Michael Tolkin - Il Giocatore

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    MICHAEL TOLKIN

    IL GIOCATORE

    (The Player, 1988)

    Questo libro è stato scrittocon il prezioso contributodi Wendy Mogel e Louis Breger.

    Questo libro è dedicatoa Horace Beck e Olga Smith,due ottimi insegnanti.

     Non voi, riviste trimestrali e periodici austeriche con zelo indagate nell'edificante mondodelle formiche; né te, teatro sperimentale,in cui l'Impatto Emotivo perennemente si sposacon l'Intuizione Poetica; e nemmeno te,vagante Opera Lirica, così ovvia eppur vicinaal mio cuore... ma te, Industria Cinematografica,è te che amo!

     Nei periodi di crisi dobbiamo stabilire,ripetutamente, chi amiamo.

    Frank O'Hara, To the Film Industry in Crisis 

    Quella strega venuta (vizza e vecchia)a lavare le scale con straccio e secchia,

    fu un tempo la bellissima Abishag

    vanto e orgoglio del cine di Hollywood.Troppi eran grandi e alteri e non son più perché tu metta in dubbio che quella lei fu.

    Muori presto, evita il fato.O se un tardo morire t'è destinato

    fa' in modo di morire in ricco stato.

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    Fa' tua la Borsa, tutta la Borsa Valori!Occupa un trono, se questo bisogna:non ti darà nessuno di vecchia carogna.

    Alcuni hanno puntato sul loro sapere;altre persone sull'esser sincere.Per te, come per loro, questo può forse valere.

     Nessun ricordo di primo attore può ripagare il tardivo squallore,o salvar la tua fine dall'orrore.

    Meglio scendere ben ossequiaticircondati da amici compratiche soli del tutto. Provvedi, provvedi!

    Robert Frost, Provvedi, provvedi 

    1

    Proprio come sospettava Griffin, nell'ufficio di Levison era in corso unariunione e lui non era stato invitato. Dal vialetto che portava agli ufficiamministrativi riusciva a vedere la parte posteriore del divano di Levison,al secondo piano. Era già finita la riunione? Levison stava stringendo lamano a qualcuno, ma Griffin non riusciva a vedere chi fosse l'altra perso-na. Si rendeva conto però che il suo posto di lavoro era in pericolo. Nonsapeva se andare in ufficio o tornare nella sala proiezione da cui era appe-na uscito. Da lì avrebbe potuto telefonare a Jan, la sua segretaria, per sa-

     pere se ci fossero dei messaggi. Per recarsi nel suo ufficio sarebbe dovuto passare davanti a quello di Levison, e non gli andava di farsi vedere da Ce-lia, la segretaria di lui, in quel momento di ignominia. Perché proprio diignominia si trattava.

    Fissò il bloc-notes che aveva in mano, odiando Levison per avergli datoquell'incarico. Levison gli aveva chiesto di assistere al debutto nella regiadi un produttore inglese, suo vecchio amico, e lui, per riguardo al suo capoe alle amicizie che questi vantava, aveva fatto un'attenta valutazione del

    film che Levison aveva detto di non avere il tempo di vedere prima di in-contrarsi con il regista. Ma a Levison importava davvero del film, o lei suo

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    vecchio amico? Evidentemente non al punto di voler valutare per-sonalmente l'uno o l'altro. Dopo ventun minuti di proiezione, Griffin a-vrebbe anche potuto smettere di visionare la pellicola, visto che di azionece n'era talmente poca, ma era rimasto ugualmente rintanato nella sala di proiezione sapendo che Levison lo voleva irreperibile per qualche ora. Ciera abituato, del resto, a eclissarsi al momento opportuno. Una volta, si eranascosto addirittura a Parigi, in occasione dell'uscita di un film di cui ave-va seguito personalmente la produzione: era un film orribile, e lui aveva preferito prendere il largo, per non fare figuracce. Era successo solo l'anno prima, quando tutto faceva pensare che Griffin fosse destinato a succederea Levison. Allora Levison sembrava proprio finito, invece aveva tenutoduro ed era ancora al suo posto.

    Griffin tornò in sala proiezione. Aprendo la porta vide che gli addetti al-la produzione di uno show televisivo stavano per visionare i giornalieri. Non conosceva il nome di nessuno, ma tutti conoscevano il suo. Si scusò per l'intrusione e qualcuno l'invitò a fermarsi. Ovviamente era solo un invi-to di cortesia, perciò Griffin si affrettò a richiudere la porta. Dato che lastarza di fronte era vuota, vi entrò per telefonare a Jan.

    «Ufficio di Griffin Mill.»«Sono io.» Il tono era stanco, la voce di gola.

    «Le è arrivata un'altra cartolina. Forse dovrei avvertire Walter Stuckel.»Stuckel era il capo dei servizi di sicurezza degli studios.

    «E questa cosa dice?»Griffin aspettò che Jan frugasse tra la posta che aveva sulla scrivania.

    «C'è scritto: 'Avevi detto che ti saresti fatto risentire. Sto ancora aspettan-do.'»

    «E dall'altra parte cosa c'è?»«È una cartolina umoristica: c'è un carro trainato da muli, e sul carro un

    enorme cocomero. Sotto c'è una battuta di spirito: 'Li abbiamo belli grossi,nel Texas.' Via, Griffin, mi lasci avvertire Walter!»

    «No. Un cocomero? Credo di sapere di chi si tratta.»«Me lo dica!»«Se io lo dico a te, tu lo dici a Celia, dopodiché lo sapranno tutti.»«E cosa c'è di male? La figura dello stupido la fa chi manda queste car-

    toline, non lei.»«È contagioso, credimi.»

    «Cos'è contagioso? Fare la figura dello stupido?»«Sì. E poi lo so già chi è... O Aaron Jonas o Steve Baylen. Più probabil-

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    mente Baylen.»«No,» replicò Jan. «Non credo che queste cartoline le mandi un agente.

    Se vuole il mio parere, il suo corrispondente segreto è un autore.»Lo sapeva anche Griffin che doveva trattarsi di un autore. Le cartoline

    arrivavano ormai da quattro settimane, e il giorno prima ne era comparsauna anche nella cassetta delle lettere di casa sua. In quel momento ce l'a-veva in tasca. Dovevano averlo pedinato fino a casa, visto che il suo indi-rizzo privato l'avevano solo gli amici. Ma chi mandava quei messaggi nonera certo un amico. Perché non aveva avvertito Walter Stuckel? Perchéquello sconosciuto gli faceva così paura?

    «Jan, credimi, questo è un mio amico idiota che mi fa uno scherzo altret-tanto idiota. Ma parliamo d'altro: nessuna telefonata?»

    «Nell'ufficio di Levison è in corso una riunione di tutti i capisettore. Leinon è stato invitato.»

    «Questa non è una telefonata.»«Pensavo che avrebbe dovuto saperlo.»«Sono fuori dal gioco?»«E chi lo sa?»Si salutarono.Era marzo, e uscendo dalla sala di montaggio Griffin trovò le strade tra i

    teatri di posa completamente deserte. Chissà perché, l'eccitava l'idea che inquel gran silenzio si annidasse tutto il significato di Hollywood... Era u-n'eccitazione che lo metteva quasi in imbarazzo, ingiustificata com'era: lìintorno non si aggiravano né orde di indiani né armate napoleoniche, nonc'era la minima traccia di attività. Praticamente tutti dicevano di odiarequella luce intensa, accecante, riflessa dai muri dei teatri di posa, ma Grif-fin non trovava affatto deprimente quella grande calma. Gli piaceva la sen-sazione di stordimento che provava in pieno sole, nelle ore centrali del

    giorno - gli ricordava l'effetto della marijuana, il piacevole terrore di ritro-varsi «fatto» in pieno giorno, l'esaltazione di riuscire a cogliere l'essenzastessa delle cose. Gli ardenti, abbaglianti meriggi di Burbank erano quasiesperienze cosmiche per lui, e questo perché erano privi di scopo, perchégli unici antidoti contro la luce - una luce identificabile, in un certo senso,con quella della redenzione - erano il denaro, il lavoro, l'autorità. In chesenso?, si chiedeva. Nel senso che, se il Giudizio Finale è l'unica ragionedella coscienza, il disagio creato dalla luce non può essere che l'eco di

    qualche profondo rimpianto.Adesso era arrabbiatissimo con l'autore che gli mandava le cartoline. Ti-

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    rò fuori dalla tasca quella che gli era arrivata il giorno prima. Paris la Nuit :la Torre Eiffel, e, tutt'intorno, piccole vedute del Moulin Rouge, di unafontana, di Notre-Dame. E il messaggio. Scritto a macchina, tanto che ilrivestimento di plastica della cartolina era strappato. Diceva: «Avevi dettoche ti saresti fatto risentire. Ci eravamo visti, ti avevo esposto il mio sog-getto, e tu avevi detto che volevi pensarci, che mi avresti fatto sapere qual-cosa. Allora?»

    Il messaggio della prima cartolina era lapidario: «Avevi detto che ti sa-resti fatto risentire.» Era scritto a mano, con una grafia regolare - caratteriun po' allungati e inclinati, ma a regolare distanza l'uno dall'altro. Sembra-va il testo impersonalmente romantico di una lettera d'amore vista in primo piano in un film. La cartolina doveva risalire agli inizi degli anni cinquan-

    ta, e vi si vedeva una ragazza sotto uno sgargiante ombrellone arancione,su una spiaggia di Fort Lauderdale. La bagnante portava degli appariscentiocchiali da sole e ostentava un forzato sorriso. Guardan dola, Griffin nonaveva potuto fare a meno di pensare a come le sarebbe piaciuto di avere fi-nalmente su di sé gli occhi di un pezzo grosso hollywoodiano. Qualchegiorno dopo era arrivata un'altra cartolina, con una spettacolare veduta del-la Torre Eiffel. Il messaggio era: «Sto ancora aspettando la tua telefonata.»Il giorno successivo era arrivata la terza cartolina, con un'unica parola -

    «Allora?» - e la fotografia dell'«ultimo acquisto della flotta della United»,una versione accorciata del Boeing 747.

    In seguito c'erano state altre tre cartoline, tutte senza messaggio.Sul lato opposto della strada Griffin vide Mary Netter e Drew Posner,

    del settore marketing. Si apprestò a sostenere il loro attacco sfacciato.Drew agitò la mano con la petulanza del ragazzino di quinta che ha semprela battuta pronta.

    «Ehi, signor vicepresidente!» esclamò in tono ironico. Griffin si portò la

    mano alla falda di un immaginario cappello.«Che sangue freddo!» osservò Mary. Mary aveva i capelli corti - solo un

    mese prima erano tagliati a spazzola. Una volta, a un party, Drew avevachiesto a Griffin se gli sarebbe piaciuto sfregarsi l'uccello sulla testa diquella ragazza. La risata di Mary aveva imbarazzato Griffin, che vedevanel proprio imbarazzo una dimostrazione di inadeguatezza, di incapacità distare al gioco.

    La riunione di Levison era finita - Griffin vedeva attraverso la finestra il

    divano vuoto. Andò in ufficio facendo il giro più lungo, attorno all'edificio, per evitare di passare davanti a Celia. La perdita del suo posto di lavoro

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    sembrava scontata. Certo, ci sarebbe stato un altro lavoro, un'altra casa di produzione, ma probabilmente era svanita per sempre quell'aura di gran-dezza che lo circondava, e mai più gli sarebbe capitato di essere a capodella produzione di una casa cinematografica importante come quella, ocome la Universal, la Disney, la Columbia, la Paramount, la 20th Century-Fox. Quelli erano gli ultimi studios che sorgessero su un terreno tutto loro,con tanto di teatri di posa e spazi circostanti. Lì si poteva indicare una co-struzione e dire: «Là c'era il camerino di Alan Ladd», oppure: «È laggiùche abbiamo realizzato Susanna»... E se era sentimentale da parte suacompiacersi della storia che racchiudevano tutte quelle costruzioni, be',che male c'era? Se l'Autore avesse saputo che lui era rimasto al fianco diLevison in quest'ultimo anno sfortunato proprio perché non se la sentiva di

    lasciare quegli studios così speciali, avrebbe avuto un po' di comprensione per lui, l'avrebbe considerato un essere umano come tutti gli altri, oppressodal solito fardello d'infelicità? Avrebbe capito che, anche se gli fosse stataofferta la possibilità di diventare addirittura il capo di una casa cinemato-grafica di Century City o Beverly Hills, lui con ogni probabilità avrebbedetto di no perché la sola idea di lavorare in un grattacielo lo deprimeva?Grandi case di produzione, come la Orion e la Tri-Star, avevano la loro se-de in alti palazzi a uffici, e questo cosa cambiava? Moltissimo, ai suoi oc-

    chi, tanto che era sopraffatto dall'angoscia all'idea di dover presto rinuncia-re a veri studios con veri cancelli, e avere un lasciapassare per un garagesotterraneo anziché un posto macchina personalizzato. Come si poteva rea-lizzare un film in un palazzo a uffici?, avrebbe voluto chiedere. Era un at-tacco di sentimentalismo, ma si controllò ed evitò di indulgervi troppo.Forse in realtà la sua natura non era poi così sentimentale. Se lo fosse statadavvero, sarebbero forse andati meglio i film prodotti dagli studios? Ecco-lo lì il centopiedi che a forza di elucubrare sulla propria tecnica di movi-

    mento, finisce inevitabilmente per incespicare! Niente di ciò che stava succedendo poteva considerarsi una sorpresa. Già

    da qualche mese Griffin aveva notato un leggero calo del numero di tele-fonate che arrivavano a Jan. Un pomeriggio, approfittando del fatto cheJan si era allontanata dalla sua scrivania, Griffin aveva consultato le sueannotazioni e aveva confrontato quelle relative alle telefonate più recenticon quelle riguardanti le telefonate dell'anno precedente: allora in tre gior-ni ne erano arrivate duecentonovantacinque, mentre negli ultimi tre giorni

    ne risultavano appena duecentoundici. E anche se non si era preso la brigadi suddividere per genere le telefonate, aveva avuto la netta sensazione che

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    gli agenti continuassero a cercare di vendergli i loro copioni, ma che i regi-sti non si facessero sentire altrettanto spesso. La gente rispondeva senza problemi alle sue telefonate, ma qualcosa nell'aria annunciava che GriffinMill non era più il numero uno. Chissà se l'autore delle cartoline si rendevaconto che loro due erano nella stessa barca, che le stesse regole valevano per tutti?

    Quando Griffin entrò nel suo ufficio Jan agitò la mano sorridendo. C'erauna cartolina appoggiata alla macchina per scrivere.  Hollywood by night.Tre vedute della capitale mondiale del Glamour. 

    «È arrivata per caso alla contabilità, e loro ce l'hanno rimandata. Leggadietro.»

    «No.»

    «Ma è una ragazza che le manda, queste cartoline! Per forza.»Griffin prese la cartolina e la voltò. Questa volta il messaggio era: «È

    colpa mia o colpa tua?»«Lei è andato a un party, ha detto a una ragazza che avrebbe fatto di lei

    una star, e se l'è portata a letto. Poi le ha promesso di telefonarle, ma nonl'ha mai fatto. Insomma, l'ha incantata col suo sorriso da playboy, e se l'èfatta.»

    «Non ho certo bisogno di raccontar balle alle donne!»

    «Mio caro, tutti gli uomini raccontano balle alle donne. Ce l'hanno nelsangue.»

    Griffin ebbe un attimo di lucidità e sorrise, si rilassò, si piegò in avanti, portò la faccia vicino a quella di Jan, e, per la prima volta da settimane, si piacque. «Touché » disse. «Ma non capita spesso. Di regola non me la fac-cio con le attrici.»

    «Ma se hanno delle gambe così belle!»«Sarò franco: non è questione di lunghezza, ma di tatto. Di pelle. La

    stessa qualità che fa le star... La luce che irradiano. Ecco cos'è successo:c'è stato un party, e io non ero sbronzo, ma lei sì. Mi ha chiesto di riportar-la a casa. Io l'ho riportata a casa e ci sono rimasto per qualche ora. Moltodivertente.»

    «E adesso la ragazza vorrebbe che lei la facesse diventare una star, soloche Griffin Mill non si ricorda nemmeno il suo nome. Si è fatta incantaredal suo sorriso, senza sapere che quel sorriso è come la sua macchina...Destinato a sparire insieme al posto di lavoro!»

    Griffin fece finta di niente, ma si accorse dall'espressione dispiaciuta diJan che la ragazza si era già pentita della battuta cattiva. Insistette con la

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    sua versione dei fatti: «Sei pronta al fuoco d'artificio finale? Lei è già unastar. Una star della televisione, e vuole sfondare nel cinema. Sa che non cela farà mai, ma vuole tentare lo stesso. E si è messa in mente che io potreiaiutarla.»

    «Ma allora perché non firma col suo nome? Forse lei mi sta mentendo.Forse quella ragazza non è affatto una star della televisione... Come puòconoscerla se non accende mai il televisore? Via, sia sincero, si vergognadi ammettere di aver avuto una notte di fuoco con una di cui nemmeno ri-corda il nome...»

    «Be', forse non è proprio una star,» disse Griffin, cercando di dare a in-tendere che gli bruciava essere stato sorpreso a bluffare. Poi tornò all'attac-co: «Ma tu lo sai perché lei non firma? Perché vuol essere originale. Dà

     per scontato che io mi ricordi di lei... Caspita, la ricordano tutti! Non firmale sue cartoline proprio come i cattivi autori senza agente fanno disegnispiritosi o scrivono battute di spirito sulle buste dei copioni che mandanoai registi famosi. Disegnano degli enormi nasoni che spuntano dal lembodella busta, o una corona di stelle attorno al nome del regista, pensandoche se non riescono a essere bravi possono almeno essere 'diversi'. Vannonei negozi di gadgets che stampano il nome della gente sui titoli di finte prime pagine, e accludono queste scempiaggini ai loro copioni, come lette-

    re di accompagnamento. Titoli del tipo: 'Steven Spielberg vince l'Oscar peraver diretto un film scritto da... quello scemo di Pinco Pallino'.»

    «Nel titolo non c'è scritto 'quello scemo'.»«Non ce n'è bisogno.»«Vedrà che un giorno o l'altro quella ragazza firmerà col suo nome. E

    magari le telefonerà. Lei se la sentirebbe di rivederla?»«Farò quello che mi dirai tu.»«Griffin, se quella ragazza telefona o si decide a firmare una cartolina,

    sia carino con lei. Se le ha fatto delle promesse, le mantenga!»«Sarai la prima a saperlo.»«La seconda,» corresse Jan. Per lei l'argomento era chiuso.Il risentimento di Griffin assunse una vita propria e gli fece ricordare un

     party, i lunghi capelli di un'attrice, una serie di baci e di promesse. Quellastessa sera, mentre era a cena con Dick Mellen, il suo avvocato, Griffin sisentì farfugliare qualcosa a proposito di cartoline e attrici. Mellen - sessan-tacinque anni, capelli d'argento, abbronzatura perfetta - aveva conosciuto

    Bogart, aveva bevuto con Bogart una dozzina di volte, ed era proprio que-sta la ragione per la quale Griffin l'aveva preso come suo legale. Mellen

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    non diede alcun peso alle cartoline.«Dalle una particina in qualche film,» suggerì.«Ma se non sa recitare?» Griffin si accorse con sorpresa, e con una certa

    stizza, che il proprio tono tradiva lo sgomento.«Sai come si faceva ai vecchi tempi? Si sfruttava una scena ambientata

    in un carcere, nel giorno di visita. Lunghe carrellate sui vari séparé con iltelefono. Ogni moglie e amica aveva il suo bel primo piano... ed erano tut-te amanti di qualche executive o del produttore!»

    «Ma lei è la star di una serie televisiva!»«Quale?»«Ho giurato di non dirlo.»«Griffin, non è il caso di scherzare.»

    «Visto che è una persona adulta, avrà pur diritto a un po' di privacy!»«No. Gli adulti sfruttano tutto a proprio vantaggio, e non si preoccupano

    certo degli scandali. Perlomeno è così che vanno le cose in questa città. Selei è furba, il suo agente si metterà in contatto con Levison per combinarequalcosa.»

    Griffin si era accorto di aver perso credito agli occhi di Mellen, non pervia dell'attrice, ma per aver fatto sembrare le cose così assurdamente diffi-cili.

    Mellen cambiò argomento. «Ti renderai conto che in questo momento iltuo lavoro è tutt'altro che sicuro...»

    «Andrà tutto bene, stiamo facendo degli ottimi film,» replicò Griffin.Era quello che gli altri si aspettavano di sentirsi dire da lui, ma a lui, per-sonalmente, il tono dell'ottimistica affermazione non sembrava affattoconvincente. La bugia sull'attrice gli aveva fatto perdere il ritmo, e adessoogni sua espressione aveva un che di falso.

    «Credo stiano assumendo Larry Levy.»

    Griffin sbuffò, e nel farlo si sentì enormemente a disagio, per la stizza dinon riuscire a mantenere il sangue freddo, di accusare il colpo come un pugno in piena faccia, di prender così male la notizia. Normalmente cerca-va di non sbuffare, di controllare le proprie reazioni, di nascondere il più possibile sia la contentezza che il malcontento. Di solito riusciva a dar prova di grande self-control: mentre gli altri executive lanciavano gridolinidi gioia e si davano pacche sulle mani se il pubblico applaudiva all'ante- prima di un film, lui se la teneva tutta dentro, la soddisfazione. Adesso, in-

    vece, non riusciva a non sbuffare e a restare impassibile come prescriveva-no le sue regole ferree. Perso ormai totalmente il controllo, si lasciò sfug-

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    gire persino un'osservazione odiosamente banale: «Larry Levy è un creti-no.»

    «Intendi dimetterti? Secondo me non dovresti farlo.»«Mi piacerebbe lavorare per la Columbia.»«Non puoi rimettere indietro l'orologio!» Quel lavoro era stato offerto a

    Griffin un anno prima, e Griffin l'aveva rifiutato. Voleva il posto di Levi-son, e in giro si diceva che l'avrebbe ottenuto. Erano voci infondate.

    «Tieni gli occhi ben aperti,» raccomandò Griffin - un altro stupido luogocomune.

    «Lo sto già facendo,» rispose l'avvocato.Griffin aveva una gran voglia di confessare a Mellen che tutta la storia

    dell'attrice era una frottola. Se avesse detto la verità, il divario tra i suoi

     pensieri e le sue parole si sarebbe colmato? O una purificazione era impos-sibile senza ulteriori sacrifici e ulteriore lavoro?

    Un nuovo pensiero si affacciò alla sua mente e lo fece star male: avrebbefinito per fare il venditore, di immobili o di macchine. Se avesse perso ilsuo posto di lavoro in quella specie di gioco delle sedie, sarebbe stato ine-vitabile l'esilio da Hollywood. Non sarebbe stato un esilio immediato: senon fosse riuscito a trovare un posto di rilievo in una grande casa cinema-tografica, avrebbe prima riscosso i favori che gli erano dovuti - probabil-

    mente una star o un regista per i quali si era battuto gli avrebbero affidatoil proprio ufficio, l'incarico di reperire materiale, magari gli avrebbero per-sino fatto produrre qualcosa, se avesse seguito il progetto fin dall'inizio.Ma se i suoi film avessero fatto fiasco e il nuovo gruppo di executive ram- panti avesse visto in lui un uomo che aveva ormai fatto il suo tempo... do-ve sarebbe andato a finire? In case cinematografiche più piccole, con pochimezzi e pochi contatti, che l'avrebbero assunto in virtù delle sue conoscen-ze senza capire che i suoi agganci non contavano niente, essendo lui stesso

    ormai fuori dal giro. Alla fine sarebbe caduto in disgrazia, e tutti si sareb- bero resi conto che era vecchio e finito. Un giorno o l'altro si sarebbe tro-vato a corto di quattrini e il giorno dopo avrebbe messo in vendita la suacasa, avrebbe affittato un appartamento da qualche parte, e si sarebbe cer-cato un lavoro lontano da Hollywood, dal mondo del cinema. A quel puntoavrebbe avuto... quarant'anni? Cercò d'immaginarsi quarantenne, a venderemacchine tedesche a giovani produttori ed executive di case cinematogra-fiche. Gli sembrava già di vedere l'inserzione sul giornale: «Salve, sono

    Griffin Mill. Volete che vi aiuti a mettere il professionista dello show bu-siness al volante di un gioiello di macchina?» Perché non uccidersi subito?

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    Le sue fantasie si conclusero con un funerale, e una folla di amici impieto-siti.

     Non stette nemmeno a chiedersi di che cosa sarebbe morto a quarant'an-ni. D'imbarazzo, era ovvio! Scacciò dalla mente quei pensieri, e cercòd'immaginarsi nelle vesti di un indipendente di successo - un vero produt-tore, un uomo di talento, da temere. Niente. Un quadro così roseo non vo-leva venir fuori, c'erano troppe interferenze da parte di quel casino che erala sua vita. Sapeva già come sarebbe stata interpretata l'inserzione dell'a-spirante venditore di Mercedes da chiunque l'avesse conosciuto in passato:«Salve, sono Griffin Mill. Ero un tipo promettente, ma mica ce l'ho fatta.»

    Una volta a casa, e a letto, Griffin si concentrò nel buio sull'uomo che glispediva le cartoline, cercando di entrare con la propria mente in quella del-

    l'Autore per chiedergli di farla finita con quei messaggi. «Se la notte è unacreatura viva,» pensava Griffin, «ciò che le dico adesso in camera mia lodirà lei a te, in camera tua.»

    «Lasciami in pace!»«Mi dispiace di non aver mantenuto la mia promessa, ma cosa ci vuoi

    fare... Così è la vita!»Ma i pensieri, appena preso il volo, cadevano nel bel mezzo del letto,

    stecchiti. Griffin immaginò la distanza tra sé e il misterioso corrispondente

    come una serie di successivi scomparti bui e parlò ad alta voce, saggiandol'aria con la voce e ricevendo in risposta solo una leggera eco. «Ehi, sonoio, Griffin Mill. Ti avevo detto che mi sarei fatto risentire... be', eccomiqua. Per favore, smettila di mandarmi quelle cartoline! Ci penso in conti-nuazione, sono un elemento di disturbo. Senti, se scopro chi sei prima cheti identifichi o che la smetta di spedire cartoline, puoi sognartelo che ti diamai del lavoro!»

    Trovò alquanto stupida l'ultima parte e s'immaginò un pubblico che, per-

    fettamente d'accordo con lui, dicesse: «Sì, Griffin, quella patetica minacciaè proprio stupida.» La sensazione che qualcuno lo stesse osservando glisembrò un buon segno, un sintomo del superamento della prova.

    Il mattino dopo fece colazione con Levison al Polo Lounge. S'incontra-vano tutti i mercoledì. L'appuntamento faceva talmente parte della lororoutine che non sentivano nemmeno il bisogno di confermarselo a vicenda- si facevano vivi solo se c'era qualche impedimento.

    «Hai letto qualche bel copione ultimamente?» chiese Levison.

    «Chinatown.»«Già fatto.»

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    «Io l'ho letto solo la settimana scorsa.»«Adesso non lo farebbero di sicuro, lo sai anche tu. Non farebbero

    nemmeno La febbre del sabato sera.»Griffin sorrise. «Il soggetto della frase siamo noi due, te ne rendi con-

    to?»«Sono solo io. Tu lo sei in parte, ma non del tutto.» A Griffin non piac-

    que per niente il sorrisetto ironico di Levison. La battuta sarcastica, però,gli era sfuggita suo malgrado, e ne sembrava già pentito. «Nella Febbredel sabato sera Travolta vince la gara di ballo, ma trae poca soddisfazionedalla vittoria perché si rende conto che il mondo delle discoteche è unmondo vuoto. Te ne rendi conto anche tu, adesso?»

    «Lui cresce nel corso della storia. Cosa conta l'ambiente? E poi la musi-

    ca è fantastica. E sono fantastici anche i balli.«Lascia perdere, Griffin. Il finale è ironico. Il pubblico è troppo arrab-

     biato, troppo insofferente. Odia l'ambiguità, vuole che tutto abbia un lietofine.»

    «Perché ieri io non c'ero, alla riunione?» Attacco.«Potrebbero esserci dei cambiamenti.»«Io sono ancora dentro, o no?»«Tra poco Larry Levy sarà dei nostri,» annunciò Levison con calma.

    «Di quel che faccio voglio render conto solo a te, direttamente, senza passare per Levy. Se devo aver Levy come tramite, mi dimetto.»

    «Non puoi dimetterti. Non te lo consento, e alla scadenza del tuo con-tratto manca ancora un anno e mezzo. Se provi ad andartene ti metto i ba-stoni tra le ruote! Non cercare offerte da altri studios. Io ti ho sotto contrat-to e se mi pianti delle grane faccio valere i miei diritti per via legale, ob- bligandoti a venire in ufficio tutti i santi giorni senza fare un bel niente. Ri-lassati. Levy è un ragazzo molto brillante e, dato che era disponibile, mi è

    sembrato opportuno accaparrarmelo. È un tipo in gamba. Proprio in gam- ba.»

    «Lo conosco,» disse Griffin, seccato.«Può farci un sacco di bene.»«Allora non sono più io il cavallo vincente della scude ria?»«Non lo sei più da un anno. E non lo sono più nemmeno io. E a un certo

     punto non lo sarà più nemmeno Larry Levy. Senti, se proprio vorrai andar-tene, non ti fermerò. Però vorrei che restassi. Ho bisogno di te, Griffin, ma

     posso capire quello che provi. Scordati quel che ho detto a proposito del-l'azione legale. Se ti sarà proprio impossibile condividere il potere con un

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    altro, ti offrirò un'alternativa: fare il produttore.»«Già, così Variety  potrà farmi dire: 'È l'occasione che aspettavo da

    quando ho messo piede a Hollywood. Sono elettrizzato!'»«Non fare il sarcastico.» Levison versò un'altra tazza di caffè, che Grif-

    fin accettò controvoglia. Per tutta la giornata il caffè gli diede i bruciori distomaco e la sgradevole sensazione di scivolare su una superficie sdruccio-levole senza riuscire a trovare un appiglio.

    In ufficio Jan gli consegnò una specie di libretto intitolato  Dieci vedutedel Sud della California: una serie di cartoline piegate a fisarmonica, fer-mate da una linguetta che sporgeva dall'ultima cartolina. La parte anteriorerecava non solo l'indirizzo, ma anche alcuni disegni che enfatizzavano almassimo le attrazioni più famose. Il Cervino di Disneyland risultava gran-

    de come l'Everest; le tavole su cui baldi giovanotti volteggiavano sulle on-de di Malibu avevano le stesse dimensioni di una portaerei; una cinepresamontata su un cavalletto pareva il Colosso di Hollywood. L'ultima cartoli-na della serie, quella che chiudeva il libretto, mostrava lo «splendido lagoArrowhead, ad appena un'ora di distanza dalle partite di golf e dalle uscitein barca a vela più entusiasmanti del mondo». Griffin aprì il ventaglio dicartoline. Questa volta il messaggio era scritto a macchina.

    Caro Griffin,sto ancora aspettando la tua telefonata. Avevi detto che ti saresti

    fatto risentire. La mia segreteria telefonica è sempre inserita, per-ciò non puoi dire di aver telefonato e di non aver trovato nessuno.Io ti avevo esposto il mio soggetto, tu mi avevi detto che volevi pensarci, che ti saresti fatto risentire. Il mio agente mi aveva assi-curato che la tua promessa di richiamarmi faceva ben sperare. Be',ho aspettato abbastanza. Mi hai mentito. È chiaro che non hai nes-

    suna intenzione di farmi lavorare per i tuoi studios. A nome di tut-ti gli autori hollywoodiani che sono presi per i fondelli daexecutive che non ne capiscono un'acca del cinema, che capisco-no solo i successi di cassetta della settimana prima e non sannonemmeno cosa sia la passione per il cinema, io ti ucciderò.

    Griffin ripiegò la serie di cartoline.«Allora, chi è?» chiese Jan. «L'attrice?»

    «Dice che si è divertita un mondo con me e vuole sapere se possiamocenare insieme al più presto. Si rende conto di quanto sia difficile passare

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    dalla televisione al cinema, ma vuole provarci ugualmente, e non mi ritieneobbligato a mantenere le promesse fatte da sbronzo.»

    Che cosa mi trattiene?, si chiedeva Griffin. Perché non ne parlo a Stu-ckel? Sarebbe così facile mostrargli le cartoline! Griffin pensava con di-sgusto alle imbarazzanti premure di Stuckel - al suo braccio attorno allespalle, ai suoi amichevoli consigli di crearsi un sistema di sicurezza, di far-si scortare da una guardia del corpo, di indagare tra gli amici. Si sarebbesaputo in giro che Griffin Mill era nel mirino di qualcuno. Un bel marchioda portarsi addosso!

    Chiamò Jan. «Starò al telefono per un bel po'... È una cosa importante.Di' a chiunque voglia parlare con me che mi potrà trovare più tardi.» Poicompose il numero dell'ora esatta, in modo che la spia luminosa sull'appa-

    recchio di Jan desse l'impressione che lui fosse al telefono con qualcuno enon potesse venir disturbato. Prese l'ultima cartolina e andò a sedersi suldivano. Subito dopo si alzò e andò a prendersi un succo di pomodoro dalfrigobar. Tornò a sedersi, appoggiò la cartolina sul tavolino davanti al di-vano e cercò di respirare profondamente. Nella stanza c'era un gran silen-zio.

    Alcune parole spiccavano con lo stesso rilievo delle vedute della Cali-fornia disegnate sul frontespizio del blocchetto di cartoline. «Il mio sog-

    getto»... «Il mio agente»... «Tutti gli autori»...Griffin sfogliò le pagine dell'agenda. Tre o quattro volte alla settimana

    riceveva autori sconosciuti che venivano a proporgli i loro soggetti. Quasinessuno di loro aveva mai realizzato un film. Griffin non ne ricordava più inomi, le facce. Ricordava a malapena i soggetti che gli erano stati propostinelle ultime due settimane. Di quei colloqui gli rimanevano impressi nellamente solo l'ostentato entusiasmo, il deliberato ottimismo, la sfacciata al-legria, il panico triste, imbarazzato, a volte. Un autore era stato da lui solo

    il giorno prima, eppure il suo nome gli era già sfuggito. Dovette cercarlosull'agenda: Doug Krieger. Doug Krieger, senza perdere tempo in pream- boli, aveva cominciato subito, con grande slancio, a esporgli dettagliata-mente il suo soggetto, partendo dall'effetto di silenzio che si sarebbe creatonon appena fossero scorsi i titoli di testa accompagnati dal rullo di centotamburi del Ghana. Cercava di vendere una stupida storia avventurosa am- bientata in Africa. Chi mai avrebbe tratto un film da un soggetto simile?

    Griffin guardò i nomi degli altri autori. A nessuno si concedeva più di

    mezz'ora, e si ricevevano al massimo quindici persone al giorno. Alcuniautori cercavano di condensare i loro soggetti in venticinque parole, più o

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    meno, secondo i dettami di una metodologia desueta. Parlavano di «arcodella storia», usavano un linguaggio cifrato che comprendeva espressionicome «paradigma» ed «effetto urto». Erano precisissimi. «Al ventitreesi-mo minuto lei scopre...» Che cosa diamine poteva scoprire quella? Che ilfilm non si sarebbe mai fatto. Parlavano delle «regole del genere», e quan-to al casting sapevano già tutto: «Jeff Bridges e Meryl Streep sono bloccatinella camera blindata della banca...» E mescolavano con disinvoltura i varifilm: «Vede, è una via di mezzo tra Senza via di scampo e Doppio taglio, con un pizzico di Sentieri selvaggi...»

    Altri autori cercavano di conversare per una decina di minuti prima diesporre il loro soggetto, per creare un clima di amicizia. Parlavano di poli-tica, o cercavano di fare saccenti lezioni d'arte. Altri ancora avevano paura,

    si ritrovavano con la bocca secca nel bel mezzo della loro esposizione; ac-corgendosi della noia di Griffin, erano presi dal panico. C'era chi chiac-chierava con la massima disinvoltura con Jan, come se tra loro ci fosse u-n'amicizia di vecchia data, e perdeva poi ogni baldanza non appena mette-va piede nell'ufficio di Griffin. Per non parlare di quelli che stavano sedutisul divano con aria sussiegosa ed esponevano i loro soggetti in tono mono-tono e distaccato, con gli occhi fissi al soffitto. A cosa miravano? Faceva-no una pausa prima del momento in cui, ne erano sicuri, Griffin sarebbe

    stato costretto ad alzarsi di scatto, precipitarsi alla scrivania, tirar fuori daun cassetto il suo libretto di assegni e redigere il loro lasciapassare per unaleggendaria carriera, per quella supervita che era scritta nel loro destino,nel loro codice genetico - una vita di totale armonia in cui persino i mo-menti difficili sarebbero stati epici, in cui alla confusione sarebbe subentra-ta la tragedia, e alla felicità l'estasi. Sì, Griffin Mill era in grado di consa-crarli, di far di loro degli dei, di concedergli qualsiasi cosa, persino le va-canze di Natale ad Aspen con Jack Nicholson.

    Alcuni lavoravano in coppia, come i borseggiatori e i poliziotti, e cia-scuno finiva le frasi dell'altro, lo contraddiceva scherzosamente, o palesavaistinti omicidi se l'altro rovinava la parte saliente dell'incredibile storia cheavrebbe fatto affluire i quattrini nelle tasche di entrambi. A volte gli autoriaffrontavano apertamente l'argomento quattrini, parlavano di quanto a-vrebbe incassato il film nella prima settimana di programmazione se il ruo-lo del protagonista fosse stato affidato ad Harrison Ford, e di quanto sareb- bero invece calati gli incassi se al posto di Ford ci fosse stato un attore di-

    verso.Si presentavano con grandi idee - ribellioni, divorzi, vendette, questioni

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    d'onore. Offrivano una certa atmosfera - passionale, avventurosa, diverten-te. Ogni idea rappresentava un milione di compromessi tra il film che so-gnava il soggettista, quello realmente immortale, frutto delle brillanti asso-ciazioni della sua mente, libere ma sempre lucide e pertinenti, e la versioneche di quel sogno avrebbe dato la casa cinematografica, alle cui esigenzedi produzione lo scrittore si sacrificava elaborando quella cosa banale cheè una «storia». Gli autori accettavano di buon grado tali compromessi incambio della mezz'ora di colloquio con Griffin Mill, di quell'occasione u-nica di imporre il proprio genio a un mediatore che conosceva così bene igusti dell'America.

    Griffin non diceva mai di no.Gli autori facevano i loro discorsi, poi aspettavano la sua reazione. Se lui

    li avesse scaricati apertamente loro avrebbero potuto metterlo in difficoltàchiedendogli il perché di quel rifiuto, dopodiché sarebbero tornati alla ca-rica - uno sforzo del tutto inutile. A volte Griffin faceva qualche domandasull'ambientazione, o muoveva qualche blanda critica alla scarsa presa sul pubblico del personaggio principale, ma faceva sempre in modo che i suoiinterlocutori uscissero dal suo ufficio con la convinzione di avere unachance, anche se esigua. Talvolta, nell'accompagnare gli autori alla portaindicava loro le fotografie, protette da un vetro ma non incorniciate, che

    erano appese alle pareti del corridoio - celebri inquadrature di film di suc-cesso prodotti dagli studios - e ciò per far capire ai potenziali collaboratoriche la sua porta era sempre aperta, ma solo a chi gli portava soggetti tantovalidi da poterne ricavare immagini altrettanto efficaci. Baci appassionatisullo sfondo di una città in fiamme. Sommergibilisti ansiosamente aggrap- pati a un periscopio. Soldati a cavallo che lasciano un forte. Lo smasche-ramento dei colpevoli. L'arrivo di un'astronave. La rappacificazione tra dueinnamorati. Strani individui (tesissimi, presumibilmente innocenti) appesi

    a esili appigli ad altezze vertiginose. Mostri. Donne urlanti. Comportamen-ti assurdi e grotteschi. Aviatori che corteggiano la figlia del capitano. Era-no scene come queste, fatte di amore, sangue, velocità, che esprimevano lospirito del cinema.

    Griffin si aspettava che sulla base del suo silenzio gli autori capissero,dopo qualche giorno, di non aver superato la prova.

    Adesso però gli era sorto il dubbio che fosse sleale differire nel tempouna delusione così amara.

    Che cosa succedeva dopo che gli scrittori uscivano dal suo ufficio? Seavevano l'impressione che il colloquio fosse andato bene pensavano che da

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    quel momento la loro vita sarebbe cambiata, o, per meglio dire, sarebbecominciata la loro vera vita? Quanto tempo doveva passare perché qualcheguastafeste dicesse loro, con una pacchetta d'incoraggiamento sulla spalla:«No, non ci siamo, non è ancora arrivato il tuo turno»? E a quel punto chene era di quei poveracci, soli e vergognosi sotto l'implacabile sole della lo-ro vita di sempre, che li bruciava con la coscienza del fallimento, con lafrustrazione?

    D'altra parte, se lui faceva perdere tempo agli altri, non perdeva anche ilsuo? Non era in fondo anche lui un pignolo che appuntava spilli colorati suun tabellone ogni volta che faceva una promessa, e piangeva poi per tuttigli spilli inutilmente acquistati e sistemati, per il fatto che il tabellone fossecoperto di spilli che nessuno gli diceva come utilizzare? Delle promesse

    fatte aveva perso il ricordo.E tutti quei colloqui?, si chiese Griffin riprendendo a sfogliare l'agenda.

    Quanti ce n'erano stati! Alcuni avevano dato luogo a contratti, altri a film,ma solo se gli autori avevano alle spalle dei produttori, o si erano già fattiun nome, o erano sulla lista dei papabili, o avevano già venduto e realizza-to qualcosa. L'autore delle cartoline non figurava su nessuna lista. Proba- bilmente aveva scritto un buon copione, qualcosa che aveva attratto l'at-tenzione di un buon agente, e l'agente si era messo in contatto con alcuni

    dirigenti di case cinematografiche che in seguito alle sue pressioni avevanoacconsentito a ricevere l'autore. Il fatto che nel messaggio si dicesse checiò era per l'agente un buon segno faceva sospettare a Griffin che questinon conoscesse molto bene la persona in questione. Certo, Griffin avrebbe potuto fare un elenco di tutti gli autori e dei rispettivi agenti, per poi inda-gare sui nomi meno familiari, ma avrebbe dovuto farsi aiutare da Jan. Equesta non gli sembrava affatto una buona idea.

    2

    Griffin chiese a Jan di chiamargli Mary Netter e dopo un attimo si sentìdire che Mary era in riunione. Griffin precisò che si trattava di una cosaimportante, Jan gli disse di restare in linea, e poco dopo Mary venne al-l'apparecchio.

    «Cosa c'è? Sono in riunione.»«Devo farti una domanda: quanto tempo bisogna aspettare perché sia le-

    gittimo ritenere di aver aspettato abbastanza?»«È un problema che riguarda un copione?»

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    «Sì.»«Che cosa si sta aspettando?»«È un problema di etichetta, riguarda una lettera di ringraziamento.

    Quanto tempo è lecito aspettarla?»«Qualcuno ha mandato un regalo e, non ricevendo due righe di ringra-

    ziamento, si arrabbia?»«Già. Si arrabbia tanto da fare una scenata.»«Possibile che uno se la prenda tanto? Cos'è, una commedia?»«Per il momento è solo un soggetto.»«Se non si tratta di una commedia, il risentimento non si spinge mai fino

    a quel punto. Un'indignazione del genere non si addice al protagonista diun film serio. Di chi è il soggetto?»

    «Non ha importanza al momento. Allora, quanto tempo si deve aspettare per ritenere legittimamente di aver aspettato abbastanza?»

    «Be', se faccio un regalo e considero speciali tanto il regalo che la per-sona a cui lo faccio, mi elettrizza immaginare la scena della persona cheapre il mio pacchetto. Specialmente se si tratta di una ragazza: mi sembragià di vederla metter via con cura il nastro... Perché io li conservo, i nastri.Se il regalo è spedito per posta, o viene consegnato dal negozio, quantotempo può passare? Tre giorni se il destinatario abita in città, una settima-

    na se vive a New York? Se il regalo è bello e per due settimane non arrivanessun cenno di riscontro, si ha tutto il diritto di arrabbiarsi... sempre che ilregalo sia arrivato a destinazione e che il destinatario non sia stato investi-to da un camion nel frattempo. È pensabile che l'oggetto sia ormai nellemani della persona a cui è destinato e le sia piaciuto moltissimo, ma la per-sona non dice una parola. Che taccia^ imbarazzata, perché il regalo non leè piaciuto per niente? È possibile?»

    «Possibilissimo.»

    «Se si pensa che il regalo non sia stato gradito, non si è certo contenti.Anzi, si è alquanto risentiti e si rimpiange di aver fatto quel regalo. Forseera troppo estroso e chi l'ha ricevuto non sa cosa dire. Forse si è sopravva-lutata l'amicizia, o la si è vista dove non c'era. Si è mandato qualcosa di va-lore a una persona che in realtà non ci è mai stata amica e che adesso è ad-dirittura spaventata perché solo un pazzoide potrebbe essere tanto generosocon un semplice conoscente. A ogni modo, chi ha fatto il regalo ha tutto ildiritto di arrabbiarsi dopo un paio di settimane, se è una persona normale.

    Se poi è un tipo che se la prende molto, dopo quattro o cinque settimane potrebbero anche venirgli istinti omicidi...»

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    «Chi ha parlato di istinti omicidi?»«È più divertente se vengono anche quelli, no? Non era una commedia?»«Me lo dirai dopo aver letto il copione, quando sarà stato scritto.»Fine della telefonata. Secondo Griffin, Mary gli aveva mentito quando

    gli aveva detto di essere in riunione, visto che era stata al telefono tuttoquel tempo senza scusarsi con nessuno. Ma torse aveva congedato il suointerlocutore con un cenno della mano, come fanno gli arbitri per indicareche il tempo è scaduto, o aveva continuato a parlare mentre l'altra personase ne stava seduta buona buona a leggere degli appunti o una rivista. Ma-gari era così compiaciuta del fatto che lui l'avesse interpellata che, presadal discorso, aveva trascurato tutto il resto, compreso il malcapitato che sitrovava nel suo ufficio. Se era così, se Mary aveva trascurato per lui un

    colloquio di lavoro, questo voleva dire che Griffin Mill conservava il suo potere negli studios, e che Larry Levy non avrebbe avuto una vita facilecon i sostenitori del vecchio Mill.

    Griffin sfogliò a una a una le pagine dell'agenda con le annotazioni dellesei settimane precedenti. Rimpiangeva di non aver chiesto a Mary perquanto tempo si potesse serbare rancore prima di mettere una pietra sultorto subito. Un anno? Sei mesi? Quanta speranza aveva dato all'Autore? Ese il soggetto che quello gli aveva proposto fosse stato umoristico e gli a-

    vesse strappato qualche risata?... Se nel sentirsi descrivere una scena chegli ricordava la sua infanzia, lui avesse ammesso la coincidenza?... In en-trambi i casi l'Autore, non appena fosse tornato a casa, avrebbe senz'altrotelefonato al suo agente dicendogli che quello era stato il colloquio piùsoddisfacente di tutta la sua vita, perché le sue parole erano riuscite a farridere o commuovere Griffin Mill. Magari sarebbe stato tanto euforico datelefonare subito all'agente, da un telefono pubblico degli studios, e passa-re poi, sulla strada di casa, da un concessionario di automobili per infor-

    marsi sul prezzo delle decappottabili. Magari quella stessa sera, dando or-mai per scontata la vendita del suo copione, aveva invitato a cena degliamici, con la generosità di chi ha sempre il portafoglio imbottito di bigliet-toni.

    Se il colloquio avesse avuto luogo nei primi giorni della settimana pro- babilmente l'Autore si sarebbe aspettato una telefonata da Griffin entro lafine di quella stessa settimana, ma il suo agente gli avrebbe certo detto che bisognava pazientare un po' di più, perché Griffin avrebbe dovuto parlare

    con Levison. Quando si era accorto l'Autore che le proprie speranze eranoinfondate? Il lunedì pomeriggio? Era rimasto incollato al telefono tutta la

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    giornata? Aveva controllato e ricontrollato la segreteria telefonica? Avevadisturbato il suo agente, anzi, la segretaria del suo agente, telefonando prima e dopo l'ora di pranzo per sapere se Griffin si fosse fatto vivo perconcludere? Era passato tutto il lunedì senza che arrivasse nessuna telefo-nata. Poi il martedì. Altre speranze, il martedì; altre ottimistiche previsioni,altra fiducia. E nessuna telefonata da parte di Griffin, il martedì. E una vol-ta arrivato il week-end? L'agente aveva detto all'Autore che doveva pren-dere atto della realtà. E a quel punto come aveva reagito l'Autore? Avevalitigato col suo agente? E l'agente aveva detto all'Autore di aver parlatocon Griffin Mill e di aver saputo che del progetto non se ne faceva piùniente? Probabilmente sì. Invece l'agente non aveva affatto telefonato aGriffin Mill perché sapeva benissimo che sarebbe stato del tutto inutile. O

    magari gli aveva telefonato davvero, e Griffin si era fatto negare e si eraguardato bene dal richiamarlo, cosicché lui si era reso conto che non era ilcaso di insistere, se davvero non voleva passare per uno scocciatore. Equanto tempo era passato prima che nell'Autore insorgessero istinti omici-di?

    Griffin era spaventato. Non si trattava di una situazione ipotetica, di unoscherzo. Griffin credeva all'Autore, al suo desiderio di uccidere chi l'avevaimbrogliato. Era una reazione logica.

    Squillò il telefono. Jan disse: «Witcover.» Era un produttore. Griffin sifece passare la telefonata, e subito Witcover cominciò a protestare con ve-emenza per le enormi spese che dovevano sostenere gli studios per la di-stribuzione in Europa di un film realizzato da Griffin tre anni prima.

    «Il film non è mio,» replicò Griffin. «Chi era allora il produttore esecu-tivo?»

    «Susan Alper, che adesso è alla MGM.»«Non sono io il responsabile della distribuzione. Perché telefoni proprio

    a me?»«Perché dovresti essermi amico.»«E allora perché mi salti in testa?»«Perché io sono fatto così.»«C'è qualcos'altro che bolle in pentola, vero? Mi nascondi qualcosa, lo

    capisco dal tuo tono di voce.»«OK. Perché sei un maledetto executive, Griffin, un amministrativo, non

    un cineasta o un uomo di spettacolo. Io ho fatto cinque film. È mai capita-

    to, a te, di leggere un articolo di giornale e metterti in contatto con chi l'hascritto per lavorare con lui su un soggetto? Per lavorarci in forma continua-

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    tiva, intendo dire, dal primo giorno fino ai consigli tecnici per le riprese?...E di metterti poi in contatto con un regista, e trovare il protagonista, e se-guire la realizzazione e tutto ciò che viene dopo la realizzazione, e andarefino a Denver, nel Colorado, per assistere all'anteprima, per vedere il tuofilm, con il tuo nome sul grande schermo? Allora, ti è capitato o no, buonoa niente? Un soggetto accennato in tre righe su un giornale, e due anni do- po ti porti a casa tre milioni al netto delle tasse? Un'idea di tre righe, e te lagestisci tu, dal principio alla fine, finché approda alla televisione o nei ne-gozi di videocassette? L'hai mai fatto, tu? È facile comperare, Griffin. Per-ché non ti dai da fare e non cerchi di vendere tu qualcosa, una volta tan-to?»

    «Senti, al momento sono in riunione. Si può sapere perché mi fai questa

    filippica?»«Perché sono ricco, perché non me ne importa un accidente. Perché hai

    detto che Gossip ti piaceva, ma non ti sei affatto battuto per farlo, e adessoGossip è in vendita, e t'interessa sapere a chi lo sto vendendo? A SusanAlper. Perciò vattene pure all'inferno, Griffin! È quello che ti meriti. Or-mai hai fatto il tuo tempo.» Griffin si ritrovò tra le mani un ricevitore iner-te: all'altro capo del filo non c'era più nessuno. Avrebbe dovuto procurarsiuna lista completa di tutte le persone che aveva ricevuto nell'ultimo anno,

    con i rispettivi numeri telefonici. Tutto quanto era custodito nella scrivaniadi Jan, che conservava i vari numeri di telefono nel caso i colloqui doves-sero essere disdetti. Griffin avrebbe potuto farseli dare da Jan, ma comeavrebbe giustificato la richiesta? Le schede relative all'anno in corso eranosulla scrivania, ma quelle relative all'anno precedente dovevano essere giàstate archiviate. Certo, Griffin avrebbe potuto far allontanare Jan con un pretesto, ma se l'avesse mandata a prendere, mettiamo, un soggetto a un al-tro piano, c'era il pericolo che qualcuno entrasse nell'ufficio e lo sorpren-

    desse a frugare nei cassetti. No, no, meglio aspettare fino a tarda sera. Glicapitava spesso di lavorare fino alle otto o alle nove. Non gli sarebbe statodifficile trovare le registrazioni. Dalla sua agenda personale risultava chequella sera avrebbe dovuto cenare con Bonnie Sherow. Sfogliò a ritroso le pagine degli ultimi mesi; il nome di Bonnie compariva almeno una setti-mana sì e una no. Era uno dei vicepresidenti del settore produzione dellaParamount. Poco dopo averla conosciuta Griffin l'aveva portata per tregiorni in Messico, a Cabo San Lucas, e là avevano preso in considerazione

    la possibilità di vivere insieme, in casa dell'una o dell'altro. Quando poi ciavevano rinunciato per una questione di comodità, Griffin aveva improvvi-

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    samente capito, alla luce di tale rinuncia, che entrambi erano stati innamo-rati. Ma ormai era troppo tardi. Per un po' lui aveva pensato che Bonnie sifosse innamorata, o fosse sul punto d'innamorarsi, di qualcun altro, ma lastoria, supposto che fosse vera, era ormai superata. Comunque, la sua erasolo una sensazione: Bonnie non aveva mai accennato a nessun altro uo-mo. Forse frequentava un uomo sposato, conosciuto nell'ambiente di lavo-ro.

    Griffin le telefonò. «Stasera proprio non posso.»«Mi dispiace.»«Dispiace molto anche a me. Comunque tra poco ci sarà quella festa del-

    la Motion Picture Home, e sarà una buona occasione per stare insieme.»Griffin lo disse senza convinzione. Aveva fissato quell'appuntamento mesi

     prima. Chissà se lei ci teneva ancora?«Adesso sono in riunione. Chiamami domani.»Griffin aveva una gran voglia di uscire nel corridoio e cercare qualcuno

    con cui parlare di quelle inquietanti cartoline. Come sarebbero state accoltele sue confidenze, con comprensione o con qualche risatina? Il bisogno i-stintivo di condividere il proprio panico con altri era umiliante: lo facevasentire come un bambino che chiama «mamma» la maestra.

    Disse a Jan di chiamargli Larry Levy. Levy venne immediatamente al-

    l'apparecchio.«Congratulazioni,» disse Griffin. «Ho appena saputo la bella notizia.»«Non vedo l'ora di mettermi al lavoro. Ci divertiremo, faremo dei bei

    film, guadagneremo un sacco di soldi.»«Dovremmo pranzare insieme.»«Domani. Io disdico il mio impegno se tu disdici il tuo.» Era scontato

    che entrambi avessero già degli impegni per l'ora di pranzo.«Sicuro. Tanto Clint Eastwood lo vedo quando voglio.»

    Con quella battuta Griffin perse il primo round: lo sapevano entrambiche Griffin non avrebbe mai disdetto un impegno con Clint Eastwood, eche non avrebbe certo pranzato con Eastwood se non fosse stato presenteanche Levison.

    Poco dopo Griffin fu chiamato da Jan. Questa volta al telefono c'eraSandra Kinroy, un agente. Voleva ottenere un colloquio per un nuovocliente. «Ha già realizzato qualcosa?» chiese Griffin.

    La Kinroy sospirò. «Leggi il suo copione, Griffin.»

    «Perché, secondo te dopo potrebbe venirmi voglia di ricavarne un film?»«Mi piacerebbe saperlo!»

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    «Allora so già che non mi verrà quella voglia.»«Ho sentito che Larry Levy viene a lavorare da voi.»«E ti domandi se vale ancora la pena di far parlare con me il tuo autore,

    vero?»«Allora lo leggerai, quel copione? È piacevole. Anche lui è una persona

     piacevole; mi faresti davvero un grande favore se leggessi personalmente iltesto. Ma non farlo leggere ad altri.»

    «Scommetto che è già stato dato in lettura ad altri studios, ed è stato bocciato.»

    «Dagli almeno una possibilità, Griffin. Fallo per me.»Sandra Kinroy non era proprio niente per Griffin, lui non era affatto te-

    nuto ad assecondarla (avrebbe anche potuto dirglielo apertamente), ma non

    gli sembrava il caso di litigare per una simile inezia. «D'accordo, manda-melo.» La Kinroy lo ringraziò. Naturalmente sapeva benissimo che il co- pione sarebbe stato dato prima in lettura ad altri: tutti gli studios facevanoleggere i testi a esperti che li analizzavano e ne facevano una breve valuta-zione critica, nella maggior parte dei casi distruttiva. Anche Griffin avevacominciato la sua carriera leggendo copioni. Adesso se il copione ricevevauna critica favorevole, Griffin se lo portava a casa per leggerlo durante ilweek-end. Ed effettivamente cominciava a leggerlo - a volte lo leggeva

     proprio fino in fondo.Dopo aver riagganciato, Griffin decise di liberarsi dal panico una volta

     per tutte. Chiuse gli occhi e tornò a concentrarsi sull'autore delle cartoline.Avrebbe voluto parlare ad alta voce, ma temeva che qualcuno potesse sen-tirlo, perciò disse tra sé e sé: «Prenderò un autore a caso, mi metterò incontatto con lui e gli farò le mie scuse. Non solo, leggerò anche il copioneche mi manderà Sandra, riceverò il suo autore, e se avrà qualcosa di buonoda propormi lo prenderò seriamente in considerazione, e in ogni caso mi

    farò risentire.»Adesso aveva un piano d'azione. Durante l'ora e mezzo successiva lesse

    rapporti finanziari e riassunti di soggetti. Faceva il suo lavoro con animolieto. Quando Jan lo salutò, al termine dell'orario di lavoro, aspettò chefosse arrivata tanto lontano da non sentirsela più tornare in ufficio anche sesi fosse accorta di avervi dimenticato qualcosa (nella stanza, comunque,non sembrava esserci niente che le potesse servire prima del giorno suc-cessivo), poi chiuse accuratamente la porta che dava sul corridoio.

    L'agenda dell'anno precedente era in un cassetto della scrivania. Griffinse la portò nel suo ufficio e la mise accanto a quella dell'anno in corso.

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    Quanti colloqui, quanti nomi! Griffin invidiava la persona che era stata co-sì occupata. Certi nomi ricorrevano tre o quattro volte, poi scomparivano;altri figuravano quotidianamente per un'intera settimana; altri ancora com- parivano una volta sola, oppure una volta alla settimana nell'arco di tuttol'anno. Produttori. Registi. Griffin fece un elenco di quelli che avevano a-vuto un unico colloquio, perché erano gli autori che avevano propostoqualcosa e non l'avevano spuntata. Poi richiuse l'agenda. Non se la sentivadi telefonare a persone che non vedeva da dieci mesi - sarebbe sembratotroppo bizzarro.

    Avrebbe dovuto prendere un nome a caso? Scrivere i vari nomi su fo-glietti individuali, e poi estrarne uno dal mazzo? Aprì l'agenda sul mese disettembre, quando per due settimane la temperatura aveva superato i qua-

    ranta gradi e l'Autore avrebbe potuto interpretare la sensazione di benesse-re che aveva provato nell'ufficio di Griffin come un sintomo del buon rap- porto che si era instaurato tra lui e il produttore esecutivo, senza rendersiconto che il benessere era dovuto solo all'aria condizionata. Un attimo prima, nel parcheggio, sudava come una bestia e un attimo dopo, nell'uffi-cio di Griffin, si sentiva fresco e disteso e si chiedeva come mai fino a po-co prima si fosse preoccupato tanto... Nella pagina corrispondente al gior-no ventuno figuravano i nomi di due autori: Andrea Chalfin, alle dieci del

    mattino, e David Kahane, alle tre e mezzo del pomeriggio. Al momentoAndrea Chalfin stava dirigendo un film nel Colorado - quindi era decisa-mente troppo occupata per poter spedire delle cartoline.

    «L'altro sì che è perfetto!» pensò Griffin. «Di Kahane non ricordo pro- prio niente. Né il nome, né la faccia, né il soggetto.» Compose il numero diKahane. Sarebbe stato un lavoretto da poco. Gli rispose una donna.

    «C'è David?»«No.»

    «Oh...» Cos'altro si poteva dire? «Sono Griffin Mill.»«Adesso tocca a me dire: 'Oh!...'» Evidentemente la donna sapeva chi

    fosse Griffin Mill.«Avevo promesso a David di rifarmi vivo.»«Non sapevo che vi foste visti.»«Be', è passato un po' di tempo!»«Lei lavora sempre fino alle sette e mezzo?»«A volte anche fino alle dieci. E David fino a che ora lavora?»

    «Non sono autorizzata a rivelare i suoi segreti professionali. David miucciderebbe se sapesse che le ho spifferato una cosa del genere.»

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    «È un tipo violento?»«Come tutti gli scrittori, si sbronza prima di cena e tira in testa agli altri

    le bottiglie di vodka vuote.»«E lei chi è?»«June Mercator.»«Che mestiere fa?»«Faccio la baby-sitter per scrittori. No, non lavoro affatto in quel campo.

    Sono art director alla Wells Fargo.»«Anche quello è show business, in un certo senso.»«Creare dépliant sui tassi d'interesse le sembra forse show business?»«Si tratta sempre di far felice il pubblico.»«Devo solo attrarre la sua attenzione. E quasi tutto quello che faccio è

    visto solo da gente con cui siamo già in rapporti di lavoro. Non faccio pubblicità, io.»

    «Così stasera David se n'è andato al cinema, eh?»«Siamo a Los Angeles. Se non ti piace il rock and roll cos'altro puoi fa-

    re?»«Lei ci va spesso, al cinema?»«Una volta ci andavo in continuazione, con David. Poi basta.»«Perché?»

    «I film finiscono tutti allo stesso modo. C'è sempre un inseguimento, unconfronto o una vendetta.»

    «E se c'è l'amore?»«C'è sempre qualcuno che soffre.»«E i film divertenti?«Mi piacciono solo se sono proprio scemi.»«Che cos'è andato a vedere David stasera?»« Ladri di biciclette.»

    «E perché non c'è andata anche lei?»«L'ho già visto.»«È bello?»«Lei non l'ha mai visto? Si vergogni!»Per qualche istante Griffin non disse niente, e tacque anche June Merca-

    tor. Forse aspettava che lui dicesse altre cose - il motivo e lo scopo dellatelefonata, domande sul suo conto, quattro chiacchiere che non riguarda-vano David. Dopo un silenzio protrattosi fin troppo, entrambi si risolsero a

    riagganciare.Griffin aprì il giornale sulla pagina degli spettacoli e guardò in quale ci-

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    nema dessero Ladri di biciclette. Lo davano solo al Rialto di Pasadena.E se Kahane non fosse affatto al cinema, ma, conoscendo molto bene

    quel film, l'avesse usato come alibi per andarsene tranquillamente a lettocon un'altra donna? June aveva forse dei sospetti? Quando le aveva dettochi era, Griffin aveva colto una nota d'incredulità nella sua voce. L'effettoche esercitava sugli altri la sua fama non cessava mai di stupirlo.

    Erano le sette passate e il film era già cominciato. Non ci sarebbe volutomolto tempo per andare in macchina fino a Pasadena.

     Nessuno sapeva dove stesse andando. Nessuno lo seguiva. Griffin si reseconto che in fondo non era poi così indispensabile rintracciare David Ka-hane. Avrebbe potuto dirigere la macchina da qualsiasi altra parte. Il fattodi andare a cercare David, però, lo faceva sentire vicino all'autore delle

    cartoline, e fino a quel momento non era affatto esclusa la possibilità chel'Autore fosse proprio Kahane.

    Sull'autostrada per Pasadena Griffin provò mentalmente la scena dell'in-contro con David Kahane. Lui gli avrebbe stretto la mano, poi, dopo averscambiato qualche commento sul film, gli avrebbe detto: «A proposito, miscuso molto per non essermi più fatto sentire. Il suo soggetto era buono,ma, vede, Levison è così conservatore... Le è andata meglio in altri stu-dios?» Dopodiché lo avrebbe incoraggiato a presentargli qualche altro

    soggetto - un copione, magari, se ne stava scrivendo uno. Infine avrebbeinvitato lui e June a un party, o a un barbecue pomeridiano, dove avrebbe-ro potuto conoscere altri executive e produttori. Se David fosse stato invi-tato personalmente da Griffin, tutti i presenti avrebbero pensato che dove-va essere stato un suo testo particolarmente buono, scritto di recente, a procurargli il diritto di essere lì, visto che non aveva ancora nessun film alsuo attivo. Sarebbe stato convocato da altri studios. Magari gli avrebberoaffidato un incarico, gli avrebbero mandato un copione da rivedere, o gli

    avrebbero fatto recapitare, a mano, una copia di un libro di imminente pub- blicazione da valutare. Questo gli avrebbe risparmiato la fatica di spremer-si la fantasia, ormai esaurita da tanti colloqui deludenti.

    Griffin sperava che David Kahane ci tenesse a far soldi, perché glienesarebbero arrivati parecchi se Griffin avesse fatto sapere in giro, nel suoambiente, che Kahane era «un ragazzo in gamba». Non sapeva però comecominciare la conversazione con lui. Gli avrebbe chiesto se viveva a Pasa-dena. Una domanda del genere l'avrebbe fatto sembrare uno sprovveduto,

    incapace di nuocere: bastava dare un'occhiata al numero telefonico di Da-vid per sapere che abitava a Hollywood.

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    Parcheggiò nella stessa strada del cinema, un isolato più in là. Mancava-no venti minuti alla fine del film. Avrebbe potuto aspettare davanti al ci-nema che uscisse David Kahane, evitando la spesa del biglietto, ma avevala strana sensazione che l'Autore lo tenesse d'occhio e ridacchiasse come per dire: «Ehi, non barare! Il prezzo del biglietto me lo devi... Almenoquello!» Ma forse a rimproverarlo era la sua coscienza.

     Nell'acquistare il biglietto avrebbe voluto dire al cassiere che da anninon pagava di tasca sua per vedere un film: l'ultima volta che l'aveva fattorisaliva ad almeno due anni prima, quando era rimasto bloccato a Denver per un intero pomeriggio, in attesa di prendere un certo aereo, e si era vistocostretto a occupare il tempo in qualche modo. L'improvviso bisogno diraccontare un episodio così insignificante a un estraneo lo mise in imba-

    razzo, tanto che s'infilò subito nella sala senza fermarsi al banco del picco-lo bar in terno, benché avesse voglia di mangiare dei pop-corn. Aveva fa-me. Si sedette nel centro dell'ultima fila, in posizione equidistante dalledue uscite. Si augurava che in quel cinema si accendesse la luce alla finedel film; altrimenti, se il posto di David Kahane fosse stato in una delle prime file, egli si sarebbe potuto dileguare facilmente da una delle uscite difianco allo schermo. E Griffin non poteva lasciarselo sfuggire.

    3

    Roma. Anni cinquanta. Griffin seguiva la storia di un padre e di un figlioalla ricerca della bicicletta perduta. In base al titolo era facile intuire che la bicicletta era stata rubata, che il pover'uomo ne aveva bisogno, e che padree figlio, visto che il film volgeva ora al termine, stavano per rintracciare siala bicicletta che il ladro. «Un bel titolo,» pensava Griffin. Gli piaceva chein un film titolo e storia coincidessero. Il padre stava accusando un uomo

    del furto, e Griffin era convinto che fosse proprio lui il colpevole. La si-tuazione però era pericolosa: tutti i vicini di casa erano accorsi in difesadell'uomo accusato. Era gente povera, forse dedita al furto. D'altronde ilcolpevole non poteva essere che quello, mancava troppo poco alla fine delfilm perché ci si potesse aspettare uno sbaglio di persona. Un errore di queltipo poteva verificarsi solo a metà film, quando c'era ancora abbastanzatempo per seguire la pista giusta. I vicini di casa, il ladro e persino la ma-dre del ladro costringevano il pover'uomo a battere in ritirata, quando suo

    figlio era già corso a chiamare un poliziotto.Il poliziotto arrivava, faceva il giro dell'appartamento con la madre del

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    ladro, ma non arrestava il ladro perché non c'erano prove della sua colpe-volezza. Lo scopo della scena era far capire che tutti erano poveri, che tuttiavevano una vita difficile. Poi padre e figlio tornavano a vagare per lestrade, con aria smarrita, finché arrivavano nei pressi di uno stadio in cui sistava giocando una partita di calcio, probabilmente. Attorno allo stadio c'e-rano migliaia di biciclette, e a un certo punto il padre ne vedeva una la-sciata in disparte, in una strada tranquilla. Dava al figlio i soldi per l'auto- bus e lo mandava via, dopodiché rubava la bicicletta e fuggiva. Ma nonscappava abbastanza in fretta, perciò, fatte poche pedalate, veniva raggiun-to dai suoi inseguitori. Il proprietario della bicicletta, però, lo lasciava an-dare, rinunciando a sporgere denuncia, perché capiva che l'uomo era dispe-rato. Padre e figlio si allontanavano piangendo.

    Griffin restò scioccato quando sullo schermo comparve la parola FINE.La bicicletta non era stata recuperata, era persa per sempre. Una conclu-sione molto triste - ingiustamente triste, tra l'altro, visto che il padre avevagià sofferto tanto. Dopo aver visto la casa in cui viveva il ladro di bici-clette quel poveraccio sarebbe stato anche disposto a perdonare, invece eralui che finiva per essere perdonato: perché era diventato a sua volta un la-dro di biciclette. C'era forse un seguito?

    Le luci si accesero. Griffin non sapeva proprio come avrebbe fatto a ri-

    conoscere un uomo che l'aveva annoiato per una ventina di minuti cinquemesi prima. Era inutile sperare in un segno rivelatore. Osservò attentamen-te le due file di gente in uscita. Una donna gli passò davanti e lo guardòcome se l'avesse riconosciuto. Anche lui trovava il suo viso vagamentefamiliare. Un attimo dopo si ricordò: era una tale che l'aveva presentatodurante un corso di produzione organizzato dall'American Film Institute.La vide avvicinarsi a un'altra donna, mormorarle qualcosa all'orecchio efare un cenno con la testa nella sua direzione. Poco dopo scomparvero en-

    trambe nella hall. Quasi subito, però, l'amica rientrò e arrivò fino a metàcorridoio, poi guardò verso la cabina di proiezione facendo finta di cercarequalcuno nella sala, mentre in realtà voleva solo dare un'altra occhiata alui. Dopo averlo sbirciato, uscì di nuovo. Alle sue spalle c'era David Ka-hane.

    Griffin immaginò che Kahane fosse così imbronciato perché ce l'aveva amorte con Hollywood. Griffin restò seduto al suo posto, con lo sguardo perso oltre il corridoio, come se stesse osservando gli stucchi della sala.

    Kahane era sulla trentina e aveva un viso tagliente, spigoloso. I suoi capellifolti ricordavano quelli degli studenti universitari, ma forse ciò che gli da-

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    va quell'aria studentesca erano gli occhiali con la montatura d'acciaio e lacamicia scozzese. Quando Kahane guardò nella sua direzione, Griffin siaffrettò ad assumere un'espressione piacevolmente sorpresa. L'autore in-crociò il suo sguardo e uscì dalla sala. A quel punto Griffin, che era già pronto a esclamare: «Salve!», oppure: «Come va?», s'incupì e si richiuse.Stava ormai pensando di rinunciare alla sua idea, tanto più che sentiva il bisogno di mangiare qualcosa.

    Quando fu nella hall, vide Kahane entrare nella toilette, e si rese contoche sarebbe stato ridicolo seguirlo là dentro. Non si abborda nessuno inuna toilette. Si appoggiò alla parete di fronte e aspettò.

    Dopo un po' Kahane uscì, asciugandosi la punta delle dita sui jeans. Vi-de Griffin, pronto a salutare, si disinteressò di lui e proseguì in direzione

    della strada. Griffin lo seguì e, una volta fuori, lo chiamò.«David? David Kahane?» disse nel tono più incerto possibile. Kahane si

    voltò. Griffin allungò la mano e si presentò.«Come mai qui? Non poteva vederselo in privato, questo film?» L'os-

    servazione era impertinente, ma accompagnata da un sorriso.«Ero un po' nervoso e mi è venuta voglia di vederlo in una normale sala

    cinematografica. Proprio come lei.»«Non avrà per caso intenzione di fare un remake di Ladri di biciclette?»

    «Le andrebbe di scriverlo lei, il copione?»«Scommetto che lei vorrebbe metterci un lieto fine.»«Senta, temo di non averla più richiamata per il suo soggetto, e me ne

    scuso,» disse Griffin nel tono più casuale possibile.«Me l'aspettavo, e ho lasciato perdere quel soggetto. Aveva ragione lei.

    Se ne sarebbe potuto trarre un buon copione, e magari un buon film, con ilregista adatto, ma di quattrini se ne sarebbero guadagnati ben pochi.»

    Griffin cercò di cogliere qualche dettaglio che gli facesse capire che l'au-

    tore delle cartoline era proprio lui. Possibile che questi fosse capace dicontrollare i suoi minimi gesti esattamente come Kahane? Griffin fece unadomanda che gli veniva altrettanto automatica di un «Come sta?»

    «Su cosa sta lavorando in questo momento?»«Su varie cose.»«Adesso andrà a casa, immagino.»«Si può sapere cos'ha in mente, signor Mill?»«Le andrebbe di cenare insieme?»

    «Ho già mangiato.»«E se ci facessimo una birra, a spese degli studios?»

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    «Come sono generosi!»Griffin capì che a Kahane non importava niente di lui, né della promessa

    non mantenuta, né di quel po' di amicizia che lui gli stava offrendo. Non sicomportava secondo copione. Griffin voleva farsi giudicare bene da quel-l'uomo, riuscirgli simpatico, ispirargli fiducia, ma si rendeva conto di nonriuscirci affatto a causa della propria insincerità. Per Kahane doveva essereovvio che l'imbarazzato executive avesse in mente qualcosa. Risalirono in-sieme la via, in cerca di un bar. A un certo punto Kahane ne indicò unogiapponese, il Club Hama.

    «Andiamo lì.»Attraversarono la strada. Il bar era affollato: c'erano almeno cinquanta

    uomini, perlopiù giapponesi, in giacca e cravatta. Una giapponese era se-

    duta davanti a un pianoforte, attorniata da una piccola folla. Mentre leisuonava, un uomo seduto più in là cantava reggendo un microfono. Rigidecameriere in tunica con lo spacco prendevano le ordinazioni e intrattene-vano i clienti. Kahane aveva un'aria sollevata.

    «È proprio come a Tokyo,» osservò. Quando si avvicinò una cameriera,le parlò in giapponese. Griffin provò un senso d'inferiorità. Gli seccavamolto che l'Autore gli avesse giocato un brutto tiro, che avesse deciso difare lo smargiasso con lui. Con la cameriera non si limitava a dire l'indi-

    spensabile, intavolava un discorso. In giapponese. Quando la ragazza si al-lontanò Kahane riferì che era di Kyoto e aveva nostalgia di casa.

    «Lei è mai stato in Giappone?» chiese poi.«Per la verità, no.» Perché si era sentito in dovere di aggiungere «per la

    verità»?«Io ci sono stato per un anno intero. Grazie a un programma di scambi

    tra studenti, ai tempi del liceo.»«Dev'essere stato piacevole.»

    «Sì. Ci penso in continuazione.»«Ha scritto qualcosa sull'argomento?»«Proprio un copione no. Un soggetto. Quello di cui le ho parlato, se ne

    ricorda? A me sembrava che se ne potesse ricavare un bel film, ma eviden-temente la cosa non interessa a nessuno.» Non c'era da stupirsi se Kahaneodiava Griffin! L'odio era più che giustificato: gli aveva proposto un belsoggetto basato sulla sua esperienza personale, e Griffin l'aveva snobbato.A propria discolpa, Griffin si disse che se il soggetto era realmente valido

    Kahane avrebbe dovuto scriverlo comunque, quel copione.Quando la cameriera portò le ordinazioni, Griffin tirò fuori il portafoglio

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     per pagare in contanti anziché con una carta di credito (non voleva cheKahane pensasse che lui faceva il generoso coi soldi degli studios), ma poisi accorse che non era ancora il momento di pagare. Imbarazzato, ar-meggiò goffamente col portafoglio, sperando che Kahane non avesse nota-to il suo gesto intempestivo. Kahane bevve la sua birra guardandosi attor-no. Griffin non riusciva a capire se Kahane sapesse o meno che lui non ri-cordava affatto il suo soggetto. Stava forse pensando: «Perché mi son la-sciato dire da questo estraneo che non valeva la pena di scrivere qualcosasul più bel periodo di tutta la mia vita?» Alla fine Kahane riportò il suosguardo su Griffin.

    «Lei ha telefonato a casa mia alle sette, perciò non può aver visto tutto ilfilm. È venuto al Rialto solo per cercarmi. Appena sono arrivato al cinema

    ho telefonato a casa per far sapere alla mia ragazza che la borsa che crede-va di aver perso in realtà era in macchina, e che quindi poteva smettere dicercarla. Ma come mai lei mi ha telefonato? Che cosa ci fa, qui?»

    «Sono qui per scusarmi.»«Di che cosa? Dei suoi brutti film?»«Le avevo detto che mi sarei rifatto vivo.»«Se credessi a tutti quelli che a Hollywood dicono così sarei proprio

     pazzo!»

    Kahane si avvicinò al pianoforte e disse qualcosa alla pianista. Lei gli passò il microfono. Gli uomini attorno applaudirono, e lui si mise a parlarecon loro in giapponese. Si strinsero tutti la mano, poi Kahane fece un cen-no alla pianista che, illuminata da un gran sorriso, sembrava trovare fanta-stico ciò che stava succedendo. La donna cominciò a suonare il tema di007 Missione Goldfinger , e Kahane cantò tutta la canzone in giapponese. I presenti avevano smesso di bere e conversare e lo guardavano con interes-se. In certi punti le parole della canzone dovevano essere particolarmente

    difficili, perché alcuni, nell'ascoltarle, battevano le mani e sorridevanocompiaciuti. Griffin si chiedeva se Kahane si stesse per caso prendendogioco di lui: magari, fingendo di dire le parole della canzone, in realtà fa-ceva degli apprezzamenti ironici sul suo conto, raccomandando a tutti dinon guardare il babbeo che veniva messo alla berlina...

    Kahane finì di cantare e nel locale risuonarono applausi, esclamazioni dientusiasmo, fischi di approvazione. Mentre Kahane s'inchinava a ringrazia-re il suo pubblico molti cercarono di trascinarlo al proprio tavolo, di acca-

     parrarsi la sua compagnia. Lui mise cinque dollari nel grosso bicchiere ac-canto alla pianista. La donna cercò di rifiutare la mancia, ma fu costretta ad

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    accettarla. Infine Kahane s'inchinò di nuovo nella direzione di Griffin, sen-za guardarlo in faccia, e uscì dal locale. Ci volle qualche attimo perché nellocale ci si dimenticasse di lui. Uno degli uomini che stavano attorno al piano prese il microfono e cominciò a cantare il tema di 007 Dalla Russiacon amore, ma le vivaci proteste del pubblico lo indussero a desistere. La pianista richiuse la tastiera e si allontanò. Qualcuno mise della musica re-gistrata, di genere assai diverso.

    Griffin pensò che Kahane non avrebbe mancato di parlare a June Merca-tor della serata. Magari ne avrebbe parlato anche con i suoi amici. Fin dovesarebbe arrivata la notizia del suo maldestro tentativo? Provava una grantristezza, come se in vita sua niente gli fosse andato bene, come se non glifosse mai toccata nessuna soddisfazione. Solo con uno sforzo riuscì a ri-

    cordare a se stesso che di soddisfazioni, invece, ne aveva avute parecchie.Griffin studiò la vignetta disegnata sul suo tovagliolino da cocktail. Una

    donna con un gran seno era a letto con un ometto calvo. In qualche modolui l'aveva delusa. Il tovagliolino era bagnato. Griffin separò la coppia ma-le assortita spezzando senza fatica la carta fradicia. La si poteva ancoraconsiderare carta? O era ridiventata pasta di legno?

    Lasciò i soldi sul tavolo e si diresse in fretta verso la porta. Una voltafuori, valutò il danno che avrebbe subito la sua reputazione se l'Autore a-

    vesse raccontato in giro l'episodio. Meglio negare tutto, anche la conversa-zione con June Mercator. Agli studios era rimasta qualche traccia della te-lefonata? Ma perché mài qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga diandare a controllare? «Rilassati,» si disse, «questa è paranoia, ansia pato-logica. Chi può conoscere un 'nessuno' come Kahane?»

    Andando verso il centro commerciale presso il quale aveva lasciato lasua macchina, vide Kahane in un Burger King, di fronte al cinema. Girò allargo per dare a Kahane un'altra possibilità. Si sentiva un po' come lo psi-

    cologo di un campeggio per ragazzi che va in cerca del piccolo ospite ilquale, preso dalla nostalgia di casa, non vuole saperne di rifarsi il letto allamattina e sconcerta i compagni con le sue lacrime, ma è capito e tolleratodallo staff. Griffin non aveva idea di quel che avrebbe detto a Kahane, ma poco importava al momento. Aveva in mano la situazione, tanto più cheKahane era un po' brillo. Dall'esterno del Burger King, Griffin vedeva Ka-hane intingere delle patatine fritte nella pozzetta di ketchup che aveva nel piatto, e bere del caffè. «Il tipico spuntino di uno studente di college,» pen-

    sò Griffin.A un certo punto Kahane alzò gli occhi e lo vide. Si levò con passo on-

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    deggiante dal tavolo e uscì dall'altra porta. Griffin lo seguì. Kahane attra-versò la strada e s'infilò in uno stretto passaggio seguendo la freccia cheindicava PARCHEGGIO GRATUITO SUL RETRO DEL CINEMA. Grif-fin dovette accelerare parecchio il passo per tenergli dietro. Gli gridò:«David, si fermi!»

    Kahane si voltò e aspettò che Griffin lo raggiungesse.«Che cosa vuole?»«Lei canta molto bene!»«Fantastico! Gli studios hanno anche una casa discografica e vogliono

    farmi fare un album.»«Perché ce l'ha tanto con me?»«Non ce l'ho con lei. Sono solo un cretino, OK? È nella mia natura. So-

    no fatto così.»«Devo sembrarle uno sciocco. Venire in macchina fin qui per farle avere

    un messaggio che lei aveva già ricevuto...»«È una sciocchezza che le dà qualcosa di umano.»«Perché mi è così ostile?»«Davvero? Mi dispiace.»«Mi ha mai mandato una cartolina?» Era una domanda da fare. Bisogna-

    va assolutamente sapere.

    «Che genere di cartolina?» Kahane, che fino a quel momento aveva con-tinuato a giocherellare con il mazzo di chiavi per manifestare la propria in-sofferenza, improvvisamente se lo rimise in tasca. Era incuriosito.

    «Non le sono simpatico, vero?»«Io non ho proprio niente contro di lei.»«Via, sia sincero, David.»«Gliel'ho già detta, la verità: di lei non m'importa un accidente, non pas-

    so certo il mio tempo a pensare a lei.»

    «Ma ce l'ha con me per il fatto che non mi sono più fatto risentire, ve-ro?»

    «Gliel'ho già detto, non mi aspettavo niente di diverso.»«Dunque ha poca stima di me.»«Vuole forse sentirsi dire che la odio?»«No, ovviamente.»«Invece credo proprio di sì. Ma non sono qui per farla felice.» Kahane

    tirò fuori le chiavi dalla tasca e le scosse un po' per far capire che l'udienza

    era finita. Dopodiché prese ad allontanarsi.«Un'altra cosa,» disse Griffin, restando nel vicolo mentre Kahane s'infi-

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    lava faticosamente tra due macchine nel parcheggio. Kahane tirò diritto.Griffin lo seguì. Faceva fatica a passare tra le macchine, e questo gli fececapire che Kahane era molto più snello di lui. Cercò di convincersi che,dopotutto, l'autore delle cartoline doveva essere per forza Kahane. Questospiegava i suoi modi scortesi. Sì, aveva visto giusto, la sua era stata un'in-tuizione altrettanto brillante di quelle che inducono a scegliere dei copioniche faranno guadagnare milioni e milioni di dollari. Un magico fiuto gliaveva fatto individuare il suo misterioso persecutore. Era proprio Kahanel'uomo che gli aveva scritto le cartoline: le sue reazioni - quelle risposte a-stiose alle domande più amichevoli, quella umiliante dimostrazione di ta-lento, quell'ostentata indifferenza - non erano altro che drammatizzazionidel comportamento che aveva avuto Griffin nei suoi confronti. Griffin vo-

    leva far capire a Kahane che adesso loro due erano pari, che non c'era bi-sogno di tanta arroganza.

    Kahane si fermò accanto a una Saab nera, nuova di zecca - l'adesivo delvenditore era ancora incollato al finestrino. Griffin si chiese come diavolofacesse uno scrittore sconosciuto a pagarsi una macchina come quella. Siera aspettato che avesse una vecchia Datsun, una macchina adatta a un principiante, non un gioiello di vettura. Ma forse la Saab era di June Mer-cator. Si avvicinò a Kahane.

    «Una macchina nuova,» disse.«Sorpreso? Si sta chiedendo dove prendo i soldi?»«Immagino che lo dirà a tutti.»«E cosa dovrei dire? Si può sapere cosa c'è, Griffin? Lei non è certo ve-

    nuto per parlarmi del mio soggetto... Se l'è dimenticato non appena sonouscito dal suo ufficio. Che cosa c'è, insomma?»

    Griffin non rispose. Non riusciva a parlare. Spostò i piedi di lato, pois'inginocchiò accanto alla ruota posteriore. Prese a giocherellare con la

    valvola dell'aria e, lentamente, cominciò a svitarla. Quando il coperchiettodi plastica gli rimase in mano, lo premette con l'unghia del pollice e fu ten-tato di dire la verità a Kahane.

    «Ma cosa sta facendo?» esclamò Kahane.Come avrebbe preso la risposta? Come avrebbe reagito sentendosi dire

    da Griffin che era venuto fin lì per placare un uomo che gli mandava carto-line piene di rancore? E che aveva pensato che il solo gesto di offrire unaseconda possibilità a una persona qualsiasi, da lui altrettanto bistrattata,

     potesse, entro una logica universale, placare l'uomo offeso, l'autore dei ter-ribili messaggi d'odio?

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    Mentre l'aria usciva con un sibilo dallo pneumatico, spargendo all'intor-no un odore di gomma e di benzina, Griffin levò lo sguardo su Kahane,che lo fissava con l'espressione confusa di chi cerca di capire ciò che gliviene gridato in una lingua sconosciuta. Kahane si chinò per guardarlo infaccia. Griffin avrebbe voluto sorridere, far capire a Kahane l'ironia delmomento, adesso che finalmente erano pari.

    «Che cosa sta succedendo, Griffin?»«Mi dispiace. Vorrei poterglielo spiegare.» Griffin diede uno spintone a

    Kahane, facendogli perdere l'equilibrio, già instabile. Kahane cercò un ap- piglio sulla macchina, ma le maniglie delle portiere erano rientranti e nonc'era proprio niente a cui aggrapparsi. Cadde all'indietro, a braccia aperte.Griffin si alzò e gli piombò in ginocchio sul torace, come fanno i lottatori

    in televisione. Kahane imprecò con una specie di grugnito. Griffin si senti-va dentro la forza di quella madre leggendaria che era riuscita a sollevareuna macchina dal corpo di suo figlio, si sentiva nelle mani tutta l'energiadell'universo. Si sedette sul petto di Kahane e gli strinse la gola con quellemani potenti, rendendosi perfettamente conto di essere sul punto di stran-golare un uomo.

    Kahane cercò di liberarsi agitando le gambe, ma Griffin non aveva maiavuto in sé tanta energia e tanta determinazione. Impossibile scrollarselo di

    dosso. Kahane aveva conati di vomito, sputava sui calzoni di Griffin, manon riusciva a urlare. L'attacco a sorpresa gli aveva tolto il respiro. Morì aocchi chiusi.

    Griffin gli tolse portafoglio e orologio. Dapprima pensò di mettere il ca-davere in macchina e portarlo via dal parcheggio, ma comprese che se l'a-vesse fatto avrebbe poi dovuto tornare in taxi a ritirare la propria macchi-na. No, l'avrebbe lasciato dov'era e si sarebbe allontanato a piedi. Fece ro-tolare il cadavere sotto la vettura. Di notte non l'avrebbe visto nessuno.

    Rimise il coperchietto sulla valvola dell'aria - il gesto di avvitarlo gli fu disollievo, e gli dispiacque quando terminò l'operazione. Si allontanò con passo furtivo, tenendosi sotto il livello dei finestrini di tre macchine primadi proseguire in posizione eretta, e raggiunse la strada facendo il giro e-sterno del parcheggio.

    Quando arrivò sul boulevard, si guardò alle spalle. Niente. Nessuno.Passando in macchina davanti al cinema, in direzione dell'autostrada, videuscire il pubblico dell'ultimo spettacolo.

    «Se tu fossi in un'aula di tribunale,» si disse, «e ti chiedessero che cosa provavi in quel momento, che cosa diresti, sinceramente? Un certo distac-

  • 8/16/2019 Michael Tolkin - Il Giocatore

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    co, forse. Una sensazione di terribile stanchezza, ma più che altro per losforzo fisico della lotta. Uccidere non era impossibile.»

    All'altezza di Hollywood uscì dall'autostrada e gettò portafoglio e orolo-gio nel cesto dei rifiuti di un distributore di benzina. Al successivo semafo-ro rosso, sul Sunset Boulevard, il suo piede destro cominciò a tremare sul pedale del freno. Si chiese se il tremito fosse dovuto alla paura o al sensodi colpa, e non riuscì a darsi una risposta. Seguì il Sunset fino a BeverlyGlen, poi imboccò il canon.

    La sua casa era tranquilla e fresca, piacevolm