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Titolo originale: La philosophie de Marx © Éditions La Découverte 1993

© 1994 manifestolibri srl via Tomacelli 146 - Roma

Traduzione di Andrea Catone

Prima edizione Discount manifestolibri settembre 2001 ISBN 88-7285-245-5

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INDICE

1. Filosofia marxista o filosofia di Marx? 7

II. Cambiare il mondo: dalla praxis alla produzione 23

III. Ideologia e feticismo: il potere e la soggezione 63

IV. Tempo e progresso: ancora una filosofia della 115 storia?

V. La scienza e la rivoluzione 163

Guida bibliografica 177

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I. FILOSOFIA MARXISTA O FILOSOFIA DI MARX?

L'idea generale di questo libretto è quella di com­prendere e far comprendere perché si leggerà ancora Marx nel XXI secolo: non solo come un monumento del passato, ma come un autore attua­le, per le questioni che pone alla filosofia e per i concetti che le propone. Nellimitarmi a quel mi sembra l'essenziale, vorrei dare al lettore uno stru­mento per orientarsi tra gli scritti di Marx e intro­durlo alle discussioni che essi suscitano. Vorrei difendere anche una tesi un po' paradossale: chec­ché se ne sia pensato, non c'è e non ci sarà mai una filosofia marxista; di contro, l'importanza di Marx per la filosofia è più grande che' mai.

Occorre prima intendersi su quel che signifi­cava ~<filosofia marxista». Questa espressione pote­va riferirsi a due cose abbastanza diverse, ma che la tradizione del marxismo ortodosso, elaborata all~ fine del XIX secolo e istituzionalizzata dai partiti­Stato comunisti dopo il 1931 e il 1945 , considerava inseparabili: la «concezione del mondo» del movi­mento socialista, fondata sull'idea del ruolo storico della classe operaia, ~ il sistema attribuito a Marx. Osserviamo subito che nessuna di queste due idee è strettamente legata all' altra. Probabilmente sono state create espressioni differenti per esprimere questo contenuto filosofico comune all'opera di Marx e al movimento politico e sociale che a lui si richiamava: la più celebre è quella di materialismo dialettico, relativamente tarda, ma ispirata dall'uso che Engels aveva fatto di differenti formule di Marx. Altri hanno potuto sostenere che la filosofia

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MATERIALISMO DIALETIICO

Quest'espressione ha designato la filosofia nella dottrina ufficiale dei partiti comunisti, ma anche presso alcuni dei suoi critici (si veda Hen­ri Lefebvre, Le matérialisme dialectique, Puf, la edizione, 1940). Essa non è stata impiegata né da Marx (che parlava del suo «metodo dialet­tico») né da Engels (che impiega l'espressione «dialettica materialisti­ca»), ma inventata, a quanto pare, nel 1887 da Joseph Dietzgen, ope­raio socialista corrispondente di Marx. È da Engels tuttavia che Lenin prende le mosse per elaborarlo (Materialismo ed empiriocriticismo, 1908, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1963, voI. XIV), intor­no a tre direttrici di fondo: il «tovesciamento materialistico» della dia­lettica hegeliana, la storicità dei principi etici subordinati alla lotta di classe, e la convergenza delle <<leggi dell'evoluzione» in fisica tHelmholtz), in biologia (Darwin) e in economia politica (Marx).

[ Lenin prende cosÌ posizione tra un marxismo storicistico (Labriola) e un marxismo deterministico, vicino al «social-darwinismo» (Kautsky). Dopo la rivoluzione russa, la filosofia sovietica si divide tra «dialettici» (Deborin) e «meccanicisti» (Bucharin). Il dibattito è troncato in maniera autoritaria dal Segretario generale, Stalin, che fa pubblicare nel 1931 un decreto che identifica il materialismo dialettico con il marxismo-Ieninismo (cfr. René Zapata, Luttes philosophiques en URSS 1922-1931, Puf. Paris 1983; cfr. anche S. Tagliagambe, Scienza,/iloso­fia, politica in Unione Sovietica 1924-1939, Feltrinelli, Milano 1978). Sette anni dopo, nell' opuscolo Materialismo dialettico e materialismo storico (1938), ne codifica il contenuto enumerando le leggi della dia­lettica, fondamento delle discipline particolari e specialmente della scienza della storia, come anche garanzia a priori della loro conformità alla «concezione del mondo proletaria». Questo sistema, denominato in forma abbreviata diamat (dal russo: DIAlekticeskij MATerialzm) si imporrà in tutta la vita intellettuale dei paesi socialisti, e, con maggio­re o minore facilità, nei partiti comunisti occidentali. Servirà a cemen­tare l'ideologia del partito-Stato e a controllare l'attività degli scienzia· ti (cfr. Il caso Lysenko, studiato da Dominique Lecourt, Editori Riuni­ti, Roma 1977). Conviene, nondimeno, apportare due cotrettivi a que­st'immagine monolitica. Primo. Dal 1937, col suo saggio Sulla contrad­dizione (in Opere di Mao Tse-tung, ed. Rapporti sociali, Milano 1991, voI. 5), Mao T se-tung aveva proposto una concezione alternativa che rifiutava l'idea di «leggi della dialettica» e insisteva sulla complessità della contraddizione (A1thusser vi si ispirerà più tardi in «Contraddi­zione e surdeterminazione», in Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967). Secondo. Una scuola almeno ha fatto del materialismo dialettico il punto di partenza di un'epistemologia storica non priva di valore: quella di Geymonat in Italia (cfr. André Tosel, «Ludovico Geymonat ou la lutte pour un matérialisme dialectique nouveau», in Praxis. Vers une réfondation en philosophie marxiste, MessidorlÉditions sociales, Paris 1984).

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marxista non esisteva a rigore in Marx, ma cheerll sorta a cose fatte, come riflessione più gefl~t:~l~ __ ~ pii) astratta sul senso, i princip_t~Ja.PQ!!.gtq u-'li1!_~r.Ja­le9~n'gperlLQLM~rx. Addirittura, che essa dovrebbe ancora essere costituita, formulata in maniera sistematica l. Per contro, non sono mai mancati filologi o spiriti critici per sottolineare la distanza che correva tra il contenuto dei testi di Marx e i suoi posteri «marxisti» e mostrare che l'e­sistenza di una filosofia di Marx non implica affat­to quella di una filosofia marxista dopo di essa.

Questo dibattito può essere troncato in modo tanto semplice quanto radicale. Gli eventi che han­no segnato la fine del grande ciclo (1890-1990), durante il quale il marxismo ha funzionato come dottrina di organizzazione, non vi hanno aggiunto nessun elemento nuovo, ma hanno dissolto gli inte­ressi che si opponevano a prendere in considera­zione tale questione. In realtà, non esiste una filo­sofia marxista, né come concezione del mondo di un movimento sociale, né come dottrina o sistema di un autore chiamato Marx. Ma, paradossalmente, questa conclusione negativa, ben lungi dall'annul­lare o sminuire l'importanza di Marx per la filoso­fia, gli conferisce una dimensione molto più gran­de. Liberati da un'illusione e da una impostura, guadagniamo un universo teorico.

FILOSOFIA E NON-FILOSOFIA

Qui ci attende una nuova difficoltà. Il pensiero teorico di Marx, a più riprese, si è presentato non come una filosofia ma come un'alternativa alla filo­sofia, una non-filosofia, e persino un'antifilosofia. È

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forse stata]!! più grande delle anti{i19s®e dell'epo­ca moderna. Agli occhi di Marx, infatti, la filosofia - quella che aveva imparato alla scuola della tradi­zione che va da Platone a Hegel, includendovi anche i materialisti più o meno dissidenti, come Epicuro o Feuerbach - era per l'appunto solo un 'jm PLe~j!lQivid ual~_.9.Li!l~~rpreta~iQI}e del.Jngn-

.A9--'. Cosa che portava, nel migliore dei casi, a lasciarlo così com'era, nel peggiore, a trasfigurarlo.

Tuttavia, per quanto si opponesse alla/orma e agli usi tradizionali del discorso filosofico, non v'è dubbio alcuno che egli stesso abbia intrecciato degli enunciati filosofici con le sue analisi storico­sociali e le sue proposte di azione politica. Il posi ti­vismo, in generale, glielo ha rimproverato a suffi­cienza. Tutta la questione, però, consiste nel sapere se-.questi enunciati formano un insieme coerente. La mia ipotesi è che non è affatto così, almeno se l'idea di coerenza alla quale ci riferiamo continua ad essere abitata dall'idea di sistema. L'attività teo­rica di Marx, dopo che egli ebbe rotto con una cer-

-t;-{orma di filosofia, non l'ha condotto verso un sistema unificato, ma verso una pluralità, quanto "ffi~eno virtwlle,.di dottrine, nelle quali i suoi lettori e i suoi successori si sono trovati impigliati. Pari­menti, non l'ha portato verso un discorso unifor­me, ma xerso un' oscillazione permanente_.tra l'al di Qua...u'al di là della filosofia. Per al di qua della filosofia intendiamo qui l'enunciato di proposizio­ni come «conclusioni senza premesse», come avrebbero detto Spinoza e Althusser. Per esempio, quella celebre formula del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, che Sartre, tra gli altri, ha considerato come la tesi essenziale del materialismo storico: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fan­no in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro

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stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione» 2. Per al d(liLdelkiilosofia intendiamo, al contrario, u~discorso che mostr~ che essa non è un'attività ~J!t9l1OQ1.Jh.-ma..determin~­ta,d.all~pos!zÙ~~ech~QçqJPa ne1..çampQ dei conflit­ti sociali e, in 2.articolar~ld~Ualo!t~.dLcl~sse.

'--tuttavi;, q:ùéstè contraddizioni, queste oscil­lazioni, ripetiamo, non costituiscono affatto una debolezza di Marx. Mettono in discussione l'essen­za stessa dell' attività filosofica: il suo contenuto, il suo stile o il suo metodo, le sue funzioni intellet­tuali e politiche. Era vero ai tempi di Marx e lo è ancora, probabilmente, oggi. Di conseguenza si può sostenere che dopo Marx la filosofia non è stata più come prima. Si è prodotto un evento irreversi­bile, che non è paragonabile al sorgere di un nuovo punto di vista filosofico, poiché non obbliga solo a cambiare idee o metodo, ma a trasfoIInar~Ja..12r,ati­ca della filo~ Ben inteso, Marx non è il solo ad -aver prodotto effetti di questo genere. Per rimane­re nell'epoca moderna, vi è stato anche, almeno, Freud, in un campo diverso e con altri obiettivi. Ma gli esempi paragonabili sono in effetti molto rari. La cesura operata da Marx ha potuto essere più o meno chiaramente riconosciuta, accettata più o meno di buon grado, ha anche potuto suscitare rifiuti violenti e accaniti tentativi di neutralizzazio­ne. Quel che è indubbio, è che ha ossessionato e travagliato la totalità del discorso filosofico con­temporaneo.

Questa antifilosofia che il pensie'ro di Marx, a un momento dato, ha voluto essere, questa non­filosofia che il pensiero di Marx è certamente stato rispetto alla pratica esistente, ha prodotto dunque l'effetto opposto a quel che si proponeva. Non solo

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non ha messo fine alla filosofia, ma ha piuttosto suscitato nel suo seno una questione permanente­mente aperta, di cui ormai la filosofia può vivere e che contribuisce a rinnovarla. Infatti, non esiste nulla di simile ad una «filosofia eterna»: in filosofia vi sono delle svolte, delle soglie irreversibili. Ciò che è accaduto con Marx è, per l'appunto, uno ,postamento del luogo, delle questioni e degli :>biettivi della filosofia, che si può accettare o rifiu­tare, ma che è sufficientemente vincolante perché non lo si possa ignorare. Perciò possiamo, alfine, tornare a rivolgerci a Marx e, senza sminuirlo né tradirlo, leggerlo come filosofo.

Dove cercare, in queste condizioni, le filosofie :li Marx? Dopo quanto ho proposto, la risposta non presenta dubbio alcuno: da nessuna parte se :lon nella totalità aperta dei suoi scritti. Non solo :lo1].JJisç>gna.gperare. cernita alcuna tra «opere filo­w(içhe» e «opere storiche» o «economiche», ma =Iuesta divisione sarebbe il mezzo più sicuro per"' :1òn comprendere nulla del rapportQ critico èhe \1arx intrattiene con·tutta la tradizione filosofica e :I elI' effetto rivoluzionario che su tale tradizione ha prodotto. Gli..sYilWpi più t~~1].Lci_9~1 Cal!~tf!:lesQf}o !n_ch~ quelli nei quali le cat~gQde. della logica e :Iell' ontologia; le rappresentazioni d~ll'indiviquo e :Ie11egame sociale, sono state strappate alla loro :Iefinizione tradizionale e rip,ensatein funzione :Ielle necessità dell' analisi storica. Gli articoli più :mmedlat~mente legati alla congiuntura, redatti in xcasione delle esperienze rivoluzionarie del 1848 ) del 1871, o per la discussione interna dell'Asso­:iazione internazionale dei lavoratori, sono anche il nezzo per rovesciare la relazione tradizionale tra locietà e Stato e per sviluppare l'idea di una demo­:razia radicale, che Marx aveva prima abbozzato in

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quanto tale nelle sue note critiche del 1843, scritte in margine alla Filosofia del diritto di Hegel. I più polemici scritti contro Proudhon, o Bakunin, o Lassalle sono anche quelli nei quali appare lo scar­to tra lo schema teorico di evoluzione dell'econo­mia capitalistica e la storia reale della società bor­ghese, scarto che obbliga Marx ad abbozzare una dialettica originale, distinta da un semplice rove­sciamento dell'idea hegeliana di progresso dello spirito ...

In fondo, tutta l'opera di Marx è impregnata di travaglio filosofico e si pone, ad un tempOl in opposizione al mO<l9m çYIla.rra9iziooe._h:u'.l.:Ql410, èTrcoscrìtTo.Ji.W.us..ofia (ed è questo uno dei mo;enti dersuo idealismo). Ma ciò implica un'ulti­ma anomalia, di cui egli ha fatto, in qualche modo, esperienza su se stesso.

CESURA E ROTIURE

Più di altri, Marx ha scritto nella congiuntura. Tale scelta non escludeva né la «pazienza del concetto» di cui parlava Hegel, né il rigore delle conseguen­ze. l1a era senza dubbio incompatibile con la sta­bilità delle conclusioni: Marx è il filosofo dell'eter­no ricominciamento, che lascia dietro di sé nume­rosi cantieri ... Il contenuto del suo pensiero non è separabile dai suoi spostamenti. Proprio per questa ragione, se si vuole studiare Marx, non se ne può ricostruire astrattamente il sistema. Bisogna rin­tracciarne l'evoluzione, con le sue rotture e le sue biforcazioni.

Il dibattito sviluppatosi negli anni '60 e '70 in seguito ai lavori di Althusser, pro o contro i suoi argomenti, si è molto occupato della «rottura» o

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«cesura», che questi individuava nel 1845. Con­temporanea all'emergere della nozione di «rappor­to sociale» nell'elaborazione di Marx,...e.s.s_a segne­rebbe un punto di non ritorno, l'origine di un allontanamento crescente rispetto all' umanesimo teorico precedente. Ritornerò più avanti su questo termine. Questa rottura continuata mi sembra, infatti, innegabile. È sottesa da esperienze politiche immediate, in particolare l'incontro col proletaria­to tedesco e francese (inglese per Engels) e il rien­tro attivo nel corso delle lotte sociali (che ha come contropartita diretta l'uscita dalla filosofia univer­sitaria). Tuttavia, il suo contenuto deriva essenzial­mente da un'elaborazione intellettuale. In compen­so, vi sono state, nella vita di Marx, almeno altre due rotture, altrettanto importanti, determinate da eventi potenzialmente rovinosi per la teoria della quale si riteneva sicuro. Di modo che quest'ultima ha potuto essere «salvata» ogni volta solo a prezzo di un rifondazione, attuata tanto dallo stesso Marx, quanto intrapresa da qualcun altro (Engels). Val la pena ricordare brevemente cosa furono queste «crisi del marxismo» ante litteram. Ciò ci fornirà, al contempo, un quadro generale per le letture e le discussioni che seguiranno.

Dopo il 1848

La prima coincide con un cambiamento epocale per tutto il pensiero del XIX secolo:.~ la sconfitt~ deJk rivolu.zjoni deLl8.48. Basta leggere il Manzfe­sto del partito comunista (redatto nel 1847) 3 per capire che Marx aveva condiviso integralmente la c.onvinzione di una crisi generale imminente del capitalismo, grazie alla quale, ponendosi alla testa di tutte le classi dominate in tutti i paesi (d'Euro-

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TRE FONTI O QUAITRO MAESTRI?

La presentazione del marxismo come concezione del mondo si è a lun­go cristallizzata intorno alla formula delle «tre fonti del marxismo»: la filosofia tedesca, il socialismo francese, l'economia politica inglese. Essa proviene dal modo in cui Engels, nell'Antidùhring (1878) ha suddiviso la sua esposizione del materialismo storico e abbozzato la storia delle antitesi tra materialismo e idealismo, metafisica e dialetti­ca. Kautsky sistematizzerà questo schema in una conferenza del 1907 : Le tre fon/i del marxùmo. L'opera storica di Marx, dove la «scienza della società, partendo dal punto di vista del proletariato» è caratte­rizzata come «la sintesi del pensiero tedesco, del pensiero francese e del pensiero inglese», il che non si propone solamente di incoraggiare l'internazionalismo, ma di presentare la teoria del proletariato come una totalizzazione della storia europea, che istituisce il regno dell'uni­versale. Lenin, da parte sua, la riprenderà in una conferenza del 1913, Tre fonti e tre parli integranti del marxismo (in Opere complete, val. XIX, Ed. Riuniti, Roma, 1967). Ma il modello simbolico di una riunione delle parti della cultura non aveva in realtà niente di nuovo: traduceva la persistenza del grande mito della «triarchia europea», esposto precedentemente da Moses Hess (che ne aveva fatto il titolo di uno dei suoi libri nel 1841) e ripreso da Marx nei suoi scritti giovanili in cui si introduce la nozione di proletariato. Dal momento in cui si prendono le distanze dal sogno di operare la totalizzazione del pensiero secondo l'archetipo delle «tre parti del mondo» (riassunte significativamente nello spazio europeo), la que­stione delle «fonti» del pensiero filosofico di Marx, cioè dei rapporti privilegiati che ha intrattenuto con l'opera dei teorici del passato, diviene una questione aperta. In un bel libro apparso di recente (Il filo di Arianna. QlIindiì:i lezioni di fi/omfia marxùta, Vangelista, Milano 1990), Costanzo Preve ne ha fornito un esempio, assegnando «quattro maestri» a Marx: Epicllro (al quale aveva dedicato la sua tesi, Differenza tra lo filosofia della natllra di Democrito e quella di Epicuro, 1841), per il materialismo della libertà, metaforizzato attraverso la dottrina del clinamen o deviazione aleatoria degli aromi; ROllsseall, da cui deriva il democrati­smo egalitario, o l'idea di associazione fondata sulla partecipazione diretta dei cittadini alla decisione generale; Adam Smith, da cui viene l'idea che il fondamento della proprietà è il lavoro; infine, Hegel, il più importante e il più ambivalente, ispiratore e avversario costante del lavoro di Marx sulla «contraddizione dialettica» e la storicità. li vantaggio di questo schema è quello di orientare lo studio verso la complessità interna e gli spostamenti successivi che segnano il rap­porto critico di Marx con la tradizione filosofica.

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pa), il proletariato avrebbe instaurato una demo­crazia radicale che avrebbe portato, a breve sca­denza, all' abolizione delle classi e al comunismo. La forza e l'entusiasmo delle insurrezIoni della «primavera dei popoli» e della «repubblica socia­le» non potevano che apparirgli come l'esecuzione del programma.

Più dura sarà la caduta ... Dopo i massacri di giugno l'adesione di una parte dei socialisti francesi al bonapartismo e la «passività degli operai» di fronte al colpo di Stato assumevano un significato particolarmente demoralizzante. Ritornerò più avanti sul modo in cui quest'esperienza ha fatto vacillare l'idea marxiana del proletariato e della sua missione rivoluzionaria. L'ampiezza de!Ey?lg~~nti teorici che eSsl!_comporta per Mar~ non può essere sottovalutata. È l'abbandono della nozione di «rivoluzione permanente», la quale esprimeva pre­cisamente l'idea di un passaggio imminente dalla società di classe alla società senza classi; ed è l'ab­bandono altresì del programma politico, che' a tale nozione corrispondeva, di «dittatura del proletaria­to» (opposta alla «dittatura della borghesia») 4. È l' ~lissi durevole - di cui cercherò di indicare le ragioni teoriche - del cçmcetto dj ideQ[o2,ia, appena definito e messo in opera. Ma è anche la definizio­ne di un programma di ricerche sulla determina­zione economica delle congiunture politiche e del­le tendenze di lunga durata dell' evoluzione sociale. Ed è allora che Marx ritorna al progetto di una cri­tica dell'economia politica per rimaneggiarne le basi teoriche e portarlo a termine - in ogni caso fino alla pubblicazione del I Libro del Capitale, nel 1867 - al prezzo di un lavoro accanito, nel quale si può anche percepire il potente desiderio e la con­vinzione anticipata di una rivincita sul capitalismo

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vincente: attraverso il disvelamento dei suoi mec­canismi segreti, che egli stesso non comprende, e, al contempo, attraverso la dimostrazione del suo inevitabile crollo.

Dopo il 1871

Ma ecco· la seconda crisi: è la guerra franco-tedesca del 1870, seguita dalla Comune di Parigi. Gettano Marx nella depressione e suonano come un richia­mo all' ordine del «lato cattivo della storia» (di cui riparleremo), cioè del suo svolgimento imprevedi­bile, dei suoi effetti regressivi, e dei suoi terribili costi umani (decine di migliaia di morti nella guer­ra, altre decine di migliaia - più le deportazioni -nella «settimana di sangue» che per la seconda vol­ta in venticinque anni decapita il proletariato rivo­luzionario francese e terrorizza gli altri). Perché questo richiamo patetico? Bisogna certo misurare la frattura che ne è risultata. La guerra europea va contro la rappresentazione che Marx si era fatta delle forze direttrici e dei conflitti fondamentali della politica. Relativizza la lotta di classe a vantag­gio, apparentemente almeno, di altri interessi e altre passioni. Lo scoppio della rivoluzione prole­taria in Francia (e non in Inghilterra) va contro lo schema «logico» di una crisi derivante dall' accu­mulazione capitalistica stessa. Lo sfascio della Comune mostra la sproporzione di forze e di capa­cità di manovra tra borghesia e proletariato. Anco­ra una volta, l' «assolo funebre» degli operai, di cui aveva parlato il 18 Brumaio... .

Marx, indubbiamente, fronteggia la situazio­ne. Nel genio dei proletari vinti, per quanto breve sia stata la loro esperienza, sa leggere l'invenzione del primo «governo della classe operaia», al quale

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sarebbe mancata solo la forza dell' organizzazi9.Qe. Ai partiti socialisti in via di costituzione propone una nuova dottrina della dittatura del proletariato, come smantellamento dell'apparato statale nel cor­so di una «fase di transizione» nella quale si fron­teggiano i principi del comunismo e quelli del diritto borghese. Ma liquida l'Internazionale (attra­versata, è vero, da insolubili contraddizioni). E interrompe la redazione del Capitale, il cui mano­scritto resta sospeso nel bel mezzo del capitolo sul­le classi, per imparare il russo e la matematica e impegnarsi, con innumerevoli letture, nella rettifica della sua teoria dell'evoluzione sociale. Ed essa, interferendo coi regolamenti di conti, impegnerà gli ultimi dieci anni della sua vita. Spetterà a Engels, l'interlocutore di sempre e talora l'ispirato­re, sistematizzare il materialismo storico, la dialetti­ca, la strategia socialista.

Ma ogni cosa a suo tempo. Siamo nel 1845: Marx ha 27 anni, è laureato in fùosofia all'Università di Jena, redattore capo della Gazzetta renana di Colonia e degli Annali franco-tedeschi di Parigi, espulso dalla Francia come agitatore politico su richiesta della Prussia; senza un quattrino, ha appena sposato la giovane baronessa von Westphalen, da cui ha una bambina. Come tutta la sua generazione, quella dei futuri «quarantottardi», vede il futuro davanti a sé.

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NOTE

I Vedi GEORGES LflBICA, «Marxisme» in Encyclopaedia Universalis, Supplemento II, 1980, nonché gli articoli «Marxi­sme» (G. LABICA), «Matérialisme dialectique» (P. MACIIEREY), «Crises du marxisme» (G. BENSUSSAN) nel Dictionnaire critique du marxisme, seconda edizione, Puf, Paris 1985.

2 K. MARX, I/18 brumaio di Luigi Bonaparte, trad. di Pal­miro Togliatti, Editori Riuniti, coli. «Le Idee», Roma, 2a ed., 1977, p. 44. Cfr. ]EflN-PflUL SARTRE, «Questioni di metodo» in Critica della ragione dialettica, tomo I, Teoria degli insiemi pra­tici, Il Saggiato re, Milano 1963.

) Ve ne sono innumerevoli edizioni. Per esempio: MARX­ENGEL.s, Manifeste du parti communiste, presentato e annotato da ].-]. Barrère e G. Noiriel, prefazione di Jean Bruhat, colI. «Les intégrales de philo», Fernand Nathan, Paris. G. M. BRAVO (a cura di), Il Manifesto del partito comunista e i suoi interpreti, pp. CLVI-538, Editori Riuniti, Roma 1973.

• Sulle vicissitudini della «dittatura del proletariato» in Marx e nei suoi successori cfr. il mio articolo nel Dictionnaire critique du marxisme (redatto sotto la direzione di G. Labica e G. Bensussan), op. cito La migliore presentazione dei differenti modelli rivoluzionari di Marx è in STflNLEY MOORE: Three Tac­tics. The Background in Marx, Monthly Review Press, New York 1963.

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TAVOLA CRONOLOGICA

1818 Marx nasce a Treviri (Renania prussiana). 1820 Nascita di Engels. 1831 Morte di Hegel. Pierre Leroux in Francia e

Robert Owen in Inghilterra inventano la parola «sociali­smo». Rivolta dei canuts (gli operai della seta) di Lione.

1835 Fourier: La falsa industria parcellizzata. 1838 Feargus O'Connor redige la People's Charter

(manifesto del «cartismo» inglese). Blanqui propone la «dittatura del proletariato».

1839 Marx studia diritto e filosofia alle università di Bonn e Berlino.

1841 Feuerbach: L'essenza del cristianesimo; Proudhon: Cos'è la proprietà?; Hess: La triarchia europea; tesi di dottorato di Marx: Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro.

1842 Marx redattore capo della Gazzetta renana. Cabet: Viaggio in Icaria.

1843 Carlyle: Passato e presente; Feuerbach: Principi della filosofia dell'avvenire. Marx a Parigi: redazione degli Annali franco-tedeschi (che contengono La questione ebraica e l'Introduzione alla cn'tica della filosofia del din'tto di Hegel!.

1844 Com te: Discorsi sullo spirito positivo; Heine: Germania, fiaba d'inverno. Marx redige i «Manoscritti del 1844» (Economia politica e filosofia) è pubblica (con Engels) La sacra famiglia; Engels pubblica la Situazione della classe operaia in Inghilterra.

1845 Stirner: L'Unico e la sua proprietà; Hess: L'es­senza del denaro. Marx è espulso in Belgio; redige le «Tesi su Feuerbach» e, con Engels, L'ideologia tedesca.

1846 Misena della filoso/t'a (risposta a filosofia della Miseria di Proudhon). Marx aderisce alla Lega dei Giusti che diventa Lega dei Comunisti, per la quale nel 1847 redige, cOn Engels, il Manzfesto del partito comunista.

1847 Legge delle dieci ore in Inghilterra (pone un limite alla giornata di lavoro). Michelet: Le Peuple.

1848 Rivoluzioni europee (febbraio). Rientrato in Germania, Marx diviene redattore capo della Nuova Gaz­zetta renana, organo democratico rivoluzionario. Massa­cro-degii operai francesi nelle giornate di giugno. Corsa

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all' oro in California. Renan: Il futuro della scienza (pubbli­cato n~ 1890); John Stuart Mill: Principi di economia poli­tica; Thiers: La propn'età; Leroux: L'Uguaglianza.

1849 Fallimento dell' Assemblea nazionale di Fran­coforte e riconquista della Germania da parte degli eserci­ti dei prìncipi. Marx emigra a Londra.

1850 Marx:.Le lotte di classe in Francia; Richard Wagner: Il giudaismo in musica.

1851 Colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte. 1852 Marx: Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Disso­

luzione della Lega dei Comunisti. 1853 Hugo: I castighi; Gobineau: Saggio sull'inegua­

glianza delle razze umane. 1854·1856 Guerra di Crimea. 1857 Ruskin: Economia politica dell'arte; Baudelaire:

I fion' del male. 1858 Proudhon: La giustizia nella Rivoluzione e nel­

la Chiesa; Mill: Libertà; Lassalle: La filosofia di Eraclito l'Oscuro.

1859 M~rx:per la m'fica dell' economia politica. Ini­zio dei lavori per il canale drSuà.DàrWin: L'Origine del­la specie. Fondazione dell'Englishwomans's Journal (prima rivista femminista).

1861 Guerra di Secessione negli Stati Uniti. Aboli­zione della servitù della gleba in Russia. Lassalle: Sistema dei diritti acquisiti.

1863 Insurrezione polacca. Hugo: I Miserabili; Renan: Vita di Gesù; Dostojevskij: Umiliati e offesi.

1864 Riconoscimento del diritto di sciopero in Francia. Fondazione dell' Associazione Internazionale dei Lavoratori a Londra:.Marx.segretario delconsigli9 gene­rale.

1867 Disraeli istituisce il suffragio universale maschile in Inghilterra; unificazione doganale della Ger­mania. _M~rx: Il Capitale. Critica dell' economia politica, libro primo (!l processo di produzione del capitale). Con­quista francese della Cocincina.

1868 Primo congresso delle Trade Unions britanni­che. Haecke1: Storia della creazione naturale; William Morris: Il paradiso terrestre.

1869 Fondazione della socialdemocrazia tedesca

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(Bebel, Liebknecht). Inaugurazione del Canale di Suez. Mill: La sottomissione della donna. Tolstoj: Guerra e pace. Matthew Arnold: Cultura e anarchia.

1870-71 Guerra franco-prussiana. Proclamazione dell'impero tedesco a Versailles. Congresso di Parigi, insurrezione della Comune. Marx: La guerra civile in Francia (Indirizzo del Consiglio generale dell'Associazio­ne Internazionale degli Operai); Bakunin: L'impero tede­sco della siena I (Dio e lo Stato).

1872 Congresso dell'Aja (scissione della I Interna­zionale, la cui sede è trasferita a New York). Traduzione russa del libro I del Capitale. Darwin: Origine dell'uomo; Nietzsche: Nascita della tragedia.

1873 Bakunin: Statalismo e anarchia. 1874 Walras: Elementi di economia pura. 1875 Congresso di unificazione del socialismo tede­

sco (<<lassalliani» e «marxisti») a Gotha. Traduzione fran­cese del libro I del Capitale.

1876 Vittoria incoronata imperatrice delle Indie. Spencer: Principi di sociologia. Scioglimento ufficiale del­l'Internazionale. Dostojevskij: I demoni. Inaugurazione del Festspielhaus di Bayreuth.

1877 Marx: «Lettera a Michajlovskij»; Morgan: La società primitiva.

1878 Legge antisocialista in Germania. Engels: Antidiihring (Il signor Eugenio Diihring mette sottosopra la scienza) (con un capitolo di Marx).

1879 Fondazione del partito operaio francese da parte di Guesde e Lafargue. Fondazione della Lega agra­ria irlandese. Henry George: Progresso e povertà.

1880 Amnistia per i comunardi. 1881 Legge sulla scuola elementare gratuita, laica e

obbligatoria in Francia. Assassinio di Alessandro II in Russia da parte del gruppo «Libertà del popolo». Diih­ring: La questione ebraica come questione di razza, di con­suetudine, di cultura; Marx: Lettera a Vera Zasulic.

1882 Engels: Bruno Bauer e il cristianesimo pn·mitivo.

1883 ,Morte di Marx., Plechanov fonda il gruppo «Emancipazione del lavoro». Bebel: La donna e il sociali­smo; Nietzsche: Cost' parlò Zaratustra.

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II. CArvtBIARE IL MONDO: DALLA PRAXIS ALLA PRODUZIONE

Leggiamo nell'undicesima e ultima Tesi su Feuer­bach: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, ciò che conta è cambiarlo». Ogget­to di questo capitolo è quello di cominciare a com­prendere perché Marx non si sia attenuto a ciò, anche se, in un certo senso, nulla di quanto egli ha scritto in seguito supera mai l'orizzonte dei proble­mi che questa formulazione pone.

LE TESI SU FEUERBACH

Cosa sono dunque le «tesi»? Una serie di aforismi che ora abbozzano una proposizione critica, ora enunciano una proposizione lapidaria, talora quasi una parola d'ordine. Il loro stile combina la termi­nologia della filosofia tedesca (cosa che oggi ne rende talvolta difficile la lettura) con un'interpel­lanza diretta, un movimento risoluto che imita in qualche modo una liberazione: un'uscita ripetuta fuori della teoria, in direzione dell'attività (o prati­ca) rivoluzionaria. Sono state redatte intorno al marzo 1845, quando il giovane universitario e pub­blicista renano si trovava a Bruxelles, in residenza semisorvegliata. Sarebbe stato presto raggiunto dal suo amico Engels, che cominciava con lui un lavo­ro che sarebbe durato fino alla sua morte. Non pare che egli avesse mai destinato queste righe alla pubblicazione: rientrano nel campo del «memo­randum», formule che si getta su carta per ricor­darle e ispirarvisi continuamente.

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KARL MARX: TESI SU FEUERBACH (1845)

l. Il difetto principale di ogni materialismo fino ad og~i, compreso quel­lo di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sot­to la fonna di oggetto o di intuizione; ma non come attività limano sensi­bile, come attività pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materiali­smo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili re-.d­mente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. [. .. ] III. La dottrina materialistica secondo cui gli uomini sono prodotti del­l'ambiente e dell'educazione, e pertanto uomini mutati sono prodotti di un altro ambiente e di una mutata educazione, dimentica che sono pro­prio gli uomini che modificano l'ambiente e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa perciò giunge necessariamente a scindere la società in due parti, una delle quali sta al di sopra della società (per esempio in Roberto Owen). J.a coincidenza del variare dell'ambiente e dell'attività umana può solo essere concepita e compresa razionalmente come pratica n·voluzionaria. IV. Feuerbach procede dalla autoestraneazione religiosa, dallo sdoppia­mento del mondo in un mondo religioso, immaginario, e in un mondo reale. Il suo lavoro consiste nel dissolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Egli non vede che, una volta compiuto questo lavoro, rimane ancora da fare la cosa principale_ Poiché il fatto che la base mon­dana si stacca da se stessa e si fissa nelle nuvole come regno indipenden­te, si può spiegare unicamente con la dissociazione interna e con la con­traddizione di questa base mondana con se stessa. Pertanto questa dev'essere in primo luogo ,compresa nella sua contraddizione e poi rivo­luzionata praticamente mediante la rimozione della contraddizione. Così, per esempio, dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima, la famiglia terrena, che dev~~re criticata teoricamente e capovolta praticamente_ [. .. ] VI. Feuerbach risolve l'essenza* religiosa nell'essenza limano. Ma l'es­senza umana non è un' astrolZione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà essa è l'insieme dei rapporti sociali. Feuerbach, che non si addentra nella critica di quest'essenza reale effettiva, è perciò costretto: 1) a fare astrazione dal corso della storia e a fissare la coscienza reli­giosa per sé e a presupporre un individuo umano astratto-isolato; 2) per lui pertanto l'essenza umana può essere concepita solo come "genere" (Gattung), come universalità interna, muta, che unisce in modo puramente naturale i molti individui. [ ... ] XI. I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; ora però si tratta di mutarlo. * Das Wesen. Nella traduzione di Togliatti è invece «essere» (cfr. il voI. Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo dello filosofia classica tede­sca (1888), Editori Riuniti, Roma 1950, pp. 77-80); nella traduzione di Mario Rossi è «essenza» (cfr. Engels, Ludwig Feuerbach, Editori Riu­niti, Roma, collo "Le idee,., 2a ed., 1976), come in G. Labica, alla cui traduzione Balibar si rifà in questa scheda [NdTI.

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In quel momento Marx è impegnato in un lavoro di cui abbiamo un'idea abbastanza precisa grazie ai manoscritti pubblicati nel 1932 e cono­sciuti dopo col titolo di Economia politica e filoso­fia o Manoscritti del 1844 l. Si tratta di un' analisi fenomenologica (che mira a cogliere il senso - o il non-senso) dell'alienazione del lavoro umano nella forma del salariato. Le influenze di Rousseau, Feuerbach, Proudhon, Hegel si intrecciano stretta­mente con la sua prima lettura degli economisti (Adam Smith, ]ean-Baptiste Say, Ricardo, Sismon­di) per sfociare in una concezione umanistica e naturalistica del comunismo, pensato come ricon­ciliazione dell'uomo col suo proprio lavoro e con la natura, dunque con la sua «essenza comunita­ria» che la proprietà privata ha abolito, rendendolo così «straniero a se stesso».

Ora, Marx interromperà questo lavoro (che riprenderà molto più tardi su tutt' altre basi) e intraprenderà con Engels la redazione dell'Ideolo­gia tedesca che si presenta prima di tutto come una polemica contro le diverse correnti della filosofia «giovane-hegeliana» universitaria ed extra-univer­sitaria (Ludwig Feuerbach, Bruno Bauer, Max Stir­ner, tutti più o meno legati al movimento di critica della Restaurazione, che una lettura di «sinistra» dell'autore della Fenomenologia dello spirito e della Filosofia del diritto ispira). Laredazione delle Tesi 2

coincide con questa interruzione. È probabile che essa ne contenga alcune ragioni teoriche. Ma è anche una questione cruciale sapere quale esatto rapporto abbiano con le proposizioni dell'Ideolo­gia tedesca 3. Vi ritornerò in seguito.

Louis Althusser, tra gli altri lettori celebri, le aveva presentate tempo fa come «il bordo anterio­re» di una cesura - lanciando così uno dei grandi

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dibattiti del marxismo contemporaneo: per lui i Manoscritti del 1844, col loro caratteristico umane­simo, sarebbero ancora «al di qua» della cesura, mentre l'Ideologia tedesca, o piuttosto la sua prima parte, con la sua deduzione delle forme successive della proprietà e dello Stato, il cui filo conduttore è lo sviluppo della divisione del lavoro, rappresen­tano la vera positiva entrata in scena della «scienza della storia».

Non intendo procedere qui ad una spiegazio­ne esaustiva. Ci si può rifare al lavoro di Georges Labica 4, che studia ogni formulazione in dettaglio, prendendo i commenti ulteriori, con tutte le loro divergenze, come rivelatori dei problemi interni che esse pongono. Labica mostra con chiarezza perfetta come le Tesi siano strutturate. Da un capo all'altro, si tratta di superare in un «nuovo materia­lismo», o materialismo pratico, l'opposizione tradi­zionale tra i due campi della filosofia: l'idealismo, cioè prima di'tutto Hegel, che proietta ogni realtà nel mondo dello spirito, e il vecchiQ materjglismo, o materialismo «intuitivo», che riduce tutte le astra­zioni intellettuali alla sensibilità, cioè alla vita, alla sensazione e all'affettività, sull'esempio degli epi­curei e dei loro discepoli moderni: Hobbes, Dide­rot, Helvétius ...

Critica dell'alienazione

Il filo conduttore dell' argomentazione è abbastanza chiaro se ci si riferisce ai dibattiti dell' epoca. Feuer­bach 5 ha voluto spiegare l'«alienazione religiosa», cioè il fatto che gli uomini reali, sensibili, si rappre­sentano la salvezza e la perfezione in un altro mon­do soprasensibile (come una proiezion'e in esseri e

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situazioni immaginarie delle proprie «qualità essen­ziali» - in particolare il legame comunitario, o lega­me d'amore, che «unisce il genere umano»). Pren­dendo coscienza di questo equivoco, gli uomini diverranno capaci di «riappropriarsi» la loro essenza alienata in Dio, e, di conseguenza, vivere veramente la fraternità su questa terra. Al seguito di Feuerba­ch, alcuni filosofi critici (tra cui lo stesso Marx) han­no voluto estendere il medesimo schema ad altri fenomeni di astrazione e di «spossessamento» del­l'esistenza umana, in particolare quello che costitui­sce la sfera politica, isolata dalla società, come una comunità ideale in cui gli uomini sarebbero liberi ed eguali. Ma, ci dice Marx nelle Tesi, la vera ragione di questa proiezione non è un'illusione della coscienza, un effetto dell'immaginazione individuale: è la scis­sione o divisione che regna nella società, sono i con­flitti pratici che oppongono gli uomini tra loro, e per i quali il cielo della religione o quello della poli­tica propongono una soluzione miracolosa. -Eo.tran­no uscirne veramente soltanto attraverso una tra­sformazione pratica, abolendo la dipendenza di alcuni uomini da altri. Non è dunque alla filosofia che spetta di far cessare l'alienazione (perché la filo­sofia è stata sempre solo il commento o'la traduzio­ne degli ideali di riconciliazione della religione o della politica), ma alla rivoluzione, le cui condizioni risiedono nell'esistenza materiale degli individui e nei loro rapporti sociali. Le Tesi su Feuerbach esigo­no per ciò stesso una uscita (Ausgang) definitiva dal­la filosofi.a~ solo mezzo per realizzare ciò che è sem­pre stata la sua più alta ambizione: l'emancipazione, la liberazione.

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CRITICA DELL'ECONOMIA POLITICA

L'espressione «critica dell'economia politica» continua ad apparire nel titolo o nel programma delle principali opete di Marx, benché il suo contenuto si trasformi costantemente. Già i «Manoscritti del 1844» sono la minuta di un' opera che doveva intitolarsi Per lo critica dell'economia politica, titolo che diviene in seguito quello dell'opera pubblicata nel 1859 come «prima parte» di un trattato d'insieme, e il sottotitolo del Capitale (il cui primo libro, l'unico pubblicato da Marx, vedrà la luce nel 186ìl. E a questi vanno aggiunti numerosissi­mi inediti, articoli, sezioni di scritti polemici. Sembra dunque che quest'espressione esprima la modalità permanente del rapporto intellettuale di Marx con il suo oggetto .rcienti/im. L'obiet­tivo iniziale era la critica dell'alienazione politica nella società civile-bor­ghese, come anche delle «materie speculative» di cui la filosofia preten­de esprimere l'unità organica. Ma è intervenuto ben presto uno sposta­mento fondamentale: «criticare,~.il diritto, la morale e la politica signifi­ca metterli a confronto con la loro base «materialistica», con il processo di costituzione dei rapporti sociali nel lavoro e nella produzione. Marx ritrova allora a modo suo il duplice senso della parola critica in filosofia: distruzione dell' errore, conoscenza dei limiti di una facoltà o di una pr-dtica. Ma a svolgere questa critica, invece di essere semplice­mente l'analisi, è ora la storia. Proprio questo gli permette di combina­re «dialetticamente» la critica delle illusioni necessarie della teoria (il «feticismo della merce»), lo sviluppo delle contraddizioni interne, inconciliabili, della realtà economica (le crisi, l'antagonismo capitale!lavoro fondato sullo sfruttamento della merce «forza lavoro»), e, infine, l'abbozzo di una «economia politica della classe operaia» opposta a quella della borghesia (Messaggio inaugurale dell'Associazio­ne Internazionale dei Lavoratori, 1864). Le sorti della critica si giocano nelle «due scoperte» che egli si attribuisce: la deduzione della forma denaro a partire dalle sole necessità della circolazione delle merci, e la riduzione delle leggi dell' accumulazione alla capitalizzazione di «plu­svalore» (Mehrwert). Entrambe rinviano alla definizione del valore come espressione del lavoro socialmente necessario, in cui si radica il rifiuto del punto di vista dell'Homo oemnomicu! astratto, definito uni­camente attraverso il calcolo del suo «utile» individuale. Per una presentazione degli aspetti tecnici della critica dell'economia politica in Marx, cfr. Pierre Salama e Iran Hai Hac, Introduction à l'économie de Morx (La Découverte, «Repères», Paris 1992),

RIVOLUZIONE CONTRO FILOSOFIA

Le difficoltà cominciano precisamente a questo punto. Probabilmente Marx non si è arrischiato a pubblicare una tale ingiunzione, o non ne ha avuto

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· l'occasione. Resta il fatto che l'ha scritta e che ci è giunta come una «lettera rubata». Ora, l'enunciato in questione è abbastanza paradossale. In un certo senso è assolutamente coerente con se stesso. Ciò che chiede, lo fa subito (si sarebbe tentati di dire, con una terminologia successiva, che ha qualcosa di performativo). Scrivere: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di mutarlo» , significa porre un punto di non ritor­no per ogni pensiero che si voglia effettivo, terre­stre, o «mondano». Significa anche vietare a se stessi di voltarsi indietro, verso la filosofia. 0, se si vuole, significa condannare se stessi, se per avven­tura ci si rimettesse a interpretare il mondo, e in particolare il mondo sociale, a ricadere sotto la qualifica di filosofia, poiché tra filosofia e rivolu­zione non c'è via di mezzo. Al limite, può essere dunque un modo di condannarsi al silenzio.

Ma la brutalità di questa alternativa ce ne sco­pre l'altra faccia: se «dire è fare», d'altro canto «fare è dire», e le parole non sono mai innocenti. Per esempio, non è innocente sostenere che le interpretazioni del mondo sono diverse, mentre la trasformazione rivoluzionaria implicitamente è una o univoca. Perché questo significa che esiste solo e soltanto un modo di cambiare il mondo: quello che abolisce l'ordine esistente, la rivoluzione, che non potrebbe essere reazionaria o antipopolare. Notia­mo di passaggio che Marx rinuncerà molto presto a questa tesi: a partire dal Manifesto e, a fortiori, nel Capitale prenderà atto della potenza con cui il capitalismo «trasforma il mondo», e diverrà crucia­t~.la questione di sapere se vi sono più maniere di c.runbiare il mondo, o come un cambiamento possa inserirsi in un altro, addirittura deviarlo dal suo corso. D'altra parte, ciò significa che questa unica --,-...• __ ....

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trasformazione rappresenta, al tempo stesso, la «soluzione» dei conflitti interni alla filosofia. Vec­chia ambizione dei filosofi (Aristotele, Kant, Hegel...) che la «pratica rivoluzionaria» verrebbe così a realizzare meglio di loro!

Ma vi è di più: la formula escogitata da Marx, questa ingiunzione che è già di per sé un atto di «uscita», non è divenuta filosoficamente celebre per caso. Con un po' di memoria, le si trova molto presto una parentela profonda, non soltanto con altre parole d'ordine (come «cambiare la vita» di Rimbaud: sappiamo che André Breton in partico­lare ha operato questa saldatura) 6, ma con altri enunciati filosofici, egualmente lapidari, considera­ti tradizionalmente come «fondamentali» e che si presentano essi stessi talora come delle tautologie talaltra come delle antitesi. Va notato che tutte queste formulazioni, per quanto differente ne sia il contenuto e opposte le intenzioni, hanno in comu­ne il fatto di guardare al rapporto tra la teoria e la pratica, la coscienza e la vita. Ciò va dal «Pensiero ed essere sono un'unica cosa» di Parmenide, fino a «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» di Wittgenstein, passando attraverso Spinoza (<<Dio è la natura»), Kant (<<Ho dovuto limitare il sapere per far posto alla fede»), Hegel (<<Il razionale è rea­le, il reale è razionale»). Ed ecco il nostro Marx istallato non solo nel cuore della filosofia, ma del suo movimento più speculativo, quello che si sfor­za di pensare i suoi propri limiti, sia per abolirli, che per istituirsi a partire dal loro riconoscimento.

Teniamo a mente questo equivoco profondo (del quale occorre guardarsi dal fare una contraddi­zione redibitoria, ma che non bisogna certo trasfor­mare in segno di profondità insondabile, cosa che non tarderebbe a ricondurci a quel «misticismo» di

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cui anche qui Marx cerCa precisamente le radici ... ) ed esaminiamo più da vicfuo due questioni nevral­giche che le Tesi implicano: quella del rapporto tra la «pratica» (o praxis) e la «lotta di classe»; quella dell'antropologia o dell'«essenza umana».

PRAXIS E LOTrA DI CLASSE

Le Tesi arlano di rivoluzione.,.Jlla non usano l'e­spressione «lotta i classe». Non è tuttavia arbitra­rio sottintenderla qui, a condizione di precisare in che senso. Grazie al lavoro dei germanisti 7 si conosce meglio da qualche anno l'ambito intellet­tuale di queste formulazioni, per le quali Marx ha trovato parole ad effetto, ma il cui fondo non gli è assolutamente proprio.

La rivoluzione alla quale egli pensa si riferisce evidentemente alla tradizione francese. Ciò che questi giovani democratici radicali hanno in mente è la ripresa del movimento che era stato interrotto, poi invertito, dall'istituzione «borghese» della repubblica dopo Termidoro, dalla dittatura napo­leonica, e infine dalla Restaurazione e dalla contro­Rivoluzione (in ogni caso dallo Stato). E ancor più precisamente si tratta di portare a termine, a livello europeo, il movimento rivoluzionario e di renderlo universale, ritrovando l'ispirazione e l'energia del suo «lato sinistro», questa componente egalitaria della Rivoluzione (rappresentata in particolare da Babeuf) da cui è per l'appunto uscita, all'inizio del XIX secolo, l'idea di comunismo 8. Marx insisterà molto sul fatto che non si tratta di una concezione speculativa, di una città ideale o sperimentale (come l'«Icaria» di Cabet), ma di un movimento sociale le cui rivendicazioni rappresentano sempli-

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cemente l'applicazione conseguente del principio della Rivoluzione, che commisura la realizzazione della libertà con quella della uguaglianza e recipro­camente, per sfociare nella Jral.~!1~_nza. Insomma ciò che Matx e altn constatano è il-fatto che non c'è via di mezzo: se la rivoluzione si ferma durante il suo cammino non può che regredire e ricostitui­re un'aristocrazia di possidenti che si servono dello Stato, reazionario o liberale, per difendere l'ordine stabilito. All'inverso, la sola possibilità di portare a termine la rivoluzione e renderla irreversibile, è

_"'RPJ..9fQQdirla, farne una rivoluzione sociale.-·d~-. Ma chlSOri(),-aunque, 1 portaton dì questa

rivoluzione sociale, gli eredi dei montagnardi e di Babeuf? Basta aprire gli occhi sull'attualità euro­pea e ascoltare le grida d'allarme dei possidenti: sono gli operai «c artisti» inglesi (Engels li ha descritti da poco nella sua Situazione della classe operaia inglese, 1844, libro che si può leggere ancor oggi con ammirazione, e la cui influenza su Marx è stata assolutamente determinante), sono i «canuts» lionesi, gli artigiani della periferia parigi­na e delle «miniere di Lilla» descritti da Vietor Hugo, sono i tessitori di Slesia di cui Marx ha par­lato lungamente nel suo giornale di Colonia, La Gazzetta renana ... In breve, sono tutti coloro che vengono chiamati ormai (con una vecchia parola romana) i proletari, che la rivoluzione industriale ha creato in massa, concentrati nelle città, precipi­tati nella miseria, ma che hanno cominciato a cor­rodere.l:Q.td.iMJ?_Qrghese con i loro scioperi, le loro «co~li~!Q!1j>~,,.Je loro_insl,ltr.8.ioni. rono:per così ~dite, il popolo del popolo, la suatrazione più auten­tica e la prefigurazione del suo futuro. Nel momento in cui degli intellettuali critici, pieni di buona volontà e di illusioni, s'interrogano ancora

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sui mezzi per democratizzare lo Stato, e con questo di illuminare ciò che essi chiamano la «massa», sono passati essi stessi all' azione, hanno di fatto già ricominciato la rivoluzione.

Con una formula decisiva che ricorre in tutti i testi di questo periodo, da La sacra famiglia (1844) al Mantfesto dei comunisti (1847), Marx dirà che questo roletari~to ~resentala dissoluzioQe in atto ella societàciYiJ~" bqrgh~~~!~,jbìirgerliche Gesellschajt) , intendendo con ciò: 1) che le condi­zioni di esistenza dei proletari (ciò che oggi si chia­merebbe esclusIone) sono in contraddizione con tutti i principi di questa società; 2) che essi stessi vivono secondo valori altri da quelli della proprietà privata, del profitto, del patriottismo e dell'indivi­dualismo borghese; 3) che la loro crescente oppo­sizione allo Stato e alla classe dominante è un effet­to necessario della struttura sociale moderna, ma mortale per essa a breve scadenza.

L'azione del presente

Le parole «in atto» (in der Tat) sono particolar­mente importanti. Da un lato, infatti, evocano l'at­tualità, l'effettività, i «fatti» (Tatsache): esprimono ~queJ'.ori~ntamento profondamente tmiiutopico_.

--·-·-""1""--"·-'"-'-.-T·.----"~" .. -·· -_ .. ". di Marx e permettono aI comprenaere perché, ai -su~T~~'Zhi, il riferimento alle prime forme della lot­ta di classe proletaria in via di organizzazione sia tanto decisivo. La pratica rivoluzionaria di cui ci parlano le Tesi non deve realizzare un programma, un piano di riorganizzazione della società, deve ancor meno dipendere da una visione del futuro proposta da teorie filosofiche e sociologiche (come quelle dei filantropi del XVIII secolo e dell'inizio del XIX). Ma. deve. c.oincidet:e c,Ql«movimento rea-_

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l~cbe aholis,e. lo stato dl_~.e...pr~s~-tlt~, come Marxnon.tatderàascriver.e.J~~ __ '='.id.g9l!JgYz1.e~ spkgando che è la sola definizione materialistica '.dr:! cotmmismo.· --..... ----.,-----.--

Ma in questo modo tocchiamo il secondo aspetto: «in atto» vuoI dire anche che si tratta di una attività (Tatigkeit), di un'impresa che si svolge nel presente e nella quale gli individui si impegna­no con tutte le loro forze fisiche e intellettuali. Qui si opera, dunque, un rovesciamento significativo. Moses Hess e altri «giovani hegeliani», avversari delle filosofie della storia, che ruminano sempre il senso del passato, e delle filosofie del diritto, che commentano l'ordine stabilito, avevano proposto una filosofia dell'azione (Feuerbach, da parte sua, aveva pubblicato un manifesto per una filosofia dell'avvenire). In fondo, ciò che Marx vuoI dire è questo: l'azione deve essere «agita» nel presell~e, e non commenTàfao -annunciam. Ma al1oralafiloso­l1;-d~~~·f~r~ida-parì:e. Non è neppure una «filoso­fia dell'azione» che corrisponde all'esigenza e al movimento rivoluzionari, è 1'azione stessa, sans phrastEX, ----E, tuttavia, quest'ingiunzione a farsi da parte non può essere indifferente alla filosofia: se questa è conseguente, essa deve vedervi, paradossalmente, la propria realizzazione. Marx pensa qui prima di tutto, naturalmente, a questa tradizione idealistica tedesca di cui egli stesso è impregnato e i cui rapporti con l'idea rivoluzionaria francese sono tanto stretti. Pen­sa all'ingiunzione kantiana di «fare il proprio dove­re», di agire nel mondo conformemente all'imperati­vQ . .cat-egorico (il cui contenuto è la fratell~u.g:aJlma~ na). Pensa al motto di Hegelnella __ F~nomenologia: «Ciò che deve essere è anche in atto (in der Tal) e ciò che solamente deveesseresenzatiSt1'e;oonha

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verità alcuna». Più politicamente, pensa al fatto che lmòsofl~-moderna ha identificato l'universale con la Dichiarazione dei diritti dell' uomo e del cittadino. Epperò, o questi principi, sacralizzati in teoria, sono ignorati e contraddetti ad ogni istante dalla società borghese, dove non regnano né l'uguaglianza, e neanche la libertà, per non parlare della fraternità; oppure cominciano a passare ai fatti, ma ad una pratica rivoluzionaria, «insurrezionale» (la pratica di coloro che tutti insieme insorgono, sostituendo, se occorre, la «critica delle armi» alle «armi della criti­ca»). Quando Marx parla qui di rovesciare l'ideali­smoin materialismo bisogna prima di tutto intende­rè:.questacons,eguenza, un pQ'nide per'la filosofia, ~~~_g~i~.hl9i.PIQpri,pdnçipi.,

LE DUE FACCE DELL'IDEALISMO

Fermiamoci di nuovo su questo punto. Se queste indicazioni sono giuste, vuoI dire che il materiali­smo di Marx non ha niente a che vedere con un riferimento alla materia e sarà così per moltissimo tempo, finché Engels si lancia nell'impresa di riu­nificare il marxismo con le scienze della natura del­la seconda metà del XIX secolo. Ma per il momen­to abbiamo a che fare con uno stqlOO «materiali­smo senza materia>~erc1"ìé~quest~ 't'~rmi~e ~ll~ra? ---"""Qili lo storico della filosofia riprende i suoi diritti, malgrado i colpi che Marx le ha inferto. Deve spiegare questo paradosso, e ciò lo porta anche a mostrare l'imbroglio che ne risulta (ma, ripetiamo, quest'imbroglio è tutto, salvo che essere arbitrario), Se Marx ha dichiarato che cambiare il mondo è un principio materialistico, cercando al contempo di differenziarsi da tutto il materialismo

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esistente (quello che egli chiama «antico» e che si basa precisamente sull'idea che ogni spiegazione ha per principio la materia: cosa che è anche una «interpretazione del mondo», e, in quanto tale, contestabile) è manifestamente per prendere in con­tropiede l'idealismo. La chiave della formulazione di Marx non risiede nella parola 'materialismo, ma nella parola idealismo. E di nuovo, perché?

Prima ragione: perché le interpretazioni ideali­stiche della naturà e della storia, proposte dai filoso­fi, invocano principi quali lo spirito, la ragione, la coscienza, l'idea ... E in pratica tali principi sfociano sempre non nella rivoluzione, ma nell'educazione (addirittura l'edificazione) delle masse, di cui preci­samente i filosofi si propongono generosamente di farsi carico. Dai tempi di Platone, essi volevano con­sigliare i prìncipi in nome della Città ideale. Nella nostra epoca democratica, vogliono educare i citta­dini (o «educare gli educatori» dei cittadini: i giudi­ci, i medici, i professori, sedendo, almeno moral­mente, alla sommità dell'edificio universitario) in nome della ragione e dell' etica.

Ciò non è falso, ma dietro questa funzione dell'idealismo si nasconde una difficoltà più temi­bile. Nella filosofia moderna (quella che trova il suo vero linguaggio con Kant), le categorie ch.~ esprimono l'universale - che si parli di coscienza, di spirito o di ragione - hanno sempre una doppia faccia. e le formulazioni di Marx nelle Tesi non cessano di alludervi. Esse combinano intimamente due idee: la rappresentazione e la soggettività. L'ori­ginalità e la potenza del grande idealismo (tedesco) è proprio nell' aver pensato in maniera sistematica questa combinazione.

È evidente che la nozione di «interpretazione», cui Marx si riferisce, è una variante dell'idea di rap-

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presentazione. Per !'idealismo qui criticato, il mondo . è 1'oggetto di una contemplazione che cerca di vede­re la sua coerenza, il suo «senso», e proprio attraver­so ciò, lo si voglia o no, imporgli un ordine. Marx ha visto benissimo che vi è una solidarietà tra il fatto di pensare un «ordine del mondo» (soprattutto a livello sociale e politico) e il fatto di valorizzare l'ordine nel mondo: contro l'«anarchia», ma anche contro il «movimento» (<<lo odio il movimento che sposta le linee», scriverà Baudelaire) ... Ha visto benissimo anche che, da questo punto di vista, i «materialismi antichi» o le filosofie della natura che sostituiscono la materia allo spirito come principio di organizzazione contengono un forte elemento di idealismo, e, al limite, non sono cosa diversa dagli idealismi mascherati (quali che siano, d'altra parte, le conseguenze politiche differentissime che ne traggo­no). E ciò ci consente di comprendere perché sia così facile per l'idealismo «comprendere» il materia­lismo e dunque rifiutarlo o integrarlo (come si vede in Hegel, che non ha alcun problema con i materiali­smi, salvo forse con Spinoza, ma Spinoza è un mate­rialista abbastanza atipico ... ). Egli ha visto infine che il cuore dell'idealismo moderno, post-rivoluzionario, ~ nel rinviare l'ordine del mondo, la «rappresenta­zione», alla attività di un soggetto, che li crea o, come si dice in linguaggio kantiano, li «costituisce».

Passiamo allora sull' altro versante dell'ideali­smo: non filosofia della rappresentazione (o, se si vuole, semplice filosofia del primato delle «idee»), ma filosofia della soggettività (cosa che esprime bene l'importanza decisiva assunta allora dalla n~~"QLcQscienZa). Marx ha pensato che l'attività soggettiva di cui parla t'idealismo è, in fondo, la traccia, la denegazione (il riconoscimento e il disco­noscimento ad un tempo) di un'attività più reale,

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più «effettiva», se si osasse dire: un' attività che sarebbe al contempo costituzione del mondo ester­no e formazione (Bildung) o trasformazione 'di sé. Lo testimonia l'insistenza in Kant, e ancor più in Fichte, del vocabolario dell'atto, dell'azione e del­l'attività (Tat, Ttitigkeit, Handlung) (è di qui in realtà che viene la «filosofia dell' azione» esaltata dai giova­ni hegeliani). Lo attesta la maniera in cui Hegel descrive il modo di essere della coscienza come una esperienza attiva, e la funzione del concetto come lavoro (<<il lavoro del negativo»). Insomma, non è difficile leggere negli aforismi di Marx l'ipotesi seguente: come il materialismo tradizionale nascon­de in realtà un fondamento idealistico (la rappresen­tazione, la contemplazione), così l'idealismo moder­no nasconde in realtà un orientamento materialisti­co 1).ell~ . .fuIl.zione che attrib.ui~ç~_;!LIiQggetto agente, se almeno si voglia ammettere che vi è conflitto latente tra l'idea di rappresentazione (interpretazio­ne, contemplazione) e quella di attività (lavoro, pra­tica, trasformazione, cambiamento). E l'obiettivo che Marx si è riproposto, è semplicemente quello di far scoppiare la contraddizione, di dissociare rap­presentazione e soggettività, e di far sorgere per se stessa la categoria di attività pratica.

IL SOGGETIO È LA PRATICA

È riuscito in questa impresa? Perfettamente in un senso: perché è del tutto sostenibile dire che il solo vero soggetto è il soggetto pratico, o il soggetto della pratica, o meglio ancora, che il soggetto non è cosa diversa dalla pratica, che è sempre già iniziata e prosegue indefinitamente. Ma si esce in tal modo dall'idealismo? Niente è meno certo, proprio per-

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ché l' «idealismo», storicamente parlando, ricopre al tempo stesso il punto di vista della rappresenta­zione e quello della soggettività. In realtà si tratta di un cerchio, o di uno svincolo teorico che funzio­na nei due sensi. È possibile dire che Marx, identi­ficando l'essenza della soggettività con la pratica, e la realtà della pratica con l'attività rivoluzionaria del proletariato (che fa corpo con la sua esistenza stessa), ha trasferito la categoria di soggetto dall'i­dealismo al materialismo. Ma è anche perfettamen­te possibile affermare che, con ciò, egli ha prepara­to la possibilità permanente di rappresentarsi il pro­letariato come un «soggetto», nel senso idealistico del termine (e, partendo di lì, al limite, come una rappresentazione o un'astrazione per mezzo della quale di nuovo si «interpreta» il mondo, o il cam­biamento del mondo: non è forse ciò che accadrà quando, più tardi, dei teorici marxisti armati dell'i­dea della lotta di classe ne dedurranno a priori il «senso della storia»?).

Questi giochi dialettici non sono affatto casua­li. Sono strettamente legati alla storia della nozione di rivoluzione e, di conseguenza, hanno un lato poli­tico e filosofico a un tempo. Dall'inizio del periodo moderno - quello delle rivoluzioni dette borghesi: anglo-americana e francese -:~.J:.;.tUJPnzjQtU:. del sog­getto1-com~_ ~ategoria ceIHrale della filosofia .he cofu::er~e tutti i campi-d~ll'esperrèuza.,""QReretft (li· scienz;;: r;-morale:-il diritto, la religione, l'estetica) e permette di unificarli, è legata all'idea che l'umanità si forma o si educa essa stessa, all'idea che essa si dà da sé le sue proprie leggi, e dunque, infine, all'idea che si libera da sé dalle diverse forme di o~ssio-,~J.gponinza o supersùzi'~ne,' IT!iseria:~~c. 9."EiÌ §9~~~2=~.iiè.~~-:-:4t~~LaiiiViiaha . sempre..due .fa.c.c.e; l'una teorica, 1'altra concreta e pratica, che in

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Kant era l'umanità, in Fichte diviene a un certo momento il popolo, la nazione, in Hegel infine, i popoli storici, che incarnano di volta in volta «lo spi­rito del mondo», cioè il movimento del progresso della civiltà.

Che Marx abbia riconosciuto a sua volta nel proletariato (abbiamo visto qui sopra che quest'ul­timo è il «popolo del popolo», autenticamente umano e comunitario) il vero soggetto pratico, quello che «dissolve l' ordÌné'esisténte»e cosÌ cam­l2.~eSso·(Selbsttijtigkeit, Selbstveriinderung) cambi~mdo il mondo; che infine si sia servito di questa constatazione (nella quale si sovrappongono in modo stupefacente la lezione dell'esperienza immediata e la tradizione speculativa più antica) per affermare a sua volta che il soggetto è la pratica, tutto ciò non esclude affatto lo stesso Marx, ben al contrario, dalla storia dell'idealismo. Fichte non aveva detto niente di diverso. Si potrebbe anche giungere a suggerire, senza giocare con le parole, che è ciò che fa di Marx e del suo «materialismo della pratica» la forma più compiuta della tradizio­ne idealistica, che permette di comprendere più di ogni altra la vitalità persistente dell'idealismo fino ai giorni nostri. Proprio perché questa trasposizio­ne è strettamente legata al tentativo di prolungare l'esperienza rivoluzionaria e di incarnarla nella società moderna, con le sue classi e i suoi conflitti sociali.

Ci si preparerebbe cosÌ a comprendere che l'adozione del punto di vista dei proletari in insur­rezione «permanente» non ha avuto tanto per risultato quello di metter fine all'idealismo, quanto piuttosto di installare il dilemma materiali­smo/idealismo - la questione sempre risorgente della loro differenza - nel cuore stesso della teoria

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del .... pr:Ql~l<lriato) e del suo ruolo storico privilegia­to. Ma con questo dilemma ci si può attendere qualsiasi filosofia, cacciata dalla porta, che rientra dalla finestra ...

LA REALTÀ DELL'«ESSENZA UMANA»

Ritorniamo alla lettera delle Tesi, per evocare l'al­tra grande questione che esse pongono, quella del­l'essenza umana. Le due sono, evidentemente, legate. «Feuerbach risolve l'essenza religiosa nel­l'essenza umana», cioè mostra, in particolare ne L'essenza del Cristianesimo del 1841, che l'idea di Dio non è altro che una sintesi delle perfezioni umane, personificata e proiettata fuori del mondo. «Ma l'essenza umana non è un'astrazione inerente l'individuo singolo. Nella sua realtà effettiva, essa è l'insieme dei rapporti sociali» (das ensemble der gesellschaftlichen Verhiiltnisse, scrive Marx in una sorta di misto franco-tedesco): questa frase della VI Tesi non ha fatto scorrere meno inchiostro del­l'XI. Molte cose vanno qui osservate, se ci si pren­de cura di seguire la lettera del testo.

Marx pone dunque la questione dell'essenza dell'uomo, o almeno risponde ad essa. Cosa di più naturale? Tuttavia, questa questione, che si può considerare costitutiva dell' antropologia, non va affatto da sé. In un certo senso, essa è vecchia quanto la filosofia. Ma quando, ai nostri giorni, Claude Lévi-Strauss spiega che l'essenza dell'uomo è il conflitto di natura e cultura, o quando Lacan forgia la parola «parlessere» per dire che l'essenza dell'uomo è costituita da parte a parte dallinguag­gio, essi si iscrivono nella stessa tradizione di Ari­stotele, che definiva l'uomo per la disposizione al

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linguaggio e per 1'appartenenza alla città, o di Sant'Agostino, che definiva l'uomo come «imma­gine e somiglianza di Dio in terra». E, d'altra par­te, se prendiamo le cose a un sufficiente livello di generalità, essi trattano tutti in realtà della stessa questione. Dall' antichità ai giorni nostri, vi è una lunga successione di definizioni della natura uma­na o dell'essenza umana. Lo stesso Marx ne pro­porrà diverse, che giréranno sempre intorno al rapporto tra lavoro e coscienza. Nel primo libro del Capitale IO citerà una definizione molto carat­teristica di Benjamin Franklin (l'uomo è «a tool­making animai», un essere vivente che fabbrica strumenti) non per rigettarla, ma per completarla, precisando che la tecnologia ha una storia, che dipende dal «modo di produzione», ricordando in seguito che non vi è tecnologia né progresso tecni­!;Q ~enza coscienza, riflessione, sperimentazione, sapete. E ne L'ideologia tedesca, all'indomani stes­so della formulazione che esaminiamo, avrà scrit­to: «Si possono distinguere gli uomini dagli ani­mali per la coscienza, per la religione e per tutto ciò che si vuole. Essi stessi cominciano a distin­guersi dagli animali dal momento in cui comincia­no a produrre i loro mezzi di esistenza, passo in avanti che è la conseguenza stessa della loro organizzazione corporea. Producendo i loro mezzi di esistenza, gli uomini producono indirettamente la loro vita materiale stessa ... ». Il che è una manie­ra di ricerc~re la risposta alla questione dell'essen­za dell'uomo nelle cose stesse, e che ha, d'altra parte, fornito il suo punto di partenza a tutta un' antropologia biologica e tecnologica, marxista o meno.

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ALTHUSSER

Louis Althusser (nato a Birmandreis, Algeria, nel 1918, morto a Pari­gi nel 1990) è oggi noto al grande pubblico più per le tragedie che hanno contrassegnato la fine della sua vita (uxoricidio, internamento psichiatricp: si veda la sua autobiografia L'avmir dure longtemps, StocklImec, Paris 1992) che per la sua opera teorica. Quest'ultima, tuttavia, ha occupato un posto centrale nei dibattiti filosofici degli anni Sessanta-Settanta, dopo la pubblicazione nel 1965 di Per Marx (Editori Riuniti Roma 1967) e del lavoro collettivo Lire le CapitaI, Maspero, Paris; trad. it. parziale, Leggere il Capitale_ Feltrinelli, Mila­no 1968). Appare allora, con Lévy-Strauss, Lacan, Foucault, Barthes, come una delle punte di lancia dello «strutturalismo». Nel prendere atto della crisi del marxismo, ma rifiutando di attribuirne la causa alla semplice dogmatizzazione, si impegna in una rilettura di Marx, Presa in prestito dall'epistemologia storica machelard) la nozione di «cesura epistemologica», interpreta la critica marxiana dell'economia politica come rottura con l'lImanesimo teorico e lo storicismo delle filosofie idealistiche (compreso HegeD e fondazione di una scienza della storia, le cui categorie centrali sono la «contraddizione surde­terminata» del modo di produzione e la «struttura a dominante>, del­le formazioni sociali. Tale scienza si oppone all'ideologia borghese, ma dimostra al tempo stesso la materialità e l'efficacia storica delle ideologie, definite come «rappono immaginario degli individui e del­le classi con le loro condizioni di esistenza». Come non vi è fine della storia, non potrebbe dunque aversi fine del­l'ideologia. Simultaneamente, Althusser propone una rivalutazione delle tesi leniniste sulla filosofia, che egli definisce come «lotta di classe nella teoria» (Lenin e lo filosofia, 1969, ed. it. Jaca Book, Mila­no 1972) e se ne serve per analizzare le contraddizioni tra «tendenze materialistiche» e «tendenze idealistiche» all'interno della pratica scientifica (Filosofia e filosofia spontanea degli scienzùJ!i, 1974, ed. it. De Donato, Bari 1976). In una fase ulteriore - int1uenzata dalla «rivoluzione culturale» cinese e dai movimenti del maggio 1968 -Althusser critica ciò che egli considera ormai come la «deviazione teoricistica» dei suoi primi saggi, che attribuisce all'int1uenza dello spinozismo a detrimento della dialettica (Elementi di ali/acritica, 1974, ed. it. Feltrinelli, Milano 1975). Nel riaffermare la differenza tra marxismo e umanesimo. abbozza una teoria generale dell'ideologia: essa «interpella gli iqdividui come soggetti» e si configura come sistema di istituzioni, ad un tempo pub­bliche e private, che assicura la riproduzione dei rapporti sociali (<<Ideologia e apparati ideologici di Stato», 1976, ed. it. Sull'ideo/agIO, Dedalo libri, Bari 1976).

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L'umanismo teorico

Tuttavia, una sfumatura, cruciale per comprendere la portata del nostro testo, separa il semplice fatto di definire l'uomo o la natura umana, dal fatto di porre esplicitamente la domanda «cos'è l'uomo?» (o «qual è l'essenza umana?») e, a fortiori, di farne la questione filosofica fondamentale. Si entra allor~ in una problematica nuova, che si può chiamare, con Althusser, umanesimo teorico.

Per quanto stupefacente possa apparire, una simile problematica è relativamente recente, e nel momento in cui Marx scrive, essa non è per niente vecchia, poiché data solo dalla fine del XVIII seco­lo. In Germania i nomi più importanti sono quelli di Kant (Antropologia dal punto di vista pragmatico, 1798), di Guglielmo Humboldt \I e di Feuerbach, e ciò mostra che la traiettoria dell'uma­nesimo teorico raggiunge quella dell'idealismo e del suo rifiuto. Il parallelo è illuminante. Vediamo infatti che Marx svolgerà verso le teorie rivali (spi­ritualistiche, materialistiche) della natura umana una critica dello stesso genere di quella che egli ha rivolto alle teorie del soggetto, dell' attività e del­l'intuizione sensibile. Dire che «nella sua realtà effettiva» (in seiner Wirklichkeit) l'essenza umana è l'insieme dei rapporti sociali, non è manifestamen­te rifiutare la questione. Ma è tentare di spostare radiçalmente il modo in cui, fino ad allora, essa è stata_compresa, non soltanto per ciò che concerne «l'uomo», ma, più fondamentalmente ancora, per ciò che concerne «l'essenza».

I filosofi si sono fatti un'idea sbagliata di ciò che è un'essenza (e quest'errore è a loro talmente ... essenziale che si può appena immaginare una

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,filosofia senza di ciò). Hanno creduto, in primo luogo, che l'essenza fosse un'idea, o un'astrazione (si direbbe ancora, in una terminologia differente, un concetto ~nt'versale), sotto il quale possono esse­re disposte, secondo un ordine di generalità decre­~cente, le differenze specifiche e infine le differen­ze individuali; e, in secondo luogo, che questa astrazione generica è in qualche modo «alloggiata» (inwohnend) negli individui dello stesso genere, sia come una qualità che possiedono, in base alla qua­le li si può classificare, sia anche come una forma o una potenza che li fa esistere come altrettante copie del medesimo modello.

Si vede allora cosa significhi la strana equazio­ne posta da Marx. In fondo, le parole «insieme», «rapporti» e «sociali» dicono tutti la stessa cosa. Si tratta di rifiutare, a un tempo, le due posizioni (dette realista e nominalista) tra cui si dividono tra­dizionalmente i filosofi: quella che vuole che il genere, o l'essenza, preceda l'esistenza degli in divi -dui, e quella che vuole che gli individui siano la realtà primaria, a partire dalla quale si «astraggo­no» gli universali. Perché, in modo stupefacente, né l'una né l'altra di queste due posizioni è capace di pensare ciò che vi èprgpJjQ .. diess.~nzia1e.nell:e~ .

-siStimZa.·UJJ;)_çlri~: le relazioni multiple e attiyç_ .. ch.~,.,&lj~ individui stabiliscono gli uni cOfl gli altri {çhe si frahidi linguaggio, di lavoro, di amore, di riprodu­zione, di dominio, di conflitti, ecc.), e il fatto che sono queste relazioni che definiscooo-CìÒ"cheessl' hanno in comune, il «genere». Esse lo definiscono, perché esse lo costituiscono ad ogni istante, sotto forme multeplici. Esse.JQ!:!1i~ç9n2 __ clllfl_ql,l~jl solo .. ~gntenuto «effettivo» dellanozion~,QL~s§ç]}~ applicat~ alJ'.uomo{cioè agli uomini).

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Il transindividuale

Non discutiamo qui sulla questione di sapere se questo punto di vista è assolutamente originale, proprio a Marx. Ciò che è certo, è che comporta conseguenze nel campo della discussione filosofica (a livello di ciò che si chiama «ontologia») 12 e in quello della politica. Le parole di cui Marx si serve rifiutano ad un tempo il punto di vista individuali­stico (primato dell'individuo, e, soprattutto, finzio­ne di un'individualità che potrebbe essere definita di per se stessa, isolatamente, in termini di biologia, o di psicologia, o di comportamento economico, ecc.) e il punto di vista organicistico (che si chiami anche al giorno d'oggi, sull' esempio degli anglosas­soni, punto di vista olistico: primato del tutto e in particolare della società, considerata come una unità indivisibile, di cui gli individui non sarebbero che i membri funzionali) 13. Né la «monade» di Hobbes e di Bentham, né il «grande essere» di Augusto Com te, di conseguenza. È significativo che Marx (che parlava francese quasi altrettanto correntemente del tedesco) sia qui andato a cerca­re questa parola straniera «ensemble», manifesta­mente per evitare l'impiego di das Ganze, il «tutto» o la totalità.

Forse le cose sarebbero più chiare nella forma (ma non nel fondo) se aggiungessimo, a nostra vol­ta, una parola al testo, inventandola se necessario, per caratterizzare questo concetto di relazione. costitutiva, che sposta la questione dell'essenza umana apportandole una risposta formale (e che, in tal modo, contiene in germe una problematica altra da quella dell'umanesimo teorico). La parola, infatti, esiste, ma in pensatori del XX secolo (Kojè­ve, Simondon, Lacan ... ): si tratta)!1,f~~E~. di pe~~!lE~,

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l'umanità cQme,JJna"realtilo,tumsindividt141.ct e, al 1i~iré;~'Jrpensare la transindividualità co~e tale 14,

Non ciò che è idealmente «in» ogni individuo (come una forma o una sostanza), o ciò che servi­rebbe, dall' esterno, a classificarlo, ma ciò che."esiste

_~!!:._&li in!!~~f~z:i~.p"er J~}?~'!~~) t.C:l?USUl1J~ra.~j9nL-.

UN'ONTOlOGIA DEllA RELAZIONE

Qui si abbozza, è giocoforza riconoscerlo, una «ontologia». Ma alla discussione sui rapporti tra individuo e genere essa sostituisce un programma di inchiesta su questa molteplicità di relazioni, che sono altrettante transizioni, trasferimenti o passag­gi nei quali si fa e si disfa il legame degli individui con la comunità e che, a sua volta, costituisce essi stessi. Infatti, ciò che più colpisce in una tale pro­spettiva è proprio il fatto che essa instaura una completa reciprocità tra questi due poli, che non possono esistere l'uno senza l'altro, e non sono, dunque, ciascuno per suo conto, che delle astra­zioni, ma che sono l'uno e l'altro necessari al pen­siero del rapporto o della relazione (Verhiiltnis).

A questo punto, che può apparire speculati-. vo, siamo al contrario molto vicini a ritrovare, attraverso un peculiare cortocircuito, la questione politica. Non soltanto, infatti, le relazioni di cui parliamo non sono nient'altro che pratiche diffe­renziate, delle azioni singole degli individui gli uni sugli altri. Ma quest' ontologia transindividuale comporta per lo meno una risonanza con enunciati come la Dichiarazione dei diritti dell' uomo e del cit­tadino (a torto considerata spesso come un testo «individualista») e, ancor più, con la pratica dei movimenti rivoluzionari: una pratica che non oppo-

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"le mai la realizzazione dell'individuo agli interessi ::Iella comunità, che non li separa neanche, ma che cerca sempre di realizzare l'uno attraverso l'altro. Perché, se è vero che solo degli individui possono essere, in ultima analisi, portatori di diritti e for­mulare rivendicazioni, la conquista di questi diritti o la liberazione (l'insurrezione, persino) è non meno necessariamente collettiva.

Probabilmente si dirà che questa formulazione non descrive uno stato di cose esistente, ancor meno un sistema di istituzioni, ma piuttosto un processo (almeno come lo vivono coloro che vi prendono par­te). Ma è esattamente ciò che Marx vuoI dire. E si comprende, in queste condizioni, che la VI Tesi, che identifica l'essenza umana con «l'insieme dei rappor­ti sociali», e la III, la VII, o la IX, che subordinano tutto il pensiero alla pratica rivoluzionaria e al cam­biamento, dicono in realtà fondamentalmente la stessa cosa. Osiamo dunque la parola: i rapporti sociali qui designati non sono altro che un'incessante trasformazione, una «rivoluzione permanente» (l'e­spressione non è stata certo inventata da Marx, ma giocherà un ruolo decisivo nel suo pensiero fino al 1850). Per il Marx del marzo 1845 non è abbastanza dire, con Hegel, che «il reale è razionale» e che il razionale necessariamente si realizza: bisogna dire <;.he non vi è reale, e razionale, se non la rivoluzione.

L OBIEZIONE DI STIRNER

Cosa chiedere di più? Ho detto prima, tuttavia, che Marx non poteva fermarsi là: è ciò che occorre ora comprendere. Non si giungerebbe a ciò se ci si accontentasse di mostrare che, sostituendo la prati­ca al soggetto, si genera un cerchio, una difficoltà

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logica, o che la nQzione di essenza rischia di trovar­si squilibrata, tra la critica interna dell' ontologia tradizionale e la sua dissoluzione nella molteplicità delle inchieste concrete sui rapporti sociali. I.:ideo­logia tedesca, senza dubbio, è un testo molto vicino per ispirazione alle Tesi su Feuerbach: e tuttavia, essa parla già un altro linguaggio. Le ragioni for­mali che abbiamo or ora evocato non bastano a spiegarlo.

Credo vi sia per questo una ragione ben pre­cisa, congiunturale, ma che è servita da rivelatore ad una difficoltà di fondo. Alcuni storici del pen­siero di Marx (in special modo Auguste Cornu) l'hanno vista bene, ma molti l'hanno ignorata o sottovalutata, specie perché generalmente si legge solo la prima parte del testo (1. Feuerbach), che una lunga tradizione ci ha abituato a considerare come un'esposizione autonoma del «materialismo stori­co», mentre si tratta, per l'essenziale, di una rispo­sta, e di una risposta spesso malagevole (ogni letto­re l'avrà appreso a sue spese) alla sfida di un altro teorico. Questo teorico, del quale sarebbe ora di misurare la potenza, è Max Stirner (pseudonimo di Caspar Schmidt), autore de L'Unico e la sua pro­prietà, pubblicato alla fine del 1844 15: ma è qual­che mese più tardi, all'indomani stesso della reda­zione delle Tesi, e per l'insistenza di Engels, che Marx ha cominciato a sbattere la testa su L'Unico.

Chi è dunque Stirner, dal punto di vista teori­co? È, prima di tutto, un anarchico, difensore del­l'autonomia della società, composta di individui che sono tutti singoli, «proprietari» del loro corpo, dei loro bisogni e delle loro idee, a fronte dello Stato moderno, nel quale si concentra, a suo pare­re, ogni dominio e che ha ripreso, a proprio van­taggio, gli attributi sacri del potere elaborati dalla

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teologia politica del Medioevo. Ma, soprattutto, Stirner è un nominalista radicale: intendiamo con ciò che per lui ogni «generalità», ogni «concetto universale», è una finzione forgiata da alcune isti­tuzioni per «dominare» (organizzandola, classifi­candola, semplificandola, addirittura semplice­mente nominandola) la sola realtà naturale, cioè la molteplicità degli individui in cui ciascuno è «uni­co nel suo genere» (da cui il gioco di parole di Stir­ner, che ha d'altra parte una lunga ascendenza: il proprio di ciascuno è la sua proprietà).

Si è visto poco fa che Marx sta sviluppando una nozione di rapporto sociale che, in principio almeno, mette schiena contro schiena nominalismo ed essenzialismo. Ma la critica di Stirner è per lui temibile, perché non si accontenta di mirare ai «generi» metafisici tradizionali (tutti più o meno teologici: l'Essere, la Sostanza, l'Idea, la Ragione, il Bene ... ), essa ingloba tutte le nozioni universali, senza eccezione, anticipando in tal modo alcuni sviluppi di Nietzsche e di quel che si chiama oggi «postmodernismo». Stirner non vuoI saperne di nessuna credenza, di nessuna Idea, di nessuna «grande narrazione»: né di quella di Dio, né di quella dell'Uomo, né di quella della Chiesa, né di quella dello Stato, ma neppure, decisamente, di quella della Rivoluzione. E, infatti, non vi è diffe­renza logica tra la cristianità, l'umanità, il popolo, la società, la nazione o il proletariato, non più che tra i diritti dell'u:omo e il comunismo: tutte queste nozioni universali sono effettivamente delle astra­zioni, cosa che significa, dal punto di vista di Stir­ner, delle finzioni. E queste finzioni sogliono sosti­tuirsi agli individui e ai pensieri degli individui: è per questo che il libro di Stirner non cesserà di ali­mentare le critiche di sinistra o di destra, che spie-

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gano che gli uomini non guadagnano nulla a scam­biare il culto dell'umanità astratta con quello della rivoluzione o della pratica rivoluzionaria, del tutto astratta, e che forse corrono il rischio di un domi­nio ancor più perverso.

È certo che Marx ed Engels non hanno potu­to eludere questa obiezione. Perché essi si reputa­vano a un tempo critici dell'idealismo, dell'essen­zialismo dei filosofi, e comunisti (più esattamente, dei comunisti umanistici). Abbiamo visto che que­sta duplice prospettiva era al centro della categoria che era apparsa a Marx come la «soluzione» degli enigmi della filosofia: la pratica rivoluzionaria. Come dunque ha risposto a questa sfida? Trasfor­mando la sua nozione simbolica di «praxis» in un concetto storico e sociologico di produzione, e ponendo una questione senza precedenti in filoso­fia (anche se il termine non è assolutamente nuo­vo): la questione dell'ideologia.

L'IDEOLOGIA TEDESCA

Questi due movimenti sono, beninteso, stretta­mente connessi. L'uno presuppone costantemente l'altro, ed è proprio questo che dà coerenza intelc lettuale all'Ideologia tedesca, a dispetto della sua redazione incompiuta e squilibrata (il capitolo III su Stirner, «San Max», ne occupa da solo quasi due terzi, e consiste in buona parte in un certame verbale con l'argomentazione tipicamente <<ironi­ca» de L'Unico e la sua proprietà, il cui risultato, sotto il punto di vista strettamente retorico, è abbastanza incerto) 16. L'opera si organizza tutta quanta intorno alla nozione di produzione, presa qui in un senso generale, per designare ogni atti-

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vità umana di formazione e di trasformazione della natura. Non è esagerato dire che, dopo f<~;;ntolo­gia della praxis» annunciata nelle Tesi, l'Ideologia tedesca espone una «ontologia della produzione», poiché - è lo stesso Marx a dircelo - è la produzio­ne che forma l'essere dell'uomo (Sein, cui egli opporrà la sua coscienza: Bewusst-sein, letteral­mente «essere cosciente»). Più esattamente, è la produzione dei propri mezzi di esistenza, attività ad un tempo personale e collettiva (transindividua­le) che lo trasforma nel mentre che essa trasforma irreversibilmente la natura, e che così costituisce «la storia».

Ma, reciprocamente, Marx mostrerà che l'i­deologia è essa stessa prodotta, prima di costituirsi in una struttura autonoma di produzione (i cui «prodotti» sono le idee, la coscienza collettiva: è l'oggetto della teoria del lavoro intellettuale). La critica dell'ideologia è il presupposto necessario di una conoscenza dell'essere sociale come sviluppo della produzione: dalle sue forme immediate, lega­te alla sussistenza degli individui, fino alle sue for­me più mediate, che giocano solo un ruolo indiret­to nella riproduzione della vita umana. Per accede­re a questo filo conduttore di tutta la storia, non basta contemplare i fatti, occorre passare per la cri­tica dell'ideologia dominante, perché essa è al con­tempo un'inversione del reale e una autonomizza­zione dei «prodotti intellettuali», nella quale la traccia dell'origine reale delle idee è stata perduta, e che nega l'esistenza stessa di questa origine.

Ecco perché parlavo di presupposizione reci­proca. Ma, al tempo stesso, può essere rigettata l'o­biezione di Stirner: poiché non si tratta più di denunciare 1'astrazione degli «universali», delle «generalità», delle «idealità», mostrando che essa

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si sostituisce agli individui reali; ma diviene possi­bile studiare la loro genesi, la loro produzione attraverso gli individui, in funzione delle condizio­ni collettive o sociali nelle quali essi pensano e si rapportano gli uni agli altri. In tal modo, invece di girare indefinitamente nel tutto o niente (accettare o rigettare tutte le astrazioni in blocco), si dispone di un criterio che permette di discernere le astra­zioni che rappresentano una conoscenza reale da quelle che hanno solo una funzione di misconosci­mento e di mistificazione. Meglio ancora: di discer­nere le circostanze in cui l'uso di astrazioni è misti­ficatore o meno. Il nichilismo, inerente alla posi­zione di Stirner, si trova così scongiurato sin dall'i­nizio, senza che tuttavia sia rimessa in discussione la necessità di una critica radicale delle idee domi­nanti. Tutt'al contrario.

ROVESCIAMENTO DELLA STORIA

L'esposizione dell'Ideologia tedesca si presenta dunque come una genesi, ad un tempo logica e sto­rica, delle forme sociali, il cui filo conduttore è lo sviluppo della divisione del lavoro. Ogni nuova tappa della divisione del lavoro caratterizza un cer­to modo di produzione e di scambi. Donde una periodizzazione che deve, ben inteso, farci pensare fortemente alla filosofia hegeliana della storia. Piuttosto che di una semplice narrazione delle tap­pe della storia universale, si tratta, infatti, (come in Hegel) dei momenti tipici del processo attraverso il quale la storia si è universalizzata, è divenuta una storia dell'umanità. Tuttavia, il contenuto dell'e­sposizione è agli antipodi dello spirito oggettivo hegeliano. Perché questa universalizzazione non

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consiste nella formazione di uno Stato di diritto che estende razionalmente i suoi poteri su tutta la società e che, in cambio, ne «totalizza» le attività. Una simile universalità giuridico-statale apparirà, al contrario, a Marx come l'inversione ideologica per eccellenza dei rapporti sociali. Si tratta, piutto­sto, del fatto che la storia è divenuta l'interazione, l'interdipendenza dr-iuTti gli individui. e di tutti i gruppi che appartengono all'umanità.

L'erudizione di Marx, già grande a quest'epo­ca, è messa in campo per mostrare che la contro­partita della divisione de1lavoro è l'evoluzione delle forme di proprietà (dalla proprietà comunitaria, o statutaria, fino alla proprietà privata formalmente accessibile a tutti)~QQQ~Kp,ço_~.­~ma..S.1Qrjca:.;.dLappropri.azione . .e di pro­.prietà,che ne. è semplicemente l'altra faccia. E, di c~ns~guenza, la divisione dellavof() è il. principiQ stess2-della costituzione ,e della ~i.s.soJJlzionedei gruppi s.ociaJi, sempre più vasti, sempre meno <<naturali», dalle comunità primitive fino alle classi, passando attraverso i differenti statuti, corporazioni, ordini O stati (Stlinde) ... Ciascuno di questi gruppi, «dominante» o «dominato», deve essere compreso, insomma, come una realtà a doppia faccia, contrad­dittoria: come una forma di universalizzazione rela­tiva e, al tempo stesso, come una forma di limitazio­ne o di particolarizzazione dei rapporti umani. La loro serie non è, dunque, cosa diversa dal grande processo di negazione della particolarità e del parti­colarismo, ma attraversa l'esperienza e la realizzazio­ne completa delle loro forme.

li punto di partenza dello sviluppo era 1'atti­vità produttiva degli uomini alle prese con la natu­ra: è ciò che Marx chiama il presupposto reale (wirkliche Voraussetzung), sul quale insiste lunga-

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mente, contro le illusioni di una filosofia «senza presupposti». Quanto al punto di arrivo, è la società civile-borghese (biirgerliche Gesellschaft) fondata sulle differenti forme di commercio (Verkehr, che si potrebbe tradurre anche con «comunicazione») tra proprietari privati concor­renti gli uni con gli altri. O, piuttosto, il punto di arrivo è la contraddizione che tale società occulta. Perché l'individualità, posta come un assoluto, equivale in pratica, per la massa, ad una precarietà o «contingenza» assoluta delle condizioni di esi­stenza, così come la proprietà (di sé, degli oggetti) equivale qui ad uno spossessamento generalizzato.

Una delle grandi tesi dell'Ideologia tedesca, proveniente direttamente dalla tradizione liberale, ma ritorta contro di essa, è che la società «borghe­se» si costituisce irreversibilmente a partire dal momento in cui le differenze di classe prevalgono su tutte le altre e praticamente le cancellano. Lo Stato stesso, per quanto ipertrofico appaia, ne è solo una funzione. È in questo momento che giun­ge al culmine la co'titraddizione tra particolarità e universalità, cultura e abbrutimento, apertura ed esclusione, mentre diviene esplosiva la contraddi­zione tra ricchezza e povertà, circolazione univer­sale dei beni e restrizione del loro accesso, produt­tività apparentemente illimitata del lavoro e ingab­biamento del lavoratore in una ristretta specializza­zione ... Ogni individuo, per quanto miserabile sia, è divenuto virtualmente un rappresentante del genere uma,[lQ..e la funzione di ogni gruppo si defi­iiIsce'susc3.Ia mondiale. La storia è, allora, s.ul pun­d \!S.çir~ dalla 'propria.«preistoria~~, ----ruit~·Tllrgomentazione dell' Ideologia tedesca

tende infatti a mostrare che questa situazione è, in quanto tale, insostenibile, ma che, per lo sviluppo

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della sua propria logica, essa contiene le premesse di un rovesciamento (Umwiilzung), che equivarreb­be semplicemente alla sostituzione del comunismo alla società civile-borghese. Il passaggio al comuni­illl.Q. è1 dunQue, immin.eJtie.,-dal momento in cui le forme eJe contraddizioni della società civile-bor­gh~.$e 50nO.CQmpÌetamente· sviluppat.~::JnIaùi, la società nella quale gli scambi sono divenuti univer­sali è anche una società nella quale «le forze pro­duttive sono sviluppate fino allo stadio della loro totalità». Da un capo all' altro della storia, le «forze produttive» sociali, che si esprimono in tutti i cam­pi, dalla tecnica alla scienza e all' arte, sono sempre e soltanto quelle dei molteplici individui. Ma esse sono oramai inoperanti in quanto forze di indivi­dui isolati, possono formarsi ed esercitarsi soltanto in una rete virtualmente infinita di interazioni tra gli uomini. La «soluzione» della contraddizione non può consistere in un ritorno a forme più «limi­tate» dell'attività e della vita umane, ma unicamen­te in un QruÙ:Qn~iamento colle~tiv()Qella«J()taH.tà". deIIetOr;e oroduttive». ~_ .. _.~ .. ____ .t:.~._ ,_o _.,_,_.~ •• ~,-"~.~,-••••

Il proletariato, classe universale

Tutto ciò può dirsi ancora in modo diverso: il pro­letariato costituisce la classe universale della storia, idea che non ha trovato da nessuna parte in Marx espressione più articolata e più completa che in questa sede. L'imminenza della trasformazione rivoluzionaria e del comunismo si basa infatti su questa perfetta coincidenza, in un medesimo pre­sente, dell'universalizzazione degli scambi e - di contro alla classe borghese che ha elevato l'interes­se particolare come tale all'universalità - di una «classe» che, al contrario, non ha nessun interesse

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_.M!"JjSQJ~Xe. . .d~>.c:ii.f~.ndere- Privato da ogni statuto come da ogni proprietà, dunque da ogni «qualità particolare» (Eigenschaft), il proletario le possiede virtualmente tutte. Non esistendo praticamente più attraverso se stesso, esiste virtualmente attra­verso tutti gli altri uomini. Osserviamo che «senza proprietà» si dice in tedesco eigentumslos. È impossibile non intendere qui, a dispetto dei sarca­smi che Marx indirizza a Stirner, lo stesso gioco di parole di cui quest'ultimo si era servito e aveva abusato: ma rovesciato in senso opposto, contro la «proprietà privata». «Solo i proletari del tempo presente, del tutto esclusi da ogni manifestazione personale, sono in grado di giungere alla loro com­pleta e non più limitata manifestazione personale, che consiste nell' appropriazione di una totalità di forze produttive e nello sviluppo, da ciò condizio­nato, di una totalità di facoltà» 17. L'universalità negativa si rovescia in universalità positiva, lo spos­sessamento in appropriazione, la perdita di indivi­dualità in sviluppo «multilaterale» degli individui, ciascuno dei quali è una molteplicità unica di rela­zioni umane.

Una simile riappropriazione può, dunque, aver luogo per ciascuno, solo a condizione che essa sia tale simultaneamente per tutti. «Gli scambi uni­versali moderni possono essere subordinati agli individui solo se sono subordinati a tutti». È per questo che la rivoluzione non è comunista. solo nel suo risultato, ma anche nella sua forma" Si dirà che essa deve inevitabilmente rappresentare una dimi­nuzione di libertà per gli individui? Al contrario, essa è la vera liberazione. Perché la società civile­borghese distrugge la libertà nel momento stesso in cui la proclama come principio. Mentre nel comu­nismo, che ne è il rovesciamento, la libertà diviene

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~ffettiva, perché risponde ad una necessità intrin­;eca, le cui condizioni sono state create da questa ;ocietà stessa. «Al posto della vecchia società civi­e-borghese, con le sue classi e i suoi antagonismi :li classe», annuncerà il Manzfesto, «sorge un'asso­ja 2; ione dove il libero sviluppo di ciascuno è il ibero svi!~Q.o di tyUi».···" .>

---ra tesi del proletariato «classe universale» :ondensa, così, gli argomenti che permettono a \1arx. di presentare la condizione operaia, o, piut­:osto, la condizione del lavoratore salariato,come l compimento di tutto il processo di divisione del avoro, la «decomposizione» della società civile 18.

:!.ssa permette anche a Marx di leggere a prima lista, nel presente, l'imminenza della rivoluzione :omunista. Il «partito» con questo nome di cui con :!.ngels, egli redige allora il Manzfesto, non sarà un Jartito «distinto», non avrà «interessi che [lo] ieparino dall'insieme del proletariato», non stabi­irà «principi particolari»: ma sarà semplicemente luesto movimento reale giunto a maturità, divenu­o manifesto per se stesso e per la società intiera .

.'uNITA DELLA PRATICA

liene abbozzata nello stesso tempo una teoria che - se si difende energicamente dall' accusa di essere ma filosofia - rappresenta, tuttavia, una nuova )artenza nella filosofia. Marx è uscito dalI' «uscita». via non è semplicemente rientrato a casa ... Lo si mò comprendere evocando una vecchissima posta n gioco del pensiero dialettico. Come ho detto pri­na, se la nozione di praxis o di pratica rivoluziona­ia dichiarava, con impareggiabile nettezza, che la trasformazione del mondo» ha congedato ogni

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filosofia essenzialistica, nondimeno essa era suscet­tibile paradossalmente di presentarsi come un altro nome dell'essenza umana. Questa tensione si accentua con la produzione, quale l'analizza ora Marx. Non solo perché vi è tutta una storia empiri­ca della produzione (che obbligherà il filosofo a farsi economista, storico, tecnologo, etnologo ... ), ma soprattutto perché Marx ha sgomberato il cam­po da uno dei più vecchi tabù della filosofia: la distinzione radicale tra praxis e poiesis.

A partire dalla filosofia greca (che ne faceva il privilegio dei «cittadini», cioè dei padroni), la praxis era l'azione «libera», nella quale l'uomo non realizza e non trasforma nient' altro che se stesso, cercando di raggiungere la sua propria perfezione. Quanto alla poiesis (dal verbo poiein: farelfabbri­care), che i Greci consideravano come fondamen­talmente servile, era l'azione «necessaria», sotto- . messa a tutti i vincoli del rapporto con la natura, con le condizioni materiali. La perfezione che essa ricerca non è quella dell'uomo, ma quella delle cose, dei prodotti d'uso.

Ecco dunque il fondo del materialismo di Marx ne L'ideologia tedesca (che è effettivamente un materialismo nuovo): non una mera inversione della gerarchia, un «operaismo teorico», se oso dire (come gli rimprovereranno Hannah Arendt e altri 19), cioè un primato accordato alla poiesis sulla praxis in ragione del suo rapporto diretto con la materia, ma l'identificazione delle due, la tesi rivo­luzionaria secondo la quale la praxis passa costan­temente nella poiesis, e reciprocamente. Non vi è mai libertà effettiva che non sia anche una trasfor­mazione materiale, che non si iscriva storicamente nell' esteriorità, ma non vi è mai neppure lavoro che non sia una trasformazione di sé, come se gli uomi-

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ni pote~.!'.QS~J}1~~re le 10ro.~Qnd~­'za'conselVando un' <Zis'seriia» invatiante.

Ora, una simile tesi non p~ò ~~'stare senza effetto sul terzo termine del trittico classico: la theoria o «teoria» (con cui tutta la tradizione filo­sofica classica continuava a intendere il senso eti­mologico di contemplazione). Le Tesi su Feuerba­ch avevano rigettato ogni contemplazione e identi­ficato il criterio della verità con la pratica (tesi II). In contropartita dell'equazione «pratica = produ­zione» che si stabilisce ora, L'ideologia tedesca fa un passo decisivo: identifica la theoria con una «produzione di coscienza». Più esattamente, con uno dei termini della contraddizione storica cui dà luogo la produzione di coscienza. Questo termine è proprio l'ideologia, seconda innovazione di Marx nel 1845, attraverso cui propone in qualche modo alla filosofia di guardarsi nello specchio della prati­ca. Ma poteva essa riconoscersi?

NOTE

l Ai quali bisogna aggiungere l'insieme delle note di let­tura pubblicate dalla nuova Marx-Engels Gesamt-Ausgabe (voi IV /2, Berlin 1981). Il testo, conosciuto sotto il titolo di Okono­misch-philosophische Manuskripte, è infatti un assemblaggio delle parti più «redatte» di questo cantiere. Trad. it. in Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano della Volpe, Editori Riu­niti, Roma 1950.

2 Pubblicate nel 1886 nella Neue Zeit da Engels, che le riprodusse in appendice al suo Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888). Trad. it. di Palmi­ro Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1950.

} Anch'essa pubblicata postuma nel 1932. La prima par­te, intitolata di nuovo «Feuerbach», non avrebbe tardato a pas-

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sare come la più sistematica esposizione del «materialismo sto­rico», se si fa astrazione proprio dalle opere di Engels.

• KARL MARX, Les Thèses sur Feuerbach, Puf, colI. «Philo­sophies», Paris 1987. Labica fornisce, oltre alla sua traduzione in francese, anche le due versioni tedesche.

, LUDWIG FEUERBAcH, L'essenza del cristianesimo, Feltri­nelli, Milano 1971. Cfr. anche, L. FEUERBAClI, Manifestes philo­sophiques, textes choisis (1839-1845), trad. di Louis Althusser, Puf, Paris 1960.

" «Discorso al congresso degli scrittori» (1935), in ANDRt BRETON, Mani/estes du su"éalisme, edizione completa,J.-J. Pau­vert, Paris 1962.

7 E specialmente, in Francia, agli studi di Michel Espa­gne e Gérard Bensussan su Moses Hess, il futuro teorico del sionismo, allora socialista molto vicino a Marx ed Engels, che hanno condiviso con lui la scoperta del comunismo come «enigma risolto della storia». Cfr. GtRARD BENsussAN, Moses Hm, la philosophie, le socia/isme (1836-1845), Puf, Paris 1985; MOSES HESS, Die europiiische Triarchie, Leipzig 1841.

8 Cfr. JACQUE.~ GRAND]ONC, Communisme I Kommunismus I Communism, origine et développement international de la ter­minologie communautaire prémarxiste des utopistes aux néoba­bouvistes, 1785-1842, 2 volI., Schriften aus dem Karl:Marx­Haus, Trier 1989.

• Cfr. KANT, Risposta alta domanda: che cos'è !'illumini­smo?, in Scritti politici e di filosofia delta storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Utet, Torino 1965.

lO K. MARX, Il Capitale, Ed. Riuniti, Roma 1967, Libro I, capitolo V, «Processo di lavoro e processo di valorizzazione», p.214.

Il Humboldt aveva fondato nel 1810 l'Università di Berli­no che porta oggi il suo nome. Le sue principali monografie lin­guistiche e filosofiche appaiono dopo la sua morte avvenuta nel 1835 (cfr. la sua introduzione all'opera, rimasta incompiuta, scritta tra il 1830 e il 1835, Sulla lingua kawi dell'isola di Giava).

12 Termine coniato nel XVII secolo per designare ciò che Aristotele aveva chiamato la «scienza dei principi primi e delle cause prime», e che egli identificava con una riflessione sull' «essere in quanto essere» (on e on) distinta dallo studio dei generi di esseri particolari.

H Cfr. LOUIS DUMoNT, Homo aequalis l. Genèse et épa­nouissement de l'idéologie économique, Gallimard, Paris 1977, secondo il quale Marx, «a dispetto delle apparenze [ ... ] è essen­zialmente individualista». Ad una conclusione simile, partendo

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, d d'f'" ].\ E'" d . pero a premesse l lerentl, gIUngono OIlN LSTER, uno et principali rappresentanti del «marxismo analitico» (Making Sense of Marx, Cambridge 1985), e ]ACQUES BIDET, Teoria della modernità, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1991.

\. Si veda in particolare GILlIERT SIMONDON, L'indivldua­tion psyehique et eolteetive, Aubier, Paris 1989.

" MAX STlRNER, L'Unico e la sua proprietà, trad. L. Amo­roso, Adelphi, Milano 1979.

\6 K. MARX, F. ENGELs, L'ideologia tedesca. Critica delta più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, trad. di F. Codino, Introduzione di Cesare Luporini, Editori Riuniti, III edizione, Roma 1969.

\7 L'ideologia tedesca, op. cit., p. 64 \8 «Una classe che ha il medesimo interesse in tutte le

nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso» (L'ideologia tedesca, op. cit., p. 51).

\0 HANNAII ARENDT, The Human Condi/ion, tradotto in Italia col titolo Vita activa, a cura di S. Finzi, Bompiani, Milano 1989. Cfr. un commento di ANDRÉ TOSEL, «Matérialisme de la production, matérialisme de la pratique: un ou deux paradig­mes?» in L'Esprit de scission. Études sur Marx, Gramsci, Lukdcs, Université de Besançon, Diffusion Les Beli es Lettres, Paris 1991. Si veda anche: A. Tosa «Materialismo della produzione, materialismo della pratica: uno o due paradigmi?», in GIORGIO BARATTA, EMILIA GIANCOTTI, LAURA PICCIONI (a cura di) Attualità di Marx - Atti del Convegno di Urbino, 22-25 novembre 1983, Unicopli, Milano 1986, pp. 381-404.

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III. IDEOLOGIA E FETICISMO: IL POTERE E LA SOGGEZIONE

In questo capitolo abbiamo di nuovo diverse cose da fare. Da una parte, riprendere la discussione sulle tesi avanzate da Marx ne L'Ideologia tedesca, in modo da esplicitare il nesso che si è istituito tra una concezione della storia fondata sulla produzione, e un' analisi dell' effetto di dominio ideologico nell' ele­mento della coscienza.

Ma, d'altra parte, - poiché nulla è semplice -dobbiamo comprendere le poste in gioco di una strana oscillazione del concetto di ideologia. Con) trariamente a quanto immagina un lettore d' o~t per il quale questa nozione è divenuta cyrtente (nello stesso momento in cui, d'altronde, 1 suoi usi si sono dispersi in mille sensi ... ), e che si aspette­rebbe probabilmente che, una volta inventata, essa si sia sviluppata senza soluzione di continuità, le cose non sono andate affatto così. Benché non abbia smesso di descrivere e criticare delle «ideolo­gie» particolari, Marx, dopo il 1846, e in ogni caso dopo il 1852, non ha più impiegato questo termine (che' sarà riesumato da Enge1s venticinque anni dopo nelle opere che segnano la sua entrata in sce­na nella storia del marxismo: l'Antidiihring, 1878, Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filoso­fia classica tedesca, 1888). Ciò non vuoI dire, tutta­via, che siano puramente e semplicemente scom­parsi i problemi aperti sotto il nome di ideologia: ~ranno ripresi sotto il nome di feticis~oJllustrato da u~a~so del CfJpjl.a,k.Non si tratta però di ùna mera variante terminologica, ma di un' alter-

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nativa teorica, le cui poste in gioco filosofiche sono innegabili. Nel momento in cui esploriamo la pro­blematica dell'ideologia ci occorrerà cercare di comprendere quali ragioni abbiano spinto Marx a sostituirle, almeno parzialmente, un' altra.

TEORIA E PRATICA

La filosofia, manifestamente, non perdona a Marx l'ideologia. Non si stanca di mostrare incessante­mente che si tratta di un concetto mal costruito, che non ha significato univoco e che pone Marx in contraddizione con se stesso (non è difficile: basta porre fianco a fianco la condanna senza appello delle illusioni e speculazioni della coscienza bor­ghese, che Marx pronuncia in nome della scienza della storia, e il mostruoso stratò di ideologia che si è costruito sui nomi di proletariato, comunismo e marxismo!). Tuttavia, essa vi ritorna senza posa: come se, per il solo fatto di aver introdotto questo nome, Marx le avesse posto il problema di cui essa deve rendersi padrona per restare ancora filosofia l.

Ritornerò più avanti su questo punto. Per il momento, cerchiamo di mostrare come si è costruita la problematica dell'ideologia in Marx. Ora, l'esposizione de I.:Ideologia tedesca, come ho già indicato, è, a questo riguardo, non solo ingar­bugliata, ma anche ingannatrice: rovescia l'ordine nel quale il testo è stato redatto, relegando la parte polemica in un secondo tempo, e proponendo come inizio lo sviluppo genetico il cui filo condut­tore è la storia della divisione del lavoro. Sembra, allora, che il concetto di ideologia provenga effetti­vamente da una derivazione della «sovrastruttura» (l'espressione è impiegata almeno una volta) a par-

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tire dalla «base» costituita dalla «vitareale», la produzionè:'ressenziàle"ne sar~b'b~ ~-~; tèòrla' del­la coscienza sociale (Bewusstsein). Si tratterebbe di comprendere come essa possa, a un tempo, restare dipendente dall'essere sociale (Sein), pur autono­mizzandosi sempre di più rispetto ad esso, fino a far sorgere un «mondo» irreale, fantastico, cioè dotato di un'apparente autonomia, che si sostitui­sce alla storia reale. Donde uno scarto costitutivo tra la coscienza e la realtà, che un nuovo sviluppo storico, rovesciando il precedente, verrebbe final­mente a riassorbire, reintegrando la coscienza nella vita. Sarebbe dunque, per l'essenziale, una teoria del misconoscimento o dell'illusione, l'inverso di una teoria della conoscenza.

Ma se si può, con Marx, tentare in tal modo di descrivere l' «essere» della coscienza ideologica (e non sarebbe molto difficile, allora, trovare molti precedenti filosofici di una tale descrizione - da cui la tentazione di utilizzarli per arricchirla e superarne le difficoltà), non è in tal maniera che si possono comprendere gli obiettivi che egli perse­guiva. Non si renderà certo ragione delle particola­rità della sua deduzione, delle funzioni supplemen­tari (epistemologiche, politiche) che vi ha incorpo­rato strada facendo.

Occorre, dunque, risalire un po' al di qua del­la redazione che ci viene proposta. Si vede allora che la problematica dell'ideologia sorge al punto d'incontro di due questioni distinte, entrambe insi­stenti nelle opere degli anni precedenti. Da un lato, l~ potenza de..fkidee~-p'Ot.erJ.;U...xe.ak... .. ma.p.ara.

·;~:~~~fl~i:;~?;~lair;1i!~;:t;!~:~ ~~f)-,tmfJiJ.,:f}Nirsi 2. Dall' altro, l'astra'l,ione, cioè, come abbiamo visto, la filosofia (ma che

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occorre intendere in senso ampio, includendovi tutto il discorso liberale, il «razionalismo» o il «pensiero critico» che si sviluppano ora· nel nuovo spazio dell' opinione pubblica e della democrazia, pretendendo di rappresentarli).

Stirner fa precipitare - con la sua insistenza sulla funzione di dominio che le idee generali svol­gono - la combinazione di questi due temi. Stirner porta alle estreme conseguenze la tesi dell'idea!i­smo: quella dell'onnipotenza delle idee che «guida­no il mondo». Ma rovescia il giudizio di valore che essa implicava. In quanto rappresentazioni del sacro, le idee non liberano, ma opprimono gli indi­vidui. In tal modo Stirner porta al culmine la dene­gazione delle potenze reali (politiche, sociali), ma costringe ad analizzare per se stesso il nodo delle idee e del potere. A questa questione .,Marx darà, per la prima volta nella storia della filosofia, una risposta in termini di classi: non in termini di «coscienza di classe» (espressione che non compare mai), ma facendo esistere le classi sul duplice piano della divisione del lavoro e della coscienza, dunque facendo anche della divisione della società in classi una condizione o una struttura del pensiero.

L'ideologia dominante

È dunque proprio il tema del dominio che deve essere al centro della discussione. Marx non costruisce una teoria della costituzione delle ideo­logie come discorsi, come sistemi di rappresenta­zione particolari o generali, per porsi solo a cose fatte la questione del dominio: essa, invece, è sem­pre già inclusa nell'elaborazione del concetto. Per contro, egli pone come margine insuperabile che: «le idee della clasS.edominante.sDno.in.ogni epoca.

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le idee dominanti; çio~J~ classe çhe è la potenza materiale dominante della società èjnp!lriteropg, la sua po~enza spirittiare dominante. La classe che dispone d~i mezzi della prò'duzì'one materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzid,~lJa produzione ifiteUeftuale, cosicché ~ldess~~- com­plc.~sso'soiio-assoggèttate le-ictee o1"c6101'oai quaIi mancanoTmèZiideITaprò"dùzìone intellettyale. Le id~èd6mj.ò.a.ò.ti,n_Qli.,~Qn.Q~.~lttQ,çhe, l; espressione ~deale dei rapporti materiali d()min!,mt~-,sono"liap~' porti materiali donil'n~ntr presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongo~-ola ~lasse dominante posseggono tra l'altro'lffithela coscienza, e quindi pensano ... » 3. Si vedta'dre'dÒ' che essi «pensano» è essenzIalmente la forma dell'universale. Nella medesima proposi­zione si mescolano così un argomento fenomenolo­gico (<<l'espressione ideale», «le idee del suo domi­nio») e un argomento meramente sociologico (i «mezzi di produzione» materiali e intellettuali sono nelle stesse mani). Tale è, per l'appunto, non la 'soluzione diM1!n'. !l.L,Q,ml?le.maJiel.dominio,.,ma..

_ ,la ,suarjformulazione.del pfoble.ll1ilst,esso. Sarebbe istruttivo confrontare questa proble­

matica (che gioca sistematicamente sul doppio sen­so della parola «dominare»: esercitare un potere, e, «regnare», estendersi universalmente, ancor più sensibile nel tedesco herrschend> con gli usi oggi correnti della parola ideologia, che siano o meno di ispirazione marxista. Si vedrebbe che questi rica­dono tendenzialmente da una parte o dall' altra di una linea di separazione classica tra il teorico (pro­blematica dell'errore e dell'illusione, o, ancora, dell' «impensato» di una teoria scientifica) e il prati-

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_fQ...(problematica del consenso, del modo di pensa­re o del sistema di valori che «cementa» la coesio­ne di un gruppo o di un movimento sociale, o che «legittima» un potere di fatto), mentre Marx aveva cercato di risalire al di qua di questa distinzione metafisica. Da qui deriva la difficoltà che vi è sem­pre a parlare di ideologia senza implicare o un dogmatismo positivistico (l'ideologia è l'altro della scienza) o un relativismo storicistico (ogni pensiero è ideologico in quanto esprime l'identità di un gruppo). Marx, da parte sua, cercava piuttosto di operare un effetto di divisione critica nell'uso stes­so del concetto di «verità», rapportando ogni enunciato, ogni categoria, alle condizioni e alle poste in gioco storico-politiche della sua elabora­zione. Ma è anche la prova dell'estrema difficoltà che vi è nel mantenere effettivamente una simile posizione, soprattutto a mezzo di categorie quali «essere», «vita reale» o «astrazione».

AUTONOMIA E LIMITAZIONE DELLA COSCIENZA

Possiamo allora rivolgerci verso la genesi o costitu­zione marxlfma della coscienza. Si tratta proprio di un meccanismo di illusione: Marx riprende per il suo discorso un sistema di metafore di ascendenza lontanamente platonica (il «rovesciamento del rea­le» nella caverna o nella camera ottica, camera obscura) 4. Ma lo fa in modo da sfuggire in campo politico a due idee insistenti: quella dell'ignoranza delle masse, o della debolezza iscritta nella natura umana (che le renderebbe inaccessibile la verità), e quella dell'inculcazione (che tradurrebbe una manipolazione deliberata, dunque una «onnipo­tenza» dei potenti), entrambe abbondantemente

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praticate dalla filosofia dei Lumi a proposito delle idee religiose e della loro funzione di legittimazio­ne dei regimi dispotici.

Marx ha trovato (o proposto) un'altra via, estendendo al massimo delle sue possibilità lo schema della divisione del lavoro, in modo da far­gli rendere conto successivamente dello scarto tra «vita» e «coscienza», della contraddizione tra gli «interessi particolari» e gli «interessi generali», infine del raddoppiamento di questa contraddizio­ne nel mettere in campo un meccanismo autono­mo, benché indiretto, di potere (la divisione tra lavoro manuale e intellettuale, su cui ritornerò tra breve). Al termine di questa co~truzione, il mecca­nismo «ideologico», che può essere letto tanto come un processo sociale, che come un processo di pensiero, apparirà come uno straordinario rove­sciamento dell'impotenza in dominio: l'astrazione della coscienza, che traduce la sua incapacità ad agire nella realtà (la perdita della sua «immanen­za»), diviene la fonte di un potere proprio perché è «autonomizzata». È anche ciò che, in fin dei conti, permetterà di identificare il rovesciamento rivolu­zionario della divisione del lavoro con la/ine dell'i-deologia. .

Ma a questo fine è necessario combinare, in un equilibrio teoricamente instabile, idee di diver­sa provenienza. Marx ha fatto ricorso alla vecchia. idea di alienazione nella forma che le aveva dato Feuerbach (e con la quale, a dire il vero, non avrà mai finito di «regolare i suoi conti»), vale a dire la scissione dell'esistenza reale, seguita da proiezione eautonomizzazione di un «riflesso fantastico», talora paragonato alle creature immaginarie della teologia, talaltra agli spettri della magia nera. Ha fatto ricorso, anche, a questa idea nuova dell'indi-

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vidualità come relazione, o come funzione del rap­porto sociale che non cessa di trasformarsi nella' storia, di cui abbiamo or ora seguito la nascita (o la rinascita) tra le Tesi su Feuerbach e L'Ideologia tede­sca. Se combiniamo le due, otteniamo questa defi­nizione formale del processo ideologico: è 1'esisten­za alienata della relazione tra gli individui (che, come abbiamo visto, Marx designa globalmente con la parola «commercio», Verkehr, per coglierne ad un tempo 1'aspetto «produttivo» e quello «comunicativo») 5. In un certo senso, è già detto tutto, ma si può scendere nei dettagli, cioè si può «raccontare» come questo è dovuto accadere nella storia: ed è quanto fa Marx, esponendo (almeno in linea di principio) la successione delle forme di coscienza corrispondenti agli stadi della proprietà e dello Stato.

r: universalità fittizia

Così, sin dall'inizio della storia, vi è una dualità, o una tensione del pensiero e della divisione del lavoro (in linguaggio filosofico, si direbbe il polo dell'«interiorità» e quello dell'«esteriorità»). L'uno è semplicemente l'inverso dell' altra, il suo riflesso da parte degli individui. Per questo i limiti della comunicazione tra gli individui (ciò che si potrebbe chiamare il loro universo pratico) sono anche quelli del loro universo intellettuale. Prima di essere una questione di interessi, è una questione di situazio­ne, o di orizzonte per l'esistenza. Ripetiamo che Marx non ci ha dato qui una teoria della «coscien­za di classe», nel senso di un sistema di idee che, coscientemente o meno, esprimerebbero gli «sco­pi» di questa o quella classe. Ci ha dato piuttosto una teoria del carattere di classe della coscienza,

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cioè dei limiti del suo orizzonte intellettuale che riflett()~o·~-rip~-()ducoQQjllroiti.jilla c'Omùl1kazìoc l1e.~i dalle divisioni della società in classL(o in nazioni, ecc.). Il fondo della spiegazione è l'osta­colo all'universalità iscritto nelle condizioni della vita materiale, al di là delle quali è possibile pensa­re unicamente attraverso l'immaginazione. Si vede già che più queste condizioni si allargheranno, più l'orizzonte dell'attività degli uomini (o dei loro scambi) coinciderà con la totalità del mondo, più si amplierà la contraddizione tra l'immaginario e il reale. La coscienza ideologica è prima il sogno di un'universalità impossibile. E si vede che il prole­tariato occuperà esso stesso una situazione limite, non tanto di fronte all'ideologia, quanto sul suo bordo, al punto in cui, non avendo più esterno, si converte in coscienza storica reale. Davanti all'uni­versalità effettiva, l'universalità fittizia o astratta non può che annullarsi.

Perché mai dovremmo allora identificare l'i­deologia con le generalità e le astrazioni della coscienza? Perché non farne, al contrario, una coscienza irrimediabilmente particolare? Marx offre essenzialmente due ragioni per far comprendere come una particolarità professionale, nazionale o sociale, sia idealizzata nella forma dell'universalità (e, reciprocamente, E~XShç_.9gQi .. lJniKç.r~f!l~o~~~$lral-

o. to>~; o,gI~~~1.~~sub~~io9:~.slLYEj .. llt.~t~~S~o~ J?l!-nok.9_ 0'0 Di fatto, esse si ricongiungono, ma la seconda è molto più originale della prima.

La prima ragione, d'ascendenza rousseauvia.­na, è chenonviè div'isioneostorica.dellavoIoos~nza e29i..s in panico1are..s.enz.ì.lJJD9Stq!.9.{si .. dirà più tardi, senza un apparato). !-o Stato è un pro-d.!lç~.<!~octio!1_s!r~2ntinXlclgi<?.n~o~te~~fI:. c;1~Ua .fioZione· Al)jJaria (o del consenso) che deve imporre alla

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società. L'universalizzazione della particolarità è la contropartita della costituzione dello Stato, comu­nità fittizia il cJJi.potere di astrazione compensa .1L difetto reale di comunità nelle relazioni tra gli indi­

,vidui.«Poiché lo Stato è la fo~a ìn cui gli "individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l'intera società civile di un'epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l'intermediario dello Stato e rice­vono una forma politica. Di qui l'illusione che la leg­ge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata d'a:l'hr~mròase reale, sulla volontà libera» 6.

--""'Ma la grande idea supplementare, che Marx aggiunge nella sua esposizione, ~ la divisiQJJ.&.Jra lavoro man11.q,~~ e intellettuale. Essa è, in qualche ~rtata nella descrizione della comunica­zione alienata, che trasforma ciò che di fatto era solo una virtualità di dominio in un dominio effet-tivo. E, di conseguenza, cambia la teoria della coscienza, per strapparla a qualsivoglia psicologia (foss' anche una psicologia sociale), e farne una questione di antropologia politica.

LA DIFFERENZA INTELLEITUALE

Piuttosto che «divisione tra lavoro manuale e intel­lettuale» preferirei dire differenz.a intellettuale in generale: poiché si tratta, ad un tempo, dell'opposi­zione tra più tipi di lavoro - Marx cita il commercio, la contabilità, la direzione e l'esecuzione - e dell'op­posizione tra lavoro e non-lavoro, attività «libere» o gratuite in generale, divenute il privilegio e la spe­cialità di alcuni (nel comunismo saranno accessibili a tutti; e, più in generale, il comunismo è impensabi­le senza la soppressione di questa divisione: questo

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tema sarà di nuovo centrale nel 1875, nella Critica del Programma di Gotha; è uno dei rari elementi propriamente utopici, accompagnato da considera­zioni sull'educazione dell'avvenire, che gioca in Marx un ruolo esplicito) 7. Più tardi, come vedremo, la questione dell'educazione e della sua dipendenza rispetto al processo di lavoro capitalistico diverrà, o ritornerà ad essere, cruciale.

È 1'analisi della differenza in tellettuaIe a farci superare la tematica strumentale di un'illusione o mistificazione messa al servizio della potenza mate­riale di una classe. Pone il principio di un dominio che si costituisce nel campo della coscienza e la divide entro se stessa, producendo effetti materiali. La differenza intellettuale è, ad un tempo, uno schema di spiegazione del mondo (da cui procede la nozione di uno spirito, di una ragione) e un pro­cesso coestensivo a tutta la storia della divisione del lavoro. Marx lo dice esplicitamente: «la divisio­ne del lavoro diventa una divisione reale solo .. dal momento in cui interviene una divisione tra il lavo­r'O manuale e il lavoro mentale. Da questo momen­to in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualchecos.ll senza concepire alcunché di reale [. .. ]» 8. Essa conosce dunque altrettante tappe storiche quante la divisione del lavoro stessa. Ma ciò che, manife­stamente, interessa soprattutto Marx è il punto di raccordo tra i lontani inizi della civiltà con i feno­meni attuali, quando entra in campo una sfera pubblica borghese: il ruolo delle idee e degli ideo­logi nella politica, e il ruolo che gioca la loro auto­nomia relativa nella creazione di un dominio glo­bale (che non è quello di questo o quel gruppo di proprietari, ma veramente quello di una classe

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intera). «L'illusione che consiste nel credere che il dominio di una classe determinata è unicamente il dominio di certe idee» (dunque anche la sublima­zione dell'interesse particolare in interesse genera­le) è il risultato dell' attività deglii~Qlo~Z (Marx parla di «ideologi attivi» della classe dominante). Ma a questo fine occorre che questi ultimi inganni­no se stessi, «prima di tutto nelle loro questioni», cioè nel loro modo di pensare, e possono farlo sol­tanto perché il loro modo di vita, la particolarità loro propria (o «indipendenza»), generata dalla storia, fornisce loro le condizioni. Gli ideologi sono a fianco della loro propria classe come le idee che essi producono (Ragione, Libertà, Umànità) sono al di là delle pratiche .&ociali.

Si dirà allora che l'analisi di Marx sfocia in un abbozzo di sociologia politica degli intellettuali

, moderni (o di sociologia della conoscenza: Wis­senssoziologie) 9, duplicata da una storia della loro formazione e della loro funzione? Questa lettura non sarebbe sbagliata, ma è forse troppo restritti­va. In realtà Marx guarda ad una differenza che attraversa tutta la storia e che, come tale, concerne tanto gli intellettuali professionali quanto i non­intellettuali. Nessun individuo è fuori di questa divisione (non più che fuori della differenza di ses­so). Surdeterminando la differenza di classe nelle sue forme successive, essa manifesta subito la dimensione di dominio che l'accompagna sin dal­l'origine,' e che si rivela indissociabile dall'istituzio­ne della c:Wturae dello. Stato. Questa differenza è, dunque, costantemente coltivata dagli «ideologi» stessi, ma è condizione storica della loro esistenza piuttosto che . loro creazione personale. Per com­prendere l'importanza di qùesta idea è indispensa­bile una deviazione attraverso la filosofia di Hegel.

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GRAMSCI

L'opera di Antonio Gramsci 0891·1937), il più grande dirigente intellettuale del momvimento comunista europeo dopo Lenin, consi· ste in tre blocchi di testi dallo statuto molto diverso: gli Scritti politici (articoli e relazioni degli anni 1914·1926), i Quaderni del carcere, redatti dopo il suo arresto da parte del potere fascista italiano ed editi dopo la Liberazione, infine la corrispondenza (tra cui le Lettere dal carcere). Mussolini non è riuscito, come si vantava di fare, ad «impedire a que· sto cervello di funzionare»; tutt' altro: la prova fisica e morale subita da Gramsci ci ha consegnato, alla fine, un monumento intellettuale, le cui suggestioni non si sono esaurite (cfr. i lavori di Christine Buci· Glucksman, Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della /ilo­so/io, Editori Riuniti, Roma 1976 e André Tosel, Marx en ita/iques. Aux origines de lo philosophie italienne contemporaine, Trans.Europ. Repress, Mauvezin 1991. come anche il volume collettivo Modernité de Gramsci, SOli o la direzione di André Tosel. Université de Besançon, Diffusion Les belles leures, Paris 1992). Il pensiero di Gramsci non è riassumibile in qualche riga. Indichiamo quauro temi strettamente interdipendenti: l. Del !UIIO estraneo alla tradizione del «materialismo dialellico», Gramsci vede nel marl(jsmo una «filosofia della praxis», che egli interpreta prima, al momento della rivoluzione russa del 1917 e del movimento dei «consigli operai» di Torino, come un'affermazione della volontà contro il fatalismo delle organizzazioni socialiste, in seguito, come una «scienza della politica» di ispirazione machiaveIlia· na, destinata a costruire gli elementi dell'egemonù1 dei produttori. 2. Questo tema è legato ad un «allargamento» della «teoria marxista dello Stato», che non ne sopprime la determinazione di classe, ma insiste sulla complementarità del rapporto di forze e del «consenso» ottenuto auraverso le istituzioni culturali. 3. Si comprende perciò come Gramsci abbia consacrato !Utta una parte del suo incompiuto programma di ricerche ad una storia e ad un'analisi della funzione dei differenti tipi di intellettuali, nella pro· spettiva di una riforma del legame «organico» che li unisce alle masse quando una classe sociale nuova è in ascesa. 4. Questa riflessione critica comporta anche una dimensione etica, non solo auraverso la ricerca di una morale o di un «senso comune» dei lavoratori che li liberi dalla egemonia borghese, ma auraverso la formulazione e l'attuazione di un principio regolatore dell'azione politica, fondamentalmente laico, diretto contro ogni ideologia mes· sianica «<pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà»). Sulla persistente attualità del pensiero di Gramsci si veda oggi il sag· gio di Giorgio Barana, Le rose e i quaderni. Saggio sul pensiero di Antonio Gramsci, Gamberetti, Roma 2000.

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Gli intellettuali e lo stato

Marx ha descritto il proletariato come una «classe universale», una massa situata virtualmente aTdrld della condizione di classe, la ~urpartlcolarriIsareb­be già negata nelle sue condizioni di esistenza. Ma non avrebbe potuto formulare quest'idea se Hegel, nella sua Filosofia del diritto del 1821, non avesse sviluppato, dal canto suo, una teoria dello <0tand universale» IO. Cosa bisogna intendere con ciò? È il gruppo dei funzionari di Stato, nella nuova funzio­ne che stanno per acquisire con la modernizzazio­ne di quest'ultimo, conseguente alla Rivoluzione. Non bisogna tuttavia lasciarsi ingannare: dal punto di vista di Hegel, il ruolo dei funzionari, in genera­le, non è puramente amministrativo, ma essenzial­mente intellettuale. E, correlativamente, attraverso

. il loro incorporarsi nello Stato (cioè nel «servizio pubblico») gli «intellettuali» (die Gelehrten: le per­sone istruite) possono trovare la loro vera destina­zione. Poiché è lo Stato, in cui i differenti interessi particolari della società civile devono essere resi compatibili tra loro e portati allivello superiore dell'interesse generale, ad offrire loro la materia e le condizioni della loro attività riflessiva. Lo Stato, che per Hegel è «in sé» universale, «libera» gli intel­lettuali (dalla credenza, dan; svarl"af€ forme"di dipendenza personale) affinché svolgano, al suoser­vtZlo;Ùi iima la società, un'attività di mediazione, o

-di rappresentazione, e portino· cosÌ l'universalità . ancora astratta allivello della «coscienza di sé».

Bisogna riconoscere che questa· teorizzazione esprime con potenza e notevole capacità di antici­po il senso della costruzione amministrativa, scola­stica e universitaria, e dello sviluppo delle strutture della ricerca scientifica e dell'opinione pubblica,

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che conferiranno a poco a poco agli Stati contem­poranei la capacità di «regolazione» sociale, egual­mente distanti tanto dal liberalismo puro che dal­l'autoritarismo. Se non si ricordasse ciò, non si comprenderebbe la potenza esattamente opposta della teorizzazione dell'ideologia in Marx. Né l'o­biettivo cui essa mira, né i problemi che pone.

Più di tutto, forse, 1'analisi della differenza intellettuale, purché sia condotta simultaneamente sul registro della conoscenza, dell' organizzazione e del potere, illumina in profondità la natura dei processi di dominio. Non stupisce il fatto èhe, in un modo o nell' altro, la maggior parte dei marxisti autenticamente filosofi (pensiamo a figure tanto diverse tra loro, quali Gramsci, Althusser, Alfred Sohn-Rethel) 11 abbiano sempre fatto della «solu­zione» storica di questa differenza una caratteristi­ca fondamentale del comunismo. Perché ,Marxnon s'è accontentato di rovesciare le tesi hegeliane e di attrib.uirçagli intellettuali una funzione diJISSQg; gettamento e di divisione (di «manipolazione ideo­logré~>~,come si diceva ne'I ~ovimento del '68). Ma è risalito fino alla descrizione della differenza antropologica che sottende la loro attività e 1'auto­nomizzazione della loro funzione.

Questa differenza non è naturale (benché si iscriva incontestabilmente nelle funzioni distinte dell'organismo), poiché essa si forma e si trasforma nella storia. Ma non è neppure istituita nel senso che risulterebbe da mere decisioni politiche (ben­ché sia amplificata, utilizzata e riprodotta da istitu­zioni). Fa corpo con la cultura di civiltà successive, tra le quali traccia un filo di continuità. Marx col­loca qui questa differenza all'incirca allo stesso livello di generalità della differenza di sesso, o della differenza tra città e campagna. Incorporata in tut-

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ta l'organizzazione sociale del lavoro, tale differen­za attraversa tutte le pratiche e tutti gli individui (poiché una pratica, nel senso completo del termi-

. ne, praxis e poiesis, non può essere né meramente .co.tpor.ale.né puramente intellettuaJ.e.,-ma~deve essere una complementarità, una recipr()cità dei ~ a.iP.,~tti). Se non fosse così, gli ~<inieI1ettuan;> specializzati (che si tratti di professori, di pubblici­sti, di scienziati, di tecnici, di amministratori, di esperti...) non potrebbero rendersi strumento di un'ineguaglianza permanente, di una gerarchia isti­tuzionale di «dominanti» e «dominati» (o, come dirà Gramsci più tardi, di «governanti» e «gover­nati»). Non potrebbero, cioè, fare di quest'inegua-

,glianza, durante la più lunga parte della storia, una condizione materiale del lavoro, degli scambi, della comunicazione, dell' associazione.

L'APORIA DELL'IDEOLOGIA

Resta allora da chiedersi perché Marx non abbia continuato direttamente per questa strada. L'ho suggerito prima: qui si combinano strettamente ragioni interne con ragioni di congiuntura, che mettevano proprio in evidenza ciò che la costruzio­ne di Marx aveva ancora di astratto, di speculativo addirittura, a dispetto del suo sforzo di attingere la materialità della storia.

Nella rappresentazione che Marx si fa del proletariato, l'idea di una ideologia del proletariato (o di una «ideologia proletaria», che conoscerà in seguito la fortuna che ben sappiamo) è evidente­mente priva di senso. Il concetto di proletariato non è tanto, in realtà, quello di una «classe» parti­colare, isolata dall'insieme della società, quanto

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quello di una non-classe, la cui formazione precede immediatamente la dissoluzione di tutte le classi e inizia il processo rivoluzionario. Anche Marx impiega di preferenza, a proposito di esso, il termi­ne di massa, che rito ree contro l'uso sprezzante che ne fanno allora gli intellettuali borghesi. Poiché la massa proletaria è fondamentalmente «spossessa­ta» (eigentumslos), ~ssa è fonda~~~!~4'n~l?_t,~ .. <~p'riy.ll di illusioni» sulla realtà Ullusionslos), f,Qndl!m~"mal~ mente esterna'aI inò-odo dell'ideologia,Je cui astra­zioni e rappresentazioni ideali dei rapporto sociale per essa «nQnesistopo». Il Manifesto dirà di nuovo la stessa cosa illustrando frasi divenute celebri, ma che appaiono oggi risibili: «Gli operai non hanno patria», e ugualmente sono liberati dalle credenze, speranze o ipocrisie della religione, della morale e del diritto borghese ... Per la stessa ragione non potrebbero avere «ideologi» che si propongano di istruirli o di guidarli, o, come dirà più tardi Gram­sci, «intellettuali organici» (Marx stesso non si considerava certamente tale - non senza difficoltà crescente a riflettere la funzione della propria teo­ria nella pratica rivoluzionaria. Ancora una volta, sarà EngeIs a compiere il passo decisivo, generaliz­zando l'uso dell'espressione «socialismo scientifi­co»).

Gli eventi dei 1848-1850 dovevano sottolinea­re crudelmente lo scarto tra questa rappresentazio­ne e la realtà. Sarebbero potuti bastare, infatti, a determinare l'abbandono non dell'idea di un ruolo universale del proletariato (a livello della storia mondiale e della trasformazione rivoluzionaria di tutta quanta la società), senza la quale non vi è marxismo, ma certamente di un proletariato «clas­se universale». Il testo più appassionante, a questo proposito, è Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, già

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citato. Occorrerebbe avere lo spazio per esaminar­lo in dettaglio. La ricerca di una strategia della classe operaia di fronte alla controrivoluzione pro­cede di pari passo con una nuova analisi dello scar­to storico tra ciò che Marx chiama la «classe in sé» e la «classe per sé», il mero fatto di condizioni di vita analoghe e il movimento politico organizzato: non semplice ritardo della coscienza sulla vita, ma effetto di tendenze economiche contraddittorie, che, come ha cominciato a comprendere, favori­scono a un tempo l'unità e la concorrenza tra gli operai 12. Il fatto è che l'esperienza immediata, in Francia come in Germania o in Inghilterra, stava rivelando, insieme con la potenza degli apparati politici e militari dell' ordine stabilito, la potenza del nazionalismo, dei miti storici (repubblicani o imperiali), persino delle forme religiose sul proleta­riato. Come conciliare la tesi teorica di una estra­neità radicale tra le condizioni di produzione del­l'ideologia e la condizione proletaria con la consta­tazione della loro compenetrazione quotidiana? È veramente notevole il fatto che Marx non abbia mai invocato qui una nozione implicitamente morale quale quella di falsa coscienza (utilizzata in seguito da Lukacs e altri), né abbia mai parlato di ideologia proletaria o di coscienza di classe. Ma la difficoltà è rimasta tutta quanta, e ha comportato la rimozione del concetto stesso di ideologia.

Nello stesso senso ha giocato anche un altro fattore: era la difficoltà che Marx provava a defini­re come «ideologia» l'economia politica borghese, quella dei classici in particolare: Quesnay, Smith, Ricardo. Perché questo discorso teorico, di forma «scientifica» e chiaramente destinato a fondare la politica liberale dei proprietari del capitale, non cadeva direttamente né sotto la categoria di ideolo-

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gia (caratterizzata dall' astrazione e inversione del reale) né sotto quella di una storia materialistica della società civile, poiché si basava, al contrario, sul postulato dell'eternità delle condizioni di pro­duzione borghesi (o dell'invarianza del rapporto capitale/salariato). Ma è precisamente la necessità di uscire da questo dilemma che avrebbe spinto Marx a immergersi per anni nella «critica dell' eco­nomia politica», nutrita dalla lettura intensa di Smith, Ricardo, Hegel, Malthus, degli statistici e degli storici... E questa, a sua volta, sarebbe sfocia­ta in un. concetto nuovo, quello difeticismo della

,m.eu:e.

IL «FETICISMO DELLA MERCE»

La teoria del feticismo è esposta prima di tutto nel­la prima sezione del libro I del Capitale 13. Non costituisce solo uno dei punti alti del lavoro filoso­fico di Marx, completamente integrato nella sua opera «critica» e «scientifica», ma una grande costruzione teorica della filosofia moderna. È ben nota la sua difficoltà, benché l'idea generale sia relativamente semplice.

Non mi dilungo qui sulle origini del termine «feticismo», sul rapporto che intrattiene con le teorie della religione nel XVIII e XIX secolo, né sul posto che, per aver ripreso questo termine, Marx occupa nella storia della questione del fetici­smo in generale 14. Per mancanza di spazio, non discuterò neppure della funzione che questo svi­luppo svolge nell' architettura complessiva del Capitale, e in particolare nella spiegazione della forma «rovesciata», sotto cui, ci dice Marx, i feno­meni di struttura del modo di produzione capitali-

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KARLMARX: «IL CARAITERE DI FETICaO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO>, (Il Capitale, libro 1, capitolo I, 4)

Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente proprio da tale forma. L'eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale dell'eguale oggetti­vità di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza­lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma della grandezza di valore dei prodotti del lavoro, infine i rapporti fra i pro­duttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma di un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l'im­magine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l'immagine del rapporto 30ciale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo onico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l'oggetto esterno, su un'altra cosa, l'occhio: è un rapporto fisico tra cose fisi· che. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne deri­vano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un' analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena ven­gono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produ­zione delle merci. (Il Capitale, op. cit., pp. 104-105)

stico (che rimandano tutti al modo in cui l'accre­scimento di valore del capitale si nutre di «lavoro vivo») sono percepiti alla «superficie» delle rela­zioni economiche (nel mondo della concorrenza tra le differenti forme di capitali, profitto, rendita, interesse e i loro rispettivi tassi) 15, Ma cercherò di

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far comprendere come si ricolleghi al testo di Marx la vitalità tra i posteri che possiamo riconoscergli oggi su sue questioni: da una parte, !'idea della rei­/ieazione del mondo borghese nelle forme della «mercatizzazione» generalizzata delle attività socia­li; dall'altra, il programma di un'analisi del modo di soggezione implicato nel processo di scambio, che trova il suo esito nel marxismo strutturale.

Il «feticismo della merce», ci dice Marx, con­siste nel fatto che «soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi assume per essi la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose». 0, ancora: «le relazioni sociali dei lavori pri­vati dei produttori appaiono [ ... ] non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti di eose fra persone e rapporti sociali/ra eQ~(?>.>~.16. Di quali «cose», di quali rapportI «personali» e «impersonali» si tratta?

Le merci, prodotte e scambiate, che sono degli oggetti materiali utili e che, come tali, corri­spondono a bisogni individuali o collettivi, possie­dono anche un'altra qualità, immateriale ma non meno oggettiva: il loro valore di scambio (general­mente espresso nella forma di un prezzo, cioè come una determinata quantità di denaro). Questa qualità, che è loro individualmente connessa, è, dunque, immediatamente quantificabile: allo stesso modo in cui un'automobile pesa 500 chilogrammi, vale 100.000 franchi. Naturalmente, per una merce data, questa quantità varia nel tempo e nello spa­zio: in funzione della concorrenza e di altre fluttua­zioni a più o meno lungo termine. Ma tali variazio­ni, ben lungi dal dissipare 1'apparenza di un rap­porto intrinseco tra la merce e il suo valore, gli conferiscono piuttosto un'obiettività supplementa­re: gli individui si recano volontariamente al mer-

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cato, ma non è in virtù delle loro decisioni che, sul mercato, i valori (o i prezzi) delle merci fluttuano, è, all'inverso, la fluttuazione dei valori che determi­na Tè condiziohi nelle quali gli ihaividuiI1anno accesso alle merd.È, 'dunqUe, nelle «leggi oggetti­ve» dçlla circolazione delle merci, regolata dai movimenti del valore, che gli uomini devono cerca­re il mezzo di soddi .. fare i loro bisogni e di regolare tra loro i rapporti di servizi reciproci, di lavoro o di comunità, che passano attraverso relazioni econo­miche o che ne dipendono. Di questa obiettività elementare, che appare sin dalla relazione semplice con le merci sul mercato, Marx farà il punto di partenza e il modello di oggettività dei fenomeni economici in generale e delle loro leggi, cui l'eco­nomia politica si dedica e che paràg"orià incessante­mente proprio con l'oggettività delle leggi della natura, sia esplicitamente, con l'impiego di concet­ti meccanici o dinamici, sia implicitamente, attra­verso i metodi matematici di cui si serve.

Vi è, evidentemente, un rapporto immediato tra questo fenomeno (nel senso in cui è così che le cose «si presentano») e la funzione della.pzoneta. Il valore di scambio si presenta come un prezzo, dunque un rapporto di scambio almeno virtuale con una quantità di denaro. Questa relazione non dipende fondamentalmente dal fatto che il denaro venga attualmente speso e incassato, o semplice­mente rappresentato da un segno (moneta di credi­to, biglietti di banca a corso forzoso, ecc.): in ulti­ma analisi, e specificamente sul mercato mondiale (o universale), di cui Marx ci dice che è l'autentico spazio di realizzazione del rapporto mercantile, occorre che il riferimento monetario esista e sia «verificabile». La presenza del denaro di fronte alle merci, come condizione della loro circolazione,

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aggiunge un elemento al feticismo e permette di comprendere l'impiego di qUestQte.l:"mine.. Se le merci (alimentari, vestiario, macchine, materie pri­me, oggetti di lusso, beni culturali, corpi di prosti­tut(i)e, in breve tutto il mondo degli oggetti umani prodotti o consumati) sembrano avere un valore di scambio, il denaro,dl!l,~antQ.s.uQ, semb.ra essere il valore di scambio stesso, e al contempò posseder~· intrinsecamente il potere di comunicare alle merci che «entrano in rapporto con esso» questa virtù o potenza che lo caratterizza. È per questa ragione che esso viene ricercato di per sé, tesaurizzato, considerato come oggetto di un bisogno universale accompagnato da paura e da rispetto, desiderio e disgusto (auri sacra fames: «la maledetta fame di oro» 17, diceva il poeta latino Virgilio in un celebre verso che Marx cita, e l'Apocalisse identifica chia­ramente il denaro con la Bestia, cioè col diavolo).

Questo rapporto del denaro con le merci, che «materializza» il loro valore sul mercato, è, ben inte'so, supportatoda'atti individuali di compra­vendita, ma è completamente indifferente alla per­sO!lali~~~lii9.ciiyidui,.che li effettuano, perfetta­mente intercambiabili a questo riguaIdÒ ... Ce lo si può dunque rapprese~t~re' sia-com~-~ffetto di una potenza «sovrannaturale» del denaro che crea e anima il movimento delle merci, che incarna il pro­prio valore imperituro nel corpo deperibile delle merci; sia, al contrario, come un effetto «naturale» del rapporto delle merci tra loro, che istituisce un'espressione dei loro valori, delle proporzioni in cui esse si scambiano, a mezzo di istituzioni sociali.

In realtà, le due rappresentazioni sono sim­metriche e interdipendenti: si sviluppano insieme e corrispondono a due momenti dell'esperienza che gli individui, in quanto «produttori che scambia-

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no», fanno dei fenomeni di. circolazione e di mer­cato che costituiscono la forma generale di tutta la vita economica. È ciò che Marx ha presente quan­do descrive la percezione del mondo delle merci come quella di realtà «sensibili soprasensibili», nel­le quali coesistono stranamente gli aspetti del natu­rale e del sovrannaturale, e quando dichiara la merce un oggetto «mistico» pieno di «sottigliezze teologiche» (suggerendo direttamente il paragone del linguaggio economico con il discorso religioso). Il mondo moderno, inversamente a quanto dirà più tardi Max Weber, non è «disincantato», ma incantato, nella misura stessa in cui è il mondo degli oggetti di valore, e dei valori oggettivati.

NECESSITÀ DELL' APPARENZA

Descritto in tal modo il fenomeno, qual è allora l'obiettivo di Marx? Esso è duplice. Da un lato, attraverso un movimento che è molto simile ad una demistificazione, o demitizzazione, si tratta di dis­solvere questo fenomeno, di mostrare in esso un'apparenza....che si basa, in ultima analisi, su un qui pro qua. Si dovranno, dunque, ricondurre i fenomeni or ora evocati (valore di scambio come proprietà degli oggetti, autonomia del movimento dei prezzi e delle merci) ad una causa reale che è stata mascherata o il cui effetto è stato invertito (come in una camera oscura). Questa analisi apre veramente alla critica dell'economia politica. Per­ché, nel momento stesso in cui quest'ultima - mos­sa da un progetto di spiegazione scientifica (Marx pensa qui, beninteso, ai rappresentanti della scuola classica: Smith e, soprattutto, Ricardo, che l'autore del Capitale si preoccupa sempre di distinguere

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accuratamente dagli «apologeti» del capitale) - si propone di risolvere l'enigma delle fluttuazioni di valore (riducendolo ad una «misura invariabile» che è ,il tempo .di lavof6.necesi;àtioallà produZione ~.me.r.ce), rende però più fitto il mistero, poi­ché considera questo rapporto come un fenomeno naturale (e di conseguenzjl eterno). Ciò si deve al fatto che la scienza economica, che cerca l'oggetti­vità dei fenomeni conformemente al programma di ricerca dell'Illuminismo, concepisce l'apparenza come un errore o un'illusione, un difetto della rap­presentazione, che si potrebbe eliminare attraverso l'osservazione (in questo caso, prima di tutto, la statistica) e la deduzione. Spiegando i fenomeni economici attraverso delle leggi, si dovrebbe allora dissipare il potere di fascinazione che essi esercita­no. Allo stesso modo Durkheim, mezzo secolo dopo, dirà di «trattare i fatti sociali come cose».

Ma il feticismo non è - come potrebbe essere, ad esempio, un'illusione ottica o una credenza superstiziosa - un fenomeno soggettivo, una perce­zione falsata della realtà. Esso costituisce, piutto­sto, il modo in cui la realtà (una certa forma o struttura sociate) non può non app.arire. ,E questo «apparire» attivo (Schein ed Erscheinung ad un tempo, cioè un inganno e un fenomeno) costituisce una mediazione o funzione necessaria, senza la quale, in condizioni storiche date, la vita della s.ocietu~x~J:>b~_~~tp,pHç~m..eDt.e __ impossibile.Sop­prime~~ .1' a ppareg..~~.~~g~,it;ç~_.~~~.1.i.re il rapporto sociare. Per questo Marx attribuisce una particola­re-Iffi'portanza al rifiuto dell'utopia, diffusa tra i socialisti inglesi e francesi dell'inizio del XIX seco­lo (e che si vedrà spesso riapparire altrove), di una soppressi9Jle_.del..denaro.-<:.he cederebheil .p.os to . a, dei buoni di lav.oro o ad altre forme di redistrH;m-

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zione sociale, ma non si accompagnerebbe ad alcu­natrasformazione nel principio dello scambio tra unità di produzione private. La struttura di produ­zione e di circolazione che conferisce un valore di scambio ai prodotti del lavoro forma un tutto, e l'esistenza della moneta, forma «sviluppata» dell'e­quivalente generale delle merci, ne è una funzione necessaria.

Al primo movimento della critica, che consi­ste nel dissolvere l'apparenza di oggettività del valo­re di scambio, deve dunque aggiungersene un altro, che in verità lo condiziona, e mostra la costi­tuzione dell'apparenza nell'oggettività. Ciò che si pi~senta come un rapporto quantitativo dato è in realtà l'espressione di un rapporto sociale: delle unità indipendenti le une dalle altre possono deter­minare il grado di necessità dei loro lavori, la parte di lavoro sociale che deve essere consacrata ad ogni tipo di oggetto utile, solo e soltanto a posterio­ri, adeguando la loro produzione alla «domanda». È la pratica degli scambi che determina le propor­zioni, ma è il valore di scambio delle merci che, agli occhi di ogni produttore, rappresenta in modo invertito, come una proprietà delle «cose», il rap­porto che il proprio lavoro ha con quello di tutti

. gli altri produttori. È quindi inevitabile che agli occhi degli individui il loro lavoro appaia «socializ­zato» attraverso la «forma di valore», mentre que­st'ultima figura come espressione di una divisione sociale del lavoro. Donde la formula che citavo precedentemente: «Le relazioni sociali dei lavori privati appaiono ai produttori [ ... J come rapporti impersonali fra persone e rapporti sociali fra cose impersonali».

La controprova è fornita da un'esperienza di pensiero cui Marx procede. Si tratta di comparare

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il modo in cui la ripartizione del lavoro socialmen­te necessario si effettua nei differenti «modi di pro­duzione»: gli uni passati (come le società primitive, fondate sull' autosussistenza, o la società medievale, fondata sulla servitù della gleba), gli altri immagi­nari (come l' «economia» domestica di Robinson nella sua isola) o ipotetici (come una società comu­nista del futuro, in cui la ripartizione del lavoro sarà coscientemente pianificata). Si vede allora che o questi rapporti di produzione sono liberi ed egualitari, oppure sono oppressivi, fondati su rap-

'porti di forza, ma in ogni caso «i rapporti sociali fra le persone nei loro lavori appaiono in ogni modo come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali fra le cose, fra i pro­dotti del lavoro» [Il Capitale, op. cit., libro I, p. 109]. In altri termini, queste società sono prima società di uomini, eguali o diseguali,_~_D_ol1_~os.i~tà di merci (o dei «mercati»), delle quali gli uomini non sarebbero altro che degli intermediari.

Genesi dell'idealità

Tale esperienza di pensiero non potrebbe evidente­mente sostituirsi alla dimostrazione. Essa non fa che indicarne la necessità. Questa dimostrazione è uno dei due risultati (con la delucidazione del processo di sfruttamento del lavoro salariato come fonte del­l'accrescimento del capitale) cui Marx desiderava legare la sua reputazione scientifica, senza d'altra parte averne mai trovato, sembra, un'esposizione assolutamente definitiva. Essa coincide, infatti, col­l'insieme della prima sezione del Capitale (capp. 1-3). Mi accontenterò di ricordarne i tratti salienti.

Primo. Partendo dal «duplice carattere» del lavoro (attività tecnica specializzata, che trasforma

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la natura al fine di produrre alcuni oggetti d'uso, e dispendio di forza umana fisica e intellettuale in generale: Marx li chiaml!.,lavortl ",nq;ctp e lavoro a,ft~.che sono evidentemente sQIQlf;_4~~ç:~' di una medesima realtà, l'una individuale, l'altra transindividuale o collettiY~T-Si'lrafta- eH mostrare come le merci prodotte divengano esse stesse degli oggetti «duplici», dotati di utilità (che corrispond<;: a certi bisogni) e di valore (la cui «~ostanza» è costituita dal lavoro socialmente necessario alla 12!:.2...PIillÌ1tWme) .

Secondo. Si tratta di mostrare come la gran­dezza di valore di una merce possa essere espressa nella quantità di un'altra, cosa che è, propriamen­te, il «valore di scambio». È il punto che appariva a Marx il più difficile e il più importante, perché permetteva di dedurre la costituzione di un «equi­valente generale», cioè di una merce «universale», estratta dalla circolazione, in maniera che tutte le altre merci esprimessero in essa il loro .proprio yalore; e, reciprocamente, in modo che essa stessa

. si sostituisse automaticamente a tutte le merci, o le ~<.çomprasse» tutte.

Terzo, infine (si dimentica troppo spesso la necessità di questo terzo punto, cioè si crede che, dal pun~o di vista di Marx, sia sufficiente avere dedotto formalmente la necessità di un equivalente generale per aver spiegato la moneta). Si tratta di mostrare come questa funzione sia materializzata in -_~nefe-J~og.getto._.detemlinatQ (i metalli prezio­si). La moneta è poi costantemente riprodotta, o mantenuta in funzione, dai suoi differenti impieghi economici (unità di conto, mezzo di pagamento, oggetto di tesaurizzazione o di «riserva», ecc.). L'altra faccia di questa materializzazione è allora un processo di idealizzazione costante del materiale

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monetario, poiché serve ad esprimere immediata­lIlent~ .. l.lpa forma u.nWersale.o..uo: %i.df:a,»~.

Incontestabilmente, a dispetto del suo approccio tecnico e delle difficoltà che esso com­porta, questo ragionamento di Marx è una delle grandi esposizioni filosofiche della formazione del­le «idealità», o degli «universali», e del rapporto che queste entità astratte hanno con le pratiche umane. Paragonabile, in questo, a quanto avevano potuto proporre Platone o Locke, o Hegel (che aveva scritto che «la logica è il denaro dello spiri­to» ... ), o a quanto avrebbero proposto più tardi Husserl o Frege. Dal punto di vista di Marx, tutta­via, due cose avevano maggiore importanza.

L'una fa di Marx il punto conclusivo di tutta 1'economia classica, nella sua opposizione costante al monetarismo: si trattava di dimostrare che «1'e­nigma del feticcio denaro non è che quello del feticcio merce», in altri termini che la forma astrat­ta ~orii:elluta nel rapporto delle merci con il lavoro è sufficiente a spiegare la logica.dei fenomeni monetari (e, inoltre, ben inteso, capitalistici, finan­zi~ri, ecc.). Possiamo pensare che è questa attitudi­ne, fondamentalmente comune a Marx e agli eco­nomisti classici, a garantire ai suoi occhi il carattere «scientifico» della loro teoria. E, reciprocamente, tale attitudine spiega per una buona parte il discre­dito comune che li inonda dopo che la nozione di

. valore-lavoro è rifiutata dall' economia ufficiale. L'altra fonda la critica dell' economia politica: è

l'idea che le condizioni che rendono necessaria f~ggettivazione «feticisticl!~ del rapporto sociale sono integralmente storich~. Esse sorgono con lo sviluppo di una: prodùzione «per il mercato», i cui prodotti raggiungono la loro destinazione finale (il consumo in tutte le sue forme) solo attraverso la

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compravendita. È un processom!U~D.ario, che con­quista solo lentamente una branca di. produzione dopo l'altra, un gruppo sociale dopo 1'altro. Con il capitalismo, tuttavia (e secondo Marx 1'elemento­decisivo è qui la trasformazione della forza-lavoro umana stessa in merce, dunque il lavoro saranato), sÌ universalizza ra pidament€-:tl-4ir-ev.e.tSibiI~nte. Viene raggiunto un punto di non-ritorno, il che non significa un punto insuperabile: il solo progresso che ormai rimane possibile consiste nella pianifica­zione della produzione, cioè nella ripresa da parte della società (o lavoratori associati) del «controllo sociale» del dispendio di lavQ,to, di cui la quantifi­cazione universale dell' economia prepara, per 1'ap­punto, le condizioni tecniche. La trasparenza delle relazioni sociali non sarà allora una condizione spontanea, come nelle società primitive (nelle quali - spiega Marx - tale trasparenza ha come contro­partita la rappresentazione mitica delle forze della natura: a un di presso ciò che Auguste Comte, da parte sua, chiamava «feticismo»), ma sarà una costruzione collettiva. Il feticismo della merce apparirà allora come una lunga transizione tra il dominio della natura sull'uomo e il dominio del­l'uomo sulla natura.

MARX E ÙDEALISMO (BIS)

Dallo stretto punto di vista della critica dell'econo­mia politica, ci si potrebbe fermare qui. Ma signifi­cherebbe non cogliere, come ho già detto, l'impor­tanza filosofica del testo di Marx, che spiega il suo stupefacente successo tra i posteri. Questi ultimi si dividono tra orientamenti differenti, ma che si basano tutti sulla constatazione che non vi è teoria

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dell'ggg~ui.y.ità. senza una teoria della sogg~ttiV!t~. Rìj/ensando la costituzione dell' oggettività sociale, Marx ha nello stesso momento rivoluzionato.virtual­mente il concetto di ·«s.oggetto». Ha dunque intro­dotto un elemento nuovo nella discussione sui rap­porti tra «soggezione», «assoggettamento» e «sog­gettività».

Bisogna ricordarsi qui che, nella tradizione dell'idealismo tedesco, dopo Kant, il soggetto era prima di tutto pensato come una coscienza univer­sale, posto ad un tempo al di sopra di tutti gli indi­vidui particolari (donde la possibilità di identificar­lo con la Ragione dell'Umanità) e presente in cia­scuno di essi: quel che Foucault chiamerà più tardi il «doppione empirico-trascendentale» 18 e che abbiamo visto Marx, nelle Tesi su Feuerbach, denunciare come una semplice variante dell' essen­zialismo. Una tale coscienza «costituisce il mon­do», cioè lo rende intellegibile, per mezzo delle proprie categorie o forme di rappresentazione - lo spazio, il tempo, la causalità (Critica della ragion pura, 1781). Al di qua di questa costituzione sog­gettiva del mondo, Kant doveva mettere da parte il dominio delle «illusioni necessarie» della metafisi­ca, o del pensiero puro, senza referente nell'espe­rienza. Esse erano come uno scotto inevitabile per la capacità della ragione di forgiare astrazioni. Al di là, sfuggendo ai vincoli della natura e dell' espe­rienza, egli collocava una «ragione pura pratica», cioè una libertà morale incondizionata, aspirandò alla costruzione di un «regno dei fini» fondato sul rispetto reciproco delle persone (ma tanto più implacabilmente sottomesso alla legge interiore del dovere, il famoso «imperativo categorico»). E anche quando Hegel, rifiutando la separazione di mondo naturale e mondo morale, indicava nell'e-

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sperienza storica il vero luogo dell'esperienza della coscienza, questo schema di costituzione del mon­do restava determinante. Permetteva di compren­dere perché, in fin dei conti, lo spirito o la ragione che si è perduto o alienato nelle forme della natura e della cultura non fa, nelle sue diverse esperienze, che ritornare a se stesso, alla contemplazione della propria struttura, della propria «logica».

Ma ecco che, con l'esposizione di Marx, attra­verso una deviazione apparentemente contingente verso l'analisi delle forme sociali della circolazione mercantile, e la critica della loro rappresentazione economica, la questione dell'oggettività si trovava completamente ripensata. Il meccanismo del fetici­smo è invero, in un certo senso, una costituzione del mondo: il mondo sociale, strutturato dai rap­porti di scambio, che rappresenta chiaramente l'es­senziale della «natura» in cui vivono, pensano e agiscono oggi gli individui umani. Per questo Marx scrive che «le categorie dell'economia borghese» sono «forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive» 19. Prima che formulare regole o impe­rativi, esprimono una percezione di fenomeni, del modo in cui le cose «sono là», senza che sia possi­bile cambiarle volontariamente.

Ma in questa percezione si combinano imme­diatamente il reale e l'immaginario (ciò che Marx chiama il «soprasensibile», la «fantasmagoria» del­le merci autonome, che dominano i loro produtto­ri), o, ancora, il dato degli oggetti dell'esperienza con la norma di comportamento che essi richiama­no. Il calcolo economico, fondato anch'esso sullo strato immenso delle misure, dei conti e della valu­tazioni, cui procedono quotidianamente gli indivi­dui immersi nel mondo delle merci, illustra mira­bilmente questa dualità: poiché si basa, ad un tem-

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po, sul fatto che gli oggetti economici sono sempre già quanti/icabili (<<è così», è la )òro natura); e sul­l'imperativo sociale di sottometterli (e, insieme con essi, le attività umane che li producono), ad una quantificazione o razionalizzazione senza fine, var­cando ogni limite fissato in precedenza, «naturale» o «morale» che sia.

Genesi della soggettività

I)al punto di vista dell'idealismo classico, potrebbe dunque sembrare che Marx abbia semplicemente proceduto ad una riunione (che potrebbe essere una confusione) dei tre punti di vista corrisponden­ti rispettivamente alla scienza (intelligibilità dei fenomeni), alla metafisica (illusioni necessarie del pensiero puro) e alla morale o «ragion pratica» (imperativo della condotta). Ma il confronto fa subito emergere l'originalità di questa teoria della costituzione del mondo rispetto a quelle che la precedono nella storia della filosofia (e che natu­ralmente Marx conosceva profondamente): essa non procede dall' attività di nessun soggetto, in ogni caso di nessun soggetto che sia pensabile sul modello di una coscienza. Per contro, essa costitui­sce dei soggetti, o delle forme di soggettività e di coscienza, nel campo stesso dell'oggettività. Dalla sua posizione «trascendente» o «trascendentale», la soggettività è passata in posizione di effetto, di risultato del processo sociale.

Il solo «soggetto» di cui parla Marx è \,In sog­getto pratico, multiplo, anonimo, _e per definizione, non cosciente di se stesso. È·di fatto un non-sogget­to: cioè «la società», vale a dire l'insieme delle atti­~ftà-.Ji~p;o:au?19ité,'dl-scambIo:dlcC;~sumo, il cui effetto combinato èpercepibile per ciascuno al di

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fu.<l!:L<:I~,~sso, come proprietà «natur~le~. çl~.u~, çQse. Ed è questo non-soggetto, o questo complesso' di attività, a produrre delle rappresentazioni sociali di oggetti n~rmom~Aio.~'siesso-:-lD... ç!JLnt:<i4~se Oggetti rappresentabili. La merce, come il denaro, aspet­tando il capitale e le sue diverse forme, è eminente­mente una rappresentazione nel momento stesso in cui è un oggetto, è un oggetto sempre già dato nel­la forma di una rappresentazione.

Ma, ripetiamolo, se la costituzione dell'ogget­tività nel feticismo non dipende dal dato prelimi­nare di un soggetto, di una coscienza o di una ragione, in compenso essa costituisce dei soggetti, che sono parti dell' oggettività stessa, cioè sono ~!L~~!l.' t,sperienzaqJia1J(;p . delle «co,s.e>;~ ,. delle merci, e in rapporto con esse. Questi soggetti, non 'costituenti ma costituitI, sono molto semplicemen­te i «sogge.tti e.conomici», o, più esattamente, sono

til'tti 'ghindividui che, nella società borghese, sono prima soggetti economici (venditori e compratori, dunque proprietari, non foss'altro che della pro­pria forza-lavoro, cioè proprietari e venditori di se stessi in quanto forza-lavoro - una stupefacente «fantasmagoria», sia detto en passant, anch'essa, però, divenuta assolutamente '«naturale»). Il rove­sciamento operato da Marx è dunque completo: la sua costituzione del mondo non è l'opera di un soggetto, ma è una genesi della soggettività (una forma di soggettività storica determinata) come parte (e contropartita) del mondo sociale dell'og­gettività.

A partire da ciò erano possibili due estensioni, e sono state tendenzialmente proposte entrambe.

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LUKAcs

La lunga e drammatica carriera di Gyorgy Lukacs (nato nel 1885 a Budapest tra la nobiltà ebraica, si fece chiamare anche Georg [von] Lukacs e scrisse tutta la sua opera in tedesco) si divide in quattro grandi periodi. Studia in gioventù filosofia e sodologia in Germania con i neokantiani e Max Weber, e sviluppa un 'estetica ispirata dal «romanticismo anticapitalistico» (L'Animo e le forme, 1910, trad. it . . Sugar, Milano 1963), insieme con un forte interesse per la mistica ebraica (cfr. Michael Lovy, Rédemplùm el ulapie. Le judoi'sme libero loire en Europe cenlrale, Paris 1988). Diventa marxista durante la pri­ma guerra mondiale, subendo specialmente una fortissima influenza di Rosa Luxemburg e del movimento «spartachista», cosa che lo por· ta a partecipare alla rivoluzione ungherese dei «consigli» di cui è «commissario alla Cultura popolare» (1919). .

I La sua raccolta Sioria e coscienza di classe, pubblicata nel 1923, è il tentativo più sorprendente di riattualizzare l'idea hegeliana di una sintesi dialettica di oggettività e soggettività, integralmente trasposta nell'elemento della «coscienza di classe» e della pratica rivoluzionaria del proletariato, che è il compimento della storia. Condannato dal marxismo ufficiale (al pari dell'opera esattamente contemporanea e per molti aspetti paragonabile di Karl Korsch, Marxismo e filosofia, trad. il. G. Backhaus, Milano 1%6), questo libro, pur rinnegato dal suo autore, diverrà la fonte aperta o nascosta di buona parte del «marxismo critico» occidentale. Dopo il suo trasferimento a Mosca agli inizi degli anni Trenta, e il suo ritorno nell'Ungheria socialista dopo il 1945, Luk:ics sviluppa un'o­pera più ortodossa», erudita e sistematica, che ingloba la teoria del «re-.Ilismo critico» (Il romanzo slorieo, trad. it. Einaudi, Torino 1965), la storia della filosofia (li giovane Hege/ e i problemi dello socielò eopi­lo/islieo, trad. it., Einaudi, Torino 1960), la polemica politico-filosofi­ca (Lo dislTl/zione dello Ragione, studio dell'irrazionalismo nella filo­sofia tedesca e del suo ruolo nella preparazione intellettuale del nazional-socialismo, trad. it. Einaudi, Torino 1959). Aderisce nel 1956 alla rivoluzione nazionale diretta da Nagy e per questo sarà strettamente sorvegliato dalla polizia. Le due grandi ope­re del suo ultimo periodo sono l'Eslelieo 0963, Einaudi, Torino 1971) e, soprattutto, l'Onto/ogio dell'essere socio/e (apparsa dopo la sua morte nel 1971, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1976 e anni suc­cessivi), in cui la «coscienza di sé del genere umano» è studiata come «risoluzione del rapporto tra tdeologia e causalità» sulla base dell' a­lienazione e della disalienazione del lavoro (cfr. Nicolas Tertulian, «Ontologie de l'etre social" in Dictlonnoire crilique du morxisme, Puf, Paris, 2e éd. 1985).

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LA «REIFICAZIONE»

La prima è illustrata dal libro di Lukacs, scritto tra il 1919 e il 1922, Storia e coscienza di classe, in cui viene esposta la grande antitesi tra «reificazione» e «coscienza del proletariato» 20. È, ad un tempo, un'interpretazione geniale ed una estrapolazione dal t"esto di Marx, che ne fa risaltare il lato roman­tico (senza dubbio per altre influenze subite da Lukacs, in particolare quella di Georg Simmel, autore della Filosofia del denaro, 1900, e di Max Weber, e del proprio orientamento di gioventù). Nel feticismo Lukacs legge una filosofi~ totale (una concezione, ad un tempo, della conoscenza, della politica e della storia: la categoria di totalità, d'al­tronde, è posta da Lukacs come la categoria tipica del modo di pensare dialettico, in opposizione al pensiero «analitico» dell'intelletto astratto, di cui la teoria della reificazione consente, per l'appunto, di pensare la genesi).

Rinnegata dal proprio autore, che, dopo il riflusso dell'esperienza rivoluzionaria degli anni Venti, aderisce al marxismo ortodosso della III Internazionale, la teoria lukacciana della reificazio­ne eserciterà, nondimeno, un'influenza considere­vole sulla filosofia del XX secolo. Da un lato, essa ~rà all' origine di una buona parte dei marxismi critici del XX secolo (in particolare di numerosi temi prediletti dalla scuola di Francoforte, da Horkheimer e Adorno a Habermas, che concerno­no la critica della «razionalità moderna», o «bor­ghese», ma anche la critica della tecnica e della scienza come progetti di naturalizzazione della sto­ria e del «mondo vissuto»). Dall' altro, Lucien Goldmann ha potuto sostenere in maniera convin­cente, in un corso pubblicato dopo la sua morte 21,

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che nei primi paragrafi del libro (incompiuto) di Heidegger, Essere e Tempo (1927), dedicati alla storicità, sono presenti dei riferimenti letterali a Storia e coscienza di classe. Bisognerebbe conside­rare, allora, che questo libro di Heidegger è, per una parte, una risposta allo «storicismo rivoluzio­nario» che si esprime nella teoria della reificazione, ma anche, forse, l'inizio di una ripresa o di un recupero di alcuni temi di Lukacs: in particolare, nella teoria dell' anonimato sociale (il «Si»), che caratterizzerebbe la vita «inautentica», e, più tardi, nella teoria del «soggiogamento» del mondo da parte della tecnica strumentale.

La teoria di Lukacs si fonda sull'idea che, nel mondo dei valori mercantili, i soggetti sono essi stessi valutati e di conseguenza trasformati in «cose». A questo proposito Lukacs impiega il ter­mine Verdinglichung (reificazione o cosificazione), che in Marx non giocava questo ruolo. Marx aveva detto che i rapporti tra merci (equivalenza, prezzo, scambio) sono dotati di autonomia, e che, pertan­to, vanno a sostituirsi non soltanto ai rapporti per­sonali, ma a rappresentarli. Lukacs, da parte sua, intreccia due idee differenti. Prima, l'idea che l'og­gettività mercantile - quella delle categorie econo­miche e delle operazioni cui hanno dato luogo - è il modello di ogni oggettività, e in particolare del­l'oggettività «scientifica» nel mondo borghese, e ciò permetterebbe di comprendere perché le scien­ze quantitative della natura (la meccanica, la fisica) si sviluppino nell'epoca moderna nel momento stesso in cui si generalizzano i rapporti mercantili. Esse proiettano sulla natura una distinzione tra soggettivo e oggettivo che ha la sua origine nelle

. pratiche dello scambio. 'Poi, l'idea che l' oggettiva­zione, o la razionalizzazione come calcolo e misura

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di valore, si estende a tutte le attività umane: la merce, cioè, diviene modello e forma di ogni oggetto sociale.

Così Lukacs descrive un paradosso: la razio­nalità mercantile estesa alla scienza è fondata su una separazione tra lato oggettivo e lato soggettivo dell'esperienza (cosa che permette di sottrarre il fattore soggettivo - bisogni, desideri, coscienza - al mondo degli oggetti naturali e delle loro leggi matematiche); ma questo è solo un preludio all'in­corporazione di ogni soggettività nell'oggettività (o alla sua riduzione allo statuto di oggetto, che le «scienze umane», o le tecniche di gestione del «fat­tore umano», progressivamente estese a tutta la società, illustrano). In realtà, questo paradosso esprime l'estrema alienazione cui è pervenuta l'u­manità nel capitalismo, e ciò consente a Lukacs di riscoprire alcune tesi sull'imminenza del rovescia­mento rivoluzionario vicine a quelle del Marx dell' Ideologia tedesca (che egli non poteva aver letto a quell' epoca, visto che il testo fu pubblicato solo nel 1932). Le formula, tuttavia, in un linguaggio molto più speculativo (hegeliano e schellinghiano) e vi aggiunge un elemento di messianesimo politico: il proletariato, la cui trasformazione in oggetto è tota­le, è destinato, proprio in virtù di questo, a diveni-. re il soggetto del rovesciamento, cioè il «soggetto della storia» (formulazione inventata da Lukacs). Abolendo la propria alienazione, conduce la storia alla sua fine (o la ricomincia in quanto storia della libertà) e realizza praticamente l'idea filosofica del­la comunità umana. Così la filosofia si realizzereb­be nel suo annientamento: cosa che ritrova di fatto un vecchissimo schema del pensiero mistico (la fine dei tempi è ritorno al «nulla» creatore delle origini).

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LO SCAMBIO E L'OBBLIGAZIONE: IL SIMBOLICO IN MARX

L'estrapolazione di Lukacs è in sé importante e brillante, ma presenta l'inconveniente di isolare totalmente la descrizione del feticismo dal suo con­testo teorico nel Capitale. Ora, quest'ultimo sugge­risce tutt' altro tipo di interpretazione, che, incen­trata sulle questioni del diritto e del denaro, condu­ce a ciò che oggi chiameremmo analisi delle struttu­re simboliche (terminologia di cui Marx non poteva servirsi, ma che permette di esplicitare la posta in gioco delle sue descrizioni del duplice linguaggio che l'universo delle merci «parla»: linguaggio del­l'equivalenza, della misura, formalizzato dal segno monetario, e linguaggio dell' obbligazione, del con­tratto, formalizzato dal diritto). È la seconda vitalità filosofica tra i posteri, di cui avevo parlato.

Citerò qui due lavori molto diversi per le loro intenzioni e per le condizioni in cui furono redatti. li primo è il libro del giurista sovietico Pasukanis (sostenitore del «deperimento dello Stato», elimi­nato durante il terrore staliniano), La teoria genera­le del diritto e il marxismo, pubblicato nel 1924, dunque pressoché contemporaneo al libro di Lukacs 22. Il suo enorme interesse deriva dal fatto che Pasukanis riparte dall' analisi marxiana della forma di valore, ma per sviluppare un'analisi esat­tamente simmetrica della costituzione del «sogget­to di diritto» nella società civile-borghese (per Pasukanis, che si iscrive qui, in un certo modo, nella tradizione del diritto naturale, contro il posi­tivismo giuridico, secondo il quale ogni norma giu­ridica è posta dallo Stato, il fondamento dell'edifi­cio giuridico è il diritto privato, che si può mettere precisamente in corrispondenza con la circolazione mercantile). Come le merci individuali appaiono

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per natura portatrici di valori, così gli individui che scambiano appaiono per natura portatori di volontà e soggettività. Come vi è un feticismo eco­nomico delle cose, così vi è un feticismo giuridico delle persone, e, in realtà, ne costituiscono uno solo, perché il contratto è l'altra faccia dello scam­bio, e l'uno è presupposto dall'altro. Il mondo vis­suto e percepito a partire dall' espressione del valo­re è, in realtà (e Marx l'aveva indicato, era anche la posta in gioco della sua rilettura critica del1aFilò~ sofia del diritto di Hegel,onnipresente nel Capitale), un mondo economico-giuridico.

Analisi più recenti, in particolare quelle di Jean-Joseph Goux 23, ci permettono di precisare quanto esposto sopra. La struttura comune al feti­cismo economico e al feticismo giuridico (e mora­le) e l'equivalenza generalizzata, che sottomette astrattamente e egualmente gli individui alla forma di una circolazione (circolazione dei valori, circola­zione delle obbligazioni). Essa suppone un codice o una misura, ad un tempo materializzata e idealizza­ta, davanti alla quale la «particolarità», il bisogno individuale, devono annientarsi. In un caso, l'indi­vidualità è esteriorizzata, diviene oggetto o valore, mentre nell' altro è interiorizzata, diviene soggetto o volontà, il che consente precisamente a ciascuna di completare l'altra. Seguendo questa via, non si sfocia in una teoria del soggetto della storia, o del passaggio dall'economia (mondo degli individui privati) alla comunità dell'avvenire, come in Lukacs e nei suoi eredi. Ma si possono trovare in Marx le basi di un'analisi dei modi di soggezione­e il feticismo economico-giuridico è uno di essi - la quale si interessi al rapporto delle pratiche con un ordine simbolico costituito nella storia. Osservia­mo qui che tale lettura di ispirazione strutturalisti-

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ca (che è naturalmente anch'essa una estrapolazio­ne) è, di fatto, molto più vicina di quanto non sia quella di Lukacs alla critica, formulata nelle Tesi su Feuerbach, dell'essenza umana come qualità gene­rale «alloggiata» negli individui. Per contro, essa obbliga a mettere a confronto Marx, passo dopo passo, con i risultati dell'antropologia culturale, della storia del diritto e della psicanalisi.

LA QUESTIONE DEI «DIRIm DELL'UOMO»

Come accade che siano possibili interpretazioni tanto diverse a partire dallo stesso testo? La rispo­sta coinvolge tutta l'idea che ci si fa della «critica dell'economia politica» in Marx, ed esigerebbe soprattutto che esaminassimo da vicino il duplice uso, profondamente anfibologico, come direbbero i filoso,fi, che Marx ha fatto qui del termine di Nr, sona: da un lato, di fronte alle «cose» (merci e moneta) costituite dalla circolazione, le persone sono gli individui reali, preesistenti, impegnati con altri in un' attività sociale di produzione; dall' altra, con queste stesse «cose», sono funzioni del r~ppor­to di scambio, o ancora, come dice Marx, delle «maschere» giuridiche che gli individui devono indossare per «portare» essi stessi i rapporti mer­cantili. Sarebbe una discussione abbastanza tecnica e forse fastidiosa. Ma possiamo indicarne immedia­tamente una grande posta in gioco politica: è la questione dell'interpretazione dei diritti dell'uomo.

La posizione di Marx si è manifestamente evoluta riguardo a questo punto. In uno dei suoi testi «giovanili» (prima di tutto il Manoscritto del 1843 e la Questione ebraica del 1844 che contiene la famosa esegesi delle Dichiarazioni dei diritti del-

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l'uomo e del cittadino francesi) si combinano, come ha ben mostrato Bertrand Binoche 24, un'ispirazio­ne proveniente da Hegel (critica dell' astrazione metafisica dei «diritti dell'uomo», che si ritiene esi­stano dall'eternità e valgano per tutte le società) e un'ispirazione proveniente da Babeuf e dai comu­nisti egalitari (critica del carattere borghese del­l' «uomo» universale evocato dalle Dichiarazioni, tutti i diritti delle quali riconducono al carattere inalienabile della proprietà ed escludono il dovere di solidarietà sociale). I diritti dell'uomo, separati dai diritti del cittadino, vi appaiono, allora, come 1'espressione speculativa della scissione dell' essenza umana, tra la realtà delle ineguaglianze e la finzione della comunità. Questa analisi evolverà profondamente, in partico­lare sotto l'influenza della polemica condotta da Marx con Proudhon e della critica del liberalismo economico. Nei Grundrisse vi è uno sviluppo importante 25, che vede Marx identificare l'equazio­ne di eguaglianza e libertà, cuore stesso dell'ideolo­gia dei diritti dell'uomo e della «democrazia bor­ghese», con una rappresentazione idealizzata della circolazione delle merci e del denaro, che ne costi­tuisce la «base reale». La stretta reciprocità di uguaglianza e libertà - che è ignorata dalle società antiche e negata dalle società medievali, mentre, al contrario, è vista dalle società moderne come la restaurazione della natura umana - può esse~ dedotta dalle condizioni nelle quali, sul mercato, ogni individuo si presenta davanti all' altro come portatore dell'universale, cioè del potere d'acqui­sto in quanto tale. Uomo «senza qualità particola­re», quale che sia d'altronde il suo status sociale (re o lavoratore), e la grandezza dei suoi fondi (ban­chiere o semplice salariato) ...

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Libertà, uguaglianza, proprietà

Questo legame privilegiato tra la forma della circo­lazione e il «sistema della libertà e dell'uguaglian­za» è, ben inteso, conservato nel Capitale. Sono precisamente le «proprietà», Eigenschaften, attri­buite dal diritto agli individui (a cominciare dalla proprietà di essere proprietario, Eigentiimer: di nuovo questo fondamentale gioco di parole che ci era apparso in Stirner), richieste per la circolazione delle merci come catena infinita di scambi «tra equivalenti», e che sono universalizzate dal discor­so della politica borghese come espressioni dell'es­senza umana. Si può dunque suggerire che il rico­noscimento generale di questi diritti, in una «società civile» che a poco a poco assorbe lo Stato, «vero Eden dei diritti innati dell'uomo», dove «regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham» 26 (cioè il principio di utilità individua­le), corrisponde àll'estensione universale degli scambi mercantili (ciò che i classici chiamavano «la grande repubblica commerciante»).

Ma ciò che ora interessa Marx sono le con­traddizioni che l'universalità di questa forma inge­nera. Nella sfera della produzione, in cui i lavorato­ri salariati entrano per contratto, come liberi ven­ditori della propria forza-lavoro, essa esprime immediatamente un rapporto di forze: non solo attraverso la serie infinita di violenze che essa r:naschera, ma in quanto mezzo per decomporre il collettivo dei produttori, benché tecnicamente richiesto dalla grande industria, in una giustappo­sizione forzata di individualità separate le une dalle altre. Si tratta, certo, come si potrebbe dire pla­giando Rousseau, di «forzare gli individui ad essere liberi». Al contempo, Marx descrive il movimento

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del capitale come movimento di un grande «auto­ma» indipendente dagli individui, che senza posa «pompa» pluslavoro per valorizzarsi, e di cui i capi­talisti non sono che gli strumenti «coscienti». Viene allora annullato il riferimento fondatore dei diritti dell'uomo alla volontà libera degli individui, esatta­mente come era annullata l'utilità sociale di ogni lavoro particolare. Come il valore «in sé» era proiet­tato nel corpo del denaro, cosÌ l'attività, la produtti­vità, la potenza fisica e intellettuale sono proiettate in questo nuovo Leviatano che costituisce il capitale sociale al quale, in maniera quasi «teologica», esse sembrano appartenere «per natura», poiché gli indi­vidui ne dispongono solo e soltanto attraverso lui 27.

Tuttavia, l'accento posto su queste contraddi­zioni non può non ripercuotersi sul significato dei «diritti dell'uomo», poiché questi ultimi appaiono,

. con ciò, come il linguaggio con cui si maschera lo sfruttamento e, al contempo, come il linguaggio in cui si esprime la lotta di classe degli sfruttati: piut­tosto che di una verità o di un'illusione, si tratta dunque di una posta in gioco. E, difatti, Il Capitale, nel suo capitolo sulla «giornata lavorativa» in cui sono riferiti i primi episodi della «guerra civile tra la classe capitalistica e la classe operaia» 28, ironizza sull'inutilità del «pomposo catalogo dei diritti ina­lienabili dell'uomo», valorizzando, in contrasto, la «modesta Magna Charta di una giornata lavorativa limitata dalla legge», che permette agli operai di conquistare «come classe, una legge di Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vender sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale». Ma, nelle sue prospettive rivoluziona­rie di superamento del capitalismo, qui il discorso marxiano si conclude non con la negazione della

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libertà e dell'eguaglianza individuale (cosa che all'epoca cominciava ad essere chiamato collettivi­smo), ma con la «negazione della negazione», cioè «la proprietà individuale fondata sulla conquista dell'era capitalistica, sulla cooperazione e sul posses­so collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso» 29.

DALL'IDOLO AL FETICCIO

Possiamo tracciare il bilancio di questo percorso che, seguendo 1'oscillazione di Marx stesso, ci ha condotto dall'ideologia al feticismo e alle sue diffe­renti possibilità di interpretazione? Ogni confron­to deve, beninteso, tener conto, ad un tempo, degli elementi comuni alle due esposizioni e della distanza che le separa: da un lato, un testo provvi­sorio, mai pubblicato (anche se la traccia delle sue formulazioni si ritrova dappertutto); dall'altra, un'esposizione lungamente rielaborata, collocata dall' autore in un punto strategico della sua «critica dell'economia politica». Tra le due, una rifondazio­ne completa del progetto «scientifico» di Marx, un cambiamento di terreno, se non di obiettivo, una rettifica delle sue prospettive di rivoluzione sociale, passando dall'imminenza alla lunga durata.

Ciò che è manifestamente comune alla teoria dell'ideologia e- alla teoria del feticismo è il fatto che esse tentano di mettere in relazione la condi­zione degli individui, isolati gli uni dagli altri dalla estensione universale della divisione del lavoro e della concorrenza, con la costituzione e il contenu­to delle astrazioni (o delle generalità, degli univer­sali) «dominanti» all' epoca borghese. È, ancora, il fatto che esse cercano di analizzare la contraddizio-

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ne interna che si sviluppa con il capitalismo tra l'uni­versalità pratica degli indi:vidui (la molteplicità dei loro rapporti sociali, la possibilità 'di dispiegare le loro attività e le loro «capacità» singole che la tecnica, moderna dà) e l'universalità teorica delle nozioni di lavoro, valore, proprietà, persona (che tende a ricon­durre tutti gli individui alla condizione di rappresen­tanti intercambiabili di una sola e medesima specie o «essenza»). È, infine, l'utilizzazione di un grande schema logico derivato da Hegel e da Feuerbach, e costantemente rielaborato da Marx, ma mai abban­donato in quanto tale: quello della alienazione.

Alienazione vuoI dire oblio dell' origine reale delle idee o generalità, ma anche inversione del rapporto «reale» tra l'individualità e la comunità. La scissione della comunità reale degli individui è seguita da una proiezione o trasposizione del rap­porto sociale in una «cosa» esterna, un terzo termi­ne. Semplicemente, in un caso, questa «cosa» è un «idolo», una rappresentazione astratta che sembra esistere di per se stessa nel cielo delle idee (la Libertà, la Giustizia, l'Umanità, il Diritto), mentre, nell' altro, essa è un «feticcio», una cosa materiale che sembra appartenere alla terra, alla natura, eser­citando sugli individui una potenza irresistibile (la merce, e, soprattutto, il denaro).

Ma questa differenza comporta rilevanti con­seguenze, che si dispiegano tanto in Marx quanto in chi è venuto dopo di lui (marxista o meno). Le riassumiamo schematicamente, dicendo che ciò ' che è abbozzato dall'Ideologia tedesca è una teori~ della costituzione del potere, mentre ciò che è descritto dal Capitale, con la sua definizione difeti­cismo, è un meccanismo di soggezione. I due· pro­blemi, naturalmente, non possono essere totalmen­te indipendenti, ma attirano la nostra attenzione su

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processi sociali distinti, e impegnano in maniera differente la riflessione sulla liberazione.

Questa alternativa potrebbe essere esposta su tutta una serie di registri.

Così, per quel che concerne il riferimento al lavoro e alla produzione. Dal lato dell'ideologia, l'ac­cento viene posto sulla denegazione o sull' oblio delle condizioni materiali della produzione, e dei limiti che esse impongono. Nel campo ideologico, ogni produ­zione è denegata, o è sublimata, diviene una «crea­zione» libera. Per questo, la riflessione sulla divisione tra lavoro manuale e intellettuale, o sulla differenza intellettuale, è qui centrale. Si è visto che essa per­mette a Marx di spiegare il meccanismo grazie al quale un dominio ideologico di classe si riproduce e si legittima. Dal lato della teoria del feticismo, al con­trario, l'accento viene posto sul modo in cui ogni produzione è subordinata alla riproduzione del valo­re di scambio. Quel che diviene centrale è la forma della circolazione mercantile, e la corrispondenza puntuale che vi si stabilisce tra le nozioni economi­che e le nozioni giuridiche, la fonna egualitaria dello scambio e quella del contratto, la <<libertà» di vende­re e comprare e la <<libertà» personale degli individui. . Si potrebbe ancora mostrare che i fenomeni di

alienazione, con cui qui abbiamo a che fare, si svi­luppano in senso inverso: da un lato, rientrando nel campo della credenza, hanno a che vedere con l'«idealismo» degli individui (con i valori trascen­denti che proclamano: Dio o la Nazione, o il Popo­lo, o anche la Rivoluzione), dall'altro, rientrando nel campo della percezione, hanno a che vedere con il realismo o l' «utilitarismo» degli individui (con le evidenze della vita quotidiana: l'utilità, i prezzi delle cose, le regole del comportamento «normale»). E già questo non sarebbe senza conseguenze politiche:

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sappiamo infatti che la politica (compresa la politica rivoluzionaria) è, ad un tempo, una questione di ideali e una questione di abitudini.

Lo stato o il mercato

Ma questa differenza ci porta, infine, alla grande opposizione che riassume tutte le precedenti. La teo· .. ria dell'ideologia è fondamentalmente una teoria del­lo Stato (irÌtendiamo: del modo di dominio inerente allo Stato), mentre quella del feticismo è fondamen­talmente una teoria del mercato (intendiamo: del modo di soggezione, o di costituzione, del «mondo» di soggetti e oggetti inerente l'organizzazione della società come mercato e il suo dominio da parte di potenze mercantili). Questa differenza si spiega pro­babilmente con i momenti, addirittura i luoghi, diffe­renti (Parigi, Londra: la capitale della politica e la capitale degli affari), nei quali Marx ha elaborato l'u­na e l'altra teoria, e con l'idea differente che si è fatto egli, allora, delle condizioni e degli obiettivi della lot­ta rivoluzionaria. Dall'idea di un rovesciamento del dominio borghese divenuto contraddittorio con lo sviluppo della società civile, si è passati all'idea di risoluzione di una contraddizione inerente al modo di socializzazione prodotto dal capitalismo.

Si spiega anche - ma le due cose sono eviden­temente legate - con le fonti principali della sua riflessione, che sono anche gli oggetti della sua cri­tica. La teoria del feticismo è stata elaborata in contrappunto alla critica dell'economia politica, perché Marx ha trovato in Smith, e soprattutto in Ricardo, una «anatomia» del valore interamente fondata sulla quantificazione del lavoro e sulla nozione «liberale» di una regolazione automatica del mercato attraverso il gioco degli scambi indivi-

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duali. Per contro, se ha teorizzato l'ideologia in funzione del problema dello Stato, è perché Hegel aveva, come abbiamo visto, dato una stupefacente definizione dello Stato di diritto come egemonia che si esercita sulla società.

Può essere chiarito, allora, il fatto, notevolissi­mo, che alcuni teorici contemporanei, che devono tutti qualcosa di essenziale alla nozione marxiana di ideologia, e in particolare alla sua concezione delle condizioni di produzione dell'ideologia o delle idee, si imbattano inevitabilmente in alcune questioni di origine hegeliana: gli «intellettuali organici» (Gram­sci), gli «apparati ideologici di Stato» (Althusser), la «nobiltà di Stato» e la <<violenza simbolica» (Pierre Bourdieu). Ma già Engels, quando riscopre il con­cetto di ideologia nel 1888 (in Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca), si propone di mostrare ciò che fa dello Stato «la prima potenza ideologica», e di disvelare la legge di suc­cessione storica delle «concezioni del mondo» o del­le forme dell'ideologia dominante che conferiscono agli Stati di classe la loro legittimità (religiosa o giu­ridica). In compenso, è nella vitalità tra i posteri del­l'analisi del feticismo che bisogna cercare tanto le fenomenologie della «vita quotidiana», comandata dalla logica della merce, o dal simbolismo del valore (la scuola di Francoforte, Henri Lefebvre, Guy Debord; Agnes Heller), quanto le analisi dell'imma­ginario sociale strutturato dal «linguaggio» del denaro e della legge (Maurice Godelier, Jean-Joseph Goux, o Castoriadis, che sostituisce l'istituzione alla struttura, o anche Jean Baudrillard, che in qualche modo inverte Marx, studiando un «feticismo del valore d'uso» invece del «feticismo del valore di scambio»).

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NOTE

I Marx, com'è noto, non è l'inventore del termine ideolo­gia, creato dagli ... ideologi (Destutt de Tracy, i cui Elementi di ideologia sono apparsi tra il 1804 e il 1815). Non è neanche !'in­ventore del rovesciamento del suo uso da positivo in negativo, talora attribuito a Napoleone. Per un esame dettagliato del problema si farà riferimento a PATRICK QUANT1N, Les Origines de l'idéologie, Economica, Paris 1987. Al di là delle fonti immedia­te, il termine ha tutta una genealogia filosofica, che, attraverso Locke e Bacone, ci riconduce a due fonti antiche opposte tra loro: le «forme» (eide) platoniche e i «simula cri» (eidola) della filosofia epicurea.

2 «L'arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale dev' essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale, non appena si impadronisce delle masse». Introduzione alla m­tica della filosofia del diritto di Hegel, apparsa nel 1843 negli Annali franco-tedeschi, pubblicati a Parigi da Ma'rx 'e 'Ruge (in K. MARX, La questione ebraica e altri scritti giovanili, trad. di R. Panzieri, Editori Riuniti, coli. «Le idee», Roma 1978, p. 96.

J L'Ideologia tedesca, op. cit, pp. 35-36. • Si veda il libro di SARAH KOFMAN, Camera obscura. De

l'idéologie, Ed. Galilée, Paris 1973. 5 Se si osasse plagiare Habermas, si direbbe che, per il

Marx dell'Ideologia tedesca, la coscienza è evidentemente, di primo acchito, una «azione comunicativa». Lo si vede nella descrizione che egli propone dei rapporti tra coscienza e lin­guaggio: «il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti [VerkehrJ con altri uomini [ ... ]» (L'Ideologia tedesCil, op. cit., p. 20. Nell'edizione francese Verkehr è tradotto con commerce, NdT). Ma questa azione non è sottomessa a priori ad alcuna norma logica o morale. In compenso, rimane inseparabile da una teologia o finalità interna, che esprima l'identità delle nozioni di «vita», «produzione», <<lavoro» e «storia». Cfr. ]ORGEN HABERMAS, Teo­ria dell'agire comunicativo, 2 voli., Il Mulino, Bologna 1986.

6 L'Ideologia tedesca, op. cit., p. 67. . 7 É T1ENNE BALIBAR, «Division du travail manuel et intellec­

tuel», in Dictionnaire critique du marxisme, op. cit .. Qui è mol­to profonda !'influenza di Fourier su Marx - ed Engels - (cfr. SIMONE DEBOUT, L'Utopie de Charies Fourier, Petite Bibliothè-

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que Payot, Paris 1978), come anche quella di Robert Owen. R L'Ideologia tedesca, op. cit., p. 2l. 9 Che, in generale, si considera fondata da KARL

MANNHEIM: cfr. il suo libro Ideologia e utopia (1936), ed. it. Il Mulino, Bologna 1957. Cfr. anche J. HABERMAS, Conoscenza e interesse, ed. Laterza, Roma-Bari 1990.

IO La parola Stand si traduce, a seconda dei contesti, con ordine, statuto, stato. Per la descrizione del ruolo degli intellet­tuali in Hegel si farà riferimento ai Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1991 e Le filosofie del diritto. Dirit­to, proprietà, questione sociale, a cura di Domenico Losurdo, Leonardo, Milano 1989. Per un'analisi degli sviluppi ulteriori di questa problematica vedere CATIIERINE COLLIOT-TIIÉLÈNE, Le Désenchantement de l'État de Hegel à Max Weber, Ed. de Minuit, Paris 1992.

Il Cfr. ALFRED SOIIN-RETHEL, Geistige und korperliche Arbeit, Zur Theorie der gesellschaftlichen Synthesis, Surkamp, Frankfurt a, M. 1970; trad. it., Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Milano 1977.

12 Tra i testi di Marx, Il 18 Brumaio è quello in cui si tro­va abbozzata una descrizione dell'immaginario storico delle masse. Cfr, PAUL-LAURENT ASSOUN, Marx et lo répétition histori­que,"Puf, Paris 1978, e PIERRE MACIIEREY, «Figures de l'homme en bas» in A quoi pense la littérature?, Puf, Paris 1990,

t3 Il paragrafo sul «carattere di feticcio della merce e il suo arcano» costituisce la conclusione del capitolo primo. In realtà fa corpo con il breve capitolo II «Il processo di scam­bio», in cui viene esposta la corrispondenza tra categorie eco­nomiche e categorie giuridiche. Entrambi occupano il posto, essenziale nella logica hegeliana, della mediazione tra l'astratto (<<la merce») e il concreto (<<la moneta e la circolazione delle merci»).

14 Tutto ciò è stato esposto con chiarezza e precisione nel libretto di ALFONSO L\CONO, Le Fétichisme. Histoire d'un concept, Puf, coli. «Philosophies», Paris 1992.

15 Si leggerà, da questo punto di vista, il capitolo XL VIII del III libro del Capitale (edito da Engels), «La formula trinita­ria», che traccia una linea di demarcazione tra economisti «classici» e «volgari», e si conclude così: è «il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capitai e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose. Il grande merito del­l'economia classica consiste nell' aver dissipato questa falsa apparenza e illusiQne, questa autonomizzazione e solidificazio-

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ne dei diversi elementi sociali della ricchezza, questa personifi­cazione delle cose e oggettivazione dei rapporti di produzione, questa religione della vita quotidiana L .. ]» (K. MARX, Il Capita­le, libro III, Il processo complessivo della produzione capitalistica, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 943). Ritornerò pii) avanti sulla questione dei «meriti dell' economia classica».

16 Il Capitale, libro I, op. cir., pp. 104-105. 17 La parola latina sacer ha il duplice significato religioso

di beneficio e di sacrificio. La migliore esposizione della circo­lazione mercantile e monetaria che genera l'apparenza feticisti­ca è quella di SUZANNE DE BRUNHOFl', «II linguaggio delle merci», in Les Rapports d'argent, Pug/Maspéro, Paris 1979. Si veda anche il libro di ALAIN LIPIETZ (Le monde enchanté. De la valeur à l'envol inflationniste, La Découverte/Maspéro, Paris 1983) con interessanti sviluppi sull' argomento.

18 M. FOUCAULT, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1967, capitolo IX. "1

19 Il Capitale, libro I, op. cit., p. 108. 20 G. LUKAcs, Storia e coscienza di classe, Mondadori,

Milano 1973. . 21 LUCIEN GOLDMANN, Luktics et Heidegger, frammenti

postumi ordinati e presentati da Y. Ishagpour, DenoeVGon­thier, Paris 1973. Una buona discussione dei rapporti tra la filosofia di Heidegger e il marxismo è nell'opera di ]EAN-MARIE VINCENT, Critique du travai!. Le Faire et l'Agir, Puf, Paris 1987.

22 E. B. PASUKANIS, La teoria generale del dintto e il marxi­smo, in Teorie sovietiche del diritto, Milano 1964.

2) In Freud, Marx, économie et symbolique, Le Seui!, Paris 1973.

2. Nel suo libretto, Critiques des droits de l'homme, Puf, Paris 1989.

2' K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell' eco­nomia politica 1857-1858, tomo I, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 207-221.

2. Il Capitale, op. cir., libro I, p. 208. 27 Ibid., cap. XIII, «Macchine e grande industria», 4, «La

fabbrica». 18 Ibid., cap. VIII, 7, pp. 334-339. 29 Ibid., cap. XXIV, 7, «Tendenza storica dell'accumula­

zione capitalistica».

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IV. TEMPO E PROGRESSO: ANCORA UNA FILOSOFIA DELLA STORIA?

Le discussioni precedenti rischiano di dare l'im­pressione che la filosofia in Marx, in fondo, avreb­be sempre solo un significato preliminare. Passata la proclamazione di un'uscita immediata dalla filo­sofia, cosa troveremmo infatti? La critica dell'ideo­logia e l'analisi del feticismo. Ora, l'una è il pre­supposto del ritorno alle cose stesse, la traversata della coscienza astratta che si è edificata sull' oblio delle sue origini nella divisione del lavoro. Mentre l'altra è l'inverso della critica dell'economia politi­ca, che sospende l'apparenza di oggettività delle forme mercantili, per risalire alla loro costituzione sociale, e liberare la «sostanza» del valore: il «lavo­ro vivo».

VuoI dire che, dal punto di vista di Marx, la filosofia si esaurisce in una critica della ragione (o della sragione) sociologica, economica e politica? Non è questo, evidentemente, il suo progetto. La critica dell'ideologia o quella del feticismo fanno già parte della conoscenza. Sono un momento nel riconoscimento della storicità dei rapporti sociali (e di conseguenza, se si tiene a mente l'equazione programmatica posta nella VI Tesi su Feuerbach, della storicità dell' «essenza umana»). Esse pongo­no che la divisione del lavoro, lo sviluppo delle for­ze produttive, la lotta di classe si manifestino come il loro contrario. La coscienza teorica autonomiz­zata nell'ideologia e la rappresentazione spontanea dei soggetti e degli oggetti, indotta dalla circolazio­ne delle merci, hanno la stessa forma generale:

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costruire la finzione di una «'natura», negare il tem­po storico, negare la loro dipendenza da condizio­ni transitorie, o almeno tirarsene fuori, confinando-. lo, per esempio, nel passato.

Come è detto in Miseria della filosofia (1847): «Gli economisti hanno un singolare modo di pro­cedere. Non esistono per essi che due tipi di istitu­zioni, quelle dell'arte e quelle della natura. Le isti­tuzioni del feudalismo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due tipi di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un'invenzione degli uomini, mentre la loro è un'emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali - i rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli economi­sti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall'influenza del tempo. Sono leggi eterne, sono quelle che debbono sempre reggere la società. CosÌ c'è stata una storia, ma ormai non ce n'è più» l.

n momento critico nel lavoro di Marx rinvia ad un'opposizione tra natura, o tra punto di vista «metafisico», e storia (Gramsci parlerà di «storici­smo assoluto»). E la filosofia di Marx, compiuta o meno che sia, si chiama essa stessa al compito di pensare la materialità del tempo. Ma questa que­stione, come abbiamo anche visto, è inseparabile da una dimostrazione che è costantemente rimessa in cantiere: jl capjtaljsmo ... la.!~~2Eietà ~jYile:horghe"

~~....JlQ.[tan.O.in..se.-S..t~l?~jJ~_:!:l~_ç~_ssiJ~ del COilllJJJ.j­..s.mo. Sono, come avrebbe detto Leibnlz',-«gravidi del futuro». E questo futuro è domani. n tempo,

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secondo ogni apparenza, non è che l'altro nome del progresso, a meno che ne sia la condizione di

: possibilità formale. È questa questione che, per . finire, ci tocca esaminare.

LA NEGAZIONE DELLA NEGAZIONE

Ricordiamo le celebri frasi della prefazione a Pe! la crittca.clell}ecol1().1J!i~p.plttjç,t1:.J 185.9).; «[. .. ] Nellà produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipen­denti dalla lor~ volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di svi­luppo delle loro forze produttive materiali. [. .. ] A un dato punto del loro sviluppo, le forze produtti­ve materiali della società entnrno in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'e­spressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivolu­zione sociale. Con il cambiamento della base eco­nomica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. [ ... ] Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuo­vi e superiori rapporti di produzione non suben­trano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a

. considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni mate­riali della sua soluzione esistono già o almeno sono

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infgrn1azione. A grandi linee, i modi di produzio­ne asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marca­no il progresso della formazione economica della società» 2.

Rileggiamo poi alcune formule sorprendenti del Capitale (1867): «Dal sistema della fabbrica [ ... ] è nato il germe della educazione dell'avvenire, che collegherà per tutti i bambini oltre una certa età il lavoro produttivo con l'istruzione e la ginnastica, non solo come metodo per aumentare la produzio~ ne sociale, ma anche come unico metodo per pro­durre uomini di pieno e armonico sviluppo. [ ... ] L'industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzio­naria, mentre la base di tutti gli altri modi di pro­duzione passata era sostanzialmente conservatrice. L .. ] Dall'altra parte essa riproduce la antica divi­sione ciel lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Si è visto come questa contraddizione assoluta [ ... ] si sfoghi nell'o­locausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nel­le devastazioni derivanti dall' anarchia sociale. Questo è l'aspetto negativo. Però se ora la variazio­ne del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l'effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dapper­tutto, la grande industria, con le sue stesse cata­strofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggiore versatilità possi­bile dell' operaio come legge sociale generale della produzione e l'adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita o di morte. Per essa diventa que-

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stione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità, che è una miserabile popolazione operaia disponibile tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibi­lità assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'indi­viduo totalmente sviluppato, per il quale differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l'uno con l'altro. [ ... ] Non c'è dubbio che l'inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia conquisterà anche all'i­struzione tecnologica teorica e pratica il suo posto nelle scuole degli operai. Non c'è dubbio neppure che la forma capitalistica della produzione e la situazione economica degli operai che le corri­sponde siano diametralmente antitetiche a questi fermenti rivoluzionari e alla loro meta, che è l'abo­lizione della vecchia divisione del lavoro. Lo svolgi­mento delle contraddizioni di una forma storica della produzione è tuttavia l'unica via storica per la sua dissoluzione e la sua trasformazione» 3.

E, per finire, citiamo ancora le frasi conclusi­ve dello stesso Libro I, già richiamate in preceden­za: «Appena questo processo di trasformazione ha decomposto a sufficienza l'antica società in profondità e in estension~, appena i lavoratori sono trasformati in proletari e le loro condizioni di lavoro in capitale, appena il modo di produzione capitalistico si regge su basi proprie, assumono una nuova forma la ulteriore socializzazione del lavoro e l'ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfrutta­ti socialmente, cioè in mezzi di produzione collettivi. e quindi assume una forma nuova anche l'ulteriore espropriazione dei proprietari privati.

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Ora, quello che deve essere espr.opriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai. Questa espro­priazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. [ ... ] Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cre­sce la massa della miseria, della pressione, dell' as­servimento, della degenerazione, dello sfruttamen­to, ma cresce anche la ribellione della classe ope_­raia che sempre più s'ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produ­zione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ulti­ma ora della proprietà privata capitalistica. Gli ~s.P!.opr.lqt.oriue11go,!.o.~sprQPriati [ ... ] l,a produzio­ne capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabi: 4j:~.gi.1JcQ.p~~.esso na.!url!le, . .1.:1 .. p-ropria.~ziQ,oe­E la negazione àeIla negazione» 4.

Ambiguità della dialettica

Come dubitare, quindi, che Marx sia stato, nel XIX secolo, tra Saint-Simon e Jules Ferry, un rap­presentante tipico dell'idea (o dell'ideologia) di progresso? «Vi sono poche suggestioni cosÌ fanta­siose», scrive Robert Nisbet nella sua History 01 the Idea 01 Progress 5, «come quella di quei marxisti occidentali che vorrebbero oggi Sottrarre Marx alla

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tradizione evoluzionistica e progressista del XIX secolo». Solo che per lui il progresso non è la modernità, non è il liberalismo, e ancor meno il capitalismo. O, piuttosto, «dialetticamente», è il capitalismo in quanto rende inevitabile il sociali­smo, e, reciprocamente, è il socialismo in quanto risolve le contraddizioni del capitalismo ...

Questa è probabilmente una delle cause del discredito filosofico che oggi colpisce la «concezio­ne materialistica della storia» cui è legato il nome di Marx. Oggi viviamo infatti la decadenza dell' idea di progresso, per riprendere un'espressione di Georges Canguilhem 6. La nozione di dialettica, nella sua versione hegeliana (dialettica dello «spirito»), o marxiana (dialettica dei «modi di produzione» e delle «formazioni sociali»), o post-engelsiana (dia­lettica della «natura») occupa a questo riguardo una posizione fondamentalmente ambivalente. Essa appare ad alcuni come un'alternativa, al positivismo del p'rogres~9. Allo schema di un movimento conti­nuo, uniformemente ascendente - «il progresso è lo sviluppo dell'ordine», secondo l'espressione di Auguste Com te, che riconosceva egli stesso il suo debito verso la Filosofia dei LUIl1i e in particolare verso Condorcet -, la nozione di dialettica oppone, infatti, la rappresentazione delle crisi, dei conflitti «inconciliabili» e del «ruolo della violenza nella sto­ria». D'altra parte, tuttavia, tale nozione essa può essere designata come la realizzazione compiuta dell'ideologia di progresso (della sua potenza irresi-

, stibile), poiché mirerebbe a.raccogliere tutto questo «negativo» in una sintesi superiore, per dotarlo di un senso e metterlo, «in ultima istanza», al servizio di ciò che sembrava contraddire.

Scopo di questo capitolo è mostrare che le cose sono tuttavia meno semplici di quanto un

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semplice rovesciamento dei giudizi di valore potrebbe far supporre. Sono meno semplici nello stesso Marx (del quale avranno importanza qui prima di tutto non le opinioni, ma i ragionamenti e le indagini). Lo sono anche in ragione della molte­plicità delle questioni che abbraccia la nozione, invero troppo sfuggente, di un «para"digma» del progresso. Piuttosto che leggere in Marx l'illustra­zione (tra le altre) di un'idea generale, è interessan­te utilizzarlo come un rivelatore, un analizzatore dei problemi inerenti a tale idea.

LE IDEOLOGIE MARXISTE DEL PROGRESSO

Ma dobbiamo prima misurare integralmente il posto occupato dal marxismo, come teoria e come movimento o «credenza» di massa, nella storia sociale dell'idea di progresso. Se nella nostra epoca si sono attardate non solo dottrine più o meno influenti (e chi dice che non esistano più?), ma qualcosa di simile ad un «mito» collettivo del pro­gresso, lo si deve per una parte essenziale al marxi­smo. Il quale, più di qualunque altra teoria, ha per­petuato l'idea che «coloro che sono in basso» gio­cano un ruolo attivo nella storia, spingendosi, e spingendola, verso l'«alto». Nella misura in cui !'i­dea di progresso include più che una speranza, una certezza anticipata, questa rappresentazIone gli è del tutto indispensabile, e non si capirebbe nulla della storia del XX secolo se se ne facesse astrazio­ne. Dalla prova della Grande Guerra, almeno, le civiltà «sanno di essere mortali», come scrisse Valéry, e la spontaneità del progresso è divenuta propriamente inverosimile ... Solo l'idea che esso è realizzato in modo rivoluzionario, o in modo rifor-

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mista, dalle masse che aspirano alla propria libera­zione, può dunque accreditare questa rappresenta­zione. E a questo è servito il marxismo, e non biso­gna meravigliarsi che, al tempo stesso, esso non abbia smesso di rafforzare nel proprio seno questa preminenza della rappresentazione del progresso.

BENJAMIN

Nato a Berlino nel 1892 e mono a Pon-Bou nel 1940 (dove si suicidò temendo di essere consegnato alla Gestapo dalla polizia franchista), Walter Beniamin è spesso considerato a tono come un rappresentan­te della scuola di Francofone (Adorno, Horkheimer, e il primo Mar­cuse, più tardi Haberma~), della quale è stato soltanto il «compagno di strada,. ombroso e incompreso. In gioventù subisce la forte influenza di Georges Sore!, autore. nel 1908, delle Considerazioni sul-111 violen1.fJ (Laterza, Bari 1970), e di Kafka, è amico intimo del teori­co e storico della mistica ebraica, Gershom Schòlem. In seguito sarà convertito al comunismo dalla sua compagna, Asia Lacis. una rivolu­zionaria Iituana, e rimarrà molto legato per alcuni anni a Bertolt Bre­cht, de! quale condividerà il progetto di letteratura milit~nte. La sua tesi di dottorato, Il concetto di critico estetico nel romanticismo tedesco (1919) e la sua opera successiva su Le origini del dramma barocco tedesco non gli permettono di ottenere l'abilitazione universi­taria e lo condannano all'insicurezza, aggravata dall'arrivo al potere del nazismo. La pane essenziale del suo lavoro, costituito di fram­menti e di saggi (diversi dei quali dedicati al grande ispiratore della sua opera della maturità. Boudelaire) era destinata a formare un 'ope­ra storica, filosofica ed estetica sui «passaggi parigini» nell'architettu­ra del secondo Impero, nella quale è analizzata la combinazione di fantastico e di razionalità che fa la «quotidianità» moderna (W. Beniamin. Parigi; copitate del XIX secolo. I 'passages" di Parigi, Einau­di. Torino 1986; e cfr. Christine Buci-Glucksmann, La Roison Boro­que de Boudell1ire lÌ Benjamin. Galilée, Paris 1984; e Susan Buck­Morss, Tbe Dialectics of Seeing. Walter Benjamin and tbe Arcades ProjecfJ MIT Press, Cambridge USA 1989). Dopo aver preso le distanze dall'Urss, e nel contesto tragico del nazi­smo, la sua critica delle ideologie del progresso si orienta - in pani­colare nelle T esi di filosofia della storia del 1940 - verso una riflessio­ne, politica e religiosa ad un tempo, sulla «attualità» (jl'tztuitl, momento di rottura nella storia in cui si affrontano la distruzione e la redenzione (cfr. Michael LOwy, Rédemption l'I utopil', op. cit., cap. 6 e conclusione).

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È giusto parlare qui di marxismo e non solo di socialismo. La tesi del progresso sociale (della sua ineluttabilità, della sua positività) è certamente una componente di tutta la tradizione socialista, tanto nella sua corrente «utopica» quanto nella sua corrente «scientifica»: Saint-Simon, Proudhon, Henry George (Progresso e povertà viene pubblica­to nel 1879). Ma è il marxismo che, de facto, ne ha proposto una versione dialettica (raddoppiando in qualche modo il contenuto dell'idea) e ne ha assi­curato la circolazione tra i grandi movimenti sociali e politici dei differenti «mondi» europei ed extra­europei.

Ciascuno a suo modo, a qualche anno di intervallo, Gramsci e Walter Benjamin l'hanno impietosamente criticato dall'interno, e proprio per questo.

Nei Quaderni del carcere, Gramsci descrive l' «economicismo» della II e della III Internaziona­le come un fatalismo a mezzo del quale i lavoratori e le loro organizzazioni si formano una visione del mondo «subalterna», che fa dell' emancipazione la conseguenza inevitabile dello sviluppo della tecni­ca. E Benjamin, nel suo ultimo testo, le Tesi di filo­sofia della storia del 1940 7,. parla di uno «storici­smo» marxista che sarebbe il tentativo (vano, per definizione) di far riassumere agli oppressi la visio­ne continua e cumulativa, caratteristica 'dei domi­nanti o dei «vincitori», rassicurati di «navigare nel senso della corrente». Questa critica (che non è esente dall'evocare delle formulazioni nicciane) colpisce incontestabilmente nel segno.

Ricordiamo quali sono state le. tre.grll~-lizzaziQni.deL%l2tQg~essism9.l> mar~: .....

Prima. L'ideologia della socialdemocrazia tedesca, e più in generale della II Internazionale.

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Le sue divergenze interne (epistemologiche: per­ché essa è divisa sin dall'inizio tra una concezione naturalistica, in cui la lezione di Marx si combina con quella di Darwin, e una concezione etica, in cui Marx è riletto piuttosto con le lenti di Kant; politiche: con l'opposizione 'tra revisionismo -Bernstein, Jaurès - e ortodossia - Kautsky, Plecha­nov, Labriola) fanno solo risaltare meglio il consen­so sull'essenziale: la certezza del senso della storia. ! Poi. L'ideologia del comunismo sovietico e idel «socialismo reale». Designata da Althusser 8

'come una «rivincita postuma della II Internaziona­le», offre anch'essa i suoi dibattiti: volontarismo economico staliniano; marxismo post-staliniano, che ripiega a poco a poco sulla gestione dello sta­tus quo, e diviso tra i due cerchi dagli interessi, talora antagonistici, del «campo socialista» e del «movimento comunista internazionale». La cosa qui più interessante sarebbe analizzare l'estrema tensione che lo ha caratterizzato (e che spiega pro­babilmente buona parte della sua impresa) tra un progetto di resistenza alla modernizzazione capita­listica (addirittura di ritorno ai modi di vita comu­nitari che esso distrugge), e un progetto di ultra­modernità, o di superamento di questa modernità, attraverso un «salto in avanti» nel futuro dell'uma­nità (non soltanto «i soviet e l'elettrificazione», secondo la parola d'ordine di Lenin nel 1920, ma l'utopia dell'uomo nuovo e l'esplorazione del cosmo).

Infine. L'ideologia dello sviluppo socialista, elaborata in seno al terzo mondo e, ad un tempo, proiettata su di esso dall'esterno dopo la decolo­nizzazione. L'importante, qui, è che esiste una variante marxista e una variante non marxista del­l'idea di sviluppo. Ma le loro frontiere non sono

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fisse: si tratta piuttosto di una permanente emula­zione intellettuale e politica. Divenendo nel XX secolo un progetto di sviluppo per la «periferia» dell'economia-mondo capitalistica (dalla Cina a Cuba, passando per l'Algeria o il Mozambico), ch~ presenta, di nuovo, le sue varianti riformiste e rivo­luzionarie, le sue speranze e le sue catastrofi, il marxismo ha rivelato al meglio la profondità del legame che lo unisce al fondo comune dell' econo­micismo progressista elaborato dal pensiero illumi­nistico, da Turgot e Adam Smith fino a Saint­Simon. Ma è non meno incontestabile che, senza la sfida, in parte reale, in parte immaginaria, rappre­sentata dalla «soluzione marxista», le teorie della pianificazione e dello Stato applicate al terzo Mon­do non sarebbero presentate come teorie alternati­ve dello sviluppo sociale. Lo si vede bene da quan­do regnano incontrastati illiberalismo monetarista e la sua contropartita, «l'ingerenza umanitaria».

Era importante ricordare questa storia, anche se in modo molto allusivo, perché ciò ci porta a relativizzare la critica del progresso stessa, o, alme­no, a non accoglierne senza sospetto tutte le evi­denze. Il fatto che l'ultima in ordine di tempo delle grandi realizzazioni del progressismo marxista sia stata un'ideologia - a un tempo statalista, razionali­sta e populista - della fuoriuscita dal sottosviluppo, dovrebbe dissuaderci dall' annunciare alla leggera la «fine delle illusioni del progresso» a partire dall'Eu­ropa, e, più generalmente, dal «centro» (o dal «Nord»). Come se ci spettasse una volta di più determinare dove, quando e da chi debbano essere ricercate la razionalità, la produttività e la prospe­rità. Le funzioni espletate nella storia del movimen­to operaio dall'immagine della marcia in avanti del­l'umanità e dalla speranza di veder coincidere un

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giorno la realizzazione individuale e la salvezza col­lettiva, attendono ancora, anch'esse, un'analisi det­tagliata 9.

L'INTEGRALITÀ DELLA STORIA

La critica del progresso, che sta per essere , banalizzata dalle filosofie «post-moderne» lO, com­

porta ancora altre trappole. Il piti delle volte essa si annuncia in un linguaggio storicistico anch'esso: come critica di una rappresentazione dominante, sostituzione di un «paradigma» con un altro. Ora, queste nozioni indifferenziate sono più che sospet­te. Vi è, forse, a rigor di termini, una nozione, un paradigma del progresso, che avrebbero regnato dalla filosofia dei Lumi fino al socialismo e al marxismo? Nulla è meno certo. Nessuna discussio­ne su questo punto può fare a meno di un'analisi delle componenti dell'idea di progresso, la cui con­giunzione non è automatica.

Le rappresentazioni del progresso che si for­mano alla fine del XVIII secolo si presentano pri­ma di tutto come delle teorie (o piuttosto delle idee) dell'integralità della storia, sul modello di una curva spazio-temporale, e ciò dà luogo a diffe-ll renti alternative. L'integralità della storia può esseJI! re colta nella distinzione dei suoi «~tadi», nellai «logica» della loro successione. O, invece, può} essere colta nel carattere decisivo di un motnento1 privilegiato (crisi, rivoluzione, rovesciamento) che I riguarda la totalità dei rapporti sociali, la sorte del-, l'umanità. Può essere pensata ugualmente come un processo indefinito, del quale è caratterizzato solo l'orientamento (Bernstein, il padre del «revisioni­smo», dirà una frase famosa: «Lo scopo finale

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[Endiie[J è nulla, il movimento è tutto») Il: O, al contrario, essa può essere definita come il processo che porta a un termine: «stato stazionario» di omo~ geneità o di equilibrio (come in Cournot o Stuart Mill), o anche «ultra-imperialismo» di Kautsky -molto più che in Hegel, benché tutti questi conser­vatori, liberali o socialisti, condividano una mede­sima immagine della soluzione finale delle tensioni e delle ineguaglianze.

Ma, soprattutto, questi differenti modi di rap­presentarsi teleologicamente la storia suppongono che siano combinate due tesi indipendenti l'una dall' altra. L'una pone l'irreversibilità e la linearità del tempo. Da cui discende il rigetto (e la sua pre­sentazione come mitica o metaforica) di ogni idea di un tempo cosmico e di una storia politica ciclici o aleatori. Notiamo subito che l'irreversibilità non è necessariamente ascendente: attingendo o meno ai modelli fisici della «degradazione dell'energia», una buona parte dei teorici della storia nel XIX secolo ha potuto opporre all'idea di progresso quella di decadenza, restando all'interno dello stes­so presupposto (pensiamo al Saggio sull'inegua­glianza delle razze umane di Gobineau, pubblicato a partire dal 1853 e in seguito invocato per accre­ditare, di contro allo schema della «lotta di classe», quello della «lotta di razze»). All'idea di irreversi­bilità deve dunque aggiungersene un'altra: quella di perfezionamento tecnico o morale (o consistente nella combinazione di entrambi). Perfezionamento non significa solo passaggio dal meno al più, o dal peggiore al migliore, ma implica l'idea di un «bilancio» positivo degli inconvenienti e dei van­taggi, quel che si chiamerebbe oggi un optimum (pensiamo qui al modo in cui lo schema leibnizia­no del «migliore dei mondi possibili» si ritrova nel-

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la tradizione' progressista del liberalismo: da Bentham, con la sua definizione dell'utilità come ma.ssimo soddisfacimento per il maggior numero di individui possibile, a Rawls, oggi, col suo «prin­cipio di differenza», che sostiene essere giuste solo quelle ineguaglianze che migliorano la situazione dei più sfavoriti) 12.

Infine, una rappresentazione della storia come progresso può duplicare l'idea di cambiamento attraverso quella di una capacità sempre accresciuta di cambiare, ed è qui, specialmente, che l'accento posto sull'educazione può annodarsi dall'interno all'idea di progresso. Si passa, allora, ad una quarta componente delle idee classiche di progresso, che è, in un certo senso, la più importante politicamente; ma che è anche la più problematica filosoficamente: l'idea che la trasformazione è una trasformazione di sé, dunque, un'autotrasjormazione, o, meglio ancora: un'auto-generazione, nella quale si realizza l'autono­mia dei soggetti 13. Anche il dominio sulle forze naturali e la conquista delle risorse del pianeta devo­no essere pensati, in ultima analisi, in questa pro­spettiva. Come diceva Marx nei Manoscritti del 1844, l'industria e le scienze della natura sono il «libro aperto delle forze essenziali dell'uomo». Si ripresenta qui, di conseguenza, il problema della prtHsi, salvo che non si tratta di pensare una trasfor­mazione individuale, ma collettiva. È per defmizio­ne un'idea laica, o almeno contraria ad ogni rappre­sentazione del corso della storia come risultato di una volontà divina. Ma non necessariamente incom­patibile con differenti trasposizioni dagli schemi teologici del «piano» o dell' «economia» della natu­ra. La difficoltà consiste nel pensarla in modo immanente, senza far intervenire, cioè, una qualche

. forza o principio esterno al processo stesso.

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Una teoria dell'evoluzione?

I teorici del XIX secolo sono alla ricerca di «leggi» del cambiamento o della transizione stori­ca, in modo da situare la società moderna tra il pas­sato, che le rivoluzioni (industriale, politica, perfi­no religiosa) hanno relegato in una preistoria della modernità, e il futuro più o meno prossimo che l'instabilità, le tensioni attuali lasciano presentire. La stragrande maggioranza di essi ha risolto questo problema con l'adozione di schemi evoluzionistici. L'evoluzionismo è, per fare ancora ricorso alla ter­minologia di Canguilhem, «!'ideologia scientifica» per eccellenza del XIX secolo: cioè un luogo di scambio tra i programmi di ricerca scientifica e l'immaginario teorico e sociale (il «bisogno incon­scio di accesso diretto alla totalità») 14. In questo senso, non è praticamente possibile non essere evoluzionisti nel XIX secolo, salvo proporre di nuovo un' alternativa teologica alla scienza. Anche Nietzsche, che ha scritto (ne L'Anticristo, 1888) che «il progresso è soltanto un'idea moderna, cioè un'idea falsa», è ben lontano dall'esserne esente!

Ma questo significa anche che l'evoluzioni­smo è l'elemento intellettuale in cui si affrontano i conformismi e gli attacchi contro 1'ordine stabilito. Mettere tutti gli evoluzionismi sullo stesso piano, significa condannarsi a vedere nella storia delle idee, secondo il motto di Hegel, solo una vasta «notte in cui tutte le vacche sono nere». L'impor­tante è, al contrario, ciò che li distingue gli uni dagli altri, i punti di eresia intorno ai quali si oppongono tra loro. La lotta delle classi non è la lotta delle razze, così come le dialettiche di Hegel, di Fourier o di Marx non sono la legge spenceriana di «differenziazione» crescente (evoluzione dal

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semplice al complesso) o la legge di «ricapitolazio­ne» dell'evoluzione nello sviluppo degli individui, imposta da Haeckel a tutte le discipline antropolo­giche ispirate dall'evoluzionismo biologico.

Possiamo allora ritornare a M./Ux. L' Qgg~tto .~p~çifi!;;Q alquak __ ~,Kli. ha a.pl'li~~!.<2... de,glL~_cbemLçij. evoluzione è .la stQrilil delle,-"f.oc.~iQnLs.Qçialj>~, ~onsiderateco~~-de~egninatecl~l .kll:O. «modo di p.~()5!uzi()~~!. Vi è nei suoi lavori, come abbiamo visto precedentemente, una linea di evoluzione progressiva dei modi di produzione. La quale clas­sifica tutte le.S@€~in rapporto a up. ... ,..ç.d~ intrinseco: la ~ocializzazi()ne,) cioè la ç.~açj!à da parte d~Jnd,i.Yidui.ai.·controllare collettiv.amente 1e..prgpxie .. CQ.tlQiti.QOLdLesis.te.nza. E questa linea è unica, il che vuoI dire non solo che consente di determinare avanzate e ritardi (sia entro le società, sia nel corso della loro storia politica), ma stabili­sce un rapporto necessario tra gli «inizi» e la «fine» della storia (anche se questa fine, il comuni­smo, è concepito come l'inizio di un'altra storia).

Queste concezioni hanno fatto il giro del mon­do, e Marx, per esporle, ha trovato delle formulazio­ni persuasive, che, in un certo senso, la tradizione marxista non ha mai fatto altro che chiosare. Ne ho ricordate alcune prima. Il loro confronto mostra chiaramente che l'idea di evoluzione progressiva, in Marx, è inseparabile da una tesi sulla razionalità del­la storia, o, se si vuole, sull'intelligibilità delle sue for­me, delle sue tendenze, delle sue congiunture.

UNO SCHEMA DI CAUSALITÀ (DIALEmCA r)

Questa tesi si esprime prima, come mostra il testo della Prefazione a Per la critica dell'economia

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DETERMINAZIONE IN ULTIMA ISTANZA

II testo delh Prefazione a Per la critica dell'econom/~ politIco del 1859 ha costituito per lungo tempo l'esposizione canonica della «concezio. ne materialistica della storia», benché esso sia esplicitamente soltanto un programma. I marxisti gli hanno consacrato migliaia di pagine di commenti, per il meglio e per il peggio. L'espressiore «determinazio· ne in ultima istanza". di cui si è presa l'abitudine di cercare la deluci· dazione, non vi figura a lUtte lettere. Sarà coniata più tardi da Engels: «II fattore che in ultima isMnza è determinante nella storia è la produ. zione e la riproduzione della vita re'dle. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l'UniCo fattore determinante, egli trasfor· ma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda» (Lettera a Joseph Bloch del 21 settembre 1890). L'accostamento dei due testi con il dibattito successivo su tale questione suggerisce, tuttavia. che la formulazione di Engels monca ancora di un elemento di demarcazione chiaro con l'economicismo, persinQ col tecnologismo, poiché queste «deviazioni» sono ritornate incessantemente nell'applicazione dello schema marxiano di determinazione dei differenti livelli o istanze del· la pratica sociale. Ciò è dovuto manifestamente al fatto che la «deter· minazione in ultima istanza», per quanto sottili siano le dialettizzazio· ni o azioni reciproche che essa autorizza tra società globale ((forma· zione sociale») e modo di produzione, «base economica» e «sovra· struttura politico. ideologica», forze produttive e forme di proprietà, non fa, in fin dei conti. che far riemergere in modo più assoluto la teleologia dello sviluppo storico. Si comprende allora perché, nello stesso momento in cui scriveva che «l'ora solitaria dell'ultima istanza non suona mai», Althusser proponesse di sostituire alle nozioni di azione reciproca e di azione di ritorno delle sovrastrutture sulla base quella di «surdeterminazione», che traduce la complessità irriducibile del «tutto sociale» posto dalla dialettica materialistica ((Contraddi· zione e surdeterminazione», in Per Morx, op. cit.).

politica, sotto forma di uno schema di causalità sto c

rica. Non essendo esso stesso una conoscenza, ma un programma di indagine e di spiegazione, si annuncia in termini qualitativi, addirittura metafo­rici: «base» e «sovrastruttura», «forze produttive» e «rapporti di produzione», «vita materiale» e «coscienza di sé», non sono in sé delle realtà, sono delle categorie in attesa di applicazione concreta. Alcune procedono direttamente dalla storia e dal­l'economia politica, mentre altre sono importate

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dalla tradizione filosofica. Questo schema di causa­lità ha un'importanza paragonabile ad altre innova­zioni teoriche nel modo di spiegazione del reale: così, lo schema aristotelico delle «quattro cause»; o lo schema newtoniano della forza di attr~zione, della materia (<<forza di inerzia») e del vuoto; o lo schema darwiniano di variabilità individuale e di «selezione naturale»; o lo schema freudiano delle istanze dell' «apparato psichico» ...

Nella forma in cui lo incontriamo qui, biso­gna constatare che questo schema comporta una tensione quasi insopportabile. Poiché, ad un tem­po, subordina interamente il processo storico ad una teleologia preesistente 15, e, tuttavia, afferma che il motore della trasformazione non sono altro che le contraddizioni della vita materiale, «scienti­ficamente constatabili». Non bisogna dunque stu­pirsi che tale schema sia stato costantemente tirato tra interpretazioni divergenti, sia stato oggetto di permanenti rimesse in discussione nella storia del «materialismo storico».

Si vedrà che a questo schema generale gli svi­luppi del Capitale apportano se non dei correttivi, almeno un grado maggiore di complessità. Infatti vi si espone il «processo» o lo «sviluppo» dei rap­porti sociali a tre livelli di generalità decrescente.

Vi è prima, come precedentemente, la linea di progresso dei modi di produzione successivi (asiac tico, schiavistico, feudale o signorile, capitalista, comunista) che fornisce un principio di intelligibi­lità per la successione delle formazioni sociali con­crete. Questo livello è il più manifestamente finali­stico: esso proviene, senz'altro cambiamento che non sia quello di un «rovesciamento materialisti­co», dal modo in cui Hegel e altri filosofi della sto­ria avevano ordinato le epoche della storia univer-

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sale (il «dispotismo orientale» diviene il «modo di produzione asiatico», il «mondo antico» diviene il «modo di produzione schiavistico», ecc.). Ma è anche il più deterministico: non soltanto per la sua linearità, ma per la maniera in cui fonda il tempo irreversibile della storia su una legge dello sviluppo ininterrotto della produttività del lavoro umano. Notiamo tuttavia che si tratta di una determinazio­ne globale, che non esclude nel dettaglio né bloc­co, né stagnazione, e neppure ritorni indietro.

A questo livello, la lotta di classe non intervie­ne tanto come principio di spiegazione, quanto come suo risultato d'insieme. Ad ogni modo di produzione corrispondono certe forme di pro­prietà, un certo modo di sviluppo delle forze pro­duttive e di relazione tra lo Stato e l'economia, dunque una certa forma della lotta di classe. Que­st'ultima non si svolge tra signori e servi o mezza­dri nello stesso modo che tra capitalisti e operai 16.

Al limite, la fine o il superamento della lotta di classe in una società comunista non è altro che una conseguenza tra le altre di questa evoluzione. Si ritrova il quadro comparativo che era stato evocato nell'analisi del feticismo della merce, semplicemen­te ordinato nel tempo.

L'ISTANZA DELLA LOTTA DI CLASSE

Ora, nel Capitale, Marx ha voluto concentrar­si su un oggetto molto più specifico: non senza ragione, poiché mette in causa la necessità della rivoluzione. Si tratta della «contraddizione» tra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze-­produttive, e della forma che essa riveste nel capi­talismo. È importante qui leggere i testi con grande

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attenzione. Vanno abbandonate le formulazioni, fortemente influenzate dalla tradizione saint-simo­niana, che 1'ortodossia ha accreditato, seguendo lo Engels dell'Antiduhring (ma anche lo stesso Marx di Miseria della filosofia o del Manifesto comuni­sta). Non si tratta, palesemente, di opporre alla fis­sità della proprietà borghese la mobilità in sé pro­gr~ssista delle forze produttive (come faranno più tardi Keynes o Schumpeter, opponendo l'impren­ditore, l'industriale allo speculatore finanziario). Si tratta della contraddizione crescente tra due ten­denze: la socializzazione della produzione (concen­trazione, razionalizzazione, universalizzazione della tecnologia) e la tendenza alla parcellizzazione della forza-lavoro, al supersfruttamento e all'insicurezza per la classe operaia. La lotta di classe interviene dunque in modo decisivo come operatore del pro­cesso di risoluzione della contraddizione, di cui è impossibile fare a meno. Solo la lotta che siorga­nizza a partire dalla «miseria», dall' «oppressione» e dalla «collera» dei proletari, può «espropriare gli espropriatori», sboccare nella"",«negazione d.slla negazione», cioè nella riappropriazione delle pro­prie forze assorbite nel movimento incessante di valorizzazione del capitale.

Questo punto è tanto più importante, in quanto Marx parla qui di necessità, e anche di necessità ineluttabile. Si vede che questa non è la necessità che si imporrebbe dall'esterno alla classe operaia, ma quella che si costituisce nella propria attività o pratica di liberazione. Il carattere politico del processo è sottolineato dall'uso implicito del modello della Rivoluzione francese: salvo che il dominio che si tratta di «far saltare» non è quello di un potere monarchico, ma quello del capitale nell' organizzazione della produzione sociale. Ben-

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, ché 1'opprima, il capitale non è «al di fuori» del suo popolo. È esso stesso a produrre «i suoi affos­satori». Analogia illuminante, dunque, mfi proble- . matica.

Infine, Marx dedica numerose analisi a un ter­zo livello di sviluppo, ancor più particolare: la tra­sfQfroazione del modo di produzione stesso, o, se si vuole, il movimento dell'accumulazione. Nei capitoli centrali del Capitale dedicati alla «produ­zione di plusvalore assoluto e relativo» 17, alla lotta per la lunghezza della giornata di lavoro, alle tappe della rivoluzione industriale (manifattura, macchi­nismo, grande industria), non è il semplice risulta­to quantitativo che lo interessa (la capitalizzazione crescente di denaro e di mezzi di produzione). Ma è il modo in cui evolvono la qualificazione degli operai, la disciplina di fabbrica, l'antagonismo tra salariati e direzione capitalistica, la proporzione di impiego e disoccupazione (dunque la concorrenza tra i lavoratori potenziali). La lotta di classe inter­viene qui in modo ancor più specifico, dalle due parti simultaneamente. Dalla parte dei capitalisti, i cui «metodi di produzione di plusvalore» sono metodi di pressione sul «lavoro necessariQ» e il grado di autonomia degli operai. E dalla parte dei proletari, che reagiscono allo sfruttamento e spin­gono in tal modo il capitale a ricercare senza posa nuovi metodi. In modo che, a rigore, la lotta 4i classe diviene essa stessa un fattore dell' accumula­zione, come si vede nel contraccolpo che il limite imposto alla giornata lavorativa provoca sui metodi di organizzazione «scientifica» del lavoro e sulle innovazioni tecnologiche: quel che Marx chiama il passaggio dal «plusvalore assoluto» al «plusvalore relativo» (III e IV sezione del libro primo). La lot­ta di classe interviene anche da una terza parte,

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quella dello Stato, posta in gioco del rapporto di forza tra le classi, Stato che l'aggravarsi della con­traddizione porta a intervenire neI processo di lavoro stesso attraverso una «regolazione sociale» sempre più organica 18.

Mi sono dilungato su questi sviluppi un po' più tecn'ici, in primo luogo, per convincere il letto­re che i problemi della filosofia della storia in Marx non devono essere discussi al livello delle dichiarazioni più generali, ma al livello delle anali­si, che è anche quello dell' esplicitazione massima dei concetti. Bisogna, molto semplicemente, tratta­re Marx da teorico: ciò che vale per le figure della coscienza in Hegel, vale per il modo di produzione in Marx. «Leggere Il Capitale» è ancora all'ordine del giorno. Ma intendo anche ricavarne l'osserva­zione seguente: è proprio la combinazione dei tre livelli di analisi, dalla linea di evoluzione di tutta la società all' antagonismo quotidiano nel processo di lavoro, a costituire ciò che Marxintende per razio­nalità della spiegazione storica. Per dirla allora in termini più filosofici, ne risulta che Marx ha fatto sempre meno ricorso a modelli esplicativi preesi­stenti, e che ha sempre più costruito una razionalità senza precedenti. Quest.a razionalità non è né quel­la della meccanica, né quella. della psicologia o del­l'evoluzione biologica, né. quella di una teoria for­male deI conflitto-e' de'Ila strategia, benché essa possa, in determinati momenti, far riferimento a taluna di queste. La lotta di classe, nel mutare incessante delle sue condizioni e delle sue forme, è modello a se stessa.

Questo è precisamente il primo senso che possiamo dare all'idea di dialettica: una logica o forma di spiegazione specificamente adattata aIl'in­terventodeterminante della lotta di classe nel tes-

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suto stesso della storia. Althusser ha avuto ragione, a questo proposito, nell'insistere sulla trasforma­zione che Marx fa subire alle forme precedenti del­la dialettica, e in particolare alle sue forme hegelia­ne (che si tratti del confronto di «padrone e servo» nella Fenomenologia o della «divisione tra soggetto e oggetto» nella Logica). Non che egli non debba loro nulla (al contrario: in un certo senso, egli deve loro tutto, poiché non smette di lavorare su di esse), ma in quanto inverte il rapporto che le «figu­re» speculative intrattengono con l'analisi concreta delle situazioni concrete (come dirà Lenin). Le situazioni non illustrano dei momenti dialettici preesistenti. Sono piuttosto esse stesse dei tipi di processi o di sviluppi dialettici, la serie dei quali può essere concepita come -aperta. Almeno, è que­sto il senso nel quale si impegna il lavoro di Marx.

IL «LATO CArnvO» DELLA STORIA

Ma questo rovesciamento di prospettiva fa solo emergere ancor più le difficoltà, le aporie per­fino, contro cui va di nuovo a cozzare questo pro­getto di razionalità. Occorre liberarne il significato prima di ritornare al modo in cui, infine, si stabili­scono in Marx i rapporti tra «progresso» e «dialet­tica».

Un'espressione sorprendente può qui servirei da guida: <<la.§.!:Qria~ID!:@~l!,g~U~~. Marx l'aveva impiegata in)vJ:.l~tf..ri<l .. deJ1a..fiI9J.Q& contro Proudhon, che cercava di trattenere di ogni cate­goria o forma sociale il «lato buono» che fa progre­dire la giustizia 19. Ma essa sfugge a questo uso e si ritorcé contro il suo autore: è la teoria stessa di Marx che, già quando egli era vivo, si era dovuta

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confrontare col fatto che la storia avanza per il lato cattivo, quello che essa non aveva previsto, quello che mette in causa la sua rappresentazione della necessità e, al limite, la certezza -' che essa crede di poter desumere dai fatti stessi - che la storia, preci­samente, avanzi e che non sia, come la vita secondo Macbeth, «la narrazione di un idiota, pieno di rumore e di furore, e sprovvisto di senso».

QU:iP-Q,2_M!!.r.x l.a_d.el l'i tonia. a spese di Proll,aIiOn,_~ .. e(!~ rifil.ltare una.visione moralistica.e ottimistica della §tQri;,l, (dunque, alla fin fine, conformisticakProucli1'Qj) era stato il primo a ten­tare di adattare degI~hemi hegeliani all' evoluzio­ne delle «contraddizioni economiche» e all'avvento della giustizia sociale. La sua conce~iQ.n~..delp.r.o.­gre,s~2_QçlJ~tgt1J,s.tizi~ ,~~,.p,alH!y.s!.~UUlde,a_ç.h~j.yal.o,d qi.sQ]i,gl}t:~etàe diJibertà~sLimpongono..~.~ stessa dell'universalità ç4-C;:,e§si,J:lJ?p.J~~nt.iOo. -M,aii'(né11846) volle ricordargli cheJa~tQE.ia n,2!l .. , si fa «dal lato buono», cioè in ragione dellà1òi-za intrimeci'e'XeÌPeccelIenza degli ideali umanistici, ancor meno attraverso la forza di convinzione e l'e­ducazione morale: ma attraverso il «dolore del negativo», lo scontro di interessi, la violenza delle crisi e delle rivoluzioni. Non è tanto l'epopea del diritto quanto il dramma di una guerra civile tra le classi, anche se questa non assume necessariamente una forma militare. Dimostrazione strettamente conforme allo spirito di Hegel, che Proudhon e altri esponenti del riformismo avevano molto mal compreso a questo riguardo.

Dimostrazione che, per ciò stesso, non può che rilanciare la nostra questione. ~.!-!~1 in defini­tiva, Uiù conforme di una dialettica del «lato cat-tiv,~,_i~~~~!9,~§.~nsQ-;i!rT~~il.'E[~!!~~§JtQ ga!~l},~t,Q:, Perché ha proprio la funzione - ed è giu-

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sto il caso di Hegel - di mostrare che la fine razio­~ale .4~1<?~viluPE~_storiC::Q (che la sicIilamrri~olu­zione, o riconciliazione, o sintesi) è abbast~ potente p~r .passare.J1J.rra1.!~t§'Q.il.suocontra.rN la «n:on:~ragiol1e» (violenza, passione, miseria), e in. questo senso per ridurlo o assorbirlo. Si dirà anche, circolarmente, che è la capacità che dimo­stra di convertire la guerra, la sofferenza e l'ingiu­stizia in fattori di pace, prosperità e giustizia, a «provare» la sua potenza e la sua universalità. Se possiamo oggi leggere nell' opera di Hegel qualcosa di diverso da una lunga «teodicea» (secondo la sua espressione, ripresa da Leibniz), cioè una dimo­strazione che il «male» nella storia è sempre parti­colare, relativo, mentre la fine positiva che esso prepara è universale, assoluta, non lo dobbiamo forse al modo in cui Hegel è stato trasformato da Marx? E, ancor più, al modo in cui questa trasfor­mazione marxista della dialettica ha incontrato sto­ricamente i propri limiti?

... All'estremo del movimento critico ritroviamo allora la formulazione di Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia, già citate (tesi IX): «L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosÌ forte che egli non può più chiuderle. Questa tem­pesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiJmiamo il progres­so, è questa tempesta».

La storia non avanza solamente «per il lato

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cattivo», ma dal lato cattivo, quello del dominio e della rovina. Testo in cui bisogna intendere, al di là del «marxismo volgare» e al di là di Marx, una ter­ribile ironia diretta specialmente contro quel passo dell'Introduzione al corso di filosofia della storia di Hegel che descrive la rovina delle civiltà passate come la condizione del progresso dello spirito, cioè della conservazione di quanto vi era di univer­sale nel loro «principio» 20. L'ideologia proletaria si sarebbe fondata sull'illusione funesta di riprendere e prolungare questo movimento, che è sempre ser­vito non a liberare gli sfruttati, ma ad istituire l'or­dine e la legge. Resta, allora, come sola prospettiva di salvezza, la speranza di una cesura o interruzio­ne imprevedibile del tempo, di un «arresto messia­nico dell'accadere» che farebbe «saltare un'epoca determinata dal corso omogeneo della storia» (tesi XVII), e offrirebbe ai dominati, ai «vinti» di tutta la storia, la chance improbabile di dare un senso alle loro lotte disperse e oscure. Prospettiva che si dice ancora rivoluzionaria, ma non dialettica, pri­ma di tutto nel senso che essa invalida radicalmen­te l'idea di pratica, o di liberazione come trasfor­mazione, attraverso il proprio lavoro.

Vi è dunque per una dialettica marxista un cammino possibile tra il «lato cattivo» di Hegel e il «lato cattivo» di Benjamin? Se questo fu storica­mente il caso, nel senso almeno che, senza Marx (e senza la differenza di Marx rispetto a Hegel); non si sarebbe mai prodotta una simile critica nei con­fronti di Hegel, si tratta di ricercate fino a che punto una espressione teorica corrisp8nda a que­sta singolarità storica. Ma questo non può essete discusso indipendentemente dagli eventi interve­nuti a incrociare la teoria.

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LA CONTRADDIZIONE REALE (DIALETTICA II)

Marx ha-inwntrato-..due._'lOlte. almeno il «lato catti~o~; -d~lla:~ia,.-COlll~_h2ric.Q.~ato l1rima: n~l.-> 1848 e 'riér187UHo suggerito che la t~r Capitale era anche, in un certo senso, una risposta lungamente differita, formidabilmente sviluppata, ma incompiuta, allo scacco delle rivoluzioni del 1848, alla «decomposizione» del proletariato che doveva «decomporre» la società borghese. Ci si dovrebbe allora meravigliare se vi si può leggere anche la critica interna all'idea di progresso?

Nel Capitale Marx non impiega praticamente mai questo termine (Fortschritt, Fortgang) , se non per opporgli, nello spirito di Fourier, il quadro del­le rovine cicliche del capitalismo (il «dispendio orgiastico» di risorse e vite umane al quale, in pra­tica, corrisponde la sua «razionalità»). Dunque in modo ironico: fintanto che non sarà posta fine alla contraddizione tra la «socializzazione delle forzè produttive» e la «desocializzazione» degli uomini, il discorso sul progresso che fanno la filosofia e 1'e­conomia politica borghesi potrebbe essere sciI o derisione e mistificazione. Ma la contraddizione può aver fine, o semplicemente essere ridotta, solo col rovesciamento della tendenza, con 1'affermazÌo­ne di una contro-tendenza.

Qui si rivela il secondo aspetto: ciò che inte­ressa Marx non è il progresso, ma il processo, o pro­cessus, che diviene per lui il concetto dialettico per eccellenza 21. Il progresso non è dato, non è pro­grammato, può risultare unicamente dallo sviluppo degli antagonismi che costituiscono il processo e di conseguenza esso è sempre relativo a loro. Ora, il processo non è né un concetto morale (spirituali­stico), né un concetto economico (naturalistico), è

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un concetto logico e politico. Tanto più logico, in quanto è costruito sul ritorno, al di là di Hegel, all'idea che la contraddizione è inconciliabile. Tan­to più politico, in quanto deve cercare le sue «con­dizioni reali», la sua necessità dunque, nel suo con­trario apparente, la sfera del lavoro e della vita eco­nomIca.

Si possono dire le cose in modo diverso, ricorrendo a una metafora matematica di cui Marx si è moIto servito: ciò che gli interessa nel corso della storia non è tanto la forma generale della cur­va, l'«integrale», quanto il dzfferenziale, l'effetto di «accelerazione», dunque il rapporto di forze in gioco in ogni momento e che determina il senso della progressione. È dunque il modo in cui, indi­vidualmente e soprattutto collettivamente, la «for­za-lavoro» resiste e tendenzialmente sfugge allo sta­tuto di mera merce che la logica del capitale le impone. Il termine ideale di una tale logica sarebbe ciò che Marx chiama sottQ!pisSione-o.«sussunzio~ ne»...reaie-èella-.tGrza.-1utoro,Jn opposiziQJ:lç! J;l.d J..!J)a s uss.!-!I]~~gne_semplicemen te· formale, limitata al coil"!l'!ltto di lavoro:2 : un'esistenza per i lavoratori int~g.ralmente detel;'minata. dai bisogni del capitale (qualificazione professionale o dequalificazione, disoccupazione o sovraccarico di lavoro, austerità o consumi forzati, a seconda dei casi). Ma questo limite è storicamente inaccessibile. In altri termini, l'analisi di Marx tende a liberare 1'elemento di impossibilità materiale contenuto nel modo di pro­duzione capitalistico: il minimo in comprimibile contro cui cozza il suo «totalitarismo», e da cui procede in cambio la pratica rivoluzionaria del lavoratore collettivo.

Il Manifesto diceva già che la lotta dei lavora­tori comincia «con la loro esistenza stessa». E Il

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Capitale mostra che il ~rimo.JPo~fttG-Ji.que§1a, lotta è l'esistenza di un collettivçi"t:liJavoratori, tan ~ to-nellà fabbrica o nell'impresa, che al di fuori di essa, nella città, nella politica (ma in realtà sempre tra questi due spazi, passando dall'uno all'altro). La «forma salario» ha per presupposto quello di trattare esclusivamente i lavoratori come persone individuali, per poter vendere 'e comprare la loro forza-lavoro come una cosa di maggiore o minor valore, per poterli «disciplinare» e «responsabiliz­zare». Ma il collettivo è una condizione della pro­duzione stessa che rinasce incessantemente. In realtà, vi sono sempre due collettivi di lavoratori, imbricati l'uno nell'altro, formati dagli stessi indivi­dui (o quasi), e tuttavia incompatibili. Un colletti­vo-capitale e un collettivo-proletariato. Senza il collettivo proletario, che nasce dalla resistenza alla collettivizzazione capitalistica, l' «autocrate» capita­lista non potrebbe esso stesso esistere.

Verso la storicità

È questo il secondo senso della «dialettica» in Marx che precisa il primo. Il modo di produzione. capitalistico -la cui «base» è anch'essa «rivoluzio­naria» - n0t1.J!.yò_nfJJ:J. . .cambiare. Il problema allora è di sapere in quale senso. Il suo movimento, dice Marx, è un'impossibilità incessantemente dìfferita. Non un'impossibilità morale o una «contraddizio­ne in termini», ma ciò che si può chiamare una contraddizione reale, ugualmente distinta da una contraddizione puramente formale (termini astratti· che si escludono in virtù della loro definizione) e da una semplice opposizione reale (forze esterne tra loro che agiscono in senso contrario, e delle quali si può calcolare il risultato, il punto di equili-

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brio) 23. Tutta l'originalità della dialettica marxista si gioca, allora, nella possibilità di pensare, senza nulla concedere, che la contraddizione non è u.!!'apparenza, anche «in fin dei conti» o «all'infini­to». Non è neppure un'«astuzia» della natura, come l'insocievole socievolezza kantiana, o della ragione, come l'alienazione hegeliana. La forza­lavoro non cessa mai di trasformarsi in merce, e di entrare in tal modo nella forma del collettivo capi­talistico (che, in senso forte, è il capitale stesso, come «rapporto sociale»). Tuttavia, un simile pro­c~ssò comporta un residuo incoercibile, dal lato degli individui e, ad un tempo, dal lato del colletti­vo (ancora una volta, questa opposizione ci appare non pertinente). Ed è questa impossibilità materia­le che rende necessario il rovesciamento della ten­denza capitalistica, quale che sia il momento in cui tale rovesciamento intervenga.

Le tre questioni della contraddizione, della temporalità e della socializzazione sono, dunque, rigorosamente inseparabili. Si comprende bene quale ne sia la posta in gioco: è ciò che la tradizio­ne filosofica dopo Dilthey e Heidegger chiama una teoria della storicità. Intendiamo con ciò che i pro­bleiIÌi di finalità o di senso che si pongono allivello del corso della storia dell'umanità considerata immaginariamente come una totalità, raggruppata in una sola «Idea» o in una sola grande narrazione, sono sostituiti da problemi di causalità o di azion~ reciproca delle «forze della storia», che si pongono in ogni momento, in ogni presente. L'importanza di Marx a questo proposito è nel fatto che, per la pri-ma volta probabilmente dal conatus (<<sforzo») di Spinoza, la questione della storicità (o del «diffe­renziale» del movimento, dell'instabilità e della tensione del presente verso la propria trasforma-

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zione) è posta nell'elemento della pratica e non in quello della coscienza, a partire dalla produzione e dalle condizioni di produzione, non dalla rappre­sentazione e dalla vita dello spirito. Si verifica ora che, contrariamente alle grida di allarme lanciate preventivamente dall'idealismo, questo rovescia­mento non è una riduzione, ancor meno una sosti­tuzione del determinismo naturale alla causalità· storica. Di nuovo, come nelle Tesi su Feuerbach, siamo usciti dall' alternativa tra soggettivismo e «vecchio materialismo»: ma questa volta è franca­mente dalla parte del materialismo. In ogni caso, dell'immanenza. La contraddizione è, a questo riguardo, un operatore più decisivo che non la prassi (che tuttavia è inclusa dalla contraddizione).

Epperò non era affatto soppressa, in tal modo, la questione di sapere in qual maniera una concezione della storicità come «contraddizione reale», che si sviluppa tra tendenze contempora­nee, potesse coesistere con una rappresentazione della «totalità della storia», fatta di stadi evolutivi e di rivoluzioni successive. Era resa anche più con­flittuale. Ora, nel 1871, Marx ha incontrato di nuo­vo il «lato cattivo» della storia, e, come ho detto, ciò che ne risultò praticamente fu l'interruzione della sua impresa. A partire da questo momento, non smette di lavorare, ma è sicuro di non «com­pletare» più, di non arrivare ad una «conclusione». Non vi sarà conclusione.

Vale la pena, tuttavia, esaminare le rettzfiche che questa situazione induce. Ne conosciamo almeno due. Una fu determinata congiuntamente dall' att.a.crQ. di Bakunin contro la «dittatura marxi­sta» nell'Intern~zionale eclaidisaccordo -drMa.r~ ;;;; il progetto di programma redatto nel 1875 da Liebknecht e Bebel in vista del Congresso di unifi-

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cazione dei socialisti tedeschi. Essa sbocca verso ciò che si è chiamato più tardi !1~lm~r:l'i&moJa questione d~IIa.~(H~I!~j~!9..!l~». L'altra, subito dopo, sgorgò dalla necessità di rispondere ad aIclll1i t~o­rici del populismo e del socialismo russo che lo interro·gavano sùl futuro della «comune rurale». Essa pone· la questione dello «sviluppo non capita­listico». Nessuna delle due ha rimesso in questione lo schema di causalità. Ma entrambe fanno··wc.ilk re ~l. r.a..p portQ.clLM-J!t?' __ e.. della..sua .dialettica con la rappresentazione.del.tempQ .. ,..

LA VERITÀ DELL'ECONOMICISMO (DIALETTICA III)

Negli anni che seguono la repressione della Comune e la dissoluzione dell 'Internazjon,ale (annunciata nei1'876,~a'pratlc~ente -;'~qui~ita al congresso di La Haye del 1872), appare chiaro che la «politica proletaria» di cui Marx si vuole porta­voce e cui, attraverso il Capitale, pensa di apporta­re un fondamento scientifico, non ha nessun posto assicurato nella configurazione ideologica del «movimento operaio», o del «movimento rivolu­zionario». Le tendenze dominanti sono riformiste e sindacaliste, parlamentari o antiparlamentari. L'a­spetto più significativo a questo riguardo è la for­mazione dei partiti «marxisti», il più importante dei quali è la socialdemocrazia tedesca. Dopo la morte di Lassalle (il vecchio rivale di Marx, come lui dirigente della rivoluzione del 1848) e la costi­tuzione del Reich, essa si unifica nel congresso di Gotha sotto impulso dei discepoli di Marx (Bebel, Liebknecht). Marx legge il loro progetto di pro­gramma, ispirato al «socialismo scientifico», e sco­pre che questo, costruito intorno all'idea di uno

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«Stato popolare» (Volksstaat) combina di fatto una utopia della redistribuzione integrale del prodotto ai lavoratori con una «religione dello Stato» che non esclude neanche il nazionalismo. Marx è stato poco prima attaccato violentissimamente-dà BakU:. nin, che denuncia nel marxismo un doppio proget­to di dittatura: dittatura «scientifica» dei dirigenti sui militanti (il partito si modella sullo Stato che pretende di combattere), dittatura «sociale» degli operai sulle altre classi sfruttate (in particolare i contadini), quindi, delle nazioni industriali sulle nazioni agrarie come la Russia. È dunque preso tra i suoi avversari e i suoi sostenitori come tra l'incu­dine e il martello 24. Nel momento stesso in cui il marxismo si presenta come il mezzo, per la classe rivoluzionaria, di sfuggire al dilemma sempre risor­gente tra una mera incorporazione nell'ala «demo­cratica» della politica borghese e un anarchismo (o anarco-sindacalismo) antipolitico, si ripresenta la questione di sapere se esista, propriamente parlan­do, una politica marxista.

Marx, in certo modo, ha risposto in anticipo a tale questione. Non potrebbe esservi altra politica marxista di quella che sorge dal movimento storico stesso, e prende come esempio la democrazia diretta inventata dalla Comune di Parigi, questa «forma alfi­ne trovata del governo della classe operaia» (La guer­ra civile in Francia), della quale egli fa il nucleo di una nuova definizione della dittatura del proletariato. Ma questa risposta non consente di comprendere perché tanti operai, tanti militanti, seguano altre ideologie o altri «sistemi», perché occorra un' orga­ni:u.azione o un'istituzione per la loro educazione e la loro disciplina, di fronte allo Stato borghese. Siamo..­lontani, in ogni caso, dalla «classe universale», porta­trice dell'imminenza del comunismò ... ------

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Il deperimento dello stato

A questa questione le Randglossen su Baku­nin e sul programma di Gotha non rispondono direttamente. Ma forniscono una risposta indiretta introducendo la nozione di transizione: «Tra la società capitalistica e la società comunista sicollo­ca il periodo della trasformazione rivoluzionaria di quella in questa. A ciò corrisponde un periodo di transizione politica in cui lo Stato potrebbe essere solo la dittatura rivoluzionaria del proletariato» 25.

E un po' più avanti abbozza la distinzione tra le «due fasi della società comunista», l'una, in cui regnano sempre lo scambio di merci e la forma salariale come principio di organizzazione del lavo­ro sociale, l'altra, in cui «sarà scomparsa la servile subordinazione degli individui alla divisione del lavoro», e in cui «il lavoro non sarà solo un mezzo di vita ma diverrà esso stesso il primo bisogno vita­le», cosa che consentirà di «superare definitiva­mente l'orizzonte limitato del diritto borghese» e di regolare i rapporti sociali secondo il principio: «Da ciascuno~~S()[lclo leJille-capacità, a. cia.scW10

secondo i suoi bisogni». L'insieme di queste indica­zioni costituisce una descrizione anticipata del deperimento dello Stato nella transizione al comu­nismo, o meglio: una anticipazione del momento storico (quale che ne sia la durata) nel quale si dispiegherà una politica di massa che ha per conte­nuto il deperimento dello Stato.

La tradizione del marxismo ortodosso (e spe­cialmente quella del marxismo di Stato nei paesi «socialisti», a partire dalla fine degli anni Venti) ha tratto da queste indicazioni i germi di una teoria delle tappe o degli stadi del «periodo di transizio­ne» alla società «senza classi» che è culminato nella

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definizione del socialismo, distinto dal comunismo, come «modo di produzione» specifico; teoria crol­lata in seguito insieme con il sistema stesso degli Stati socialisti. Indipendentemente dalle sue fun-

. zioni di legittimazione del potere (che Marx avreb­be chiamato «apologetiche»), questa utilizzazione si iscriveva del tutto naturalmente in uno schema evoluzionistico. Non credo che fosse questo ciò che Marx aveva in mente. L'idea di un «modo di produzione socialista» è affatto contraddittoria con la rappresentazione che Marx aveva del comuni­smo come alternativa al capitalismo, il quale ultimo ne preparava già le condizioni. Quanto all'idea di uno «Stato socialista» o di uno «Stato di tutto il popolo», postrivoluzionario, essa riproduce all'in­circa ciò che Marx criticava in Babeuf e Liebkne­cht, come ha ben mostrato Henri Lefebvre 26. In compenso, è chiaro che lo spazio liberato «tra la ' società capitalistica e la società comunista», descritto qui in termini di periodo o di fase, è lo spazio proprio della politica. Tutti questi termini non traducono altro che il ritorno alla pratica rivo­luzionaria, questa volta come un'attività organizza­ta, nel tempo dell' evoluzione. Come se questo tem­po dovesse aprirsi o distendersi per far posto, «tra» il presente e il futuro, ad una anticipazione pratica della «società senza classi», nelle condizioni materiali della vecchia (ciò che Lenin, con una for­mula logicamente rivelatrice, chiamerà uno «Sta­to/non-Stato», sottolineando chiaramente la sua natura di questione, non di risposta). Parimenti distante dall'idea di imminenza e dall'idea di una maturazione progressiva, la «transizione» qui intravista da Marx è una figura politica della «non­contemporaneità» del tempo storico a sé, ma che rimane iscritta nel provvisorio.

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-La comune russa

Un'apertura paragona bile può essere letta nella ~Q.ITi$l2ondenza-.tenutadaMarx qualçhe an~o._. cl?PO con i rappresentanti del ,popu.lism9 e del socialismo rus~i. Aveva appena terminato di difen­dersi dalle accuse di Bakunin di preparare un' ege­monia dei paesi industrialmente avanzati sui paesi «sottosviluppati» (ricordiamoci che Marx aveva scritto nella Prefazione alla prima edizione del Capitale che i primi indicano ai secondi «l'immagi­ne del loro futuro»), ed eccolo sollecitato a tronca­re il dibattito che opponeva due categorie di lettori russi del Capitale: coloro che dalla legge tendenzia­le (espropriazione dei piccoli proprietari da parte del capitale, seguita dall'espropriazione del capita­le da parte dei lavoratori), presentata da lui come una «fatalità storica», traggono la conclusione che lo sviluppo del capitalismo in Russia è una condi­zione preliminare del socialismo; e coloro che vedono nella vitalità della «comune rurale» coope­rativa il germe di quel che oggi si chiamerebbe uno «sviluppo non-capitalistico», che prefigura il comu­nismo. Marx .ti~PQIlge una prima volta in linea di massimand- i877 27. Nel 1881, viene sollecitato di nuovo da Vera Zasulic, una dei dirigenti del gruppo «Liberazione del lavoro». Conosciamo le quattro minute della sua risposte, di cui solo una versione molto succinta fu inviata alla sua destinataria 28. In tutti questi testi ritorna una medesima idea. Quel che è sorprendente è che quest'idea, giusta o meno che fosse, è perfettamente chiara. Ciò che è non meno sorprendente, è che Marx prova la più gran­de difficoltà non a formularla, ma ad ammetterla per proprio conto 29.

Primo. La legge tenden:dale esposta nel Capi-

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tale non si applica indipendentemente dalle circo­stanze storiche: «Bisogna discendere dalla teoria pura alla realtà russa per discuterne [ ... ] coloro che credono alla necessità storica della dissoluzione della proprietà comune in Russia non possono in nessun caso provare questa necessità attraverso la mia esposizione della marcia fatale delle cose in Europa occidentale. Dovrebbero, al contrario, for­nire argomenti nuovi e affatto indipendenti dallo sviluppo dato da me».

Secondo. La comune rurale (istituita dal governo zarista dopo l'abolizione della servitù del­la gleba nel 1861) contiene nel suo seno una con­traddizione latente (un «intimo dualismo») tra eco­nomia non mercantile e produzione per il mercato, che ha tutte le possibilità di essere aggravata e sfruttata dallo Stato e dal sistema capitalistico, e condurrà alla sua dissoluzione (cioè alla trasforma- ' zione di alcuni contadini in imprenditori e di altri in proletariato agricolo o industriale) se il processo non è interrotto: «Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa».

Terzo, infine. La forma comunitaria (<<rag­gruppamento sociale di uomini liberi non rafforza­to dai legami di sangue»), che è stata preservata da un'evoluzione singolare (<<situazione unica, senza precedenti nella storia»), è un arcaismo: ma questo arcaismo può servire alla «rigenerazione della Rus­sia», cioè alla costruzione di una società comunista, risparmiando gli «antagonismi» delle «crisi», dei «conflitti» e dei «disastri» che hanno segnato lo sviluppo del capitalismo in Occidente, tenuto con­to del fatto che essa si trova ad essere contempora­nea (termine questo cui Marx ritorna con insisten­za) alle forme più sviluppate della produzione capitalistica, da cui essa può prendere in prestito le

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tecniche all' «ambiente» circostante. In questi testi è dunque proposta l'idea di una

molteplicità concreta di vie di sviluppo storico. Ma quest'idea è inseparabile dall'ipotesi più astratta, secondo cui vi è nella storia di differenti formazio­ni sociali una molteplicità di «tempi» contempora­nei gli uni agli altri, di cui alcuni si presentano come una progressione continua, mentre altri ope-

-rano il corto circuito tra il tempo più antico e quel­lo più recente. Questa «surdeterminazione», come dirà più tardi Althusser, è la forma stessa che la sin­golarità della storia riveste. Essa non segue un pia­no preesistente, ma risulta dal modo in cui unità storico-politiche distinte, immerse in un medesimo «ambiente» (o coesistenti in un medesimo «pre­sente»), reagiscono alle tendenze del modo di pro­duzione.

Antievoluzionismo?

Così, con uno straordinario rovesciamento di situazione, dietro la pressione di una questione venuta dall'esterno (così come, probabilmente, dietro la pressione dei dubbi che solleva in lui -quanto alla giustezza di certe sue formulazioni -l'applicazione che gliene propongono allora i «marxisti»), l'economicismo di Marx partorisce il suo contrario:Ìlri~instefiie'c:li'ìp9~esP'i1Ìtl-è1Jotiiì.ioni­stiche. -Questa ironia della teoria è ciÒ che possia­mo chiamare il terzo tempo della dialettica in Marx. Come nooveoereche viè''Una convergenza latente tra le risposte a Bakunin e a Bebel, e la risposta a Vera Zasulic? L'una è come la reciproca delle altre: qui, il nuovo deve sempre ancora aprir­si la via nelle «condizioni» del vecchio, dopo l'in-

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ENGELS

La collaborazione di Friedrich Engels con Marx per 40 anni vieta di procedere a divisioni manichee (il «buon dialettico» Marx e il «catti­vo materialista •• Engels); ma non impedisce né di riconoscere la sua originalità intellettuale, né di valutare la trasformazione che egli fa subire alla problematica marxista. I momenti forti del suo intervento si situano nd 1844 - quando pubblica la Situazione della classe ope­raia in Inghi/te"a. in cui si esprime una versione molto più completa di quanto non fosse nello stesso periodo in Marx della critica del lavoro salariato come alienazione dell'essenza umana - e, per altri versi, dopo il 1875. È Engels in realtà ad avviare l'impresa di dare una forma sistematica al «materialismo storico» e di articolare la strategia rivoluzionaria, le analisi congiunturali e la critica dell' economia politica_ L'aspetto per noi più interessante è la ripresa del concetto di ideologia, a partire dall'Antzduhring (1878). Engels ne dà prima una definizione episte­mologica, centrata sull'apparenza di «verità eterne» delle nozioni del diritto e della morale. Nei manoscritti dello stesso periodo, pubblicati più tardi (1935) con il titolo di Dialettica della natura (Ed_ Riuniti, Roma 1956), questa definizione perviene praticamente all'oppoSto delle resi esposte nell'I­deologia tedesca: !'ideologia. ben lungi dall'essere «senza storia pro­pria». si inserisce in una storia del pensiero, il cui filo conduttore è la contraddizione tra idealismo e materialismo, che ha surdeterminato l'opposizione del modo di pensiero «metafisico» (ciò che Hegel aveva chiamato «intelletto») e del modo di pensiero «dialettico» (ciò che Hegel aveva chiamato «ragione»). Si tratta manifestamente, di fronte alla filosofia universitaria, di dota­re il marxismo di una garanzia di scientificità. Ma questo progetto resta sospeso, in ragione delle proprie aporie intrinseche e perché non è lì la questione principale: essa risiede nell' enigma della ideolo­gia prole/aria, o della concezione comunista del mondo - termine pre­ferito da Engels. perché permette di aggirare la difficoltà di una nozione di «ideologia materialistica. Gli ultimi testi (da Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filoso­fia classica tedesca, 1888, a Per lo storia del cristianesimo primitivo del 1894-95 e all' articolo «Socialismo dei giuristi». scritto con Kautsky nel 1886) discutono congiuntamente due asperri del problema: la suc­cessione delle «concezioni del mondo dominanti», il passaggio cioè da un pensiero religioso a un pensiero laico (essenzialmente giuridi­co) e quindi ad una visione politica del mondo fondata sulla lotta di classe, e il meccanismo di formazione delle «credenze» collettive nei rapporti tra masse e Stato. Il materialismo storico si trova cosÌ dotato di un oggetto e di una deli­mitazione.

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tervento di una rottura politica; lì, il vecchio deve corto-circuitare il più recente, per utilizzarne i risultati «contro corrente».

Come non vedere, anche, che queste proposi­zioni rimaste in parte private, quasi clandestine, e a metà cancellate, sono implicitamente contradditto­rie, se non con le analisi della contraddizione reale nel Capitale, in ogni caso con alcuni dei termini di cui Marx si era servito vent'anni prima, nella Prefa­zione a Per la critica dell'economia politica, quando aveva presentato il suo schema di causalità, in stretta associazione con l'immagine di una linea unica di sviluppo della storia universale? «Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso [ ... ) Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere L .. ]», scriveva allora. Ed ora: «[ ... ] Ma è troppo poco per il mio critico. Egli ha assolutamente bisogno di trasformare il mio schizzo storico della genesi del capitalismo nell'Eu­ropa occidentale in una teoria storico-filosofica del cammino generale, fatalmente imposto a tutti i popoli, quali che siano le circostanze storiche in cui essi si trovano, per arrivare infine a questa formazio­ne economica che assicura, col più grande sviluppo delle capacità produttive del lavoro sociale, lo svi­luppo più integrale dell'uomo. Ma io gli chiedo scu­sa. Egli mi vuoI fare al tempo stesso troppo onore e troppa offesa. [ .. .) Avvenimenti dall' analogia sor­prendente, ma che si svolgono in ambienti storici differenti, portano a risultati affatto disparati [lo svi­luppo o meno del salariato]. Studiando a parte ognuno di questi processi e paragonandoli poi, si troverà facilinente la chiave di questo fenomeno, ma non vi si arriverà mai col grimaldello di una teoria storico-filosofica generale, la cui suprema virtù con-

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LENIN FILOSOFO?

Dal momento in cui il «materialismo storico» venne identificato con un «marxismo-leninismo» (mentre il corpo imbalsamato del «fonda­tore» veniva .deposto nel mausoleo nella Piazza Rossa), il pensiero di Lenin - estratto dai 45 volumi delle Opere complete (Ed. Riuniti, Roma 1955-1970) attraverso migliaia di commentari - diveniva cosa altra dalla filosofia: un riferimento obbligato che da solo dava diritto di esprimersi. Oggi il movimento è inverso (un esegeta recente consi­dera che si tratti di un caso psicopatologico: Dominique Colas, Le Léninisme, Puf, Paris 1982) e occorrerà molto tempo perché si possa­no realmente studiare le argomentazioni di Lenin, nel loro contesto e nella loro economia. Nel marxismo francese, due filosofi, opposti tra loro sotto tutti i pun­ti di vista, hanno analizzato il rapporto di Lenin con la filosofia in modo libero. Henri Lefèbvre (Pour connaitre la pensée de Unine, Bordas, Paris 1957, e la sua edizione con Norbert Guterman dei Cahim sur lo dialectique de Hegel, Nrf, Paris 1938) si è basato soprat­tutto sugli inediti del 1915-1916, in cui Lenin ha cercato nei filosofi classici, specialmente in Hegel, ma anche in Clausewitz, i mezzi di pensare «dialetticamente» la guerra come un processo nel quale con­tinuano ad operare le contraddizioni politiche (cfr. il voI. 38 delle Opere complete). Louis Althusser (Lenin e lafi/osofia, (jaca Book, Milano 1969), le cui analisi saranno continuate da Dominique Lecourt (Une crise et son enjeu, Maspero, Paris 1973), ha cercato in una rilettura di Materiali­smo ed empiriocriticismo (1908, voI. 14 delle Opere complete) gli ele­menti di una concezione «pratica» della filosofia, come tracciato di una linea di demarcazione tra il materialismo e !'idealismo nella com­plessità delle congiunture intellettuali, nelle quali si determinano reci­procamente la scienza e la politica. Ma vi sono altri momenti filosofici in Lenin, i più interessanti dei quali sono probabilmente:

l. Il rimaneggiamento dell'idea del proletariato «classe universale», tentato nel Che fare? (1902, OC, voI. 5) contro l'idea di «spontaneità rivoluzionaria» in termini di direzione intellettuale della rivoluzione democratica (gli si contrapporrà la replica di Rosa Luxemburg dopo la rivoluzione del 1905: «Sciopero di massa, partito e sindacato» in Scritti politici, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1970).

2. All'altro estremo, il lavoro teorico sulla contraddizione della rivolu­zione socialista (<<Stato» e «non-Stato», lavoro salariato e lavoro libe­ro) che va dall'utopia iniziale (Sta/o e rivoluzione, 1917) alle ultime riflessioni di Sulla cooperazione (923). (Si può leggere anche, a que­sto proposito, Robert Linhart, Lenin, i contadini, Taylor, Coines, Roma 1977, e Moshe Lewin, L'ultima battaglia di unin, Laterza, Bari 1969).

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siste nell'essere sopra-storica» 30. Come non vi è capitalismo «in generale», ma unicamente un «capi­talismo storico» 31, fatto dell'incontro e del conflitto di molteplici capitalismi, così non vi è storia univer­sale, ma soltanto delle storicità singole.

Probabilmente non possiamo allora eludere la questione: una simile rettifica non dovrebbe forse ripercuotersi su altri aspetti del «materialismo sto­rico»? Prima di tutto, certamente, sul modo in cui la Prefazione a Per la critica aveva descritto lo «sconvolgimento della sovrastruttura» come con­seguenza meccanica del «mutamento della base economica». Cosa sono infatti l' «ambiente», l' «alternativa», il «dualismo», la «transizione politi­ca», se non altrettanti concetti o metafore che obbligano a pensare che lo Stato e l'ideologia rea­giscono sull' economia, e costituiscono addirittura, in date circostanze, il fondamento stesso sul quale agiscono le tendenze della «base»? Ma probabil­mente, anche, nessun teorico, dacché ha trovato veramente qualcosa di nuovo, può rimaneggiarsi di persona: non ne ha la forza, o la volontà, o il «tem­po» ... Sono altri a farlo. E vale la pena notare qui che l'«azione di ritorno dell'ideologia», la vera nozione dell'economicismo (cioè il fatto che le ten­denze dell'economia si realizzano solo attraverso il loro contrario: le ideologie, le «concezioni del mondo», compresa quella dei proletari) è per l'ap­punto il programma di ricerca di Engels alla fine degli anni 1880. È vero che, cent'anni dopo, a con­fronto una volta di più con il lato cattivo della sto­ria, i marxisti vi sono ancora aggiogati.

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NOTE

1 K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, Editori Riuniti, Roma 1971, parte II, La metafisica dell'economia politica, «Il metodo, setti­ma e ultima osservazione», p. 103.

2 K. MARX. Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 5-6.

J Il Capitale, op. cit., libro I, cap. XIII, pp. 530-535. 4 Capitolo XXIV, «La cosiddetta accumulazione origina­

ria»; 7: «Tendenza storica dell'accumulazione capitalistica», op. cit., pp. 825-26.

, Basic Books, New Y ork 1980. 6 G. CANGUILHEM, «La décadence de l'idée de progrès»,

Revue de métaphisique et de morale, n. 4, 1987. 7 WALTER BENJAMIN, «Tesi di filosofia della storia», in

Angelus Novus - Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1982, pp. 75-86.

• Cfr. Risposta a John Lewis, in L. ALTHUSSER, Umanesimo e stalinismo, De Donato, Bari 1973.

9 Sul modo in cui il marxismo ha trascritto l'idea rivolu­zionaria di socializzazione in un linguaggio evoluzionistico, cfr. JEAN ROBELlN, Marxisme et socialisation, Méridiens/KIincksieck, Paris 1989. Sulle immagini socialiste del futuro nel XIX e XX secolo, si veda MARe ANGENOT, L'Utopie collectiviste, Puf, Paris 1993.

IO JEAN FRANçOIS LVOTARD, La Condizione post-moderna, Feltrinelli, Milano 1987.

" E. BERNsTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocraz.ia, Laterza, Bari 1968.

12 JOHN RAWLS, Una teoria della giustiz.ia, Feltrinelli, Mila­no 1982.

lJ «L .. ] tutta la cosiddetta storia universale non è che la generazione dell'uomo dal lavoro umano, il divenire della natu­ra per l'uomo, così esso ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita da se stesso, del suo processo di origine.» (K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, op. cit., p. 235.

14 GEORGES CANGUILlIEM, «Qu'est-ce qu'une idéologie scientifique?» in Idéologie et rationalité dans l'histoire des scien­ces de la vie, Librairie Vrin, Paris 1977 . Un'eccellente esposi­zione dell' evoluzionismo prima e dopo Darwin è il libro di CANGUILHEM, LAPASSADE, PIQUEMAL e ULMANN, Du développement à l'évolution au XIXe siècle, Puf, Paris 1985; cfr. ugualmente

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De Darwin au darwinisme: science et idéologie, di YVETTE

CONRY, Librairie Vrin, Paris 1983. 15 «I rapporti di produzione borghesi sono l'ultima forma

antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antago­nismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione socia­le si chiude dunque la preistoria della società umana». (Prefa­zione a Per la critica dell'economia politica, op. cit., p. 6).

16 Il Capitale, libro I, op. cit., cap. VIII, «La giornata lavorativa», 2, «La voracità di pluslavoro. Fabbricante e boiar­do», p. 269 sgg.

17 La parola «survaleur», sostituita nell'ultima traduzione francese del Capitale al termine tradizionale, ma equivoco, di «plus-value», equivale esattamente al tedesco Mehrwer!: neolo­gismo forgiato da Marx per designare l'accrescimento di valore del capitale che deriva dal pluslavaro operaio (in tedesco: Meh­rarbeit; in inglese: surplus valuelsurplus lahour).

18 Libro I, cap. XIII, 9: «Legislazione di fabbrica (clauso­le sanitarie e sulla educazione). Sua estensione generale in Inghilterra» (p. 527 sgg.). È stata la scuola «operaista» italiana a sottolineare più vigorosamente questo aspetto del pensiero di Marx: cfr. MARIO TRONTI, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966; ANTONIO NEGRI, La classe ouvrière contre l'Eta!, Galilée, Paris 1978 (contiene i testi: Marx sùl ciclo e la crisi, Clusf, Firenze 1968; Crisi dello Stato-piano, comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Clusf, Firenze 1974; Proletari e Stato, Feltrinelli, Milano 1976). Si veda ugualmente il dibattito che oppose NICOS POULANTZAS (Potere politico e classi sociali, Ed. Riuniti, Roma 1971) a RALPII MILIBAND (Marxism and Poli­tics, Oxford 1977) sull' «autonomia relativa dello Stato» nella lotta di classe.

l' K. MARX, Miseria della filosofia, op. cit., pp. 103-104: «[ ... ] è il lato cattivo che finisce sempre con l'avere il soprav­vento. È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta>'.

20 «Noi camminiamo in mezzo a rovine [ ... ]. Si tratta qui della categoria del negativo [ ... ] che ci fa vedere come quanto vi è stato di più nobile e di più bello è stato sacrificato sull' alta­re della storia [ ... ]. Nella nascita e nella morte, la Ragione vede l'opera che il lavoro universale del genere umano produce ... » (G. W. F. HEGEL, La Raison dans l'histoire, Uge 10/18, Paris

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1986, p. 54, 68). 21 «La parola processo, che esprime uno sviluppo consi­

derato nell'insieme delle sue condizioni reali, appartiene da tempo al linguaggio scientifico di tutt'Europa. In Francia è sta­ta prima introdotta timidamente nella sua forma latina: proces­sus. Poi si è intrufolata, spogliata di questo pedantesco travesti­mento, nei libri di chimica, di psicologia, ecc. e in qualche ope­ra di metafisica. Finirà per ottenere piena cittadinanza nel vocabolario francese. Notiamo di sfuggita che i tedeschi, come i francesi, nel linguaggio ordinario impiegano la parola "pro­cesso" in senso giuridico». (Le CapitaI, Paris 1872-1875, in MEGA, 1I17, Dietz Verlag, Berlin, 1989, capitolo VII, 1, p. 146, nota).

22 Il Capitale, libro I, cap. XIV «Plusvalore assoluto e relativo». Cfr. anche Il Capitale: libro I - Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969.

23 La possibilità di pensare una «contraddizione reale» è la pietra di paragone della dialettica marxista. Cfr. HENRI LEFI:B­VRE, Logique formelle et logique dialectiqtle, Éditions Sociales, Paris, 3a ed., 1982; PIERRE RAYMOND, Matérialisme dialectique et logiqtle, Maspero, Paris 1977. È stata vigorosamente contestata da LUCIO COLLETTI, «Contraddizione dialettica e non-contraddi­zione» (1980) in Tramonto dell'ideologia, Laterza, Bari 1980. La riformulazione della nozione di contraddizione reale era l'oggetto stesso dell'elaborazione di Althusser.

24 I documenti essenziali sono costituiti dalle «note mar­ginali» (Randglossen) redatte da Marx, da un lato sul libro di Bakunin, Statalismo e anarchia, apparso nel 1873, dall'altro sul «progetto di programma del partito operaio tedesco», redatto nel 1875. Le prime sono rimaste inedite fino alla loro pubblica­zione nel XX secolo insieme con altri manoscritti di Marx (li si trova oggi, in particolare, nel volume XVIII dei Marx-Engels Werke, Dietz Verlag, Berlino 1964, pp. 597-642). Le seconde, comunicate a suo tempo ai dirigenti socialisti tedeschi a titolo privato (Marx dichiara di avere alla fine ritenuto inutile pubbli­cade, da to che gli operai socialisti tedeschi avevano letto nel progetto di programma ciò che non conteneva, cioè una piat­taforma rivoluzionaria ... ) sono state aggiunte da Engels, vent'anni dopo, alla sua Critica del programma di Erfurt (1892).

25 «Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco», in MARX, Critica al programma socialdemocratico, ed. del Maquis, Milano 1972. Sulle varianti successive della teoria della «dittatura del proletariato», cfr. il mio articolo del Dic­tionnaire critiqtle du marxisme, op. cit., e Jean Robelin, Marxi-

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sme et socialisation, op. cit. 26 H. LEFEBvRE, Lo Stato, (4 voli.) voI. II, De Donato, Bari

1976-78. 27 Si tratta delle Lettera alla redazione degli «Otecest­

vennye Zapiski» (Annali della patria), conosciuta sotto il nome di Lettera a Michailovskij (in MARX-ENGELs, Lettere mi Capitale, a cura di G. Bedeschi, Laterza, Bari 1971).

28 «Cara cittadina, una malattia di nervi che mi colpisce periodicamente dagli ultimi dieci anni, mi ha impedito di rispondere più presto alla vostra lettera ... ». Tutte queste lettere sono in francese: Marx aveva imparato a leggere il russo, ma non lo scriveva.

29 Nello stesso momento Engels abbozzava considerazio­ni simili a partire dalla sua lettura dei lavori dello storico Georg Maurer sulle antiche comunità germaniche (cfr. «La Marca», in ENGELs, L'origine delta famiglia, Editori Riuniti, Roma, IV ed., 1979; e il commento di M. Lowy e R. SAYRE, Révolte et mélan­colie. Le romantÌJme à contre-courant de la modernité, Payot, Paris 1992, p. 128 sgg.). Questi lavori restano tuttavia dominati dall'influenza dell'evoluzionismo antropologico di LEWls MOR­GAN, Ancient Society (1877), verso il quale Marx provava gran­de ammirazione.

30 Lettera a Michailovskij, op. cit., pp. 157-58. 31 I. WALLERSTEIN, Il capitalismo storico, Einaudi, Torino

1983.

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V. LA SCIENZA E LA RIVOLUZIONE

li lettore che mi ha sin qui seguito, lo so bene, vorrebbe rivolgermi due critiche (almeno).

In primo luogo, egli pensa, Lei è andato da un'esposizione delle idee di Marx ad una discussio­ne «con Marx»: ma senza rimarcare nettamente quando si passa dall'una all'altra. Donde la facilità con cui Lei proietta delle «voci» nel testo, interpreta i suoi silenzi, o quantomeno le sue mezze parole.

In secondo luogo, aggiunge, Lei non ha vera­mente esposto la dottrina di Marx: se non lo avessi­mo saputo da altre fonti, dal Suo libro non avrem­mo appreso come Marx ha definito la lotta di clas­se, come ha fondato la tesi della sua universalità e del suo ruolo «motore della storia», come ha dimo­strato che la crisi del capitalismo è inevitabile e che la sua sola soluzione è il socialismo (o il comuni­smo), ecc. E ugualmente Lei non ci ha dato il modo di sapere dove e perché Marx si è sbagliato, se del marxismo qualcosa possa essere «salvata», se esso è compatibile o meno con la democrazia, con l'ecologia, la bioetica, ecc.

Comincio da quest'ultima critica, e mi dichiaro interamente colpevole. Poiché ho scelto di interessar­mi del modo in cui Marx lavora nella filosofia, e la filosofia in Marx, mi occorreva scartare non solo il punto di vista del «sistema», ma anche quello della dottrina. La filosofia non è dottrinale, non consiste in opinioni o teoremi o leggi sulla natura, la coscienza, la storia ... Soprattutto, non consiste nell'enunciare le più generali di queste opinioni o di queste leggi. Questo punto è particolarmente importante qui per-

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ché l'idea di una «sintesi generale», in cui la lotta di classe si trovi articolata con l'economia, l'antropolo­gia, la politica, la teoria della conoscenza, è puramen­te e semplicemente il tipo di diamat ufficializzato in passato nel movimento comunista internazionale (e va detto chiaramente che, salvo il grado di sottigliez­za, il medesimo ideale di «generalizzazione» regna anche presso molti critici del diamat). Questa ff'rma, ben inteso, è di per sé interessante dal punto di vista della storia delle idee. Essa trova alcuni incitamenti in Marx. Altri, più deliberati, in Engels (che aveva di fronte concorrenti coi quali occorreva misurarsi, le «teorie della conoscenza», le «filosofie della natura» e le «scienze della cultura» dell'ultimo terzo del XIX secolo). Ha trovato alcuni dei più ferventi ammirato­ri tra i neotomisti dell'Università pontificia (si può leggere questo stupefacente episodio in Stanislas Bre­ton, De Rome à Paris. Itinéraire philosophique) 1.

Nel volgere risolutamente le spalle all'idea di dottrina, ho voluto problematizzare alcune questio­ni che guidano il pensiero di Marx: perché, se è vero, come egli stesso proponeva ne r; ideologia tede­sca, che «le mistificazioni» sono «già nelle questio­ni» prima di essere nelle risposte, non bisogna forse supporre che ciò vale a fortiori per le demistificazio­ni, cioè le conoscenze? E perciò riprendere dall'in­terno il movimento teorico che, incessantemente, «sposta le linee» di queste questioni. Ho scelto per questo tre percorsi che mi paiono privilegiati (erano certamente possibili anche altre scelte).

TRE PERCORSI FILOSOFICI

Il primo, partendo dalla critica delle defini­zioni classiche di «essenza umana», sia spiritualisti-

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co-idealistiche che materialistico-sensualistiche (ciò che Althusser ha proposto di chiamare umane­simo teorico, e si potrebbe dire anche: antropolo­gia speculativa), porta verso l~problematica del rapporto sociale. Al prezzo, tuttavia, di un'oscilla­zione sIgnificativa tra t.!!!..Q!JJlto .di vista radicalmen­te negativo, attivistico, quello delle Tesi su Feuerba­ch,in cui il !:ap~ort<l non è nient'altro cheJ~t.tijjl­Fzza,~j()~~aenap?:a,x:ù, ~un punto di vista costrut­tÌyo; 'j5$tiiio:"queflo de J;ideologia tedescd,incui coincide con la divisione. del lavpro e il comm~rC1o o comunicazi~ne - f~;~~-di' s~iiuppo deUè forze produttive. Si potrebbe dire che, in un caso, la comunità umana (il comunismo) si realizza attra­verso la negazione completa del vecchio mondo, nell'altro, attraverso la pienezza del nuovo che, infatti, è già lì. In un caso, la pratica rivoluzionaria domina in modo assoluto su tutto il pensiero (la verità non è che uno di questi momenti). Nell'al­tro, essa è, se non sottomessa al pensiero, quanto meno presentata nei suoi minimi particolari da una scienza della storia. Rivoluzione, scienza (rivoluzio­ne nella scienza, scienza della rivoluzione): abbia­mo qui i termini di un'alternativa cui, in fondo, Marx non ha mai messo fine. Il che vuoI dire anche che egli non ha mai accettato di sacrificare l'una all' altra: segno della sua intransigenza intellettuale.

Secondo percorso, inserito stù precedente: quel­lo che, da una critica delle illusioni e delle pretese della «coscienza» va fino ad una ~J;9J:~lematica-ddIa costituzz'onederJal!#Jto, nelle forme della sua aliena­'zi;'t;;'(ali~nazione alla «cosa», al feticismo della circo­lazione mercantile, ma anche alienazione alla «perso­na», al feticismo del processo giuridico - benché io riconosca che lo statuto del concetto di «persona» in Marx è profondamente incerto). Questo secondo

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percorso non è lineare, ma segnato da una notevole biforcazione (l'abbandono del termine di ideologia). Passa attraverso una serie di analisi: l' «orizzonte sociale» della coscienza (che è quello dei rapporti transindividuali e del loro limite storico); la differenza intellettuale, dunque il dominio fuori del pensiero e nel pensiero; infine, la struttura simbolica di equiva­lenza tra gli individui e le loro «proprietà», che è comune allo scambio mercantile e al diritto (privato).

Terzo percorso, infme: quello che va dall'inven­zione di uno schema di causalità (materialistico nel senso che rovescia il primato della coscienza o delle forze spirituali nella spiegazione della storia, ma per assegnare loro un ruolo di «mediazione», di istanza subordinata nell'efficacia del modo di produzione) ~e!?() unJt ç/ialettico: c/ella temporalità, immanente al gioco delle forze d~J1a._~.~oria (e queste ultime non sono delle «cose»!). Vi sorio"-dive~i,abbozzi di que­sta dialettica in Marx, il principale è quello della <g:ootciaariiQne r~ale», -Cioè delle tendenze e con­!!:i~ùi~"dG~zazio~, o -delle r~aliz~a~ionl antagonistiche del collettivo, inviluppate l'una nel­l'altra, che occupa una grande parte del Capitale. Ma conviene anche - se ci si vuole proprio assumere qualche rischio nella lettura degli ultimi testi di Marx - accordare tutta la sua importanza all'idea di transizione dal capitalismo al comunismo (qui il momento della pratica rivoluzionaria effettua uno spettacolare ritorno nello spazio che la «scienza del­le formazioni sociali» aveva interamente occupato), come all'idea di vie di sviluppo alternative, singolari, che abbozza una critica interna dell' evoluzionismo.

La difficoltà di questo terzo percorso risiede nel fatto che la messa in luce di una dialettica tem­porale è scavalcata dal suo cont~~!I~: prevalente n~r Iairiaggio{pàrte-aeftestl generali di Marx (ma sono

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rari, {n definitiva): l'i~e~,.~l}'!"UQ~~l,raIc.d.~I~ l'uma.nit,à.la linea di evoluzione ascendente, unifor­me~~te progressiva, dei modi di produzione e del­le formazioni sociali. Qui bisogna essere onesti, ammettere che questo evoluzionismo «materialisti­co» e «dialettico» è anch'esso marxista tanto quanto l'analisi della contraddizione reale - e che, anche storicamente, ha più titoli per essere identificato col marxismo. È probabilmente a questo che Marx pen­sava già quando pronunciò la famosa battuta (ripor­tata da Engels in una lettera a Bernstein del novem­bre 1882): «Quel che è sicuro, è che io non sono marxista». E Gramsci, quando scrisse il suo articolo del 1917, «La rivoluzione contro il Capitale» 2 (altro motto di spirito) ... salvo che Il Capitale è proprio quello dei testi di Marx, nel quale è presente la ten­sione più viva tra i due punti di vista. La posta in gioco di tutto ciò è evidentemente nel sapere se, come dice una formula del libro III de Il Capitale, assolutamente conforme alla tradizione idealistica della filosofia della storia, la società senza classi post­capitalistica sarà «il passaggio dal regno della neces­sità al regno della libertà» 3, o se la lotta (attuale) per il comunismo rappresenta un divenire necessario del­la libertà (cioè l'iscrizione di un movimento di libe­razione nelle sue proprie condizioni materiali).

L'OPERA IN CANTIERE

Ma torniamo alla prima obiezione che potreb­be essermi rivolta. Ho detto che leggere Marx come filosofo suppone di collocarsi al di fuori della dottri­na, di privilegiare i concetti, e di problematizzare il loro movimento di costruzione, decostruzione e ricostruzione. Ma credo proprio che occorra fare un

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passo di più e, senza temere l'incoerenza, dire che questa dottrina non esiste. Dove sarebbe, infatti? Cioè, in quali testz? «Non ha avuto il tempo», si sa, e qui si tratta di ben altra cosa che di una distizione tra un Marx giovane o vecchio, filosofo o scienziato. Tutto ciò che abbiamo sono dei riassunti (la prefa­zione a Per la critica dell'economia politica), dei manifesti (grandiosi), delle bozze lunghe e articola­te, ma che fmiscono sempre per essere bruscamente interrotte e che - è il caso qui di ricordarsene -Marx stesso non ha mai pubblicato (J;tdeologia tede­sca, i Grundrisse o «Manoscritto del 1857-58»). Non vi è dottrina, vi sono unicamente dei frammenti (e, d'altra parte, delle analisi, delle dimostrazioni).

Mi si comprenda bene: Marx non è ai miei occhi un «postmoderno» ante litteram, e non inten­do sostenere che il suo pensiero derivi da una ricer­ca deliberata dell'incompiuto. Sarei piuttosto tenta­to di pensare che egli non ha, effettivamente, mai avuto il tempo di costruire una dottrina perché la rettifica andava più veloce. Non solo era in anticipo sulle conclusioni, ma sulla critica delle conclusioni. Per mania intellettuale? Forse, ma questa mania era al servizio di una duplice etica: etica di teorico (di scienziato), ed etica di rivoluzionario. Ritroviamo ancora gli stessi termini. Troppo teorico, Marx, per «impacchettare» le sue conclusioni. Troppo rivolu­zÌorulrio, sia per piegarsi ai rovesci della fortuna, sia 'per ignorare le catastrofi, continuare come se niente . fosse statQ. Troppo scienziato e troppo rivoluziona­rio per rimettersi alla speranza del messi a (benché questa, incontestabilmente, abbia fatto parte dei sot­tintesi del suo pensiero: ma un teorico o un politico non si definiscono per quel che rimuovono, anche se in parte la loro energia proviene da ciò, e se il rimosso - il religioso ad esempio - fa parte di ciò

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che, nel modo più sicuro, perviene alle orecchie dei «discepoli», dei «successori»).

Ma allora noi abbiamo il diritto di interpretare le mezze parole di Marx. Non di considerare i fram­menti del suo discorso come carte che potremmo indefinitamente ribattere a volontà. Ma, tuttavia, di entrare nelle sue «problematiche», nelle sue «assio­matiche», nelle sue «filosofie» infine, per spingerle fino in fondo (alle loro contraddizioni, limiti, apertu­re). Così, in una congiuntura interamente nuova, vediamo ciò che possiamo fare con e contro di lui. Molto di quanto è abbozzato in Marx è lungi dall' a­ver trovato la sua forma definitiva. Molto di quanto appare oggi impotente, o criminale, o semplicemen­te caduco nel «marxismo», lo era già, oserei dire, prima di lui, poiché non era un'invenzione del marxismo. Tuttavia, se Marx non avesse fatto altro che affrontare la questione dell' alternativa al «modo di produzione dominante», nel seno stesso di questo modo (che è anche, più che mai, un modo di circola­zione, un modo di comunicazione, un modo di rap­presentazione) ... , dovremmo ancora far ricorso a lui!

PRO E CONTRO MARX

È giocoforza tuttavia riconoscere che il marxismo è oggi una filosofia improbabile. Lo si deve al fatto che per la filosofia di Marx è in corso un lungo e difficile processo di separazione dal «marxismo storico», che deve superare gli ostacoli accumulati da un secolo di utilizzazione ideologica. Ora, non si tratta per tale filosofia di ritornare al suo punto di partenza, ma, al contrario, di appren­dere la propria storia e trasformarsi nel corso della traversata. Chi oggi voglia lavorare nella filosofia di

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Marx non viene solo dopo di lui, ma dopo il marxi­smo: non può accontentarsi di registrare la cesura provocata da Marx, ma deve anche riflettere sul­l'ambivalenza degli effetti che essa ha prodotto -tra i suoi sostenitori come tra i suoi awersari.

Lo si deve anche al fatto che la filosofia di Marx non può essere oggi né una dottrina di organizzazione né una filosofia universitaria, deve trovarsi cioè fuori sesto rispetto ad ogni istituzione. È certo che il ciclo di un secolo (1890-1990) segna la fine di ogni mutua appartenenza tra la filosofia di Marx e una qualsiasi organizzazione, a fortiori uno Stato. Ciò significa che il marxismo non potrà più funzionare come impresa di legittimazione: è una condizione, negativa almeno, della sua vitalità; quan­to alla condizione positiva, essa dipende dal ruolo che i concetti di Marx assumeranno nella critica di altre imprese di legittimazione. Ma la dissoluzione del legame (conflittuale) tra il marxismo e le organiz­zazioni politiche non facilita tuttavia la sua trasfor­mazione in filosofia universitaria: non foss'altro che perché l'Università impiegherà molto tempo a fare 1'analisi del proprio antimarxismo. Qui, ancora, il positivo e il negativo sono in sospeso: il futuro stesso di una filosofia universitaria è incerto, e la parte che delle idee venute da Marx possono giocare nella riso­luzione di quest'altra crisi non può essere determina­ta a priori. Ma occorre tuttavia fare delle ipotesi, e ciò mi porta alle ragioni che mi fanno pensare, come dicevo all'inizio, che nel XXI secolo Marx sarà letto e studiato in diversi luoghi. Ciascuna di queste ipote­si, come si vedrà, è anche una ragione di opporsi a Marx: ma secondo un rapporto di «negazione deter­minata», cioè attingendo nel suo testo le questioni che possono essere sviluppate soltanto contrappo­nendosi su punti precisi alle sue tesi.

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Primo. Una pratica vivente della fùosofia è sem­pre un confronto con la non-fùosofia. La storia della filosofia è fatta di rinnovamenti tanto più significativi quanto l'esterno con cui essa si misura è più indige­sto per essa. Lo spostamento che Marx ha fatto subi­re alle categorie della dialettica è uno degli esempi più chiari di questa «migrazione» del pensiero fùoso­fico, che lo porta a ricostituire la forma stessa del suo discorso a partire dal suo altro. Ma questo sposta­mento, per quanto risolutamente sia stato intrapreso, non è compiuto: e non è prossimo ad esserlo, perché la terra straniera in cui qui si tratta di approdare, la storia, muta incessantemente di configurazione. Diciamo che l'umanità non può abbandonare un problema che essa non ha ancora risolto.

Secondo. La storicità, poiché è di essa che si tratta, è una delle -questioni più aperte dell'attua­lità. Ciò è dovuto, tra l'altro, al fatto che l'universa­lizzazione del rapporto sociale annunciata dalle filosofie della storia è ormai un fatto compiuto: non vi è più che un solo spazio delle tecniche e della politica, della comunicazione e dei rapporti di potenza. Ma questa universalizzazione non è né un'umanizzazione né una razionalizzazione, ma coincide con esclusioni e scissioni più violente che in precedenza. Se si mettono qui da parte i discorsi morali, che oppongono a questa situazione la rifor­mulazione di principi giuridici e religiosi, non vi sono, pare, che due possibilità: ritornare all'idea della «guerra di tutti contro tutti» (di cui aveva parlato Hobbes), che richiede l'edificazione di una potenza coercitiva esterna, o immergere la storicità nell'elemento della natura (cosa che sembra deli­nearsi nella ripresa attuale delle filosofie della vita). Più una terza, di cui Marx ha abbozzato la forma: pensare il cambiamento delle istituzioni storiche (o

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meglio: «il cambiamento del cambiamento», dun­que l'alternativa ai cambiamenti immediatamente osservabili) a partire dai rapporti di forza che sono loro immanenti, in maniera non solo retrospettiva, ma soprattutto prospettica, o, se si vuole, conget­turale. Qui bisogna, contro i modelli del rovescia­mento e dell'evoluzione lineare, di volta in volta adottati da Marx e periodicamente ritrovati dai suoi successori, liberare la terza nozione che, a poco a poco, si è precisata in lui: quella della ten­denza e della sua contraddizione interna.

Terzo. Una filosofia critica non è soltanto una riflessione su quanto di inatteso la storia presenta; occorre che essa pensi la propria determinazione come attività intellettuale (cioè che essa sia, secondo un' antichissima formula, «pensiero del pensiero» o «idea dell'idea»). A questo proposito, Marx è nella situazione più instabile, in ragione della teorizzazio­ne dell'ideologia che ha abbozzato. Ho detto che la ftlosofia non gli perdonava questo concetto, o glielo perdonava difficilmente, il che ne fa come un distur­bo permanente e talora dichiarato (un buon esempio recente è il libro di Paul Ricoeur, LectuTes on Ideo­logy and Utopia) 4. È che l'ideologia designa per la ftlosofia il proprio elemento di formazione, non solo come un «impensato» interiore, ma come un rappor­to con gli interessi sociali e con la differenza intellet­tuale stessa, mai riducibile ad una mera opposizione di ragione e non ragione. L'ideologia è per la ftlosofia il nome materialistico della propria fmitezza. Tutta­via, la più flagrante incapacità del marxismo è consi­stita precisamente nel compito cieco che rappresen­tavano per esso il suo funzionamento ideologico, la sua idealizzazione del «senso della storia» e la sua trasfonnazione in religione secolare di masse, di par­titi e di Stati. Abbiamo visto che almeno una delle

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cause di questa situazione è dovuta al modo in cui Marx ha opposto in gioventù l'ideologia alla pratica rivoluzionaria del proletariato, trasformando al con­tempo quest'ultimo in un assoluto. È per questo che qui si devono tenere ad un tempo due posizioni anti­tetiche: la filosofia sarà «marxista» fmtanto che, per essa, la questione della verità si giocherà nell' analisi delle finzioni di universalità che la filosofia stessa autonomizza; ma le occorre prima essere «marxista» contro Marx, fare della denegazione dell'ideologia in Marx il primo oggetto della sua critica.

Quarto. La filosofia di Marx è, tra Hegel e Freud, l'esempio di un'ontologia moderna della rela­zione, o, secondo l'espressione di cui mi sono servi­to, del transindividuale. Ciò significa che essa si istal­la al di là dell' opposizione di individualismo (foss' an­che «metodologico») e organicismo (o «sociologi­smo»), della quale permette di tracciare nuovamente la storia e di mostrare le funzioni ideologiche. Ma non basta a caratterizzare la sua originalità, perché la relazione può essere pensata sia sotto l'aspetto del­l'interiorità, sia sotto quello dell'esteriorità, cioè, di nuovo, della naturalità. Cosa che illustreranno, nella filosofia contemporanea, da un lato il tema dell' inter­soggettività (non vi è «soggetto» isolato che si rap­presenti il mondo, ma piuttosto una comunità origi­naria di soggetti molteplici), dall' altro quello della complessità (della quale le esposizioni più seducenti si fondano metaforicamente sulla nuova alleanza tra fisica e biologia). Marx non è riducibile né all'una né all'altra di queste due posizioni. Lo si deve al fatto che il transindividuale per lui è stato fondamental­mente pensato come il correlato della lotta di classe, struttura sociale «ultima» che divide ad un tempo il lavoro, il pensiero e la politica. Filosofare pro e con­tro Marx vuoI dire qui porre la questione, non della

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«fine della lotta di classe» - eterno pio desiderio del­l'armonia sociale -, ma dei suoi limiti interni, cioè delle fonne del transindividuale che, intersecandola dappertutto, le rimangono assolutamente irriducibi­li. La questione delle grandi «differenze antropologi­che» paragonabili alla differenza intellettuale (a cominciare dalla differenza sessuale) può servire da filo conduttore. Ma potrebbe anche darsi che, perfi­no in questa presa di distanza rispetto a Marx, il modello dell'articolazione tra una problematica dei modi di produzione (o dell'«economia», nel senso generale del tennine) e una problematica del modo di soggezione (dunque, la costituzione del «sogget­to», sotto l'azione delle strutture simboliche), sia un riferimento costantemente necessario. Proprio per­ché essa è l'espressione di questo duplice rifiuto del soggettivismo e del naturalismo che, periodicamente, riporta la filosofia verso l'idea di dialettica.

Quinto, per fmire. Ho tentato di mostrare che il pensiero della relazione sociale è in Marx la con­tropartita del primato accordato alla pratica rivolu­zionaria (<<trasformazione del mondo», «contro-ten­denza», «cambiamento nel cambiamento»). Tran­sindividuale, infatti, è prima di tutto questa recipro­cità che si instaura tra l'individuo e il collettivo nel movimento dell'insurrezione liberatrice ed egualita­ria. Il minimo incomprimibile di individualità e di socialità che Marx descrive a proposito dello sfrutta­mento capitalistico è un fatto di resistenza al domi­nio che, come egli ha voluto mostrare, non doveva essere inventato o suscitato, perché è sempre già cominciato. Si può ammettere che è per fondare questa tesi che egli si è fatto di nuovo carico di una periodizzazione della storia universale che gli per­metteva di pensare che la lotta dal «basso» viene dal fondo stesso della storia collettiva.

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Tuttavia, si deve fare un passo di più, poiché, se Marx fosse stato unicamente il pensatore della rivolta, sarebbe completamente perduto il senso del­la sua costante opposizione all'utopia. Questa oppo­sizione non ha mai voluto essere un ritorno al di qua della potenza insurrezionale e immaginativa rappre­sentata dallo spirito utopico. Lo sarà tanto meno se riconosceremo nell'ideologia l'elemento o la materia stessa della politica, voltando definitivamente le spal­le alla vena positivistica del marxismo. Ma ciò non farà che sottolineare ancor più l'interrogazione con­tenuta nel duplice movimento anti-utopico di Marx: quello che il termine «praxis» designa e quello cui la «dialettica» dà nome. E ciò che ho chiamato l'azione al presente, e che ho tentato di analizzare come cono­scenza teorica delle condizioni materiali che costitui­scono il «presente». Dopo aver designato a lungo la riduzione della ribellione alla scienza, o inversamen­te, potrebbe darsi che la dialettica venga semplice­mente a designare la questione infinitamente aperta della loro congiunzione (Jean-Claude Milner ha impiegato questo termine in Constat) 5: il che non significa ridurre Marx a un programma più modesto, ma conferirgli per lungo tempo il posto di insupera­bile «traghettatore» tra la filosofia e la politica.

NOTE

l Desclée de Brouwer, Paris 1992. 2 A. GRAMSCI, La città futura 1917-1918, a cura di S.

Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, p. 513 sgg. ) Il Capitale, op. cit., libro III, p. 933. • Columbia University Press, New York 1986. 1 Verdier, Paris 1992.

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GUIDA BIBLIOGRAFICA

Orientarsi nell'enorme bibliografia delle opere di Marx, dei suoi continuatori e dei suoi commentatori, è divenuta una difficoltà in sé. Nessuno - salvo alcuni bibliotecari specializzati - può pretendere di dominare tutta la materia disponibile, anche in una sola lingua (il declino di popolarità del marxismo, molto ineguale d'al­tronde a seconda dei paesi, non ha per nulla messo a posto le cose, poiché ha sortito l'effetto di rendere intro­vabili o difficilmente reperibili numerosi testi ed edizioni, anche recenti, che non sono necessariamente i peggiorO. A dispetto di questi ostacoli, si tenterà di indicare qui alcune letture e strumenti di lavoro per completare le indicazioni date nel corso del testo.

1. Opere di Marx

Il problema è duplice. Da una parte, l'opera di Marx è incompiuta. Come si è indicato sopra, questa incompiutezza corrisponde a sollecitazioni esercitatesi sul lavoro di Marx, a difficoltà intrinseche, e ad un'attitudine intellettuale di costante rimessa in discussione, che porta­va l'autore a «rilavorare» i suoi concetti piuttosto che a terminare i suoi libri. Vi sono dunque molti inediti, dei quali alcuni sono divenuti a posteriori delle «opere» altret­tanto importanti dei testi compiuti. D'altra parte, l'edizio­ne di questi testi (la scelta di quelli considerati come essenziali, ma anche il modo di presentarli, di censurarli persino) è sempre stata una posta in gioco di lotte politi­che tra differenti «tendenze», potenti apparati statali, par­titici, e anche universitari. In due riprese l'edizione di una Marx-Engels GesamtAusgabe (Opere complete di Marx e di Engels) è stata brutalmente interrotta: una prima volta negli anni Trenta, quando il regime staliniano ha liquidato l'impresa avviata dopo la rivoluzione russa da Rjazanov; una seconda volta con il crollo del «socialismo reale» in Urss e Rdt, che interrompe (provisoriamente?) la realizza­zione della «Mega Il». La scelta di tale o tal' altra edizione non è dunque affatto neutra: accade frequentemente che sotto lo stesso titolo non si abbia a che fare in realtà esat-

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tamente con lo stesso testo. L'edizione dei testi originali tedeschi più correntemente utilizzata è quella dei Marx­Engels Werke, pubblicata a Berlino da Dietz Verlag (40 voll.,1968-1981).

In collaborazione con l'Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca e con l'Istituto per il marxismo-leninismo di Berlino, sulla base delle edizioni tedesche della Mega e dei Werke, ma con l'aggiunta dei manoscritti inediti repe­riti e resi noti fino ad allora, gli Editori Riuniti hanno ini­ziato nel 1972 la pubblicazione delle Opere complete di Marx ed Engels in 50 volumi, rimasta però purtroppo incompiuta.

2. Opere generali

Non esiste una buona biografia recente di Marx. Si utilizzerà nondimeno:

BRUHAT JEAN, Marx et Engels, Uge, Paris 1971. Mc LELLAN DAVID, Karl Marx, Rizzoli, Milano 1976. MEHRING FRANZ, Vita di Marx, Ed. Riuniti, Roma, II

edizione, 1976. R]AZANOV DAVID, Marx et Engels, Anthropos, Paris

1967. Per la formazione intellettuale di Marx rimane inso­

stituibile il lavoro di AUGUSTE CORNU, Karl Marx e Friedri­ch Engels (ediz. Puf, Paris), tomo I: Les Années d'en/ance et de jeunesse. La gauche hégelienne 1818-1820/1844 (1955); tomo II: Du libéralisme démocratique au communi­sme. La Gazette rhénane. Les Annales /ranco-allemandes, 1824-1844 (1958); tomo III: Marx à Paris (1961); tomo IV: La Formation du matérialisme historique (1970).

Per la costituzione della nozione di «marxismo» e le reazioni di Marx ed Engels, si leggerà G. HAUPT, «Marx e il marxismo» in Storia del marxismo, Einaudi, Torino, voI. I, Il marxismo ai tempi di Marx, 1978, pp. 288-314. La migliore storia generale del marxismo è quella apparsa presso Einaudi (op. cit.) in 5 voll., sotto la direzione di E. J. HOBSBAWM e altri. Si potrà utilizzare egualmente LESZEK KOLAKOWSKI, Nascita, sviliuppo, dissoluzione del marxismo, 3 voll., Milano 1979-80. E il volume collettivo (sotto la

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direzione di REN~ GALLISSOT), Les Aventures du marxisme, Syros, Paris 1984.E inoltre MICHEL VAKALOULIS e ]EAN­MARIE VINCENT (a cura di) Marx aprés les marxismes, 2 voll., L'Harmattan, Paris 1997.

Un'eccellente esposizione della storia del marxismo occidentale è in ANDR~ TOSEL, «Le développement du marxisme en Europe occidentale depuis 1917», in Histoz~ re de la philosophie, Gallimard, «Encyclopédie de la Pléia­de», Paris, tomo III, 1974.

3. Riferimenti complementari per i capitoli precedenti

Filosofia marxista o filosofia di Marx

Oltre le opere già menzionate, si potrà leggere:

ASSOUN PAuL-LAuRENT et RAULET GÉRARD, Marxisme et théorie critique, Payot, Paris 1978.

Centre d'études et de recberches marxistes, Sur la dia­lectique, Editions sociales, Paris 1977.

COLLETTI LUCIO, Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969.

GARO ISABELLE, Marx, une critique de la philosophie, Seuil, Paris 2000.

HORKHEIMER MAx, Teoria critica, Einaudi, Torino 1974.

KAUTSKY KARL, Etica e concezione materialistica della storza; Feltrinelli Milano 1958.

KORSCH KARL, Marxismo e filosofia, Sugar, Milano 1966.

KOSIK KAREL, Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965.

LABICA GEORGES, Dopo il marxismo-leninismo, Edi­zioni Associate, Roma 1992.

HENRI LEFEBVRE, Métaphilosophie, Ed. de Minuit, Paris 1965.

MAo TSE-TuNG, Opere di Mao Tse-Tung, , voI. V (<<Scritti filosofici di Mao tse-tung») Edizioni Rapporti sociali, Milano 1991.

MERLEAU-PONTY MAURICE, Umanismo e terrore. Le avventure della dialettica, Sugar, Milano 1965.

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PAPAIOANNOU KOSTAS, De Marx et du marxisme, Gal­limard, Paris 1983.

PLECHANOV GEORGIJ, Le questioni fondamentali del marxismo, Istituto editoriale italiano, Milano 1947.

RUBEL MAXIMILIEN, Marx critico del marxismo, Cap­pelli, Bologna 1981.

STf VE LUCIEN, Une introduction à la philosophie marxiste, Editions sociaIes, Paris 1980.

STALIN, «Del materialismo dialettico e del materiali­smo storico», in Opere scelte, Edizioni movimento studen­tesco, Milano 1973.

Cambiare il mondo: dalla praxis alla produzione

Oltre le opere già menzionate:

ABENSOUR MIGUEL, La démocratie contre l'État. Marx et le moment machiavélien, Puf, Paris 1997.

AVINERI SHLOMO, The Social and Political Thought of Karl Marx, Cambridge University Press, Cambridge 1968.

BLOCH ERNST, Karl Marx, a cura di R. Bodei, Il Muli­no, Bologna 1972.

BLOCH ERNST, Il Principio Speranza, trad. it. Garzan­ti, Milano 1994.

BLOCH OLIVIER, Le Matérialisme, Puf, Paris 1985. BOURGEOIS BERNARD, Philosophie et droits de l'homme

de Kant à Marx, Puf, Paris 1990. FURET FRANçOIS, Marx et la Révolution française,

Flammarion, Paris 1986. GIANNOTII ]OSÉ-ARTUR, Origine de la dialectique du

travail, Aubier-Montaigne, Paris 1971. GRANDIONC ]ACQUES, Marx et les communistes alle­

mands à Pans, Maspero, Paris 1974. GRANEL GÉRARD, L'Endurance de la pensée, Plon,

Paris 1968. GRANIER]EAN, Penser la praxis, Aubier, Paris 1980. HEIDEGGER MARTIN, «Lettera sull"'umanismo"», in

Segnavia, Adelphi, Milano 1987. HENRY MICHEL, Marx, tomo I: Une philosophie de la

réalité, Gallimard, Paris 1976. HYPPOLITE ]EAN, Studi su Marx e Hegel, Bompiani,

Milano 1965.

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LABICA GEORGES, Le Statut marxiste de la philosophie, éd. Complexe/Dialectique, Bruxelles 1976.

Lowv MICHAEL, Théorie de la révolution chez le jeune Marx, Éditions Sociales, Paris 1997.

MERCIER-JOSA SOLANGE, Retour sur le jeune Marx, Méridiens-Klincksieck, Paris 1986.

MERCIER-JOSA SOLANGE, Entre Hegel et Marx, L'Har­mattan, Paris 1999.

MAINFROY CLAUDE, Sur la Révolution Irançaise. Ecrits de Karl Marx e Friedrich Engels, Editions sociales, Paris 1970.

NAVILLE PIERRE, De l'aliénation à lajouissance, Paris, Marcel Rivière 1957.

FAURE ALAIN e RANCIÈRE JACQUES, La parole ouvrière. 1830-1851, Uge, colI. «10/18», Paris 1976.

SÈVE LUCIEN, Marxismo e teoria della personalità, Torino, Einaudi 1973.

SLEDZIEWSKY ELISABETH, Révolution du sujet, Méri­diens-Klincksieck, Paris 1989.

Ideologia e letiàsmo: il potere e la soggezione

Oltre le opere già menzionate:

ADORNO THEODOR W. e HORKHElMER MAX, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1966.

BERTRAND MICHÉLE, Le statut de la religion chez Marx et Engels, EditiOflS Sociales, Paris 1979.

CASTORIADIS CORNELIUS, L'institution immaginaire de la soàété, Le Seuil, Paris 1975.

HABERMAs JORGEN, Teoria e prassi nella società tecno­logia, Laterza, Roma-Bari 1978.

HABERMAS JORGEN, Stona e m·tica dell'opinione pub­blica, Laterza, Roma-Bari 1988.

JAY MARTIN, L'imagination dialectique. Histoire de Ncole de Franclort 0922-1950), Payot, Paris 1977.

KORSCH KARL, Karl Marx, Laterza, Bari 1977. MICHEL JACQUES, Marx et la soàété jun"dique, Publi­

sud, 1983. RENAULT EMMANUEL, Marx e l't"dea di m·tica, trad. it.

Manifestolibri, Roma 1999.

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VINCENT ]EAN-MARIE, La Théorie critique de l'école de Francfort, Editions Galilée, Paris 1976.

Più in particolare sull'ideologia e la questione del potere:

AUGÉ MARc, Pouvoirs de vie, pouvoirs de morto Intro­duction à une anthropologie de la répression, Flammarion, Paris 1977.

BADlOU ALAIN e BALMES FRANçOlS, De l'idéologie, Maspero, Paris 1976.

BouRDIEU PIERRE e PASSERON ]EAN-CLAUDE, La Repro­duction, Editions de Minuit, Paris 1970.

BouRDIEU PIERRE, Ce que parler veut dire. L'économie des échanges linguistiques, Fayard, Paris 1982.

DEBRAY RÉGIS, Critique de la Raison politique, Galli­mard, Paris 1981.

DEllA VOLPE GALVANO, Critica dell'ideologia contempo­ranea - Saggi di teoria dialettica, Editori Riuniti, Roma 1967.

DUPRAT GÉRARD, Analyse de l'idéologie, tomo I e tomo II, Galilée, Paris 1981 e 1983.

LABICA GEORGES, Le Paradigme du grand-Hornu. Essai sur l' idéologie, PEC-La Brèche, Paris 1987.

LEFoRT CLAUDE, «L'ère de l'idéologie», in Encyclo­paedia Universalis, voI. 18, Paris 1968.

MERClER-]OSA SOLANGE, Pour lire Hegel et Marx, Edi­tions Sodales, Paris 1980.

RIcoEUR PAUL, «L'idéologie et l'utopie: deux expres­sions de l'imaginaire sodal» in Du texte à l'action. Essais d'herméneutique, II, Le Seuil, Paris 1986.

TORT PATRI<;K, Marx et le problème de l'idéologie. Le modèle égyptien, Puf, Paris 1988.

Più in particolare sul feticismo e la question~ del soggetto:

BAUDRILLARD ]EAN, Per la critica dell'economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1984.

BIDET ]ACQUES, Que faire du Capitai? Matériaux pour la refondatton du marxisme, Klincksieck, Paris 1985.

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DEBORD Guv, La société du spectacle (1967), Editions Gérard Lebovici, Paris 1987.

DERRIDA JACQUE, Spectres de Marx, Galilée, Paris 1993.

GODELIER MAURICE, Razionalità e i"azionalità nell'e­conomia, Milano, 1970.

GODEUER MAURICE, Antropologia e marxismo, Roma 1977.

Goux JEAN-JOSEPH, Les Iconoclastes, Le Seuil, Paris 1978.

HELLER AGNES, La teoria dei bisogni in Marx, Feltri­nelli, Milano 1974.

LEFEBvRE HENRI, Critica della vita quotidiana, De Donato, Bari 1977.

LVOTARD JEAN-FRANçorS, A partire da Marx e Freud. Decostruzione ed economia dell'opera, Multhipla, Milano 1979.

MARKUS GVORGV, Langage et production, Denoel­Gonthier, Paris 1982.

POLANVI KARL, La Grande Tras/ormazione, Einaudi, Torino 1974.

RANCIÈREJACQUES, «Le concept de critique et la criti­que de l'économie politique des Manuscripts de 1844 au Capitai», in ALTHUSSER E ALTRI, Lire le Capitai, Maspero, Paris 1965.

SEBAG LUCIEN, Marxisme et structuralisme, Uge, Paris 1964.

VINCENT ]EAN-MARIE, Fétichisme et société, Anthro­pos, Paris 1973.

Tempo e progresso: ancora una/tloso/ia della storia?

Alle opere già citate, aggiungere:

ALTHUSSER LOVIS, «Il marxismo non è uno storici­smo», in LOUIS ALTHUSSER e ETIENNE BALIBAR, Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano 1968.

ANDERSON PERRV, «The Ends of History» in A Zone o/Engagement, Verso, London e New York 1992.

ANDREANl TONl, De lo société à l'his/oire, 2 voll., Méridiens-Klincksieck, Paris 1989.

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BUCHARIN NIKoLAJ, Teoria del materialismo storico -Manuale popolare di sociologia marxista, La Nuova Italia, Firenze 1977.

COHEN GERALD A., Karl Marx's Theory o/ History. A De/ense, Oxford 1978.

CORIAT BENJAMIN, Science, technique et capitai, Le Seuil, Paris 1976.

Correspondance Marx-Lassalle 1848-1864, Puf, Paris 1976.

GoRZ ANDRÉ, Critique de la division du travail (anto­logia), Le Seuil, Paris 1973.

HENRY MICHEL, Marx, tomo II: Une philosophie de l'économie, Gallimard, Paris 1976.

LABRIOLA ANTONIO, La concezione materialistica della storia, in Scn'tti/iloso/iCi e politici, voI. II, Einaudi, Torino 1976.

MAruUBAKUNIN, Socialisme autoritaire ou libertaire, testi raccolti e presentati da Georges Ribeill, 2 voll., Uge, Paris 1975.

MELOTTI UMBERTO, Marx e il Terzo Mondo. Per uno schema multilineare dello sviluppo storico, Il Saggiatore, Milano 1972.

NEGRI ANTONIO, Marx oltre Marx - Quaderno di lavoro sui Grundn'sse, Manifestolibri, Roma 1998.

NEGRI ANTONIO, Il potere costituente, Sugarco, Mila­no 1992.

RAYMOND PIERRE, La résistible /atalité de l'his/oire, ].E. Hallierl Albin Michel, Paris 1982.

SCHWARTZ YVES, Expérience et connaissance du travail, Editions Sociales/Messidor, Paris 1988.

TERRAY EMMANuEL, Le Marxisme devant les sociétés pn'mitives, Maspero, Paris 1968.

TEXIER }ACQUES, Révolution et démocratie chex Marx et Engels, Puf, Paris 1998.

WALLERSTEIN IMMANuEL, Impenser la science sociale. Pour sortir du XIX siècle, Puf, Paris 1995.

WALLERSTEIN IMMANuEL, L'utopistique ou les choix politiques du XXI siècle, Éditions de l'Aube, 2000.

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