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Morte di una nazione Dall’estate del 1991 sino alla fine della guerra del Kosovo (1999) e alla caduta del presidente serbo Slobodan Milošević, Massimo Nava ha seguito per il Corriere della Sera il conflitto nei Balcani. Nei suoi appunti, l’intreccio di colpe moderne e odi antichi di Massimo Nava - L’Europeo n. 5, 2011 - foto Livio Senigalliesi 1991 Krajina, oi Croazia: fango su un libro dedicato al leader storico dell’ex Jugoslavia Josip Tito. «Non era mai successo che gli annunci di guerra fossero seguiti da un consolidamento della pace. Che dopo le speranze di pace scoppiassero d’improvviso le ostilità era, al contrario, fatto pressoché normale nella grande penisola», da Tre canti funebri per il Kosovo, di Ismail Kadaré, Longanesi, 1999 15

Morte di una nazione - Livio Senigallieside per la Bosnia, non sono state riconosciute alla Serbia, costretta all’amputazione del Kosovo. Migliaia di soldati dell’Onu, miliardi

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Morte di una nazioneDall’estate del 1991 sino alla fine della guerra del Kosovo (1999) e alla caduta del presidente

serbo Slobodan Milošević, Massimo Nava ha seguito per il Corriere della Sera il conflitto nei Balcani. Nei suoi appunti, l’intreccio di colpe moderne e odi antichi

di Massimo Nava - L’Europeo n. 5, 2011 - foto Livio Senigalliesi

1991 Krajina, oggi Croazia: fango su un libro dedicato al leader storico dell’ex Jugoslavia Josip Tito.

«Non era mai successo che gli annunci di guerra fossero seguiti da un consolidamento della pace. Che dopo le speranze di pace scoppiassero d’improvviso le ostilità era, al contrario, fatto pressoché normale

nella grande penisola», da Tre canti funebri per il Kosovo, di Ismail Kadaré, Longanesi, 1999

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zione d’identità politica dei musulmani di Bosnia. Il proclama de-gli accademici di Belgrado (1986) fu la risposta della cultura slava e ortodossa che si sentiva minacciata, anche sul piano demografico. Il concetto di pulizia etnica non è che la versione disumana di que-sta preoccupazione. Il massacro di Srebrenica (luglio 1995) e l’as-sedio di Sarajevo rappresentarono la follia dei serbi di Bosnia che proiettavano sui musulmani la loro sindrome d’accerchiamento e difesa di civiltà. L’ondata di volontari islamici venuti a combattere a fianco dei bosniaci è documentata. E alcuni di questi combatten-ti sono rimasti in Europa, non certo come ambasciatori di pace.

la trappola dell’eterno ritornoCome racconta il grande scrittore jugoslavo Ivo Andrić (1892-

1975): «Non c’è altra realtà che il dolore, non c’è altra realtà che la sofferenza. Dolore e sofferenza sono in ogni goccia d’acqua, in ogni filo d’erba, in ogni grano di cristallo, in ogni suono di voce viva, nel sonno e nella veglia, nella vita, prima della vita e forse anche dopo la vita…». Diceva lo scrittore croato Miroslav Krleža (1893-1981): «La differenza fra serbi e croati? Nessuna. Siamo la stessa merda di vacca spaccata in due dal carro della storia».

Il prima e il dopo, nei Balcani, non hanno successione logica. Il passato riaffiora per giustificare una vendetta o attenuare una col-pa. Tutto sembra previsto e conseguente, si confonde, nel tempo e nello spazio, come in un girone infernale in cui si torna al pun-to di partenza. Sono bastate poche scaramucce di frontiera a far crollare una nazione, una federazione di repubbliche, un sistema politico, una società civile che si erano imposti all’attenzione del mondo come un modello originale, in bilico fra diritti occidentali e dominio del partito-Stato. Il problema meno complicato fu il ri-

Dopo l’ultima guerra (1999) Veton Surroi, uno degli intellettua-li kosovari che si era battuto per il suo popolo, ha scritto: «Quello che stanno subendo oggi i serbi del Kosovo disonora la memoria dei nostri morti». La storia, nei Balcani, non sembra seguire un ordine cronologico, ma un movimento circolare che confonde passato e presente, mischiandosi alla politica, che è costruita sulla memoria dei torti subiti.

Le strategie di Europa e Stati Uniti dovevano segnare una nuo-va era, quella dei diritti dei popoli, prevalenti sui confini degli Stati e sul dispotismo dei dittatori. Riconoscendo l’indipendenza di Croazia e Bosnia, intervenendo militarmente per l’unità della Bosnia e bombardando la Serbia per salvare la popolazione del Kosovo, si sono affermate nuove regole, una delle quali – il di-ritto/dovere di bombardare e processare un dittatore – è tornata d’attualità a Bagdad e oggi nel Maghreb. La nobiltà morale non ha però tenuto conto di prezzi e tempi che si dovevano pagare. La ex Jugoslavia è rimasta in balia di strategie contraddittorie e in-tercambiabili. I musulmani sono stati lasciati alla mercé dei serbi a Sarajevo e armati contro i serbi in Kosovo. Slobodan Milošević è stato prima la soluzione per la stabilità (con gli accordi di Dayton) e poi il problema da eliminare. L’unità e l’integrità dello Stato, vali-de per la Bosnia, non sono state riconosciute alla Serbia, costretta all’amputazione del Kosovo. Migliaia di soldati dell’Onu, miliardi di dollari e ricette militari hanno sopito senza spegnerlo l’odio et-nico e religioso in cui è cresciuta una generazione. La distruzione, a opera dei cattolici croati, del ponte di Mostar (9 novembre 1993), ideale collegamento fra cristiani e musulmani nella città divisa, segnò simbolicamente la nuova frattura. La dichiarazione islami-ca del presidente bosniaco Alija Izetbegović fu la prima rivendica-

1991 Petrinja, oggi Croazia Un combattente delle Zebre, organizzazione paramilitare croata, avanza sotto il tiro dei mortai serbi. Nel 1995 la Croazia rioccupò la città di Petrinja e i territori a maggioranza serba che si erano autoproclamati Repubblica serba di Krajina (1991-1995).

mamme compravano cappellini con l’etichetta “Croatian Army”, zainetti con colori mimetici, mitra e bombe a mano di plastica, tu-tine da combattimento. E i bambini salutavano con le dita in segno di vittoria. A Zara erano arrivati gruppi di provocatori con opposti intenti. Minacciavano croati ribelli e serbi che non avevano inten-zione di combattere per Belgrado. «Viviamo qui da sempre, siamo contrari all’invasione della Croazia, ma abbiamo paura di dire il nostro cognome», dicevano. Qualcuno aveva deciso di prepararsi a sparare al collega d’ufficio, al vicino di casa, al commilitone che fino al giorno prima indossava la stessa divisa.

L’arcivescovo di Zara tuonava dal pulpito: «Combattere per di-fendere la Patria è un principio morale, è un diritto di ogni uomo difendere la propria casa. Il popolo croato chiede soltanto il rispet-to della propria indipendenza». Dall’altra parte, un nazionalista serbo, Vojslav Šešelj, replicava: «Ci sono milizie paramilitari in Croazia. Le milizie croate sono state create prima di quelle serbe. I croati, durante la Seconda guerra mondiale, hanno assassinato un

conoscimento di singole Repubbliche, come in una causa di divor-zio. Il problema irrisolvibile furono le minoranze delle minoranze che vivevano da una parte e dall’altra e che finirono all’inferno.

Zara, Spalato, Sebenico, Fiume, Pola, Dubrovnik. Sotto il sole d’autunno, Caino e Abele s’incontravano al caffè. Ragazze passeg-giavano fra le barricate, morti dell’una e dell’altra parte si seppel-livano ancora negli stessi cimiteri. I soldati federali, chiusi come ostaggi nelle caserme di stanza sul territorio croato, salutavano dalle finestre i concittadini che li avevano tenuti sotto tiro fino alla sera prima. Sembrava assurdo che il sangue potesse scorrere in paradiso, tra fiordi rocciosi e mare azzurro lambito da pinete. Bruciavano case, campagne, chiese. I volontari croati giuravano di essere pronti a morire. Ray-Ban e jeans, i ragazzi di Zara monta-vano la guardia agli angoli delle vie. Al mercato, in una sbornia na-zionalista che tempestava radio e tv, trionfava il gadget croato: de-calcomanie, distintivi, musicassette, ritratti del presidente Franjo Tuđman, portadocumenti con la scritta “Repubblica croata”. Le

non è vero che le battaglie siano state combattute fra cattivi e malvagi. C’è una ge-rarchia di responsabilità. Di classi dirigenti (burocrati, militari, politicanti ed ex comunisti convertiti al nazionalismo) e di una comunità internazionale che per troppo tempo è rimasta a guardare i massacri. È la storia di una terra infelice. Nel 1902, il diplomatico Albert Malet descriveva la situazione in Kosovo: «La caccia

ai cristiani serbi è quotidiana. È impressionante la lista di attentati, conversioni forzate, stupri e omicidi commessi dagli albanesi musulmani». Nel 1990, lo scrittore Robert Kaplan ascolta l’alba-nese Ismail: «Sai perché non bevo grappa di prugna? Perché i serbi ammazzano dopo aver bevuto grappa di prugna. Sai che cosa vuol dire lanciare un bambino in aria e prenderlo al volo con un col-tello, di fronte a sua madre? Dopo, loro vanno in chiesa, nelle loro stramaledette chiese...».

«Il dito tremante di una donna / scorre la lista dei caduti / nella sera della prima neve.La casa è fredda e la lista è lunga. / I nostri nomi, tutti, sono inclusi»,

da Guerra, in Hotel Insonnia, di Charles Simic, Adelphi, 2002

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ci sono ancora combattimenti in Bosnia. La Bosnia è stata ammes-sa direttamente alle finali». Per raccontare la vita a Sarajevo sotto l’assedio occorreva percorrere la bella vallata della Neretva e poi avventurarsi sulla pista tortuosa del monte Igman.

I caterpillar delle Nazioni Unite avevano sbancato tratti di stra-da per far posto a tank e cannoni della forza di reazione rapida, puntati sulle artiglierie serbe. Sui tornanti si scorgevano carcasse di pullman, auto e furgoni. Un cimitero di lamiere, alla memoria di quanti non ce l’avevano fatta. Gli spalloni, che portavano siga-rette e alimentari in città, ci accompagnavano per l’ultimo tratto a piedi. «È il sistema più sicuro», dicevano. E per loro più conve-niente: cento marchi a borsa. Alla fine della pista, le prime anime vive erano bambini a piedi scalzi che avevano imparato a chiede-re aiuto in diverse lingue. La gente si chiedeva quando avrebbe potuto fare una doccia calda, avere la luce e non custodire come una reliquia il burro rancido. O quando riconquistare la normalità d’uscire di casa, andare al mercato, sedersi al caffè. Ragazzi e ra-

milione di serbi. Ora ricominciano. Se vogliono lasciare la Federa-zione, Croazia e Slovenia facciano pure. Ma senza territori serbi. Dico ai croati: salite sul campanile di Zagabria e tutto quello che vedete da lassù è la Croazia, niente di più e niente di meno».

sarajevo: vita da assedioA Belgrado si eleggeva ancora Miss Jugoslavia, una biondissi-

ma croata: «Non mi occupo di politica, voglio vivere in pace». «I serbi», diceva il presidente sloveno Milan Kučan, «non vogliono vivere in un altro Stato come minoranza. E invece di ottenere per la loro minoranza la massima tutela giuridica possibile, cercano di conquistare territori in cui vivono le loro minoranze». I croati con-tinuavano ad armarsi. Le armi arrivavano in gran quantità, da Eu-ropa, Australia, America, grazie ai contributi della diaspora. E, con le armi, i volontari: immigrati da tutto il mondo, lavoratori dalla Germania, duri e puri dall’Erzegovina bosniaca, che Zagabria spe-rava di annettersi. A Sarajevo, girava una macabra battuta: «Non

si». La storia dei massacri era cominciata al terzo piano di un pa-lazzo con la facciata scolorita dagli anni, al numero 2 di Sutjeska Ulica. Qui Radovan Karadžić, psichiatra, viveva con la famiglia, la moglie Ljiljana, anch’essa psichiatra, i figli Sasha e Sonja, e qui riceveva gli amici della Sarajevo multietnica, i colleghi dell’ospe-dale, la cerchia di intellettuali e scrittori dai quali voleva essere considerato uno dei maggiori poeti serbi viventi. C’erano serbi, musulmani, croati e montenegrini come lui, arrivato a studiare a Sarajevo dal villaggio di Petnjica, Montenegro. Molti ex pazienti erano morti o fuggiti, come molti colleghi dell’ospedale. Ismet Ceric, primario musulmano, lo considerava il successore. Si fre-quentavano, con mogli e figli. «Per me non esiste più», disse. Fu Ceric ad aiutare Karadžić a diventare lo psichiatra della squadra di calcio di Sarajevo e a raccomandarlo alla Stella Rossa di Belgrado, da dove lo cacciarono come un ciarlatano. Karadžić aveva fatto una brillante carriera che gli fruttò – sotto il regime di Tito – un appartamento, il permesso di esercitare la libera professione e un

gazze passeggiavano tenendosi per mano, con il decoro semplice e orgoglioso di chi riusciva a lavarsi senz’acqua e truccarsi senza niente. I bambini giocavano nei cortili. Ignari e smunti, sembrava-no allegri. Gli orfani erano più di 5mila. Si zappava negli “orti da guerra”, fazzoletti di verde urbani, per un po’ di vitamine, perché la pelle avvizziva, i capelli cominciavano a cadere.

Al mercato di Markale, il luogo della più terribile strage, la gen-te passava vicino ai segni delle granate e lasciava fiori e dediche. Qualcuno sorrideva: «Siamo braccati, se arriva uno straniero, ci sentiamo meno soli». Un passaporto, un permesso d’uscita, vale-va più dell’acqua. Qualcuno voleva disertare dalla resistenza che commuoveva il mondo. Giovani, professionisti, borghesi l’avreb-bero fatto e non sarebbero più tornati. Sarajevo era sempre più ghetto, di malati, poveri, vecchi. Dio e la Provvidenza erano fac-cenda di centimetri: dipendeva dalla mira del cecchino e da dove cadeva la granata. Diceva un ragazza: «Qui tutti si sposano. Si può perdere la vita molto presto e allora la gente continua a sposar-

1991 Vukovar, oggi Croazia Il 18 novembre 1991, dopo tre mesi di assedio, la città bombardata fu occupata dalla Serbia. L’Armata popolare jugoslava e le Tigri di Arkan compirono vari crimini. Tra il 20 e il 21 novembre prelevarono civili dall’ospedale di Vukovar e li uccisero a Ovčara.

1992 Zagabria, Croazia Un muro costruito nel centro della città dai parenti e dagli amici delle vittime di Vukovar. L’8 novembre 2010 il presidente serbo Boris Tadić ha reso omaggio ai trucidati a Ovčara (5 km da Vukovar). Di oltre mille scomparsi la Croazia non ha ancora notizie.

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suoceri compresi, si installò nel palazzo di Sutjeska Ulica. Ljiljana, la moglie, fu influente nella Repubblica dei serbi di Bosnia.

Il passato conta. Molti suoi parenti erano stati uccisi dagli usta-scia croati durante la Seconda guerra mondiale. Il colore del san-gue è un terribile equivoco. La tragedia che ha diviso famiglie e amici fu voluta da individui che avevano preteso di cancellare il miscuglio di radici avvenuto nella Jugoslavia di Tito: un folle ritor-no alle origini, spesso segnato dai massacri della Seconda guerra mondiale e della lotta partigiana. Karadžić e Milošević proveniva-no dal Montenegro. Karadžić sostenne la superiorità della razza montenegrina, per la “lunghezza della tibia”. Arkan, comandante dei paramilitari serbi, veniva da una famiglia montenegrina resi-dente in Kosovo ed era nato in Slovenia. Il generale Ratko Mladić era un serbo dell’Erzegovina croata e suo padre venne ucciso da-gli ustascia. Il leader della destra serba radicale, Vojislav Šešelj, nacque a Sarajevo, ma aveva origini slovene. Biljana Plavšić, l’ex dama di ferro dei serbi di Bosnia, si era sposata a Sarajevo con un

anno di specializzazione alla Columbia University di New York. La validità dell’opera poetica, poesie e favole per bambini, venne apprezzata da Dobrica Ćosić, padre spirituale del nazionalismo serbo ed ex presidente della Jugoslavia. Karadžić ordinò di bom-bardare la clinica dove aveva lavorato. Marko Vešović, amico d’in-fanzia, ricordava il suo successo con le donne. «Lo chiamavamo “scopatore interetnico”, aveva amiche croate, serbe, musulmane. Una sua amante, musulmana, viveva a Sarajevo e la sua casa non venne mai colpita. […] Karadžić, un mollaccione scadente come poeta e poco professionale come medico, aveva due obiettivi (far soldi e riuscire in un campo qualsiasi) e una sola persona capace di influenzarlo, sua moglie». La donna, piuttosto brutta, “faccia da funerale”, era descritta da Karadžić come una “straordinaria bellezza creola”. L’aveva messa incinta e il padre della ragazza lo inseguiva per Sarajevo con la pistola per costringerlo a sposarla. Fu Abdulah Sidran, scrittore musulmano, a intercedere presso la famiglia con una pubblica lettera. Fu così che la famiglia Karadžić,

maiali. C’era un poliziotto che prendeva il maiale per le orecchie, lo scaraventava al suolo e lo sgozzava. Questo è quello che face-vamo tutti...». I fatti risalivano all’inizio dell’assedio di Sarajevo (5 aprile 1992), nel villaggio musulmano di Ahatovici, e in quello che verrà ricordato come il “mattatoio Sonia”, una specie di motel accanto a un campo di prigionieri a Vogošća.

gli stupri al Motel sonia Nel “motel Sonia” le donne musulmane venivano rinchiuse

e selezionate. Le più giovani dovevano soddisfare i bisogni ses-suali dei soldati serbi. Poi venivano trucidate. Pochissime si sono salvate, qualcuna è impazzita, qualcuna aveva partorito il figlio di questo immenso deposito di orrore. Il direttore del carcere de-scriveva il condannato: «Personalità mostruosa, psicopatico che ha confuso i suoi traumi infantili con la propaganda e l’odio etnico sparso dai capi serbi». Ai giudici raccontava che i serbi l’avevano indottrinato mostrandogli filmati dello zoo di Sarajevo, dove don-

musulmano. Karadžić era riuscito a tradire anche gli amici che lo avevano seguito sulle alture di Pale. Uno di questi, Nikola Koljević, professore di letteratura e studioso di William Shakespeare, deci-se di suicidarsi nel giorno dell’anniversario della morte del figlio. Si suicidarono entrambi i genitori di Milošević e poco dopo anche uno zio. Si suicidò la figlia del generale Mladić dopo la vergogna di Srebrenica o forse perché il padre osteggiava il fidanzamento con un musulmano. Lo scrittore Predrag Matvejević sosteneva che anche il padre di Franjo Tuđman si era suicidato dopo aver ammazzato la moglie, anche se il presidente croato – ex generale comunista convertito al nazionalismo – disse che suo padre era stato ucciso dai comunisti. A Sarajevo incontrai in carcere il solda-to serbo Borislav Herak, condannato per crimini di guerra: stupri, rapine e l’uccisione di almeno una trentina di giovani donne mu-sulmane da lui violentate. Aveva ammesso tutto con orrendi det-tagli sull’esecuzione delle vittime, torture, stupri e sgozzamenti: «Un lavoro non facile. Faticoso. I nostri capi ci addestravano con i

1992 Manjača, Bosnia Prigionieri bosniaci in un campo di concentramento. L’ex leader serbo Radovan Karadžić, sotto processo al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja, ha definito la guerra in Bosnia un atto di legittima difesa contro il pericolo islamico.

1995 Sremska Rača, confine tra Bosnia e Serbia Serbi in fuga dopo la conquista della Repubblica serba di Krajina da parte della Croazia. I profughi serbi (200-300mila), cacciati dalla Croazia con l’operazione militare Tempesta, oggi rivendicano le loro case abbandonate.

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vergognarmi. Posso guardare negli occhi chiunque. Abbiamo combattuto a testa alta. Escludo stupri e saccheggi». E Srebreni-ca? «Nessuno dei miei era a Srebrenica. Forse troveranno due o tre musulmani che mi accusano. Ho visto soldati serbi con la testa tagliata!». Dunque, soltanto un soldato che esaltava le gesta del nonno, «un eroico combattente della guerra contro i turchi» e del padre, ufficiale dell’aeronautica jugoslava. Nel suo ufficio, in un nuovo palazzotto tutto specchi e marmi, un neoclassico kitsch da Disneyland, Arkan riceveva in panciotto e cravatta. Aveva messo la divisa nel cassetto e indossato quella dell’uomo d’affari e del politico. A giudicare dalla sede, dai gorilla, dalle segretarie e dalle jeep giapponesi, gli affari andavano bene: «Import-export. Un po’ di tutto, petrolio, giocattoli, pelli, mobili». Niente male, per uno che aveva cominciato come barista e che, prima della guerra, era noto per essere il capo degli ultrà della Stella Rossa, la squadra di calcio di Belgrado. «Seguendo la squadra ho capito che sarebbe scoppiata la guerra. Ero nello stadio di Zagabria e migliaia di croati

ne e bambini serbi venivano dati in pasto ai leoni. «In verità», ri-cordava il direttore, con una punta di amara ironia poco adatta alle circostanze, «c’era un solo vecchio leone a Sarajevo. Ma è morto di fame durante l’assedio...».

A Belgrado, incontrai uno degli ideatori di questi trattamenti, il comandante Arkan, citato persino dall’Enciclopedia Britannica come il più famoso capo paramilitare serbo, il terrore dei musul-mani e dei croati. Željko Ražnatović, detto Arkan, comandava le famigerate Tigri, migliaia di volontari che combatterono a Vuko-var, in Croazia, e in Bosnia, lasciandosi alle spalle una lunga scia di orrori. Arrivavano nei villaggi, separavano i gruppi etnici e facevano “pulizia”. Le Tigri – appoggiate da Belgrado – avevano diritto di saccheggio e un rimborso spese di un milione di mar-chi a villaggio: «Storie», diceva Arkan. «Abbiamo ricevuto l’aiuto degli emigrati. Milioni di dollari dall’America e dall’Australia per i nostri soldati». Arkan, ucciso a Belgrado nel 2000, si è portato nella tomba segreti e complicità. Asseriva: «Non ho nulla di cui

questo legame che abbiamo con il mondo e che rappresenta per noi l’unica salvezza contro un regime necrofilo. Mi hanno detto gli amici che hanno perso tutto in Bosnia che uno dei motivi per cui sono stati così male era di non aver potuto conservare nemmeno una fotografia. Dicono che ci si sente come se non si esistesse. Si tratta ormai della quarta generazione della mia famiglia che ha fatto esperienza di guerra. Penso ai libri di Albert Camus, Rainer Maria Rilke, Gabriel García Márquez, Marguerite Yourcenar, Franz Kafka, Lev Tolstoj. Sono solo cronisti dei nostri orrori. La sai l’ulti-ma? Un serbo prende in giro un americano. Voi non avete la storia. E l’americano risponde: e voi non avrete più la geografia». Mentre i bombardieri della Nato martellavano Belgrado, in Kosovo decine di migliaia di uomini, donne e bambini prendevano la via della Macedonia. Per sfuggire ai bombardamenti e alle milizie serbe. Al confine, la vallata di prati e alberi sotto il cielo azzurro aveva cambiato colore. Aveva l’aspetto di un’immensa fogna in cui an-negavano esseri umani. L’erba è ricresciuta, concimata di sangue,

urlavano: «Morte ai serbi». Era il luglio del 1990. Dovevamo prepa-rarci al peggio. I serbi avevano paura. Siamo corsi a difenderli». La cantante Svetlana “Ceca” Ražnatović gli aveva dato l’ottavo figlio (solo due, Veljko e Anastasia, sono della cantante, ndr).

Poi anche la gente serba si prese una razione di bombe, nella pri-mavera del 1999. A Belgrado, bambini e neonati venivano portati nei sottoscala delle cliniche e nei rifugi antiaerei. Quando la Nato decise di far fuori le centrali elettriche, a Belgrado si cominciò a na-scere al buio. Gli errori dei bombardieri suscitavano rabbia e indi-gnazione, i missili potevano piovere ovunque: un giorno un treno, un giorno un convoglio di profughi, un giorno un’ambasciata e un albergo, un giorno persino l’ospedale. Ma i conti in Serbia si sareb-bero fatti alla fine della guerra. Sulle macerie del Paese. Un’amica serba, Biljana, mi scriveva: «Il nostro sbaglio è di non esserci tirati fuori in tempo, in qualsiasi modo possibile da questa tana di lupi. Adesso non ci rimane che infilare la testa nella sabbia. Forse su questo conta la difesa del Paese. Spero che continui a funzionare

1994 Sarajevo, Bosnia Coperte stese durante l’assedio di Sarajevo (5 aprile 1992-29 febbraio 1996) all’incrocio di Skenderija, per proteggere i passanti dai cecchini. Il 5 febbraio 1994 i serbi lanciarono una granata di mortaio sul mercato di Markale nel cuore della città: 68 morti e 197 feriti.

1999 Skenderaj, Kosovo Combattenti dell’Uçk (Movimento di liberazione del Kosovo) entrano nella regione di Drenica dopo la risoluzione Onu 1244 del 10 giugno 1999 che ha posto fine alla guerra del Kosovo. L’Uçk (20mila soldati) non intendeva deporre le armi, ma fu smilitarizzato.

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libera, la rivoluzione si compiva in uno sventolio di bandiere, al ritmo assordante di fischietti, tamburi e slogan. In modo incruen-to, a conferma della decomposizione fisica del regime, come se la terra serba, da secoli già troppo intrisa di sangue, non avesse più posto per nuove vittime e lutti.

Le nuvole di fumo nero che si levavano dalle finestre e dalle cupole neoclassiche del Parlamento mandavano in cenere, con sedie, scrivanie, montagne di carta e leggi, il regno di un uomo, sopravvissuto alle guerre etniche, ai bombardamenti, alla rabbia montante di una generazione: tutta la Serbia gli era contro, il po-polo nelle piazze di Belgrado, decine di migliaia di operai calati dall’alba nella capitale, gli studenti e ormai persino i suoi soldati, che non avevano osato affogare l’alba di democrazia in un bagno di sangue. Alzavano bandiera bianca, consegnavano scudi ed el-metti, si mischiavano alla gente, armata soltanto di un’immensa speranza di pace e normalità. Ci furono scontri, feriti, lacrimogeni, ma l’opposizione democratica aveva ormai preso il controllo dei gangli vitali del regime e nel grande scenario di fiamme festeggia-va l’uomo del futuro: Vojislav Koštunica.

Nella notte precedente, gli scenari per la presa del potere sem-bravano disegnati. Alcuni generali, passati da mesi fra i dirigenti dell’opposizione, avevano ricevuto assicurazioni che l’Armata non sarebbe intervenuta. Dalle campagne della Serbia profonda, dalle fabbriche e dalle miniere, decine di migliaia di operai e contadini calavano su Belgrado, travolgendo con i bulldozer le autovedette della polizia e i deboli, passivi, cordoni d’agenti. Il Parlamento e la televisione pubblica erano gli obiettivi scontati: per le immagini che sarebbero passate alla storia e per il certificato di morte di ogni dittatura. La canzone Mesečina, “chiaro di luna” (testo del regista Emir Kusturica, musica di Goran Bregović, ndr), diventava un sab-ba festoso, come nel film Underground. Sventolavano centinaia di bandiere di Otpor, “resistenza”, il movimento degli studenti, il primo germoglio della rivolta. Migliaia di giovani, collegati via Internet, si erano contattati casa per casa, fin dentro le campagne più tradizionaliste, ultimo serbatoio di consenso del regime. La folla, davanti al Parlamento e in piazza della Repubblica, la piazza di tante oceaniche manifestazioni finite nel nulla, continuava a ballare e a cantare, in una notte d’infinita felicità.

Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera, è stato corri-spondente di guerra. È autore di Carovane d’Europa (Rizzoli, 1992), Kosovo c’ero anch’io (Rizzoli, 1999), Milošević, la tragedia di un popolo (Rizzoli, 2000), Imputato Milošević (Fazi, 2001), Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace (Fazi, 2005).

escrementi e lacrime. Sopravvissuti e testimoni ne ricorderanno la nausea, l’immondo scenario di agonia e le responsabilità di un doppio martirio: quello perpetrato al di là della frontiera, nei cam-pi di battaglia del Kosovo, che inghiottivano e vomitavano le vit-time della polizia serba, e quello che si consumava sulla linea del fronte, dove il popolo kosovaro veniva stritolato dai preparativi della Nato per l’invasione. Una vallata al confine era tutto quello che restava del Kosovo. E della vergogna – scrivevo allora – perché almeno la vergogna, forse soltanto la vergogna, resterà nel fango e nel lamento, nella fame e nelle lacrime che bagnavano anche i nostri taccuini di spettatori impotenti al concitato trasporto di cadaveri, partorienti, vecchi, donne e bambini stremati. Nessuna catastrofe umanitaria aveva mai escluso almeno una retrovia di soccorso e di salvezza. Per i kosovari, in fuga dalla guerra, dalle bande paramilitari serbe, dai bombardamenti, dalla fame, da tutto ciò che assediava città e villaggi spettrali e in fiamme, c’era soltan-to quest’ultimo girone dell’inferno.

l’odissea kosovaraQualcuno era rimasto a combattere, qualcuno si è preso la re-

sponsabilità di condurre i propri cari all’inferno, qualcuno era rimasto al villaggio, nell’inutile tentativo di proteggere chi non poteva muoversi. Ai racconti delle angherie subite da parte delle truppe serbe, si mischiavano il sogno di riorganizzare le file della guerriglia, la paura delle bombe, le leggi della sopravvivenza, una sorta di amnistia decisa sul posto dai serbi: «Lasciateci armi, divise, soldi e andatevene». Si era compiuto un progetto perverso: sgom-berare il Kosovo, scaricare il problema all’esterno, sui Paesi europei che avrebbero avuto il dovere morale di soccorrere e ospitare. Sfi-niti, ridotti a larve, i kosovari non avevano la forza per lamentarsi, o forse erano i soli ad aver conservato la dignità del silenzio.

Pochi mesi dopo, nel settembre del 2000, ci fu l’epilogo, la ca-duta di Milošević, la presa del palazzo, a opera dei serbi stanchi di guerra e di menzogne. Il potere di Milošević crollò nello stes-so scenario in cui era nato e in cui si era retto per un tragico de-cennio di guerre, paura e illegalità. Adunate di massa, bandiere, distruzioni, macerie, movimenti di truppe, fiamme e passione travolgente di un popolo che un tempo lo aveva acclamato e che aveva finalmente compiuto la più attesa delle rivoluzioni nell’Est comunista. Il Parlamento federale, circondato da decine di miglia-ia di dimostranti, incendiato. La televisione del regime oscurata, occupata, data alle fiamme. L’apparato al collasso, reparti di poli-zia che fraternizzano con i giovani nelle piazze, l’esercito fermo nelle caserme, paralizzato dalla volontà del popolo. La Serbia era

«Coltiva il dubbio riguardo alle ideologie e ai princìpi dominanti.Tieniti a distanza dai princìpi. Fai attenzione a non inquinare la tua lingua con quella delle ideologie»,

da Consigli a un giovane scrittore, in Homo poeticus, di Danilo Kiš, Adelphi, 2009

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Il “serpente” indossa camicia bianca e cravatta. L’in-tellettuale non porta più la sciarpa di seta al collo che lo ha reso riconoscibile al mondo. Il giovane capo della guerriglia, così astuto e spietato da guadagnarsi sul campo il titolo di “serpente”, oggi dà ordini die-

tro una scrivania. Il leader storico, nella villa sulla collina di Pristina, contempla la collezione di minerali kosovari, testimonianza di presunte ricchezze del sottosuolo. A un anno esatto dalla fine della guerra, Hashim Thaçi (Primo ministro del Kosovo dal 9 gennaio 2008, dichiarò l’indi-pendenza del Paese dalla Serbia il 17 febbraio 2008, ndr) e Ibrahim Rugova (leader della resistenza non violenta in Kosovo, Rugova è stato il primo Presidente del Paese sotto

dI MassIMo Nava - CorrIere della sera, 9/6/2000foto lIvIo seNIgallIesI

Il 9 giugno 1999, dopo 78 giorni di bombe Nato, i serbi lasciarono il Kosovo. Dopo 12 anni, Belgrado non ne riconosce l’indipendenza. E i traffici illeciti fioriscono

2000 tra saIgoN e bagherIa

«C’è stata una sorta di epurazione dopo il conflitto contro i serbi, proprio come in Francia nel 1945, con un vero odio contro i collaborazionisti, reali o presunti», da Les spectres du Kosovo di Piotr Smolar, Le Monde, 13 aprile 2011

Marzo 1999 Danni dei bombardamenti della Nato a Pristina. In sede Onu è stata la Cina, grande investitore nei Balcani e in particolare in Serbia, a battersi contro l’indipendenza del Kosovo.

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Marzo 1998 Cirez, Kosovo: funerale delle prime vittime di etnia albanese dopo gli scontri con le forze di polizia (serbe). Vi assistono migliaia di persone. Accanto agli uomini uccisi (a sinistra) erano state poste armi, per provare l’appartenenza all’Uçk.

l’amministrazione Onu dal 4 marzo 2002 al 21 gennaio 2006, ndr), il guerriero e il pacifista, parlano la stessa lingua e riven-dicano una realtà che, giorno dopo giorno, in modo palese e strisciante, dai francobolli alla moneta, dalle targhe ai passa-porti, si sta consolidando: l’indipendenza del Kosovo.

tutto dIpeNdedalla rIsoluzIoNe 1.244

Dice Thaçi: «Non è per oggi, ma resta nel nostro cuore. L’ac-cordo di pace (la risoluzione Onu 1244 che autorizzava l’avvio della missione Unmik e una presenza militare internazionale in Kosovo, ndr) non è la Bibbia. C’è un processo di ricostruzio-ne e di democrazia da portare avanti. Le risoluzioni possono essere riviste e rinnovate, in accordo con la Comunità inter-nazionale. La presenza della Nato è un beneficio per l’intera regione». Dice Rugova: «La 1244 era un compromesso per met-tere fine alla guerra. Ma la realtà è cambiata e Belgrado deve rendersi conto che la partita è chiusa. Non è pensabile che si rivedano in giro poliziotti serbi. L’indipendenza è un fattore

di stabilità per tutti. Il principio della sovranità jugoslava non regge, per il fatto che la Jugoslavia di cui si parla non esiste più. Esiste la Serbia di Slobodan Milošević che ha soppresso il nostro Stato e ci ha torturato per dieci anni. Tutti vogliono abbandonare Milošević e la Serbia. Ieri gli sloveni e i croati, domani i montenegrini (dal 3 giugno 2006 il Montenegro è uno Stato indipendente, proclamato dopo il referendum del 21 maggio 2006, ndr). Non c’è altra scelta. Non soltanto per la presenza di Milošević, ma per la mentalità e la cultura dei serbi che vengono manipolati o danno al regime un consenso negativo». L’aspirazione dei kosovari è anche il tema domi-nante della campagna elettorale: non si sa quando si apriran-no le urne – visto che non esiste ancora l’anagrafe e nessuno sa più quanti siano i veri kosovari – ma prima o poi il Kosovo avrà un Presidente, un Parlamento e un’amministrazione lo-cale. Non c’è più spazio per la moderazione degli obiettivi, pena la perdita di consenso o l’anarchia. Anche per questo, le quotazioni del Rugova indipendentista sarebbero in salita. Anche per questo, la lotta politica si è fatta più aspra: dalle

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costole della guerriglia sono nati nuovi partiti e qualche ex eroe di guerra è stato fatto fuori in misteriose imboscate. La faida kosovara si somma alla quotidiana mattanza di cui sono vittime i serbi, i pochi rimasti, nelle enclave protette dai soldati della Nato. Decine di migliaia scacciati, poche centinaia rimasti a schivare granate e imboscate. L’Ammi-nistrazione internazionale ha fatto chiudere un giornale vicino a Thaçi: un articolo ha accusato e indicato con nome e cognome un serbo, poi regolarmente ucciso.

alla MINoraNza serbaNoN resta Che la fuga

Zoran Anđelković, proconsole di Belgrado in Kosovo, ac-cusa: «Gli accordi di pace sono rimasti lettera morta. La no-stra sovranità è costantemente violata. A Pristina vengono aperti consolati stranieri. Dall’anno scorso, più di mille ser-bi sono stati uccisi e 300mila sono stati costretti a fuggire. In Kosovo sono arrivati dall’Albania e dall’estero 200mila albanesi e criminali di ogni risma. L’Amministrazione inter-nazionale è direttamente responsabile del caos. Che senso ha parlare di elezioni?». (Il Partito democratico del Kosovo, guidato da Hashim Thaçi, ha vinto le prime elezioni politi-che del 12 dicembre 2010 in Kosovo dopo l’indipendenza del 2008, ndr). Altro sangue scorre nella lotta fra bande della criminalità comune, alcune importate dall’Albania, che si sono aggrappate all’enorme flusso di denaro e attivi-tà scaturite dalla presenza internazionale: 40mila soldati, almeno 20mila impiegati delle Nazioni Unite e di agenzie non governative lasciano ogni giorno milioni di dollari nel-le strade sporche e trafficate di Pristina. Finito l’inferno dei bombardamenti, il Kosovo è oggi un limbo dorato, la zona più ricca dei Balcani, che moltiplica traffici e contrabbandi, pizzerie e indotto, bordelli e Mercedes, alberghi e posti di lavoro. Un po’ Saigon e un po’ Bagheria.

Gli stipendi sono i più alti della regione, dieci volte più che a Belgrado. Un benessere assistito di cui beneficiano anche vicini e nemici. Da Macedonia e Albania arrivano im-prese, ristoratori e derrate. Da Serbia e Montenegro, camion che, dopo aver cambiato le targhe al confine, scaricano ogni genere di merci a Pristina. Sia Thaçi sia Rugova, incontrati separatamente, giustificano. Dice il “serpente”: «Crimina-lità comune e violenza contro i serbi danneggiano la nostra immagine e il processo di ricostruzione. Siamo noi i primi a condannare questi fatti e a lavorare per mettere in pie-di un sistema giudiziario. La tensione sale in occasione di anniversari ed eventi particolari. Segno che dietro violenze e attentati c’è anche lo zampino di Belgrado che è interes-

la furIa La casa di una famiglia serba del Kosovo distrutta dai guerriglieri dell’Uçk. L’Esercito di liberazione del Kosovo (Ushtria Çlirimtare e Kosovës) ha iniziato a operare nel 1996.

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la paura. Noi diciamo che i serbi del Kosovo possono rimanere e che devono integrarsi. Noi vogliamo la riconciliazione e il re-ciproco perdono, fuori dai giochi sporchi di Belgrado». I pochi serbi rimasti non possono aver fiducia se quasi ogni giorno viene attaccata una casa o una chiesa. Proprio in queste ore, hanno ritirato la partecipazione al governo provvisorio del Ko-sovo, collegato all’Amministrazione dell’Onu, e protestato per questa pulizia etnica che finora suscita soltanto indifferenza.

Thaçi: «Speriamo che tornino a collaborare. Kosovari e serbi devono poter coesistere. La guerriglia ha ottenuto l’appoggio internazionale perché voleva costruire un Kosovo libero e de-mocratico. Mi chiamano il “serpente”, ma io ripeto queste cose ogni giorno». Rugova: «Non sappiamo chi c’è dietro attentati e omicidi. Non posso escludere che ci siano estremisti al nostro interno. Ma l’esperienza dimostra che i servizi segreti serbi so-no maestri in questo genere di provocazioni, anche contro la loro stessa gente. Comunque tutti abbiamo subito distruzioni. I principali monumenti serbi non sono stati toccati. In futu-

sata a far fallire il lavoro delle Nazioni Unite. I serbi piangono di giorno e uccidono di notte. Ma non possiamo diventare una realtà stabile se siamo circondati da Paesi instabili. Non posso affermare che tutti gli ex guerriglieri siano santi. C’è gente che ha commesso crimini, anche durante la guerra, utilizzando le nostre divise e le nostre bandiere. Così come è vero che si è infiltrata la criminalità dall’Albania. Ma è falso affermare che l’Uçk sia dietro la criminalità e che controlli i traffici illegali del Kosovo». Rugova minimizza e accusa: «Sono passati soltanto 12 mesi. Non mi aspettavo di svegliarmi in una società ordina-ta e moderna. Ma questi fenomeni sono esagerati dalla stampa e dalla propaganda di Belgrado. Da sempre, si parla della rot-ta balcanica e del Kosovo come crocevia del narcotraffico. Ma le prove? È vero che molti serbi sono fuggiti, ma non c’erano 200mila serbi in Kosovo prima della guerra. Molti di coloro che se ne sono andati erano funzionari e poliziotti del regime. Altri si erano macchiati di crimini. Altri ancora sono stati influenza-ti dal vittimismo di Belgrado che aveva interesse a diffondere

prIstINa, dICeMbre 2007 Manifestazione a favore dell’indipendenza del Kosovo, che sarebbe stata proclamata il 17 febbraio 2008. A destra, Pristina, marzo 1998: proteste di giovani di etnia albanese dopo le prime uccisioni di civili nella regione di Drenica, che prende il nome dal suo fiume.

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ro faranno parte della storia di questa terra, non dei giochi di Milošević». Rugova liquida in poche battute l’incontro a Belgrado con Milošević, durante la guerra. (Nell’aprile 1999, durante i bombardamenti Nato, Rugova apparve a Belgrado in tv accanto a Milošević. «È tutto a posto», disse, «albanesi e jugoslavi sono d’accordo per ripristinare l’au-tonomia della regione. E la Nato è colpevole dell’ondata di profughi», ndr). Un episodio che i serbi considerarono un tentativo di dialogo e i kosovari un atto di debolezza. «Ero un ostaggio. Grazie a Dio e grazie alla Nato quell’incubo è finito. La mia gente ha sofferto, ma oggi è serena. Le bom-be hanno avuto un effetto magico. Presto il mio Paese farà parte dell’Europa e del mondo democratico. Sì, le bombe hanno fatto la magia». Thaçi cancella le ombre sulla sua biografia criminale (il New York Times rivelò i mezzi sbri-gativi adottati per arrivare al vertice dell’Uçk): «Sono cose che scrivono i giornali di Belgrado e qualche corrisponden-te che vive in Serbia». Il “serpente” e il leader storico non si amano. È raro vederli insieme. Ma si temono. Dice l’ex guerriero Thaçi: «Mi spiace che Rugova sia silenzioso e po-co attivo. Che cosa ha davvero fatto per l’indipendenza?». Rugova risponde con arguzia da intellettuale: «In tempo di pace molti devono fare esperienza politica. Spero che il fu-turo Presidente del Kosovo venga scelto dal popolo».

CoMe è aNdata a fINIre Sul Kosovo continua l’azione del protettorato Onu, eser-

citato dalla missione Unmik e dalla forza Nato Kfor, che oggi conta 4.500 effettivi, dei quali circa 650 italiani. La Serbia non riconosce la Repubblica del Kosovo – che ha proclamato unilateralmente la sua indipendenza il 17 feb-braio 2008 – e continua a considerarla una propria provin-cia. Tensioni si registrano nel Nord, a maggioranza serba: Kosovska Mitrovica è una città divisa in due dal fiume Ibar, un settore serbo a nord e uno albanese a sud. Il dialogo di-plomatico in corso tra Kosovo e Serbia punta all’autono-mia del Nord del Kosovo in cambio del riconoscimento di Belgrado dell’indipendenza di Pristina. Ma il 27 marzo 2011 il ministro dell’Interno della Serbia, Ivica Dačić, ha dichiarato che «il suo Paese non permetterà mai che una soluzione raggiunta nei colloqui fra Belgrado e Pristina venga sfruttata per il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo». La Corte costituzionale di Pristina, accoglien-do il ricorso dei partiti all’opposizione, ha dichiarato che il Presidente Behgjet Pacolli è stato eletto il 22 febbraio 2011 in modo illegittimo. In aprile è stato sostituito dalla signo-ra Atifete Jahjaga, ex vicecapo della polizia.

2009, kosovska MItrovICa Nella zona nord della città, capoluogo dell’omonimo distretto del Kosovo, vivono i serbi. Qui, il “Treno della speranza” dell’Unmik (Onu) passa nel campo rom.

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200 persone, ne mancano ancora all’appello 61. Si sospetta siano in un’altra buca. Šljivančanin, racconta Jelena, dopo una condanna del Tribunale dell’Aja, oggi è libero. E lo dice con il tono di chi cova una rabbia profonda. Odio che non si spiega solo con le crudeltà di quell’assedio.

Guai a sognare che tutto sia chiaro: i buoni-vittime da una parte, i cattivi-aggressori dall’altra. È solo scavando nella storia che si capiscono come nascono e si alimentano ferocie future. Jasenovac aiuta a capire qualcosa nell’orrore esplo-so vent’anni fa. È una Auschwitz nei Balcani. Ante Pavelić, il croato fondatore degli ustascia (estremisti di destra), ave-va stretto un patto con Adolf Hitler quando andò a rendergli omaggio il 7 giugno 1941 (nel 1942 andò a ossequiare anche Benito Mussolini). Pavelić doveva distruggere i serbi, questo era il mandato del Führer e del Duce. Così nacque il campo di Jasenovac (che comprendeva anche una chiesa cattolica, per i croati “ospitanti” devoti), dove venivano rinchiusi a decine e decine di migliaia i cittadini serbi rastrellati nelle campagne e

Jelena Zera ha dieci anni, quel 18 novembre del 1991, quando l’esercito serbo, dopo tre mesi di assedio e bombardamenti, entra in città. Jelena viene portata, insieme ad altre decine di feriti, malati e operatori sa-nitari (i dottori no, servono per curare i feriti serbi),

in un lungo corridoio sotterraneo dell’ospedale di Vukovar. Agli ordini di ufficiali della Jna (l’ex esercito jugoslavo), Ve-selin Šljivančanin, Miroslav Radić e Mile Mrkšić, i soldati li picchiano spingendo lettini e barelle nel corridoio.

Duecentosessantuno persone, tutti maschi tranne tre donne. Il più giovane 16 anni, il più vecchio 72. Jelena viene nascosta da un’infermiera in uno scatolone, ma vede il suo padre trascinato via. Tutti i 261 vengono caricati su camion e portati alla fattoria di Ovčara, a pochi chilometri da Vukovar. Qui bastonati – e Šljivančanin era in prima fila – con mazze da baseball, catene, martelli di legno. Poi, dopo due giorni di torture, portati a una fossa poco distante, gettati dentro e fucilati. La buca fu coperta, e riaperta solo nel 2006: i resti di

XXXguzzini e vittime A sinistra, Orašje, Bosnia, 26/12/1992: i soldati serbi Cvijetin Maksimović e Slobodan Panić confessano stupri e uccisioni di musulmane di Brčko. Sopra, Zenica, Bosnia, 29/12/1992: Zijada Caus, 27 anni, di fronte alla Commissione per i crimini di guerra in Bosnia denuncia il

nelle città. Una parte veniva messa a lavorare la terra, un’altra parte rinchiusa nelle baracche, senza cibo e acqua. La morte sopravveniva per inedia o febbre petecchiale, i cadaveri get-tati in fosse comuni oppure portati a una vicina fornace. Jase-novac era il terminale di una linea ferroviaria che portava va-goni pieni di serbi ortodossi di ogni età, e naturalmente anche ebrei, rom, omosessuali e prigionieri di guerra. Anche alcuni croati morirono a Jasenovac: comunisti e antifascisti.

Ma gli ustascia si divertivano a eliminare personalmente i prigionieri; la parola d’ordine era “non sprecare neppure una pallottola”, gli strumenti erano martelli (di legno e di ferro), asce, pugnali. Oggi il Memorial Museum di Jasenovac (distrutto dai serbi durante la guerra del 1991-1995 e successi-vamente ricostruito dal nuovo governo croato) ha un librone con i nomi di 82mila vittime accertate, ma il numero è certa-mente assai superiore, e non mancano iperboliche cifre pro-babilmente esagerate. Le immagini filmate e le fotografie del sito ripetono quello che abbiamo visto nelle documentazio-ni dei campi di concentramento nazisti: spoliazione di ogni avere, scheletri coperti dalla pelle. Il campo di Jasenovac fu chiuso nel 1945, gli americani sostennero che le vittime di certo dovevano essere almeno 150mila. Sfogliare il libro edi-to dal governo croato nel 2006 fa venire i brividi. Ma fa capire

anche quale crogiolo di odi sono stati – e possono essere – i Balcani. E spiega anche la ferocia serba a Vukovar, come onda lunga di una memoria che nessun silenzio è riuscito a cancellare. «Il cancro del nazionalismo, negatore del patriot-tismo, è grembo di violenza sempre fecondo», ha scritto nel 2005 Claudio Magris.

stessi libri, stesse materiema aule diverse

Ed è un filo rosso di sangue quello che collega Jasenovac a Borovo Selo. Alcuni dei poliziotti croati uccisi il 2 maggio 1991 erano mutilati e avevano gli occhi fuori dalle orbite, cavati a forza con un calzascarpe, quando erano già morti, come ha raccontato – tra le varie testimonianze – anche Fe-derico Bugno su L’Espresso. Borovo Selo è a pochi chilometri da Vukovar. Oggi conta circa 4.700 serbi (prima della guerra erano 10mila), pochissimi croati. Radio Borovo ha la sede accanto a quella della municipalità diretta da Rado Bosić, un uomo imponente che sembra la controfigura di un diri-gente sovietico anni Cinquanta. Veste e parla come quello: parole e frasi scandite con l’energia delle verità inoppugna-bili, soprattutto nel denunciare l’ostilità delle autorità croa-te di Vukovar. Ma alcuni dei problemi che indica sono reali:

di daniele Protti, l’euroPeo n. 5, 2011 - foto livio senigalliesi

Martelli, asce, bastoni, catene gli strumenti di morte più usati. Dal campo di sterminio di Jasenovac all’eccidio di Vukovar, nei Balcani la vita umana non valeva nemmeno un colpo d’arma da fuoco

non sPreCate una Pallottola

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Janos Kery, direttore di Hrvatski Radio Vukovar, croata, alti ascolti in tutta l’ex Jugoslavia, afferma che, in base alle statistiche, oggi Vukovar è una delle città più sicure e tran-quille. Ma rimangono assurdità difficilmente comprensibili. Oggi i ragazzi serbi e croati giocano insieme nelle varie squa-dre di calcio (fino a cinque anni fa era impossibile, ricorda Kery). Ma fino al 2006 tutti gli studenti andavano a scuola in edifici diversi. Da allora vanno finalmente nello stesso palaz-zo, ma le classi rimangono separate: serbi in un’aula, croati in un’altra. Anche se studiano le stesse materie, anche se usano gli stessi libri. Anche se, di fatto, parlano la stessa lingua (il serbocroato, con lievi inflessioni dialettali diverse).

I giovani della radio ammettono che, per molti croati over fifty, i serbi sono sempre e comunque colpevoli di tutto, e raccontano che solo recentemente la divisione tra i giovani è diminuita tanto da frequentare gli stessi bar, e da registrare il nascere di “coppie miste”. Con un precedente che viene rac-contato quasi con gioia: quello di un soldato croato che, do-po sei anni di guerra, nel 1997 torna e sposa la sua “vecchia” fidanzata. Serba. Ma, ricorda Kery (all’unisono dunque con il commissario serbo Bosić), il problema vero per i giovani è la mancanza di lavoro. Quale futuro? Hanno una alternativa all’emigrazione?

XXXPrima abusate e Poi usate Tuzla, Bosnia, 3 gennaio 1993. Ragazze di Brčko (da sinistra, Sabina Zizvanović, 16 anni, la sorella Senada, 17, e Mirela, 23) rapite dai serbi nel giugno 1992, stuprate e infine usate come merce di scambio per i prigionieri di guerra.

manca il lavoro per i giovani, le grandi fabbriche che prima della guerra occupavano 25mila persone oggi al massimo ne impiegano 2mila, la ricostruzione è avanzata ma è tutt’altro che finita; l’emigrazione dei serbi continua, e «quelli che van-no in Australia, Usa e Canada non tornano più». L’unica vol-ta che Bosić sorride è quando ricorda che anche lui è uno di quelli fregati dalla guerra: «I miei versamenti per la pensione antecedenti al 1991 sono rimasti a Belgrado…». La visita al ci-mitero di Borovo (curatissimo, come tutti i cimiteri in questa zona) racconta che i morti tra il 1991 e il 1995 (le tombe sono allineate su due file lunghe 50 metri) avevano in grande mag-gioranza un’età compresa tra 21 e 40 anni, ma c’è anche un Tomislav di dieci, una Camilla di 11. La città offre un continuo sguardo distonico: edifici nuovi e diroccati. Quello che nelle fotografie di 60 anni fa era lo splendido Grand Hotel, a poche decine di metri dal Danubio, oggi è un edificio di cui si intui-sce la bellezza antica ma ancora quasi completamente da re-staurare, dopo bombardamenti e granate che hanno riempito di squarci i muri. Solo il tetto è stato rifatto, per impedire che tutto, prima o poi, crolli. Ma, 14 anni dopo la fine delle ostilità (almeno a Vukovar), è ancora il triste simbolo di un passato che difficilmente tornerà. E il fiume conferma: poche chiatte, gru immobili in quello che era un grande porto fluviale.