocca, mi disse “non ho che questo e ora stringi i pugni”. Trapanò, pedalando come facevano gli arrotini, mi tappò il buco con uno stucco bian-co, sentii forti dolori, ma non gridai. Per oltre due anni non ebbi bisogno del dentista!Trivéa: trivella, altro utensile per fare i fori grandi nel legno. È un’asta d’acciaio che ha una parte sagomata a vite con filo elicoidale per tagliare il legno, dall’altra un grosso anello per infilarvi un manico di manovra. Più faceva buchi grandi, più la trivella aveva il gambo lungo e robusto.Oggi col nome trivella vengono indicate anche quelle per estrarre il petrolio o quelle pneumatiche per forare materiali compatti, come roccia e calcestruzzi.

Trivelìn: trivella molto piccola da usare con una sola mano: Aveva un manico incorporato e serviva per fare fori di pochi millimetri.

Tornio per legno. Girando per le vecchie botteghe ho vi-sto anche due torni che oggi non si trovano più da nessun artigiano e, direi, che non si trovano neanche nei musei.

72Entrambi avevano il banco di sostegno degli utensili in ghisa e, in acciaio i pezzi manovrabili come le slitte, il mandrino, il fermo e la piastra di appoggio degli scalpelli, scarpèi, e sgorbie, sgùbie. Diver-so però era il metodo di rotazione del pezzo di legno da tornire, te-nuto stretto tra il fermo, mobile avanti e indietro, e il mandrino che girava. Secondo un metodo occorrevano due persone, con il fale-gname che adoperava gli utensili e il garzone che provvedeva a far ruotare il mandrino. Per l’altro metodo occorreva un solo uomo sia per sbozzare il legno che per farlo girare con una pedaliera.

Fig. 17. Schizzo di un tornio artigianale, manovrato da due operatori.Questo tornio era stato composto assemblando pezzi di alcune macchine ormai obsolete.1) Telaio di ghisa con slitte, mandrino, fermo e porta utensili di acciaio.2) Mandrino per fissare il legno a cui era stata aggiunta una piccola

puleggia.3) Aggiunta anche una grande ruota che veniva fatta girare a mano

da un garzone.4) Cinghia di trasmissione tra ruota grande e quella piccola (un giro

della ruota grande corrispondeva a vari giri di quella piccola).5) Blocco mobile per completare il fissaggio del legno da tornire.6) Blocco di supporto utensili che usava il falegname, scarpei e sgube -

scalpelli e sgorbie.

73Nel primo caso il mandrino era collegato con una cinghia a una piccola puleggia e questa, con una cinghia, era collegata a una grande ruota che veniva fatta girare, a mezzo di un ma-nico, dall’aiutante: un giro della grande ruota corrispondeva a diversi giri della puleggia piccola e quindi del mandrino.

Fig. 18. Schizzo di un tornio artigianale manovrato da un solo operatore. Anche questo tornio era stato ricavato dall’assemblaggio di pezzi ricavati da macchinari in disuso, vi è stata poi l’aggiunta di un tamburo, una corda, una pertica e una pedaliera che provvedeva alla rotazione, manovrata dal falegname mentre torniva.1) Banco metallico.2) Blocco mobile posto su slitte per fissare il legno da tornire,

compreso anche il supporto per gli utensili usati dal falegname - scarpei e sgube.

3) Pezzo di legno fissato a sx da un blocco mobile e a dx dal mandrino fisso.

4) Tamburo di legno solidale al mandrino che veniva fatto girare dalla corda.

5) Corda di manovra rotatoria.6) Pedale fissato a terra in un capo.7) Pertica, pertega, infissa parzialmente alle travi del solaio superiore

che fungeva da molla.

74L’altro tipo era un marchingegno complesso: il mandri-no era accoppiato a un grosso tamburo di legno che, assieme ad una corda formava l’organo rotante. Da fer-mo il tornio aveva la seguente situazione. Un capo della corda era fissato all’estremità più sottile di una pertica in-chiodata saldamente nella parte più grossa alle travi di un solaio superiore. La corda discendendo faceva della spirali attorno al tamburo, mentre l’altro capo era fissato a una stecca, che fungeva da pedale, incernierata nel pavimento da una parte mentre l’altra, alta circa sessan-ta centimetri, aveva legata la corda. Il tornio da fermo o lavorando aveva sempre la corda tesa. Per far girare il tamburo, il falegname abbassava il pedale costringen-do la parte bassa della corda a srotolarsi, chiamando nel contempo la parte alta ad avvolgersi sul tamburo, abbassando nel contempo la pertica. Subito poi il peda-le veniva lasciato libero, la pertica richiamava la corda, così tutto ritornava allo stato iniziale. A questo punto il falegname continuava a pedalare, mentre con le mani armeggiava con scarpèi e sgùbie.

Uso del legno nei fabbricati.Una volta il legno era assolutamente necessario nella costru-zione delle case di abitazione; oggi è sostituito, quasi intera-mente da solai e tetto in laterocemento, e dai serramenti in plastica, metallo o vetro temperato.1) Tràvi: i travi in dialetto veneto, le travi in lingua italiana. Le travature da noi erano e sono generalmente di abete, pèzo. Nei palazzi vecchi ho spesso trovato nelle sale delle grosse

75travi di quercia o rovere come travi principali, e poi come secondarie delle travi di abete. Qualche volta ho trovato anche travi di pioppo o altri legni delle nostre campagne. Se sotto i solai c’erano dei soffitti, le travi erano spianate solo dove c’erano gli appoggi per le altre strutture. Una volta le sezioni delle travi erano variabili, a seconda dei luoghi o delle necessità, ora sono unificate. In commercio vi sono travi di abete di tipo:- U.T., uso Trieste: sez. 11/13 - 13/16 - 16/19 ecc. Queste sono squadrate solo ad ascia con andamento conico.- U.F., uso Fiume: sez. come sopra. Squadratura ad ascia, con sezioni abbastanza omogenee nella lunghezza.- Segati: squadrature a sega, sezioni costanti 10/20 - 20/20 ecc.; quelle che hanno forma rettangolare con altezza il doppio della base nei le chiamiamo smezàle. Squadrando i tronchi con la sega (circolare, a nastro o motosega) riman-gono lunghe liste di ritagli che noi chiamiamo scòrzi.

2) Arcaréci: gli arcarecci sono travicelli che vengono posti in opera tra due capriate generalmente sono da 11x13 - 13x16 e 16x19 cm. Spesso nelle vecchie costruzioni gli arcarecci erano spianati solo da una parte con l’ascia piccola, menaréto, per favorire gli appoggi onde avere superiormente una quota di superficie omogenea, necessaria per la posa delle tavelle.

3) Moràli: i murali sono travicelli a filo sega da 3.5x7 cm fino a 10x10 cm e venivano posti sopra gli arcarecci. Servivano per sostenere le tavelle tavèe sottocoppo, oppure per far soffitti con le arèle.

764) Saraménti: serramenti. Oggi tutti i serramenti, interni ed esterni, sono costruiti da ditte specializzate fornite di tante macchine che eseguono contemporaneamente più lavorazioni per cui i costi sono di parecchio più bassi di quelli praticati dagli artigiani. Una volta per costruire una finestra, il falegname doveva fare per ogni pezzo diversi passaggi: iniziava a segnare con matita e staggia (la matita era un grosso astuccio di legno rosso con una grossa mina ovoidale), e poi doveva segare, piallare sa-gomare (i limbelli e la feritoia del vetro), forare le liste verticali per inserire i tenoni, già preparati sui due corpi delle liste orizzontali. Per ottenere una unione tenace, il falegname doveva incollare il tutto e fissare per sicurez-za una zeppa su ogni tenone. Poi ancora bisognava at-tendere l’essiccazione della colla, tagliare le ecceden-ze delle liste verticali (nel legno durante la costruzione dell’incastro si lasciava un pezzetto di legno in più per rinforzo temporaneo), stuccare le piccole tacche, e, dopo l’essiccazione, scartavetrare il tutto, porre le anti-ne dentro al controtelaio, infilare le fiscie (cardini), fissare il meccanismo del cremonese (chiavistello di chiusura) , infilare i vetri, porre in opera la finestra nella battua co-struita nel muro, e infine completare col porre in opera le cornici coprifilo dopo che il muratore aveva pareggia-to l’intonaco. Ora tutto è diverso e molto più rapido. Le numerose operazioni del falegname di una volta sono sostituite da dei monoblocchi con finestra, ma anche con rotolante e cassonetto: basta posarli entro i fori pre-parati dai muratori.

77I serramenti alla veneta

Balcòni: sono gli infissi esterni formati da due tavolati inchiodati. Generalmente quello interno ha assi ver-ticali da 30 mm, quello esterno orizzontale è formato da scandole da 25 mm. La scandola è formata da assi lavorati con limbelli contrari, in modo che il su-periore possa coprire quello inferiore: in questo modo la pioggia scorre sulla superficie del tavolato senza penetrare nella congiunzione delle assi. I balconi più diffusi nella nostra zona sono a quattro ante e sono chiamati balcòni a giorno. Questo tipo ha due ante più piccole in larghezza che, nella apertura, vengo-no appoggiate ai fianchi del foro; le due più grandi, invece, vengono ripiegate sulla facciata della casa. Le ante piccole girano su cardini chiamati fiùbe per-ché sono formate da due parti unite da un perno che si può levare: una è infissa nel muro, l’altra avvitata sull’anta. Le ante sono unite due a due da lame a snodo avvitate e, nell’unione fra loro, c’è sempre la batùa. La chiusura è fatta con bandèle formate da un tondino di ferro con alette alle estremità che, gi-rando il tondino con una manichetta, vanno ad inca-strarsi sui fèrmi che sono piccole mezzelune di lamiera infisse tre sul davanzale e una sull’architrave.I balcòni a due ante si trovano generalmente nelle case di campagna; girano sui cardini a muro, pòlesi, mentre la chiusura è un catenaccio, caenàzo, o una spran-ga di legno. Talvolta, quando la casa ha i muri grossi i balconi a quattro ante si ripiegano sui fianchi dei fori,

78mentre la chiusura è una lama di ferro che aggancia le quattro ante: questi sono i balcòni a libro.

Porte esterne: sono costruite a una o più ante, come i balcòni, solo che i due tavolati inchiodati hanno uno spessore maggiore. Queste porte girano sui cardini a muro, pòlesi, e come chiusura hanno grossi cate-nacci se posti all’interno, o catenacci con un’asola fermata da una serratura, se all’esterno. Queste ulti-me serrature erano una volta piuttosto complesse e fatte a mano dai fabbri. La chiave aveva un cannel-lo che si doveva infilare in un piolo della serratura e aveva poi una mappa con dentelli a pettine, neces-sari per far girare a più mandate il chiavistello e libe-rare o fissare il catenaccio al fermo. Oggi abbiamo serrature a cilindro con chiavi a cilindro o a scrocco che hanno chiavi piatte, con mappe semplici.

Restauro degli infissi alla veneta. Per sostituire le parti ammalorate degli infissi formati da tavolati inchiodati, bisogna innestare, incalmàre, gli assi verticali tagliati verso l’alto ad angolo acuto perché devono essere inchiodati sulle scàndole in buono stato; si completa poi il tutto con nuovo tavolame: solo così si può otte-nere una efficace riparazione

Porte interne Nelle case modeste erano formate da un tavolato di abe-te, pèzo con liste di inquadratura: per le camere da let-to con cardini infissi nel muro e merletta di chiusura; per cucina e tinello, invece, erano portiere con specchiatura

79bassa di legno e quattro vetri superiori fissati con righelli portavetro, con chiusura a cardini a muro e merletta. Una volta le lastre di vetro erano spianate a mano, così il vetra-io non poteva ottenere grandi superfici, perciò i vetri delle finestre e delle portiere erano di piccolo formato e dunque le lastre venivano unite da righelli che avevano dei tagli sotto e sopra, per fissare i vetri.Nelle case signorili i serramenti erano di noce perché que-sto legno, in passato era considerato legno nobile per il suo colore ocra ambrato; in aggiunta questo legno ha buona lavorabilità e durevolezza nel tempo. Questo legno non veniva colorato ma verniciato a tampone, come spiego più avanti.

Osservazione sulle strutture ligneeBisogna tener conto che il legno è un materiale che risente delle condizioni dell’ambiente in cui si trova: la pioggia lo guasta, il vapore acqueo lo rende spugnoso. Per questo il legno deve essere posto in un ambiente libero da acqua e vapori.Ritengo poi sia utile segnalare che nei restauri è opportuno non porre in opera, sotto i coppi, i teli di guaina saldati: la guaina protegge dalla pioggia ma costringe il legno a sorbi-re il vapore acqueo risalente dai vani: se non diventa marcio, diventa spugnoso, e quindi ammalorato, in tutta la superfi-cie. Così pure ricordo che tutte le travi non devono essere fissate con malta agli appoggi. Mi è capitato di demolire un solaio in legno, vecchio di 30/40 anni, i cui appoggi erano stati chiusi con malta; se non fosse stato demolito sarebbe

80caduto, avendo tutti gli appoggi guasti. Ho constatato du-rante il ripasso dei tetti delle chiese vecchie che le capriate poggiavano a secco su tavolette di legno con delle tavelle senza malta nei fianchi. Dopo 200/300 anni erano ancora in ottimo stato. Ricordo pure che il miglior conservante del legno, oltre l’aria secca, è il lino cotto, anche se oggi vi sono tanti liquidi o emulsioni che lo imitano.

Lavorazioni particolari del legno Antichizzazione di opere in legno (infissi esterni, travi,

capriate, ecc.). Spesso mi è capitato di vedere che il riordino di vecchi infissi esterni viene fatto in modo im-proprio: si levigano le parti nuove e vecchie e si copre il tutto con una vernice color marrone data a spruzzo. Secondo me bisogna antichizzare le parti nuove per ottenere una patina generale di antico: non bisogna trasformare le parte vecchia simile alla nuova, ma semmai deve essere il contrario. Fare l’antichizzazione è un’operazione che mette in evidenza le venature del legno come fa la pioggia in tempi molto lunghi, per cui le venature tenere si distinguono da quelle dure. Per creare una vera patina d’antico occorre se-guire il seguente schema.

2. Sverniciare con liquidi appropriati e paglietta.3. Eseguire le eventuali riparazioni, senza stucco, ma

usando tasselli.4. Bruciare la superficie con una lampada a fiamma

lunga (quella dei terrazzieri).5. Pulire a fondo, lungo le vene, con paglietta in modo

81da ottenere una superficie scura evidenziando nel contempo le vene dure.

6. Stesa a più mani di olio di lino cotto, con tampone perché penetri nel legno.

7. A distanza di alcuni anni pennellare di nuovo con olio di lino cotto.

Verniciatura a tampone, detta anche laccatura per-ché viene eseguita con una resina vegetale chia-mata gommalacca. Questa si acquista in piccole e sottili scaglie marroncine che devono essere sciolte nell’alcol bianco ad alta gradazione; ne esce un li-quido marrone che deve essere tenuto in un con-tenitore a tenuta stagna, come una bottiglia di ve-tro con un buon tappo, per non farla evaporare. Ottenuta la vernice, essa deve essere stesa imbe-vendo un tampone formato da cotone idrofilo (bombàso), racchiuso in una tela di cotone. Per fare questo lavoro occorrono tempo e pazienza perché il tampone deve passare e ripassare tante volte per ottenere una pellicola di un color ambrato vivace. Questo lavoro oggidì è costoso ed è sostituito da una lacca sintetica lavorata a spruzzo. Chi vuole usare la gommalacca tradizionale, per rimette a nuovo vec-chi mobili o porte di noce, deve acquistarla nei ne-gozi specializzati, che la vendono a un prezzo piutto-sto alto, e poi provvedersi di alcol bianco a 98 gradi.

Impiallacciatura. È il rivestimento del legno comune con fogli sottili di legno pregiato come: acero, cilie-gio, cirmolo, noce, ecc. È con questi fogli di legno che

82gli ebanisti fanno e facevano gli intarsi. Ho visto varie volte come veniva eseguita la impiallacciatura degli specchi delle porte interne. Il supporto di abete veni-va zigrinato con una pialla che aveva una lama con piccoli e fitti denti. Le zigrinature erano utili come sedi per la colla caravella pennellata su tutta la superficie. Poi la stesa dei fogli veniva fatta usando un martello speciale: da una parte aveva il blocchetto di acciaio per battere, dall’altra una lama col filo arrotondato, di circa cm 7, che serviva per spianare e comprimere l’impiallacciatura. Dopo, tutto il pannello veniva posto sotto a dei pesi che comprimevano uniformemente tutta la superficie lavorata, usando tavoloni di riparti-zione. Dopo qualche giorno il pannello era pronto per completare le finiture, cominciando dalle bordature e poi stuccature, scartavetrature e laccature.

Lastronatura. I pannelli impiallacciati venivano finiti nel perimetro con la lastronatura, cioè si incollavano righelli di legno, simile alla impiallacciatura, sia per non mostrare i dorsi del legno comune, sia per fare i limbelli necessari. In serramenti e mobili vecchi ho riscontrato anche che lo scheletro di abete aveva incollate la-stre, dello spessore di circa cinque millimetri, di legno pregiato. Il lavoro di lastronatura su tutto il supporto di abete, non è attuale perché ormai il costo della ma-nodopera è ora superiore al costo del materiale im-piegato, mentre una volta era il contrario, come ho precisato in altra occasione.

83

RIFLESSIONE

Dopo la carrellata di restauri edili da eseguirsi artigianalmen-te, se qualcuno mi chiedesse quale è stato il mio restauro più brillante e del quale sono più compiaciuto, non avrei l’imba-razzo della scelta, perché ce n’è uno che di tanto in tanto mi ritorna nella mente e nel cuore.Ho restaurato una decina di chiese, due salvate da un de-grado inarrestabile; ho lavorato per la Soprintendenza ai monumenti di Venezia in parecchi luoghi importanti (tra essi la Villa Nazionale di Strà e la Biblioteca di Santa Giustina a Padova), e tutti questi lavori mi hanno appassionato. Ma quello che mi ha entusiasmato profondamente è stato un restauro “creativo”, eseguito negli anni ‘70, sotto la dire-zione del Prof. Carlo Scarpa, dello IUAV di Venezia, famoso in campo internazionale. A Monselice, con un lavoro che si è prolungato per quasi un decennio, ho trasformato la pro-prietà rurale del dottor Aldo Businaro, denominata il Palaz-zetto, in una Villa che sostiene agevolmente il confronto con altre famose Ville Venete.Furono per me anni indimenticabili, durante i quali furono realizzate tutte le opere oggi esistenti (ad eccezione dello scalone esterno e della sistemazione interna del primo piano di una barchessa). È stato un lungo e fecondo lavoro per realizzare opere di grande qualità (ora lodate e copiate) che hanno trasformato la seicentesca casa padronale, per molti anni adibita a magazzino agricolo, in una villa con cor-te, anche grazie alla lungimiranza del proprietario e all’inter-vento di progettisti preparati ed inventivi.

84In particolare, lavorando a fianco di un Maestro, quale era il prof. Scarpa, non solo ho affinato le mie conoscenze costrut-tive, ma mi sono anche invogliato a eseguire restauri, tanto da arrivare in breve tempo al riconoscimento della mia ditta edile quale impresa specializzata nel recupero di opere anti-che, campo nel quale ho lavorato poi per oltre un ventennio.

Fig. 19. Planimetria della “corte” del Palazzetto, racchiuso della mura di cinta1) La nuova entrata.2) Aia nuova.3) Scalone nuovo.4) Barchessa trasformata.5) Berceau nuovo.6) Vecchia stalla; restauro totale del tetto.7) Casa custode restaurata.8) Palazzetto restaurato.9) Terrapieno con piscina nuovi.10) Tettoie restaurate.11) Piccolo ufficio della pesa restaurato.

85Prima dell’arrivo del prof. Scarpa, avevo già eseguito delle opere di risanamento dei solai e dei pavimenti del piano no-bile e parte del piano terra. Poi, con l’arrivo dell’architetto inglese Colin Glennie, amico di Aldo, ho sistemato il vano scala, rinnovando le rampe per il granaio, e ho costruito due bagni ed un piccolo belvedere a servizio di una parte del sottotetto destinata a foresteria.Su disegno di Tobia Scarpa, figlio del professore, e pure lui celebre designer, ho eseguito due lavori. Si tratta della cap-pa del camino, a forma di cappello dogale, dello studio al piano nobile del Palazzetto, e di una vetrata in stile giappo-nese nel salone del piano terra.

Fig. 20. La lanterna del comignolo veneto. Disegno e misure del Prof. Carlo Scarpa.

86Poi, verso il 1970, è arrivato il prof. Scarpa. I primi lavori con-sistettero nella costruzione di una mura di cinta, in sasso tra-chitico, per delimitare un’ampia zona a “corte”, e nella rea-lizzazione dei nuovi ingressi carraio e pedonale, che, con la loro carica innovativa, furono subito copiati: ironicamente, Aldo Businaro chiamava gli imitatori “gli scarpini”. A seguire, ho costruito la grande “aia”, che mi è costata molta fatica per la particolarità del disegno: vi sono ben sette pendenze differenti e alcune anche accentuate. Una volta realizzate le fondazioni, ho dovuto crearmi delle modine, ben fissate nel terreno, per determinare esattamente allineamenti e

Fig. 21. Particolari del comignolo camin forato posto entro la lanterna.

87quote, e poi, tirando spaghi e fili di ferro, per precisare i cri-nali delle pendenze che convergono su due punti, staccati tra loro di quattro metri. Con laboriosità paziente e preci-sa venne eseguita la posa della pavimentazione, realizzata con mattoni fatti a mano, con commessure il più regolari possibili e stuccati fra loro. La disposizione della loro posa variava a seconda delle facce, in funzione dei due punti di incontro delle pendenze, evidenziati da due dischi in pietra tenera di Vicenza, rappresentanti il sole e la luna. Sul signi-ficato di questa aia hanno speso molte parole studiosi ed amatori, parlando di sezioni auree e di intersecazione di po-liedri. Io avanzo qui la mia interpretazione, anche ricordan-do una frase pronunciata dal prof. Scarpa: “Vorrei che nei miei lavori si scoprissero le intenzioni che ho avuto”. Penso, dunque, che l’aia voglia ricordare la giornata di lavoro del contadino. L’architettura orizzontale ad andamento variabi-le mi sembra indicare il tempo che cambia durante l’attività campestre. I mattoni poi, una volta usati per costruire le aie, che servivano per le lavorazioni finali dei prodotti della terra, indicano il diuturno lavoro del contadino per raccogliere le fatiche di una annata. Infine, il disco del sole ricorda il fatico-so e continuo lavoro nei campi, sotto i raggi cocenti, mentre quello della luna indica il riposo notturno e, nel contempo, gli influssi delle fasi lunari sulle coltivazioni: influssi che anche oggi i contadini osservano perché l’esperienza ha dimostra-to la loro validità.In seguito, ho restaurato la barchessa ad ovest, costruita su due piani e con le dimensioni di circa 20 metri x 5. Ho costrui-to nuovi solai, un grande poggiolo, tratti di muratura al primo

88piano, architravi per quattro grandi fori del piano terra, into-naci a coccio pesto sulle fiancate, realizzando al contempo fori con sagome particolari e con contorno in piatto di ferro, e, infine, ho eseguito il rivestimento della facciata e dei vol-tatesta con perline di legno sagomate, tutte lavorate a filo

89di sega e verniciate con carbolinio (un liquido catramoso nero, che una volta si usava spalmare sul legno a contatto con l’umidità, per proteggerlo).Venne poi l’ora di realizzare un berceau (un chiosco ricoper-to di verde, immerso nella campagna), realizzato interamen-te in calcestruzzo a faccia vista con tavolame nuovo a filo di sega. È un grande vano dotato di un camino con cappa, che serve d’estate come salotto all’aperto per accogliervi gli amici. Anche per questo lavoro ho dovuto osservare mol-te indicazioni del prof. Scarpa, perché le decorazioni del-le pareti interne ed esterne sono rappresentate dalle stesse impronte delle tavole usate per la casseratura del getto, di-sposte in orizzontale, in verticale, lunghe e corte. Ricordo, al proposito, un piccolo episodio che sulle prime mi sconcertò,

Figg. 22-23. Estate 1976, fotografie del Prof. Carlo Scarpa mentre illustra il progetto del berceau al Geom. Giuseppe Trevisan. Foto scattate dal Dott. Aldo Businaro.

90ma di cui, col tempo, ho colto il significato. Il berceau era quasi finito quando, in un primo pomeriggio, il prof. Scarpa arrivò con un involto di tasselli di mosaico, da 5 x 5 centimetri circa, di vari colori. Ci sedemmo all’ombra e lui cominciò a disporre su un tavolino le tessere colorate cercando la giu-sta combinazione. Provò e riprovò finché, dopo quasi due ore, non trovò la miscela perfetta e mi diede l’ordine di posa delle tessere, che io feci subito incollare in un lieve incavo, ad andamento verticale spezzato, della cappa del camino. Il professore, capii, ideava con lenta ricerca quello che la sua immaginazione gli suggeriva e le sue invenzioni artistiche erano il frutto di una lunga elaborazione interiore.Nella “corte” ho predisposto anche quanto necessario per la posa in opera di una piscina prefabbricata, installata tra due tratti di mura che avevo realizzato in precedenza.L’ultimo lavoro svolto sotto la direzione del prof. Scarpa è sta-to il comignolo alla veneziana, costruito sulla canna fumaria a destra della facciata principale. Costruire un comignolo è apparentemente cosa facile, ma quello era particolarmen-te grande e pesante. Per di più l’ho realizzato studiando la si-tuazione costruttiva tutto da solo, perché il prof. Scarpa, che pure mi aveva fornito disegni assai dettagliati, non è mai sa-lito sui ponteggi. Quando l’ha visto finito si è complimentato con me assieme ad Aldo. Per la cronaca, le misure principali sono: un’altezza del fusto di 1.5 metri, della lanterna 1.9 m; un diametro alla base di 0.9 metri e di arrivo di 2.4 metri. Ricordo anche che ho realizzato, su progetto del prof. Scarpa, diversi marciapiedi di collegamento tra varie opere, eseguen-doli in quattro maniere differenti: con tavelle di cotto costruite

91a mano, con calcestruzzo e liste di legno annegate trasver-salmente, con ciottoli spaccati a metà, cioè sc-iapìni, e infine con mattoni alleggeriti con tre fori ovali riempiti di malta for-mata da polvere di marmo e cemento bianchi.Dopo la morte del professore, ho completato alcuni lavori seguendo le indicazioni del proprietario. Ho ristrutturato la casa del custode, costruendo anche un pergolato esterno in legno; ho rifatto completamente il tetto della ex stalla e l’intonaco a coccio pesto della fiancata a nord; infine ho restaurato due tettoie affiancate al lato sud della stalla.Le opere eseguite al Palazzetto sono state per me un’alta scuola: lavorare a fianco di artisti mi ha insegnato ad usare i materiali in modi particolari, per valorizzarne al massimo le potenzialità ed ottenere al contempo consistenza statica e bellezza estetica. La continua frequentazione e lo spirito di collaborazione al lavoro che si stava eseguendo portò ad una sincera amici-zia con Aldo, che durò fino alla sua morte, e ad un operoso e cordiale rapporto con il prof. Carlo Scarpa. Da questi in-contri nacquero alcune simpatiche serate presso casa Busi-naro ed una volta presso la casa del prof. Scarpa a Vicenza. Un segno di questi rapporti cordiali è stato il regalo fattomi da Aldo dei disegni del camino alla veneziana e la firma che Scarpa appose su uno di essi, scrivendo il suo nome a rovescio come faceva Leonardo.

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Introduzione Per non dimenticare: parole della parlata veneta, in ordine alfabeticoModi di dire dei muratoriRestauri - PremessaCapriate in legno: costruzioneCapriate in legno: restauroCastello mobile da lavoro in legnoDeumidificazione di edifici esistentiIntonaco a coccio pestoIntonaco a marmorinoIntonaci vari di granulatoIntonaci per stuccatura crepeMateriali da costruzioneBlocchi di cementoLa pietra euganeaLaterizi in genereMalta con calcina – bròotoOpere di consolidamento Per acqua sorgiva Per ampliamentoCon opere in cemento armatoMuri di sassoMurature di cintaBarbacaniRistrutturazione di un edificioPonteggi di legno

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Soffitti di abitazioni in arelle e legnoSoffitti in legno negli edifici monumentaliSolai in legno nelle abitazioniSolai in legno negli edifici monumentaliSottofondazioniLegno nelle abitazioni - PremessaArnesi per la lavorazione del legnoBottega del falegnamePialleSegheTrapaniTrivelleTorniUso del legnoSerramenti alla venetaOsservazioni sulle strutture ligneeLavorazioni particolari del legno Antichizzazione Verniciatura a tamponeImpiallacciaturaLastronaturaRiflessioni sui lavori eseguiti al Palazzetto di Monselice su progetti del prof. Carlo Scarpa

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