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Cap. 4 Mito Bororo (tratto dal canto xobogeu, clan paiwoé, in Colbacchini, cit. da Lévi-Strauss) - a) Né crudo né cotto Rileggendo il celebre testo di Lévi-Strauss anni dopo la prime letture, mi meraviglio di come possa aver convinto e coinvolto in questo sua paradigma quasi una generazione di studiosi etnologi e molti di altre disciline. Forse è stato l’ultimo testo antropologico che si è diffuso tra specialisti e non con una forza inusuale: la forza sistemica che parte dall’assolutamente particolare – un mito bororo – per arrivare alla struttura generale del mito. Eppure questa etnografia del mito si rivela una vera e propria mitologica, in un senso diverso dal suo sovratitolo. La composizione testuale ha un enorme a priori che inserra fin dall’inizio ogni apparentemente micrologico racconto. Solo che la geniale composizione musical-narrativa accompagna il lettore-ascoltatore il un groviglio sinfonico per variazioni e fughe di grande erudizione. Eppure tutto è inserito in un dejà vu di stile prettamente illuminista. I miti sono disposti sul tavolo da cucina come pietanze. La logica assume le opposizioni binarie come costitutive dei passaggi dalla natura cruda a una cultura cotta. Questa è la sua logica, ovvero una logica che pone lo strutturalismo come chiave classificatoria e che cerca di definire con la potenza oggettiva della logica in generale. E questo è proprio l’illuminismo come viene affrontato e risolto dagli ideologues francesi prima che vengano disciolti da Napoleone, che avvertiva con sospetto ogni studio oggettivo sulle idee. Il crudo e il cotto rappresenta forse l’ultimo tentativo di accelerare la possibilità di produrre una scienza oggettiva e universale basata su un mix di linguistica, psicoanalisi e marxismo. Il testo è una esemplare dimostrazione di come, se si assume una ipotesi agendo su un metodo (ovvero l’ipotesi trasformata in metodo), questo stesso metodo seleziona, dispone, classifica, interpreta e infine struttura le infinite variabili contenute in ogni segmento della narrazione mitica. È il metodo strutturalista che dispone il mito, che lo accentra e lo risolve nella sua chiave di violino basate su sette note. Mi meraviglio infatti di come l’inserimento delle varie composizioni e variazioni mitiche sia stato fatto dentro la logica della musica occidentale classica.

Mito

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Missione Salesiana, Bororo, Meruri, Mato Grosso, Brasil

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Cap. 4 Mito Bororo

(tratto dal canto xobogeu, clan paiwoé, in Colbacchini, cit. da Lévi-Strauss)

- a) Né crudo né cottoRileggendo il celebre testo di Lévi-Strauss anni dopo la prime letture, mi meraviglio di

come possa aver convinto e coinvolto in questo sua paradigma quasi una generazione di studiosi etnologi e molti di altre disciline. Forse è stato l’ultimo testo antropologico che si è diffuso tra specialisti e non con una forza inusuale: la forza sistemica che parte dall’assolutamente particolare – un mito bororo – per arrivare alla struttura generale del mito. Eppure questa etnografia del mito si rivela una vera e propria mitologica, in un senso diverso dal suo sovratitolo. La composizione testuale ha un enorme a priori che inserra fin dall’inizio ogni apparentemente micrologico racconto. Solo che la geniale composizione musical-narrativa accompagna il lettore-ascoltatore il un groviglio sinfonico per variazioni e fughe di grande erudizione. Eppure tutto è inserito in un dejà vu di stile prettamente illuminista. I miti sono disposti sul tavolo da cucina come pietanze. La logica assume le opposizioni binarie come costitutive dei passaggi dalla natura cruda a una cultura cotta. Questa è la sua logica, ovvero una logica che pone lo strutturalismo come chiave classificatoria e che cerca di definire con la potenza oggettiva della logica in generale. E questo è proprio l’illuminismo come viene affrontato e risolto dagli ideologues francesi prima che vengano disciolti da Napoleone, che avvertiva con sospetto ogni studio oggettivo sulle idee. Il crudo e il cotto rappresenta forse l’ultimo tentativo di accelerare la possibilità di produrre una scienza oggettiva e universale basata su un mix di linguistica, psicoanalisi e marxismo. Il testo è una esemplare dimostrazione di come, se si assume una ipotesi agendo su un metodo (ovvero l’ipotesi trasformata in metodo), questo stesso metodo seleziona, dispone, classifica, interpreta e infine struttura le infinite variabili contenute in ogni segmento della narrazione mitica. È il metodo strutturalista che dispone il mito, che lo accentra e lo risolve nella sua chiave di violino basate su sette note. Mi meraviglio infatti di come l’inserimento delle varie composizioni e variazioni mitiche sia stato fatto dentro la logica della musica occidentale classica. Per rendere “maestosa” l’alterità etnica normalmente disprezzata come primitiva o selvaggia? Forse, ma in questo modo si è prodotto l’opposto. Dovrebbe essere evidente a ogni amante della musica (oltre che dei miti) che la logica che sottosta al sistema tonale basato su overture, tema, variazioni, recitativo, inteludio, rondò, sonata, fuga, cantata ecc. è prettamente eurocentrica. Come il metodo strutturalista. E che inserire miti di diverse culture all’interno di una classificazione basata su tali ordini non può che falsificare non solo il sistema dei canti bororo o tupì, quanto la propria sistemica.

Assumo come principio che lo strutturalismo esprime anche in questo sistema di capitoli una logica coloniale che assorbe l’altro – il canto bororo – all’interno di una sistema compositivo tonale eurocentrico per legittimarlo e dispiegarlo e quindi trasformarlo in scienza. Cioè in sua scienza: ideologia.

Di conseguenza una ricerca che voglia inserire l’etnografia del funerale bororo dentro una visione articolata dei flussi post-coloniali non può che svolgere una critica su questo metodo che al suo interno è logicamente parte della logica coloniale. Non solo musicale. Anche se questa logica musicale trasformata in capitoli è un indicatore di strutturalismo, illuminismo, colonialismo.

In ogni caso qui si afferma che il sistema mitico e musicale bororo non possa essere rinchiuso all’interno di una cassa armonica basata sulle sette note o sulla logica dell’identità così come si è affermata in Lévi-Strauss. Di più. Il suo tentativo di rinchiudere i miti non solo bororo dentro il sistema musicale eurocentrico non è solo una scelta retorica per elaborare la scrittura secondo una esposizione efficace. È molto di più. E di peggio. Vi è una stretta correlazione/simmetria tra logica tonale, mito-logica, logica strutturalista. Questa è una semplice

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quanto auto-evidente dimostrazione del carattere ideologico dello strutturalismo e di come esso rinserri l’altro dentro la propria gabbia di ferro metodologica.

Il canto bororo non è tonale, così come la mito-logica non è binaria. E allora: di che tipo sono le note delle maracas mosse dai polsi di un bororo durante il

funerale?Il testo è dedicato infatti Alla Musica …. Ma quanti tipi di musica ci sono? Possibile che un

testo antropologico che cerca di stabilire connessioni tra miti e musica non affronti il problema delle diversità musicali, cui si collegano quelle culturali e identitarie, fino a quelle mitiche? Per questo il metodo induttivo - che si presenta fin dall’inizio nella Ouverture come elogio delle “categorie empiriche, quali crudo e cotto, fresco e putrido, bagnato e bruciato, ecc., definibili con precisione attraverso la semplice osservazione etnografica” (13) – che secondo Lévi-Strauss dovrebbe poi far emergere “certe nozioni astratte” - è di fatto rovesciato. Il suo tentativo di riprendere il celebre metodo di Marx (la dialettica concreto-astratto) qui attesta che al contrario viene prima il suo metodo strutturalista che assorbe e incanala, classifica e struttura i miti attraverso una (Una) logica dualista basata sul principio di identità classico della cultura occidentale. Lo strutturalismo è l’a priori metodologico in simmetria con le metafore musicali. Entrambi di matrice eurocentrica, svlgono le opposizioni binarie come proposizioni sue (dell’autore) e non dei Bororo. In questo senso, lo strutturalismo è un esempio ormai quasi “classico” (o, per essere ancora più radicali, storico) di una logica neo-coloniale che l’attuale fase apparentemente post-coloniale deve mettere in discussione.

Lo strutturalismo attesta come il principio di identità così come si è sedimentato nella cultura occidentale sia intimamente dualista e universalista. La catena logica dello strutturalismo – tra gli ultimi tentativi di elaborare un modello moderno – è il seguente:

identità – dualismo – universalismo – strutturalismoOvvero: la logica dell’identità attraverso la dialettica di opposizioni binarie (crudo/cotto) si

costituisce come universale attraverso la propria versione strutturalista che si riassume nell’opposizione generale natura-cultura. La sintassi disorsiva si basa sui concetti di simmetria, inversione, equivalenza, omologia, isomorfismo (53).

Nello stesso tempo, molte delle sue riflessioni anaclastiche – cioè sia dei raggi riflessi che rifratti dal mito – sono straordinarie, come ad es., la critica alla riflessione filosofica che sempre continua a risalire all’origine, vera ossessione di una filosofia originaria che informa tutto il senso comune quanto ne è informata. (nota). Così è facile dimostrare come giornalisti e media in generale siano tutti conformati ad attestare l’origine di ogni fenomeno attraverso inchieste, domande, interviste ecc.: dal tatuaggio alla bellezza, tutto si deve distendere lungo questo asse dell’origine. I media sono filosoficamente addestrati. Sono il risultato della filosofia, altro che la loro negazione! I media sono la fenomenologia della filosofia occidentale.

Così Lévi-Strauss critica con un linguaggio di estesa eleganza la fissità dei miti che, come i riti sono in-terminabili, anche se il loro movimento è uno sdoppiarsi all’infinito (19), per cui - paradossalmente ma non troppo - la sua introduzione metodologica sarà uguale alla conclusione di Freud su Totem e Tabù: “questo libro sui miti è, a suo modo, un mito” (20).

Un altro tema sollevato in questo testo è il rapporto tra la raccolta dei miti e i Salesiani. Un problema che non è solo filologico, quanto sempre più religioso e politico nel senso più ampio del termine. Tutta la ricerca di Lévi-Strauss si basa sulla raccolta dei miti svolta dai Salesiani, i cui meriti – egli dice – “sono così evidenti che si può far loro questo lieve rimprovero: essi hanno una spiacevole tendenza a credere che l’informazione più recente annulli tutte le altre” (21). Il problema che emerge sempre con una chiarezza disarmante è che l’informazione più recente che annulla tutte le altre (così come i Salesiani continuano a praticare anche sulla base della regressione evangelica post-conciliare) è basata sulla conversione al “mito” cristiano: ovvero l’evangelizzazione che i teologi della liberazione avevano collocato di lato, per attestare con la loro sola presenza la testimonianza della parola divina, è stata ripresa con una forza implacabile dai Salesiani e ancor più

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(e peggio) dalle varie correnti protestanti diffusissime anche tra le popolazioni indigene in particolare la Igreja Universal.

Lévi-Strauss si attesta prima di questa relazione tra mito e religione basata sull’azione missionaria dell’evengelizzazione; egli non entra dentro questo problema che non è solo di “informatori” o metodologico, quanto di una etnografia posizionata accanto alle popolazioni indigene che stanno subendo enormi pressioni di acculturazione evengelica. Il che comporta una perdita politica e culturale delle proprie autonome visioni del mondo. L’etnogafia non può rimanere neutrale su tale attacco, tantomeno rispondere con una azione simmetrica e opposta a tali pressioni. Questo è il problema che sposta non solo il metodo ma anche la collocazione dell’etnografo sul piano di favorire al massimo l’auto-rappresentazione da parte dei Bororo in tensione con ogni etero-rappresentazione. Anche quella dell’antropologia.

Dovrebbe essere chiaro a tutti che i miti sconfinano nella religione, che ne sono parte intrigata e intrecciata, che dove inizia l’una e dove finiscano gli altri è una operazione logica tutta da definire di volta in volta in quanto strapiena di giudizi di valore espansivi.

Secondo lui, il mito “acquista il carattere di oggetto dotato di una realtà propria e indipendente da ogni soggetto”, per cui “nulla, meglio della mitologia, permetta di illustrare questo pensiero oggettivato” (27). Di conseguenza, tende ad escludere che i “soggetti parlanti … possano prendere coscienza dello struttura e del modo di operare (dei miti)” : e allora la conclusione è stringente: “è per lo meno dubbio che gli indigeni del Brasile centrale concepiscano realmente, in vari racconti mitici che li affascinano, il sistema dei rapporti ai quali noi stessi li riduciamo” (27). Il ruolo o- meglio - l’autorità dell’antropologo rovescia, oggettivizza e anche reifica i rapporti tra soggetto e oggetto:“Noi non pretendiamo di mostrare come gli uomini pensino i miti, ma viceversa come i miti pensano negli uomini, e a loro insaputa” (27). Di più: questi stessi miti “pensano fra di essi” (28). L’antropologia del mito diventa feticista non per dissolere i poteri del feticismo stesso, bensì per rafforzarlo e legittimarlo. Una enorme oggettività indifferente verso ogni soggetto, come un dio misterioso e terribile, si distende sopra i miti trasformati in tanti pezzi di scacchi che la scienza universale del giocatore-antropologo inizia a giocare con le sue regole, regole che danno scacco matto all’inizio – e non alla fine – all’avversario. Per questo la mia critica non parte dalla sua mito-logica, bensì dal funeral bororo e si espande su scenari in cui concreto e astratto non sono in successione (la cui “dialettica” mi è sempre apparsa come una tale ingenuità da pensare che fosse solo una retorica per apparire, appunto, più “concreti”: e come se dentro ogni concreto non vi fossero già sedimentati i più diversi livelli di astrazione), bensì intrecciati e reciprocamente sfidantisi nei vari capitoli, paragrafi, fotografie, frasi, parole, corsivi, indici. Per questo l’immagine finale, per riprendere la metafora degli scacchi, mi sembra che sia questa: Lévi-Strauss in una posizione di stallo di fronte al suo vero avversario: lo strutturalismo da cui non riesce a staccarsi.

“Il confronto con la sonata, la sinfonia, la cantata, il preludio, la fuga ecc., permetteva di accertare facilmente che in musica erano sorti dei problemi di costruzione analoghi a quelli sollevati dall’analisi dei miti, e per i quali la musica aveva già inventato soluzioni” (31) …. Affinità sorprendete tra musica e mito. Il suo riferimento è Wagner, la cui partitura dei Maestri sarebbe per Lévi-Strauss lo strumento per svelare la struttura dei miti, mentre questa svolta wagneriana segnò la separazione definitiva con quello che era il suo amico: Nietzsche. Per lui, infatti, Wagner era ricaduto nella religione come mito senza più affondare la critica musicale e filosofica dentro il mito della religione.

“Trattare le sequenze di ogni mito come le parti strumentali di un’opera musicale, e di assimlare il loro studio a quello di una sinfonia” (47).

La maracà o una ika non suonano nelle sinfonie. Il mito fuoriesce dalle strutture. Anzi, le ignora …

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- b) maracà

O Bororo nasce, para isso ele canta e dança. O Bororo vive, para viver ele canta e dança. Canta e dança para caçar e pescar. O Bororo canta e dança para morrer.

È chiaro che vi sono relazioni tra canti e miti bororo. Non è necessario essere né strutturalisi né funzionalisti per cogliere questa ovvietà. Il problema che emerge qui ed ora è che queste relazioni istruiscono elementi disgiuntivi con le norme classificatorie occidentali: immaginare che tutte le musiche possano rientrare all’interno del paradigma tonale occidentale è non solo una superficialità imbarazzante, quanto la riproduzione di un eurocentrismo che dovrebbe apparire subito come datato. E lo stesso vale per i miti. Non è necessario essere antropologi né musicologi per cogliere questa seconda banalità, come si evince da ogni semplice riferimento a chi lavora sul campo su questi ambiti.

“Uma caracterìstica da mùsica indìgena è a de que com muita dificuldade consegue-se traduzi-la de acordo com os padrões ocidentais de notaçao musical. Além dos sons não se enquadrarem dentro de nossa escala musical, existem sons e instrumentos para os quais não dispomos de parametros e semelhanças. Portanto transcrever musicalmente o som de uma flauta Bororo - seja ika, panna ou parira - è uma tarefa quase impossìvel, dentro da perspectiva da mùsica ocidental” ( ).

La base ritmica per ogni canto è data in primo luogo dal bapo, nome con cui i Bororo designano le maracà, quella grande – usada per i grandi riti come i funerali – e quella piccola per i canti relativi a caccia e pesca. Nei momenti più solenni del funerale, possono comparire fino a sei– otto paia di bapos. Come per gli altri strumenti musicali – kà (tamburo), ika (flauto traverso), parira (flauto), panna (il flauto principale composto da due o tre cabaças o zucche che accompagnano il canto come percussione, essendo il tamburo uno strumento secondario) - le loro emissioni di suoni non solo rappresentano i morti: sono i morti.

Da queste semplici relazioni sia simboliche sulla “natura” degli strumenti come esseri e sia compositive sulle scale musicali dai parametri diversi dovrebbe emergere con estrema chiarezza che durante un funerale bororo non vi è posto per sinfonie, cantate, fughe. E che impostare la relazione tra canti e miti bororo fino a includere l’intero panorama panamericano inficia sin dall’inizio ogni possibilità di comprendere - sia dal punto di vista nativo che occidentale – il senso dei miti e delle musiche. Entrambi sono da localizzare nel loro contesto determinato che, nel caso in esame, è il funerale in una zona che ora si chiama Mato Grosso.

Miti, canti, religioni, danze, cibi, iniziazioni, rituali si irradiano a partire da questo evento – il funerale - che è il centro da cui osservare le sue articolate diramazioni. È ulteriormente inquietante come al funerale Lévi-Strauss dedichi solo alcune notazioni fugaci. La sua non è etnografia, bensì l’applicazione di una teoria (lo strutturalismo) a una massa di miti raccolti dai salesiani.

Il movimento dei polsi dei bororo che scuotono le maracas sono lo stupore che innesta la musica, uno strusciare di semi internati tra le pareti di zucche che si svolgono come casse armoniche: sono una molteplicità anche asincrona tra le diverse mani. È questo movimento strusciato e compulsivo che accompagna e in qualche modo spiega il funerale, specie nei momenti fondamentali. Non è un concerto, né una cantata. È choro, canto, musica, suono. È mito. Mito bororo.

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- c) mitoIl mito principale di fondazione, che Lévi-Strauss assume come tipico per l’intero suo testo

e che scompone con opposizioni binarie strutturate, è qui riassunto per essere interpretato in modi diversi. Il tema è quello del figlio-eroe che confligge col padre per la successione. Le variazioni specifiche del mito sono molto diverse da come le potremmo inquadrare sulla base di principi esterni, specie occidentali. Se si rimane all’interno della trama narrativa (e non si selezionano brani per compararli con un proprio sistema mitico arbitrariamente prescelto, come quando uno spettatore ingenuo vede nell’eroe il cugino e nel suo antagonista il cassiere del bar), le conclusioni possibili sono ben più intriganti di quelle già arcinote e comunque prevedibili del passaggio dalla natura-alla-cultura attraverso il crudo e il cotto.

Riassumo il mito nelle sue sequenze significative:

Le donne si recano nella foresta per fare il bà, astucci penici, per gli adolescenti. Un giovane segue la madre e la vìola. Il marito scopre tramite le piume che il figlio è il colpevole.Come vendetta paterna, egli invia il figlio al “nido” delle anime per portargli il bapo, grande sonaglio di danza (nota: cioè la maracà, la traduzione è imprecisa).La nonna gli rivela il pericolo e gli dà l’aiuto dell’uccello mosca che gli porta il sonaglio.Il padre allora gli ordina di prendere il piccolo sonaglio. Grazie al juriti (colomba), lo ottiene .Terza spedizione per il buttoré (xocalho): aiuto della grande cavalletta.

Allora il padre lo porta con lui per catturare gli ara sulla roccia. La nonna gli dà il bastone. Arrivati al nido, il figlio si arrampica su una pertica, il padre la spezza, lui si salva col bastone e il padre va via. Il figlio si arrampica su una liana, cattura e mangia lucertole con arco e frecce. Fetore delle lucertole. Arrivano gli avoltoi (urubu) che gli mangiano le natiche. Poi gli urubu sazi lo portano giù.Lui mangia ma senza ano non trattiene il cibo. Allora con tuberi schiacciati lo ricostruisce (grazie al racconto della nonna)

Il giovane torna al villaggio abbandonato: assume le sembianze della lucertola. Così incontra e si rivela alla nonna e al fratellino. Tempesta al villaggio: i fuochi sono tutti spenti tranne quello della nonna. La seconda moglie riconosce il figliastro e lo dice al padre che accoglie l’eroe con canti.Ma l’eroe si vuole vendicare: durante una caccia, si colloca in testa un nido d’api in forma di cervo, carica, infilza il padre e lo getta nel lago, dove ci sono i buiogoé, spiriti maligni e pesci cannibali. Rimangono solo le ossa scarnificate, solo i polmoni galleggiano.L’eroe torna al villaggio e si vendica delle spose del padre.

Nel mettere in relazione rapporti di parentela, simboli animali, mutazioni corporali con le visioni morali bororo (ethos), emerge quanto segue:

- L’incesto è giudicato meno grave della persecuzione del padre verso il figlio- Il figlio come eroe deve superare una serie di prove, tra cui il parricidio e i matricidi - Il padre cerca di conciliarsi col figlio che torna come eroe: ma è troppo tardi- La nonna protegge il nipote in una ambigua relazione con la figlia (madre) e la seconda moglie- L’eroe è soggetto delle metamorfosi e plasmatore del suo corpo- L’ano è un momento narrativo diffuso che immette elementi comici- Il cervo come eroe vendicatore- Gli arara come spiriti totemici dei vivi e dei morti- I piranha come soggetti finali del rituale che sostituiscono il clan esogamico nella scarificazione- I polmoni che galleggiano come camelote

La mia conclusione parziale è la seguente:

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- rapporti di parentela La nonna difende il nipote contro il genero perché il primo è parente e il secondo no.

Infatti il marito della moglie (il “padre”) è uno straniero che viene da un clan diverso appartenente all’altra metà esogamica: in quanto tra i Bororo vige la regola matrilocale, cioè il marito va a vivere nella metà dell moglie. La solidarietà clanica è di gran lunga più forte della filiazione paterna.

Nello stesso tempo, la discendenza matrilineare è tutto tranne matriarcale; per cui nell’alleanza nonna-nipote non c’è traccia di una “immaginaria” potenza da grande madre primigenia. Anche qui si afferma piuttosto un potere maschile dell’eroe appoggiato matrilinearmente dalla nonna. Nonna che difende il nipote contro la figlia perché il mito esprime un punto di vista maschile e ne legittima l’egemonia.

Veniamo al punto centrale: l’alleanza per l’egemonia deve saltare una generazione, proprio quella del padre-genero che è uno “straniero” (esogamico) cui non si riconosce quell’autorità che invece si desidera dare al nipote in quanto campione endogamico matrilineare e matrilocale.

Oltre ad affrontare e “risolvere” le tensioni inter-generazionali (saltando la generazione di mezzo, paterna), si palesa un altro conflitto generazionale tra madre/figlia: per essere più precisi, il conflitto tra queste due figure femminili emerge quando la prima diventa nonna e la seconda moglie. Non prima. Dal punto di vista della nonna, la figlia in qualche modo “tradisce” (o fuoriesce da) la compattezza clanica a causa della legge dell’esogamia. E l’incesto in questo caso la riconduce a quello che è uno dei desideri espressi e tabuizzati: l’endogamia. È cioè un tipo di desiderio incestuoso totalmente diverso da quello di Edipo.

Il nipote vince anche perché è la figura maschile che vive la matrilocalità: cioè vivendo fin da piccolo nella metà materna, egli si configura come campione dell’endogamia antagonista all’esogamia paterna. Di conseguenza, la relazione matrilineare per eccellenza - qui confermata come dominante o vincente - è tra nonna/nipote che è molto più forte di quella madre/figlia. Se, infatti, l’asse parentale vincente fosse tale (madre-figlia), sarebbe un chiaro attestato di una presenza matriarcale. Di contro, il mito afferma chiaramente che matrilineare non è matriarcale, se ancora ce ne fosse bisogno. Il potere maschile è ereditato dalla parentela matrilocale/matrilineare, di cui l’eroe è protettore devoto in quanto unifica il proprio clan dalle “incursioni” esterne. Detto in altri termini, il legame nonna/nipote è percepito valorialmente come più “puro” di quello tra moglie/marito: per questo vince. È il trionfo dello stesso “sangue”. Il clan celebra se stesso contro ogni esterno.

L’incesto è meno grave della persecuzione del padre verso il figlio: questa è la mia conclusione finale, che emerge chiaramente fin dall’inizio del mito (che lo differenzia ancora una volta nettamente da una analogia con Edipo/Giocasta). Ne è l’elemento drammatico che scatena tutto lo svolgimento della storia. È altresì singolare come questa simbolica - che non giudica l’incesto una infrazione grave, lo vede solo il padre cera, non il figlio né la nonna tugaré – sia ignorata dall’autore delle strutture elementari della parentela, dove egli cerca di risolvere proprio la questione del tabù dell’incesto. Una allusione è da lui accennata solo quando allude al fatto che “la colpevolezza sembra esistere nella mente del padre che desidera la morte del figlio” (L-S:76). Ma non è svolta fino alle logiche conseguenze.

Anche qui è chiaro come il desiderio incestuoso – intrecciato con la coabitazione clanica di due metà differenti con cui allearsi e differenziarsi – non è condannato perché bloccherebbe il transito dalla natura alla cultura, bensì è svolto come un argomento su cui non c’è soluzione finale. È un enigma interno alla cultura e non esterno. Proprio come ogni mito che, appena lo risolvi, ti si ripresenta di fronte più fresco e inquietante di prima. Perché un mito, come un enigma e a differenza del mistero, non ha soluzione.

Quello che Freud chiamerebbe “complesso di Laio”, invece, è giudicato come negativo e perdente: il padre dell’eroe è chiaramente colpevole e merita l’orribile fine infilzato dalle corna di un cervo filiale. Ovvero la persecuzione della generazione dei figli ad opera della generazione dei padri è qui svolta del tutto contro l’ “usurpazione” paterna, che alla fine viene punito dall’alleanza clanica trasfigurata in api e cervo. Qui il “Laio bororo” è condannato senza appello, a differenza

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dell’assoluzione finale che decreta Freud al “Laio greco”, vedendo nelle sue persecuzione solo proiezioni filiali. Infine, la conclusione nel mito bororo è ancora più radicale in quanto fin dall’inizio la colpevolezza filiale appare evidente, come sembra legittima la reazione paterna. Invece questi valori “normali” sono sconfessati e perturbati dal mito in questione che sposta l’accento su qualcosa di molto più radicale e quasi perforante: l’amore clanico tra nipote e nonna.

- l’ano mancante Già Paul Radin nella sua celebre analisi sul “briccone divino” winnebago (trickster) dipana

una serie di zone narrative dove l’ano ha una funzione “vitale”, come un essere vero e proprio, che nello stesso tempo favorisce elementi comici che Bachtin definirà basso-corporei. Per cui l’ano parla, appunto, come un soggetto; oppure si brucia con un tizzone ardente ad opera dello stesso “proprietario”, o ancora per colpa di una cipolla purgativa emette montagne di escrementi su cui rischia di cadere. Anche in questo caso a me pare evidente come l’eroe bororo senza ano svolga un momento comico, quando perde il cibo in quanto non lo riesce a trattenere. Immagino che, quando lo storyteller racconta questa parte, gli ascoltatori non possano che ridere. Questo elemento mi permette di sottolineare che il mito ha sempre anche un aspetto performativo che si deve in qualche modo evocare nella sua intepretazione. Cioè la dimensione “teatrale” favorisce una correlazione tra narratore, contesto e ascoltatori che modula la narrazione. Tali modulazioni sollecitano reattività emotive che si possono dedurre dalle varie fasi. La meraviglia, l’orrore, il disgusto, la gioia, il riso…

Quello che caratterizza questa sezione del mito (e che lo diversifica così nettamente dalle retoriche greco-romane dei propri miti) si concentra sull’animazione in soggettiva dell’ano. Anche l’ano è quindi parte dell’ aroe, spirito ancestrale che si manifesta nella sua parziale individualità. È come se ogni singola parte del corpo umano avesse la propria diffusa soggettività e il particolare quella zona corporea tra le più vilipese e esaltate che è l’ano. E così il mito presenta anche la sua veste comica che genera il riso, un riso vitale che rigenera la vita: la ricostruzione dell’ano è l’ultima azione prima del ritorno al villaggio: introduce quindi come momento ironico e autopoietico la tragedia finale.

- zoomorfismi La relazione con animali mitici sviluppa un’altra dimensione fondamentale del mito: quella

con animali che sono in qualche modo zoomorfizzati. Nel senso che essi rientrano dentro l’universo vitale, che il mito – come profonda riflessione sugli esseri che circondano la vita quotidiana degli umani che, per citare di nuovo Radin, rende filosofica questa trattazione – soggettivizza. Gli animali non sono antropomorfizzati, ricondotti cioè a proiezioni di vizi e virtù umane: essi compongono le traiettorie dell’eroe, ne contornano alleanze e antagonismi, ne accettano soprattutto le metamorfosi. Il cervo incorpora l’eroe nel momento culminante per eccellenza della morte del padre: è come se il figlio trasformato in cervo grazie alle forme duttili del nido d’api (favo) compisse l’atto finale non solo come figlio, come umano, bensì mutato nella sostanza vitale in essere ancestrale. Il padre è così punito per la sua vendetta cieca dalla sacralità mutante dell’ aroe. Il padre rimane solo padre, mentre il figlio diventa eroe perché incorpora la potenza di esseri/animali clanici.

I buiogoé, cioè i piranha, scarnificando l’intero corpo del padre e riducendolo ad ossa ripulite di ogni frammento di carne, pelle, tendini, massa cerebrale ecc., inseriscono un altro elemento fondamentale della filosofia bororo che è connesso direttamente al più forte rituale della propria cultura: il funerale. Questo aspetto verrà trattato in un altro capitolo nei suoi dettagli, qui è necessario sottolineare come il corpo morto vada a finire nell’acqua per essere prima sepolto nel fango (lama): e che i piranha svolgano qui la funzione che nel rito funebre è svolta dai membri che appartengono a clan esogamici rispetto a quello del morto, per la nota assicurazione delle alleanze tra le due metà che risolve la competizione in cooperazione.

Gli arara, pappagalli dalle code lunghe e coloratissime, (psitacideos), sono animali dalle importantissime funzioni simboliche e claniche, assimilabili a potenze ancestrali che caratterizzano

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le fasi centrali della vita bororo, come la nascita nel momento della nominação e il funerale dopo la scarnificazione. Gli arara incarnano le l’essenza del morto trasformato in antenato – l’acqua è la dimora di questi “esseri” fangosi e sovrumani – la sepoltura acquatica sotto il fango è condizione della trasfigurazione. Infine, l’uccello mosca, la grande cavalletta, gli affamati urubu, le lucertole puzzolenti sono membri altrettanto soggettivizzati di questo universo composto da transiti continui tra i vari mondi animali e umani privi di ogni proiezione psichica antropocentrica o delle minacciose ibridizzazioni delle mitologie greche.

- s/oggettisticaIinfine, due oggetti entrano fin dall’inizio nella scena mitica proprio in quanto entrambi

segnano momenti decisivi nei rituali bororo: il primo non poteva che essere il ba, l’astuccio penico che è fatto con foglie (folìolo de broto) di babaçu, una palma dai semi oleosi. Durante la cerimonia che avviene sempre durante il funerale (come si vedrà l’iniziaziazione degli adolescenti dura finchè non muore qualcuno, per cui la sua fase terminale coincide col rito funebre) si preparano i ba, che hanno anche i colori di ogni clan e che il giovane avrà cura di custodire con grande attenzione contro ogni sorta di influenza negativa. Ba significa anche uovo e testicolo, e – per la sua forma rotonda come per la funzione generatrice – capanna (cfr. Ochoa, 2005). Tutto il dramma mitico inizia con la preparazione dell’oggetto simbolicamente sessuato per eccellenza, che assorbe, incorpora, trasfigura il contenente simbolico in contenuto fallico determinando le azioni successive: il ba generato dalla madre anticipa le mosse successive dell’altro essere da lei generato (il figlio), come se il contenente (l’astuccio penico) sia il contenuto (il fallo filiale).

Il secondo è il bapo, quello grande e quello minore che hanno due funzioni distinte nei rituali. Nella lingua bororo, bapo vuol dire anche cuore, per la sua forma che ricorda l’intimità pulsante della vita o chocalho, cioè uno strumento che emette suoni con i semi contenuti al suo interno, semi che ruotano, scivolano, saltano a seconda dei movimenti dal nesso braccio-mano- polso (Ochoa). Bapo a sono anche i semi estratti da una canna silvestre, la cui composizione favorisce il suono. Il fatto che l’eroe debba andare due volte non è solo una scelta drammaturgica: i bapo sono di due tipi fondamentali: il bapo kurireu o maracà grande che si usa nelle solennità rituali più significative, tipo il funerale, e baporogu o maracà minore, maggiormente connesso alla caccia e pesca. Vorrei sottolineare la complessità decisiva quanto specificatamente bororo di questo che non è solo uno strumento musicale, come potrebbe essere visto da un musicologo esterno, per cui alcuni sono utilizzati solo dalla mano sinistra che serve a marcare il ritmo dei canti e delle danze (butureu), altri solo dalla destra che, in genere, svolgono una stretta relazione compositiva con il canto. Infine, i colori del bapo variano a seconda dei clan di riferimento, per cui piume, cotone, semi esterni adornano queste differenze interne. Insomma il bapo come maracà è – ben oltre uno strumento musicale - mezzo fondamentale di interconnessione tra i “diversi” mondi bororo, esso stesso è parte vitale degli aroe ekeroia: agitandosi, fanno smuovere ogni essere; pulsando, fanno pulsare insieme i vivi e i morti; ruotando, fanno vivere insieme cose, animali, umani, spiriti. I bapo non sono oggetti, ma densamente soggetti.

- metamorfosiL’eroe – così come ogni essere – sviluppa una pragmaica dell’identità che non è fissa.

Questo vale per ogni elemento che compare nella narrazione: le lucertole non possono essere lette solo in quanto piene di fetore o legate alla terra, in quanto esse si metamorfizzano con l’eroe proprio quando questi – dopo aver scatenato il riso tra gli ascoltatori per la storia dell’ano – affronta il rientro nel villaggio per compiere l’atto finale della vendetta. I transiti dell’eroe lungo diverse identità non sono funzionali solo a svolgere e risolvere miticamente ogni ostacolo: essi attestano anche le interconnessioni possibili tra i vari mondi vitali e gli stessi desideri di avere più identità nel corso della propria singola vita: e in questo modo l’identità non è più appunto singolare, bensì si pluralizza ad ogni successiva metamorfosi o trasfigurazione. E questo è un ulteriore elemento attraverso cui il mito diffonde desideri partecipativi tra chi racconta e chi ascolta. L’atto della

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metamorfosi esprime quella tensione espansiva oltre i confini della pelle del soggetto che Bateson ha chiamato ecologia della mente: la trama che connette è metamorfica. Riplasma e ricompone le forme viventi o sonanti secondo moduli intreconnettivi.

Allora non può che apparire luminosa la scena della sua rivelazione alla nonna: è a lei per prima che l’eroe manifesta la sua appartenenza a più universi, ai multi-versi del mito di cui egli – grazie alle continue assistenze claniche matrilocali e matrilineari – è scelto come campione. Salvo poi (ma questo il mito non ce lo dice, anche se è facile intuirlo) anche lui cadere in quel ruolo che è stato paterno quando inizierà a cercarsi una moglie fuori dal cerchio restringente del clan rappresentato dalla nonna. Ma questo è un altro mito …oppure no? forse è lo stesso sotto altre voci…

La chiave di lettura finale così diventa semplice quanto illuminante l’intero mito: nonna, madre e figlio sono del clan tugaré – il padre dell’altra metà cera. Il mito, questo mito, cerca così di dare soluzione a ciò che non potrà mai averne una: perché le relazioni di parentela ereditata (matrilineare e matrilocale) e di parentela acquisita (matrimonio esogamico) continueranno all’infinito a ripresentare quello che non ha una soluzione finale, ma solo la bellezza processuale della sua drammatizzazione infinita. Come un enigma, forse come l’enigma della vita bororo. Mito. Una visione del mondo come filosofia. Per questo e per molto altro ancora, chi cerca di tagliare tale invenzioni culturali e drammaturgiche fondanti il mito, rischia di tagliare anche qualcosa di molto vitale.

Può sembrare un paradosso, ma tale vitalità è connessa al funerale. Al funeral bororo.

(1) “Nel metodo etnografico si esclude che le funzioni mitiche abbiano significazioni assolute” (84). Così come i simboli non hanno un significato intrinseco e invariabile, non sono autonomi nei confronti del contesto. La loro significazione è di posizione” . O posizionata, come direbbe Rosaldo. Purtroppo questa impostazione condivisibile di matrice relativista viene poco dopo contraddetta dal suo stesso metodo che è più forte di lui: “Noi ci proponiamo che invece si tratta sempre dell stesso mito” (183) – “L’ossatura si conserva, il codice si trasforma, il messaggio si inverte” (265). Da qui le sue avventure strutturaliste sui miti sono per l’appunto un fugato.

“una volta gli uomini del clan bokodori (cera) erano spiriti soprannaturali che vivevano felicemente in capanne fatte di lanugine e piume, chiamate ‘nidi d’arara” (131)

Bapo: coraçao, xocalho, maracà, semeButore: chocalho unghia di porco silvestreBuiogoe: piranha