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1 PIC - DOSSIER NELLE EMOZIONI COME “FUNZIONIAMO”? a cura di Gabriella Ciampi - psicologa psicoterapeuta Cerchiamo di conoscere le nostre emozioni per poterle vivere in modo equilibrato e cristiano 2012 - 2013 Fascicolo non commerciabile, senza fini di lucro, scritto per il solo studio personale a cura della "Piccola Iniziativa Cristiana” – Bollettino “Il Ritorno” - e-mail: [email protected] - sito: www.ilritorno.it

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PIC - DOSSIER

NELLE EMOZIONI COME “FUNZIONIAMO”?

a cura di Gabriella Ciampi - psicologa psicoterapeuta

Cerchiamo di conoscere le nostre emozioni

per poterle vivere in modo equilibrato e cristiano

2012 - 2013

Fascicolo non commerciabile, senza fini di lucro, scritto per il solo studio personale a cura della "Piccola Iniziativa Cristiana” – Bollettino “Il Ritorno” - e-mail: [email protected] - sito: www.ilritorno.it

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INDICE

A CONTATTO CON LE NOSTRE EMOZIONI introduzione …………………………………….pag. 2

FIG.1- IL CERCHIO DELLE EMOZIONI ……………………………………………………….…pag. 4

Approfondimento n. 2 - L’INTELLIGENZA EMOTIVA ………………………………….pag.5 LE EMOZIONI L’inizio di un percorso articolato sulle nostre emozioni ………………pag. 7 LA RABBIA - Percorso nelle nostre emozioni / I ………………………………………………….pag. 7

Approfondimento n.1 – RABBIA: QUALI EFFETTI FISICI PRODUCE? Cosa succede quando mi arrabbio? ………………………………………………………………………………Pag. 9

All.1/B PERSONALITA’ DI ”TIPO A“ E DI ”TIPO B“ ………………………..pag.11

Approfondimento n.2 – COSA SCATTA NELLA NOSTRA PSICHE - Come mi fa sentire la rabbia? ………………………………………………………………………………………………….pag.12

Approfondimento n.3 – COME GESTIRE LA RABBIA Cosa posso fare per non farmi sopraffare? …………………………………………………………………………………………….Pag.13

Approfondimento n.4 – COME POSSO INSEGNARE AD UN BAMBINO A GESTIRE LA SUA RABBIA? (allenamento emotivo con i bambini) ……………………………….pag.15 LA GIOIA - Percorso nelle nostre emozioni / II …………………………………………………pag.18

Approfondimento n.1 - Cosa dice M. Csikszentmihalyi circa la felicità ……..pag.21

Approfondimento n.2 - IL SORRISO E IL RIDERE ……………………………………..pag.22 LA TRISTEZZA - Percorso nelle nostre emozioni / III …………………………………………..pag.24

Approfondimento n. 1 - IL RIMUGINìO …………………………………………………...pag.27

Approfondimento n. 2 - MALINCONIA E MANCANZA ……………………………pag.28

Approfondimento n. 3 - GLI EMO ………………………………………………………….pag.29

Approfondimento n.4 - DAL BABY-BLUES ALLA DEPRESSIONE P.PARTUM pag.30 L’IMBARAZZO - Percorso nelle nostre emozioni / IV ………………………………………..pag.32

Approfondimento n.1 - IL LINGUAGGIO DEL CORPO ……………………………….pag.34

Approfondimento n. 2 - FACCIO IL TIFO PER ME ……………………………………..pag.35 LA PAURA - Percorso nelle nostre emozioni / V ………………………………………………..pag.37

Approfondimento n.1 - Il dio Pan e GLI ATTACCHI DI PANICO ……………..PAG.39

Approfondimento n.2 - LE FOBIE ……………………………………………………………pag.41 L’AMAREZZA - Percorso nelle nostre emozioni/VI …………………………………………..pag.43

Approfondimento n. 1 - QUANDO L’AMAREZZA SI TRASFORMA IN MALATTIA ………………………………………………………………………………………………………………..pag.45

L’ORGOGLIO - Percorso nelle nostre emozioni / VII …………………………………………pag.46

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A CONTATTO CON LE NOSTRE EMOZIONI

Introduzione

["Emozioni" di Gabriella Ciampi ]

“…ogni essere umano è un buon terapista… ogni volta che uno è cortese, decoroso,

psicologicamente democratico, affettuoso, caldo e aiuta gli altri, costituisce una forza

psicoterapeutica per quanto piccola possa essere.” [A. H. Maslow 1973]

Disagio per le normali emozioni (vedi fig.1 - IL CERCHIO DELLE EMOZIONI)

Spesso quando si parla delle emozioni si tende a farlo con un tono di fastidio e imbarazzo, come fossero ospiti sgraditi nella nostra casa, indesiderati, o accessori scomodi ma inevitabili. Penso a quelle situazioni in cui nostro malgrado siamo arrossiti o siamo scoppiati a piangere, o peggio abbiamo perso il controllo urlando per la rabbia e insultando l’interlocutore; così come quando ci commuoviamo davanti ad una scena tenera sentimentale. Si tratta di situazioni in cui ci siamo sentiti “stupidi”, infantili, situazioni che riviste con il senno di poi sembravano gestibili diversamente, in modo più “adulto”.

Ma perché ci spaventano le emozioni?

Sembra questo l’aspetto più sgradevole delle emozioni, questo farci sentire bambini, incapaci e insicuri: provare una forte emozione ci spaventa perché ci fa tornare piccoli, ci fa sentire in balia di forti sensazioni, anche fisiche, che non possiamo controllare e quindi nascondere. Ma c’è di più: provare una forte emozione ci fa perdere il controllo su noi stessi, cosa che ci scatena la paura di disperderci, di disintegrarci, di scioglierci. Tradotto significa: paura di morire.

Eppure cerchiamo emozioni estreme

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Eppure accanto a questo aspetto e nonostante ciò, negli ultimi anni oltre alle varie forme di dipendenza vecchie (alcool, droga) e nuove (internet, gioco d’azzardo) si è andata delineando una nuova preoccupante tendenza soprattutto tra i giovani, quella della ricerca di emozioni estreme. L’espressione di sensation seeking (letteralmente “ricerca di sensazione”)[1] si riferisce proprio alla ricerca di intense emozioni, di esperienze sempre diverse e sempre più eccitanti, che spaziano dall’uso di droghe ad attività sportive estreme, dai viaggi esotici a stili di vita stravaganti e comportamenti disinibiti (la velocità, il salto nel vuoto, ecc.). I media ci raccontano spesso di nuove mode ed episodi di cronaca in cui è evidente la ricerca patologica di forti sensazioni. Tendenze nuove e pericolose tra gli adolescenti alla ricerca di un attimo di pura adrenalina, come il balconing – gettarsi dal balcone su una piscina sottostante- , oppure il planking –cioè sdraiarsi in bilico su un luogo pericoloso per es. una ringhiera, un cornicione, i binari, ecc - e farsi fotografare, situazioni che hanno portato anche ad esiti funesti. La ricerca dell’emozione estrema non è solo dell’adolescente ma sappiamo che è diffusa anche tra gli adulti, non solo nell’ambito sportivo ma anche in quello più personale ed intimo delle relazioni sessuali.

A volte vorremmo una diversa identità Le esperienze di ebbrezza e di vertigine fanno parte da sempre di ogni società . Ciò che si cerca è di modificare lo stato di coscienza abituale per avere una diversa esperienza di sé quando i propri sentimenti, le proprie emozioni e obiettivi appaiono opachi, spenti, grigi e smorti. Si cerca così di costruirsi una diversa identità (quella che si possiede è percepita troppo sfumata e noiosa) nella ricerca di una felicità istantanea. E’ un modo di lenire ansie e frustrazioni quando il disagio psicologico sembra ingestibile e inascoltato (stati depressivi, disturbi del comportamento alimentare – anoressia, bulimia – problemi familiari e scolastici, ecc). Qui vediamo come ci siamo spostati su un piano diverso, non più costruttivista-positivo ma patologico-negativo. Ci sentiamo limitati, imperfetti e non sopportiamo questa sensazione; sentiamo vaghe “mancanze” incolmabili, desideri che devono essere necessariamente soddisfatti. Non sopportiamo i vuoti, i silenzi, l’ attesa (argomento questo della non tolleranza silenzi e dell’attesa che spero riprenderemo presto).

Sviluppare tolleranza alla frustrazione Sentirsi interiormente integrato e in armonia vuole dire anche sviluppare una buona tolleranza alla frustrazione, concetto alieno oggi e quasi sconosciuto alla maggioranza, motivo per cui qualcuno arriva a sentirsi soffocato dalle paure e dall’ansia (sviluppando sintomi depressivi, attacchi di panico, fobie) o arriva a cercare “lo sballo” o “lo stare sul bordo” rischiando la vita.

E se provassimo a cambiare? (Proposta di un percorso per la maturità) Alla luce di queste considerazioni, ciò che noi desideriamo fortemente e che qui vogliamo suggerire, è un percorso di crescita personale intrapsichico, un percorso che passa nelle zone più profonde dell’essere, e che possa portare alla maturità affettiva[2] che significa conoscenza e accettazione della propria natura ma con in più una capacità di

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elaborazione e gestione di sé tale da incrementare e ottimizzare le proprie risorse, qualità, talenti, potenzialità. E’ questo che ci può portare all’equilibrio emotivo, al controllo intelligente e consapevole delle emozioni non attraverso la repressione coatta ma armonizzando l’emotività con la razionalità e con la fede. (Vedi approfondimento n.2- INTELLIGENZA EMOTIVA)

[1] MARGINALIA. PSICOLOGIA DI COMUNITA’ E RICERCHE DI INTERVENTO SUL DISAGIO. A cura di G. Lavanco , C. Novara FrancoAngeli 2005

[2] PSICOLOGIA E VITA SPIRITUALE di Benito Goya (EDB 1999)

FIG.1- IL CERCHIO DELLE EMOZIONI (allegato a: A CONTATTO CON LE NOSTRE EMOZIONI)

Normalmente i teorici distinguono tra emozioni fondamentali o primarie, quelle che

condividiamo con gli altri animali, ed emozioni non fondamentali o secondarie risultato

della fusione delle precedenti. Per sintetizzare possiamo considerare lo schema qui sotto[1]

in cui al centro sono collocate le emozioni primarie (sorpresa, paura, accettazione, gioia,

aspettativa, collera, disgusto, tristezza) e nell’anello più esterno quelle secondarie

(spavento, sottomissione, amore, ottimismo, aggressività, disprezzo, rimorso, delusione)

dove per esempio vediamo che la gioia unita all’aspettativa crea l’ottimismo, la tristezza

unita alla sorpresa genera il senso di delusione, e così via. Le emozioni di ordine superiore,

essendo ritenute funzioni cognitive, vengono considerate esclusivamente umane. 1] IL CERCHIO DELLE EMOZIONI di Robert Plutchik (1928-2006)

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Approfondimento n. 2 - L’INTELLIGENZA EMOTIVA - allegato a: "A CONTATTO CON LE

NOSTRE EMOZIONI")

Le emozioni esistono in noi a livello conscio e a livello inconscio: dal punto di vista

fisiologico l’emozione nasce prima a livello inconscio, scatenando le varie reazioni fisiche

(respiro corto, tachicardia, rossore, ecc.), e poi arriva alla consapevolezza quando viene

registrata dal cervello.

Teniamo presente che può accadere anche il contrario: il pensiero può scatenare

un’emozione. Questo stimola molto la nostra riflessione perché possiamo scegliere cosa

pensare!

Esiste una “competenza emozionale” che ognuno può acquisire e che passa attraverso la

CONSAPEVOLEZZA di ciò che si sta provando emotivamente. Il passaggio fondamentale è

capire il sentimento che sostiene un’emozione che ci investe, dare un nome alle emozioni,

e non lasciare invece che ci travolgano rimanendo passivi e ignari[1].

Se per esempio sento salire la rabbia e la collera, anziché assecondarle e attaccare

l’oggetto della mia ira sotto la spinta della furia aggressiva, posso pensare: “Sto provando

una forte collera”; questo pensiero causerà lo spostamento dell’attività mentale sui circuiti

della neocorteccia[2] avviando in me l’autocontrollo e attenuando l’intensità istintiva.

Non dobbiamo pensare che l’autocontrollo sia repressione dei sentimenti: si tratta di un

piano diverso dove io riconosco ed accetto quello che sento e provo e questa

autoconsapevolezza, nel momento stesso in cui la formulo dentro di me, mi regala un

maggior grado di libertà e maggiori possibilità di azione che sconfinano dal puro istinto e

dalla pulsionalità, il cui obiettivo è soltanto sfogarsi, e mi portano a poter scegliere come

esprimere ciò che provo, quale modalità usare.

Tutto ciò ci serve a capire che le emozioni non sono così completamente fuori dalla nostra

gestione, come sono portati a credere coloro che per la propria storia evolutiva e per il

proprio stile di personalità si sentono del tutto impotenti di fronte al proprio e altrui

mondo affettivo. Esiste senz’altro un percorso di crescita e maturazione emotiva-psichica

innanzi tutto cronologica e fisiologica che deve fare il suo corso, ma poi esiste anche

un’altra strada, quella più consapevole e frutto di una scelta, che vede la persona

impegnarsi nella conoscenza e nell’accettazione di sé, come diceva Socrate nel “conosci te

stesso”[3].

Le emozioni, la nostra parte emotiva, è per noi una ricchezza, una sorgente di idee e

sentimenti, una sorgente di energia che dobbiamo solo imparare a conoscere e ad usare.

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Tutta la nostra esistenza è intrisa di emozioni: il lavoro, i rapporti con le persone care, le

relazioni di amicizia, la nostra vita spirituale.

E’ importante raggiungere l’autoconsapevolezza delle proprie reazioni e imparare a

canalizzare quest’energia che ne viene verso i propri ideali, adoperando quindi sia la mente

razionale sia la mente emotiva, così solo possiamo raggiungere una buona integrazione di

questi due aspetti umani e vivere con un senso di stabilità interna e di equilibrio.

[1] Daniel Goleman Intelligenza emotiva ediz. Rizzoli

[2] La neocorteccia è la parte del cervello di formazione più recente e si ritiene sia la sede delle funzioni dell’ apprendimento, della memoria e del linguaggio.

[3] “Conosci te stesso” era il monito scolpito sull’architrave del tempio di Delfi a ricordare una verità basilare che ogni uomo, desideroso di distinguersi in mezzo al tutto il creato, deve tenere presente come regola minima di vita.

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LE EMOZIONI

L’inizio di un percorso articolato sulle nostre emozioni

Voglio proporvi un percorso: entrare nel “cerchio delle emozioni” (IL CERCHIO DELLE

EMOZIONI- ALL.1) e passo passo, una ad una, visitare alcune emozioni, conoscere come si

esprimono, capire come crescono dentro di noi, imparare a gestirle e vedere come

possiamo trasmettere ai nostri figli, ai nostri bambini (a scuola, in famiglia, nei luoghi di

incontro abituali) una “competenza emotiva” che li porti a diventare adulti consapevoli ed

equilibrati.

LA RABBIA

Percorso nelle nostre emozioni / I

Comincerei con la RABBIA, l’emozione secondo me più complessa, la più condizionante ed

energica, quella che a volte si cova dentro per anni e anni, o quella che talvolta sonnecchia

dentro di noi senza farsi sentire, oppure quella che si nasconde spesso dietro a certe azioni

violente da parte di persone “insospettabili” o depresse (infatti c’è una profonda relazione

tra la depressione e la rabbia, come vedremo in seguito).

Quella che segue è un’ efficace e toccante descrizione dello stato d’animo che può

generare la rabbia covata dentro per tanto tempo.

(…) non pedalavo con calma ma con rabbia. Il fanale era ancora spento, ma la dinamo girava

ugualmente. Non caricava la luce ma l’oscurità del mio cuore. A ogni giro della catena, quel dolore

confuso, quel senso vago di umiliazione si trasformavano in odio. Un odio puro, trasparente e

indistruttibile, come il carbonio nella composizione del diamante. Salendo alla bocca, l’odio si trasformava

in parole. Sfrecciavo lungo la provinciale e gridavo. “Andate tutti all’inferno!(…)”. Ecco, il cuore aveva

toccato le costole, vi era rimasto impigliato come un palloncino tra i rami di un albero. Per farlo scoppiare

sarebbe bastato un minuscolo movimento. Le costole erano come coltelli. Respiravo e si conficcavano

nella carne. Più respiravo, più il dolore diventava lancinante. Su un ventricolo forse si era formato un

ascesso e adesso, finalmente, stava spurgando.” (Tratto dal libro “Rispondimi” di Susanna Tamaro).

Come potete notare qui ci sono tanti concetti importanti, alcuni dei quali espressi in

metafora: “la dinamo carica non la luce ma l’oscurità del cuore”, “ ad ogni giro il dolore

confuso, il senso vago di umiliazione si trasformavano in odio”, “ l’odio si trasformava in

parole”, “come un palloncino tra i rami, per farlo scoppiare sarebbe bastato un minuscolo

movimento”.

La rabbia conservata nel cuore porta oscurità, buio, dolore informe e indefinito. Diventa

qualcosa di autonomo, staccato quasi dal motivo originario, si autoalimenta e si moltiplica

da sola. Spesso ne esce un po’ con le parole dure rivolte ad una persona qualunque

incrociata per strada, con insulti esagerati per una piccola scortesia di uno sconosciuto,

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verso un automobilista che ci sorpassa malamente, per una spinta distratta sul

marciapiede a cui reagiamo come se venisse colpita la nostra delicatezza incompresa.

Quel palloncino (il cuore pieno di rabbia) intanto cresce ad ogni gesto così mal

interpretato, si gonfia un po’ più ad ogni “ingiustizia” che sentiamo dentro, e potrebbe

scoppiare da un momento all’altro, non sappiamo per quale azione, in quale istante, con

quale persona, ma è pronto per scoppiare al tocco della punta di uno spillo.

Possiamo fare qualcosa per evitare che la nostra collera rovini la nostra vita. Intanto

cominciamo a conoscere questa complessa emozione, quello che genera in noi a livello

fisico, quello che ci scatena interiormente.

· Quali effetti ha la rabbia sul fisico?

La collera è uno stato potente che comporta l’attivazione del nostro organismo in modo

automatico accelerando e stimolando il nostro sistema nervoso autonomo (respiro, battito

cardiaco, apparato muscolare, ecc.). vedi Approfondimento n.1 - QUALI EFFETTI FISICI

PRODUCE LA RABBIA Cosa succede quando mi arrabbio?

· Mentre nella nostra mente succede qualcosa. Cosa scatena la collera?

A volte può essere anche una piccola frustrazione ma in generale la collera scatta quando

percepiamo una costrizione fisica o psichica. Ci si arrabbia quando qualcuno o qualcosa si

oppone alla realizzazione di un nostro bisogno ma passando su un piano diverso, più

simbolico (capacità prettamente umana), ci si arrabbia anche quando percepiamo una

contrapposizione rigida alla nostra opinione, un ostacolo a un nostro obiettivo, una

opposizione alla nostra realizzazione. Alla base c’è un discorso di sopravvivenza, di

affermazione di sé, di difesa della propria personalità. Possiamo quindi già intuire in che

modo la rabbia può essere in relazione con l’ autostima, cosa che approfondiremo meglio.

Approfondimento n.2 - “COSA SCATTA NELLA NOSTRA PSICHE Come mi fa sentire la

rabbia?”

La tendenza naturale dell’ira sarebbe lo sfogo…

La collera si tradurrebbe in aggressività ma certamente questo non possiamo

permettercelo e quindi bisogna imparare un modo per gestire questa emozione altrimenti

distruttiva.

Approfondimento n.3 - “COME GESTIRE LA RABBIA Cosa posso fare per non farmi

sopraffare?”(secondo l’ approccio dell’ intelligenza emotiva )

· Ma cosa imparerebbero i nostri figli?

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Oltre che saperla controllare, è nostro dovere fare anche di più: educare i nostri bambini

ad una cultura non violenta e non aggressiva attraverso la conoscenza di sé e la gestione

delle emozioni, cioè con il cosiddetto “allenamento emotivo”, e soprattutto attraverso i

nostri atteggiamenti. Non dimentichiamoci mai che i genitori (sia il padre che la madre), lì

dove svolgono il ruolo di figure di attaccamento e quindi di riferimento, sono i primi e

attendibili modelli cui il bambino guarda! Non valgono niente le prediche o le buone regole

se non sono accompagnate da un comportamento genitoriale coerente ad esse. Questo

non significa assolutamente non sbagliare mai, non vuol dire essere perfetti, ma essere noi

per primi consapevoli e attenti alle nostre emozioni, alle nostre dinamiche interiori.

Vedi approfondimento n.4 - “COME POSSO INSEGNARE AD UN BAMBINO A GESTIRE LA

SUA RABBIA?” (allenamento emotivo con i bambini)

P.S. Oltre alla parola rabbia, ci sono diversi termini per designare questa emozione: ira –

collera – furore; io li userò come sinonimi sebbene pensi che non lo siano, una sembra

riferirsi di più al campo del comportamento, un’altra a quello della comunicazione, l’altra

sembra adattarsi meglio al mondo interno, quello del sentire. Ma anche questa

attribuzione di significato è piuttosto relativa.

Approfondimento n.1 – allegato a LA RABBIA

RABBIA: QUALI EFFETTI FISICI PRODUCE? Cosa succede quando mi arrabbio?

In che modo la rabbia influisce sulla salute? Ippocrate, il grande medico dell’antichità (Kos 460 aC circa) e fondatore della medicina

classica, riteneva che la bile fosse l'umore della collera. Sul piano fisiologico la produzione

di bile[1] è davvero connessa alla sfera emotiva: quando proviamo collera aumenta la

produzione di bile (che è di colore verdastro) da parte del fegato. Perciò si dice “Verde di

rabbia”. Perciò dopo una delusione che non abbiamo elaborato abbastanza da liberarcene,

diciamo anche “mi ha lasciato l’amaro in bocca”: quella sensazione di amaro mi sta

comunicando che ancora sono arrabbiato. La collera influisce sull’attività del

fegato come sul sistema immunitario alterando l’attività ormonale, e studi effettuati

dall’Università del Michigan dimostrano che il 25% dei casi di malattie cardiache sono

dovute all’eccessiva perdita di controllo in una esagerata reazione fisica alla rabbia. Molti

altri studi soprattutto negli Stati Uniti hanno dimostrato l'associazione altamente

significativa tra personalità colleriche di Tipo A (vedi all.1/B - TIPO A e TIPO B), patologie

coronariche e ipertensione.

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Quando siamo arrabbiati il nostro sistema neurovegetativo (quello automatico, fuori dal

nostro controllo) si attiva innescando sudorazione, tachicardia, aumento della frequenza

respiratoria, irrigidimento della muscolatura scheletrica, normali reazioni fisiologiche del

corpo che ancestralmente dovevano preparare l'organismo alla fuga o all’ attacco.

Attacco o fuga?

Ancora oggi infatti quando siamo arrabbiati e tocchiamo il nostro limite massimo, abbiamo

lo stesso comportamento: o aggrediamo fisicamente l’ oggetto della nostra ira oppure ce

ne andiamo voltandogli le spalle e reprimendo l’aggressività.

Tuttavia non sempre abbiamo coscienza di essere arrabbiati verso qualcuno o per qualcosa

e questo stato non riconosciuto finisce con l’esprimersi in un linguaggio corporeo,

attraverso un disturbo psicosomatico[2].

Questo è il messaggio che si nasconde dietro il linguaggio in codice di alcuni sintomi, certi

mal di testa, mal di schiena, alcune forme di ulcera, certe malattie dermatologiche o

respiratorie.

Teniamo a mente che questa altro non è che una forma di fuga: fuggiamo dalla

consapevolezza, dal guardare in faccia la nostra realtà, dall’affrontarla, dal cambiare il

nostro modo di vivere ed entrare in relazione, dal risolvere i nostri problemi. Non sempre

per non affrontare qualcuno: a volte per non affrontare noi stessi.

[1] Produzione della bile: la bile è una soluzione acquosa prodotta dalle cellule epatiche (…) alterazioni nella

funzione del fegato possono diminuire la capacità dell'organo di captare, trasformare ed eliminare la

bilirubina e quindi, aumentando la concentrazione di questa nel sangue, causare la tipica colorazione

giallastra degli occhi e della pelle (ittero), caratteristica di molte malattie epatiche e/o biliari.

da ”Funzionamento e malattie. Il fegato“ su http://www.fegato.it/page.asp?pag=22

[2] Con “disturbi psicosomatici” intendo quell’ampia fascia di patologie che si situano tra lo psichico ed il

corporeo, e che presentano una sintomatologia funzionale ed organica in cui è possibile rintracciare una

origine psicologica.

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All.1/B PERSONALITA’ DI ”TIPO A“ E DI ”TIPO B“

Il termine personalità di tipo A è stato coniato nel 1950 da due medici cardiologi, il dottor

Meyer Friedman e Ray Rosenman, i quali hanno teorizzato che le persone di tipo A hanno

una maggiore probabilità di soffrire di attacchi di cuore.

Quando si parla di tipo A/ostile ci si riferisce a una persona con un alto grado di stress,

impaziente, ipervigile, che esprime per lo più in modo inadeguato la rabbia o la

frustrazione. Il classico tipo A personalità tende a reagire con rabbia verso gli altri, il che gli

rende difficile mantenere rapporti. Questi individui sono quelli che hanno una maggiore

probabilità di soffrire di qualche disturbo sia fisico che psichico dovuto alla pressione

dello stress.

Il Tipo B/controllato, più tranquillo e riflessivo, ha invece una migliore capacità di

fronteggiare situazioni potenzialmente stressanti, e ciò lo rende meno a rischio di

malattie.

La differenza tra le due tipologie diventa chiara se guardiamo il modo in cui i due tipi

rispondono alle situazioni stressanti. (VEDI SCHEMA SEGUENTE)

Comportamento di Tipo A Comportamento di Tipo B

-Competitività spinta e diffusa a tutti gli aspetti della vita. Tendenza alla sfida e alla lotta. -Aggressività (spesso repressa) presente costantemente in tutte le interazioni personali e sociali. -Impazienza, insofferenza per i diversi ritmi altrui e per l'insufficienza degli altri. -Tensione muscolare, discorso "esplosivo", ipervigilanza, difficoltà al rilassamento. -Tendenza a voler fare e ottenere un illimitato numero di cose in un limitato periodo di tempo. -Necessità spinta di avere costantemente

il controllo totale nelle situazioni. -Spinta all'acquisizione di cose, oggetti, beni e in generale al consumo. -Spesso fumo, alcool, attività orali ripetitive.

-Competitività selettiva e proporzionata alla reale importanza degli obiettivi da raggiungere. -Aggressività "fisica" indotta da stimoli adeguatamente frustranti. Aggressività di base ridotta. -Capacità di adeguarsi e di tollerare la diversità degli altri ed i loro differenti ritmi. -Rilassamento muscolare, discorso tranquillo, vigilanza "fasica" facilità di rilassamento. -Tendenza a proporzionare le cose da fare e da ottenere in rapporto al tempo disponibile.

-Ridotta importanza dell'avere costantemente il controllo in tutte le situazioni. -Relativa indifferenza al consumo e all'acquisizione di cose inutili.

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-Poca attività fisica. -Pochi interessi alternativi al lavoro.

-Alimentazione irregolare ed eccessiva.

-Fumo e alcool molto limitati. -Attività fisica.

-Interessi alternativi al lavoro. -Alimentazione controllata.

Tratto da Stress, personalità e lavoro www.nienteansia.it

Approfondimento n.2 – allegato a LA RABBIA

COSA SCATTA NELLA NOSTRA PSICHE - Come mi fa sentire la rabbia?

La rabbia si può innescare di fronte ad una piccola frustrazione ma in generale scatta quando percepiamo una costrizione fisica o psichica. Ci si arrabbia quando qualcuno o qualcosa si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, ci si arrabbia anche quando percepiamo una contrapposizione rigida alla nostra opinione, un ostacolo a un nostro obiettivo, una opposizione alla nostra realizzazione.

Umiliati e offesi La sensazione che proviamo di essere scavalcati, sopraffatti, soverchiati da qualcuno che appare come più forte, fa montare dentro un disagio sempre più grande finché in un attimo sale l’ira e ne viene il forte impulso all’azione. Si vuole come proteggere la propria reputazione, il proprio Io umiliato. Ma è veramente così? Veramente l’altro ci stava umiliando? O è una nostra percezione? Oppure l’altro ha toccato un nostro punto debole, il nostro tallone di Achille? Non essendoci tempo per la riflessione, la rabbia cresce e si sfoga come può, alzando la voce, sbattendo gli oggetti, picchiando o rompendo, quando non peggio.

A volte la reprimiamo o subentra la negazione

Talvolta la controlliamo soffocando l’impulso. Ci sono persone che per una vita soffocano la rabbia verso una situazione o una persona con cui vivono quotidianamente perché pensano di non avere alternative. Ma soffocare la propria collera dà vita a sentimenti di umiliazione, di inferiorità e spesso anche a malattie psicosomatiche o patologie funzionali (su questo argomento c’è un’ampia letteratura che argomenta la relazione tra patologie autoimmuni come la psoriasi e la colite, e la rabbia non elaborata o repressa).

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Nella nostra cultura le regole sociali giustamente inibiscono le azioni aggressive e di attacco ma la rabbia trova sempre un modo per esprimersi anche indirettamente. Normalmente quindi la collera può prendere tre vie: verso l’oggetto-persona che l’ha provocata , verso un oggetto-persona sostitutivo dell’originale (spostamento dell’obiettivo) o verso se stessi: in tal caso invece che rivolgerla verso il vero oggetto frustrante, la persona arrabbiata la rivolge verso se stessa, si auto maltratta, preferisce aggredire se stessa piuttosto che arrabbiarsi con gli altri, arrivando anche all’autolesionismo oppure, senza volerlo, somatizza e si ammala.

Approfondimento n.3 – allegato a LA RABBIA COME GESTIRE LA RABBIA Cosa posso fare per non farmi sopraffare?

Un mostro con vita propria Molti immaginano l’emozione della collera come un mostro con vita propria, qualcosa di orrendo che vive dentro la persona, qualcosa che al massimo si può domare attraverso un interruttore on-off, o accendere o spegnere del tutto. Ma in verità l’ira che sentiamo ha un senso, un’origine precisa ed individuabile, un motivo del tutto individuale e direi soprattutto legato alla propria storia personale. Questa è la semplice ragione per cui ci sono cose o situazioni che a qualcuno scatenano furore ad altri no. Oppure semplicemente un’ emozione Allora la prima cosa che dobbiamo chiederci non è come fare per non farci travolgere dalla rabbia ma per quale ragione la rabbia è dentro di noi. Se andiamo a vedere indietro lungo la nostra strada passata, sicuramente troveremo qualcosa che possiamo collegare al senso di disagio, paura, incertezza, che ci accompagna ancora oggi; un rancore antico, un’offesa che ancora ci brucia, un episodio mai scordato. Per fare questo cammino a ritroso e ritrovare fatti ed emozioni passate, spesso c’è bisogno dell’aiuto di una guida. Il secondo passo è cominciare ad usare nuove espressioni: non dire “la rabbia mi ha travolto!” oppure “ Sono stata presa da un attacco di collera!”. Questo è un modo per scrollarci la responsabilità delle nostre azioni e per mettere la distanza tra la nostra coscienza e il nostro comportamento. Sarebbe meglio dire “Mi sono sentito offeso, attaccato, e ho attaccato a mia volta” oppure “Non sono riuscita a controllarmi” o “anziché riflettere, ho agito impulsivamente”. La rabbia, la collera, non hanno una vita propria, non sono entità che assalgono e posseggono! Siamo noi che agiamo, che scegliamo (in quanto

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adulti) come comportarci, che decidiamo quale contegno tenere di fronte alle persone e ai problemi.Cominciamo a guardare alla nostra vita interiore con consapevolezza, guardarsi dentro e pensare che possiamo agire su di noi se sappiamo cosa ci sta accadendo a livello emotivo: imparare cioè ad essere consapevoli di ciò che proviamo e saper dare un nome a ciò che sentiamo dentro. E poi distinguere tra reazione e risposta Se qualcuno ti ha offeso, tu vai in collera e agisci mosso dall’ira: questa è una reazione. Qui noi non siamo persone libere, il nostro comportamento è stato guidato dall’altra persona, ci siamo lasciati influenzare emotivamente e ci siamo arrabbiati riversando fuori collera che andrà ad alimentare la collera dell’altro, in un circolo vizioso distruttivo. La risposta invece è frutto di una scelta, è quella che segue quando io non rispondo impulsivamente all’altro ma mi ascolto dentro e rifletto sul perché mi sento ferito, colpito. In tal caso mi comporterò certamente in un modo diverso dall’esempio precedente. (Ovviamente questo è un discorso generale che non può considerare tutte le specifiche e diverse situazioni.) Questo non significa reprimersi Rimane il fatto che posso sentirmi arrabbiato. E allora come fare? Intanto possiamo evitare di dirigere la rabbia verso gli altri, iniziare a non sfogarla su qualcuno perché la vera causa della nostra ira non è quel qualcuno. Cerchiamo un modo alternativo per sfogarci: una corsa al parco, un cuscino da prendere a pugni oppure cantare a squarciagola, sono alcuni semplici sistemi per scaricare la tensione. Dopo quindici/trenta minuti la collera svanisce, non è stata repressa e non è stata sfogata su nessuno, si è scaricata fuoriuscendo come un veleno tossico. Nella vita abbiamo assorbito tante cose, crescendo e vivendo, anche cose dannose che a volte ci rimangono dentro e condizionano il nostro comportamento. E’ importante che decidiamo di capire cosa ci spinge ad agire perché solo così possiamo orientare al meglio le nostre azioni. Talvolta è un percorso faticoso e lungo ma questo non deve scoraggiare. Bisogna sempre darci la possibilità di cambiare, di migliorare, e non dimenticare che la comprensione è il primo passo verso la trasformazione. Rif.to bibliografico: OSHO Il gioco delle emozioni ed. Oscar Mondadori 2000

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Approfondimento n.4 – allegato a LA RABBIA

COME POSSO INSEGNARE AD UN BAMBINO A GESTIRE LA SUA RABBIA? (allenamento emotivo con i bambini)

Personalità e intelligenza emotiva del bambino

L’adulto che accompagna la crescita di un bambino ha un grande ruolo nell’orientare la modalità con cui questi entrerà in contatto con le proprie emozioni e con gli altri. Ogni bambino ha un temperamento innato ma il rapporto con le figure di accudimento influisce molto sugli schemi mentali che sono alla base del comportamento. Il primo requisito richiesto all’adulto è che lui stesso abbia una competenza emotiva perché sia un efficace e credibile “allenatore emotivo”, ossia sappia autoregolarsi nelle emozioni senza spaventarsi e senza evitare di entrare in contatto con esse, e possa insegnare questo ad un figlio.

Diventare un “allenatore emotivo”

Ogni genitore sa bene di influire sulla formazione del proprio figlio durante la crescita eppure spesso non arriva a riflettere fino in fondo sull’efficacia del proprio stile genitoriale; può riconoscerne i limiti e i difetti ma non concludere che deve fare qualcosa per correggersi, intenzione che richiederebbe una personale revisione del proprio sistema di riferimento. Certamente essere un genitore consapevole e responsabile comporta impegno e fatica, come per qualunque altro ruolo o compito che si voglia svolgere con coerenza e attenta partecipazione (marito, moglie, insegnante, medico, ecc). Ma questo non fa che aumentare il nostro merito, oltre che la capacità!

Tutti i genitori possono diventare buoni allenatori emotivi semplicemente lasciandosi guidare dal buon senso, dai propri buoni sentimenti e dall’empatia. Tuttavia non sempre questo avviene facilmente, ci sono ostacoli individuali.

Dall’autoesame all’empatia

Capire quale stile genitoriale mettiamo in atto con i figli, ci permette di evitare gli errori madornali che spontaneamente agiremmo: posso essere un “genitore censore” (giudico, critico, rimprovero la mancanza di controllo sulle emozioni negative, ecc), oppure un “genitore noncurante” (mi disinteresso, ignoro i sentimenti di mio figlio, penso che un bambino non prova niente di importante, ecc), o un “genitore lassista” (lascio che mio figlio sfoghi liberamente ogni emozione, non metto limiti o indicazioni allo sfogo emotivo).

Quello che in questi casi sto ignorando è l’effetto del mio stile genitoriale sull’apprendimento emotivo di mio figlio: il mio modo di reagire alle sue emozioni veicola ciò che lui imparerà sulla gestione delle proprie emozioni.

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Guardando come io gestisco le mie e altrui emozioni, il bambino impara come gestire le proprie. Se io mi spavento di fronte alla sua rabbia, imparerà che deve aver paura della rabbia; se io non voglio accorgermi della sua tristezza, imparerà che è meglio non far/farsi domande sul perché si è tristi. E via dicendo. Per arrivare ad essere empatici devo soltanto guardare quello che sta accadendo e avere il coraggio di ascoltare. Il nostro “stare vicino ascoltando” al bambino sarà già l’insegnamento base: qualunque emozione si stia esprimendo, si può tollerare, si può ascoltare, si può considerare e cercare di capire quale è il suo senso e il suo messaggio.

Imparare a fidarsi dei propri sentimenti Ogni emozione ci parla di noi e di ciò che amiamo o non amiamo, di ciò che ci fa bene o ci fa star male, possiamo scegliere di ignorare questi messaggi o di considerarli. In quanto adulto e genitore, posso leggere un’emozione e il suo significato sul volto di mio figlio ed aiutarlo, attraverso le giuste frasi e domande, ad esprimerla e capirla, senza bloccarne l’espressione o negarla. Di fronte ai capricci di una bimba di 4 anni, alla malinconia di un maschietto di 8 anni, alle scenate di uno di 6 anni, posso provare a chiedermi cosa vuole comunicarmi, cosa sta cercando di dire con quel comportamento, e mettermi in contatto con il suo stato d’animo cercando di rassicurarlo sulla possibilità di risolvere insieme il problema.

Vanno bene tutti i sentimenti ma non tutti i comportamenti Fondamentalmente i bambini cercano rassicurazione e contenimento, due cose che non possono darsi da soli. L’adulto deve aver chiaro il concetto che tutte le emozioni sono legittime, motivate, degne di essere accolte e capite, ma occorre imparare ad esprimerle in modo adeguato e equilibrato.

Da dove cominciamo? Come adulti, come genitori, possiamo cominciare a tenere un DIARIO DELLE EMOZIONI su cui annotare ogni giorno le emozioni che proviamo, cosa le ha scatenate, come abbiamo reagito, cosa abbiamo provato e cosa abbiamo pensato. Possiamo usare immagini, disegni, oppure metafore (“mi sono sentita come persa in un labirinto” ). Questo esercizio ci aiuterà via via ad entrare in confidenza anche con quelle emozioni che ci sembravano più incontrollabili o inaccessibili, aumenterà la nostra consapevolezze e capacità introspettiva, di conseguenza la capacità di comprendere e aiutare le persone che abbiamo vicino.

Rif.to bibliografico: J. GOTTMANN-J. DECLAIRE Intelligenza emotiva per un figlio ed.BUR1997

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IL DIARIO EMOTIVO

Se desiderate approfondire la conoscenza della vostra vita emotiva, questo è un buon esercizio. Quello che vi serve è capacità di auto-osservazione, un po’ di tempo e un po’ di solitudine, oltre che un quaderno e una penna. Pensate che questa attività è più utile di quello che sembra, porterà lentamente e silenziosamente degli effetti che scoprirete all’improvviso, senza accorgervi di aver imparato qualcosa di nuovo su voi stessi. Potete svolgere questa attività in due modi ma anche unire le due modalità:

1) avere uno schema , che possiamo chiamare registro emotivo, dove segnare quali emozioni avete provato, oppure

2) scrivere un “diario emotivo” dove annotare emozioni, pensieri, situazioni, sentimenti, giorno per giorno, in un modo più discorsivo.

Il registro piacerà alle persone pratiche e veloci, il diario a chi è più riflessivo e tranquillo; entrambi i sistemi saranno scelti dalla persona che ha deciso seriamente di impegnarsi in questo percorso di consapevolezza! Quello che segue è un esempio su come organizzare il Registro emotivo e l’elenco delle principali emozioni da considerare.

Emozione Lun Mart Merc Giov Ven Sab Dom

Felicità

Orgoglio

Gratitudine

Collera

Amore

Colpa

Delusione

Interesse

Stress

Vergogna

Sollievo

Tristezza

Rimpianto

Gioia

Invidia

Disgusto

Pietà

Liberamente tratto da Intelligenza emotiva per un figlio di J. Gottman-J. Declaire

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LA GIOIA

Percorso nelle nostre emozioni / II

(Disegno di G.C.)

(…) La gioia è indicibilmente di più della felicità; la felicità irrompe sugli uomini, la felicità è destino; la gioia gli uomini la fanno fiorire dentro di sé, la gioia è semplicemente una buona stagione sopra il cuore; la gioia è la cosa massima che gli uomini abbiano in loro potere”. (Tratto da una lettera di Rainer Maria Rilke)

Vale per la felicità quello che vale per la libertà. Non la si ha ma la si è. (Theodor Adorno)

Felicità o gioia? Non sono proprio la stessa cosa

Il dizionario Zingarelli dice che è felice ”chi è pienamente appagato nei suoi desideri”, quindi la felicità richiede la soddisfazione di bisogni, desideri, aspettative. Un tale concetto lo potremmo analizzare su diversi livelli: sul piano biologico chiedendoci quali bisogni devono essere soddisfatti per essere felici; su quello psico-sociale ragionando su cosa condiziona i bisogni e i desideri, o se la felicità ha caratteristiche individuali o uguali per tutti, o ancora quali condizioni psicologiche occorrono per essere felici; sul piano filosofico ci dovremmo chiedere cosa è la felicità e se esiste veramente; infine potremmo considerare questa emozione sul piano spirituale (dove viene fatta una netta distinzione trail piacere legato alle cose materiali e la felicità in senso spirituale, quella che si raggiunge con capacità interiori e legate alla trascendenza).

La gioia invece, nel linguaggio comune, è associata ad un'emozione, a uno stato interno di forte attivazione psico-fisica piacevole. Proviamo gioia per un evento, di fronte a una sorpresa piacevole, in una situazione in cui ci sentiamo veramente bene. Potremmo dire che sperimentare spesso l’emozione della gioia dovrebbe portare alla felicità, ossia a quello stato emotivo di benessere durevole e di fondo tanto cercato e agognato. Eppure non sempre è così semplice.

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Diciamo quindi che la felicità è uno stato interiore prolungato, uno stato-base emotivo di benessere, mentre la gioia è l’emozione positiva, scatenata da un evento o situazione, che ci vitalizza e attiva anche nella componente fisiologica, oltre che interiore, che spesso descriviamo con espressioni tipo “fare salti di gioia” o “non stare nella pelle dalla gioia”. Non è facile parlare della gioia senza toccare il tema della felicità; pur essendo due concetti non coincidenti si richiamano e si rinforzano reciprocamente.

Cosa ci procura gioia?

Oggi si collega molto facilmente la felicità al benessere materiale come se il benessere interiore ne fosse soltanto la conseguenza. Per molti la gioia è legata al possedere, all’ottenimento di un bene desiderato: la fonte del nostro benessere sembra collocarsi all’esterno, prendendo spesso la forma di un cellulare, di un’automobile, un vestito griffato, o altro. Oppure, spostandoci su un piano diverso, proviamo gioia nei rapporti interpersonali quando usciamo trionfanti dal confronto con gli altri, nel riconoscimento della nostra superiorità, nel sentirci onnipotenti o vincenti, annebbiati dal nostro narcisismo e dal nostro ego smisurato.

Fortunatamente anche nel campo della ricerca qualcuno riesce a confutare questa visione: M.Csikszentmihalyi, psicologo e famoso teorico della felicità e del benessere, ha sviluppato il suo lavoro intorno all’ osservazione che nonostante oggi le ricchezze e i mezzi siano maggiori che nel passato, ciò non ci garantisce la felicità e questo perché la felicità non deriva dalla fortuna, dal caso o da eventi esterni ma è strettamene legata alla nostra volontà e dipende da come ciascuno di noi interpreta gli eventi e le esperienze. (Vedi approfondimento N.1: Cosa dice M. Csikszentmihalyi circa la felicità).

Il nostro modo di interpretare ed elaborare l’esperienza e gli accadimenti, a sua volta dipende non tanto dall'età o dal sesso, tantomeno dalla bellezza, dalla ricchezza o dalla cultura, ma da caratteristiche della personalità quali ad esempio l’estroversione, la fiducia in se stessi, l’avere una sensazione di gestione/controllo su di sè e sulla propria vita.

La gioia e i suoi segnali fisiologici

Le persone felici e gioiose a livello fisiologico presentano un'attivazione generale dell'organismo che si manifesta con un aumento del tono muscolare, un'accelerazione della frequenza cardiaca e una irregolarità della respirazione.

Un segno caratteristico di chi è gioioso è il sorriso, il segnale universalmente riconosciuto della felicità. Accompagnato da uno sguardo aperto e luminoso, il sorriso ci comunica un messaggio di serenità e disponibilità, apertura al dialogo. Molti fanno fatica a sorridere, provano difficoltà nella mimica o lo ritengono un segnale di superficialità o di ipocrisia. Si tratta di persone che hanno perso per strada qualcosa della loro infanzia, che

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hanno sofferto o hanno subìto un’offesa che non riescono a perdonare. Si tratta forse di persone che devono imparare ad avere fiducia in sé e nel mondo. Sono quelle che hanno più bisogno del sorriso degli altri. (vedi approfondimento N.2 : Il sorriso e il ridere)

Effetti della gioia sulla nostra vita

Arrivare ad avere uno sguardo diverso sulla realtà, un modo diverso di guardare agli eventi, può condurci a provare più spesso l’emozione della gioia e questo avrebbe un effetto benefico generale su di noi, come diversi autori confermano (v. in letteratura Mayer e Volanth 1985, D'Urso e Trentin 1992, Cunningham 1986; 1988).

Sono tante le ricerche scientifiche che dimostrano come le persone felici siano spesso di buon umore, si sentano tranquille, soddisfatte di quello che fanno, abbiano un senso generale di appagamento. Ovviamente questo stato le porta ad essere più disponibili verso gli altri e ad adattarsi meglio ai cambiamenti, a reagire meglio agli imprevisti.

Innescando un circolo virtuoso, uno stato d’animo del genere porta ad una visione migliore delle cose e spesso ad un modo migliore di affrontare anche un compito: un semplicissimo esempio che tutti abbiamo sperimentato è come la fatica si attenua durante un lavoro pesante quando iniziamo a cantare una bella canzone o a scherzare con il compagno di lavoro. E’ l’azione della gioia che abbiamo “stanato” e che ha generato una sensazione positiva trasformando quel lavoro in un divertimento.

In un lavoro sperimentale si è osservato come a scuola gli alunni imparino meglio e prima se in classe c’è un clima gioioso e se vengono coinvolti durante la didattica con strategie finalizzate a stimolare uno stato d’animo positivo e allegro. Uno stato di gioia stimola l’apprendimento, la memorizzazione, la creatività (rif. Ellis , Thomas e Rodriguez , 1984; Ellis , Thomas McFarland e Lane , 1985)

Bibliografia per approfondimento:

D'Urso V e Trentin R. Sillabario delle emozioni, Giuffrè 1992 Spunti tratti da: ALLA RICERCA DELLA FELICITA' - A cura della Dott.ssa E. Maino - www. Benessere.com

Correlazioni di tipo cristiano

LA GIOIA NEL SIGNORE CHE DERIVA DALLA FEDE (SALMO 16) (RR)

Tutte le mie fonti di vita e di gioia sono in Te (DL)

VOGLIO SEGNALARE LA MIA GIOIA (breve testim.)

TU SEI LA LUCE CHE RESTA (DL)

LA FELICITA' INCONTENIBILE CHE CI ATTENDE (RR)

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Approfondimento n.1 - Cosa dice M. Csikszentmihalyi circa la felicità - Allegato a LA

GIOIA

Psicologo di origine ungherese trapiantato negli USA e famoso teorico della felicità e del benessere, ha constatato, attraverso le sue ricerche statistiche, che nonostante le ricchezze e i mezzi le persone non sono felici. Questo perché la felicità non è legata alla fortuna e ad eventi esterni ma alla nostra volontà e soprattutto dipende da come interpretiamo gli eventi e le esperienze. Questo studioso traccia un’importante distinzione tra bisogni “esistenziali” e bisogni “esperienziali”: i primi legati al mero possesso, i secondi invece non sono legati ad oggetti (e al possedere) ma riguardano cosa facciamo, le attività in cui ci impegniamo. L’oggetto è soltanto uno “strumento” che serve a vivere mentre costruiamo una condizione personale in cui ci muoviamo ed agiamo assecondando bisogni non materiali ma relazionali, affettivi, spirituali. Quando svolgiamo attività come leggere, studiare, curare le piante, giocare con i bambini, ascoltare un amico, stiamo agendo sotto la spinta di un bisogno che migliora la nostra esistenza perché nutre l’essere (non l’avere), cioè la parte essenziale di noi stessi, quella interiore con cui sempre alla fine dobbiamo confrontarci. Possiamo provare a spostare il focus del nostro interesse e dei nostri obiettivi dall’AVERE all’ESSERE, come diceva il grande Erich Fromm: per raggiungere la felicità l’avere non basta, bisogna anche essere. La gioia che dipende dal possedere qualcosa che sta al di fuori di noi stessi, è destinata ad essere effimera e soprattutto, sfumato l’attimo, lascia un vuoto e un’insoddisfazione profonda. Riferimenti bibliografici:

- Fromm E., 1976, To have or to be? (trad. it.: Avere o essere?, Milano, 1977) - Csikszentmihalyi M., 1975, Beyond Boredom and Anxiety: Experiencing Flow in Work and Play

Correlazioni: LA FELICITA': ESPANDERSI IN DIO (RR)

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Approfondimento n.2 - IL SORRISO E IL RIDERE Allegato a LA GIOIA

Il sorriso è un linguaggio universale, innato, con scopo comunicativo, e ovunque e da chiunque compreso. E’ innato ma è fondamentale averlo appreso nell’infanzia, il bambino deve averlo visto sul volto della madre per poter copiarlo da lei.

In genere il sorridere è un segnale di apertura, disponibilità, buona disposizione all’altro ma non solo.

Tutti conosciamo il “sorriso formale”, quello di circostanza, quello che copre una bugia: il sorriso viene usato da qualcuno per mantenere le distanze, per compiacenza o come strategia per ottenere precisi risultati. Ciò non deve portarci a generalizzare e a difenderci dalla persona sorridente: siamo capaci di leggere i messaggi non-verbali abbastanza da riuscire a distinguere il falso dal sincero!

Il sorriso sincero lo riconosci dai simultanei messaggi delle altre parti del corpo, primi fra tutti gli occhi. Gli occhi luminosi e non sfuggenti, si accompagnano ad un volto rilassato, mentre tutto il corpo è proteso in avanti e i gesti delle mani e delle braccia esprimono accoglienza e desiderio di vicinanza.

Osservando questi elementi e la loro congruenza, e fidandoci del nostro intuito, sappiamo capire se un sorriso è autentico o no.

La forza del sorriso.

Quindi accettiamo i sorrisi sinceri e ricambiamoli, contagiamo gli altri e lasciamoci contagiare, sapendo che non può venirci che del bene dal sorridere. Tanti studi ne hanno dimostrato l’effetto benefico sulla salute: stimola il sistema immunitario, svolge un’azione antidolorifica e antidepressiva.

Abbiamo visto come sia efficace negli ospedali pediatrici (ma non solo): la presenza dei pagliacci nelle corsie diminuisce di circa il 20% l’utilizzo di analgesici e del 50% la durata delle degenze dei bambini. Grazie al dr. Patch Adams.

Per ricordarvi quanto prezioso sia il sorriso, potete conservare la famosa poesia che trovate qui di seguito.

Correlazioni:

L'ESPERIENZA INSEGNA? (tanto per ridere con un giornalaio dissacrante)

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UN SORRISO

Un sorriso non costa niente e produce molto

arricchisce chi lo riceve,

senza impoverire chi lo dà.

Dura un solo istante,

ma talvolta il suo ricordo è eterno.

Nessuno è così ricco da poter farne a meno,

nessuno è abbastanza povero da non meritarlo.

Crea la felicità in casa,

è il segno tangibile dell'amicizia,

un sorriso dà riposo a chi è stanco,

rende coraggio ai più scoraggiati,

non può essere comprato, né prestato, né rubato,

perché è qualcosa di valore solo nel momento in cui viene dato.

E se qualche volta incontrate qualcuno

che non sa più sorridere,

siate generoso, dategli il vostro,

perché nessuno ha mai bisogno di un sorriso

quanto colui che non può regalarne ad altri.

(Gino Mazzella)

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LA TRISTEZZA

Percorso nelle nostre emozioni / III

(Disegno di G.C.)

(…) Il mio cuore vive in me come un fantasma.

Al di là delle colline giace morta la mia speranza.

Il mio cuore vive presso di me come un fantasma.

Al di là della mia speranza giacciono morte le colline.(…)

[La finestra infranta da Il violinista pazzo – F. Pessoa]

Tanti sono i volti della tristezza e tanti i motivi che possono suscitarla. Delusioni, insuccessi, abbandoni, tradimenti; la malattia, la solitudine, la frustrazione. Sarebbe da superficiali semplificare questa emozione importante da cui tanti scrittori e poeti hanno attinto la loro migliore ispirazione: si sa che la tristezza più che la gioia dà vita ai versi più dolci e intensi attraverso misteriosi meccanismi che non sempre comprendiamo. Facciamo subito un distinguo tra la tristezza, la malinconia e la depressione poiché spesso ho sentito usare l’uno o l’altra parola in modo inappropriatamente interscambiabile.

La tristezza è un'emozione, è il contrario della gioia e della felicità, si limita all’occasione che l’ha provocata, è legata a un fatto, a un evento contingente. Si può collegare a un aspetto della vita, a un contesto, a una situazione, a una persona; quindi è legata a qualcosa al di fuori di se stessi. Non si tratta di un’emozione negativa in sè, anzi: quando ci sentiamo tristi riflettiamo, pensiamo a quel fatto che ci genera tristezza, pensiamo alla nostra vita e a noi stessi, approfondiamo la riflessione e diamo attenzione al nostro vissuto. In fondo è questo che serve per crescere e maturare. Quando si è tristi si rimugina sull’oggetto che ci rende tali: questo da una parte significa approfondire l’analisi e la riflessione del problema. Tuttavia a volte il rimuginio rischia di diventare un problema, ci può assorbire tanto da irretirci, da non riuscire a riprenderci. C’è un tempo giusto per la tristezza e anche per il rimuginare (vedi l'allegato n. 1: IL RIMUGINìO), un tempo che ha un limite raggiunto il quale però dobbiamo risalire, riprendendo il controllo di noi stessi e il nostro equilibrio.

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Quando la tristezza è intensamente e persistentemente presente, se perdura per lunghi periodi, se non vedo aspetti della mia vita che funzionano, se io stesso non vado bene e non trovo niente e nulla che può funzionare in me o che possa risollevarmi da questo stato d’animo, allora si prospetta un quadro di depressione.

In questo caso occorre farsi aiutare per capire meglio se stessi e il proprio stato d’animo.

La malinconìa invece è uno stato d'animo che può durare a lungo, una tristezza di fondo, non sempre riconosciuta, che porta un soggetto a vivere passivamente, lasciandosi andare, adattandosi agli avvenimenti esterni con la convinzione che non lo riguardino. Ci si sente come se in fondo all'anima, si cercasse una cosa, una persona mai conosciuta , ma di cui si sente dolorosamente la mancanza. La malinconia si esprime in espressioni del viso e in atteggiamenti o posture caratteristiche, indolenti, che la persona ha sempre in ogni situazione e che la contraddistinguono. ( Vedi l'allegato n.2 : MALINCONIA E MANCANZA)

Ma a volte la tristezza è legata a fattori fisiologici e al funzionamento del nostro corpo. Ci sono condizioni specifiche del nostro fisico, durante la nostra crescita, che sovente sono accompagnate da tristezza: per es. durante l’adolescenza e, per la donna, nel periodo premestruale, nella menopausa oppure durante la gravidanza e nel post-partum. Come si nota facilmente si tratta di momenti speciali della vita, momenti di passaggio, di transizione: sappiamo quanto i cambiamenti siano difficili certe volte e come soffriamo nel lasciare uno stato conosciuto per un altro pieno di incognite e tutto da ridefinire! Durante l’adolescenza la volubilità, l’iperattività e l’umore triste dei ragazzi non sempre nascondono problemi psicologici; quasi sempre si tratta di stati emotivi variabili e transitori collegati ai cambiamenti veloci che a questa età accadono e di cui i giovani stessi sono spettatori sorpresi e a volte preoccupati. Tuttavia ci sono situazioni in cui la tristezza dell’adolescente significa malessere, disagio profondo, ma questo lo possiamo capire soltanto con l’attenzione, la sensibilità e il dialogo.

Ultimamente assistiamo ad un particolare fenomeno, quello degli emo, quei giovani che talvolta vediamo vestiti di nero, capelli che coprono un po’ il viso, espressione angosciata e seria, un aspetto tra il decadente e lo scapigliato. Qualche adolescente segue questa sottocultura come una scelta di vita ma per la maggioranza si tratta soltanto di un look alternativo, non conformista: un altro modo ( o moda) per uscire fuori dalla massa, come in altri tempi erano i capelli lunghi per i ragazzi negli anni ‘60, negli anni ’80 i punk, ecc. ecc. (Vedi l'allegato n.3 : GLI EMO) Un discorso completamente diverso è quello al femminile. Per la donna il periodo premestruale e la gravidanza sono spesso legati a uno stato di tristezza, così come anche a sbalzi di umore, a mancanza di concentrazione, irritabilità e ipersensibilità. Facilmente si spiega questo stato d’animo nel periodo della gravidanza: le modificazioni del corpo, i cambiamenti prossimi da affrontare, il nuovo ruolo di madre (se al primo figlio) o le preoccupazioni legate alla propria capacità di essere una buona madre per tutti i figli e per la gestione pratica della famiglia… Questa tristezza comunque svanisce con la nascita

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del bambino, quando tutto si fa più reale e si attivano le forze in campo per far fronte alle nuove richieste e al nuovo arrivato. Un discorso a parte lo voglio dedicare alla tristezza del dopo-parto: esistono dei campanelli d’allarme e dei fattori di rischio che ci indicano quando la neomamma necessita di una maggiore attenzione. (Vedi approfondimento n.4: DAL BABY-BLUES ALLA DEPRESSIONE). Cosa fare per uscire dallo stato di tristezza?

Abbiamo capito che non dobbiamo rifiutare a priori questa emozione, perché è una legittima reazione a qualcosa che ci dà dolore, ed inoltre che ci permette di concentrarci e dare attenzione al problema e a noi stessi. Questo modo di vedere la tristezza ce la rende meno nemica e più gestibile: è il primo passo. Il secondo passo è spostare l’attenzione dalla causa che ha scatenato l’emozione a se stessi e vedere cosa possiamo fare per fronteggiare la situazione: se un amico mi ha tradito ed io sono triste per questo, dopo aver pianto ed aver espresso la mia delusione e rabbia per il suo comportamento (a lui o ad altri purchè l’abbia espresso), devo cominciare a pensare a me, a quanto posso stare senza di lui, a cosa sono disposto a fare per riaverlo, a come posso coprire la sua mancanza o a quanto tempo mi serve per arrivare a perdonarlo se non voglio perderlo. Quindi il secondo passo: spostare su di me e capire cosa posso fare per reagire. E farlo! La terza cosa è cercare di stare con persone positive, piacevoli, amiche, e confidarsi senza mascherare il proprio stato d’animo o peggio simulare uno stato d’animo che non abbiamo.Possiamo scegliere gli amici e con chi passare il nostro tempo, così come possiamo scegliere gli ambienti che frequentiamo o i nostri hobby, perciò evitiamo di stare troppo a contatto con chi ci porta solo sentimenti negativi e disagio, e facciamo le scelte giuste, quelle che ci fanno star bene, quelle che tirano fuori la nostra parte migliore!

La quarta cosa infine che si può fare sembrerà strana ma è scientificamente provata: possiamo usare la retroazione del corpo. La tristezza ci fa assumere una postura e una mimica del viso caratteristica: spalle curve, corpo abbandonato, tono generale basso, angoli della bocca in giù, occhi abbassati. Se questo canale è aperto in un senso, lo è anche all’inverso: se volontariamente cambio l’espressione del mio viso e la posizione delle mie spalle, cambierà anche il mio umore. Certo non è una soluzione, non è la risposta alla mia tristezza, ma è un piccolo passo per avviarmi sulla strada buona, quella dell’attivazione e della risalita. Segue in basso una vignetta che sintetizza il concetto.

1. Questa è la mia “posizione da depresso”

2. Quando sei depresso, la tua posizione è

molto importante

3. La cosa peggiore che puoi fare è stare

dritto e guardare verso l’alto, perché

cominci a sentirti meglio…

4. Se vuoi evitare qualsiasi gioia quando

sei depresso, devi stare così…

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Approfondimento n. 1 - IL RIMUGINìO Allegato a LA TRISTEZZA

Il rimuginìo è quel processo mentale caratterizzato da un catena di pensieri negativi, ripetitivi e tanto pervasivi da occupare tutto lo spazio mentale. Esiste in rimuginio normale e uno patologico. Preoccuparsi, rimuginare, porsi in uno stato di semi-allerta, a metà tra lo stato di tranquillità e lo stato di ansia acuto, è uno stato che si può essere funzionale perché permette di bloccare l’aspetto emotivo, di spostarsi sul piano della razionalità per analizzare la risposta più appropriata rispetto al problema incombente. Tuttavia se il rimuginio si prolunga e si protrae l’inibizione/esclusione dell’area emotiva, diventa maladattivo: il problema viene visto mille e mille volte ma soltanto nei suoi elementi negativi, le predizioni che ne escono sono unicamente catastrofiche, ci si sente bloccati nell’incapacità di scegliere una soluzione poiché ogni soluzione viene considerata inadatta, insufficiente, non risolutiva. Ciò che non funziona in questo caso è che colui che rimugina ha una visione falsata della realtà perché la vede in modo astratto, pietrificata, non considera la dinamicità e la varietà degli scenari possibili ma ne vede solo uno, il peggiore; tale scenario gli appare come inevitabile e irreparabile. Quasi sempre si tratta di un processo mentale collegato all’ansia e ne è un fattore di mantenimento poiché attiva dei correlati psicosomatici e cognitivi (= convinzioni positive e negative) che nutrono lo stesso stato ansioso. Lo si ritrova anche nelle sindromi depressive; in tal caso il contenuto del rimuginio depressivo è più legato al ricordo, a situazioni vissute, e l’interpretazione negativa riguarda fatti passati piuttosto che previsioni negative di possibili disgrazie future.

Ma allora quale è la convenienza del rimuginare?

La persona che rimugina sta male eppure in modo più o meno cosciente trova un’utilità in questo stato che si può sintetizzare in tre punti:

1. Ottiene una momentanea attenuazione dell’ansia somatica legata alle emozioni negative che prova

2. Crede di affrontare il problema perché è attiva mentalmente - non sa che sta scambiando una improduttiva e sterile attività mentale con un’ efficace ricerca di risoluzione del problema (che richiederebbe una visione più concreta e reale delle cose)

3. Si costruisce uno “scudo emozionale”, cioè questo rimuginare gli dà l’idea che pur riconoscendone l’inutilità ai fini della risoluzione, la mantiene in allerta proteggendola così dai possibili risvolti negativi immaginati.

La persona ansiosa, come quella depressa, rimugina in modo eccessivo e possiede una particolare tendenza alla valutazione negativa degli eventi. Alla base di tutto questo ci sono delle distorsioni cognitive, cioè delle convinzioni negative legate ai fatti, alla realtà, a se stessi, agli altri, convinzioni che portano a fare previsioni catastrofiche che generano

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sofferenza, e il rimuginare sembra un modo per gestire tale sofferenza e controllare gli eventi. In realtà la persona è irretita da questo meccanismo che si autorafforza e che riproduce sempre altra sofferenza. A questo livello c’è bisogno di un valido aiuto psicoterapeutico.

[Tratto liberamente da: La psicopatologia cognitiva del rimuginio (worry) di S. Sassaroli – G. M. Ruggiero]

Approfondimento n. 2 - MALINCONIA E MANCANZA allegato a: La tristezza

In psicoanalisi la malinconia è strettamente legata al concetto di lutto intendendo con

questa parola lo stato d’animo legato al senso della perdita, sia essa una perdita reale o

immaginaria, effettivamente vissuta o relativa a una parte di sé. Viviamo un lutto ogni

volta che pensiamo di aver perso qualcosa di importante, quando decidiamo che non ci

fideremo più di un amico perché ci ha tradito, quando finisce un matrimonio e

riconosciamo che non c’è più nulla da fare, quando qualcuno ci dice addio o quando siamo

noi a tagliare il legame con una persona che è stata significativa. E’ lo stesso stato d’animo

di quando ci rendiamo conto che la nostra giovinezza è ormai passata, o di quando ci

arrendiamo all’idea che abbiamo perso le occasioni importanti per realizzare un sogno e

non ne avremo più perché oramai è tardi.

Ditemi se questi pensieri non vi portano un senso di malinconia!

Correlazioni evangeliche

CONSIGLI DI LUTERO CONTRO LA MALINCONIA CHE PORTA ALLA DEPRESSIONE

CONFLITTO E RITROVAMENTO DI SÉ NELLE CONSOLAZIONI DI DIO

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Approfondimento n.3 - GLI EMO allegato a : La tristezza

Il termine “emo” è stato utilizzato per la prima volta negli anni 80 per indicare un sottogenere musicale che faceva parte della cosiddetta musica hardcore punk.

Oggi è possibile identificare un adolescente emo soprattutto dall'abbigliamento: stile punk, smalto nero, occhi truccati, maglioni di lana larghi o magliette molto strette, pantaloni di velluto, scarpe da ginnastica, skinny jeans, frangia asimmetrica, capelli spettinati, collane con cuori spezzati o teschi.

Secondo alcuni la caratteristica principale di questi giovani è l’intenzione o l’intento di mettere in mostra le proprie “emo-zioni”; altri invece prendono in giro questa moda, considerandola come “una cosa da sfigati”.

Più che una moda starebbe ad indicare uno stile di vita, una filosofia di pensiero, ma oggigiorno la maggior parte dei ragazzi che incontriamo con questo look hanno il solo scopo di differenziarsi, di farsi notare, di non confondersi con la massa.

Sebbene è innegabile che dietro ci sia un significato negativo legato alla ricerca del macabro e all’esaltazione della parte “oscura” dell’animo, che alimenta quindi un aspetto depressivo, auto lesivo e distruttivo della persona, vorrei spostare l’attenzione sul perché oggi un giovane abbia bisogno di arrivare a questo.

La mia ipotesi è che alcuni adolescenti non tollerino (più o meno consapevolmente) il continuo tentativo della nostra società - e quindi degli adulti, dei genitori forse - di attenuare il malessere, di negare i bisogni profondi di ascolto e di accudimento che tutti abbiamo, di evitare il contatto con le proprie emozioni per la paura di non saperle gestire. La nostra società, nel suo continuo offrire mezzi, beni di consumo, chiacchiere, apparenza, svolge un subdolo e sotterraneo lavoro di insabbiamento dei veri bisogni, di svalutazione dell’aspetto emotivo (non è da “persona forte e efficiente” mostrare la propria emotività), come volendo anestetizzare la parte più intima e spontanea delle persone. Il rischio sarebbe capire che non abbiamo bisogno di niente per vivere bene, se non del necessario e dell’amore nella reciproca compagnia e attenzione.

Gli emo secondo me ci mandano questo messaggio e lo fanno nel modo più prorompente ed esagerato possibile affinché non sia un messaggio inascoltato, affinché la loro presenza generi un fastidioso richiamo contro l’abitudine, la routine, contro l’indifferenza e l’eccessivo autocontrollo.

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Approfondimento n.4 - DAL BABY-BLUES ALLA DEPRESSIONE POST PARTUM allegato a LA TRISTEZZA

Dopo il parto si può presentare un disturbo dell’umore che può variare per intensità e

durata: un certo stato di disagio psico-fisico può farsi sentire nella puerpera, in una forma

lieve (cosa che viene considerata una reazione tipica e abituale) o in una forma più

grave, condizione meno frequente e da tenere più sotto controllo.

Nella forma più lieve, si tratta di un disturbo dell'umore, detto anche “baby blues” o

“maternity blues”, che si presenta nella prima settimana dopo il parto, e può durare da

poche ore ad alcuni giorni. I sintomi fisici si esprimono in disturbi del sonno, senso di

tristezza, mancanza di energie, inappetenza, stanchezza eccessiva anche dopo aver

riposato; mentre a livello psicologico si nota uno stato di ansietà, paura e preoccupazione,

confusione, eccessiva attenzione ai cambiamenti fisici, nervosismo e tristezza. La

neomamma è portata facilmente al pianto, è iperattiva, irritabile, ipersensibile e

interagisce poco con il suo bambino. Parliamo qui di una normale reazione emotiva ad un

evento stressante, quale é il parto. Secondo alcuni studiosi in questo disturbo giocano un

ruolo importante le modificazioni endocrine successive al parto, una instabilità emotiva

pre-esistente alla gravidanza, la difficoltà ad elaborare la separazione dal bambino che

prima era nella pancia ora non più.

Nella forma più grave parliamo di depressione post partum. Questa insorge a distanza di

alcuni giorni, settimane o addirittura mesi dal parto e dura anche un anno; se la

neomamma vive questo stato così prolungato di disagio è bene non sottovalutare la

situazione e conviene attivarsi rivolgendosi ad uno psicologo (presso il Consultorio

familiare della ASL per es.).

I sintomi sono più gravi e implicano frequenti mal di testa, intorpidimento, palpitazioni e

iperventilazione, mentre quelli psicologici comportano la sensazione di vuoto, la

percezione di essere inadeguate, di non poter far fronte alle situazioni, una

preoccupazione eccessiva per la salute del bambino, pessimismo, difficoltà di

concentrazione, perdita di interessi personali, pensieri bizzarri o di suicidio. In alcuni casi

possono anche manifestarsi sintomi gravi quali attacchi di panico, ostilità verso gli altri,

fobie, allucinazioni, incubi, paure eccessive, senso di estraneità, paure irrazionali per il

bambino.

Purtroppo la cronaca ci ha dimostrato cosa può arrivare a fare al suo neonato una madre

molto depressa, nonostante i segnali di allarme (i sintomi) che non dovrebbero sfuggire

alle persone che vivono con lei.

Le condizioni individuali che vengono messe in rapporto con la depressione p.p. sono per

es. un elevato livello di ansia caratteriale e/o durante la gravidanza, un atteggiamento

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ambivalente nei confronti della maternità, non aver scelto la gravidanza; un peso rilevante

è poi rappresentato dalla mancanza di una persona di fiducia con cui parlare, l’aver

problemi di coppia o condizioni economiche critiche. Vediamo quindi che fattori

individuali, relazionali, affettivi e sociali si intrecciano e diventano fattori di rischio, fattori

cioè che predispongono alla depressione.

Diversamente agiscono i fattori di protezione: avere la possibilità di appoggiarsi al coniuge,

poter confidare le proprie normali paure ad un’amica, farsi aiutare per attenuare l’ansia o

usare una tecnica di rilassamento (la stessa imparata al corso di preparazione al parto),

sono riferimenti utili per proteggersi dalla depressione e riprendersi velocemente dopo il

parto. Soltanto così protetta può dedicarsi serenamente ed esclusivamente

all’accudimento del neonato con quella dedizione esclusiva funzionale allo sviluppo del

bambino. Come dice un grande pediatra psicoanalista, Donald Winnicott, “la madre di un

neonato è l’unica persona adatta ad assistere quel neonato; solo lei può raggiungere quella

condizione speciale di preoccupazione materna primaria senza essere ammalata” (ciò

prescinde dalla maternità biologica includendo anche la madre adottiva o altra figura di

attaccamento) (1).

(1) D. Winnicott Dalla pediatria alla psicoanalisi ediz. Psycho 1975

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L’IMBARAZZO

Percorso nelle nostre emozioni / IV

(Disegno di G.C.)

L’imbarazzo non è un’emozione fondamentale (come la rabbia, la gioia, la paura, la tristezza e il disgusto) ma fa parte del gruppo delle emozioni più complesse a cui si attribuiscono funzioni più evolute e che presuppongono la consapevolezza di se stessi e delle relazioni con gli altri. E’ un’emozione sociale legata alla percezione che si ha in un preciso momento di sé di fronte agli altri. Sebbene il significato etimologico del termine sia “sbarra”, “ostacolo che ostruisce il passaggio, il libero movimento” (dallo spagnolo embarazo), non sempre ha una valenza negativa.

Quali situazioni ci possono imbarazzare?

Ovviamente ciascuno ha una propria sensibilità e reattività ai contesti ma ci sono situazioni che generalmente possono scatenare uno stato di vergogna. Possono essere situazioni collegate ad un fallimento in pubblico, quando non riusciamo a dare una buona prestazione, oppure quando mostriamo una parte di noi stessi che riteniamo intima, troppo personale, o ancora quando perdiamo il contegno o il controllo e fuoriescono emozioni e modi di fare che non vorremmo mostrare agli altri. Talvolta l’imbarazzo si presenta soltanto rispetto ad una persona specifica, probabilmente di cui abbiamo un’idea particolare, che ammiriamo molto, che sentiamo superiore o a cui vorremmo mostrare soltanto il meglio di noi. Altre volte ci imbarazziamo per l’attenzione o i complimenti che riceviamo: siamo sotto il riflettore e l’imbarazzo non è tanto legato al ricevere gli apprezzamenti quanto alla sensazione di essere oggetto di valutazione e critica per un istante che ci sembra eterno. A livello fisico nel momento in cui ci sentiamo imbarazzati, scattano una serie di reazioni tipiche che spesso non fanno che peggiorare il nostro stato interiore. L’alterazione della voce, il rossore, l’agitazione, la tachicardia, la respirazione affannata, incrementano questo stato d’animo. In più spostiamo lo sguardo altrove, lontano dagli occhi del nostro

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interlocutore, la postura diventa rigida o al contrario i movimenti sono incontrollati. (vedi approfondimento n.1 IL LINGUAGGIO DEL CORPO) Certamente ci imbarazziamo quando sopravvalutiamo l’importanza del giudizio degli altri e contemporaneamente sottovalutiamo le nostre capacità. Ci sono tante situazioni in cui potremmo reagire meglio, liberi dall’ostacolo dell’imbarazzo; si può lavorare su questo aspetto e se non ci si riesce da soli, si possono ottenere ottimi risultati facendo un lavoro psicologico mediante un training personale finalizzato a ridimensionare il peso del giudizio degli altri e incrementare la propria autostima. Suggerisco qui un approfondimento che dovrebbe orientare la riflessione e l’esplorazione di se stessi. (vedi approfondimento n.2 FACCIO IL TIFO PER ME) Infine vorrei proporre un’altra lettura di questa emozione sociale, considerarla da un’altra prospettiva: esiste un filo sottile che collega l’imbarazzo al senso del pudore. Lungi da me proporre un’ottica moralista o tabù, d’altronde parlando di “emozioni sociali” sappiamo che l’elemento culturale è estremamente forte. Il senso del pudore non è innato e varia da cultura e cultura, nei tempi e nei luoghi; una semplice verifica possiamo farla osservando i bambini, loro non hanno pudore né vergogna perché ancora liberi dal condizionamento e dalle regole sociali. Passando dal concetto di imbarazzo più o meno disadattivo, quello cioè che esprime una difficoltà personale nelle prestazioni, ad un altro tipo di imbarazzo, quello che nasce dal senso del pudore (per es. arrossire per un comportamento inadeguato al contesto, imbarazzarsi per dover parlare di qualcosa di intimo, vergognarsi di mostrarsi o esibirsi con estranei, ecc), mi chiedo quanto in questo caso sia veramente inopportuno, non funzionale. Pensare che il comportamento ottimale sia il non provare imbarazzo per alcunché, non vergognarsi in alcuna situazione, essere sempre spavaldi e spregiudicati, ci spinge a credere che il senso di vergogna sia sempre un limite, un’incapacità, un’imperfezione. Vorrei invece rivalutare il senso positivo del pudore come segnale sociale e suggerimento interiore. Il pudore ci suggerisce il senso del limite nei comportamenti, ci dà la misura della distanza dall’altro e cioè mi segnala se sto ignorando la mia intimità o se sto entrando in quella di un altro. Pensare che siamo completamente liberi di fare tutto quello che vogliamo e desideriamo è adolescenziale e irrealistico, come credere che siamo onnipotenti o immortali; siamo esseri sociali e come tali soggetti a convenzioni, limiti e regolati da una morale che serve alla convivenza e al rispetto dell’alterità e della diversità. L’imbarazzo a volte è il segnale di un equilibrio che stiamo mettendo a rischio; come bene viene espresso nelle seguenti frasi:

"Il pudore è un sentimento che nasce e si sviluppa da questa esigenza: vuole proteggere la

propria intimità e l’intimità altrui. Detto in altre parole vuole proteggere il mistero della

propria persona e della persona dell’altro. Si può violare per eccesso quando ci si espone

ad atteggiamenti che non rispettano la propria e l’altrui unicità. Si può violare per

difetto quando ci si chiude per insicurezza o paura dell’altro.

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La corretta elaborazione del sentimento del pudore è il frutto di un impegno teso a

mantenere costantemente aperta la dialettica tra custodia della propria identità l’apertura

di sé verso l’altro." (25 ottobre 99 Don Michele - Il pudore come rispetto dell’alterità)

Approfondimento n.1 - IL LINGUAGGIO DEL CORPO allegato a L’IMBARAZZO

L’individuo comunica con il corpo, i gesti e il tono di voce per circa il 60% contro il 40% circa della comunicazione verbale. Se anche stessimo in silenzio il corpo parlerebbe per noi, attraverso l’espressione del viso, la postura; un attento e sensibile osservatore capirebbe come ci sentiamo o se stiamo a disagio o rilassati. Usciamo dal banale e semplicistico obiettivo di voler apprendere il linguaggio non verbale per “sgamare” chi dice la verità o chi mente, per capire lo stile del nostro cliente e riuscire a vendergli un prodotto o per altri fini utilitaristici, egoistici, e anche a volte non leciti; questa informazione non ci servirà neppure per imparare a simulare o dissimulare un sentimento attraverso l’uso della propria postura o mimica. Quello che per noi conta qui è capire che il nostro corpo comunica sempre, anche quando pensiamo di controllarci, anche quando non vorremmo, e saper riconoscere alcuni segnali non verbali ci è utile per comprendere meglio noi stessi e gli altri. Tale comprensione aiuta a crescere, a migliorare, e aiuta a capire meglio chi ci sta vicino, è uno strumento per aumentare la vicinanza all’altro. In un dialogo posso capire meglio quello che mi viene detto e anche ciò che non mi viene detto. Per es. se incontro una conoscente che, sebbene allegra e socievole, si tiene distante, capirò che non ama l’invadenza e quindi non le farò domande troppo personali e salutandola mi limiterò a stringerle la mano; se in una sala di attesa mi si siede accanto una persona, pur essendo tutte le altre sedie libere, intuisco subito che si tratta di un individuo a cui piace parlare e, se io sono diverso o non mi va proprio di fare conversazione, eviterò di mostrarmi disponibile per es. mettendomi a leggere un libro o rispondendo a monosillabi. Si tratta di esempi banali, comprensibili e vissuti da tutti, ma quanto ne facciamo un consapevole uso per migliorare la convivenza e i nostri dialoghi? Riusciamo a tenerne conto quando discutiamo con nostro marito o nostro moglie? Se mentre litighiamo vediamo come l’altro si chiude nella postura, ammutolisce, o al contrario arrossisce, si irrigidisce e si trattiene le mani, correggiamo il nostro tono di voce, mitighiamo la nostra veemenza, per evitare che ci sia un’escalation di aggressività? O quando rimproveriamo i nostri figli, riusciamo a capire dai loro messaggi non verbali (occhi bassi, mani sudate, spalle curve) quando stiamo esagerando in critiche e prediche, e cambiamo registro?

Essere attenti ai messaggi del corpo deve portarci a questo, ad avere un canale in più per capirsi, per comprenderci a livello emotivo, proprio perché a volte non sappiamo dire con le parole quello che proviamo.

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Ci sono tante circostanze dove uno sguardo, un tono di voce, la vicinanza fisica silenziosa, trasmettono più che una bella frase. In genere sono le situazioni in cui si sta vivendo la massima gioia o il più profondo dolore.

Approfondimento n. 2 - FACCIO IL TIFO PER ME Allegato a L’IMBARAZZO

Possiamo immaginare i nostri rapporti con gli altri come una partita a scacchi: ci sono il Re, l’alfiere, il pedone e tutti gli altri, ci sono i bianchi e i neri, si incontrano, si fronteggiano, si sfuggono, si inseguono, si sopprimono, si difendono, si attaccano, si arroccano. Quando si incontrano bianco e nero, posso immaginare un pedone di fronte ad un re oppure un re bianco di fronte a un re nero.

Io con chi mi identifico, con il pedone o con il re? Se sono un pedone, chi ho davanti a me, un altro pedone o un re pronto a mangiarmi? E’ facile capire come cambia il discorso in base a come io mi vedo e considero il mio ruolo, altrettanto in base a come considero l’altro, se un mio pari oppure un superiore.

Provate allora a porvi alcune domande, a rispondervi, e poi leggete il piccolo commento che segue sotto riferito a ciascun interrogativo.

1. Pensando ad una persona che mi mette in imbarazzo, come vedo questo mio interlocutore, è un mio pari, è meglio di me o è inferiore a me?

2. Se lo sento superiore a me, perché penso che lo sia (per capacità, età, aggressività, ecc)? Quali caratteristiche lo rendono tale ai miei occhi?

3. Se questa persona dovesse giudicare un mio comportamento, una mia prestazione, quale effetto avrebbe il suo giudizio negativo su di me?

4. Quali elementi ho per dire che non sono alla sua altezza? Quale metro di paragone sto usando e quali parametri?

5. Perché per me è così importante quello che lui pensa di me?

Riflessioni.

(1) Posso immaginare per es. di avere di fronte un mio superiore per ruolo, ed effettivamente per ruolo lo sarebbe, ma questo non significa automaticamente che come persona sia più valida di me. Se considero le diverse personalità degli individui, non esiste chi è migliore di un altro, ciascuno ha le proprie caratteristiche, i propri punti di forza e di debolezza, ciascuno ha sviluppato qualcosa di sé in base alla personale storia, alle esperienze e alle occasioni che la vita gli ha offerto.

(2) A volte si tratta soltanto di apparenza; un modo di porsi troppo sicuro di sè non va scambiato per competenza, così come un timido non è detto che sia un incapace. Ricordate che la persona veramente valida, capace e in gamba, in qualunque ambito

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sia (manager, studioso, religioso o autorità), non susciterà mai disagio o senso di inferiorità nel suo interlocutore anzi saprà farlo sentire un suo pari.

(3) Se io sono un pedone di fronte ad un re, temerò certo il suo giudizio negativo! Ma se anch’io mi sento un re, o se comunque mi sento alla pari, il suo giudizio avrà lo stesso peso del mio e quindi posso scegliere se e come considerarlo. Il peso del giudizio altrui su di me ha importanza se proviene da qualcuno che io stimo e che mi conosce, da qualcuno che sa di quanto sono veramente capace. Se continuo a reagire in modo eccessivo al giudizio di chi non mi conosce, evidentemente il mio punto debole è proprio l’accettare le critiche. L’imbarazzo allora nasce dall’essere io oggetto di giudizio e non riguarda la persona da cui proviene, quanto lei è brava o superiore a me, ma riguarda il fatto che non sopporto di essere valutato dagli altri.

(4) Certamente è possibile che io mi ritrovi a confrontarmi con una persona che ha maggiori capacità di me in una situazione, ma è fondamentale come interpreto questo confronto. Se penso che ogni persona ha campi in cui riesce meglio o peggio, se credo che ci sono cose che non so fare ma ci sono altre che mi riescono bene, se rifletto sulla varietà, sul grado diverso delle performance, allora non vado in crisi se ho di fronte uno più bravo di me: io so di essere bravo in altre cose. Ciascuno ha i propri campi di competenza.

(5) Se il mio problema è non riuscire a reagire ai giudizi negativi, se vado in crisi nelle situazioni in cui devo essere valutato, non mi servirà ragionare, razionalizzare, ma mi sentirò sempre in forte imbarazzo e disagio per il solo fatto di sentirmi valutato, giudicato, senza riuscire a valutare ed usare le mie effettive capacità. Allora dovrei concludere che la mia bassa autostima non mi permette di sentirmi all’altezza degli altri o di certe situazioni.

Fondamentalmente infatti il tema centrale di cui stiamo parlando è l’AUTOSTIMA, cioè di ciò che un individuo pensa di se stesso, delle proprie capacità. Avere una bassa autostima porta insicurezza, mancanza di fiducia in sé, senso di inadeguatezza, quindi paure e ansia. Anche averne troppa non è buona cosa: si è presuntuosi, testardi, senza capacità di autocritica, si diventa poco empatici e egocentrici. Migliorare o riequilibrare la propria autostima è possibile.

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LA PAURA - Percorso nelle nostre emozioni / V

(disegno di GC)

“Possiamo perdonare un bambino che ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce.” (Platone)

*

La paura è l’emozione più arcaica presente nell’uomo e la cui origine è rintracciabile facilmente nella storia filogenetica degli esseri viventi per la sua funzione di sopravvivenza. L’essere esposti continuamente ai pericoli ambientali, hanno acuito nell’uomo la capacità di analizzare e classificare le paure, per prevederle e neutralizzarle. Si sono sviluppati nel tempo meccanismi automatici, sia nell’uomo che negli animali ma è nell’uomo che l’intelligenza svolge un lavoro di elaborazione tale da poter distinguere tra percoli reali e falsi pericoli, tra pericoli concreti e altri simbolici, tra rischi probabili e paure irrazionali. Mi immobilizzo o scappo? Queste sono le due possibilità di azione quando l’uomo o un animale è colto dalla paura. In realtà c’è la terza possibilità, quella del far fronte, dell’affrontare ciò che ci spaventa ma arriva un po’ dopo, con il ragionamento e con la scelta di come muoversi. Di fronte a qualcosa che veramente mi spaventa la reazione più istintiva può essere l’immobilità, il sentirsi paralizzati, bloccati. Si tratta di un comportamento molto istintivo che vuole copiare quell’atteggiamento dell’animale che finge di essere morto per non essere attaccato dal predatore. Purtroppo abbiamo tutti sperimentato come il restare immobile nella paura spesso non cambia la situazione: lo stimolo spesso continua (il predatore non ci casca) e la paura pure. Altre volte viene istintiva la fuga: prima ancora di capire cosa mi fa paura, scappo, mi metto al sicuro. La mia mente valuta in una frazione di secondo la presenza di vie di fuga e sceglie di scappare. La terza via è la lotta: questa richiede non solo coraggio ma anche la capacità di saper valutare il grado di rischio, cioè il rapporto tra le mie capacità e il livello di pericolosità, saper confrontare la mia forza con la forza della cosa che mi spaventa. Non siamo molto lontani dal discorso sull’autostima fatto in un altro capitolo!

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Adesso, tutto quanto detto sopra, provate a considerarlo in termini metaforici, cioè immaginate queste tre alternative di comportamento (immobilità, fuga, lotta) nella vita di tutti i giorni, davanti a situazioni reali, nel dialogo con le persone con cui vi relazionate, quando vi trovate davanti ad un problema importante di lavoro o familiare o di coppia, che non vorreste affrontare, o durante un litigio violento. Oppure considerate alla luce di queste tre alternative e del loro significato, l’atteggiamento che a volte prendiamo di fronte a noi stessi, alla nostra vita, al nostro carattere, a quelle relazioni sbagliate che non riusciamo a chiudere, a quei blocchi mentali che non riusciamo a risolvere, a quelle parti di noi stessi che non riusciamo a cambiare. Rileggete il paragrafo precedente (Mi immobilizzo o scappo? ) in questo senso, pensando a voi stessi nella vostra realtà personale. Esistono tanti termini per parlare delle diverse sfumature della paura: terrore, timore, ansia, panico, trepidazione, spavento, orrore, fobia. La paura è comune a tutti ma si tratta di intensità molto diverse e diversa è la capacità di gestione che possiamo esercitare su di esse. Una cosa è certa: il livello di intensità della paura mi dice quanto mi sento in grado di fronteggiarla. Sono due valori inversamente proporzionali. L’ansia, la trepidazione, il timore sono emozioni comuni, normali entro certi limiti. Ogni giorno qualcosa ci scatena ansia o preoccupazione, spesso sono problemi da risolvere, persone da affrontare, quindi situazioni abbastanza gestibili in cui conosciamo la causa del disagio. Ma l’ansia a volte è presente in modo acuto e incontrollabile, e può arrivare a creare sindromi cliniche come negli attacchi di panico. (vedi approfondimento n.1- Il dio Pan e gli attacchi di panico) La paura può assumere una forma più problematica quando persiste anche in assenza reale della minaccia: parliamo in questo caso delle fobie (vedi approfondimento n.2 – Le fobie).

Paura di ciò che non si conosce, paura come autoconservazione, paura legata all’ insicurezza di sé o delle proprie capacità, paura generata e rafforzata dall’ignoranza, questi sono i vari aspetti di tale emozione; in tutti i casi bisogna fronteggiarla, se non vogliamo immobilizzarci, restare passivi. Non parliamo ovviamente di situazioni realmente a rischio di vita. Negli altri casi ciò che ci viene richiesto è un atto di coraggio, perché in sé la paura non significa incapacità, impossibilità di azione ed il più delle volte la usiamo come alibi per non affrontare situazioni che richiederebbero una particolare attivazione o un cambiamento faticoso.

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Approfondimento n.1 - Il dio Pan e GLI ATTACCHI DI PANICO Allegato al LA PAURA

Nella mitologia greca Pan era lo spirito di tutte le creature naturali, di tutta la realtà e la Natura del mondo, e questa definizione lo collega alla foresta, all'abisso, al profondo. Secondo un’altra leggenda era patrono del riposo pomeridiano durante il quale infondeva timore, ansia. Forza vitale e creatrice, in costante attesa degli eventi vitali, viene collegata ad uno stato d’ansia in attesa degli accadimenti, tanto da portare alla percezione dell’incontrollabilità e di un’ansia generalizzata legata all’incapacità di governare lo svolgimento delle cose.

Da Pan deriva la parola pànico. Il panico è una paura incontrollata, ingestibile, che assale la persona e la immobilizza, la mette in uno stato di incapacità ad agire.

Cosa accade esattamente durante un attacco di panico?

Ciò che accade è a vari livelli: neurovegetativo, psichico, psicosensoriale, comportamentale (con intensità che varia da caso a caso). Gli episodi insorgono all’improvviso e sono di breve durata, ma in quei pochi minuti la persona è fortemente impaurita dalle manifestazioni neurovegetative che il proprio corpo esprime: senso di soffocamento, tachicardia, sudori, brividi, vertigini, tremori incontrollati. La sensazione è di paura, timore di perdere il controllo; c’è una percezione alterata di sé e dell’esterno, un senso di irrealtà, estraneità. A livello comportamentale il soggetto svolge un forte autocontrollo per cui raramente i presenti si accorgono del malessere in atto.

Spesso il primo attacco avviene in una situazione veramente drammatica o molto significativa per il paziente (incidente, morte di un familiare, ecc); i successivi episodi invece non sono quasi mai riferibili ad un contesto di ansia, come se avvenissero senza motivo, senza ragione. Talvolta sono scatenati da assunzione di droghe; il 50% avviene durante il sonno e causano un brutto risveglio.

L’attenzione al proprio corpo e a questi sintomi fanno sì che si accentui l’ansia e si inneschi un circolo vizioso che mantiene il sintomo perseverando l’interpretazione catastrofica del proprio vissuto (sto per morire, sto per impazzire, ecc).

La messa in atto di numerosi comportamenti di evitamento (1) e di ricerca di sicurezza impediscono ai pazienti di disconfermare i propri timori erronei, che quindi permangono nel tempo. Il fatto cioè che si cerchi di evitare le situazioni collegate alle crisi (per es. tra le più riferite troviamo i luoghi affollati, stare alla guida della macchina, o prendere l’autobus), oppure ci si appoggi ad un’altra persona per affrontarle, non aiuta a superare questo tipo di ansia ma la perpetua e la rinforza.

Che senso ha l’attacco di panico? A cosa serve?

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Quando un conflitto o un disagio viene rimosso dalla coscienza e relegato nell’inconscio, può arrivare un momento in cui comincia a farsi sentire dando origine a sintomi. Talvolta prendono la forma di frequenti attacchi di cefalea, altre volte è la colite o l’afonia, nel caso in cui il sintomo scelga la via somatica (sono moltissimi i sintomi che hanno questa causa, sono le cosiddette somatizzazioni). L’ attacco di panico va letto allo stesso modo, è espressione di uno stato di malessere. Nella mia esperienza clinica ho constatato che si tratta di un malessere spesso legato al senso di costrizione, al sentirsi stanchi di dover avere sempre e soltanto una prestazione al massimo livello, non saper mai dire di no, essere sempre pronti a farsi in quattro per gli altri, non riconoscersi mai momenti di debolezza o limiti o imperfezioni, sentirsi sempre in dovere di dare il massimo ed essere efficienti. In genere accade alle persone realmente capaci, su cui tutti sanno di poter contare. Come se l’attacco di panico fornisse loro “la scusa” per fermarsi, assentarsi, esonerarsi dal dovere, e non riuscire più ad essere efficienti come prima. Come a voler dire “Vedete cosa mi succede a volte? Non potete contare sempre sulle mie capacità, anzi ora sono io ad aver bisogno di aiuto!”.

Cosa fare allora?

La persona che soffre di a.di p. può cercare di capire l’origine di questo sintomo e rivolgersi ad uno psicologo per decodificare il senso del disturbo.

Chi invece ha un familiare o un’amica che ha queste crisi, deve sapere che sostenerlo evitandogli i contesti scatenanti il panico (prendere l’autobus, guidare, stare in un supermercato, ecc) o accompagnandolo, non costituisce né un vero aiuto né una risposta al problema, che va affrontato dall’interessato come detto prima.

(1) Comportamento di evitamento: quel comportamento messo in atto sistematicamente e rigidamente (cioè

senza eccezioni) finalizzato ad evitare la situazione che genera il disagio.

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Approfondimento n.2 - LE FOBIE Allegato a LA PAURA

Definizione di fobia

Parliamo di fobia quando la paura di uno stimolo o di una situazione specifica è irragionevole, sproporzionata rispetto alla minaccia che rappresenta, tanto che vengono messi in atto comportamenti di evitamento e risulta compromessa anche l’area delle relazioni sociali (lavoro, uscite, contatti con l’esterno, ecc). la fobia crea uno stato di sofferenza difficile da gestire e può arrivare a condizionare molto la libertà di movimento e le relazioni della persona che ne soffre.

Ci sono molti tipi di fobie tra cui le più frequenti sono quelle per i luoghi chiusi (claustrofobia), per i luoghi aperti (agorafobia), per alcuni animali, per gli insetti, per il sangue (emofobia), le iniezioni, le ferite, per i temporali, le altezze (acrofobia) o le armi.

Una persona con una fobia specifica può avere anche vita difficile se si trova spesso a doversi confrontare con l’oggetto della sua paura, oppure no se le occasioni di confronto non sono frequenti: per es. la fobia del volo (aviofobia) può essere un problema per chi necessariamente deve prendere gli aerei ma non lo sarà per la persona che non fa spesso grandi spostamenti. (In tal caso non si fa diagnosi di fobia specifica essendo lo stimolo quasi mai presente e non condizionando la vita quotidiana della persona).

La fobia sociale è una voce a sé, essendo legata in particolare alle situazioni sociali dove è richiesta una performance o la persona si trova tra sconosciuti o può essere sottoposta a giudizio da parte degli altri. I sintomi sono sempre gli stessi ma vengono scatenati dal fatto di essere esposto, parlare in pubblico. E’ frequente in molti individui un certo disagio, ma se questi sintomi sono tali da creare ogni volta, con qualunque platea, un forte malessere, l’impedimento all’attività e il panico, allora parliamo di fobia altrimenti è un’ansia normale che la maggioranza delle persone prova in queste circostanze.

Come superare una fobia?

Mentre è facile riconoscere di avere una fobia, non lo è decidere di superarla.

Alla base delle fobie e della fobia sociale, ci sono dei pensieri automatici negativi che si attivano all’apparire dello stimolo ansiogeno e che governano il flusso del pensiero e quindi del nostro comportamento. Le valutazioni di pericolo sono accompagnate dallo spostamento dell’attenzione su se stessi e dal monitoraggio attento delle proprie sensazioni, emozioni, immagini, reazioni fisiologiche. L’ansia si autoalimenta

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incrementando queste reazioni e generando un circolo vizioso in escalation. Per es. una persona con fobia sociale che deve parlare ad una platea avrà questi pensieri negativi automatici: non so cosa dire e così penseranno che sono stupido, se inizierò a sudare penseranno che sono ridicolo, ecc. frasi che sono sostenute da una percezione di sé come incapace, poco intelligente, goffo. Quindi ci sono due piani, quello che riguarda il giudizio degli altri su di me e quello di come io valuto me stesso.

Non è un lavoro psicologico facile da fare da soli. Da soli si cercheranno strategie di evitamento o protettive o distraenti, cose che non risolvono alla radice ma confermano a se stessi che c’è un pericolo oggettivo di cui preoccuparsi.

Invece occorre, insieme ad uno psicoterapeuta, ridefinire la situazione, modificare il processo di elaborazione dello stimolo che genera la paura: la fobia poggia su distorsioni cognitive e pensieri automatici negativi relativi alla situazione e a se stessi.

Il trattamento più efficace è quello offerto dalle terapie cognitivo-comportamentali che consistono sia nel lavorare sul versante comportamentale (esposizione controllata allo stimolo fobico, la messa alla prova, ecc) sia su quello cognitivo nel modificare i pensieri automatici associati alla percezione dello stimolo.

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L’AMAREZZA

Percorso nelle nostre emozioni / VI

(Castello di carte di Alexander Daniloff)

Dando uno sguardo al nostro cerchio delle emozioni[1] non troveremo l’amarezza ma alcune emozioni secondarie che possiamo considerare molto vicine ad essa: l’aspettativa e la delusione. L’amarezza credo sia la risultante di un processo che, partendo da un’aspettativa – ossia da un sentimento di attesa verso un risultato da noi già prefissato – arriva ad un esito negativo deludente, generando appunto una sensazione di delusione permanente che lascia il cosiddetto “amaro in bocca”. Mi vorrei soffermare su questi due primi passaggi perché determinano il grado e l’intensità dell’amarezza che conserviamo dentro di noi, stato che condiziona il nostro atteggiamento verso il mondo rendendoci sfiduciati e pessimisti. L’aspettativa si crea tutte le volte che ci poniamo verso l’esterno e gli altri dando per scontato un risultato o un comportamento. Possiamo avere aspettative espresse in positivo (aspettativa di un successo) o in negativo (aspettativa di un fallimento). Per es. possiamo dire a nostro figlio di 12 anni : “Sicuramente, siccome sei sempre stato bravissimo a scuola, avrai anche quest’anno la media del nove”, oppure pensare tra me e me “Anche questo ragazzo si stancherà di me e mi lascerà”. Nel primo caso mi sto radicando su un’immagine ideale di mio figlio, quella dell’alunno modello, in cui io non prevedo l’eventualità di cali nel rendimento dovuti alle più svariate cause (momenti di stanchezza del ragazzo, cambiamenti di umore, intenzione di abbassare o cambiare lo standard di prestazione, ecc). Nel secondo caso sto già tracciando nella fantasia la mia storia sentimentale portandola verso la fine: dò per scontato il comportamento del mio ragazzo e il risultato finale. Noi psicologi definiamo questa situazione “profezia che si autoavvera” (per altri detto anche “effetto Pigmalione” o effetto Rosenthal [2]), cioè inconsciamente, con questa fantasia, faciliterò situazioni critiche che porteranno al fallimento della relazione d’amore. Questo è ciò che spesso si verifica quando una persona ha l’abitudine di fare previsioni negative in modo esagerato, e questo spiega anche l’accanimento di eventi funesti sempre sulla stessa persona (Perché capita sempre a me? Perché ogni volta con un uomo va a finire male? Perché vengo sempre delusa dalle amicizie? ): se andiamo a vedere quasi sempre troveremo un individuo che si affaccia alle

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esperienze e al mondo con una forte difesa per paura di soffrire e quindi con una sfiducia di base verso le cose. Conoscete l’aneddoto del signore a cui serviva un martello? Più o meno diceva così: Un signore doveva appendere un quadro e non trovava il suo martello. Decide di andarlo a chiedere al suo vicino di casa. Inizia però a pensare che il vicino potrebbe scocciarsi, rispondergli male, magari offenderlo per averlo disturbato, arrabbiarsi tanto da arrivare persino a dargli un pugno. Il signore si convince così tanto della immaginata scortesia del suo vicino che, pieno di offesa e di rabbia, bussa al vicino e appena questi apre la porta, gli sferra un pugno dicendogli “Il tuo maledetto martello te lo puoi anche tenere!” .

Quindi: è giusto e sano fare previsioni e avere aspettative purché siano ragionevolmente realistiche, cosa che posso verificare attraverso il confronto e il dialogo con altre persone, il cui parere devo poi tener presente nella mia valutazione. L’aver sperimentato una serie di esperienze negative porta a vivere con sfiducia e diffidenza le relazioni, ci si aspetta la delusione e abbiamo visto come ciò ci predispone in modo difensivo verso le relazioni. Si può instaurare un senso generalizzato quasi costante di amarezza che dà un colore di tristezza al tono di fondo personale: la mia chiusura difensiva anziché darmi sicurezza, mi lascia solo e triste. Dall’amarezza quale emozione transitoria legata ad una delusione, si può scivolare in uno stato più pesante e continuo che può sfociare in una sindrome. Purtroppo di questi tempi l’amarezza è uno stato condiviso da molti. Il contesto economico italiano sta generando situazioni di disperazione e chi già si sentiva in difficoltà prima, adesso non riesce proprio a vedere un futuro migliore. (vedi approfondimento n.1- Quando l'amarezza si trasforma in malattia)

Come uscire da questo circolo vizioso?

Finché siamo sotto il livello di guardia, possiamo combattere il senso di amarezza con le nostre forze e risorse, per non arrivare al punto di dover cercare un aiuto esterno. Come ho detto sopra è importante mantenere un dialogo aperto di confronto con gli altri e un equilibrato senso di realtà. Serve metter sempre alla prova le nostre convinzioni, lasciare sempre un margine di variabilità sia nell’andamento degli eventi che nel comportamento altrui verso di noi; considerare la possibilità che le cose possano andare diversamente, ci consente di prepararci anche all’imprevisto risparmiandoci la delusione. Cioè, pur conservando il mio ottimismo – cioè la previsione positiva – metto in conto anche la possibilità che vada diversamente e mi preparo in anticipo anche a questa eventualità. Ciò mi permetterà, in caso di insuccesso, di soffrire di meno e di non farmi trovare impreparato, quindi saprò reagire in modo adeguato.

1] vedi “A CONTATTO CON LE NOSTRE EMOZIONI Introduzione” - Allegato IL CERCHIO DELLE EMOZIONI (ott/2011)

[2] “Effetto Pigmalione”o Effetto Rosenthal: In Ovidio (Metamorfosi, X, 243), Pigmalione è uno scultore che si innamorò di una sua

statua, raffigurante una figura di donna, fino al punto di implorare Afrodite affinché la trasformasse in un essere umano per poi poterla sposare.

Robert Rosenthal fece un illuminante esperimento nell’ambito della psicologia sociale in cui dimostrava come l’aspettativa/pregiudizio influisce sulle relazioni interpersonali.

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Approfondimento n. 1 - QUANDO L’AMAREZZA SI TRASFORMA IN MALATTIA Allegato

a L’AMAREZZA

Lo psichiatra Michael Linden della Libera Università di Berlino ha osservato che quando l’amarezza si accompagna a paure, ansia, desiderio di vendetta, senso di impotenza, rabbia, si può cominciare a parlare di un disturbo psicologico che si può definire come disturbo post traumatico da amarezza (post-traumatic embitterment disorder). Chi ne soffre si sente arrabbiato col mondo, con la vita, sente di subire un’ingiustizia, ed inoltre si sente impotente. In realtà si tratta di persone che a ben vedere hanno dei motivi per sentirsi così: sovente hanno investito impegno o denaro, o si sono dedicati anima e corpo a qualcosa, e poi si sono trovate ad affrontare un grande ostacolo, un problema insormontabile, fuori dalla loro volontà, che ha rovinato tutto. Un tradimento, un crac finanziario, un insuccesso, una separazione coniugale… non necessariamente traumi violenti, tragici, ma anche piccole o medie delusioni ripetute che, giorno dopo giorno, non hanno visto un’evoluzione, una soluzione. Oggi, nella nostra società, si parla di “sindrome da amarezza cronica”: un quadro alimentato dalla crisi di valori e di ideali, crisi ideologica, crisi religiosa, quadro anche accentuato dalla crisi economica che, non offrendo prospettive lavorative valide, incrementa il senso di vuoto di identità e di inconsistenza personale. DAL PRECARIATO ALLA SOMATIZZAZIONE: uno strano percorso. Ma se l’assenza di prospettive nella propria vita viene vissuta giorno per giorno come un pesante problema che genera disagio, amarezza, stress, il passo successivo porta allo sviluppo di disagi anche fisici, perché sappiamo quanto stress e disturbi somatici sono talvolta in relazione. Sentirsi impotenti, arrabbiati, cominciare a ridurre le proprie attività sociali, ritirarsi dal mondo degli affetti, chiudendosi, sentirsi sempre di malumore, irritato, rassegnato, tutto questo sfocia spesso nell’inappetenza, nei disturbi del sonno, in dolori addominali o cefalee. Purtroppo dalla cronaca abbiamo appreso come esiste la possibilità che un «malato» di amarezza arrivi anche ad azioni distruttive, come improvvisi omicidi dei suoi familiari o il suicidio stesso. Non possiamo che fare appello a tutte le nostre risorse individuali e sociali, per combattere questo stato di disperazione, inteso come stato di assenza di speranza. Tra le risorse individuali non dimentichiamo la creatività, la fantasia, la lungimiranza, oltre che la fede, che vanno sempre alimentate. Tra le risorse sociali la collaborazione, l’amicizia, l’integrazione, lo scambio.

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L’ORGOGLIO

Percorso nelle nostre emozioni / VII

L’orgoglio è una delle emozioni più complesse e, insieme alla vergogna, all’imbarazzo e alla colpa, è detta “autoriflessiva” perché ha come oggetto la persona stessa, è legata al concetto che la persona ha di se stessa.

Si tratta di un’emozione utile e necessaria: rappresenta il livello della propria autostima e rinforza i propri comportamenti positivi, quelli legati all’altruismo e al raggiungimento di obiettivi, generando un rinforzo attraverso la sensazione di gratificazione e soddisfazione del proprio agire.

La perdita dell’orgoglio o sentirsi feriti nell’orgoglio scatena in noi comportamenti aggressivi e antisociali, perché vediamo un attacco al nostro io, sentiamo una minaccia, come se venisse attaccato e colpito dolorosamente il concetto che abbiamo di noi stessi.

LA DOPPIA FACCIA DELL’ORGOGLIO

Se da un lato l’orgoglio può essere positivo ed alimenta l’autostima – dato necessario per avere una certa e sana sicurezza di sé – dall’altro un eccesso di orgoglio rende la persona presuntuosa, vanitosa, saccente, superba. Si passa cioè da una sana e funzionale fiducia in sé stessi ad un senso esagerato di sé, ad un’idea di se stessi come artefici di ogni successo raggiunto e conquista. Anche l’atteggiamento cambia: la persona molto orgogliosa è quella che “sta sempre su un piedistallo”, quella che non ascolta pareri diversi dal proprio, che non sa riconoscere i propri difetti e limiti.

La persona con un orgoglio sproporzionato può quindi arrivare alla superbia, centrare l’attenzione unicamente su se stessa assumendo una posizione di superiorità per cui si attende anche un riconoscimento esterno. Il bisogno di riconoscimento è comune a tutti e serve per formare e rafforzare la nostra identità, ma va “controllato” attraverso una

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negoziazione con l’esterno, un dialogo con gli altri, affinché non diventi in sé il fine fondamentale e necessario delle nostre azioni. Il riconoscimento esterno non è lo scopo del comportamento di un individuo ma è senz’altro un riscontro positivo utile e importantissimo per la sua autostima.

LA STRADA PER CORREGGERE UN ORGOGLIO ESAGERATO

Per la persona molto orgogliosa è difficile cambiare: spesso l’orgoglio e la superbia sono confusi con la sicurezza di sé e la fermezza di carattere.

Se riflettiamo per un minuto su quale è la persona sicura e ferma di carattere, arriviamo a vedere che non è quella che si chiude, che si arrocca[1], che si mette su un piedistallo e non ammette di essere contraddetta né sminuita; io credo invece che sia la persona che in ogni situazione sa stare calma, sa comportarsi con equilibrio, accetta le critiche, sa esprimere quello che sente e che pensa senza prevaricare o offendere, rispettando tutti anche quando non è d’accordo. Sto parlando quindi di un essere orgoglioso quanto basta per difendere la propria dignità, non del superbo che allontana e considera gli altri inferiori.

Questa immagine della persona sicura di sé quindi non richiede grandi quantità di orgoglio ma semmai di umiltà, ossia della capacità di vedere i propri limiti, di accogliere posizioni diverse dalle proprie, in modo autentico, con una vera apertura mentale. Riconoscere i propri limiti non è debolezza, non è umiliazione, anzi è una grande qualità morale che viene riconosciuta e apprezzata dalle persone mature.

Concludendo: possiamo correggere l’orgoglio con un atteggiamento di apertura, di dialogo con gli altri, allentando un po’ la rigidità delle posizioni prese, mettendo in dubbio la validità assoluta del proprio ragionamento e dando anche agli altri uno spazio di espressione e di credibilità.

E’ da questi comportamenti che la dignità delle persone viene preservata ciascuna nella propria diversità e unicità.

Correlazioni

L’ORGOGLIO DA UN PUNTO DI VISTA BIBLICO CRISTIANO (M.V.)

NOTE

[1] Arrocco: Nel gioco degli scacchi l’arrocco è una manovra difensiva volta a portare al riparo il Re in un

angolo della scacchiera, dietro il muro dei propri pedoni (dal sito scacchi.qnet.it)