Upload
others
View
1
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
Numero set tantaset te – Maggio 2012
Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra
DISTRIBUZIO
NE GRATUITA
www.ilgiornaledisocrate.it
la Feltrinelli a Pavia,
in via XX Settembre 21.
Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30
“Caro Socrate, c’è una
domanda che mi gira per la testa da qualche tem-po. Mi chiedo: perché i giornali ci riempiono or-mai settimanalmente di offerte di ‘classici’? Clas-
sici della letteratura, del-la poesia, della filosofia, della scienza, e chi più ne ha più ne metta. Che senso ha tutto ciò, mio saggio amico?”. “Lo sai bene che ho sempre a-vuto una certa passione perversa per le doman-de, diletto Glaucone. Ma questa mi sembra piutto-sto strana. E poi, perché chiedere proprio a me di sciogliere l’enigma? Di giornali non me intendo granché, dopo tutto. Il mio imbarazzo potrebbe essere pari al tuo. E sta-remmo lì, tutti e due, im-barazzati e assorti, ad aspettare da un qualche oracolo uno straccio di risposta”. “Ma tu sei un classico, caro Sileno. Mi sembrava una ragione più che sufficiente per rivolgermi a te, nell’imbarazzo.”
“Glaucone, lo sai altret-
tanto bene che non ho mai scritto una riga in vita mia. Già non mi è
andata alla grande al processo, avendo solo parlato e chiacchierato molto. Figurati se avessi scritto.” “Ma tu sei un classico. Non puoi ne-garlo. È vero, lo sei per quello che altri hanno scritto nei secoli a propo-sito di te e di ciò che tu hai detto nella intermina-bile conversazione uma-na. Ma non c’è dubbio sul fatto che tu sia un classico. Devo forse concludere che oggi sei un po’ pigro e semplice-mente non ti va di met-terti alla prova con la sfida dell’ennesima do-manda?”. “E va bene, Glaucone. Anche se il tuo argomento ha un
sapore lievemente da sofista, o forse proprio per questo, mi viene vo-glia di cercare con te una risposta alla strana domanda. Sei convinto che quelli che voi chia-mate classici, non lo so-no sempre stati ma lo sono divenuti nel tem-po?” “Certo, Socrate, come potrebbe essere altrimenti?” “Allora do-vremo riconoscere che il classico è qualcosa, un pensiero, un testo, un’opera, un’icona, che ha superato la prova e la sfida evolutiva della du-rata. Qualcosa che ci illumina ancora, anche se da distanze siderali, come fa la luce delle
stelle ormai morte nella grande volta del cielo con tutti i suoi epicicli.”
“È vero, Socrate, anche
lasciando in pace Tolo-meo.” “E allora, Glauco-ne, chiediamoci perché e quando è bene per noi cercare la luce?”. “Quando il nostro andare e viaggiare nel mondo è minacciato dal buio. E rischiamo di perderci, senza più saperci orien-tare nel guazzabuglio.” “Glaucone, lo senti che le nostre idee comincia-no a connettersi felice-mente nella ricerca della risposta? Come puoi parlare di buio, in un tempo in cui le scienze guadagnano di continuo, a grandi falcate, risultati luminosi e benefici per i nipotini di Prometeo? Di quale altra luce abbiamo mai bisogno?”. “Hai ra-gione, Sileno. Adesso non so più come rispon-derti. Anche se lo so che c’è qualcosa che non
torna nel mio modo di
pensare.” “Glaucone, il
punto è che sappiamo sempre meglio come sono le cose, e com’è fatto il mondo, e come usare al meglio l’arsenale dei mezzi che ci è disponibile. Ma sia-mo incerti e perplessi sui fini degni di essere per-seguiti. Il buio investe lo spazio dei nostri modi di vivere e convivere. For-se, per questo, abbiamo bisogno dei grandi reper-tori di esperimenti e pro-getti di convivenza con-segnati, nel tempo, ai classici della nostra e di altre tradizioni.” “Vuoi dire che negli uffici mar-keting della stampa san-no tutta la faccenda dell’opacità dei fini?”. “Non esageriamo, caro Glaucone. Basta che lo facciano, anche non sanno bene perché lo fanno.” Parola di Socra-te.
FONDAZIONE SARTIRANA
ARTE
A Beirut… 10 anni
dopo
GIORGIO FORNI
PAGINA 15
La luce dei classici
nel buio dell’oggi
di SALVATORE VECA
INTERVISTA IMPOSSIBILE
SISTO CAPRA
da pagina 2 a pagina 11
Ricerca iconografica
PINCA-MANIDI PAVIA FOTOGRAFIA
Politica
Parola da riscoprire
GIOVANNA CORCHIA
A pagina 12
Il testamento biologico
secondo i Valdesi
MONICA FABBRI
A pagina 13
Gandhi
e i Tessitori della Pace
SIMONETTA CASCI
A pagina 14
Pagina 2 Numer o settan taset te - Maggi o 2012
Ecco dove viene distribuito gratuitamente
“Il giornale di Socrate al caffè”
Il giornale di Socrate al caffè Direttore Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra Editore: Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”
(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)
Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia 0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected]
Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia
Comitato editoriale: Paolo Ammassari, Silvio Beretta, Franz Brunetti, Davide Bisi, Giorgio Boatti,
Angelo Bugatti, Claudio Bonvecchio, Roberto Borri, Roberto Calisti, Gian Michele Calvi, Mario Canevari, Mario Cera, Franco Corona, Marco Galandra, Anna Giacalone, Massimo Giuliani, Massimiliano Koch,
Isa Maggi, Arturo Mapelli, Anna Modena, Alberto Moro, Federico Oliva, Davide Pasotti, Fausto Pellegrini, Aldo Poli, Vittorio Poma, Paolo Ramat, Carlo Alberto Redi, Antonio Maria Ricci, Giovanna Ruberto,
Antonio Sacchi, Dario Scotti.
Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002
INTERVISTA IMPOSSIBILE
VITTORIO NECCHI
Quali erano le origini
del Suo cognome?
Necchi era tipico delle
zone di Pavia e di Milano
ed esisteva la variante Necco nel Piemonte. Si faceva derivare dal nome tardo medievale Nechus,
originato dal latino Nequus (iniquo). Po-trebbe anche discen-dere dal soprannome dialettale legato al vocabolo milanese Gnecch (svogliato).
E le origini della
Sua famiglia?
Già dal 1835 noi
Necchi figuriamo nel-le cronache pavesi legati a una azienda commerciale e arti-giana di ferramenta. Questa azienda era del mio bisnonno Ambrogio (1802-1874), passata poi nel 1874 al nonno Giu-seppe (1832-1900) e poi a mio padre Ambrogio (1860-1916, Cavaliere del Lavoro dal 1° dicem-bre 1912). Agli inizi del secolo la fabbrica era in corso Cairoli 3 e occupa-va 150 operai. Eseguiva costruzioni meccaniche, macchine agricole e ave-
va una fonderia di ghisa. Nel 1904 l’attività si tra-sferì nel nuovo stabili-mento costruito dietro la stazione ferroviaria (luogo dove resterà an-che quando diventerà Neca). Qui cominciò la produzione di radiatori per termosifoni che dure-rà quanto la vita dell’azienda. Si produce-vano anche vasche da
(Continua a pagina 3)
Quarant’anni fa Pavia era il se-
condo capoluogo lombardo per numero di imprese industriali. C’erano la Necchi, la Snia, le Offi-cine Meccaniche Moncalvi, la Carlo Pacchetti, le cartiere Pirola, la Neca, la Magneti Marelli, la Cat-taneo e altre ancora.
Di tutti i capitani d’industria pa-
vesi, Vittorio Necchi (1898-1975) è stato il più illustre. Creò un mo-
dello, un esempio, un’epopea. “Il giornale di Socrate al caffè” vuole ricordarlo con una “intervista impossibile”. Anche per sostenere una causa. Ci uniamo ad Agostino Faravelli e al gruppo di cittadini ed ex-dipendenti che nel novembre 2010 ha proposto al sindaco Ales-sandro Cattaneo di intitolare a Vittorio Necchi la rotonda di Bor-
go Calvenzano. È giusto ricorda-re, nell’età della rovinosa deindu-strializzazione, un imprenditore che fece grande la città di Pavia. Finora la Giunta Cattaneo ha ta-ciuto: speriamo che voglia col-mare questa lacuna.
L’ “intervista impossibile” trova il
suo alimento nel bel volume Vitto-rio Necchi, ricordi di un grande uomo e di una grande ditta, edito
nel 2010 da Agostino Faravelli e da Delta 3, aperto dalla presenta-zione di Carmine Ziccardi (sotto, la copertina).
Faravelli è stato impiegato alla
Vittorio Necchi dal 1948 al 1963, fa parte del gruppo “Amis dal dia-lèt” del Circolo Culturale Pavese “Il Regisole” e ha scritto testi in lingua e in dialetto per il teatro dilettantistico pavese.
di SISTO CAPRA
«Dove sono le bici-
clette? Dove sono gli operai? Dove sei Gino? E tu Maria, mia governante? E tu Fredo, mio mag-giordomo? E tu Ge-ni, mio autista? Oh cara Lina, adorata Lina, non c’è più nessuno, nessuno. Tutto è perduto, tut-to dimenticato qui in via Rismondo. Non ci restano nem-meno le lacrime. Pavia, Pavia, che cosa hai fatto!». L’uomo, il Commen-datore, il Cavaliere del Lavoro piangeva in silenzio nel piaz-zale di via Rismon-do. Vittorio Necchi era tornato 36 anni dopo a rivedere la sua fabbrica, la Vit-torio Necchi Spa, la mitica industria da lui fondata che ave-va fatto di Pavia la capitale mondiale
delle macchine per cucire. Era nato nel il 21 novembre 1898 ed era morto il 17 novembre 1975. E non aveva nulla da vedere, perché sem-plicemente non c’era più nulla. La Fabbrica non esi-steva più. Le fabbri-che non c’erano più. «Mi avevano avvertito - mormo-rava - che avrei tro-vato il deserto della cultura industriale. Volevo rendermi conto di persona. È come se oggi mo-rissi di nuovo». Vit-torio Necchi aveva accettato di buon grado la proposta del “Giornale di So-crate al caffè” di rievocare la sua irri-petibile epopea in-dustriale ed era tor-nato. «Su, avanti, mi interroghi pure, pri-ma che il tempo del-
la mia licenza sia trascorso. Non cre-do che la mia testi-monianza servirà a qualcosa, se non a risvegliare tramon-
IL PADRE DI VITTORIO, AMBROGIO NECCHI.
IN ALTO, DUE MODELLI DI MACCHINA PER CUCIRE NECCHI
(L’ANTICA E LA MODERNA)
Numero set tantaset te - Maggio 2012 Pagina 3
PAOLA PAOLA CASATICASATI MIGLIORINIMIGLIORINI
Perito della Camera di Commercio di Pavia dal 1988 C.T.U. del Tribunale di Pavia
Perizie in arte e antiquariato
Valutazioni e stime per assicurazioni
Inventari con stima per eredità
Consulenza per acquisti e collezioni
Perizie a partire da 100 Euro
TRAVACÒ SICCOMARIO (PAVIA), VIA ROTTA 24 TEL. 0382 559992 CELL. 337 353881 / 347 9797907
www.agenziadarte.it - email: [email protected]
SPORTELLO DONNA – BUSINESS INNOVATION CENTER
PAVIA-VIA MENTANA 51
ORGANIZZA
OTTOMARZOTUTTOL’ANNO2011FESTIVAL
2011"Anno Europeo delle Attivitá Volontarie che promuovono la Cittadinanza Attiva"
Per Info :
Tel. 0382 1752269 Cel.: 348 9010240 Fax: 0382 1751273
SIAMO SU FACEBOOK
bagno in ghisa e fu alle-stita di conseguenza una smalteria a caldo in una nuova area adiacente a via Trieste.
Lei quando nacque?
Il 21 novembre 1898. Il
mio primo cognome era Carcano perché così venni reg is t ra to all’anagrafe. Ebbi il mio vero cognome solo quando mio padre e mia madre Emi-lia Carcano (1870-1953) si sposaro-no. La mia famiglia era agiata e non ebbi una fanciullezza difficile. Ri-cordo un e-pisodio. A-vendo avuto in regalo da un prozio, verso i dodi-ci anni, una c a r a b i n a Flobert, mi divertivo a sparare a quei bianchi isolatori di porce l lana che allora stavano in g r a n d e quantità sui pali telefoni-ci per soste-nere i cavi, rompendone parecchi! Chissà se si trattava di semplice monelleria op-pure se già emergevano in me gli istinti del cac-ciatore che diventai da grande. Frequentai le scuole senza problemi, elementari, medie, liceo
e mi iscrissi alla facoltà di Legge. Ma non ebbi il tempo di frequentare l’ateneo. Nel 1916 persi mio padre a soli 56 anni e, diciottenne, mi trovai con la mamma e con le mie sorelle Gigina e Nedda a dover gestire u-na difficile eredità.
Poi fu chiamato alle
armi.
L a c o n d u z i o n e
dell’azienda venne affi-data a un amministrato-re, il ragionier Giorgi. Eb-bi però la possibilità di essere assegnato al No-no Reggimento Artiglieria di stanza nel Castello Vi-sconteo e per alcuni me-si potei così essere an-
cora vicino alla famiglia e all’azienda. Facevo parte di un gruppo di tecnici che conducevano prove sull’impiego strategico di un mezzo di artiglieria nuovo: un cannone mon-tato su autocarro per ra-pidi spostamenti, il “Camion cannone” co-struito dall’Ansaldo nel 1916. Lo sfondamento del fronte a Caporetto, nell’ottobre del 1917, co-strinse lo Stato Maggiore dell’Esercito a raccattare
tutte le forze di-sponibili per ar-ginare il nemico e anche il repar-to prove del No-no Arti-g l i e r i a fu invia-to al f r on te . Ero te-n e n t e , mi feci il r e s t o d e l l a g u e r r a e mi conge-dai ca-p i tano. In guer-ra feci una co-
noscenza che poi si rive-lò importante.
Chi?
L’allora capitano Cesare
Merzagora (1898-1991), che si era arruolato vo-
lontario nel 1915 negli A r d i t i s u l l ’ I s o n z o . L’amicizia con il milane-se Merzagora, a guerra finita, mi portò in un giro di giovani industriali fra i quali Adriano Olivetti, Vit-torio Cini, Gaetano Mar-zotto, Giuseppe (Pinin) Farina. Merzagora sa-rebbe diventato nel 1938 direttore generale della Pirelli, quindi altis-simo esponente della Democrazia Cristiana, nel 1953 presidente del Senato e dal 1963 sena-tore a vita. In questo pe-riodo conobbi a Milano Arnaldo Mussolini, fratel-lo del futuro duce, che nel 1922 aveva assunto la direzione del “Popolo d’Italia” in sostituzione del fratello.
E trovò moglie.
Non potevo godermi la
gioventù. La perdita pre-matura di papà, le re-sponsabilità nei confronti della famiglia, i problemi che derivavano dalla condirezione della fabbri-ca con mio cognato An-gelo Campiglio, marito di Gigina, con il quale non andavo d’accordo sulle strategie aziendali, non mi lasciavano spazio per una spensierata giovi-nezza. Oltretutto ero timi-do e non avevo facili rap-porti con le donne: al momento di pensare al matrimonio conobbi l’unica donna della mia vita: Lina Ferrari, figlia di un insegnante elementa-re di Parma, di idee so-cialiste e per questo con-finato dal regime a inse-gnare in Trentino. Per la famiglia Ferrari a Parma la vita era difficile, Lina si era inserita nel mondo
del teatro: era la vedette di un avanspettacolo che andava per la maggiore. Fu a Pavia al Kursaal che la vidi. Mi fu presen-tata, su insistenza di mia madre, da una comune amica pavese. In breve giungemmo al matrimo-nio.
Che tipo
era Lina?
Una vera
donna di classe, una vera padro-na di casa, impeccabile nelle molte-plici occa-sioni che ebbe di ri-cevere o-spiti impor-tanti per le nostre rela-zioni socia-li. Fu lei che mi sug-gerì, nel 1925, l’idea di separar-mi dal co-gnato e di b u t t a r m i con deci-sione sulla piccola fab-b r i c a per la c o -struzione di macchine per cucire che io, pur o-steggiato dalla famiglia, avevo avviato nel 1919. Lina amava la musica li-rica, non mancava mai u-na prima alla Scala; con-tribuiva con il suo buon gusto agli allestimenti e agli arredi delle nostre residenze. Non avemmo figli e questo fu il più grande cruccio. Morì do-po breve malattia il 19 a-
gosto 1961.
Visto che conosceva
Merzagora, si occupa-va di politica?
Non presi mai parte alla
vita politica attiva, ero di dichiarate simpatie mo-
narchiche e votai per la monarchia anche nel re-ferendum del 2 giugno 1946; avevo accettato il fascismo in quanto av-vallato da Casa Savoia. Le sorelle Nedda e Gigi-na già dal 1924 si erano iscritte al Fascio Femmi-nile, facendo una precisa scelta di campo. Natural-mente, come fecero altri industriali del tempo, uti-
(Continua da pagina 2)
(Continua a pagina 4)
VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
RITAGLI DI GIORNALI D’EPOCA. NELL’OVALE, LA MOGLIE LINA FERRARI.
IN ALTO A SINISTRA, LA FONDERIA DI CORSO CAIROLI 3; A DESTRA, LA FABBRICA AGLI INIZI
Pagina 4 Numer o settan taset te - Maggi o 2012
lizzai i mezzi e le perso-ne che il regime poteva offrire per lo sviluppo del-le aziende. Il veicolo più efficace fu l’autarchia im-posta dal governo: l’Italia doveva ridurre al massi-mo le importazioni. Qua-le occasione migliore per lanciare le macchine per cucire nel mercato italia-no fino ad allora domina-to dalle aziende america-ne e tedesche (Singer e Pffaf)! Coniato lo slogan “Il prodotto Italiano ha nome Italiano”, fu assai più facile conquistare il mercato.
Indossava la camicia
nera?
Nelle occasioni ufficiali
si doveva indossare ca-micia nera, fez e orbace. Chiamavo la divisa fasci-sta “il vestito da operet-ta”. La più nota occasio-ne fu la visita di Mussoli-ni con la moglie Rachele agli stabilimenti di via Ri-smondo nel 1938. La ri-serva di caccia nella te-nuta di Portalupa era una grande possibilità per a-vere ospiti importanti sia del regime che del mon-do industriale. Ogni volta che un gerarca o un alto funzionario fascista arri-vava a Pavia per ragioni politiche, era quasi d’obbligo essere miei o-spiti per una battuta di caccia. Ospiti frequenti erano Arnaldo Mussolini e Cesare Merzagora e, attraverso questi, Italo Balbo, presunto delfino di Mussolini, Attilio Ter-ruzzi, il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Le visite di Umberto di Savoia e della moglie Maria Josè erano quasi abituali, non solo a Por-talupa ma anche nella ri-serva di pesca di Cogne. Il Duce, invece, non ac-cettò mai l’invito a cac-cia: affermava che le ar-mi dovevano avere un impiego più consono ai
destini della Patria! Dopo l’8 settembre 1943, pro-prio perché di fede mo-narchica, non godetti di alcuna simpatia né tra i neofascisti né presso i tedeschi e dovetti allon-tanarmi da Pavia. Andai a vivere a Barasso, un paesino sopra Varese, in casa di Gigina e di Ange-lo Campiglio e vi rimasi fino alla fine della guerra. Nel dopoguerra non mi interessai di politica, sal-vo mantenere la salda a-micizia con Cesare Mer-zagora.
Tracciamo ora il Suo
profilo come industria-le.
Che fossi un industriale
di razza l’avevo già di-mostrato lanciando la fabbrica di macchine per cucire (I.R.I., Industrie Riunite Italiane) contro l’idea della famiglia di ge-stire e sviluppare la fon-deria di papà, che già dava ottimi risultati. So-stenuto anche da mia moglie, nel 1925 arrivai a un compromesso con la famiglia: alle sorelle, con Angelo Campiglio, anda-rono le fonderie di ghisa e le smalterie, io mi tenni
la fabbrica di macchine per cucire. Libero da o-gni necessità di discutere e di mediare con altri o-gni mia decisione, potei così scatenare tutta la mia voglia di fare. Riuscii a smentire i famigliari, non solo conquistando il mercato italiano ma svi-luppando un’azienda di valore mondiale. Il 27 ot-tobre 1935 ebbi, per no-mina reale, il titolo di Ca-valiere del Lavoro per i meriti acquisiti nel campo dell’industria meccanica.
Come furono i suoi
rapporti con la Confin-
dustria?
Non proprio idilliaci. Ero
considerato con sospet-to, come se fossi una scheggia impazzita. Ero solito dire, a chi si la-mentava per le troppe spese per il personale, che la retribuzione delle 200 ore (la gratifica nata-lizia, come si chiamava allora la tredicesima mensilità) sarebbe stato giusto e conveniente ero-garla almeno due/tre vol-te all’anno, poiché questi soldi sarebbero usciti dalla porta ma sarebbero
(Continua da pagina 3)
(Continua a pagina 5)
A SINISTRA, LA GALLERIA CENTRALE INTERNA IN UNA DELLE FONDERIE NECCHI A PAVIA NEGLI ANNI VENTI.
SOPRA, OPERAI IN FONDERIA. SOTTO, UNA VEDUTA DEGLI STABILIMENTI NECCHI DEI PRIMI ANNI.
NELL’ALTRA PAGINA, IN ALTO , DOPO UNA BATTUTA DI CACCIA ALLA PORTALUPA, LA VILLA NELL’IMMAGINE
INTERVISTA IMPOSSIBILE
Decisi di puntare sulle macchine
per cucire, anche se questo mi costò
la rottura in famiglia
VITTORIO NECCHI
Con la Confindustria i miei rapporti erano tutt’altro che idilliaci Avevo aumentato le retribuzioni ...
Numer o settan taset te - Maggi o 2012 Pagina 5
subito entrati dalla fine-stra: i dipendenti li avreb-bero potuti spendere, muovendo sensibilmente i consumi e il mercato. Per certe orecchie que-sta era musica stonata. Ecco cosa scriveva di me Indro Montanelli nel libro “Gente qualunque”: «…il capitalismo che Vit-torio impersona è al-quanto diverso da quello che viene raffigurato nei libri dai suoi apologeti e dai suoi detrattori… e via via che mangiavamo, e-gli mi parlava di un gran-de progetto che veniva sviluppando nella sua mente in favore dei di-pendenti che andavano in pensione…». Monta-nelli si riferiva alla mia i-dea di istituire un vitalizio di diecimila lire mensili per integrare la pensio-ne, già allora piuttosto magra, per i dipendenti, specialmente per quelli di basso livello. Realizzai il progetto nel 1955. Quando i miei uomini mi-gliori cominciarono a ca-pire che la macchina per cucire non avrebbe potu-
to avere un futu-ro e prospettaro-no la necessità di avviare produzio-ni alternative, io, già stanco e non più in salute, mi trovai in disac-cordo con loro. È di quei tempi la mia frase: «La Necchi è nata con le macchine per cucire e con le macchine per cucire morirà!». Acconsentii, tut-tavia, agli accordi con gli americani della Kelvinator per produrre i compressori er-metici per frigori-feri.
Quali erano le
Sue abitudini?
Benché gli affari si svol-
gessero ormai in tutto il mondo, non amavo viag-giare e delegavo i miei collaboratori a rappre-sentarmi. Tuttavia, quan-do era necessaria la mia presenza, il mezzo di tra-
sporto che utilizzavo era l’auto, anche per lunghi viaggi, (Roma, per esem-pio); raramente usavo il vagone letto e ripudiavo l’aereo. Amavo guidare da me l’auto, seppure con l’autista seduto di fianco. La passione per le auto mi portò a posse-
derne molte e di vario ti-po. Dalla Fiat 501 nel 1919, alla lussuosa Isot-ta Fraschini 8 A del 1923; nel 1949 mi presi il capriccio di acquistare una Fiat 1100 S (sport ti-po Mille Miglia), con la quale giornalmente sfrecciavo da Portalupa,
dove risiedevo, alla fab-brica di via Rismondo. Nel 1955, spinto da chi riteneva che un industria-le come me dovesse di-stinguersi con un’auto social simbol, acquistai una lussuosa auto ameri-cana, una Oldsmobile di 5000 cc. di cilindrata, io
che non avevo mai, per principio, abbandonato il prodotto nazionale. Que-sta macchina era dotata di cambio automatico, ancora poco diffuso da noi. La usai per la prima volta per recarmi a Roma al matrimonio della figlia di Merzagora. Guidai personalmente per tutto il viaggio per gustarmi il mio nuovo gioiello ma, a h i m è , p a g a i l’inesperienza nell’uso del cambio automatico. Il motore si surriscaldò ol-tre misura e mi trovai a Roma con l’auto inutiliz-zabile. Ci volle una lauta mancia agli addetti di un’autofficina perché la-vorassero tutta la notte per consentirmi di pre-senziare l’indomani alla cerimonia con l’auto a-mericana. Amavo alleva-re canarini, e questo per pura passione. A tal pro-posito ricordo ancora ciò che scriveva Montanelli: «… e del capitalismo mi mostrò solo uno dei lati più simpatici: una mensa imbandita con varietà e dovizia, pur senza peri-coli di indigestione, un buon vinello, un eccel-lente caffè… si sentì una specie di trillo che veniva dall’altra stanza. Il com-mendatore tacque di col-po, … poi “Non si mera-vigli” disse “ sono i miei canarini… sono care be-
(Continua da pagina 4)
(Continua a pagina 6)
STUDIO DIAPASON PAVIA COUNSELING - PSICOLOGIA - PSICOTERAPIA - PSICOPEDAGOGIA
PSICOLOGI E PSICOTERAPEUTI DELLO STUDIO:
D.ssa E.Biscuolo Tel. 339 3140196 email: [email protected]
Psicologa - Psicoterapeuta Cognitiva Comportamentale
D.ssa M. Pala Tel. 393 4184023 email: [email protected]
Psicologa - Psicoterapeuta Breve Strategica
D.ssa T. Brandolini Tel. 339 8792554 email: [email protected]
Psicologa - Mediatrice Familiare
D.ssa C. Torciani Tel. 338 3424929 email: [email protected]
Psicologa - Psicoterapeuta Cognitiva Comportamentale
D.ssa S. Malandra Tel. 338 9027205 email: [email protected]
Psicologa, specializzata in Psico-geriatria
D.ssa M. Gazzaniga Tel. 339 8438848 email: [email protected]
Psicologa
D.ssa A. Barcheri Tel. 348 0431015 email: [email protected]
Psicologa - Psicoterapeuta Cognitiva Comportamentale
D.ssa G. Benza Tel. 338 1490089 email: [email protected]
Psicologa, Counselor con procedura immaginativa
D.ssa C. Danesini Tel. 366 4138854 email: [email protected]
Psicologa - Psicoterapeuta familiare
Dr. L. Bertazzoni Tel. 338 7432153 email: [email protected]
Psicologo - Psicoterapeuta ad orientamento Analitico Transazionale
INCONTRIAMOCI
Domenica 3 giugno alle ore 11
alla Libreria Feltrinelli di Pavia
Psicologia: tra palco e realtà
Relatrici:
Claudia Danesini, psicoterapeuta Arianna Barcheri, psicoterapeuta
Studio Diapason Pavia
STUDIO DIAPASON PAVIA SNC DI CASARINI F e AIELLO F
VIA CASE NUOVE, 33/5
27028 SAN MARTINO SICCOMARIO (PV) P.IVA/C.F./Iscriz.Reg.Imprese Pv 02264140183 REA 259294
www.studiodiapasonpavia.it
VITTORIO NECCHI
Amavo le automobili e con una fuoriserie
andai a Roma alle nozze della figlia di Cesare Merzagora
INTERVISTA IMPOSSIBILE
Pagi na 6 Numero set tantaset te - Maggio 2012
stiole…Mi fa un tale pia-cere sentire i canarini vi-cino a me …” e aveva la voce commossa. Però questo capitalismo con i canarini, chi lo direb-be?». Un’altra mia pas-sione poco nota era la coltivazione delle orchi-dee, novello Nero Wolf. Ottenni anche ottimi ri-sultati in mostre impor-tanti, fra cui l’esposizione mondiale del fiore di Ge-nova, nel 1958.
Lei ottenne molte be-
nemerenze.
Sì molte. Ho già detto
del titolo di Cavaliere del Lavoro il 27 ottobre 1935; nell’aprile del 1940 fui insignito del titolo di Grand’Ufficiale della Co-rona d’Italia. Ma certa-mente il riconoscimento che più apprezzai, per-
c h é v e n i v a d a un’istituzione della mia città, fu il conferimento da parte dell’Università di Pavia e del Rettore Ma-gnifico Plinio Fraccaro della laurea in fisica ho-noris causa nel 1955. La città di Pavia, nel 1962, mi proclamò Cittadino benemerito, fondatore della grande azienda che porta il suo nome, nota e apprezzata in tutto il mondo, per aver contri-buito in modo determi-nante allo sviluppo eco-nomico e al progresso della Città. Nel 1963 rice-vetti dall’Università di Pa-via una medaglia di be-nemerenza.
Nel 1950, intanto, si e-
ra ammalato?
Alla fine dell’anno venni
ricoverato al San Matteo per una calcolosi epati-
ca. Operato dal profes-sor Morone, la mia de-genza andò per le lun-ghe e in azienda si te-mette il peggio. Ma mi ri-stabilii completamente. Ricordo che, quando rientrai in azienda, i 5.200 dipendenti si riuni-rono davanti alla portine-ria per salutarmi. Fu una grande dimostrazione di affetto. Nel corso del 1972 si manifestò un do-lore alle gambe e comin-ciai a camminare con dif-ficoltà. La mia presenza in azienda andò pian pia-no diradandosi. Non così invece per le abituali bat-tute di caccia: mi ero fat-to allestire un sedile gire-vole nella parte posterio-re della Campagnola Fiat e con quel mezzo conti-nuai ancora per qualche tempo a frequentare la ri-serva. La malattia pro-grediva: si trattò all’inizio di artrosi, aggravata dal
sovrappeso, poi si ag-giunsero complicanze flebitiche e infine il diabe-te. Il quadro clinico era aggravato dalla difficoltà respiratoria per essere stato un accanito fumato-re. Fui ricoverato in varie riprese nella clinica San Raffaele di Milano, dove l’ultima degenza si pro-trasse per quasi un an-no. I medici, per un ulti-mo tentativo di prolun-garmi la vita avevano p r o g r a m m a t o l’amputazione di una gamba, ma alla vigilia dell’intervento il 17 no-vembre 1975 morii. Avrei compiuto 77 anni quattro giorni dopo. L’annuncio pubblico avvenne ad e-sequie avvenute, il 19 novembre. I funerali si svolsero nella tenuta di Portalupa, nella chiesetta che che avevo voluto per i dipendenti. Erano pre-senti: il personale di ca-
sa, i lavoratori della a-zienda agricola e i loro famigliari. Per rappresen-tare la Ditta erano pre-senti Luigi Bono e Giu-seppe Luraghi, che dopo la sua clamorosa uscita dall’Alfa Romeo era en-trato nel consiglio d’amministrazione della Vittorio Necchi insieme a Nedda Necchi, Reno Ferrata e al Bono stesso.
Pavia l’ha dimenticata,
non ha nemmeno tro-vato il modo di onorar-La nella toponomasti-ca.
Ebbene sì. Come si di-
ce, nemo propheta in pa-tria. Il colmo fu una noti-zia che uscì sul “Corriere della Sera” del novembre 2002. Recitava: “Il Co-mune ha dimenticato Vit-torio Necchi, fondatore della più importante fab-
brica pavese, lasciando al buio la sua tomba nel Cimitero Maggiore per-ché nessuno, visto che non ci sono eredi, ha mai pagato il canone per i servizi cimiteriali. Nei giorni scorsi alcuni ex o-perai dell’azienda di Pa-via, che per Ognissanti avevano deciso di depor-re fiori sulla tomba dell’imprenditore pavese, hanno scoperto con in-credulità che la cappella non era più illuminata. Pensando ad un guasto elettrico, hanno chiamato il custode, il quale ha spiegato che la lampada votiva era stata staccata perché nessuno pagava per il servizio (10 € all’anno!). Il caso è già arrivato in consiglio co-munale. «Il Comune - conferma l’assessore ai Servizi cimiteriali - ha studiato un piano di inter-
(Continua da pagina 5)
(Continua a pagina 7)
INTERVISTA IMPOSSIBILE
La benemerenza più gradita fu quella
concessami dalla città di Pavia
Laurea honoris causa
VITTORIO NECCHI
GRUPPO DI DIPENDENTI CACCIATORI DOPO UNA BATTUTA NELLA RISERVA DELLA PORTALUPA. SONO RICONOSCIBILI: AL CENTRO, IN BORGHESE, GINO GASTALDI,
CONSIGLIERE DELEGATO DELLA SOCIETÀ, E PIERLUIGI ORLANDI, IL QUARTO IN PIEDI DA SINISTRA, AMMINISTRATORE DELLA TENUTA DI PORTALUPA
(NELLA FOTO IN ALTO)
Pagina 7 Numero set tantaset te - Maggio 2012
vento per le cappelle sto-riche del Cimitero Mag-giore, lunedì presentere-mo il progetto per il re-stauro delle tombe dei Garibaldini, mentre pre-sto sia la cappella della famiglia Necchi sia quel-la del premio Nobel Ca-millo Golgi saranno ri-messe a nuovo»”.
Apriamo ora il capitolo
delle attività assisten-ziali alla Necchi.
Sicuramente il più ap-
prezzato fu il FAI (Fondo assistenza interno), isti-tuito l’11 maggio 1944) che garantiva l’intera re-tribuzione in caso di ma-lattia, mentre la retribu-zione dell’INAM (mutua obbligatoria) era del 50% dello stipendio a partire dal quarto giorno di as-senza. Inoltre il FAI ave-va un ambulatorio inter-no alla fabbrica, con at-trezzature diagnostiche moderne e personale medico a disposizione di tutte le maestranze. Si poteva anche fruire di turni di riposo in monta-gna presso la casa di Lanzo d’Intelvi o al mare, a Ospedaletti o a Gatteo Mare, per la convale-scenza dopo ricoveri in ospedale. Creai il Grup-po Donatori di Sangue, affiliato all’AVIS naziona-le, fondato il 18 marzo 1955 e che raggiunse i 514 donatori. Istituii una borsa di studio riservata ai figli dei dipendenti che dimostravano buona pre-disposizione agli studi. Verso la fine degli anni ‘50 istituì il premio “Maestri del Lavoro” per premiare gli operai parti-colarmente capaci nelle loro mansioni. Sorse un intero villaggio, ancora oggi chiamato Villaggio Necchi, alla fine di via O-levano. Per la mia gene-rosità il Policlinico San Matteo mi intitolò il padi-glione delle cliniche di o-torino, odontoiatria e ra-diologia. Per il tempo li-bero creai organizzazioni specifiche: il Moto Club, il Gruppo Escursionisti per gli appassionati della montagna per le escur-
sioni d’estate e le sciate d’inverno, la Bocciofila, la quadra di calcio, il Necchi club per gli ap-passionati di teatro, il Gruppo Vogatori Necchi Ticino, una Compagnia teatrale verso la metà degli anni ‘50, il Gruppo Cacciatori alla riserva di caccia della Portalupa. Sponsorizzai la Pallaca-nestro Necchi Pavia, che dal ’55 al ‘58 militò nella
massima serie.
E passiamo a un altro
capitolo, quello dei Suoi collaboratori, con cui Lei fece grande la Necchi.
Un uomo può avere
l’idea, i mezzi, l’iniziativa, ma non potrà mai avere un grande successo sen-za l’aiuto di validi colla-boratori. Può essere ne-cessaria perspicacia nel cercarli, questi collabora-tori, ma certamente an-che una buona dose di fortuna nel trovarli. Io eb-bi entrambe queste cose. La guida dell’azienda agli inizi era stata dura, ho già ricordato il ragionier G i o r g i p e r l’amministrazione. Il pri-mo salto di qualità av-venne agli inizi degli anni ‘ 3 0 . A l l a g u i d a dell’azienda, con me,
c’erano due ingegneri di alta levatura: Emilio Cer-ri, che veniva dalla Fiat, per il settore Macchine per cucire, e Antonio Beccalli, grande tecnico metallurgico, anche lui proveniente dalle fonde-rie Fiat-Lingotto, per il settore Fonderia. Cerri nel 1938 progettò e bre-vettò il sistema di cucitu-ra a zig-zag. Vincendo la mia ritrosia ad assumere
parenti in azienda, mia moglie mi convinse a far entrare nella direzione un mio cognato, il ragio-nier Gino Gastaldi, mari-to di Graziella, sorella di Lina. Gino fu senz’altro la persona più importan-te che ebbi al mio fianco: egli rivoluzionò il settore della vendita creando le concessionarie. A Ga-staldi affiancai i vice di-rettori Mario De Paoli e Dino De Paoli, rispettiva-mente per il settore com-merciale e amministrati-vo, e Giuseppe Manidi che resterà sempre in a-zienda con funzioni sem-pre più importanti e che poi sostituirà Gastaldi co-me consigliere delegato quando questi lascerà la società. Gastaldi fu nel contempo anche presi-dente della Banca del Monte di Pavia, banca con la quale la Necchi in-tratteneva la maggior
parte dei suoi rapporti fi-nanziari. Si era creato così un circolo virtuoso: i risparmi dei pavesi, deri-vati in larga misura dal reddito dei dipendenti Necchi, affidati alla Ban-ca del Monte rientravano così ad alimentare l’economia locale. Tutto l’apparato che gestiva la parte finanziaria era sta-to affidato ad un ammini-stratore di razza: France-
sco Gaiano. Potei avva-lermi anche della colla-borazione di un giovanis-simo contabile, il ragio-nier Repossi, assunto nell’ottobre 1930 con uno stipendio di 450 lire al mese, che rimase in a-zienda fino all’età della pensione, diventando a sua volta direttore ammi-nistrativo, oltre che presi-dente del FAI. Con que-ste persone Gastaldi tra-ghettò l’azienda fuori dal-la difficile crisi.
Come affrontò la guer-
ra e il dopoguerra?
La tranquillità economi-
ca non durò a lungo: nel 1940 iniziò la guerra e per la Necchi si ripresen-tarono tempi duri. L’azienda aveva a quel tempo 2500 dipendenti, produceva 52 mila mac-chine per cucire, riuscen-
do a esportarne più di 10 mila, e circa 5 mila ton-nellate di ghisa. Per i pri-mi tre anni di guerra il mercato italiano non subì grandi flessioni: nel pae-se servivano divise mili-tari per l’esercito, nelle famiglie si acquistavano macchine per cucire per permettere alle donne di avere queste commesse e compensare la man-canza di reddito per la
chiamata alle armi degli uomini. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la fabbrica dovette collabo-rare con produzioni belli-che, ma qui il genio di Gastaldi si manifestò: mentre la Necchi produ-ceva otturatori per armi da fuoco per i tedeschi, continuava a produrre macchine per cucire (oltre 30 mila solo nel 1944) nascondendole o-ve possibile, evitando co-sì la requisizione e l’invio in Germania. Quando nel 1945, a guerra finita, l’azienda ricominciò a la-vorare con regolarità, la vendita delle macchine che erano state occultate assicurarono un cespite importante per la tran-quillità finanziaria nel momento della ricostru-zione industriale. Nel giu-gno del 1958 Gino Ga-staldi venne nominato Cavaliere del Lavoro.
Un dirigente di prima
grandezza che Lei scel-se nel 1948 fu l’ingegner Gino Marti-noli.
Martinoli lo scelsi come
direttore generale tecni-co con il compito di svi-luppare la produzione per fronteggiare le richie-ste del mercato naziona-le in espansione e so-
prattutto per affrontare i nuovi mercati internazio-nali che si andavano a-prendo, primo fra tutti proprio quello statuniten-se. Gino Levi (il cogno-me Martinoli fu adottato nel 1938 in seguito all’approvazione in Italia delle leggi razziali) era nato a Firenze nel 1901, figlio di un professore dell’Ateneo torinese, si e-ra laureato in ingegneria chimica presso il Politec-nico di Torino. Dopo la laurea si trasferì a Ivrea e nel corso del 1924 co-minciò a lavorare presso la Olivetti, dove rimase per ventidue anni curan-do l'organizzazione pro-duttiva degli impianti in veste di direttore genera-le tecnico dal 1932. Nel 1945 entrò a far parte del Consiglio Industriale Alta Italia e successivamente della Sottocommissione
(Continua da pagina 6)
(Continua a pagina 8)
VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
VILLA NECCHI ALLA PORTALUPA. SOPRA A SINISTRA, 1936: LA CONSEGNA DEI PACCHI DONO NATALIZI
AI DIPENDENTI NECCHI. A DESTRA, VEDUTA AEREA DELL’INTERO COMPLESSO NECCHI A PAVIA
NEGLI ANNI ‘70
Pagina 8
Industria Alta I-talia; dopo un breve periodo passato alla Na-valmeccanica, ricoprì a Milano l’incarico di i-spettore della direzione gene-rale dell’IRI per le industrie mec-caniche setten-trionali. Con lui arrivarono alla Necchi le novità per un’industria che doveva ra-dicalmente inno-vare se voleva sopravv ivere . Martinoli era co-gnato di Adriano Olivetti (questi aveva sposato sua sorella Pao-la) e proprio at-traverso Olivetti face parte negli anni ’30 e ’40 di una delle prime esperienze di businnes school italiane: l’IPSOA di Torino. Per prima cosa, in Necchi, Martinoli decise in favo-re di un aumento della manodo-pera che portò subito a un au-mento della produzione, ma che comportò anche un parallelo ca-lo della produttività. Martinoli cominciò con il chiamare alla Necchi molti tecnici che aveva-no lavorato con lui o presso l’Olivetti oppure nell’esperienza con l’IPSOA.
Vuole citarne qualcuno?
L’ingegner Alessandro Pagni
all’Ufficio Progetti, l’ingegner Gianfranco Clavello all’Ufficio Controllo Qualità, il dottor Giulio Volta all’Ufficio Centrale Analisi Tempi e Metodi, l’ingegner Giu-lio Borello cui affidammo il siste-ma gestionale dell’ impresa (l’espandersi della fabbrica ri-chiedeva una costante analisi dei costi di produzione, della produttività, dell’impiego del per-sonale operativo e di conse-guenti tempestivi interventi), il progettista di macchine utensili Carlo Alghisi, il responsabile del servizio attrezzeria Galileo Ton-dinetti. Voglio poi ricordare gli ingegneri responsabili delle quattro direzioni di produzione: Vittorio Scherillo (Macchine Fa-miglia), Luigi Bono (Macchine industriali), Giuseppe Rossi (Fonderia), Alessandro Valvas-sori (Mobili). Avviata la ristruttu-razione dell’azienda, Martinoli e Gastaldi si posero presto anche un problema chiave: aveva dav-vero un futuro la macchina per cucire? Non sarebbe stato bene diversificare? Il patrimonio di e-sperienza della Necchi era giu-dicato dallo stesso Martinoli ec-cezionale. Perché non sfruttarlo in nuovi settori che già si stava-no delineando come estrema-mente promettenti? Gastaldi, pur sapendo della mia contrarie-tà a tradire la macchina per cu-
cire, coltivò questa idea e strin-se i primi accordi con l’americana “Kelvinator” per la costruzione su licenza dei compressori ermetici per frigorifero. A regime l’impianto arrivò a produr-re mille compressori all’ora. Nel 1985 si pro-dusse il 50 milionesimo compressore; nel solo an-no 1989 se ne produssero 4.451.000. Nel corso del 1956, per via di alcuni contrasti sorti con la vecchia direzione e con me, Martinoli abbandonò la Necchi e tornò a Milano.
Poi venne la crisi, la caduta
del mercato delle macchine per cucire.
Anche in Italia il mercato si ri-
dusse notevolmente. Nella fami-glia media italiana degli anni ‘50 la donna lavorava fuori casa e non aveva più il tempo per met-tersi a cucire capi disponibili già finiti e che l’industria di confezio-ni produce in grandi serie e a prezzi abbordabili. Mentre altri elettrodomestici ( lavatrice, la-vastoviglie, eccetera) erano di a-iuto alle donne di casa, la mac-china per cucire richiedeva tem-po per usarla, tempo che non c’era più. Oltretutto quella che e-ra stata la prerogativa alla base del successo delle macchine Necchi ne divenne una delle cause della crisi: la grande qua-lità del prodotto ne determinò u-na durata tale che le macchine si tramandavano da madre a fi-glia per diverse generazioni, prova ne è che la vendita oggi è ridotta ai minimi termini. Tuttavia la ditta Alpian Italia di Ariccia (Roma), divenuta proprietaria del marchio Necchi, faceva pro-durre in Cina una macchina per cucire che promuoveva alla ven-dita in spot televisivi.
Facendo un bilancio, quanti
dipendenti ha avuto la Necchi nella sua storia e quante mac-chine per cucire ha prodotto?
Le cifre che Le fornisco sono
state pubblicate sulle Riviste Necchi. Nel 1928 la forza lavoro era costituita da 7 dirigenti, 23 impiegati e 439 operai (di cui 100 alle macchine per cucire e 339 alla fonderia); la produzione fu di 1.500 tonnellate di ghisa e 18.500 macchine per cucire. Nel 1950 ecco le cifre: 18 dirigenti, 551 operai e 3.555 operai; la produzione fu quell’anno di 6.000 tonnellate di ghisa e 122.023 macchine per cucire, di cui 4.869 ad uso industriale. Le macchine per cucire esportate passarono dalle 2.646 del 1930 alla 58.461 del 1950. Negli anni Cinquanta e Sessanta il mercato delle macchine per cucire rag-giunse il suo massimo. La Nec-chi arrivò a produrre mille mac-chine al giorno. Tutto intorno a Pavia fiorirono piccole industrie che producevano macchine complete con i loro marchi: Vi-gorelli, Casati, Mariani, Simdac. Oltre ad esse, comparvero ditte di componentistica. Pavia diven-
ne la capitale italiana della mac-china per cucire e nel 1950 ospi-tò una mostra internazionale.
Frattanto Lei aveva creato nel
1937 una scuola professiona-le con lo scopo di preparare i futuri specialisti e tecnici d’officina. L’aveva chiamata con il nome di Suo padre, Am-brogio Necchi.
La scuola era nata nel 1917 per
iniziativa della Pia Casa d’Industria in via Volta 19, aveva 24 allievi, poi si trasferì in piazza Ghislieri. Ebbe, in quegli anni, vita stentata per la scarsa cultu-ra industriale di allora. Riuscii a coinvolgere nell’iniziativa alcuni industriali pavesi e alcuni enti lo-cali, incaricai l’architetto Carlo Morandotti di redigere il progetto e feci costruire il grande edificio di piazza Marconi. L’edificio co-priva una superficie di un miglia-io di metri quadrati, su un’area di oltre quattromila, messa a di-sposizione gratuitamente dal Comune di Pavia. Qui, final-mente, la scuola ebbe la sua se-de adeguata, con locali per aule, laboratori, officina, palestra e ampi spazi aperti per sperimen-tazioni pratiche. La direzione
della scuola fu per più di trent’anni affidata ad Aristide Annovazzi, figura notissima a Pavia, oltre che per la sua ele-vata capacità tecnica, anche per il suo impegno culturale come fi-lologo e dialettologo di fama. Quando nel 1950 l’Annovazzi (simpaticamente il Gnassi per gli allievi) lasciò la scuola, fu sosti-tuito dall’ingegner Gribaudo, che continuò l’attività didattica con altrettanto impegno, svilup-pando anche un settore dedica-to all’elettricità: formò elettrotec-nici validi che furono anche as-sunti dall’Enel e da altre aziende del settore. Poi nel 1962, nell’ambito della riforma della scuola media e della conse-guente unificazione della scuola secondaria, le scuole professio-nali furono abolite. Ci volle del tempo perché i legislatori si ac-corgessero del vuoto lasciato con questa decisione. Corsero ai ripari con l’istituzione di corsi triennali (IPSIA) dove però l’insegnamento pratico era se-condario rispetto alle materie te-oriche e al nozionismo tipico delle nostre scuole. Anche la scuola Necchi fu assorbita da questa riforma e diventò statale a tutti gli effetti.
Per vendere una macchina
per cucire era assolutamente necessario creare il desiderio nell’acquirente dimostrando le possibilità di lavoro che la macchina forniva, ma era an-cor più importante insegnare a usarla, ottenendo da essa il massimo della resa.
La rete commerciale Necchi in
Italia aveva ormai raggiunto una diffusione notevole: in ogni città, in ogni borgo di rilievo erano sorti concessionari, produttori, negozi di vendita e di assisten-za; in ognuna di queste realtà commerciali si istituirono corsi gratuiti di taglio, cucito e ricamo a scopo didattico e propagandi-stico. Presso i concessionari, o addirittura in azienda, veniva formato il personale per inse-gnare in questi corsi. In questo ambito venivano donate cospi-cue partite di macchine a enti benefici e assistenziali del regi-me e della Chiesa. Specialmen-te le Suore Educatrici, capillar-mente diffuse sul territorio, che da sempre attiravano le giovani a imparare a ricamare a mano la biancheria del corredo, allestiva-no questi corsi per le future ca-salinghe e pertanto future clienti
Necchi. Era allora considerata una vera fortuna avere una macchina per cucire come dono di nozze e l’entusiasmo che ge-nerava nelle allieve l’uso delle Necchi in questi corsi di cucito era un veicolo promozionale per le vendite. La Direzione com-merciale chiamò tutto questo “Continuità di Servizio” che com-prendeva, oltre ai cicli di cucito e ricamo, permanenti o tempora-nei, dimostrazioni didattiche, collaborazione tecnica, merceo-logica, organizzativa per tutta la clientela Necchi con l’ausilio dei circa 10 mila negozi situati in o-gni parte del mondo.
Un importante fattore di suc-
cesso dell’organizzazione Necchi nel mondo fu sicura-mente l’Assistenza Tecnica.
Ogni rappresentante o conces-
sionario in ogni parte del mondo era in grado di assistere il clien-te per qualsiasi necessità. I tec-nici riparatori venivano inviati a Pavia, e qui addestrati per inter-venire su tutti i modelli della rete vendita, inoltre venivano adde-strati anche per tenere i corsi di cucito nelle loro sedi. La tecno-logia costruttiva delle macchine
Necchi, utilizzando criteri tecno-logici e metrologici rigidissimi, consentiva di avere pezzi di ri-cambio perfetti in ogni parte del mondo.
Un nome si incontra a un cer-
to punto nella storia della Necchi, quello di Leon Jolson. A lui è legato il sogno ameri-cano.
Leon Jolson arrivò dalla Polonia
negli USA con la moglie Anna dopo la fine della seconda guer-ra mondiale, nel 1947; egli, e-breo, era sfuggito ai campi di concentramento nazisti e aveva aderito alla resistenza lavorando segretamente alle intercettazioni delle radio tedesche per il resto del conflitto. Ai Jolson ora si presentava il problema di rico-minciare la loro vita nel nuovo paese. Leon tornò a lavorare su ciò che conosceva bene: la macchina per cucire. A Varsavia la famiglia Jolson era agente di vendita e assistenza tecnica per la Necchi. A New York cominciò a offrire un servizio di riparazio-ne porta a porta. Durante la guerra era impossibile trovare parti di ricambio, perciò erano tante le macchine fuori uso
presso le famiglie americane. Jolson allestì allora una officina di riparazioni nell’appartamento nel Bronx. Gli affari non andava-no male; inoltre Jolson, avendo per le mani molte marche di macchine per cucire americane, poté rendersi conto che nessu-na di queste poteva competere con le Necchi che lui aveva trat-tato a Varsavia. L’America sa-rebbe stato il mercato ideale per la Necchi. Jolson contattò la dit-t a i t a l i a n a p e r a v e r e l’assegnazione in prova di alcu-ne macchine. Evidentemente la direzione commerciale Necchi non condivise l’entusiasmo di quest’uomo, perciò non ci fu ri-sposta. Non venne meno però la convinzione di Jolson della bon-tà della sua idea. Ottenne altri 2 mila dollari di prestito. Con que-sta somma e una forte fede con-vinse due uomini d’affari, Ben Krisiloff e Milton Heimlich, a in-vestire nell’affare 50 mila dollari. Con queste credenziali contattò la Vittorio Necchi. Questa volta la risposa fu positiva: così Jol-son e Krisiloff vennero a Pavia a colloquio con me e con Gastaldi suscitando il loro interesse per il mercato americano. Compra-rono subito 135 macchine, nel giro di una settimana giunse un altro ordine di 3.500 e nelle suc-cessive l’ordine arrivò a 7 mila.
Lei amava autode-
finirsi un malà ad la preja, (malato del mattone ) che per i pavesi si dice di persona appassio-nata alla costruzio-ne, ristrutturazione o modifica di fab-bricati. In effetti, mai come in questo caso la realtà con-fermava la defini-zione. Guardando la cronologia delle Sue residenze si nota che, ultimata appena la prima fa-se della costruzio-ne della fabbrica in via Rismondo, che era iniziata nel 1919, cominciò la
serie, pressoché ininterrotta, delle ville che via via divenne-ro le Sue residenze, tempora-nee o fisse.
Nel 1923 iniziai la costruzione
della villa di Pavia, che, attraver-so varie modifiche in corso d’opera si protrasse fino al 1929. Seguì il rifacimento totale della villa di Portalupa, che era stata fino ad allora una villa d’appoggio per la riserva di cac-cia. Nel 1937 diedi il via alla villa di Cogne, da utilizzare per l’estate e per la riserva di pesca. Fu completata nella primavera del 1939. Una pausa dovuta pri-ma ai fatti bellici, poi all’impegno per la costruzione dei nuovi ca-pannoni in fabbrica (1950-1952), e rieccoci con la villa a Nervi, or-dinata all’Architetto Tommaso Buzzi nel 1953 e completata nel 1956.
Mi parli un po’ della Villa di
Piazza Castello.
La palazzina che feci costruire
per la mia famiglia a partire dal 1924 sorgeva nell’attuale corso Matteotti, nell’area (ora occupa-ta dal condominio al n° 73) com-presa tra la Roggia Carona a ponente e il Pio Istituto Pertusati a levante. Affidai il progetto all’architetto Carlo Morandotti. Il progetto, di stile aulico, cin-quecentesco, prevedeva una spaziosa e pretenziosa villa a due piani, con dépendances per i garage e la portineria, un la-ghetto davanti alla facciata e un ampio giardino, l’ortaglia, il cani-le, il recinto per il gioco delle bocce. Tuttavia, già nel gennaio del 1925 l’architetto Morandotti modificò il tutto aggiungendo, nella porzione centrale, un attico sopraelevato e raccordato alla balconata sottostante con due grandi statue di dèi semisdraiati reggenti canestri di frutta e fiori, opera dello scultore Ambrogio Casati. Altra variante nel 1928: al primo piano furono aggiunti due nuovi saloni e altri servizi, mentre al secondo piano altre camere da letto. L’ampliamento fu realizzato con l’aggiunta di nuovi corpi verso il giardino. Su scelta dell’architetto, per questi
(Continua da pagina 7)
(Continua a pagina 10)
INTERVISTA IMPOSSIBILE
SOPRA DA SINISTRA, VITTORIO NECCHI CON LA MOGLIE; LA CHIESETTA DELLA TENUTA PORTALUPA;
VILLA NECCHI IN VIALE MATTEOTTI A PAVIA; VITTORIO NECCHI CON UN FAGIANO.
QUI A DESTRA, IL DISEGNO DI VILLA NECCHI A GAMBOLÒ, RAFFIGURATA NELLA FOTO ACCANTO AL TITOLO.
Pagina 9
Industria Alta I-talia; dopo un breve periodo passato alla Na-valmeccanica, ricoprì a Milano l’incarico di i-spettore della direzione gene-rale dell’IRI per le industrie mec-caniche setten-trionali. Con lui arrivarono alla Necchi le novità per un’industria che doveva ra-dicalmente inno-vare se voleva sopravv ivere . Martinoli era co-gnato di Adriano Olivetti (questi aveva sposato sua sorella Pao-la) e proprio at-traverso Olivetti face parte negli anni ’30 e ’40 di una delle prime esperienze di businnes school italiane: l’IPSOA di Torino. Per prima cosa, in Necchi, Martinoli decise in favo-re di un aumento della manodo-pera che portò subito a un au-mento della produzione, ma che comportò anche un parallelo ca-lo della produttività. Martinoli cominciò con il chiamare alla Necchi molti tecnici che aveva-no lavorato con lui o presso l’Olivetti oppure nell’esperienza con l’IPSOA.
Vuole citarne qualcuno?
L’ingegner Alessandro Pagni
all’Ufficio Progetti, l’ingegner Gianfranco Clavello all’Ufficio Controllo Qualità, il dottor Giulio Volta all’Ufficio Centrale Analisi Tempi e Metodi, l’ingegner Giu-lio Borello cui affidammo il siste-ma gestionale dell’ impresa (l’espandersi della fabbrica ri-chiedeva una costante analisi dei costi di produzione, della produttività, dell’impiego del per-sonale operativo e di conse-guenti tempestivi interventi), il progettista di macchine utensili Carlo Alghisi, il responsabile del servizio attrezzeria Galileo Ton-dinetti. Voglio poi ricordare gli ingegneri responsabili delle quattro direzioni di produzione: Vittorio Scherillo (Macchine Fa-miglia), Luigi Bono (Macchine industriali), Giuseppe Rossi (Fonderia), Alessandro Valvas-sori (Mobili). Avviata la ristruttu-razione dell’azienda, Martinoli e Gastaldi si posero presto anche un problema chiave: aveva dav-vero un futuro la macchina per cucire? Non sarebbe stato bene diversificare? Il patrimonio di e-sperienza della Necchi era giu-dicato dallo stesso Martinoli ec-cezionale. Perché non sfruttarlo in nuovi settori che già si stava-no delineando come estrema-mente promettenti? Gastaldi, pur sapendo della mia contrarie-tà a tradire la macchina per cu-
cire, coltivò questa idea e strin-se i primi accordi con l’americana “Kelvinator” per la costruzione su licenza dei compressori ermetici per frigorifero. A regime l’impianto arrivò a produr-re mille compressori all’ora. Nel 1985 si pro-dusse il 50 milionesimo compressore; nel solo an-no 1989 se ne produssero 4.451.000. Nel corso del 1956, per via di alcuni contrasti sorti con la vecchia direzione e con me, Martinoli abbandonò la Necchi e tornò a Milano.
Poi venne la crisi, la caduta
del mercato delle macchine per cucire.
Anche in Italia il mercato si ri-
dusse notevolmente. Nella fami-glia media italiana degli anni ‘50 la donna lavorava fuori casa e non aveva più il tempo per met-tersi a cucire capi disponibili già finiti e che l’industria di confezio-ni produce in grandi serie e a prezzi abbordabili. Mentre altri elettrodomestici ( lavatrice, la-vastoviglie, eccetera) erano di a-iuto alle donne di casa, la mac-china per cucire richiedeva tem-po per usarla, tempo che non c’era più. Oltretutto quella che e-ra stata la prerogativa alla base del successo delle macchine Necchi ne divenne una delle cause della crisi: la grande qua-lità del prodotto ne determinò u-na durata tale che le macchine si tramandavano da madre a fi-glia per diverse generazioni, prova ne è che la vendita oggi è ridotta ai minimi termini. Tuttavia la ditta Alpian Italia di Ariccia (Roma), divenuta proprietaria del marchio Necchi, faceva pro-durre in Cina una macchina per cucire che promuoveva alla ven-dita in spot televisivi.
Facendo un bilancio, quanti
dipendenti ha avuto la Necchi nella sua storia e quante mac-chine per cucire ha prodotto?
Le cifre che Le fornisco sono
state pubblicate sulle Riviste Necchi. Nel 1928 la forza lavoro era costituita da 7 dirigenti, 23 impiegati e 439 operai (di cui 100 alle macchine per cucire e 339 alla fonderia); la produzione fu di 1.500 tonnellate di ghisa e 18.500 macchine per cucire. Nel 1950 ecco le cifre: 18 dirigenti, 551 operai e 3.555 operai; la produzione fu quell’anno di 6.000 tonnellate di ghisa e 122.023 macchine per cucire, di cui 4.869 ad uso industriale. Le macchine per cucire esportate passarono dalle 2.646 del 1930 alla 58.461 del 1950. Negli anni Cinquanta e Sessanta il mercato delle macchine per cucire rag-giunse il suo massimo. La Nec-chi arrivò a produrre mille mac-chine al giorno. Tutto intorno a Pavia fiorirono piccole industrie che producevano macchine complete con i loro marchi: Vi-gorelli, Casati, Mariani, Simdac. Oltre ad esse, comparvero ditte di componentistica. Pavia diven-
ne la capitale italiana della mac-china per cucire e nel 1950 ospi-tò una mostra internazionale.
Frattanto Lei aveva creato nel
1937 una scuola professiona-le con lo scopo di preparare i futuri specialisti e tecnici d’officina. L’aveva chiamata con il nome di Suo padre, Am-brogio Necchi.
La scuola era nata nel 1917 per
iniziativa della Pia Casa d’Industria in via Volta 19, aveva 24 allievi, poi si trasferì in piazza Ghislieri. Ebbe, in quegli anni, vita stentata per la scarsa cultu-ra industriale di allora. Riuscii a coinvolgere nell’iniziativa alcuni industriali pavesi e alcuni enti lo-cali, incaricai l’architetto Carlo Morandotti di redigere il progetto e feci costruire il grande edificio di piazza Marconi. L’edificio co-priva una superficie di un miglia-io di metri quadrati, su un’area di oltre quattromila, messa a di-sposizione gratuitamente dal Comune di Pavia. Qui, final-mente, la scuola ebbe la sua se-de adeguata, con locali per aule, laboratori, officina, palestra e ampi spazi aperti per sperimen-tazioni pratiche. La direzione
della scuola fu per più di trent’anni affidata ad Aristide Annovazzi, figura notissima a Pavia, oltre che per la sua ele-vata capacità tecnica, anche per il suo impegno culturale come fi-lologo e dialettologo di fama. Quando nel 1950 l’Annovazzi (simpaticamente il Gnassi per gli allievi) lasciò la scuola, fu sosti-tuito dall’ingegner Gribaudo, che continuò l’attività didattica con altrettanto impegno, svilup-pando anche un settore dedica-to all’elettricità: formò elettrotec-nici validi che furono anche as-sunti dall’Enel e da altre aziende del settore. Poi nel 1962, nell’ambito della riforma della scuola media e della conse-guente unificazione della scuola secondaria, le scuole professio-nali furono abolite. Ci volle del tempo perché i legislatori si ac-corgessero del vuoto lasciato con questa decisione. Corsero ai ripari con l’istituzione di corsi triennali (IPSIA) dove però l’insegnamento pratico era se-condario rispetto alle materie te-oriche e al nozionismo tipico delle nostre scuole. Anche la scuola Necchi fu assorbita da questa riforma e diventò statale a tutti gli effetti.
Per vendere una macchina
per cucire era assolutamente necessario creare il desiderio nell’acquirente dimostrando le possibilità di lavoro che la macchina forniva, ma era an-cor più importante insegnare a usarla, ottenendo da essa il massimo della resa.
La rete commerciale Necchi in
Italia aveva ormai raggiunto una diffusione notevole: in ogni città, in ogni borgo di rilievo erano sorti concessionari, produttori, negozi di vendita e di assisten-za; in ognuna di queste realtà commerciali si istituirono corsi gratuiti di taglio, cucito e ricamo a scopo didattico e propagandi-stico. Presso i concessionari, o addirittura in azienda, veniva formato il personale per inse-gnare in questi corsi. In questo ambito venivano donate cospi-cue partite di macchine a enti benefici e assistenziali del regi-me e della Chiesa. Specialmen-te le Suore Educatrici, capillar-mente diffuse sul territorio, che da sempre attiravano le giovani a imparare a ricamare a mano la biancheria del corredo, allestiva-no questi corsi per le future ca-salinghe e pertanto future clienti
Necchi. Era allora considerata una vera fortuna avere una macchina per cucire come dono di nozze e l’entusiasmo che ge-nerava nelle allieve l’uso delle Necchi in questi corsi di cucito era un veicolo promozionale per le vendite. La Direzione com-merciale chiamò tutto questo “Continuità di Servizio” che com-prendeva, oltre ai cicli di cucito e ricamo, permanenti o tempora-nei, dimostrazioni didattiche, collaborazione tecnica, merceo-logica, organizzativa per tutta la clientela Necchi con l’ausilio dei circa 10 mila negozi situati in o-gni parte del mondo.
Un importante fattore di suc-
cesso dell’organizzazione Necchi nel mondo fu sicura-mente l’Assistenza Tecnica.
Ogni rappresentante o conces-
sionario in ogni parte del mondo era in grado di assistere il clien-te per qualsiasi necessità. I tec-nici riparatori venivano inviati a Pavia, e qui addestrati per inter-venire su tutti i modelli della rete vendita, inoltre venivano adde-strati anche per tenere i corsi di cucito nelle loro sedi. La tecno-logia costruttiva delle macchine
Necchi, utilizzando criteri tecno-logici e metrologici rigidissimi, consentiva di avere pezzi di ri-cambio perfetti in ogni parte del mondo.
Un nome si incontra a un cer-
to punto nella storia della Necchi, quello di Leon Jolson. A lui è legato il sogno ameri-cano.
Leon Jolson arrivò dalla Polonia
negli USA con la moglie Anna dopo la fine della seconda guer-ra mondiale, nel 1947; egli, e-breo, era sfuggito ai campi di concentramento nazisti e aveva aderito alla resistenza lavorando segretamente alle intercettazioni delle radio tedesche per il resto del conflitto. Ai Jolson ora si presentava il problema di rico-minciare la loro vita nel nuovo paese. Leon tornò a lavorare su ciò che conosceva bene: la macchina per cucire. A Varsavia la famiglia Jolson era agente di vendita e assistenza tecnica per la Necchi. A New York cominciò a offrire un servizio di riparazio-ne porta a porta. Durante la guerra era impossibile trovare parti di ricambio, perciò erano tante le macchine fuori uso
presso le famiglie americane. Jolson allestì allora una officina di riparazioni nell’appartamento nel Bronx. Gli affari non andava-no male; inoltre Jolson, avendo per le mani molte marche di macchine per cucire americane, poté rendersi conto che nessu-na di queste poteva competere con le Necchi che lui aveva trat-tato a Varsavia. L’America sa-rebbe stato il mercato ideale per la Necchi. Jolson contattò la dit-t a i t a l i a n a p e r a v e r e l’assegnazione in prova di alcu-ne macchine. Evidentemente la direzione commerciale Necchi non condivise l’entusiasmo di quest’uomo, perciò non ci fu ri-sposta. Non venne meno però la convinzione di Jolson della bon-tà della sua idea. Ottenne altri 2 mila dollari di prestito. Con que-sta somma e una forte fede con-vinse due uomini d’affari, Ben Krisiloff e Milton Heimlich, a in-vestire nell’affare 50 mila dollari. Con queste credenziali contattò la Vittorio Necchi. Questa volta la risposa fu positiva: così Jol-son e Krisiloff vennero a Pavia a colloquio con me e con Gastaldi suscitando il loro interesse per il mercato americano. Compra-rono subito 135 macchine, nel giro di una settimana giunse un altro ordine di 3.500 e nelle suc-cessive l’ordine arrivò a 7 mila.
Lei amava autode-
finirsi un malà ad la preja, (malato del mattone ) che per i pavesi si dice di persona appassio-nata alla costruzio-ne, ristrutturazione o modifica di fab-bricati. In effetti, mai come in questo caso la realtà con-fermava la defini-zione. Guardando la cronologia delle Sue residenze si nota che, ultimata appena la prima fa-se della costruzio-ne della fabbrica in via Rismondo, che era iniziata nel 1919, cominciò la
serie, pressoché ininterrotta, delle ville che via via divenne-ro le Sue residenze, tempora-nee o fisse.
Nel 1923 iniziai la costruzione
della villa di Pavia, che, attraver-so varie modifiche in corso d’opera si protrasse fino al 1929. Seguì il rifacimento totale della villa di Portalupa, che era stata fino ad allora una villa d’appoggio per la riserva di cac-cia. Nel 1937 diedi il via alla villa di Cogne, da utilizzare per l’estate e per la riserva di pesca. Fu completata nella primavera del 1939. Una pausa dovuta pri-ma ai fatti bellici, poi all’impegno per la costruzione dei nuovi ca-pannoni in fabbrica (1950-1952), e rieccoci con la villa a Nervi, or-dinata all’Architetto Tommaso Buzzi nel 1953 e completata nel 1956.
Mi parli un po’ della Villa di
Piazza Castello.
La palazzina che feci costruire
per la mia famiglia a partire dal 1924 sorgeva nell’attuale corso Matteotti, nell’area (ora occupa-ta dal condominio al n° 73) com-presa tra la Roggia Carona a ponente e il Pio Istituto Pertusati a levante. Affidai il progetto all’architetto Carlo Morandotti. Il progetto, di stile aulico, cin-quecentesco, prevedeva una spaziosa e pretenziosa villa a due piani, con dépendances per i garage e la portineria, un la-ghetto davanti alla facciata e un ampio giardino, l’ortaglia, il cani-le, il recinto per il gioco delle bocce. Tuttavia, già nel gennaio del 1925 l’architetto Morandotti modificò il tutto aggiungendo, nella porzione centrale, un attico sopraelevato e raccordato alla balconata sottostante con due grandi statue di dèi semisdraiati reggenti canestri di frutta e fiori, opera dello scultore Ambrogio Casati. Altra variante nel 1928: al primo piano furono aggiunti due nuovi saloni e altri servizi, mentre al secondo piano altre camere da letto. L’ampliamento fu realizzato con l’aggiunta di nuovi corpi verso il giardino. Su scelta dell’architetto, per questi
(Continua da pagina 7)
(Continua a pagina 10)
VITTORIO NECCHI
LA FOTOGRAFIA DI VILLA NECCHI A PAVIA COMPARE NELLA COPERTINA DEL VOLUME
GUGLIELMO CHIOLINI PALAZZI, SCALE E CORTILI DI PAVIA
EDITO NEL 2011 DALL’ASSOCIAZIONE “SOCRATE AL CAFFÈ PER LA CULTURA
E LA CONVERSAZIONE CIVILE” E DALL’ASSOCIAZIONE CULTURALE
PAVIA FOTOGRAFIA
Pagina 1 0 Numero set tantaset te - Maggio 2012
nuovi fabbricati fu abban-donato lo stile preceden-te a favore di soluzioni più sobrie. Gli ambienti interni di rappresentanza erano ornati e arredati con grande sontuosità secondo il gusto neo-settecentesco. Nel sot-terraneo trovavano posto la sala biliardo, la sala da gioco e un tiro a segno. Durante il secondo con-flitto mondiale, mentre e-ravamo sfollati a nord di Varese, nel comune di Barasso, ospiti dei co-gnati Campiglio, la villa fu prima requisita dai mi-litari tedeschi per farne la sede del comando della piazza di Pavia, poi dal colonnello Wendel E. Phillips, del Comando
Militare Alleato per lo stesso scopo. In quel periodo difficile cedetti definitivamente la villa a un altro industriale pave-se, Oreste Casati, che l’abitò per breve periodo. Ma alla morte di Casati, il figlio Giancarlo si rese conto che gestire una di-mora così sontuosa era al di sopra delle sue pos-sibilità, così la condannò alla demolizione utiliz-zando la vasta area per costruire un grande cen-tro residenziale di lusso.
Situata a Gambolò, fra-
zione Molino d’Isella, la tenuta chiamata “La Portalupa” comprende-va, oltre alla Sua villa, un assieme di villette
per la residenza del personale che lavorava a vario titolo nella tenu-ta stessa. Lei aveva do-tato il villaggio di una piccola scuola per i fi-gli dei dipendenti e an-che di una chiesetta.
Era un’oasi, una immen-
sa distesa di verde, di boschi e di radure pro-prio come si addice a u-na grande riserva di cac-cia. La Portalupa diven-ne la mia residenza sta-bile dopo la cessione della villa di Pavia. Era u-na grande tenuta agrico-la, con varie cascine, in un terreno che alternava radure a boschi e a ce-spugli, l’ideale per la cac-cia. L’area era in parte di
proprietà e in parte in af-fitto agricolo. Erano natu-ralmente presenti tutte le strutture necessarie per l’allevamento dei fagiani per il mantenimento della riserva di caccia, cioè i locali per le incubatrici, per i pulcini e per le o-vaiole. Frequentatori as-sidui delle battute di cac-cia erano, a turni, i di-pendenti della fabbrica, che sotto l’egida del Gruppo Cacciatori Nec-chi erano ospitati da me, che scendevo con loro, doppietta a tracolla. Una giornata di caccia nella riserva di Portalupa era un avvenimento atteso con ansia dai dipendenti. Nella riserva la selvaggi-na era abbondante. Inol-tre una schiera di battito-
ri, attrezzati con vari ag-geggi per far rumore, di-sposti a semicerchio a-vanzavano lentamente portando letteralmente la selvaggina verso il grup-po di cacciatori, per i q u a l i c ’ e r a s o l o l’imbarazzo della scelta. La giornata si conclude-va con festosi saluti da parte di tutti i presenti, ma molti ricordano che nel commiato ero solito aggiungere: «Ehi, am racumandi, duman mati-na tüti a timbrà al cartlin, nevera?». (Ehi, mi racco-mando, domani mattina tutti a timbrare il cartelli-no, vero?)
Un’altra passione per
Lei era la pesca.
Per questo, nel 1937 mi
ero fatto costruire una villa in montagna, preci-samente a Cogne, nella vallata omonima in Val d’Aosta. La valle è una grande spianata prospi-ciente il massiccio del Gran Paradiso. È solca-ta da due torrenti, (Grauson è il più gran-de), le cui acque proven-gono dal ghiacciaio, scendono dalle cascate di Lillaz, e si uniscono a valle del paese, poi giun-gono attraverso una stretta gola ad Aosta, per diventare affluenti della Dora Baltea. Benché tut-ta la zona facesse parte del Parco del Gran Para-diso, io riuscì ad avere la
(Continua da pagina 8)
(Continua a pagina 11)
INTERVISTA IMPOSSIBILE
VITTORIO NECCHI
GLI INTERNI DI VILLA NECCHI A PAVIA. IN ALTO A SINISTRA LA SALA DA PRANZO; A DESTRA LA SALA DA BILIARDO. IN BASSO, DA SINISTRA: IL SALOTTO, L’INGRESSO, LA SCALA. SOTTO A SINISTRA, L’INTERNO DEL REPARTO MACCHINE PER CUCIRE DELLA “VITTORIO NECCHI”; A DESTRA, L’INTERNO DELLA SCUOLA PER MECCANICI
Pagina 1 1 Numero set tantaset te - Maggio 2012
concessione per attuare in queste acque una ri-serva di pesca per trote. Dovetti accettare come unica condizione che i miei guardia pesca colla-borassero con la Guar-dia Forestale nel control-lo del bracconaggio nel Parco. Questa collabora-zione fu fattiva, la caccia e la pesca abusive erano una calamità per il Par-co. In una di queste oc-casioni avvenne che un cacciatore sparò a un magnifico esemplare di aquila reale; l’intervento di una guardia pesca Necchi fece arrestare il bracconiere ma, purtrop-po, per l’aquila era trop-po tardi: finì, impagliata, nel museo del Parco a Valnontey. Anche per la pesca si verificò la fre-quenza di personaggi importanti per i miei rap-porti sociali e industriali. In particolar modo era assidua la presenza di Maria Josè, moglie di Umberto di Savoia, ap-passionata pescatrice, che diventerà poi la Re-gina di Maggio.
Per finire, ricordiamo
la Villa di Nervi.
La villa di Nervi fu ordi-
nata all’architetto Tom-maso Buzzi nel 1953. Ebbe fin dall’inizio una gestazione difficile: il luo-go dove doveva sorgere era un bellissimo parco demaniale, con alberi se-colari, situato fra la linea ferroviaria e il mare, su un piano che declinava fino al mare stesso. Se già fu difficile ottenere le autorizzazioni tecniche e amministrative, fu ancora più duro vincere l’ostilità degli abitanti: se era pur v e r o c h e l’amministrazione locale riteneva conveniente ce-dere una parte di parco in cambio dei vantaggi e-conomici e turistici che ne derivavano, per gli a-bitanti era pur sempre la privazione di uno spazio bellissimo della costa. Tuttavia la cosa andò in porto poiché, per chi ne ha i mezzi, esistono sempre vie per giungere ad accordi. La villa fu completata nel 1956. L’architetto Buzzi aveva nel suo curriculum la co-struzione di ville impor-tanti e bellissime sulla ri-viera ligure, e non solo, pertanto anche la villa
Necchi a Sant’Ilario di Nervi fu una grande rea-lizzazione. Quando, nel 1961, scomparve mia moglie Lina, il mio inte-resse per la villa di Nervi si esaurì. Era Lei che
l’aveva fortemente voluta e c u r a t a nell’arredamento e io non ci tornai mai più. Il 14 ottobre del 1966 la casa d’aste Finarte prov-vide a battere tutte le o-
pere d’arte della villa, di-sperdendole nel vasto mondo dei collezionisti.
Sisto Capra
(Continua da pagina 10)
VITTORIO NECCHI
di Nervi quando morì la mia carissima Lina
I lavoratori in festa al mio ritorno dall’ospedale
INTERVISTA IMPOSSIBILE
La passione per le case. Invitavo i miei dipendenti a caccia alla Portalupa. Vendetti la villa
QUI SOPRA, LA LINEA DI MONTAGGIO ALLA “VITTORIO NECCHI”. QUI A DESTRA, VITTORIO NECCHI ALLA PREMIAZIONE DEL GRUPPO ANZIANI D’AZIENDA. AL TAVOLO DEL DIRETTIVO SI RICONOSCONO (DA DESTRA): FOGLI, VECCHIO, NECCHI, MANIDI (SEMINASCOSTO)
E AGNES. IL PREMIATO È IL SUO AUTISTA, GENI.
Pagina 1 2 Numero set tantaset te - Maggio 2012
Premessa
Non penso che si
debbano aggiunge-re parole per spie-gare la scelta di questa mia riflessio-ne sulla Politica, parola da riscoprire. Dalla Costituzione Art. 3
Tutti i cittadini han-
no pari dignità so-ciale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni perso-nali e sociali. È compito della Re-pubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economi-co e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipa-zione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Pae-se. Da Antonio Gramsci
Odio gli indifferenti. Credo
[…] che vivere vuol dire esse-re partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non esse-re cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è paras-sitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferen-ti. (11 febbraio 1917)
Ho ripreso l’art. 3 della nostra
Costituzione come leitmotiv della mia riflessione sulla buo-na politica. Non ci sarebbe bisogno di nessun aggettivo per accompagnare la parola ma la realtà che scorre sotto i nostri occhi ce lo impone. Ho poi ripreso brevi citazioni da Antonio Gramsci perché ne condivido il contenuto. So-no anch’io partigiana ma sen-za mai perdere di vista il con-fronto con gli altri e il bisogno di mediare, senza mai mette-re da parte l’interesse genera-le. Almeno, lo spero. La politi-ca, la buona politica non è equidistanza da ogni cosa, al contrario è presa di posizione, impegno, idee forti sostenute da intelligenza, autorevolez-za. Chi dice “La politica non è cosa mia, me ne sto alla lar-ga, tanto sono tutti uguali” non sa che questa sua presa di posizione è “fare politica” nel peggiore dei modi, chiu-dendosi in se stesso, ignoran-do che l’impegno per una buona amministrazione della cosa pubblica è anche salva-guardare il proprio interesse. Gramsci sosteneva: “Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città”. Questo imperativo morale è stato, è spesso disatteso e a soffrirne sono tutti i membri della città e la città non è solo il proprio ristretto cerchio di appartenenza, è anche il pro-
prio paese, membro di una comunità sempre più vasta, sino ad abbracciare il mondo. La buona politica è rifiuto di un’accettazione passiva della realtà. I problemi che si pre-sentano sono problemi di tutti, farsene carico è sentirsi parte integrante della città, sino alla città mondo. Ancora Antonio Gramsci scriveva: “Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare […] La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illuso-ria di questa indifferenza, di questo assenteismo”. Per vari motivi, nel nostro presente, molti si allontanano dalla città di cui fanno parte. Per loro la politica non merita nessuna attenzione, perché i politici sono tutti uguali… Trionfa co-sì l’antipolitica, l’indifferenza, l’assenteismo. Questi atteg-giamenti di presa di distanza non aiutano a trovare buone soluzioni in nessun campo e ancora meno servono alla convivenza civile. Che fare di fronte ai gravi problemi che toccano tutti? È necessario “essere vigili, presenti, anima-ti da reciproca simpatia”. Una buona dose di utopia, si obiet-terà, ma senza non si può guardare al futuro con spe-ranza. Due anni fa, avvicinan-domi a una soglia importante della mia vita, i miei 70 anni, ora da poco varcata, ho senti-to il bisogno di una partecipa-zione più vigile e attiva a quel-la che chiamerò, d’ora in poi, la città, e questo per non es-sere un’estranea alle sue sor-ti, per non essere tra coloro che pensano che essere par-tigiani non serva a niente in una realtà in cui gli indifferenti sono di gran lunga la maggio-ranza. Quale città?
Per rispondere alla domanda
“Quale città?” ricorrerò a una pagina ricca di stimoli di rifles-sione, il “Discorso di Pericle
agli Ateniesi” - 461 a.C. - Tu-cidide “La guerra del Pelopon-neso”, disarticolandolo in pa-ragrafi, seguiti da brevi note.
Qui il nostro governo favori-
sce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così.
Favorire i molti invece dei
pochi è una garanzia di rispet-to del bene comune.
Le leggi qui assicurano una
giustizia uguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricom-pensa al merito, e la povertà non costituisce un impedi-mento. Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi, è scritto, assicurano
una giustizia uguale per tutti. Pensando al nostro oggi, que-sto principio di uguaglianza, sancito dall’art.3 della nostra Costituzione, è, molte volte, disatteso. Non ignoriamo mai i meriti, sottolinea con forza Pericle. Questo non avviene sempre nel nostro presente: molti giovani, tra le eccellen-ze, sono costretti ad andare altrove, dove le loro qualità sono apprezzate e producono cultura e ricchezza. Una per-dita per il nostro paese in tutti i campi. Pericle aggiunge che il merito è riconosciuto ad A-tene indipendentemente dal censo. Anche questa è una lezione da imparare in casa nostra, nel nostro presente.
La libertà di cui godiamo si
estende anche alla vita quoti-diana; noi non siamo sospet-tosi l’uno dell’altro e non infa-stidiamo mai il nostro prossi-mo se al nostro prossimo pia-ce vivere a modo suo. Noi
siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tutta-via siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi perico-lo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quan-do attende alle proprie fac-cende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici af-fari per risolvere le sue que-stioni private. Qui ad Atene noi facciamo così.
I cittadini di Atene sono liberi
ma nel rispetto della libertà degli altri, e, sottolineatura importante, senza mai trascu-rare i pubblici affari anche quando ci si occupa dei propri e senza mai servirsi della co-sa pubblica a proprio vantag-gio. Credete forse che questa sia la condotta di noi tutti og-gi? La regola di non anteporre mai i propri affari a quelli pub-blici è forse valida sempre oggi? Pensate che si possano far rientrare tra i cittadini ideali di Atene tutti i nostri uomini pubblici?
Ci è stato insegnato di rispet-
tare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è di buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così.
E noi? Abbiamo forse dimen-
ticato l’insegnamento imparti-to ai cittadini ideali di Atene? Pensiamo che sia realmente la regola da noi il rispetto dei magistrati e delle leggi, anche quelle non scritte purché risie-dano nel sentimento universa-le del giusto e di ciò che è di buon senso?
Un uomo che non si interes-
sa allo Stato noi non lo consi-deriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in gra-
do di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudi-carla. Noi non consideriamo la discussione co-me un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frut-to della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insom-ma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ate-niese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la
fiducia in se stesso, la pron-tezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così."
Nel discorso di Pericle sono
richiamati più di una volta l’attenzione e il rispetto di cia-scuno per lo Stato. Chi non lo fa non è semplicemente inno-cuo ma inutile. Che dire allora dei tanti oggi che non sanno cogliere il loro legame con lo Stato, che ignorano che la salute dello Stato dipende da tutti, che lo Stato non è un’entità astratta ma una rete di protezione di ciascuno, di salvaguardia del territorio, co-sì aggredito, cementificato per cui un disastro naturale come a fine ottobre 2011 in Liguria ha provocato morte e distru-zione inimmaginabili; di tutela della salute; di arricchimento culturale grazie all’impegno, al contributo di tutti? Infine dipende da tutti noi il rispetto per il nostro paese all’interno della comunità internazionale. Aggiungo un’ultima conside-razione a conferma della scarsa consapevolezza che lo Stato siamo noi e che tutti noi dovremmo contribuire alla sua salvezza, ricordando la piaga dell’evasione fiscale. Eppure è ben scritto nella nostra Co-stituzione: Art. 53
Tutti sono tenuti a concorrere
alle spese pubbliche in ragio-ne della loro capacità contri-butiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progres-sività.
Infine riprendo: “Qui ad Atene
noi facciamo così”. Conside-riamo l’uso del verbo fare alla prima persona plurale e la sottolineatura del luogo ben due volte qui, ad Atene per-ché possa il messaggio esse-re ben fissato nella mente. Sarebbe un grande cambia-mento se noi tutti, uomini, donne privati e pubblici citta-dini, potessimo affermare: “Qui, in Italia, noi ci impegnia-mo a fare così”.
di GIOVANNA CORCHIA
GRAMSCI PERICLE
Numero set tantaset te - Maggio 2012 Pagina 13
LA VITA QUALE DIRITTO INVIOLABILE E INDISPONIBILE: MA È SEMPRE COSÌ?
La legislatura chiusa
con le dimissioni del go-
verno Berlusconi ha la-
sciato in eredità alla
successiva il disegno di
legge Calabrò sul testa-
mento biologico, estre-
mamente controverso. È
un ddl che ha diviso
l’opinione pubblica ita-
liana. Su questa materia
la Chiesa Valdese si è
espressa più volte in mo-
do inequivocabile. Nella
mia disamina espungo il
nostro punto di vista sul
concetto di vita e di per-
sona. "La presente leg-
ge […] riconosce e tute-
la la vita umana, quale
diritto inviolabile ed indi-
sponibile […]; riconosce
e garantisce la dignità di
ogni persona in via prio-
r i t a r i a r i s p e t t o
all’interesse della socie-
tà e alle applicazioni del-
la tecnologia e della
scienza […]": potremmo
partire proprio da qui,
dal primo articolo del
disegno di legge
(cosiddetto ddl
Calabrò) licenzia-
to al Senato nel
2009 e modificato
alla Camera nel
luglio di questo
anno, ora in atte-
sa di tornare in
Senato. Potrem-
mo partire da qui
perché il primo articolo
della legge sancisce i
principi che la fondano e
apparentemente non c’è
nulla di strano nelle pa-
role che ho riportato so-
pra.
La vita quale diritto invi-
olabile e indisponibile e
la garanzia della dignità:
asserzioni certamente
condivisibili, ma sono
sempre sottoscrivibili?
La vita è un diritto indi-
sponibile? Certamente lo
è! Non vi è costituzione,
convenzione o altro
scritto pubblico del do-
poguerra che non si basi
sul principio della invio-
labilità della vita umana
e sulla dignità della per-
sona. È altrettanto ovvio,
però, che ci si riferisce
alla vita e alla dignità
altrui, non certo alla no-
stra stessa persona, su
cui prevalgono gli altret-
tanto importanti principi
di rispetto della libertà e
delle scelte individuali.
Noi siamo quindi liberi di
disporre della nostra
vita e anche il caso più
estremo, quello del sui-
cidio, non è un reato
(qualora il tentativo non
riesca, come spesso
succede, non si incorre,
infatti, in alcuna sanzio-
ne). La nostra stessa
vita quindi non è inviola-
bile, e una legge, come il
ddl Calabrò, che intenda
porre delle regole alla
volontà della persona di
rifiutare dei trattamenti
sanitari qualora si tro-
vasse in stato di inco-
scienza, non può porre
altro preambolo se non
quello della libertà delle
scelte individuali, sanci-
to da diversi articoli del-
la nostra Costituzione.
Questa questione non è
importante solo come
norma di diritto, ma mi
coinvolge anche come
cristiana, protestante,
valdese. Viene infatti
spesso riportato come
"verità" cristiana il dirit-
to alla vita dal
momento del
c o n c e p i m e n t o
fino alla fine co-
me declinazione
di una "legge na-
turale" così co-
me lo riporta la
chiesa cattolica,
d i m e n t i c a n d o
che il mondo cri-
stiano comprende anche
le molte realtà prote-
stanti, alcune delle quali,
fra cui quella valdese e
metodista, significativa-
mente presenti in Italia.
La chiesa valdese si è
più volte espressa pro-
prio sul concetto di vita
e di persona. Come cre-
denti riteniamo che la
vita non possa definirsi
esclusivamente con un
significato biologico. Noi
non siamo un agglome-
rato di organi le cui fun-
zioni vitali vanno soste-
nute con ogni mezzo. Al
contrario, noi siamo per-
sone, dotate di capacità
relazionali con Dio e con
gli uomini e le donne che
ci circondano, siamo
persone con una biogra-
fia che si esprime nei
nostri pensieri e nelle
nostre azioni. La vita è
certamente un dono pre-
zioso di Dio, ma proprio
per questo non bisogna
ridurre il suo significato
profondo alla sua funzio-
nalità biologica. La com-
piutezza della vita per i
cristiani, infatti non è su
questa terra: Gesù ha
vinto la morte come pri-
mizia di tutte le genti, ma
nuovi cieli e nuova terra
è stata promessa a tutti
coloro che sono giustifi-
cati dalla loro fede. Non
la scienza quindi, ma la
nostra fede ci salverà
“perché Dio ha tanto a-
mato il mondo che ha
dato il suo unigenito Fi-
glio affinché chiunque
crede il lui non perisca,
ma abbia vita eterna”.
Considerare vita un cor-
po inerme attaccato ai
tubi è un atto di presun-
tuosa onnipotenza. Il
progresso della medici-
na in sé è certamente da
guardare con favore.
Non dimentichiamo che
Gesù guariva i malati!
Ma le cure mediche sono
un mezzo e non un fine,
le utilizziamo per curare
e quando possibile, gua-
rire dalle malattie, per
lenire le soffe-
renze e rendere
accettabile la
vita anche quan-
do questa ci ri-
serva dei mo-
menti difficili. La
sofferenza, il
patimento e il
dolore non por-
tano la salvezza, questo
sia chiaro. Sopportare
sofferenze atroci non ci
rende migliori di fronte a
Dio: la grazia non si con-
quista mediante un per-
corso di travaglio fisico,
ma ci è fornita gratuita-
mente mediante la fede.
Anche su questo punto,
in Italia, vediamo un'in-
fluenza culturale che
deriva dalla teologia cat-
tolica, per cui la soppor-
tazione del dolore fisico
ci eleverebbe agli occhi
del Signore: basti guar-
dare la scarsa diffusione
delle cure palliative.
Quindi ben venga la me-
dicina, le cure, le tera-
pie, ma solo come mezzo
per rendere la nostra
vita dignitosa dall’inizio
alla fine: ed è proprio qui
che si mettono a fuoco i
confini della libertà indi-
viduale. Il futuro del Re-
gno di Dio ci impegna a
seguire i suoi insegna-
menti durante la nostra
vita terrena e questo av-
viene nella piena libertà
e responsabilità
dei singoli. Agi-
re con libertà di
coscienza nell’
ambito della
responsabilità:
questa è la ba-
se dell’etica
p r o t e s t a n t e ,
che non signifi-
ca che ognuno fa ciò che
vuole, ma che ognuno di
noi risponde davanti a
Dio delle proprie deci-
sioni. Ne consegue che
la libertà del cristiano si
esprime anche nel deci-
dere di rifiutare anticipa-
tamente un trattamento
sanitario che per noi è
sovra-proporzionato,
per accettare la parte
della vita che si chiama
morte.
Non ho voluto qui parla-
re di morte “naturale”,
perché è certamente un
terreno scivoloso quello
della definizione di ciò
che di artificiale è pre-
sente nella vita umana. Il
progresso della medici-
na permette oggi spesso
di intervenire nel pro-
cesso del morire con
successo. Altre volte
invece, come nella nota
vicenda di Eluana, la so-
spensione non fa che
prolungare la funzionali-
tà degli organi: sta a noi
decidere quali sono i
confini della nostra di-
gnità del vive-
re, decidere
quale vita meri-
ti di essere vis-
suta. Nessuno
può intervenire
in nostra vece
se non desi-
gnato da noi
stessi.
Mi si permetta qui un
importante inciso: quello
che noi crediamo come
cristiani deve rimanere
nell’ambito delle nostre
azioni libere e individua-
li, non deve assoluta-
mente essere imposto
per legge! Per questo
noi ci impegniamo così
profondamente per la
difesa della laicità delle
istituzioni: sulle questio-
ni etiche che prevedono
scelte differenti per le
singole persone la liber-
tà di coscienza del legi-
slatore non deve diven-
tare imposizione di co-
scienza sui cittadini. Sul-
le questioni bioetiche noi
protestanti siamo spes-
so su posizioni distanti
dai cattolici, ma le une e
le altre non possono ri-
entrare in articoli di de-
creti legge.
Nel concludere vorrei
rimarcare che la medi-
calizzazione della morte
ha portato, dalla secon-
da metà del '900, ad al-
lontanare la morte dalla
nostra vita, con la con-
seguenza, da un lato di
fare respirare un’aria di
“immortalità”, come se
la scienza ci potesse sal-
vare sempre, e dall’altro
a non sapere più affron-
tare questo evento come
parte della vita. Fino ai
primi decenni del XX se-
colo, la peggior disgra-
zia che potesse accade-
re era di morire improv-
visamente, senza esser-
si potuti acco-
miatare dai
propri cari,
senza aver si-
stemato i pro-
pri interessi e
senza essersi
preparati al
trapasso; ora
invece, è comu-
ne sentire il desiderio di
una morte rapida e im-
provvisa. Utilizzare la
scienza e la medicina
come mezzo, significa
anche riappropriarsi del-
la vita, di tutta la vita,
dall’inizio alla fine.
*Biologa presso
l’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano.
Membro della Commissione
bioetica
di MONICA FABBRI*
Pagina 14 Numer o settan taset te - Maggi o 2012
“Gandhi e la tessitura, come
simbolo del nazionalismo in-diano e dello sviluppo dei vil-laggi”: a questi temi erano dedicati gli eventi - una mo-stra documentaria dal titolo “Gandhi e i Tessitori della Pa-ce”, un convegno e un seminario - che si sono svolti dall’8 all’11 maggio all’ Università di Pavia. La mani-festazione è stata organizzata dall’Università in collabora-zione con l’Accademia Galli e con la Fondazione Ratti di Como e ha proposto anche un omaggio al professor Giorgio Borsa, morto nel 2002 all’età di novant’anni e che è stato direttore del Centro Studi per i popoli extra-europei “Cesare Bonacossa”, facente capo al Dipartimento di Scienze politi-che e sociali dell’ Ateneo pavese. Poco prima della sua scomparsa, Borsa, che dal 1977 per trent’anni aveva insegnato Storia politica e di-plomatica all’Università di Pavia, aveva pubblicato il decimo volume di Asia Major, la pubblicazione del centro studi Cesare Bonacossa ,intitolato “Trasformazioni poli-tico-istituzionali dell'Asia nell' era di Bush”. La modernizza-zione dell’Asia Orientale sotto l’influenza dell’Occidente era la sua specializzazione, e di questo tipo di studi era stato in Italia l’iniziatore: nel 2000 ne aveva pubblicato un pon-
deroso consuntivo, in inglese, sulla rivista “Il Politico”, organo della facoltà di Scien-ze politiche di Pavia.
La mostra “Gandhi e i tessito-
ri della Pace” si è svolta pres-so l’aula Disegno dell’ Università di Pavia e ha intro-dotto la filosofia morale di Gandhi spiegando l’atten-zione che il Mahatma ha sem-pre dedicato alla filatura e alla tessitura a mano del cotone khadi trasformandolo in un simbolo del nazionalismo in-diano e dello sviluppo dei vil-laggi indiani. La mostra era divisa in due sezioni; la prima ha carattere storico e si è concentrata sulla figura di Gandhi proponendo una serie di fotografie d’epoca, mentre la seconda ha guardato alla odierna produzione di khadi con l’esposizione di manufatti di alcune cooperative nella speranza di stabilire un con-tatto diretto fra gli artigiani se-lezionati e gli imprenditori ita-liani del settore.
La prima parte della mostra
ha ripercorso la vita e l’azione del Mahatma sottolineando il significato simbolico, che Gandhi attribuiva al vestiario: si spiega la decisione di adot-tare il dhoti, l’abbigliamento dei più poveri, che gli permise di creare una cultura patriotti-ca dai forti contenuti morali, comprensibili sia per l’élite borghese sia per le masse
analfabetizzate. Si racconta, i-noltre, come attraverso l’en-fasi sul filatoio e sulla filatura a mano Gandhi espresse una più ampia con-cezione politica, che comprende-va nella lotta per l’indipendenza anche il rifiuto del materialismo occidentale e la critica degli ec-cessi della mo-dernità. Questo rientrava in una visione ideale di Gandhi, che mi-ra all’impegno quotidiano e di-sinteressato vol-to al benessere degli altri sottoli-neando l’aspetto morale della po-
litica. Predicata
all’inizio del Nove-cento, la filosofia gandhiana è certa-mente molto attuale. Ancora oggi la filatura e la tessitura a mano di khadi e di malkha (versione moderna e semi-meccanizzata del tessuto na-zionale) esprimono gli ideali gandhiani puntando a rendere partecipi allo sviluppo econo-mico anche i più poveri. In particolare nel procedimento del malkha l’intera catena di produzione del tessuto di cotone si basa sul villaggio, sperimentando la possibilità per i coltivatori di cotone grez-zo e per i tessitori di benefi-ciare gli uni degli altri. Attra-verso questo processo khadi e malkha si vuole anche inter-venire nel tessuto sociale mi-gliorando le infrastrutture lo-cali, ad esempio favorendo la costruzione di scuole primarie e secondarie e di strutture sanitarie, per distribuire in maniera più equa le risorse fra zone rurali e zone urbane. Il rigore e la dignità della po-vertà predicati da Gandhi, che ancora ispirano quanti pratica-no la tessitura e la filatura a mano del khadi, non escludo-no l’eleganza. La produzione contemporanea, prevalente-mente bianca, è variegata e raffinata. I tessuti, che usano numerosi motivi (anche con righe o quadretti), hanno spessori diversi e in alcuni casi si presentano come veli rarefatti, testimoniano la crea-
tività dell’alto artigianato tessile indiano. Nonostante ciò, nell’India odierna, lanciata in una crescita accelerata, che pure ha migliorato le con-dizioni di vita di un’ampia percentuale della popolazio-ne, i filatori e i tessitori vivono in condizioni di estrema pre-carietà, dovuta a varie logiche di carattere economico. Arti-giani, che creano tessuti di squisita fattura, sono spesso costretti a cercare altro lavoro, necessario per la loro soprav-vivenza. Secondo le statisti-che nell’ Andhra Pradesh, regione famosa per la città di Hyderabad, centro della Infor-mation Terchnology, l’88% delle famiglie legate al settore dell’alto artigianato tessile vive al di sotto della linea di povertà e con forti indebita-menti. Una maggiore visibilità di questo artigianato in Italia, dove il settore della moda è vitale, può migliorare enorme-mente le condizioni di vita di
filatori e tessitori, se si crea un link fra l’alto artigianato khadi e l’ imprendi-toria italiana del settore.
La mostra “Gandhi e i
Tessitori della Pace” è stata accompagnata da alcuni e-venti collaterali. L’8 maggio, presso l’Aula Scarpa dell’ Università, si è tenuto il seminario “Gandhi and Khadi: Nationalism and Develo-pment”: alcuni aspetti del di-scorso gandhiano sul nazio-nalismo e lo sviluppo vengono discussi da personalità acca-demiche indiane e inglesi. Dopo il seminario, sempre in Aula Scarpa, si è svolta la ta-vola rotonda “India vs Italy: Styles and Contamination”, che ha esplorato nuove forme di dialogo fra artigianato india-no e italiano privilegiando un discorso ad ampio spettro e sottolineando le influenze re-ciproche. Ciò significa innan-zitutto coinvolgere nel dibattito quanti già operano nel settore in India e in Italia, ma anche avvicinare in Italia quanti trag-gono ispirazione da aspetti diversi del discorso gandhiano elaborandolo in maniera crea-tività senza ancora operare in India. Ha introdotto la tavola rotonda Mukulika Banerjee che, oltre a insegnare antro-pologia alla London School of Economics, è autrice di un interessante volume su sari e sporadicamente appare come attrice in film bengalesi
d’autore. Sempre l’8 maggio
il Direttore del Centro Studi Popoli Extra-europei “Cesare Bonacossa” di Pavia e Preside della Facoltà di Scienze Politiche Silvio Beret-ta ha inaugurato la mostra “Gandhi e i Tessitori della pa-ce - Un omaggio a Giorgio Borsa” insieme all’Ambascia-tore dell’India Deba-brata Saha e a Mushirul Hashan, Direttore Generale degli Ar-chivi dell’India. La mostra “Gandhi e i Tessitori della Pa-ce” è stata curata da Uzra Bilgrami (Malkha Marketing Trust, Hyderabad), Simonetta Casci (Università di Pavia(, Purnima Rai (Delhi Crafts Council, New Delhi) e Rossa-na Vittani (IED Milano). Nel Comitato scientifico sedevano Raunak Ahmad (Indira Gan-dhi National Open University-New Delhi), Sailaja Gullapalli (Gandhi Smriti and Darshan Samiti New Delhi), Laura Maino (Università di Pavia( e Stefania Vilardo (U-niversità
di Pavia).
L’allestimento della
mostra è stato curato dall’architetto Fran-cesco Ardizzone, dell’Università di Pa-via. Le fotografie so-no state concesse dal National Gandhi Museum and Library di New Delhi; da Gandhi Smriti and Darshan Samiti di New Delhi e dal Ne-hru Memorial and
Museum Library sempre della capitale indiana. Sponsor del-la mostra sono stati il Centro Studi “Cesare Bonacossa”, il Collegio Del Maino, il Conso-lato Generale dell’India a Mi-lano, il Master in Cooperation and Development (IUSS e Università di Pavia, il Lions Club International distretto 108 IB 3.
Il 9 maggio in Aula Foscolo si
è tenuto il convegno “ Cittadi-nanza umanitaria … Premere per il dialogo”. Sono interve-nuti il Rettore dell’Università di Pavia Angiolino Stella, il Go-vernatore distrettuale del Lions Club Adriana Cortinovis e il Past direttore internazio-nale Giovanni Rigone. Il con-vegno è stato aperto da Gian-ni Vaggi, direttore del Master Università-IUSS in Coopera-zione allo sviluppo. Si sono quindi svolte le relazioni di Stefano Zamagni, docente dell’Università di Bologna, sul tema “La giustizia benevolen-te e il neocontrattualismo”, e di Salvatore Veca, vicediretto-re dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, sul tema “Un’idea di giustizia sen-za frontiere”. Nelle conclusioni Gianni Vaggi ha tratteggiato in particolare la figura di Amar-tya Sen, l’indiano Premio No-bel dell’Economia, autore tra l’altro del libro “L’idea di giusti-zia”.
MANIFESTAZIONE ORGANIZZATA DALL’UNIVERSITÀ IN OMAGGIO A GIORGIO BORSA
di SIMONETTA CASCI
Numer o settan taset te - Maggi o 2012 Pagina 15
Parafrasando Dumas,
grazie alla “vecchia”
amica Wanda Grillo
(dopo Rabat ora Diret-
trice dell’Istituto Italia-
no di Cultura in Libano)
e all’attuale Ambascia-
tore d’Italia Giuseppe
Morabito, nuovo amico
della nostra Fondazio-
ne, siamo tornati nella
città un tempo perla del
Mediterraneo, ora qua-
si irriconoscibile per la
selva di grattacieli che
hanno sostituito gli an-
tichi caratteristici palaz-
zi. Malata di cemento,
quasi senza ormai giar-
dini, circondata da ver-
di colline ahimè urba-
nizzate come la nostra
Liguria.
Ospiti dell’amico Ge-
orge Asseyli e del suo
Museo della seta, anti-
co palazzo in pietra a
Bsous, abbiamo allesti-
to in due grandi sale
dell’antica manifattura
serica due collezioni
delle sete di Sartirana.
Quella di frammenti del
XVII e XVIII secolo
conservati e montati su
pannello ad Anversa da
Jacqueline Dumortier
De Bolle (in origine pa-
ramenti ecclesiali e tes-
suti liturgici) per rac-
contare una storia della
seta italiana di un glo-
rioso passato. Accanto
quella invece recente
dei setifici che hanno
offerto preziosi ed ine-
guagliabili materiali ai
nostri sarti più famosi a
partire dagli anni ‘50
del Novecento.
Invito accettato con
piacere particolare per-
ché abbiamo potuto
festeggiare a Beirut il
12° compleanno della
nostra collezione di mo-
da, nata proprio a Bei-
rut, con un allestimento
improvvisato per una
mostra richiesta
dall’allora Ambasciatore
d’Italia Giuseppe Cassi-
ni. La nostra Fondazio-
ne nel 2000 non aveva
ancora un settore dedi-
cato alla moda, ma alla
precisa richiesta
dell’amico Ambasciato-
re non si poteva oppor-
re un imbarazzato rifiu-
to. Che fare allora? Pre-
sto detto.
Dieci Armani e altret-
tanti Ferré dal guarda-
roba di mia moglie, die-
ci Versace dagli armadi
dell’amica neurologa
Mariella, compagna di
studi medici, il Valenti-
no da sposa di Antonel-
la Griziotti; ad essi ag-
giungemmo altri abiti
storici di mia madre e
di mia suocera (ancora
Valentino, Balestra, Ro-
berta di Camerino e
Ken Scott).
Così la collezione im-
provvisata partì per
Beirut, dove il nostro
“pronto da indossare”
ebbe un tale successo
che ci fece nascere il
sospetto di “aver scala-
to il Cervino” per co-
struire le altre collezio-
ni, mentre con più faci-
lità avremmo potuto
allestire una colorata,
affascinante ed apprez-
zata storia della moda
italiana. Decidemmo di
affrontare la scommes-
sa con l’aiuto di Teddy
Cappello, moglie
dell’Ambasciatore
d’Italia in Slovenia, do-
ve a Lubiana fummo
chiamati nel 2001 a
una seconda prova. La
sfida era trovare abiti
di alta moda, storici
quindi e di grande im-
patto scenografico, a-
datti alle sale del Ca-
stello di Tivoli.
Teddy Cappello fu la
nostra madrina perché
ci introdusse non solo
nelle case di sue ami-
che, nobildonne roma-
ne (ricordo un pellegri-
naggio fra palazzi stori-
ci e magnifiche ville
sull’Appia antica), ma
anche negli archivi sto-
rici di Roberto Capucci,
delle sorelle Fontana, di
Irene Galitzine e di
Gattinoni. Alla fine di
una settimana di que-
stue riuscii a caricare
sulla mia capiente Re-
nault Espace una ses-
santina di capolavori di
stoffa che fecero gran-
de la mostra a Lubiana
e che in buona parte
rimasero in prestito a
costituire lo zoccolo du-
ro della nuova collezio-
ne. Dopo Roma fu la
volta di Firenze, poiché
ci mancavano Gherardi-
ni, Gucci e Pucci, poi
finalmente Milano.
Se Armani non ci offrì
mai un contributo, ge-
nerosissimi invece furo-
no Santo Versace e
Raffaella Curiel, che ci
aprirono volentieri le
ante dei loro archivi
storici. Egualmente Rita
Airaghi per Ferré. Ap-
prodammo quindi al
mercato del vintage, a
Belgioioso ma non solo,
per arricchire in modo
progressivo e continuo i
nostri armadi di nomi
preziosi quali Veneziani
e Schubert, Pirovano,
Biki, Mila Schon e Mo-
schino. La cosa inco-
minciava a farsi seria e
da allora è stato tutto
un red carpet con pre-
sentazioni, mostre e
sfilate in forse ormai 20
Paesi. Allestimenti in
luoghi pazzeschi per
bellezza e prestigio.
Palazzi Reali come a
Bucarest e Tirana, ex
conventi come a Zaga-
bria, Musei di arte con-
temporanea come a
Riyadh, Tunisi e Lima,
come anche in palazzi
storici o moderni sedi
dei nostri Istituti di Cul-
tura. Ricordi straordi-
nari soprattutto delle
sfilate organizzate sia
con modelle professio-
niste che con le allieve
dei corsi di lingua degli
Istituti IIC. Ragazze e
ragazzi da quando la
collezione cercò di do-
cumentare anche la
moda maschile, pre-
sentata per la prima
volta allo stadio del
CSKA di Sofia, dove
anche molti atleti si
prestarono come mo-
delli per una notte.
Non abbiamo però
mai disdegnato i templi
dello shopping del lus-
so, come in Kuwait, a
Istanbul e recentemen-
te al Central di Ban-
gkok (nuovo proprieta-
rio di Rinascente), o
teatri come a Salonicco
ed Ankara. Ricordi rin-
verditi dalla magica at-
mosfera dello splendido
complesso di George
Asseyli, dove le nostre
sete, tra terrazze, per-
golati e profumi di gel-
somino, saranno ospiti
sino a novembre. Pre-
parandosi a una nuova
tappa, non lontana, in-
vernale, alla Royal Gal-
lery di Amman. Ci sarà
la Sua Maestà la regina
Rania? Dovremo cerca-
re di necessità, in suo
onore, qualche Armani
da sera. A meno di
chiederlo… a Lei!
Il ritorno a Beirut è
stato anche occasione
per nuovi progetti. In
novembre esporremo a
Villa Audi, tra tesori di
mosaici di epoca roma-
na, alcuni set dei nostri
argenti più belli. Il ser-
vizio da tavola di Olga
Finzi per lo Scia di Per-
sia Reza Palhavi, servizi
da tè e da caffè, una
collezione di brocche, di
vasi e candelieri, firma-
ti dai grandi autori del
nostro design.
Nella nuova galleria di
Simone Kosremelli, di-
segnata con il suo rigo-
re di architetto famoso
e appena inaugurata
con la sua prima colle-
zione di gioielli, po-
tremmo invece propor-
re i monili d’argento
degli architetti per San
Lorenzo, di Alba Lisca,
Paola Crema e con
quelli di Bice D’Errico,
che anni or sono tenne
un frequentato semina-
rio alla Fondazione Ha-
riri di Saida.
Dovremo aspettare il
2014 per un ritorno al
Museo Soursok con la
nostra collezione di
grafica, mentre già in
questo prossimo giugno
Mario Maioli sarà prota-
gonista al Palazzo Une-
sco di una mostra con
le immagini del suo la-
voro per il Gruppo Fiat
Auto.
Il felice incontro con
Mimo Seman, in Libano
portabandiera del de-
sign dell’arredo italiano,
ha innescato un altro
progetto per tempi fu-
turi, quello di portare a
Beirut la nostra colle-
zione dressing home di
mobili e complementi di
arredo, magari nelle
sale di Alba, a Beirut
quello che a Milano è la
Triennale. Proficuo vi-
aggio, quindi, per riac-
cendere fuochi sopiti e
riannodare preziose
collaborazioni.
FONDAZIONE SARTIRANA
ARTE
di GIORGIO FORNI
Pagina 1 6 Numer o settan taset te - Maggi o 2012
1928-2012
FRANCESCO GUCCINI
DIARIO DELLE COSE
PERDUTE
MONDADORI
C’era una volta …
già, cosa c’era una volta? Con un poco
di nostalgia, ma soprattutto con la po-
esia e l’ironia della sua prosa, France-
sco Guccini, cantautore, poeta, scritto-
re, posa il suo sguardo sornione su
oggetti, situazioni, emozioni di un pas-
sato che è di ciascuno di noi, ma che
rischia di andare perduto, sepolto nella
soffitta del tempo insieme al telefono
di bachelite e alla pompetta del Flit.
Una volta, c’era la banana: non il frut-
to amato dai bambini, bensì
l’acconciatura arrotolata che proprio i
bimbi subivano e detestavano ma che
veniva considerata imprescindibile dai
loro genitori. I quali, per bere un buon
espresso, dovevano entrare in un bar
e chiedere un “caffè caffè”, altrimenti
si sarebbero trovati a sorbire un caffè
d’orzo. Un viaggio nella vita di ieri che
si legge come un romanzo: per scopri-
re che l’archeologia “vicina” di noi
stessi ci commuove, ci diverte, parla di
come siamo diventati.
ALESSANDRO BARICCO
TRE VOLTE ALL’ALBA
FELTRINELLI
Nell’ultimo romanzo che ha scritto, Mr
Gwyn, si accenna a un certo punto a
un piccolo libro scritto da un angloin-
diano, Akash Narayan, e intitolato Tre
volte all’alba. Si tratta naturalmente di
un libro immaginario, ma nelle imma-
ginarie vicende là raccontate esso ri-
veste un ruolo tutt’altro che seconda-
rio. Il fatto è che mentre Baricco scri-
veva quelle pagine gli è venuta voglia
di scrivere anche quel piccolo libro, un
po’ per dare un lieve e lontano sequel
a Mr Gwyn e un po’
per il piacere puro di
inseguire una certa
idea che aveva in
testa. Così, racconta
Baricco, “finito Gwyn,
mi sono messo a scrivere Tre volte
all’alba, cosa che ho fatto con grande
diletto”. “Venga, le ho detto. Perché?
Guardi fuori, è già l’alba. E allora? E’
ora che lei torni a casa a dormire. Co-
sa c’entra che ora è? Sono mica una
bambina. Non è questione di ore, è
una questione di luce. Che cavolo di-
ce? È la luce giusta per tornare a casa,
è fatta apposta per quello. La luce?
Non c’è luce migliore per sentirsi puliti.
Andiamo”.
MASSIMO GRAMELLINI
FAI BEI SOGNI
LONGANESI
È la storia di un segreto celato in una
busta per quarant’anni. La storia di un
bambino, e poi di un adulto, che impa-
rerà ad affrontare il dolore più grande,
la perdita della mamma, e il mostro
più insidioso: il timore di vivere. Fai
bei sogni è dedicato a quelli che nella
vita hanno perso qualcosa. Un amore,
un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di
accettare la realtà, finiscono per smar-
rire sé stessi. Come il protagonista di
questo romanzo. Uno che cammina
sulle punte dei piedi e a testa bassa
perché il cielo lo spaventa, e anche la
terra. Fai bei sogni è soprattutto un
libro sulla verità e sulla paura di cono-
scerla. Immergendosi nella sofferenza
e superandola, ci ricorda come sia
sempre possibile buttarsi alle spalle la
sfiducia per andare al di là dei nostri
limiti. Massimo Gramellini ha raccolto
gli slanci e le ferite di una vita priva
del suo appiglio più solido. Una lotta
incessante contro la solitudine.
della Chiesa Valdese