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il “Turco”: primo cyborg della storia Raffaele K Salinari La nascita del Turco Il “Turco” è “figlio” del barone ungherese Wolfgang Von Kempelen, nato a Presburgo, nel 1734. Il barone era laureato in giurisprudenza, ed è proprio da questi studi che comincia la sua avventura. Von Kempelen, infatti, aveva tradotto in tedesco le leggi ungheresi originariamente in latino, e questo gli valse un invito a corte da parte dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, attenta alle relazioni tra le due entità nazionali che allora componevano l’Impero austro-ungarico. Durante il ricevimento, le cronache dicono che il barone assistette all’esibizione di un famoso illusionista francese, Pelletier, al tempo alquanto rinomato per i suoi esperimenti a base di magnetismo. Von Kempelen Curiosa coincidenza, Von Kempelen nasce lo stesso anno del famoso Franz Anton Mesmer, che con le sue teorie sul magnetismo, il “mesmerismo”, da lui descritto come forza vitale universale, influenzerà molto il clima scientifico e culturale dell’Europa. La notorietà del “mesmerismo” è tale che Mozart, nel finale del primo atto della sua celebre opera Così fan tutte, fa “resuscitare” Ferrando e Guglielmo dalla cameriera Despina la quale, travestita da medico, rianima i due servendosi di una calamita, mentre canta: “Questo è quel pezzo di calamita: pietra mesmerica, ch’ebbe l’origine nell’Alemagna, che poi sì celebre là in Francia fu”. Va detto che anche E. A. Poe, indagatore del segreto del “Turco”, era un seguace del “mesmerismo”, tanto da scrivere alcuni celebri racconti su questo argomento, tra i quali Rivelazione Mesmerica (o Magnetica) - anche questa tradotta da Baudelaire - in cui racconta di un soggetto “mesmerizzato” che, in punto di morte, comincia a descrivere la vita nell’aldilà. http://www.vietvideos.info/mozart-cosi-fan-tutte-atto-1- eccovi-il-medico/UGRUdkZpd280Mnc.html (Ecco il medico, Atto 1) Sappiamo che quella sera a corte l’imperatrice volle che Von Kempelen, già noto in patria per i suoi studi di meccanica, le spiegasse i trucchi del mago. Alla fine dell’esibizione, forse per difendere l’onore imperiale dalle vanterie del francese, Von Kempelen promise a Maria Teresa di costruirle un «automa magnetico» che avrebbe superato tutti gli esperimenti visti sino allora e che, «sarebbe stato in grado di pensare». Fatto sta che, nei primi mesi del 1770, il barone presenta alla corte imperiale un bizzarro congegno: si tratta di un manichino addobbato da turco, con tanto di turbante ed una lunga pipa. Drappeggiato sulla schiena porta un ampio mantello, ed un paio di baffoni spioventi accentuano ancor più il suo sguardo di un vitreo glaciale. Il “Turco”, come lo battezza il suo stesso inventore, è seduto “alla turca” dietro un’ampia scrivania di legno munita di rotelle, sulla quale campeggia una scacchiera. Von Kempelen, impassibile, comincia metodicamente ad aprire uno dopo l’altro gli sportelli situati alla base del mobile. Compaiono così, allo sguardo eccitato dei cortigiani e dell’Imperatrice, una complessa congenere di ingranaggi metallici, cilindri, pulegge, argani, tamburi, ruote dentate, stantuffi, cavi, tubi, viti e relativi bulloni. Un vero e proprio “automa” dunque, cioè un apparato totalmente meccanico che si muove da sé, senza altro ausilio che la sua stessa struttura e, nel caso del “Turco”, la “forza magnetica” da cui si favoleggiava fosse alimentato. Sappiamo che l’imperatrice fu la prima a giocare a scacchi contro il “Turco” e che perse in poche mosse. L’automa muoveva con meccanica abilità il braccio e la mano sinistri e, con piccoli scatti, inframmezzati da pause ad effetto, posizionava precisamente i suoi pezzi sulla scacchiera; era anche particolarmente iracondo: se l’antagonista sbagliava una mossa violando le regole del gioco, cominciava a

morte, comincia a descrivere la vita nell’aldilà. Turco - primo cyborg della... · scuotere la testa e, dopo aver socchiuso le palpebre in uno sguardo perfido, spazzava via gli

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il “Turco”: primo cyborg della storia

Raffaele K Salinari

La nascita del Turco

Il “Turco” è “figlio” del barone ungherese Wolfgang Von Kempelen, nato a Presburgo, nel 1734. Il barone era laureato in giurisprudenza, ed è proprio da questi studi che comincia la sua avventura. Von Kempelen, infatti, aveva tradotto in tedesco le leggi ungheresi originariamente in latino, e questo gli valse un invito a corte da parte dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, attenta alle relazioni tra le due entità nazionali che allora componevano l’Impero austro-ungarico. Durante il ricevimento, le cronache dicono che il barone assistette all’esibizione di un famoso illusionista francese, Pelletier, al tempo alquanto rinomato per i suoi esperimenti a base di magnetismo.

Von Kempelen

Curiosa coincidenza, Von Kempelen nasce lo stesso anno del famoso Franz Anton Mesmer, che con le sue teorie sul magnetismo, il “mesmerismo”, da lui descritto come forza vitale universale, influenzerà molto il clima scientifico e culturale dell’Europa. La notorietà del “mesmerismo” è tale che Mozart, nel finale del primo atto della sua celebre opera Così fan tutte, fa “resuscitare” Ferrando e Guglielmo dalla cameriera Despina la quale, travestita da medico, rianima i due servendosi di una calamita, mentre canta: “Questo è quel pezzo di calamita: pietra mesmerica, ch’ebbe l’origine nell’Alemagna, che poi sì celebre là in

Francia fu”. Va detto che anche E. A. Poe, indagatore del segreto del “Turco”, era un seguace del “mesmerismo”, tanto da scrivere alcuni celebri racconti su questo argomento, tra i quali Rivelazione Mesmerica (o Magnetica) - anche questa tradotta da Baudelaire - in cui racconta di un soggetto “mesmerizzato” che, in punto di morte, comincia a descrivere la vita nell’aldilà. http://www.vietvideos.info/mozart-cosi-fan-tutte-atto-1-eccovi-il-medico/UGRUdkZpd280Mnc.html (Ecco il medico, Atto 1)

Sappiamo che quella sera a corte l’imperatrice volle che Von Kempelen, già noto in patria per i suoi studi di meccanica, le spiegasse i trucchi del mago. Alla fine dell’esibizione, forse per difendere l’onore imperiale dalle vanterie del francese, Von Kempelen promise a Maria Teresa di costruirle un «automa magnetico» che avrebbe superato tutti gli esperimenti visti sino allora e che, «sarebbe stato in grado di pensare». Fatto sta che, nei primi mesi del 1770, il barone presenta alla corte imperiale un bizzarro congegno: si tratta di un manichino addobbato da turco, con tanto di turbante ed una lunga pipa. Drappeggiato sulla schiena porta un ampio mantello, ed un paio di baffoni spioventi accentuano ancor più il suo sguardo di un vitreo glaciale. Il “Turco”, come lo battezza il suo stesso inventore, è seduto “alla turca” dietro un’ampia scrivania di legno munita di rotelle, sulla quale campeggia una scacchiera. Von Kempelen, impassibile, comincia metodicamente ad aprire uno dopo l’altro gli sportelli situati alla base del mobile. Compaiono così, allo sguardo eccitato dei cortigiani e dell’Imperatrice, una complessa congenere di ingranaggi metallici, cilindri, pulegge, argani, tamburi, ruote dentate, stantuffi, cavi, tubi, viti e relativi bulloni. Un vero e proprio “automa” dunque, cioè un apparato totalmente meccanico che si muove da sé, senza altro ausilio che la sua stessa struttura e, nel caso del “Turco”, la “forza magnetica” da cui si favoleggiava fosse alimentato. Sappiamo che l’imperatrice fu la prima a giocare a scacchi contro il “Turco” e che perse in poche mosse. L’automa muoveva con meccanica abilità il braccio e la mano sinistri e, con piccoli scatti, inframmezzati da pause ad effetto, posizionava precisamente i suoi pezzi sulla scacchiera; era anche particolarmente iracondo: se l’antagonista sbagliava una mossa violando le regole del gioco, cominciava a

scuotere la testa e, dopo aver socchiuso le palpebre in uno sguardo perfido, spazzava via gli scacchi con una secca mossa del braccio. Ma, forse ancor più dell’abilità manuale, sorprendeva gli spettatori la “mossa” finale del “Turco” che, una volta vincitore, faceva cadere il re dell’avversario sibilando un distinto shet, scacco, in turco. Von Kempelen, infatti, aveva per primo inventato un meccanismo che imitava la voce umana; qualcosa del genere si trova ancora oggi nelle vecchie bambole che “piangono” o “ridono” o chiamano “mamma” quando le si muove. http://www.youtube.com/watch?v=eWXaygQa-Dc&feature=player_embedded (Von Kempelen presenta il Turco)

L’interno del Turco

Il Turco vesus Napoleone

È in questo momento nasce la leggenda del Turco. Dopo un primo periodo nel quale Von Kempelen lo esibisce in Europa, e l'automa batte praticamente tutti gli avversari, compreso il granduca Paolo di Russia, la zarina e vari alti personaggi dell'epoca, il giocattolo diventa proprietà privata di Federico di Prussia che lo acquista dal barone. A questo punto le tracce del suo inventore si perdono; sappiamo solo che muore nel 1804. Dopo qualche tempo però il sovrano mette il "Turco" in soffitta e solo l'astro nascente del nuovo secolo ne rispolvera la leggenda e gli dona nuova vita: Napoleone Bonaparte vuole sfidare la macchina magnetica di Von Kempelen. Le cronache affermano che l'Imperatore, prima della partita, osservò attentamente le mani dell'automa e ne controllò personalmente i meccanismi. Non sappiamo con precisione chi fosse in quel momento il suo proprietario, ma ciò che di certo sappiamo e che Napoleone tenne testa al "Turco" per più di tre ore, prima però di essere battuto e lasciare furibondo la sala col suo seguito. http://www.youtube.com/watch?v=DCbNNkqqinU (Napoleone vesus il Turco)

Dopo questa sfida leggendaria contro il più potente uomo d'Europa, il "Turco" parte per un nuovo trionfale tour continentale, è anche a Milano nel dodici, per poi, apparentemente in maniera definitiva, varcare l'Atlantico negli anni venti dello stesso secolo. Il Nuovo Mondo accoglie entusiasticamente il "Turco", automa "mesmerico" e progenitore di una lunga serie di macchine "intelligenti" che, proprio in quegli anni, si affacciano alla produzione industriale.

Una delle tante storie che si raccontano sul Turco vuole anche che all’interno fosse nascosto un patriota polacco che il barone fece uscire dalla sua terra occupata dagli austriaci. Negli Stati Uniti lo scacchista meccanico viene acquistato da un certo Maelzel che lo condurrà in giro per il paese sino agli anni quaranta. http://www.youtube.com/watch?v=dZloEQlVwYM (il Turco ed il re di Prussia min. 37,46-39,36)

L’incontro con E.A. Poe

Ed è durante una di queste esibizioni pubbliche che il "Turco" viene ad incrociare il suo destino con quello di Edgard Allan Poe. Lo scrittore, affascinato dalla leggenda della macchina mesmerica, comincia a seguire con interesse le mosse dell'automa e, spinto dalla sua innata propensione al mistero, decide di "svelarne" i segreti. Poe studierà per molto tempo il "Turco" ed arriverà alla conclusione che qualcuno, certo qualcuno di molto speciale, è in realtà rinchiuso nella scrivania del mobile, sotto la scacchiera di fronte al manichino e che, con un ingegnoso sistema, manovra il braccio meccanico dell'automa. La sua "dimostrazione", acuta e pertinente, viene pubblicata per la prima volta sul Messaggero letterario di Richmond in Virginia nel 1836 col titolo The Maelzel's Chess Player. Fine del mistero dunque, tutto spiegato? Si tratta solo di una macchina e di un qualcuno - gobbo, senza gambe, deforme, nano - nascosto, (o rinchiuso) al suo interno? Poe in realtà si limita a descrivere minuziosamente ciò che era possibile vedere dell'esterno ma, a bella posta, non "svela" il mistero, anzi, letteralmente lo "rivela", lo copre cioè con un velo ancora più fitto. In sostanza, oltre la descrizione degli ingranaggi che "suppongono" o possono lasciar supporre una presenza umana - Poe parla di una mente - e dunque declassare così il "Turco" da automa a falso automa, rimane un interrogativo irrisolto: com'è stato possibile, per quasi cinquant'anni, nascondere un simile individuo, o individua, all'interno del "Turco" scegliendo di volta in volta, tra una categoria di persone non certo favorite dalla vita in quei tempi, un giocatore tanto potente da sconfiggere, in migliaia di partite, praticamente tutti gli avversari? Ed in effetti, l'autore dei Delitti della Rue Morgue, dopo aver

descritto la dinamica con cui, oramai da mezzo secolo, i proprietari del "Turco" ne mostravano per così dire "gli organi interni", afferma: "E l'idea che una persona possa, durante un così complesso esame fatto dall'interno, rimanere nascosta dentro, è immediatamente allontanata dalla mente, se per un momento vi è sorta, come assolutamente assurda". «L'esame fatto dall'interno» cui si riferisce Poe è effettivamente ciò che avveniva: alcuni sportelli sui pannelli anteriori e posteriori della scrivania venivano, non solo lasciati aperti mentre se ne ispezionavano altri, ma addirittura rischiarati con la luce di una candela. E dunque, qual è l'enigma del "Turco", chi o cosa lo fa funzionare? C'è davvero qualcuno dentro, e se sì, che rapporto ha con la macchina? Il nome con cui le fonti classiche designano l’enigma è «problema», che in origine e presso i tragici significava ostacolo, qualcosa che è proiettato in avanti. E infatti l’enigma è una prova cui il dio espone l’uomo. Ma allora come funzionava il Turco, cosa era o chi era? Certamente è stato molto più che un automa “animato, in realtà il Turco è il primo cyborg della storia. http://www.youtube.com/watch?v=ivOdhpDQHLY (riproduzione del Turco)

Il Cyborg da Talos a Iron Man

Ma cosa definisce esattamente il termine cyborg? Un’entità che sviluppa l'interazione omeostatica tra un essere biologico e parti artificiali; la parola origina dalla contrazione dell’inglese cybernetic organism, organismo cibernetico, definizione coniata dagli studiosi Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline nel 1960, con riferimento all’idea di un essere «potenziato» al fine di sopravvivere in ambienti extraterrestri. I tre requisiti che individuano un cyborg sono dunque: potenziato, cibernetico ed omeostatico. Il primo termine, potenziato, sancisce la possibilità di accrescere le capacità dell’organismo biologico originale mercé le sue nuove interconnessioni artificiali. In sintesi si parte da una base biologica e si va oltre, espandendone le potenzialità o creandone di nuove. Il secondo termine della definizione, omeostatico, indica la nuova forma di equilibrio che si crea tra le parti artificiali e quelle biologiche. Omeostasi significa la capacità di mantenere queste nuove condizioni di operatività stabili in situazioni ambientali diverse. Ed infine, il termine cardine, cibernetico, sancisce, secondo la celebre definizione di Norbert Wierner contenuta nel suo Cybernetics del 1948, la possibilità di governare (dal greco Kybernetes, timoniere, pilota) le nuove connessioni che si stabiliscono tra l’essere vivente e le sue parti meccaniche. Questa triade definitoria ci dice che non siamo (ancora) dei veri cyborg. Una semplice protesi, infatti, non è sufficiente se non ci «potenzia»; inoltre, il difficile «governo» delle relazioni con le nostre parti artificiali, lo conferma. Su questo punto una nutrita scuola sostiene che la svalutazione crescente del nostro corpo biologico, le sue fragilità e caducità, con le nevrosi dell’immortalità e dell’eterna giovinezza che ne derivano - il Complesso di Dorian Gray potremmo chiamarlo - ci porteranno comunque, e ben preso, addirittura a trasferire la nostra mente, forse anche l’anima, all’interno di contenitori artificiali, di veri e propri simulacri di umanità, non solo più duraturi, ma anche indifferenziati sessualmente, come auspica la filosofa americana Donna Haraway, che vede nel cyborg il superamento del dualismo maschile-femminile. Insomma, il cyborg ci affascina per la sua potente capacità di essere metafora di ciò che ci attende al limite dell’umano, per il suo essere una anticipazione di ciò che saranno i simulacri futuri, gli eide nei quali ci ri-conosceremo. Ovviamente, in un regime biopolitico come quello attuale, le tecnologie in grado di assicurare queste “evoluzioni” saranno saldamente in mano ai nuovi Mefistofele, che lucreranno sull’anima degli aspiranti all’immortalità o all’eterna giovinezza, probabilmente facendo una copia dei “dati” contenuti nell’anima stessa prima di introdurla nel nuovo ritratto, magari olografico, di Dorian Gray. A maggior ragione, è possibile supporre che, non volendo, o non potendo, aspettare l’evoluzione naturale del corpo umano, per doversi rapidamente adattare alle mutazioni ambientali terrestri, e non più allo spazio profondo, si sarà tentati di percorrere questa strada a tappe forzate; così il cyborg potrebbe essere considerato come una sorta di Homo Sapiens 2.0. In fondo l’umanità è l’unica specie sino

ad ora vivente che pensa di poter produrre la sua stessa evoluzione. La presenza dei cyborg è già oggi ubiquitaria; ne troviamo nella ricerca scientifica applicata, nella letteratura, nel cinema, dove è d’obbligo citare Maria del Metropolis di Fritz Lang e Robocop, mentre la fantascienza ed i fumetti annoverano legioni di cyborg da Monna Lisa Cyberpunk di Gibson William, a Iron Man della Marvel.

E allora, se questo è un cyborg, perché il Turco era quel chi-cosa che lo ha anticipato, de facto, sia nella definizione

sia nelle funzioni? http://www.youtube.com/watch?v=5PAdQ5anhZE (La nascita di Maria)

Il mito e la scienza

Ogni essere dall’alto valore simbolico, emblematico, ha dei progenitori mitici, una icona che esprimeva sui generis le

potenze che si trasformeranno poi in atto. Nel caso dei robot o degli androidi, ad esempio, esseri totalmente artificiali, possiamo risalire a Talos, il gigante di bronzo che custodiva l’isola di Creta gettando tutto intorno, tre volte al giorno con cronometrica precisione, enormi macigni. Il gigante si scontrò anche con Teseo prima di essere sconfitto da questi che conosceva il segreto della sua energia. Anche la colomba di Archita da Taranto rientra nel mitologema dei primi automi; il Colosso di Rodi era forse un gigantesco automa, come le favolose macchine di Erone.

Talos

http://www.youtube.com/watch?v=AeN4ODQHZjE (Talos e gli Argonauti)

Ma è certamente con l’illuminismo e la filosofia di Cartesio e Bacone che l’idea del cyborg si propone nella sua fattibilità tecnologica, meccanica, poiché è lo stesso corpo umano ad essere oramai descritto e paragonato ad una macchina. Dice Cartesio: “E invero si possono benissimo paragonare i nervi ai tubi delle macchine di quelle fontane, i suoi muscoli e i suoi tendini agli altri vari congegni e molle che servono a muoverle… inoltre la respirazione e altre simili azioni naturali e ordinarie di questa macchina, che dipendono dal corso degli spiriti, possono essere paragonate ai movimenti di un orologio o di un mulino…”. Res extensa, il corpo, scisso dalla res cogitans, la mente, come sentenzia il celebre filosofo che vede la natura come una mega macchina da comprendere, ed eventualmente riprodurre, ma soprattutto governare, il che giustamente ci rimanda all'etimologia di «cibernetica». Bacone, d’altra parte, preconizzava che il corpo, esattamente come una macchina, potesse essere mantenuto in perenne efficienza attraverso la sostituzione delle sue parti difettose. In realtà,

sarà solo un secolo dopo che la meccanica costruirà dei veri e propri automi, in grado di incamminarsi da soli su questa strada. Hanno fatto storia, ad esempio, la celebre anatra di Vaucason, che mangiava ed espelleva i rifiuti del pasto, così come il suo suonatore di flauto, entrambi automi leggendari costruiti negli anni trenta del settecento. Sin da allora, dunque, si sperimentava l’idea di creare congegni che, proprio attraverso il dominio e l’interazione tra corpo ed altre parti oggettivate, aspiravano ad oltrepassare il mito di Prometeo; il Titano diventava così solo il pallido riflesso dell’uomo «potenziato». Il cyborg, dunque, si intravede già, nella sua riproducibilità tecnologica, attraverso la filigrana delle «anatomie artificiali» del diciottesimo secolo. “L’audace Vaucason, rivale di Prometeo” lo definisce, infatti, Voltaire.

L’anatra di Vaucason

La macchina analitica di Babbage

Ma, se il Turco è la base filosofico-scientifica del cyborg, la sua figura è all’origine di un altra intuizione rivoluzionaria. Il 6 marzo 1819, agli Spring Gardens, un giovane di nome Babbage incontra il Turco, che allora percorreva l’Europa affrontando e vincendo quasi tutti i suoi avversari: solo un paio di campioni di primo livello del Café de la Régence a Parigi erano riusciti a sconfiggere l’automa che, nel 1809, aveva già umiliato per ben tre volte l’abilità scacchistica di Napoleone. Babbage gioca anche lui col Turco, ed è proprio durante il confronto che nasce la possibilità di costruire una macchina pensante per «potenziare le capacità cognitive dell’uomo». Il giovane matematico comincia col chiedersi cosa, o chi, ha davanti: il Turco è solo un complesso oggetto meccanico o, secondo la sua intuizione, un simulacro di vita che introduceva una prospettiva secondo la quale la partita non era giocata da una supposta macchina contro un uomo, bensì la decisione di vincere o meno la sfida era tutta interna al simulacro? Babbage intuisce che il prestigio del Turco è generata dall’impossibilità logica dell’avversario umano di conciliare ciò cui esso si riferiva in apparenza - essere un automa - e la modalità dell’interazione che sviluppava creando quel gioco, evidentemente dotato di raziocinio, attraverso il quale l’intelligenza meccanica negava se stessa come puramente tale, si emancipava, proponendo così un altro possibile che spiazzava ed incantava l’avversario per il solo fatto di sottrarsi ad ogni definizione. In altri termini l’ambiguo fascino esercitato dal Turco era tutto in questo suo suscitare la perturbante estraneità dei simulacri, simulando, appunto, una generazione di intelligenza, una interazione materiale immaginale sino ad allora inaudita. Ed è proprio questa compossibilità tra meccanica e bio-logica che aprirà al matematico la via della sua macchina analitica.

La macchina analitica di Babbage

Il Turco e l’omino gobbo di Walter Benjamin

C’è un personaggio che accompagna, nascosto nel profondo permanente ed immutabile degli archetipi infantili, tutta la vita di Walter Benjamin; un «chi è» che troviamo armeggiante nei nascondigli immaginali in cui il filosofo dei Passages ha voluto esplicitamente collocare la scaturigine del suo pensiero. Un essere metaforico che si nasconde nel buio più recondito da cui originano le sue folgoranti intuizioni, e che da quella postazione gli disamina la visione delle cose. Questo personaggio ha solo una speciale richiesta, che fa per perpetrarsi nel tempo e nel ricordo di altre generazioni, eternizzare la sua essenza mutandone la forma, come avviene per ogni immortalità simbolica: chiede che il suo nome resti segreto. In caso contrario egli sparirebbe, e con lui il mondo che lo ospita. È il dybbuk di Walter Benjamin: l’«omino con la gobba», Das bucklicht Männlein, che troviamo nascosto anche nell’automa giocatore di scacchi della prima Tesi sul concetto di storia. “È noto che sarebbe esistito un automa costruito in un modo tale da reagire ad ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con una pipa in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In verità c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo marchingegno si può immaginare nella filosofia. Vincere sempre deve il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere”. Ma questo «nano gobbo», per ammissione dello stesso Benjamin, è in realtà un suo «doppio», il dybbuk che lo possiede e lo spinge a fare ciò che vuole, così dirà nel suo saggio Avanguardia e rivoluzione, citandolo come imparentato ai personaggi scanzonati, vagabondi e gioiosi di Robert Walser «che si muovono nella notte, dove essa è più nera; una notte veneziana, se si vuole, illuminata dai deboli lampioni della speranza, con qualche luce di gioia negli occhi». Il dybbuk, nella tradizione popolare ebraica polacca e tedesca, è lo spirito disincarnato al quale è stato vietato l’ingresso in paradiso per aver commesso peccati mortali, come il suicidio per amore. Ad alcune di queste anime, per imperscrutabili motivi, viene data la possibilità di emendarsi condividendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità.

L’Omino gobbo

Nelle vecchie sinagoghe di Berlino, quando Benjamin era ancora bambino, si narrava anche che i dybbuk fossero fuggiti dalla gehennaa, un termine ebraico traducibile liberamente con «luogo dei miasmi». Ma ciò che dà il senso ultimo del dybbuk è l’etimologia della parola, che deriva dall’ebraico קוביד, davok, «attaccarsi»: il dybbuk dunque è un qualcosa che si attacca ad un vivente per coabitare in esso, in senso ampio una “possessione”. Questa simbiosi forma un dibbukim, ed è così che descrive la propria relazione con l’«omino gobbo» il filosofo berlinese in una lettera all’amico Gershom Scholem: «conserva le mie immagini, io non posso dividermi da lui», come ad evocare qualche cosa di determinativo per tutto il suo essere. Questo personaggio appare la prima volta nella raccolta di immagini Infanzia berlinese, edita postuma nel 1950 a cura dell’amico Theodor Adorno. Qui il tema del ricordo, della recherche di tipo proustiano, si alimenta, ma solo in apparenza, di un percorso metropolitano che, però, finisce inevitabilmente per convergere verso quel personaggio attorno al quale, per esplicita ammissione e scelta dell’autore, gravitano tutte le immagini capaci di «preformare nel loro intimo l’esperienza storica successiva». Qui Benjamin allude, ancora una volta, alla «debole forza messianica» di certe immagini, forse in grado di salvare un futuro presente sul quale già si stendeva minacciosa l’ombra incombente del nazismo. Theodor Adorno bene identifica questo nesso quando, nella postfazione alla prima edizione della raccolta afferma: “Infanzia berlinese è stata scritta all’inizio degli anni Trenta… Le immagini che il libro fa emergere fino ad una sconcertante vicinanza, non sono né idilliache né contemplative. Su di loro si stende l’ombra del reich hitleriano. Come in sogno, congiungono l’orrore che questo suscita a ciò che è stato. Di fronte alla dissoluzione del proprio passato biografico, l’intellettuale borghese, con terrore panico, prende consapevolezza di se stesso come parvenza”. E cosa ci può essere di più parvente, fantasmatico, ma al tempo stesso reale e permanente, di un personaggio infantile con il quale si è colloquiato durante i lunghi anni della propria formazione psichica? La sua centralità è tale, nell’economia di Infanzia berlinese e non solo, che Adorno, nella postfazione, dice chiaramente che: “L’omino con la gobba doveva servire da conclusione”. Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza.

Ecco dunque ad un tratto apparire un essere, una entità, totalmente distinta, un totaliter aliter cui Benjamin, inaspettatamente, attribuisce il ruolo di alter ego, ma di un tipo affatto particolare, dato che è lui a vedere, senza

essere visto, tutte le immagini precedenti: “Ero dunque perfettamente preparato quando nel mio Deutsches Kinderbuch mi imbattei nei versi «in cantina voglio andare, il mio vino voglio bere, un omino con la gobba ahimè compare, e si beve il mio bicchiere»… Quando compariva restavo con un palmo di naso (nell’originale tedesco Benjamin usa l’espressione das Nachsehen haben, alla lettera «seguire le cose con lo sguardo»). E intanto le cose si ritraevano, sino a che, passato un anno, il giardino divenne un giardinetto, la mia camera una cameretta, la panca una panchetta. Le cose si assottigliavano, ed era come se spuntasse loro una gobba che le assimilava all’omino. L’omino mi anticipava sempre. E nell’anticiparmi intralciava il mio cammino. In realtà non faceva che riscuotere di ogni cosa cui volgevo la mia attenzione, la metà del dimenticare… Fu sempre solo lui a vedere me. Mi vide nel nascondiglio e davanti al recinto della lontra, nei mattini d’inverno e davanti al telefono…”. L’«omino gobbo» dunque, assimila progressivamente il mondo visionario ed infantile di Benjamin nella sua gobba, riscuotendo inoltre la «metà del dimenticare». Ecco perché il filosofo, alla fine, lo ritiene il suo dybbuk, una entità che vive con lui, che condivide i sui pensieri più nascosti, ed anche che li protegge dalla storia nella sua mistica gobba. Come non richiamare un’altra immagine-guida di Benjamin, quella dell’Angelo della storia con il volto alle macerie del passato e le ali già spiegate verso il futuro? Non è forse il mondo che l’omino con la gobba preserva nella sua deformazione a costituire il possibile futuro verso il quale l’Angelus Novus viene spinto? Come dirà delle immagini-costellazione nei suoi Passage parigini, l’«omino con la gobba» vive in un luogo in cui «un’epoca sogna la successiva». Tutto ciò che si produce nell’ebraismo, ha scritto Rosenzweig in La stella della redenzione, comporta una doppia relazione, da una parte con questo mondo e dall’altra con un mondo che deve venire: Benjamin ricava il suo spazio in questa tradizione. Ecco perché l’«omino con la gobba» di Infanzia berlinese, nascosto nel buio notturno della cantina, così come il suo corrispettivo nascosto nel buio dell’automa giocatore di scacchi nelle Tesi sul concetto di storia, verrà da Benjamin continuamente citato, richiamato, allusivamente evocato in una pluralità di saggi, come quello su Kafka, al fine di essere poi utilizzato come veicolo metaforico, affidabile proprio per la sua specificità formale, per quella carica proiettiva che in Benjamin, come in tutti i grandi visionari, cambiava di polarità mutando la deformità in salvezza.

La genia dell’omino con la gobba

Ma chi erano i sodali dell’«omino gobbo», la sua genia occulta, nascosta nella buca del palcoscenico infantile del filosofo berlinese? Tra quali personaggi della tradizione ebraica egli lo aveva scelto per la capacità di trasformare in visione messianica le angustie e le paure della sua vita errabonda, in deflusso escatologico le ansie infantili? Il filo sottile che lega questi personaggi viene costantemente evocato da Benjamin come in una formula alchemica, in cui ciò che si legge non corrisponde a nulla di fruibile se non per un iniziato che possegga la chiave di lettura. L’«omino gobbo» appartiene, lo abbiamo accennato, a quella stirpe di figure che Benjamin riferisce all’arte di Robert Walser; in specifico a quella parte che «ci rivela donde provengono i suoi diletti. E cioè dalla follia, e basta». Si tratta però di una forma di «follia» particolare, più definibile come «mania», avrebbe detto Platone nel Fedro (244 A-C), come quella che «viene dalle Ninfe», che porta i doni più ambiti, una follia che «illumina». Anche in una lettera al suo amico Gershom Scholem, Benjamin scrive che «la follia è l’essenza dei personaggi di Kafka; da Don Chisciotte, agli assistenti, fino agli animali», e aggiunge che solo l’aiuto di un folle è veramente un aiuto. «Vi è, come dice Kafka, un’infinita speranza, solo non per noi». Ecco che il dybbukim Walter Benjamin-omino con la gobba, al tempo stesso lui e non lui, può lanciare uno sguardo sull’infinita speranza. Nel saggio su Kafka, Benjamin ci spiega che «questo ometto è l’inquilino della vita distorta; e svanirà quando verrà il Messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo». E allora, questo «aggiustare di pochissimo», questo raddrizzare i torti, come forse la gobba dell’omino, mettono il personaggio “kafkiano” in diretta relazione col Messia. Il «gran rabbino» a cui Benjamin fa riferimento è Rabbi Nachman di Breslav, uno dei padri fondatori del chassidismo, il movimento mistico popolare che vedeva la speranza palingenetica depositata negli emarginati, i folli e gli inetti. Rabbi Nachman sosteneva, con disarmante semplicità, che «la venuta del Messia non cambierà nulla, salvo che ognuno si accorgerà della propria insipienza». Da questo riferimento capiamo anche l’attitudine di Benjamin rispetto al mondo misterioso dell’infanzia, a quei segreti nascosti all’interno della gobba dell’omino come nel buio dell’automa giocatore di scacchi. Per questa corrente del misticismo ebraico, infatti, il solo nominare questi segreti senza svelarli, poteva affrettare l’avvento dei tempi messianici. Per capire il chi è

dell’«omino con la gobba» si deve dunque tornare alle visioni infantili che egli ritrovava nelle esperienze con l’hashish, dove ad un certo punto dice: “La maleducazione è il dispiacere che il bambino prova per il fatto di non essere capace di magia. La sua prima esperienza del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua incapacità di praticare la magia”. L’«omino con la gobba» è dunque un essere favoloso che ci riporta ai momenti estatici, aurorali, dell’entusiasmo infantile: il tempo del mistero e del segreto, quando «tutto era ancora possibile». «Non crediate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia» dice Rilke, e nessuno più di Benjamin, che ha teso tutta la sua vita tra le polarità di una fede politica materialista e una religiosità mistica, può capirlo. Anche nel romanzo di Elias Canetti Auto da fé (nell’originale Die Blendung, accecamento), compariva un

gobbetto giocatore di scacchi, l’ebreo Fischerle, anche lui simbolo del legame che l’uomo deve avere con le rovine del passato se vuole progettare il futuro. Sia per Benjamin che per Canetti, allora, l’«omino gobbo» è il fantasma

dell’identità che per nascondersi e salvarsi, ma anche per agire sottilmente sul mondo, deve prendere forme deformi. Sullo sfondo di queste storie si stagliano infine figure come quelle del Golem, creato da Jehuda Löw ben Bezalel, rabbino in Praga nel sedicesimo secolo, o dell’Homunculus di Paracelso: simulacri di vita prodotti artificialmente ed al servizio del loro padrone certo, ma solo in quanto animati dalle stesse forze mistiche che donano la vita, o la morte, agli esseri umani che li hanno concepiti.

Il Golem

E allora capiamo che la preghiera finale di Infanzia berlinese dedicata al personaggio kafkiano, è in realtà per se stesso: «Prega bambino mio, per l’omino con la gobba prega Iddio».