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NEOPSICHE Rivista di Psicologia e Scienze Umane Organo Semestrale della Associazione Italiana di Analisi Transazionale

Neopsiche - AIAT

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Neopsiche

Rivista di psicologia e scienze Umane Organo Semestrale della Associazione Italiana di Analisi Transazionale

Lettori Giorgio C. Cavallero Massimo Gaudieri Carla Giovannoli Marco Mazzetti Carlo Moiso Dolores Munari Poda Michele Novellino M. Luisa Pisani Fabio Ricardi E. Sylvie Rossi

Neopsiche Rivista di psicologia e scienze Umane

Organo Semestrale della Associazione Italiana di Analisi Transazionalewww.aiat.it

Registrazione del Tribunale di Milano n. 272 del 4/06/83

Sede e Redazione c/o Segreteria AIAT

Direttore Responsabile Maurizio Martucci

Direttore scientifico Laura Quagliotti

comitato scientifico e di Redazione Daniela Allamandri Dianora Casalegno Natoli Nunzia di Prisco Simona Ramella Paia Imma Savastano Salvatore Ventriglia

Il Comitato di Redazione e l’Editore ringraziano il Maestro Ugo Nespolo per aver concesso l’uso delle sue opere per la realizzazione delle copertine di Neopsiche.

hanno collaborato a questo numero Anna Sanna, Paola De Andrea, Barbara Giacobbe, Pinuccia Casalegno, Maristella Fantini, Maria

Luisa Pisani

© 2008 ANANKE srl Tutti i diritti riservati / All rights reserved

ANANKE srlVia Lodi 27/C - 10152 Torino (Italy)

www.ananke-edizioni.com E-Mail: [email protected]

ISBN 978-88-7325-311-2

sommaRio

Editoriale Maurizio Martucci .................................................................................................5Conoscere e far conoscere Carlo Moiso ...........................................................................................................7L’Analisi Transazionale o è radicale o non è Analisi Transazionale Keith Tudor ............................................................................................................8Il puzzle degli stati dell’Io Fabio Ricardi .......................................................................................................21Il copione personale e trans - personale (dal famigliare all’antropologico) Achille Miglionico ................................................................................................31Emozioni sostitutive e giochi psicologici Giacomo Magrograssi .........................................................................................43La questione religiosa in psicoterapia Santina Ficara ......................................................................................................48Analisi transazionale e maturazione del credo religioso Daniela Allamandri ..............................................................................................52Significato, Sintomo, Vita Barbara Fabbroni ................................................................................................59Norme redazionali .....................................................................................................69Condizioni generali per l’abbonamento ....................................................................71

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eDitoRiaLe

È il 28 novembre 2008, un giorno che per molti è un giorno qualunque, ma che per Noi, Analisti Transazionali ha un significato particolare, che resterà per sempre inciso nella nostra storia di persone e clinici. Carlo Moiso, fondatore, nel 1983, di questa Rivista, muore.Carlo, così mi piace chiamarlo nel mio dialogare con Voi, ha contribuito, in modo significativo, ad introdurre e a diffondere l’Analisi Transazionale in Italia, nonché al suo sviluppo in Europa. Ho avuto la fortuna e l’onore di conoscerLo molto bene, tanto da poter affermare che Lui, Uomo e Maestro, non avrebbe gradito commemorazioni retoriche. Chiunque abbia avuto l’opportunità di incontrarLo ha potuto apprezzare la sua genialità scientifica e professionale, che indubbiamente impregnerà di Sé il futuro. Chiunque abbia lavorato con Lui conserva un patrimonio, tanta era la sua generosità, di idee e stimoli attraverso cui onorarne la vita. E se ogni uomo è la narrazione di sé stesso, di quel Sé come comunità interiorizzata, allora Carlo sarà per Noi quella possibilità di Fare Anima di hilleriana memoria in cui le co-ordinate del fare e dell’essere terapeuta, del viversi come incontro-con-l’Altro-malato si aprono a Lui, a quel Maestro, quell’Uomo che neanche l’ombra della morte potrà cancellare. La vita come il fare terapia non è un viaggio che si fa da soli, bensì è un mutuo porsi, ed è qui che Carlo sarà per Noi compagno di un viaggio ancora da sviluppare, condividere e scrivere. Non commemorare, quindi, ma onorare la vita di un genio della scienza dell’Anima. Mantenerne vivo il ricordo attraverso l’esegesi del suo pensiero e la produzione di nuovo pensiero che dai suoi stimoli e dalle sue idee genera.Questo numero di Neopsiche esce listato da una nota di tristezza. Ma al tempo stesso si arricchisce di quell’essere-insieme che conduce all’irriducibile presenza del lavoro di Carlo. Salutiamo l’Amico ed il Maestro riproponendovi la presentazione che Carlo Moiso scrisse per accompagnare l’uscita del 1° numero di Neopsiche nel 1983. Ma soprattutto salutiamolo tenendo fede all’impegno di fare sì che questa Rivista sia, come Lui più volte mi sollecitò, luogo di condivisione di pensiero. Quel luogo, che diviene logos e òikos in un dia-logos co-narrativo e tras-formativo.Niente è, quindi, più opportuno che il lavoro di K. Tudor per aprire questo volume della rivista. Tudor è un autore capace di stimolare intelligentemente il dibattito teorico. In questo suo lavoro rivendica la tradizione che lega l’Analisi Transazionale alla Psichiatria radicale e ne propone un ampia lettura sia storica che teorica. “. . . Spesso, quando nelle prime sedute di terapia spiego ad un paziente l’idea degli Stati dell’Io, non sono per niente soddisfatto. Mi sembra di vendere come semplice qualcosa che in realtà è complesso. . . “ Queste le parole con cui Fabio Ricardi introduce il suo lavoro :” Il puzzel degli Stati dell’Io”.Migrare humanum est: Il copione personale e trans-personale. Interessante e stimolante lavoro di Achille Miglionico che propone una lettura in chiave anche Antropologica della teoria copionale. Il lavoro di Achille è molto ampio. In questo numero ne proponiamo la prima parte.

La seconda troverà spazio sul numero di Dicembre 09.La “sezione teorica” viene chiusa da un lavoro che ci propone Giacomo Magrograssi, che si propone di “ . . . collocare in una rappresentazione grafica di più facile comprensione . . .” i concetti riferibili alla teoria del racketeering.Il rapporto con la religiosità è da sempre una questione di grande attenzione da parte della Psicologia. Si pensi agli studi di C.G. Jung o dello stesso S. Freud. Daniela Allamandri e Santina Ficara ci offrono due lavori fra loro integrati che ci permettono di aprire un vertice osservativo e, perché no, riflessivo su questo ampissimo argomento. Lo spunto offerto dal lavoro di queste due Colleghe è molto stimolante, tanto che auspico che dal loro lavoro prende avvio un ampio confronto anche attraverso Neopsiche.A chiudere questo numero importante di Neopsiche abbiamo, per così dire, chiamato un ospite esterno. Ospitiamo il lavoro, parte di una nutritissima bibliografia, di Barbara Fabbroni.Significato, Sintomo, Vita. In una mia libera associazione: il segno che da senso (significante) alla vita. Il linguaggio utilizzato, il ritmo di scrittura invitano ad una lettura co-involgente. Scopriamo, in questo lavoro di Fabbroni, l’incontro di Berne con J. Lacan e K. Jaspers a cui si avvicina il pensiero filosofico di M. Heidegger rrestituendo così, ad E. Berne, la Sua collocazione nell’ambito della teoria fenomenologica. È un invito a vivere l’incontro nella stanza della terapia nel suo segno (senso) più proprio. Quello dello speciale incontro in cui “ . . . la coscienza fa esperienza-di-Sé Attraverso l’in-contro con l’Altro-da-Sé . . . “Al momento in cui diamo alle stampe questo numero della rivista ci giunge la notizia della morte di Maria Luisa Pisani, direttore responsabile e anima di Neopsiche fin dalla sua nascita. Valgono qui pensieri simili a quelli rivolti a Carlo per Maria Luisa, anch’ella Amica e Maestra.Acquista maggior valore l’impegno nostro di onorare la vita dei Maestri.

Maurizio Martucci

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coNosceRe e faRe coNosceRe

La vita scientifica di una associazione, così come quella di una persona, è caratterizzata, fra le altre, da queste due polarità interconnesse: conoscere e fare conoscere. La prima senza la seconda è sterile, la seconda senza la prima è, anche semanticamente, assurda.I seminari tenuti presso i vari Centri e Istituti in cui si articola l’attività dell’Associazione italiana di Analisi Transazionale hanno come loro compito quello di acquisire la conoscenza dell’A.T., questa rivista quello di porgere i risultati di tale acquisizione.Eric Berne voleva che l’Analisi Transazionale fosse nel metodo scienza, cioè continua riela-borazione e riproposizione delle conclusioni. Questo è quindi lo scopo di questa rivista: pre-sentare per indurre a riflettere, a rielaborare, a crescere in scienza, e, trattandosi di argomenti inerenti l’essere dell’uomo, in coscienza.L’Analisi Transazionale attraversa oggi una delle sue fasi di crescita teorica più entusiasmanti e promettenti: da una parte abbiamo il lavoro di sintesi della teoria fin qui elaborata, dall’altra la logica conseguenza di questo lavoro, cioè nuove elaborazioni a partire da una base solida e comune.Un solo esempio tra i tanti possibili: la sistematizzazione coerente della teoria degli Stati dell’Io ha reso chiaro e palese a tutti che bambino Adattato e G1 non sono assolutamente sinonimi, ma addirittura due concetti appartenenti a classi logiche diverse, e pertanto non so-vrapponibili e assimilabili l’una all’altra (cioè nel caso specifico comportamenti e strutture). Ma è stata proprio la conoscenza collettiva di questo dato che ha permesso l’elaborazione di quelle teorie e prassi terapeutiche (la scissione dell’Io, diagnosi e terapia ambulatoriale della struttura maniaco-depressiva, l’analisi strutturale del copione nelle personalità narcisiste e borderline, l’analisi strutturale e fenomenologica del transfert) che hanno dato e danno vita alla ricchissima visione psicodinamica dell’Analisi Transazionale, preconizzata da Berne e oggi in pieno sviluppo. I riflessi di questo indirizzo non sono però solo di carattere scientifico, ma investono anche tutto l’iter formativo degli Analisti Transazionali. Il nuovo esame per ottenere il titolo di Ana-lista Transazionale, così come è stato strutturato dal Board of certification, l’organismo che ha sostituito la I.T.A.A. (Associazione internazionale di Analisi Transazionale) nelle procedure di accreditamento degli Analisti Transazionali, la necessità di procedimenti di formazione permanente per mantenere il titolo di analista e di didatta, il numero sempre crescente di allievi e di centri e istituti di formazione che preparano in Italia al conseguimento del solo titolo riconosciuto di Analista Transazionale, motivano la nascita di questa rivista, organo scientifico dell’Associazione Italiana di Analisi Transazionale di cui ho il privilegio di essere Presidente.

Carlo MoisoPresidente dell’A.I.A.T.Analista Transazionale Didatta

NEOPSICHE – giugno 1983

abstract

In questo articolo la psichiatria sociale viene vista come una premessa della psichiatria ra-dicale che l’autore considera una tradizione perduta nell’ambito dell’analisi transaziona-le (l’AT). Viene quindi data una lettura della teoria e della prassi della psichiatria radicale come parte dello sviluppo attuale dell’AT che non soltanto rivendica questa tradizione ma che si trova a dover contrastare un neo-con-servatorismo nella psicoterapia dell’AT e, di fatto, nel campo della psicoterapia.

La psichiatria sociale

Nel 1956 Berne istituì una serie di incontri settimanali per esperti nel campo della salute mentale riuniti sotto la dicitura The San Fran-cisco Social Psychiatry Seminar che, nel 1960, divenne un ente legalmente costituito che, a sua volta, portò all’istituzione dell’Interna-tional Transactional Analysis Association. L’opera di Berne scaturita dal seminario sul-l’AT, Transactional analysis in psychotherapy (Analisi transazionele in psicoterapia) (Berne, 1961/1971) è sottotitolata ‘Una psichiatria sociale e sistematica dell’individuo’. Egli la definisce così (p. 12): “lo studio degli aspetti psichiatrici di transazioni specifiche o serie di transazioni che si verificano tra due o più indi-vidui particolari in un dato momento e luogo.”

Nonostante l’importanza evidente che Berne attribuisce a tale concetto, egli ne fa riferimento solo due volte nel resto del libro. Una quando parla del mantenimento degli stati dell’Io rela-tivi al flusso mutevole degli stimoli sensoria-li, la cui osservazione, secondo quanto ci dice Berne (ibid., p. 83), “fonda la base psicobiolo-gica della psichiatria sociale”; e l’altra quando parla del rapporto sociale che, secondo quanto da lui sostenuto, è una forma di lavoro o, usan-do i termini della sua teoria della strutturazio-ne del tempo, un’attività. Per Berne il termine “psichiatria sociale” riconosce semplicemente la logica dell’analisi transazionale, nel senso di una analisi del livello sociale delle transazioni tra persone; la diagnosi sociale degli stati del-l’Io e dei vantaggi sociali dei giochi.

Berne usa il termine “sociale” per indicare l’ambiente sociale immediatamente circo-stante, ed enfatizza l’“Io” e il “Tu”, cioè un individuo in transazione con un altro o all’in-terno di un gruppo. Anche se Berne creò l’AT come terapia di gruppo, lavorò più con indi-vidui nel gruppo, e con individui attraverso il gruppo piuttosto che col gruppo in quanto gruppo. Tutto ciò differisce sensibilmente dalla psichiatria radicale che vede i gruppi in sé come trasformativi, e l’organizzazione in gruppi come forma di azione sociale, psicolo-gica e, di fatto, politica. Per come la vedo io, è la dimensione di gruppo che rende politica l’AT. Come afferma Schmid (2007), un col-lega con un approccio centrato sulla persona:

“non viviamo in un mondo di coppie, [e] la coppia non è la forma definitiva del vivere insieme. Non c’è solo l’Altro, c’è anche l’Al-

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L’aNaLisi tRaNsazioNaLe o è RaDicaLe o NoN è aNaLisi tRaNsazioNaLe1

Keith Tudor

1 Questo documento è stato preparato per una relazione invitata al Convegno dell’Associzione Italiana di Analisi Transazionale e del’Istituto di Analisi Transa-zionale, Torino, 7-8 dicembre 2008. È stato tradotto da Emanuele Milceri e Gaetano Sisalli, e rivisto da Pietro Cardile e Sylvie Rossi, a loro l’autore deve i suoi più profondi ringraziamenti.

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tro dell’Altro. In poche parole: viviamo in un mondo fatto di gruppi … Il gruppo è l’inter-faccia dell’individuo e della società in cui le persone sperimentano se stesse nelle loro di-mensioni sostanziali e relazionali.”

Riflettiamo un attimo sul significato della politica. La parola politica deriva dal greco πολις (polis) che fa riferimento alla città-sta-to. La πολις denotava inizialmente l’acropoli (cittadella) della città e l’insediamento stesso; e, infine, l’unità politica autarchica, cioè, la città, l’hinterland e l’insieme dei cittadini. La polis, che comprendeva la legge, la cultura, l’educazione, l’intrattenimento e il mercato, era disciplinata dalle decisioni collettive e garantiva una vita comune vantaggiosa per le persone che appartenevano alla comunità, è attività all’esterno e quindi identità e sicurez-za. Secondo Aristotele (1946, I. 2):

“Lo stato inizia ad esistere traendo origine dai bisogni essenziali della vita, e continua ad esistere nell’interesse di una buona vita. Quindi, se le prime forme di società sono na-turali, così è lo stato ...È perciò evidente che lo stato è una creazione della natura, e che l’uomo è, per sua natura, un animale politico.”

In tal modo Aristotele considerò l’essere umano quale essere orientato verso la polis, come “un essere che si affida alla comuni-tà civica per natura” e quale essere sociale e politico che si sviluppa attivamente nella comunità. Ciò significa che l’essere umano nella comunità – e solo al suo interno – può pienamente attuare il proprio potenziale e che solo dentro la comunità possiamo diventare pienamente degli esseri umani. La politica è la creazione di un ordine che persegue que-st’obiettivo. Schmid (2007) osserva che: “è interessante notare che la definizione di poli-tica deriva dalla definizione dell’essere uma-no e vice versa! La politica è la conseguenza di un’immagine dell’essere umano e da una certa immagine dell’essere umano segue ine-vitabilmente l’azione politica.”Naturalmente non tutti sono d’accordo con

Aristotele, con Schmid o con me. Karpman (2008), per esempio, ha affermato che:

“[gli analisti transazionali] che hanno ricevu-to una formazione sanno tutti che la politica è un gioco duro del GC [Genitore Critico] (pseudo GN [Genitore Affettivo/Salvatore]) Io sono OK - Tu non sei OK, e il tentativo di eli-minare l’altro 50% di opinione contraria.”

Penso che questa prospettiva non sia soltanto sbagliata ma anche preoccupante. A questo punto voglio solo dire “Obama”! Probabil-mente Karpman non crede al suo Presidente Eletto quando nel suo discorso di accettazio-ne aveva promesso di ascoltare anche il 46% di elettori Americani dell’“opinione contra-ria”. Penso che uno dei grandi punti di forza del modello di Berne degli stati dell’Io e dei quattro requisiti per la diagnosi dello stato dell’Io è che ci fornisce un’analisi struttura-le specifica in virtù della quale, ad esempio, la politica, e un approccio della persona alla propria politica, possono essere analizzati e compresi come espressione del funzionamen-to neopsichico dell’Adulto Integrante o come espressione del Bambino Arcaico o come introietto dello stato dell’Io Genitore. La vi-sione di Karpman non è basata sull’analisi transazionale ma, piuttosto, rappresenta un pensiero contaminato che si basa e rivela una visone del mondo neo-conservatrice.

In una valutazione sulla psichiatria sociale di Berne, Moiso (1998) considera questa come “uno degli aspetti più innovativi e utili del-l’analisi transazionale di Berne.” Moiso af-ferma inoltre (ibid.): “la dimensione sociale della teoria di Berne ammette quale strumen-to dell’analisi transazionale non soltanto lo stimolo, ma anche la diade stimolo-più-rispo-sta, enfatizzando in tal modo la reciprocità di causa ed effetto nell’interazione dei rappor-ti.”. Penso che questa sia una lettura generosa di Berne, la cui attenzione rimase focalizzata sull’individuo e, nonostante i suoi riferimenti al sociale, sulle manifestazioni dei processi intrapsichici. Di fatto, dopo la pubblicazione di Analisi transazionale in psicoterapia, Ber-

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ne menziona la psichiatria sociale due volte soltanto. In Struttura e dinamiche delle or-ganizzazioni e dei gruppi, Berne definisce la psichiatria sociale (p. 327) come: “La scienza che tratta delle forze interiori che motivano particolari stimoli e risposte transazionali”, e distingue in particolar modo questa dalle di-namiche sociali che trattano gli “effetti ester-ni” di tali stimoli e risposte. Boulton (1978) ha scritto su questo in relazione alle origini sociali dell’individuo, che colloca nell’ambi-to dello stato dell’io funzionale del Genitore Affettivo. Successivamente in A che gioco giochiamo, sebbene Berne (1972/1985) dica che il suo approccio attuale sia un aspetto della psichiatria sociale, è chiaro il suo focus (p. 47): “in questa sede tratteremo delle storie personali e della psicodinamica degli indivi-dui coinvolti” (l’enfasi è mia).

È chiaro che Berne collegò poco o nulla “la stanza di consultazione con il ben più grande mondo” come afferma Jacobs (1996, p. 207) e nemmeno altri analisti transazionali lo hanno fatto in nome della psichiatria sociale. Solo tre-dici su 1.508 articoli in trent’anni del Transac-tional Analysis Journal (TAJ) citano il termine e, di questi, solo sette sviluppano direttamente il concetto della teoria e la prassi dell’AT in quanto psichiatria sociale. Non sono l’unico a criticare l’uso e il riferimento limitati al socia-le da parte di Berne. Baute (1979, p. 171) lo esprime, in maniera sintetica:

“L’AT si propone come un sistema di psi-chiatria sociale, eppure non è più sociale di qualsiasi altra teoria della personalità e del cambiamento che riflettono i nostri valori culturali predominanti dell’individualismo, senso del privato ed edonismo.”

Anche Zalcman (1990, p. 4) argomenta che le maggiori divisioni attuali dell’AT – cioè, l’analisi strutturale degli stati dell’io, l’anali-si transazionale propriamente detta, l’analisi dei copioni, l’analisi del gioco e l’analisi del racket (di cui lei differenzia le ultime due) – “non sono sufficienti per stabilire che l’Ana-lisi Transazionale sia una teoria e un metodo

esauriente di psichiatria sociale.” In un recen-te articolo Rossi (2008) ha rilevato che, dal 1984, il TAJ ha tolto dalla sua pagina iniziale il riferimento e la definizione dell’AT come psicoterapia sistematica centrata sul cambia-mento sociale.

Infine e cosa forse notevole, dato il suo ap-prezzamento precedente della psichiatria so-ciale di Berne, in un articolo successivo Moi-so (1995) argomenta che il coinvolgimento ideologico politico è cruciale per gli analisti transazionali al fine di promuovere l’idea di Berne dell’AT come psichiatria sociale. In questo senso la psichiatria radicale, fondata su l’analisi dell’alienazione e dell’oppressio-ne può essere vista come un sottoinsieme po-litico specifico della psichiatria sociale.

La psichiatria radicale

Per molti versi penso che la psichiatria ra-dicale sia la tradizione smarrita dell’analisi transazionale. Nonostante la sua influenza, specialmente negli anni ’70, non ebbe mai lo stesso impatto sulla teoria e la prassi dell’AT, in maniera significativa, sulla formazione de-gli analisti transazionali come le altre, iniziali tre “Scuole” dell’AT. Nel loro libro sull’Ana-lisi transazionale, Woolams e Brown (1978) identificano la psichiatria radicale come una delle tante Scuole di AT e forniscono un qua-dro riassuntivo della sua focalizzazione sul trattamento (l’economia della carezza), sul-l’eziologia (la decisione prematura nel “Geni-tore Porco”); sul problema presentato (copione banale); sui metodi di trattamento (aumentare consapevolezza e permessi); sugli strumenti (organizzazione contro l’oppressione sociale); sugli obiettivi (decontaminazione del “Geni-tore Porco”, e autonomia attraverso la coo-perazione). Comunque, da allora, tutto ciò è scomparso: in una ricerca di articoli contenuti nel TAJ (1971-2000) nemmeno un articolo si riferisce alla “psichiatria radicale”.

Breve storia e contesto della psichiatria radicaleClaude Steiner (2000) riferisce di avere sen-

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tito per la prima volta il termine ‘psichiatria radicale’ nel 1968 in occasione di un meeting presso l’American Psychiatric Association (APA) a Miami, Florida, in cui un gruppo di giovani medici, contrari alla guerra del Viet-nam e critici rispetto al sostegno fornito dalla professione psichiatrica alla guerra, chiede-vano una psichiatria radicale come alternati-va a quello che vedevano come una profes-sione conservatrice, o persino reazionaria. Spinti dalla sua crescente consapevolezza dell’abuso del potere psichiatrico, e posto in un atteggiamento radicale dalle esperien-ze vissute in Florida, tornando in California, Steiner incominciò ad insegnare psichiatria radicale presso la Free University di Berke-ley. In parallelo ad altri corsi proposti, questo corso trattava i modelli dell’abuso di potere in psichiatria e l’oppressione della prassi di psichiatria, psicologia, psicoterapia e di altre professioni d’aiuto. L’analisi critica del po-tere e dell’oppressione sarebbe divenuta una pietra miliare della teoria e della prassi della psichiatria radicale.

Nel Settembre 1969, la conferenza dell’APA, tenuta a San Francisco, in California, fu di-sturbata da una coalizione di donne, omoses-suali, ed altri individui che si sentivano op-pressi dalle prassi psichiatriche reazionarie, e Steiner preparò un ‘Manifesto’, che fu di-stribuito alla conferenza (e che è stato ristam-pato in Steiner, 1971; Steiner et al., 1975; Steiner, 2000). Questa coalizione di gruppi di interesse ebbe una ricaduta nella teoria, pra-tica, e letteratura della psichiatria radicale di quel tempo (veda, in modo particolare Agel, 1973b).

Nel 1969 Steiner entrò a far parte della Be-rkely Free Clinic, un’organizzazione fon-data da un gruppo di paramedici che aveva lavorato in Vietnam, insieme ai professio-nisti medici contrari alla guerra, e avviò un settore di counselling psicologico, l’Approc-cio Radicale alla Psichiatria (o Centro RAP). Nel corso di quell’anno una certo numero di persone entrò a far parte del Centro, in parti-colare Hogie Wyckoff e Joy Marcus. In quel

momento Steiner era uno psicologo clinico che stava facendo formazione e lavorava in-sieme a Berne, ed è interessante notare che molti dei pionieri della psichiatria radicale furono fortemente influenzati dall’AT. Nel 1970 Wykoff scrisse il primo articolo sulla psichiatria radicale che venne pubblicato sul Transactional Analysis Bulletin su “Psichia-tria Radicale e AT in gruppi di donne”.

La psichiatria radicale nacque, naturalmente, da un contesto sociale e politico più ampio. Roy (1988) cita un ‘miscuglio’ di vari filoni di ribellione che diedero vita alla psichiatria radicale: il movimento per i diritti civili, in particolare tra i neri e gli omosessuali; l’atti-vismo in reazione alla guerra del Vietnam che portò ad una Sinistra politica “nuova”, anche se piccola, negli Stati Uniti; il femminismo e il movimento delle donne; il movimento hip-pie; e, come ho già evidenziato, l’emergere di gruppi organizzati di pazienti psichiatrici e di professionisti loro alleati che sfidavano l’establishment psichiatrico nella sua prassi e nella teoria. Molti di questi contesti, influenze e movimenti furono presenti anche fuori dagli USA. Per quanto riguarda la radicalizzazio-ne della psichiatria, in Italia Franco Basaglia stava portando a termine cambiamenti a tutto campo nella gestione degli ospedali psichia-trici, cominciando, nel 1971, con una fase di de-istituzionalizzazione (veda Basaglia, 1968, 1981). Basaglia era inoltre politica-mente attivo, e nel 1974 fu fondata Psichia-tria Democratica. La sua attività in questo campo influenzò la politica sociale e portò, circa cinque anni dopo all’approvazione di una nuova legge (180) nel 1978 che facilitò la nascita di comunità di cura e la chiusura di molti ospedali psichiatrici (per ulteriori dettagli e un’analisi di questi ultimi, si veda Tudor, 1990/91; Jervis, 2008). L’opera di Ba-saglia era nota negli ambienti della psichiatria radicale degli USA (veda Menane-Francesca-to & Jones, 1973). Più o meno nello stesso periodo nel Regno Unito, Aaron Esterson, Joe Berke, David Cooper e R. D. Laing, sta-vano sviluppando le loro idee sulle origini e il trattamento della schizofrenia e una prassi

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che finì per essere nota come “antipsichia-tria” (si veda Boyers & Orrill, 1972). Tutto ciò subì l’influenza e, a sua volta, influenzò le allora nascenti comunità terapeutiche (si veda Hinshelwood & Manning, 1979). Questa bre-ve storia è importante per il fatto che illustra l’idea centrale che costrutti e teorie insieme alle persone esistono in un contesto sociale, e che i contesti sociali e politici influenzano lo sviluppo di idee, teoria e prassi.

Teoria e pratica“La psichiatria radicale ritiene che tutte le difficoltà funzionali psichiatriche siano for-me di alienazione derivanti dall’oppressione mistificante di persone che sono isolate tra di loro. L’alienazione delle persone è il risultato dell’abuso di potere ed è di conseguenza una questione politica. Qualsiasi individuo, che si occupi di pratica psichiatrica (guarigio-ne dell’anima) viene coinvolto nella politica personale di coloro che cerca di aiutare … La psichiatria radicale è una teoria politica dei disturbi psichiatrici e una prassi politica della guarigione dell’anima.” (Steiner, 2000, p.578)

Muovendo da questi presupposti, possiamo notare che si aggiungono altri due elementi all’ambito della psichiatria radicale:

1. Una teoria politica dei disturbi psichici; e2. Una prassi politica di ‘terapia’ (che include

la psichiatria, la psicologia, la psicoterapia e forme di auto-aiuto).

Si possono cogliere tali elementi nelle prime pubblicazioni in cui Kupers (1971) parla della necessità di una teoria rivoluzionaria, e in cui Kunnes (1917) ci dice come diventare un te-rapeuta radicale. I concetti chiave che stanno alla base della teoria e pratica della psichiatria radicale sono: l’alienazione; l’oppressione; il potere; la mistificazione; la competizione; l’economia delle carezze; il Genitore Porco; i copioni perdenti, l’autonomia e la coopera-zione. Qui ne discuto tre: l’autonomia, l’alie-nazione, e l’economia delle carezze.

L’autonomia

Nonostante l’esistenza concreta dei gruppi, la psicologia occidentale nel suo sviluppo e applicazione al campo della terapia negli ulti-mi cento anni si è incentrata prevalentemente sulla comprensione dell’individuo, l’indivi-dualità, l’autoattualizzazione, l’autonomia (la quale come obiettivo è al cuore dell’AT), il concetto del sé, e l’importanza dello sviluppo del sé. In ogni caso, questa focalizzazione e questi concetti non sono immuni dalle criti-che: sul livello individuale (per es. Hillman & Ventura, 1992); sul sé (Vitz, 1977; Tudor & Worrall, 2006); sull’autoattualizzazione (per es. Rigney, 1981; Lukas, 1989); sull’autono-mia (per es. Whitney, 1982; LeVine, 1990); e sullo sviluppo del sé e del concetto del sé (Nobles, 1973).

L’autonomia riguarda l’organizzazione del sé, sia psicologicamente che politicamente. Ma, da dove deriva l’autonomia? Come teorizzò nella sua teoria della personalità e del com-portamento, Rogers (1951, p. 487) asserisce che la specie umana, come altre specie, ha una tendenza di base e lotta per: “attualizzare, mantenere e sostenere migliorandolo l’orga-nismo che sperimenta”. È la propensione del-l’organismo umano a realizzare, la forza vita-le cui Berne (1947/1971) allude quando parla di physis, che ci fornisce la base biologica e sociale per raggiungere l’autonomia. Ad ogni modo, Angyal (1941), uno psicologo unghe-rese al cui lavoro Rogers si ispirò, considera l’organismo come caratterizzato da due ten-denze: una verso una maggiore autonomia, e l’altra verso l’omonomia. Egli definisce l’or-ganismo (p. 23) autonomo nel senso che esso è “in larga misura, un’entità che si auto-go-verna” ed è omonomo (p. 172) nel senso che aspira “ad essere in armonia con gli elementi superindividuali, il gruppo sociale, la natura, Dio, l’ordine del mondo etico o l’idea, quale che sia, che la persona possa avere.” Angyal riconosce inoltre (p. 33) la nozione di etero-nomia: “L’organismo vive in un mondo in cui le cose avvengono in conformità a leggi che sono eteronome dal punto di vista dell’orga-

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nismo.” Di conseguenza gli esseri umani vi-vono autonomamente o omonomamente in un mondo che è eteronomo o altro. Penso che il concetto di Angyal di omonomia ci forni-sca un importante contrappunto psicologico e politico all’individualismo dell’autonomia, insieme ad una base biologica e concettuale per l’appartenenza, la relazione, insieme ad una comprensione del nostro rapporto inter-dipendente con l’ambiente, dato che l’organi-smo non può essere compreso al di fuori del suo ambiente.

L’alienazione

L’autonomia e l’omonomia, in effetti, descri-vono l’autentico organismo/persona nel suo sperimentare in relazione. Quando siamo in un certo senso inautentici viviamo una sor-ta di estraniamento o alienazione anche nella relazione. Come dice Marx, filosofo dell’alie-nazione: “Ogni auto-estraniamento dell’uomo da se stesso e dalla natura si manifesta nella relazione che stabilisce con gli altri uomini, se stesso e la natura.” Steiner e i suoi colleghi arrivarono a definire una formula dell’aliena-zione come equivalente al sommarsi di op-pressione, mistificazione e isolamento:

Alienazione = Oppressione + Mistificazione + Isolamento

Marx parla in termini di relazione e di aliena-zione in quattro modi diversi:

• La relazione dell’uomo al proprio prodotto• La relazione dell’uomo alla propria capaci-

tà produttiva• La relazione dell’uomo agli altri• La relazione dell’uomo con la propria specie - a cui Roy (1988) aggiunge un quinto modo:• Le relazioni sociali dell’uomo con la Terra.

In base alla teoria dell’alienazione, ed un’ana-lisi dell’oppressione e del potere, derivata da Marx e influenzata da Reich, Marcuse, Fanon e Laing, la tradizione della psichiatria radicale nell’ambito dell’AT mette in campo modalità di lavoro con gli individui e i gruppi basato sulla cooperazione e rivendicano l’autonomia

(si veda Steiner et al., 1975) e, aggiungerei, l’omonomia o un senso di appartenenza sia alla famiglia, sia al gruppo, sia alla tribù, alla comunità o ad un’organizzazione. Riferendo-si all’analisi di Marx, Steiner(2000) parla di persone:

• Alienate dal nostro cuore, o dall’amore;• Alienate dalla nostra mente, o dalla capaci-

tà di pensare;• Alienate dal nostro corpo, o dai nostri sen-

timenti; e • Alienate dalle nostre mani, o dal nostro la-

voro

- e, facendo eco all’aggiunta di Roy, io ag-giungerei:

• Alienate dalla nostra terra, o dal nostro pa-trimonio.

In altri scritti (Tudor, 1997), ho utililizzato a quest’analisi per descrivere una prassi psico-terapeutica che utilizzi una consapevolezza di classe.

Tale analisi non si riscontra solo in ambito dell’AT nella tradizione della psichiatria ra-dicale. Parlando di alienazione nel contesto del processo malfunzionante della proiezio-ne, Perls, Hefferline e Goodman (1951/1973, p. 259) descrivono tale processo psicologico nel modo seguente:

“Alienato dai propri impulsi, eppure incapa-ce di eliminare i sentimenti e le azioni che questi ultimi generano, l’uomo crea le ‘cose’ col suo comportamento. Poiché quindi non vive questo come un se-stesso-in-azione, può negare la propria responsabilità rispetto a questi, cercare di dimenticarla, nasconderla, o proiettarla o soffrirne come se questa pro-venisse dall’esterno.”

In tal modo una persona passiva (in termini di comportamenti passivi), che non ricono-sce (o svaluta) i propri sentimenti e il proprio comportamento, che dà la colpa agli altri, al “mondo” (secondo i propri racket e le con-vinzioni di copione) è inautentico o alienato in qualche modo. Di contro, una terapia che

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analizza le transazioni attraverso le quali il cliente è stato oppresso, mistificato, e isolato, e che invita il cliente a “prendere possesso” dei propri impulsi e comportamenti, e a vi-vere se stesso/a come una persona-in-azione in un mondo sociale, è una terapia della dis-alienazione. Questo è un processo che Bulhan (1980) ritiene impossi-bile senza una totale ristrutturazione sociale – e, di conseguenza emerge il bisogno di vede-re e di capire il paziente/cittadino individuale nel contesto della polis (si veda, per esempio, Tudor & Hargaden, 2002).

Stando a tali considerazioni l’alienazione ci porta all’idea-cardine di una teoria psicoso-ciale della psicopatologia (si veda Tudor & Worrall, 2006). A questo proposito mi sem-bra interessante l’idea che nella preparazione della quinta edizione del Manuale diagnosti-co e statistico delle malattie mentali, l’APA stia pensando di abbandonare i disturbi della personalità dell’Asse II a vantaggio di un’ana-lisi della personalità in termini di dimensioni relazionali: estroversione – introversione; an-tagonismo – compiacenza; costrizione – im-pulsività; instabilità emotiva – stabilità emo-tiva; e, cosa interessante nell’ambito delle mie esperienze dell’AT, anticonvenzionalità – chiusura all’esperienza (si veda Widiger Si-monsen, 2006).

L’economia delle carezze

L’economia delle carezze (Steiner, 1971) è, a mio avviso, una delle parti più sottovaluta-te della teoria dell’AT. Nel suo articolo ini-ziale Steiner fa riferimento esplicito a Reich e Marcuse, autori che (p. 10) hanno associa-to “il controllo dei processi umani vitali agli ampi punti di vista economici e politici”. Utilizzando la teoria di Marcuse dell’aliena-zione e il concetto di eccesso di repressione, Steiner (ibid.) afferma che ‘L’eccesso di re-pressione obbliga gli esseri umani a vivere secondo il principio del rendimento’. Steiner continua sostenendo che, così come l’ordine sociale controlla le persone attraverso il si-stema economico – evidentemente un argo-

mento fortemente attuale – questo controlla anche le persone con l’imposizione di una economia delle carezze. Conoscerete sicura-mente molto bene questi dogmi o ingiunzio-ni:

Non dare carezze – quando ne avete da dare, e non datevi carezze.Non chiedere carezze – quando ne avete bisogno.Non accettare carezze – se le volete.Non rifiutare carezze – quando non ne volete.

Per cambiare questa economia dovremo met-tere in pratica la loro esatta antitesi, cioè:

Dare carezze – quando avete da darne, e darvi carezze.Chiedere carezze – quando ne avete bi-sogno.Accettare carezze – se le volete.Rifiutare le carezze – quando non ne vo-lete.

All’inizio di quest’anno ho invitato Claude Steiner in Inghilterra a condurre un semina-rio, e ho avuto il piacere e il privilegio di lavorare con lui e mi è stato nuovamente ricordato il potere dello scambio di carezze e della elaborazione della resistenza alle ca-rezze positive, una prassi che è di natura sia politica che personale.

Dopo avere identificato ed elaborato alcuni aspetti della teoria e pratica della psichiatria radicale, nell’ultima parte di questo docu-mento discuterò della natura radicale del-l’AT.

La natura radicale dell’at

Penso che dovremmo riappropriarci del pro-getto radicale che è la psicoterapia, cioè, la liberazione dell’individuo dalle catene del passato, per essere in grado di vivere, amare lavorare nel presente in relazione autentica con se stessi, gli altri e il mondo. Possiamo vedere questo in termini di copioni oppres-

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sivi, di importanza delle transazioni Adul-to-Adulto, e cooperazione basata su un sen-so di appartenenza, o possiamo inquadrare l’argomento usando il motto, i principi e le aspirazioni della rivoluzione francese: liber-té, egalité e fraternité. Penso che la diversità linguistica sia importante: una è la lingua della psicologia individuale, l’altra è la lin-gua della psicologia sociale e politica. Un aspetto del nostro progetto radicale è quel-lo di recuperare una lingua sociale che parli dell’individuo e delle nostre interconnessio-ni. In questo momento sto lavorando su un articolo in cui sostengo che la posizione esi-stenziale fondamentale non è “Io sono OK, Tu sei OK”, un’affermazione che secondo me confonde l’umanitarismo con l’esisten-zialismo, ma che è semplicemente e in una maniera profonda: “Noi siamo”.

Penso che sia interessante il fatto che molti dei padri fondatori della psicoterapia furono, a loro tempo, considerati dei radicali, poiché spesso sfidavano le norme sociali e culturali; e, nelle loro descrizioni dei processi psicolo-gici, sviluppavano una lingua nuova, provo-catoria, sovversiva e talvolta scioccante. Non è un caso che nella storia della psicoterapia ci siano stati un certo numero di professioni-sti e di teorici che erano orientati sul versan-te politico oltre che sul quello psicologico – Adler e Reich per esempio. Ad ogni modo, nello sviluppo delle idee, nascono spesso problemi nella seconda generazione che è quella che solitamente istituisce le scuole in base al lavoro dei fondatori, ed è spesso la generazione che cerca di conservare piutto-sto che raccogliere delle sfide. Come affer-ma Phillips (1994/1995, p. 162): “Gli allie-vi sono persone che prendono tutto troppo sul serio.” Ho avuto modo di sperimentare questo aspetto conservatore, per esempio, in alcune delle risposte al mio articolo nel TAJ all’inizio di quest’anno su una sesta spinta (Tudor, 2008), un concetto e un articolo che lanca una sfida mettendo in discussione le dottrine che si autosigillano e i sistemi chiu-si. Per quanto riguarda l’AT, sarei portato a credere che la maggior parte delle persone

qui presenti probabilmente rappresentino la terza e la quarta generazione, generazione su cui ricade il compito di riflettere sulla nostra storia e ove necessario, rivisionarla. Ecco perché, in questa sede, esporrò quattro rifles-sioni e revisioni che, per raccogliere la sfida implicita nella critica di Zalcman (1990), si ricollegano ai fondamenti dell’AT: gli stati dell’io, le transazioni, i copioni e i giochi. Tutte e quattro le riflessioni hanno implica-zioni nella teoria e prassi politica dell’AT.

Gli stati dell’io

Radicale, dal latino radix, significa radice. Quindi in senso assai concreto, essere radi-cale significa ritornare alle nostre radici o allo stato o processo “naturale”. Parlando di personalità questa, a mio avviso, è la neo-psiche. Questo vuol dire che le nostre “ra-dici” sono – e il nostro radicalismo è – nel presente, un presente continuamente in mu-tazione. Uno dei problemi che si riscontrano in AT è che, nel cuore della nostra teoria, abbiamo due serie di modelli riguardanti gli stati dell’io strutturali- ed entrambe le serie discendono da Berne (1961/1971)! Una se-rie comprende i modelli che rappresentano tutti e tre gli stati dell’io in quanto personali-tà “complete” e totali come l’obiettivo finale cui mira la terapia; l’altra è quella dell’Adul-to integrato, o quello che io chiamo modello dell’Adulto “integrante”, che vede il Genito-re e il Bambino come, rispettivamente, sta-to dell’io introiettato e arcaico che devono essere integrati nel funzionamento Adulto/neopsichico, oppure abbandonati. L’Adulto integrante è la logica dell’approccio relazio-nale co-creativo all’AT sviluppato da Grae-me Summers e da me (Summers & Tudor, 2000); e la logica dell’Adulto integrante è una metodologia basata sull’empatia e mi-rante ad espandere il funzionamento neop-sichico/Adulto del paziente (si veda Tudor, 2003, Figura 1).

Penso che tutto ciò sia radicale in quanto pone il cambiamento nell’esperienza del paziente.

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migliore delle ipotesi, l’AT non dà potere al paziente/cliente; e communque non lo toglie mai in primo luogo. Questo, ad ogni modo, dipende dalla filosofia dall’atteggiamento e dalla posizione del terapeuta, trainer, super-visore, facilitatore o consulente e, nelle nostre transazioni con i clienti e gli allievi in forma-zione, penso che dobbiamo essere particola-remente attenti nei riguardi dei sottili ‘giochi di potere’ che, come Steiner (1981, p. 47) osserva “dipendono dalla nostra obbedienza, che è spesso scambiata per cooperazione. La cooperazione spesso significa andare di pari passo, non polemizzare, e fare come gli al-tri, che ne sanno di più ci dicono di fare.” Un antidoto all’acquiescenza è la disobbedienza (ibid., pp. 50-1):

“Il primo passo per diventare potenti senza utilizzare il potere di controllare gli altri è imparare ad essere disobbedienti ... Rifiutare di essere controllati contro la propria volontà e giudizio libera i poteri di una persona con-sentendole di decidere qualsiasi cosa possa andare bene per le.”

Quindi, noi come comunità AT sosteniamo l’analisi del potere ed incoraggiamo la disob-bedienza psicologica e civile? Io credo di no (veda Tudor, 2007).

i copioni

Come ho sottolineato prima, un aspetto della psichiatria radicale è lo sviluppo della teoria politica dei disturbi psicologici. Penso che questo sia insito nell’AT, in particolare nella psichiatria radicale, ma che potremmo fare di più per criticare e rivisionare la teoria dell’AT, come atto politico in sé. Un esempio di que-sto è il copione, e nello specifico, la matrice di copione (Steiner, 1966). Nella sua rivisita-zione critica della teoria del copione, Cornell (1988, p. 270) sostiene che il copione, qual è presentato in gran parte della letteratura del-l’AT è “fin troppo riduzionista e poco attento ai fattori formativi nello sviluppo psicologico sano.” E io sono d’accordo con lui (veda per esempio Tudor, 2009). Da un punto di vista

Figura 1. Transazioni empatiche cocreative (Tudor, 2009)

chiave1 Il paziente fornisce uno stimolo iniziale.2 Il terapeuta risponde.3 Il paziente replica con uno stato emotivo

in reazione alla risposta del terapeuta4 …che, in questo caso, ha un impatto sul-

lo/sugli stato/i dell’io Bambino arcaico, consciamente e inconsciamente.

5 Il paziente può sperimentare l’empatia del terapeuta anche ad un livello ulterio-re; ‘anche se non è intenzione del tera-peuta ‘inviare’ una transazione ulteriore Adulto-Bambino.

6 & 7 Il paziente astrae la conoscenza em-patica dall’esperienza della propria riso-nanza emotiva a livelli sia sociali (consci) che ulteriori (inconsci), ed integra tale co-noscenza empatica astratta nelle risposte che diventano sempre più accoglienti, ed empatiche, di sé e degli altri...

Le transazioni

L’analisi transazionale, cioè, l’analisi del-le transazioni è radicale perché implica una meta-prospettiva; in altre parole, parliamo con il cliente su come parliamo fra di noi, su come comunichiamo è parte della mappa o del territorio che è la terapia. Ciò, insieme al principio e al metodo della comunicazione aperta, significa che, ancora una volta, non togliamo potere al paziente. Di fatto, nella

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filosofico questo è particolarmente strano data la compatibilità della teoria del copione con il costruttivismo (Allen & Allen, 1997). Tutta-via, se consideriamo i copioni come costru-zioni narrative, come ricordi, e sono co-creati nel presente e proiettati nel passato, allora è necessario riformulare molte delle nostre at-tuali interpretazioni del copione e della teoria del copione. In altre scritti, io e Summers so-steniamo l’idea di riprendere la logica delle argomentazioni di Cornell (1988) per svilup-pare ulteriormente una mappa narrativa delle influenze sull’identità co-creata:

1. Condividiamo, insieme a Cornell, sull’idea di disegnare la matrice di copione orizzon-talmente, indicando le influenze genitoriali in un rapporto reciproco con il ‘bambino’ o individuo; e

2. Estendiamo la reciprocità dei vettori per includere il vettore Genitore (si veda Figu-ra 2).

In questo modo le ingiunzioni, i programmi e le spinte del copione diventano a doppia via. Un bambino che dice al genitore “Vattene” può trovarsi a ricevere e rispondere a un’in-giunzione di “Non Esistere” e nello stesso tempo comunicare un’ingiunzione di “Non Esistere”. Naturalmente l’impatto relativo sul genitore che, normalmente, ha più potere del bambino, varierà a seconda del proprio livel-lo di sviluppo, storia, esperienze, patologia e

sostegno che riceve nel momento attuale. Il bambino che si modella i suoi genitori attra-verso vari comportamenti, per esempio, col successo a scuola, perpetua anche la storia del “successo” culturale/familiare e, a sua volta, questo avra un impatto sui genitori. Una cosa simile accade con le spinte: “Reagisci, figlio mio” (detto da un padre) potrebbe corrispon-dere a un “Sostienimi e sii sempre presente per me” (da parte del figlio) – che potrebbe rappresentare delle spinte reciproche “Sii for-te”. Inoltre, e forse in misura assai significa-tiva e radicale:

3. Se pensiamo a maschio e femmina in ter-mine di polarità, allora possiamo sostituire “Madre” e “Padre” o maschio e femmina con qualsiasi polarità significativa per l’in-dividuo, basata sulla sua sua costruzione della realtà (si veda Figura 3).

Abbiamo la necessità di fare una revisione della teoria ed applicarla innanzitutto a noi stessi. Per alcuni anni ho maturato un inte-resse nell’analizzare l’AT da una prospettiva transazionale. Così, per esempio, penso che potremmo riflettere su quali messaggi di co-pione i formatori dell’AT, le organizzazioni, i supervisori e i professionisti trasmettono. In uno scritto precedente ho descritto quello che vedo come una sorta di dogma nell’AT e in-dividuato il modo in cui ciò viene reinforzato attraverso nozioni di purezza, conformità, sa-

Figura 2. Matrice del copione cocreativo (Tudor & Summers, 2000)

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teoria dell’AT. Nella sua presentazione intro-duttiva alla conferenza dell’Institute of Tran-sactional Analysis del Regno Unito nel 2000, Cornell ha espresso la sua preoccupazione in merito al fatto che i candidati all’AT venis-sero esaminati in base al loro conformarsi. Nella versione pubblicata del suo discorso, Cornell (2000, p. 270) afferma che: “Ho con-cluso questi esami con l’idea che la nostra or-ganizzazione stia indottrinando anziché inse-gnare a teorizzare e a pensare.” Naturalmente questo è il punto d’arrivo di un processo che comincia con la relazione che si svillupa a traverso il metodo di formazione e la relazio-ne di supervisione. Purtroppo sono portato a credere che troppi colleghi operino partendo da un paradigma genitoriale che addestra gli allievi e i supervisionati, distinto da un para-digma dell’Adulto che miri a formare adulti (veda Lomas, 1987; Tudor, 2007).

i giochi psicologici

Parlando infine dei giochi, uno dei giochi cui, a mio parere, alcuni analisti transazionali si prestano è “conformismo”. Lindner (1953) scrive su quello che individua come l’undice-simo comandamento: “Tu ti atterrai e ti con-formerai” Prosegue poi dicendo (p. 73):

Figura 3. Un’elica del copione (Tudor & Summers, 2000)

“E quando il bambino non si adatta ( o non riesce a adattarsi), quando la sua ribellione che è realmente l’essenza della sua natura emerge, viene relegato nel purgatorio della disapprovazione genitoriale, e di conseguen-za condizionato a sopprimere immediatamen-te le sue inclinazioni ribelli.”

Questa è una delle ragioni che mi spinge a credere nella necessità di rivendicare i con-cetti di Adulto ribelle e, ugualmente, quel-lo di Adulto critico e affettivo (veda Tudor, 2003).

Una manifestazione del conformismo, alme-no in Inghilterra, è il numero dei candidati che si preparano per gli esami, in modo parti-colare gli esami CTA, che sono fin troppo in-centrati su quello che gli esaminatori possono pensare piuttosto che su quello che loro stessi pensano del loro lavoro, come lo descrivono, come descrivono i loro pazienti, e se stessi in relazione alla ricchezza e la diversità della teoria dell’AT. Nella sua presentazione intro-duttiva alla conferenza dell’Institute of Tran-sactional Analysis del Regno Unito nel 2000, Cornell ha espresso la sua preoccupazione in merito al fatto che i candidati all’AT venis-sero esaminati in base al loro conformarsi. Nella versione pubblicata del suo discorso, Cornell (2000, p. 270) afferma che: “Ho con-cluso questi esami con l’idea che la nostra or-ganizzazione stia indottrinando anziché inse-gnare a teorizzare e a pensare.” Naturalmente questo è il punto d’arrivo di un processo che comincia con la relazione che si svillupa a traverso il metodo di formazione e la relazio-ne di supervisione. Purtroppo sono portato a credere che troppi colleghi operino partendo da un paradigma genitoriale che addestra gli allievi e i supervisionati, distinto da un para-digma dell’Adulto che miri a formare adulti (veda Lomas, 1987; Tudor, 2007).

Non voglio suggerire che queste riflessioni in sé portino ad una trasformazione dell’AT in una teoria e un metodo globale di psichiatria sociale, e tanto meno di psichiatria radicale, ma che for-se possano avviare un percorso in questo senso.

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conclusione

Pertanto, in conclusione, se l’ AT non sostiene fortemente un funzionamento Adulto/neopsi-chico integrante, se non promuove l’analisi delle transazioni e la comunicazione meta-teorica di queste analisi; se non è riflessiva, cioè se non riflette criticamente sul proprio linguaggio e i propri messaggi di copione e i giochi organizzativi, allora non è AT. Se pro-muove l’autonomia a spese dell’omonomia; se fornisce una formazione caratterizzata dal conformismo piuttosto che dal pensiero criti-co; se accetta il proprio neo-conservatorismo piuttosto che il proprio radicalismo, allora non è AT. Concludo il mio discorso con un’ulti-ma osservazione ripresa dalla teorizzatrice e femminista Americana Italiana, Camille Pa-glia: “Odia il dogma. Ama l’apprendimento. Ama l’arte.”

Keith tudor: TSTA; Direttore dell’Istituto “Temenos” in Gran bretagna. È autore di nu-merose pubblicazioni in ambito psicoterapeu-tico e Analisi [email protected]

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1. premessa

Spesso, quando nelle prime sedute di terapia spiego a un paziente l’idea degli Stati dell’Io, non sono per niente soddisfatto. Mi sembra di vendere come semplice qualcosa che in real-tà è complesso, mi vengono in mente punti di domanda e sospetti di incongruenze, che naturalmente non confido al paziente ma che continuano a lavorare nella mia testa. La decisione di scrivere questo articolo è la risposta a questo disagio. Penso che questo disagio non sia irragionevole, non ostante che l’argomento sia stato così ampiamente discus-so nella letteratura analitico –transazionale.

2. esperienza e teoria

Una teoria scientifica consiste in una serie di enunciati a valore universale ( cioè che val-gono per tutti i fenomeni dell’ambito di cui la teoria si occupa). Questi enunciati intendono spiegare i dati dell’esperienza – cioè ricon-durli ad alcune costanti relativamente sempli-ci - e a stabilire su di essi una qualche forma di controllo. Il controllo è possibile in quanto le costanti che abbiamo messo in luce ci con-sentono di prevedere che cosa avverrà.In ogni teoria scientifica è quindi utile distin-guere tra ciò che appartiene ai dati dell’espe-rienza e ciò che appartiene all’elaborazione teorica. Se i dati dell’esperienza contraddico-no la teoria, questa deve essere modificata.Pur con tutte le specificità che la caratteriz-zano in quanto “scienza umana”,anche una teoria psicologica aspira a un “certo” statuto di scientificità. Giacomo Magrograssi espri-me sinteticamente i limiti della scientificità

nell’area della psicologia: “In questo campo è molto più arduo che in quello delle scienze naturali soddisfare una univocità di defini-zione per svariati motivi. Perché le variabili contemporaneamente in gioco sono infinite; perché non possiamo attuare il metodo del-la sperimentazione galileiana che permette di prenderle in considerazione una per volta; perché non è valido il presupposto che ciò che osserviamo sia un “oggetto” esistente in sé, indipendentemente dal significato che gli attribuiamo; perché siamo contemporanea-mente lo sperimentatore e l’esperimento.” ( G. Magrograssi, “Che cosa è un gioco? “ s.d.) Questo spiega probabilmente perché ci sono tante psicologie – soprattutto tante psi-coterapie – e non una sola. Possiamo però riconoscere la verità delle affermazioni che precedono e andare avanti con le modalità scientifiche compatibili con il terreno di cui ci occupiamo, cioè riportando osservazioni di esperienza che anche altri osservatori posso-no condividere e proponendo spiegazioni la cui fondatezza e logicità anche altri possono controllare. Ciò vale naturalmente anche per l’Analisi Transazionale.

3. esperienza e teoria nell’analisi transazionale

L’ Analisi Transazionale, a partire da Ber-ne, si presenta come fortemente fondata sul-l’esperienza ( Berne vedeva in questo un van-taggio rispetto alla psicoanalisi).In particolare, il concetto di “stato dell’Io” si presenta come riferito all’esperienza, e cioè – in senso filosofico, non in senso berniano – come un concetto fenomenologico. Vedia-

iL pUzzLe DeGLi stati DeLL’io

Fabio Ricardi

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mo allora di ripercorrere per nostro conto la strada che porta dall’osservazione dell’espe-rienza all’elaborazione della teoria.Se mi pongo a riflettere sulla mia esperienza, mi trovo inevitabilmente a far distinzione tra un mondo esterno e un mondo interno: cioè tra ciò che sto vedendo, ascoltando o toc-cando, e ciò che posso solo “sentire”, con la percezione propriocettiva e con l’ascolto dei miei pensieri, dei miei sentimenti, del miei ricordi.Nella percezione del mondo esterno noi vedia-mo e sentiamo delle “persone”: cioè vediamo degli eventi che abbiamo imparato a interpre-tare come comportamenti personali; alcuni appaiono soprattutto orientati al risultato, al-l’azione, altri – tra cui per primo il linguaggio parlato, appaiono soprattutto rivolti a comuni-carci qualcosa. È chiaro che noi vediamo dei comportamenti, non vediamo l’Io. Diamo un senso ai comportamenti interpretandoli come manifestazioni di una soggettività analoga alla nostra. E’questa l’area di cui la psicologia co-gnitiva ha messo in luce l’importanza quando parla di “teoria della mente”.E può avvenire che alcune sequenze di com-portamento che vediamo ci appaiano simili più a quelli di un bambino che non a quelli che siamo abituati a riconoscere come tipi-ci di un uomo o una donna della nostra età. Perché possiamo dirci questo dobbiamo evi-dentemente aver confrontato ciò che vediamo con un’immagine e/o un’idea di quello che è, e fa, un bambino; e aver trovato una somi-glianza rilevante. Vediamo due esempi. Una donna professio-nalmente affermata inizia una seduta parlan-do delle molte, troppe cose che ha da fare; sono tutte importanti, non può rinunciare a nessuna,e per questo è spesso in ansia e qua-si sempre in ritardo. Mi dice questo con una scelta di parole, con un muovere seduttivo degli occhi e delle mani che mi ricordano vi-sivamente una bambina. Dentro di me io ho pensato che non è da adulto ritenere tutti gli impegni irrinunciabili; subito dopo ho avuto l’immagine di una bambina che parlava.Ancora: una donna viene per un primo col-loquio, parla con serietà dei problemi che la

inducono a iniziare una terapia, ma improv-visamente, dal tono di voce e dal modo di atteggiare il volto, io ho l’immagine di lei bambina. In questo caso l’immagine è di lei bambina: ma dato che in realtà io lei da bam-bina non l’ho mai vista, ho dovuto passare rapidamente attraverso l’immagine di altre bambine già viste e confrontarla con quel che stavo vedendo.È a partire da questa esperienza e riflessione orientata all’esterno che io posso anche ri-flettere su di me, e scoprire che alcune mie esperienze, e comportamenti, assomigliano a quelli di un bambino, e magari di me bambi-no. Generalmente sarò capace di accorgerme-ne quando ne sono uscito, o ne sto uscendo. In effetti, se ripercorriamo la strada seguita da Berne per elaborare il concetto di stato dell’Io, troviamo che per prima è venuta l’os-servazione del comportamento altrui, quella delineata nei primi saggi di “Intuizione e sta-ti dell’Io”.Analogamente, è sempre nel comportamento altrui che possiamo individuare delle sequen-ze che ci appaiono simili al modo in cui si comporterebbe un genitore: dà ordini, indi-cazioni, criteri…, ovvero protegge, offre aiu-to…Parlare di stati dell’Io, quindi, significa par-lare di discontinuità e differenze nell’ambito del comportamento osservato e osservabile. Discontinuità e differenze che valutiamo si-gnificative, più significative di altre differen-ze che pur ci sono ma che, nella prospettiva in cui ci mettiamo, ci interessano di meno: ad es. che una voce sia sonora o appena percet-tibile, che un volto sia gradevole e un altro meno…

Fin qui abbiamo parlato di comportamenti: perché possiamo tradurre queste “modalità di comportamento” in “stati dell’Io” dobbiamo lavorare per analogia con la nostra esperien-za soggettiva, e pensare nell’altro una sog-gettività coerente con il comportamento che vediamo. Senza dubbio, se in questo “com-portamento” ci mettiamo anche il linguaggio, ciò che l’altro dice e come lo dice, la nostra ricostruzione della sua soggettività – del suo

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stato dell’Io - sarà molto più ricca e imme-diata; ma sarà sempre una ricostruzione.

Un esempio particolare di esperienza vissuta è l’esperienza del clinico. Sappiamo che Ber-ne ha distinto quattro modalità di diagnosi degli stati dell’Io dell’altra persona: comportamentale, sociale, storica e fenome-nologica. Tutte queste diagnosi rientrano co-munque nella logica che abbiamo individua-to. La diagnosi comportamentale ha senso in quanto suppone la “costruzione” del soggetto che mette in atto i comportamenti osservati. La diagnosi sociale è un esempio, sicuramente significativo, di diagnosi comportamentale: si basa sull’osservazione di due comportamen-ti in relazione tra loro. La diagnosi storica e quella fenomenologica sono una lettura di ciò che l’altro ci comunica intorno alla sua espe-rienza; ci dice che quanto sta sperimentando in questo momento somiglia a quel che ricor-da di aver sperimentato a cinque o dieci anni; o anche non solo ce lo racconta, ma ci comu-nica attraverso il non verbale che in qualche modo lo sta rivivendo adesso.

In conclusione il passo preliminare alla teoria degli stati dell’Io è un modo di guardare e di operare una selezione nell’esperienza, che ci permette di mettere in evidenza qualcosa di significativo: che ci sono dei comportamenti che ci richiamano quelli di un bambino, che ce ne sono altri che richiamano quelli di un genitore; che questi comportamenti non solo li osserviamo negli altri, ma li sperimentia-mo anche in noi. Queste osservazioni ci per-mettono già di ricercare in due direzioni in-teressanti – come in effetti si fa nella pratica dell’ A.T. – e cioè: che cosa succede quando la persona che esprime un comportamento “ come un bambino” si mette in relazione con gli altri? E che cosa centra con la storia del-l’individuo il fatto che lui, oggi, si comporti come un bambino?

4. La costruzione della teoria

Sappiamo che Berne va al di là dell’esperien-za e costruisce una teoria.

Il primo passo della teoria sta nel sostenere che al di sotto di questi comportamenti simili – al di sotto dell’insieme dei comportamenti “bambini” e dell’insieme dei comportamenti “genitori” – c’è un fondamento che li unifica. Nel II capitolo di “Analisi transazionale e psi-coterapia” Berne riporta il caso clinico della signora Primus, e ne dà alla fine una breve sistemazione teorica. “…Il materiale clinico si orientava verso l’ipotesi che nell’adulto esistano stati dell’Io infantili come vestigia, e che possano essere rivissuti in determinate circostanze..”(Berne,1971, p.20)e infine il passo fondamentale: “Si ritiene che la struttura della personalità compren-da tre organi: l’esteropsiche, la neopsiche e l’archeopsiche…Essi si manifestano fenome-nologicamente e operativamente in tre tipi di stati dell’Io, denominati rispettivamente Ge-nitore, Adulto e Bambino” (Berne, 1971, p. 25) Un passaggio di “Principi di psicoterapia di gruppo” è anche più chiaro: “Ciascun esse-re umano ha a propria disposizione un nume-ro limitato di stati dell’Io, che si suddividono in tre tipi. Gli stati dell’Io Genitore sono presi a prestito da figure genitoriali…Gli stati del-l’Io Adulto riguardano la raccolta e l’elabo-razione autonoma dei dati…Gli stati dell’Io Bambino sono reliquie dell’infanzia della persona, e ripropongono il comportamento e il modo di essere di un particolare momento, etc….Noi ipotizziamo che vi siano tre organi che mediano l’organizzazione e l’esistenza di questi tre tipi di stati dell’Io. L’esteropsi-che, che riguarda gli stati dell’Io Genitore, la neopsiche, che riguarda gli stati dell’Io Adul-to, e l’archeopsiche, che riguarda gli stati del-l’Io Bambino”. (Berne, 1966, p.169)Se confrontiamo questi brani con quel che ciascuno di noi può sperimentare, possiamo mettere in sequenza queste osservazioni:

1. L’esperienza esterna ci presenta sempre e soltanto una pluralità di comportamenti; l’esperienza interna ci offre una pluralità di stati di coscienza; gli uni e gli altri situati ciascuno in un certo momento del tempo.

2. Questa pluralità presenta delle “ridondan-ze”, delle analogie che ci permettono di co-

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struire l’insieme degli stati dell’Io B. del-l’Io G., dell’Io A. Uso il termine “insieme” nel senso della omonima teoria.

3. La teoria strutturale avanza l’ipotesi che ci sia un’organizzazione psichica che unifica questi insiemi di stati. Quest’organizza-zione viene chiamata , al singolare, “Stato dell’Io B, o G. , o A.”

4. Berne ritiene che quest’organizzazione ab-bia a sua volta un fondamento in un “or-gano psichico”, chiamato, rispettivamente, archeopsiche, esteropsiche, neopsiche.

Dato che le ultime affermazioni hanno un carattere teorico, abbiamo il diritto di chie-derci su quali argomenti si fondino. Tra l’al-tro, il punto 3 e il punto 4 si presentano come sempre più “pensati” e sempre meno vicini all’esperienza. È quindi naturale cominciare dal punto 3.Lo “stato dell’Io Bambino” ( al singolare ) coincide con la “struttura” del Bambino. Gli scritti di Berne più creativi ( Analisi transa-zionale e psicoterapia e Principi di psicote-rapia di gruppo ) si dedicano soprattutto alla struttura, senza insistere sulla distinzione struttura – funzione, che appare invece for-malizzata in “Ciao…e poi”. In ogni caso: che cosa significa struttura?Non mi risulta che Berne ne dia una defini-zione, presumibilmente ritenendolo un con-cetto intuitivo. Se ci riferiamo al linguaggio comune, “struttura” indica un’organizzazione, un ordine tra diversi elementi; un ordine che rimane stabile anche attraverso il variare – al-meno entro certi limiti – degli elementi.Se le cose stanno così, lo stato dell’Io Bambi-no non è un “qualche cosa”, o una “parte” del-l’Io; non è nemmeno un insieme di contenuti, quelli che si possono raccogliere, come tipici della propria infanzia, attraverso la memoria. Il Bambino è una struttura, cioè una certa mo-dalità, propria di ciascuno di noi, di mettere in relazione tra loro sentimenti, pensieri, com-portamenti, che sono gli stati dell’Io ( al plura-le! ) di cui possiamo avere esperienza. Questa modalità si è costruita nella nostra storia at-traverso lo stabilizzarsi di determinati tipi, o “modi”, di risposta agli stimoli, esterni ed in-terni. Quindi si può anche dire che la struttura

degli stati dell’Io – e qui ci riferiamo al B e al G – coincide con la nostra storia, ma in quanto in questa storia si sono costruite delle costanti, che in certa misura rimangono tali. Sono logiche, a questo punto, tre domande.- Anzitutto: ammettiamo che i vari ( molti )

stati dell’Io che risultano nell’esperienza siano in realtà unificati da un singolo stato dell’Io, in modo che in totale siano tre e non più di tre. Quale ragione ci induce ad affermarlo?

- In secondo luogo: ammettendo che gli Stati dell’Io siano tre, che cosa distingue l’uno dall’altro, al di là delle differenze fenome-nologiche?

- Infine: perché certe modalità di esperienza e di comportamento, che andavano bene a tre o cinque anni, invece di scomparire vengono conservate nell’età adulta?Come dicevamo, il primo passo nella co-struzione della teoria, è proprio l’afferma-zione di tre stati dell’Io: Bambino, Adulto, Genitore. A mio parere facciamo questo passo in quanto ci aspettiamo una certa co-stanza nei comportamenti, nostri e degli al-tri. Per esempio, possiamo aspettarci che in certe occasioni una persona reagirà come Genitore, e un’altra come Bambino. Nel corso di una terapia, ad es., potremo acqui-sire gradualmente una buona conoscenza delle risposte “bambine” di un paziente, e quindi aspettarcele nel futuro e farci l’idea di una permanenza di quella “struttura”.

Possiamo dire che la “logica” per cui co-struiamo l’idea di ciascuno dei tre stati dell’Io è la stessa per cui, usciti di casa al mattino per andare al lavoro, ci aspettiamo di ritrovare, tornando alla sera, la stessa casa nello stesso luogo. Ma è giusto ricordare che in ogni caso abbiamo elaborato un costrutto, abbiamo fat-to un’operazione mentale, e non una sempli-ce registrazione di dati. E in secondo luogo, che stiamo aspettando di incontrare non una specie di “sottopersona” che esisterebbe nel-l’altro o in noi, ma semplicemente un insieme

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di modalità di risposta agli stimoli.

5. La caratterizzazione degli stati dell’io

La seconda domanda è questa: che cosa, pro-priamente, caratterizza l’insieme degli stati dell’Io che chiamiamo Bambino, e quello che chiamiamo Genitore, e li distingue dall’insie-me “ Adulto”?.Sul piano dell’esperienza, sia quotidiana sia clinica, ognuno di noi ha a disposizione una serie di esempi di comportamenti che, senza esitazioni, chiameremmo “bambini”. Ma qui stiamo proprio cercando di andare al di là del-l’esperienza. La risposta di Berne si basa almeno in parte sull’origine ( “Lo stato dell’Io Bambino è un insieme di sentimenti, atteggiamenti e model-li di comportamento che risalgono alla nostra infanzia individuale” ( Berne, 1986, p. 66 ). Ora è chiaro che il semplice riferimento al-l’origine, cioè la prospettiva temporale, non individua quale sia la caratteristica in sé di quello Stato dell’Io. In che cosa sentimenti, pensieri e comportamenti dell’infanzia dif-feriscono da quelli tipici dell’età adulta? Un passo avanti ci è offerto dalle annotazioni sul Genitore, di cui si dice, sì, che è “un insieme di sentimenti, etc, simili a quelli della figura genitoriale” (Berne,1971, p.64) ma anche che è costituito da “stati dell’Io identificatori” (p. 15) Cioè si dice che il motivo profondo per cui certi pensieri, sentimenti e comportamen-ti risultano simili a quelli di uno o dell’altro genitore sta nel processo di identificazione con lui. Analogamente, nella stessa pagina, si individuano gli stati dell’Io Bambino come “regressivi”.È evidente l’importanza di questi passaggi. Qui si lascia la descrizione, per quanto clini-camente importante, delle modalità del com-portamento e dell’esperienza interna, per an-dare a cogliere ciò che costituisce la dinamica profonda di queste modalità. Come si comin-cia a vedere, la individuazione delle caratte-ristiche tipiche di ognuno dei tre Stati dell’Io ci conduce verso quelli che Berne chiama gli “organi psichici”. In questo articolo ho scelto di seguire un

cammino graduale, che va dall’esperienza alla teoria e segue al contempo la traccia dei testi berniani, per cui rimando la messa a fuo-co precisa di questo punto al nostro ultimo paragrafo.

Veniamo alla terza domanda: perché si con-serva nella vita adulta ciò che andava bene a tre, cinque, anni? Dal punto di vista della teoria dell’evoluzione la risposta è abbastanza semplice: si conserva ciò che ha successo. Se, quindi, una modalità comportamentale (e di pensiero, e di sentimento) orientata al conse-guimento immediato del piacere è conservata nella vita adulta, vuol dire che funziona bene anche per l’adulto. Funziona bene, si intende, in quanto venga integrata con un’altra moda-lità che è quella della previsione, del calcolo e del progetto. E anche, possiamo aggiungere, se si integra con la prospettiva dei valori che sono importanti per una persona. Quei valo-ri che non riesco a interpretare se non come il risultato di un “lavoro a quattro mani “ tra l’Adulto e il Genitore.. In conclusione, quando “le cose vanno bene” il confine tra gli stati dell’Io è alquanto sfu-mato. Una certa presenza dell’Adulto è, come abbiamo visto, comunque necessaria: neces-saria perché i valori non si riducano a un re-siduo arcaico, necessaria perché la ricerca del piacere si inquadri nel contesto della realtà. Dal punto di vista clinico non è tanto impor-tante la differenza tra uno stato dell’Io e l’al-tro, quanto quella tra Bambino e Genitore in-tegrati, e quelli che non lo sono; tra l’Adulto integrante, e quello che non lo è. La patologia è proprio nel funzionamento del Bambino e del Genitore scissi dall’unità del Sé.(1)Quello che abbiamo cercato di dire secondo una prospettiva che tiene presente, in qualche misura, il modello della psicoanalisi si può anche dire seguendo l’analisi del comporta-mento. C’è una pagina di Bowlby che vale la pena di riportare per intero (Bowlby, 1982 1999, p. 148). “Qualunque sia il motivo per cui i sistemi comportamentali specificatamente caratteri-stici dei soggetti immaturi sono attivati meno spesso nella vita adulta, esistono abbondanti

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prove per il fatto che i sistemi stessi persisto-no, e tendono a divenire attivi in tre tipi prin-cipali di situazioni. In primo luogo i modelli infantili si manifestano spesso negli adulti quando i modelli adulti si dimostrano ineffi-caci o quando, in condizioni di conflitto, si disorganizzano.In secondo luogo, si manifestano a volte quando un adulto è malato o inabilitato: in tali occasioni l’attivazione del sistema immaturo viene di solito definita “regressiva”. In terzo luogo, può accadere che un’integrazione di sistemi comportamentali caratteristici di un adulto includa una componente derivata da una fase precedente della vita, che forse ori-ginariamente svolgeva una funzione diversa; un esempio particolarmente chiaro è il com-portamento di un corteggiamento degli uccel-li, in cui il maschio nutre la femmina: mentre il comportamento del maschio è quello tipico dell’adulto che nutre il piccolo, quello della femmina è il comportamento tipico del pic-colo che viene nutrito dal genitore; qui due modelli che servono all’alimentazione del piccolo, un modello adulto e uno infantile, sono incorporati in una sequenza comporta-mentale che serve alla riproduzione. Gli psi-coanalisti ritengono che qualcosa di analogo si manifesti nei rapporti sessuali degli esseri umani adulti.” Questo testo di Bowlby contiene in nuce la teoria degli stati dell’Io, almeno per quel che riguarda il Bambino e l’Adulto. In par-ticolare contiene la spiegazione del perché alcuni comportamenti del modello Bambino (anche se Bowlby dice “immaturo”, termine che Berne non accetterebbe) si mantengono talora nella vita adulta. A volte perchè il com-portamento Adulto da solo non è veramente efficace, e il Bambino “funziona meglio”: possiamo pensare al divertimento e alle rela-zioni affettive ( ed in questo caso si tratta del Bambino sano o integrato ). La terza possibi-lità riportata da Bowlby si riconduce alla fine a questa prima situazione: alcuni comporta-menti, come appunto il corteggiamento, sono più efficaci se l’elemento Bambino si accom-pagna a quello Adulto. Altre volte, invece, il modello Adulto “si disorganizza”, ovvero

non è in grado di gestire l’intensità e la com-plessità degli stimoli; e in questo caso si tratta di un’espressione patologica, o non integrata, del Bambino.Perché il testo di Bowlby è più semplice di molti testi berniani? A mio parere perché stu-dia soltanto il comportamento, a partire dal comportamento animale, che è evidentemen-te più semplice del comportamento umano. La complessità berniana, che emerge appena si va oltre al semplice uso del “G,A,B”, na-sce dal tentativo di tenere insieme il punto di vista del comportamento, il punto di vista del soggetto che studia se stesso, il punto di vista del soggetto che studia gli altri soggetti (cioè del clinico che cerca di ricostruire dal com-portamento l’esperienza dei suoi pazienti).

6. La struttura di secondo ordine

6.1. Il BambinoIl cap. XVI di Analisi Transazionale e psi-coterapia affronta il tema di “strutture di personalità più sottili”. Il punto di partenza è l’analisi di un sogno, riportato in terapia da un paziente chiamato “signor Deuter”. “Ho sognato che ero un ragazzino e che succhia-vo il pollice malgrado mi rendessi conto di essere troppo vecchio per farlo e fossi molto preoccupato all’idea di quello che avrebbe detto mia madre se mi avesse visto. Sa, ho sempre sentito come una colpa il fatto di de-luderla”È chiaro che è l’Adulto che racconta il sogno, il Bambino quello che vi appare, e il Genitore scontento che lo fa sentire colpevole di delu-dere la madre.” ( Berne, 1971,p.172 ) In realtà, è nello stesso sogno che appaiono le tre modalità : il B che succhia il pollice, l’A che si rende conto di essere troppo grande per farlo, e il G che mette in moto la preoccupa-zione relativa alla madre. La stessa triparti-zione risulta nel racconto di un bambino di 4 anni, Aaron, che aveva smesso di succhiare il pollice a due anni, ma aveva ripreso in segui-to alla nascita di una sorellina. “Anche Aaron sentiva che non era una cosa da fare e che era troppo grande; ma appena qualcosa non andava ricominciava”. Cosicché, alla fine, i

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comportamenti che Aaron mostrava quando passava il tempo insieme alla sorellina erano uno di questi tre: “ o era imbronciato, o era intento a giocare con la sorellina, o la rimpro-verava in loco parentis “ È abbastanza chiaro che il primo compor-tamento appartiene al Bambino, il secondo all’Adulto, il terzo al Genitore. E questa os-servazione potrebbe semplicemente portarci a concludere che la presenza dell’Adulto è precoce, anzi, molto più precoce dei 4 anni di Aaron. Cosa che, infatti, dice anche Berne “ Se osserviamo i bambini, possiamo notare la differenza tra funzionamento neopsichico e ar-cheopsichico già in tenerissima età , quando il seno e il poppatoio cominciano a essere trattati come un oggetto distinto con una propria real-tà esterna”. In questo modo, possiamo indivi-duare la prima caratteristica dell’Adulto nella capacità di cogliere un oggetto come esterno e distinto da sé; il suo sorgere sarebbe molto vicino alla nascita dell’individuo umano; e il lavoro dell ’infant observation potrebbe por-tarci ad anticiparlo sempre di più. Dopodiché, lo sviluppo consisterebbe nella crescita dello spazio di applicazione e nel perfezionamento di questa capacità Adulta. Berne,invece, utilizza questo materiale clinico per introdurre un momento adulto come parte dello stato dell’Io Bambino ( A1) Perché? Se ci si distacca un momento dalla consuetudine con la teoria di Berne, ci si accorge che non ce n’è alcun motivo. Salvo….salvo render-si conto che tutta questa parte della teoria è legata all’idea di un blocco traumatico a un certo stadio dello sviluppo, e che il Bambino di cui si parla non è il Bambino integrato ma quello contattato attraverso una regressione in qualche misura patologica. Infatti il sogno del succhiatore di pollice ha senso inserito in un contesto. ”Ecco cos’era successo al signor Deuter: quando si trovava nella situazione e nello stato mentale rappresentati nel suo so-gno, verso i sei anni circa, la sorella maggiore si era precipitata nella stanza per dirgli che la madre era rimasta ferita in un incidente. L’in-tera struttura psicologica era rimasta trauma-ticamente fissata. Così in seguito, quando il suo Bambino si manifestava, di solito in si-

tuazioni in cui egli veniva in qualche modo sorpreso a imbrogliare, il signor Deuter rivi-veva al completo tutta questa struttura psico-logica.” ( p.172 )

Se teniamo conto di tutto questo, possiamo stabilire che la struttura di secondo ordine del Bambino non descrive una struttura costituti-va della personalità, nè un passaggio neces-sario della sua evoluzione. Berne qui lavora come clinico, e mette a fuo-co delle situazioni di regressione – come il sogno dell’esempio citato, o come momenti particolari della vita reale – in cui emerge un momento della vita della persona appar-tenente al passato, all’età cronologicamente definibile come “del Bambino”. In questo momento del passato, come è naturale, com-paiono le tre modalità tipiche di ogni tappa della vita: una funzione di adeguamento alla realtà, una funzione di ricerca del piacere, e una di guida o di controllo. Questo momen-to è rimasto fissato per un evento in qualche modo traumatico; se quest’ evento non ci fos-se stato quel momento della vita dell’infanzia si sarebbe sciolto nel fluire dell’esperienza. E oggi sarebbe recuperabile – se qualche traccia ne fosse rimasta nel serbatoio della memoria – solo attraverso l’operazione volontaria del ricordare. Possiamo anche concludere, radicalizzando un po’ l’affermazione, che una persona sana non ha la struttura di secondo grado del Bam-bino.L’Adulto è presente quasi fin dai primi mo-menti della vita umana, e il Genitore arriva poco dopo. Lo sviluppo dell’Adulto è conti-nuo, non a salti o scalini; ci sono caso mai dei passaggi cruciali, descritti da Piaget e da altri dopo di lui, che non sono tuttavia tali da obbligarci a parlare di un A1 e di un A2.In un certo senso Berne “si è dimenticato” dell’impostazione strettamente clinica del proprio lavoro e ha pensato di poterne ricava-re un modello. Ma gli era abbastanza chiaro – mi sembra - che stava costruendo un mo-dello mentale, e non descrivendo dei passaggi dello sviluppo reale. Infatti, dopo aver notato che il B1 può essere ancora suddiviso in quelli

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che saranno poi chiamati B0, A0 e G0, annota: “È la storia delle scatole cinesi, o del televisore che trasmette se stesso che trasmette se stes-so…e così via ad infinitum.” (p.174 ) (2)

6.2. Intermezzo Mi sorprendo ogni tanto a guardare le figure geometriche topologiche che si muovono e si trasformano sullo screen saver del computer. Forse perchè sto pensando nel contempo agli stati dell’Io, mi chiedo: quando possiamo dire che una figura ha cessato di essere se stessa per diventarne un’altra? E che cosa si conser-va delle fasi precedenti di trasformazione del-la figura? Evidentemente, nulla. Ogni figura è quella che è nel momento presente della sua evoluzione. Certo, questo suo modo di essere attuale è anche il risultato dei modi di essere che lo hanno preceduto; ma di questi modi precedenti non rimane nulla. Naturalmente ciò sarebbe diverso se la figura possedesse una memoria.Questa può essere una metafora dell’evolu-zione del Sé. Gli stati dell’Io che appartengo-no al passato sono in qualche modo reali oggi solo in forza della memoria. Ma sappiamo che la memoria è selettiva, e quindi non tutto – anzi, poco – viene ricordato. Qui si innesta niente di meno che la teoria della rimozione e quindi la psicoanalisi. La lasciamo da parte, e ci limitiamo a osservare che normalmente siamo in grado di ricordare, con un atto in-tenzionale, ciò che è rimasto nella memoria perché in qualche modo ci ha colpito – e ma-gari non sappiamo bene perché. Ma c’è qual-cosa che non riusciamo a dimenticare; ed è ciò che ci ha colpito in un modo traumatico. Questo qualcosa è un momento del passato che è ancora presente, in quanto proprio oggi continua a esercitare i suoi effetti. Se analiz-ziamo questo “ricordo – presente” possiamo, spesso anche se non sempre, individuare al suo interno una struttura come quella dei tre stati dell’Io.

6.3. Il Genitore Riflessioni analoghe possiamo fare per l’altra struttura di secondo grado, quella del Geni-tore. Sembra a Berne che all’interno del Ge-

nitore di una persona si possano riconoscere le tracce dello stato dell’Io Adulto, Genitore e Bambino del padre e della madre. Tanto da poter disegnare il grafico suddividendo il Ge-nitore in tre settori.Che cosa ne possiamo pensare? Che qualcosa di ciò che era caratterisitco dei nostri geni-tori sia stato ripreso da noi e faccia parte di noi stessi, è evidentemente naturale. Noi in generale ne siamo consapevoli solo fino a un certo punto;è un osservatore esterno che se ne può accorgere meglio di noi. Ma se l’input dei genitori – qualunque sia l’origine: codice genetico, modellamento attraverso l’esempio, comunicazione esplicita – è stato assimilato come elemento della nostra personalità, che senso ha chiamarlo ancora “Genitore”? Di-verso è il caso quando questo input – della cui origine non siamo ancora coscienti – è sentito come un corpo estraneo, come egodistonico. Allora ha senso considerare questo compor-tamento come appartenente al circoletto chia-mato G, e magari alla parte di quel circoletto intitolata al G1.Un caso clinico mi ha aiutato a chiarirmi le idee su questo punto. Una mia paziente è edu-catrice in una scuola materna. Il suo lavoro le piace e ha un buon rapporto con i bambi-ni, ma di fronte a un bambino problematico e capace di impuntarsi con molta forza in un comportamento ribelle, le capita di perdere le staffe e di urlare (a un certo punto si è lascia-ta sfuggire anche una sberla) in un modo che considera non educativo e di cui si rimprove-ra. Riflettendoci durante una seduta, a un cer-to punto esclama. “ Ma questo è il modo che aveva mia madre di sgridarci – me e le mie sorelle – quando eravamo bambini!”. Que-sta consapevolezza la rende meno inquieta riguardo al proprio comportamento, ma non risolve di per sè il problema. Qualche tempo dopo, il cambiamento: per una elaborazione interna il cui processo non è evidente né a me né a lei la nostra educatrice si rende conto a un certo punto che è più autorevole con i bambi-ni se parla a bassa voce e serenamente. Alzare la voce serve solo in qualche momento.La situazione iniziale si può descrivere come un G che prende il potere esecutivo senza la-

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sciarsi guidare dall’Adulto; ed è possibile indi-viduare nel Genitore la specifica influenza dei comportamenti genitoriali della madre. Nel secondo momento il Genitore è “riassorbito”e sostituito da un comportamento autorevole guidato dall’Adulto. L’esperienza fatta dalla paziente bambina, delle modalità genitoriali della madre, era rimasta “fissata patologica-mente“, e riemergeva nella situazione stres-sante attivata dallo scolaro ribelle. La consa-pevolezza raggiunta durante la seduta, insieme al confronto quotidiano con l’esperienza del lavoro nella classe, ha permesso alla fine di sciogliere questa fissazione.Anche qui possiamo concludere che una per-sona psicologicamente sana non ha la struttu-ra di secondo grado del Genitore.

7. Gli organi psichici

Abbiamo visto qualche pagina fa che, se ri-flettiamo a ciò caratterizza in sé gli stati del Bambino e del Genitore, ci orientiamo da una parte al ben noto principio di piacere, dall’al-tra a una dinamica di identificazione. Berne ribadisce questa prospettiva nell’ultimo capi-tolo di “Analisi transazionale e psicoterapia” dove spiega in modo più completo gli accenni precedentemente fatti agli “organi psichici”.Si tratta anche delle pagine dove è più forte il legame tra la teoria di Berne e la psicoanalisi. Anche se il capitolo nell’insieme è piuttosto complicato, mi sembra che una citazione ne esprima l’idea fondamentale. “La caratteristica dell’archeopsiche è ciò che Freud definisce processo primario; la caratte-ristica della neopsiche il processo secondario e quello dell’esteropsiche qualcosa di simile all’identificazione” ( Berne, 1971,p. 218 ). Berne non poteva essere più chiaro. Di nuovo rispetto a Freud c’è il concetto di “program-mazione” ( che Berne ricavava, evidentemen-te, dai suoi interessi per la cibernetica ).Così troviamo l’idea di una “programmazione” istintuale – quella messa in atto dall’archeop-siche,- di una “programmazione probabilistica “ – quella secondo cui opera la neopsiche, e di un “funzionamento secondo parametri presi a

prestito”, che è tipico dell’esteropsiche. Sembra proprio, quindi, che degli organi psi-chici non si possa fare a meno.La tentazione di farne a meno mi veniva un po’ dal concetto decisamente oscuro di “orga-no psichico”, un po’ dalla stessa affermazione berniana secondo cui questa parte della teoria non è indispensabile per il lavoro terapeuti-co. In realtà abbiamo visto che la riflessione, partendo dalla moltitudine degli stati dell’Io, passando per i tre Stati dell’Io, arriva alla fine proprio qui. E qui possiamo concludere con alcune os-servazioni.1. Anzitutto, bisogna tener presente che ar-

cheopsiche, neopsiche ed esteropsiche ven-gono descritti in termini di processo, e non di sostanza. Per spiegare che cosa sono, Berne ci parla della modalità di agire che è tipica di ciascuno ( processo primario; pro-cesso secondario; identificazione..; vedi il brano riportato sopra ). Il termine “orga-no psichico” è in definitiva fuorviante , in quanto in realtà Berne riconosce tre fon-damentali modalità di procedere dell’Io ( meglio sarebbe dire “della mente”): quello della ricerca diretta del piacere, quello del-la capacità di riconoscimento dell’oggetto o della realtà esterna, e quello della identi-ficazione con un altro soggetto. È evidente la radice freudiana di questa concezione: le prime due modalità corrispondono ai “due principi dell’accadere psichico” di cui par-la Freud nell’omonimo saggio, la terza è la base della costruzione del Super Io .

L’uso del termine “organo psichico” indica verosimilmente la speranza di trovare una base neurologica ai diversi modi di funzio-nare della mente. La citazione delle ricer-che di Penfield come possibile fondamento della teoria degli stati dell’Io ci dice quanto Berne fosse sensibile a questa prospettiva. Tuttavia, pur nell’ipotesi che questo fonda-mento neurologico venisse trovato, il termi-ne “organo” nel campo della psiche potreb-be avere soltanto un senso metaforico.

2. Possiamo anche immaginare che la stra-da seguita da Berne nel costruire la sua teoria non sia stato il graduale passaggio

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dall’esperienza alla formazione di ipotesi teoriche sempre più generali, ma piuttosto il contatto tra una teoria – quella freudiana – già presente nella sua mente, e l’espe-rienza clinica. È dal contatto di questi due poli che scocca la scintilla del Bambino, Adulto, Genitore. È proprio questo costrut-to mentale che va pensato correttamente, e non in termini “sostanzialistici”, perché la nostra lettura del comportamento, nostro e degli altri, sia adeguata.

Le diverse modalità- i così detti organi psi-chici - si distribuiscono e si incrociano in vario modo nella esperienza umana e danno origine a dei comportamenti che sono visibili e fenomenologicamente rilevabili. Dato che due di queste modalità – la prima e la terza – occupano maggior spazio nelle prime fasi della vita, noi possiamo, a partire dal qui e ora, fare delle incursioni verso il passato, e comprendere quanto il passato influenzi il presente. E magari intervenire per ridimen-sionare questa influenza.

Note

1. Questa interpretazione degli Stati dell’Io rimanda evidentemente a quella proposta da R.Erskine (Erskine, 1988 )

2. In un importante scritto ( Cavallero,G.,1991 ) Giorgio Cavallero mette in luce la pre-senza, nel pensiero di Berne, di due model-li esplicativi; quello degli organi psichici e quello “a scatole cinesi”; appunto quel-lo che emerge in questa parte di “Analisi Transazionale e psicoterapia”. Da parte mia mi sono occupato di capire meglio l’origine clinica dello stesso modello, a pri-ma vista molto astratto, delle “scatole cine-si”. E mi trovo pienamente d’accordo con quanto scrive Cavallero. “L’ordine in cui

sono numerate le “scatole” (nella nomen-clatura berniana del 1961, diversa da quel-la “standard”, che è posteriore, n.d.r.)….fa supporre che l’intento principale dell’auto-re non fosse tanto di fondare un modello evolutivo, quanto di trovare un posto, nel modello degli Stati dell’Io, a elementi G o A di natura arcaica, individuati mediante un’analisi che partendo dal “qui e ora” era diventata via via più curiosa del passato.”

Ricardi fabio, psicoterapeuta, C.T.A., svol-ge la sua attività professionale presso il Cen-tro Berne di [email protected]

Bibliografia

Berne, Eric. Intuizione e stati dell’io, (1962),Roma, Astrolabnio, 1992.

Berne, Eric. Analisi Transazionale e psicote-rapia (1961), Roma, Astrolabio, 1971

Berne, Eric. Principi di terapia di gruppo (1966), Roma, Astrolabio, 1986

Bowlby, John. Attaccamento e perdita (1982), Torino, Bollati Boringhieri, 1999

Cavallero,G. Due modelli strutturali in Ber-ne: ambiguità e aporie. In “Atti del Con-vegno Italiano di Analisi Transazionale 1991”,Venezia. Roma, SIAT,1991

Erskine, R. Struttura dell’Io, Funzioni intrapsi-chiche e meccanismi di difesa:un commen-to ai concetti teorici originali di E. Berne, Neopsiche, nn.11/12,1989, pp.4 – 9.

Freud, Sigmund. Precisazioni su due principi dell’accadere psichico (1911), in Opere, vol.VI,Torino, Boringhieri,1974.

Magrograssi Giacomo. Che cosa è un gioco?, Milano, pro manuscripto.

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premessa: migrare humanum est

Venti anni fa non c’era ragione che ci fosse questa Appendice e infatti non c’era. L’Europa è teatro di una immigrazione senza precedenti, che ricorda la cosiddetta “allu-vione immigratoria” dell’Argentina1 . Tutti i rappresentanti del genere Homo non sono mai stati fermi, ammettiamolo. Marvin Har-ris, l’antropologo del materialismo culturale, ha un incipit suggestivo nel libro Our Kind (1989)2 : ”In principio era il Piede”. In fondo tutto partì da lì, dal piede. La ominazione è partita dalla stazione eretta (Homo erectus)3 e dalla capacità di corsa bipede. Il movimento migratorio “volontario” è caratteristica di ge-nere Homo. Già l’erectus aveva colonizzato il mondo una prima volta. Camminando. Il Logos venne solo dopo e stravolse la Natura, con noi, l’Homo sapiens. La storia umana va quindi letta come storia di migrazioni. Il concetto stesso di invasioni (es. “invasioni barbariche”) va tradotto in quello di migrazioni più o meno forzose. Dagli anni Ottanta tutto è diverso nella Europa post-co-loniale. Non si immaginava che il “sistema” europeo divenisse uno dei maggiori centri at-trattori del fenomeno immigratorio, da gran

1 In meno di cinquanta anni dal 1869 al 1914 la popo-lazione dell’Argentina si quintuplica; nel 1947 essa è otto volte.

2 M. Harris, La nostra specie, BUR, 1991

3 Tra 1,5 e 0,2 milioni di anni fa.

parte del mondo. Un solo esempio: dal 1990 un quarto della popolazione albanese è mi-grato altrove. Chi lavora come professionista d’aiuto in Puglia, vera regione di frontiera, lo vive nell’operato quotidiano4 : “La migrazio-ne è un fatto sociale globale” (Lia Lombar-di, 2007)5. La ricerca di risorse di sopravvi-venza, la anomala distribuzione mondiale di risorse, ma anche la illusione di “Eldoradi” consumistici, diffusa in ogni dove dalla me-diocrazia che tutto e tutti raggiunge, hanno richiamato - come Pifferai Magici - masse di bisognosi pronti ai lavori meno agevoli. P.e. nuove esigenze della società europea, avara nel procreare e spiccatamente longeva, hanno determinato un flusso migratorio al “femmi-nile” (badanti dall’Est Europeo, collaboratrici domestiche, ecc.), che ha finito per controbi-lanciare la precedente “ondata maschile” dei magrebini, che solo successivamente si face-vano raggiungere dalle famiglie (Lia Lom-bardi, 2007). Quando si parla tra culture “diverse” – anche

4 Si veda della psichiatra pugliese Labellarte G. (a cura di), La salute mentale dei rifugiati, OMS, Ed. F.Folini 2000 (ISBN 88-7266-049-1). Il responsabi-le per esempio di un grosso centro di accoglienza di Bari è da anni la dr. Rosa Uva, counsellor ad orien-tamento analitico-transazionale, la quale mantiene rapporti di collaborazione e didattica con il SIEB, ove si è formata, trasmettendo la esperienza matura-ta nei seminari di interculturalità

5 Lombardi L., Migrazioni, Salute e differenze di ge-nere, seminario, Univ. Bicocca, Milano, (8.5.2007)

iL copioNe peRsoNaLe e tRaNs-peRsoNaLe(dal famigliare all’antropologico)

Achille Miglionico

prima parte

“The latest incarnation of Oedipus, the continued romance of The Beauty and the Beast, stands this afternoon on the corner of Forty-second Street and Fifth Avenue, waiting for the

traffic light to change” Joseph CAMPBELL, in The Power of the Mith, 1988.

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nella professione d’aiuto – è facile sentirsi dire: “da noi si fa così... da voi si fa così...” Questo da noi, da voi… - con evidente altera-zione timbrica da contaminazione analogica - è alla base di integrazioni, talora di fusioni e confusioni, talora di incomprensioni etniche: “Chez nous…Chez vous…”, “Da noi si usa così... Da voi si fa così...”. Anche tra cittadini di centri limitrofi emergono differenze lingui-stiche, dialettali e di costumi per cui si ascolta un orgoglioso “da noi...”. Il senso umano ed interumano della “differenza” aleggia persino nelle comunità ristrette (conventi, collegi, ca-serme, scuole, luoghi di lavoro ecc.).

• Ogni mese in Camerun - ha spiegato l’et-nopsichiatra Roberto Beneduce - si cele-brano ancora oggi processi contro stregoni, nei quali il giudice, mescolando linguaggio giuridico napoleonico a termini suggeriti dal suo perito - stregone anch’egli - ac-cusa di stregoneria qualcuno su denuncia della presunta vittima (es. una donna che ha subito aborto). Così in processi in Mali, in SudAfrica, in Congo ecc. “Una logica complessa, giocata tra chez nous e chez vous, tra da noi e da voi, tra una Giustizia di derivazione occidentale ed una ‘cultura-le’…”

• La stregoneria in Camerun e altrove (in ispecie in Africa subsahariana e centra-le) diviene una categoria morale oltre che eziologica in diverse culture - come lo era per noi presso la “Inquisizione” (dal XIII sec.) e la “Inquisizione Spagnola”, istituita in Spagna pochi anni prima della scoperta delle Americhe, ove avrebbe mietuto altre vittime. Beneduce riporta molti esempi di interventi anche “gerarchici” di magia per cui - è ammessa dagli africani stessi questa “ossessione” - se ritengo di aver ricevuto una “fattura” cerco di contrastarla con una maggiore ecc. in una escalation di inter-venti operati - a finale incerto - da stregoni di differente potenza (e costi, immaginia-mo). Se il perito del giudice, in Camerun e altrove, è uno stregone, ciò significa che questi è ammesso nella realtà forense di tutti i giorni. E il giudice stesso, alzando le

spalle, spiega all’antropologo o allo stra-niero bianco: “Sì ma da noi (chez nous) è così…”

• La stessa Lex romana prevedeva la magia. Si ricordi che, quando Apuleio - autore latino dell’Asino d’oro - dovette autodi-fendersi dall’accusa di magia “nera”, in un processo di magia, ammise, nella Apo-logia, che aveva fatto uso solo di magia “bianca” (da “buon” cultore dei misteri di Iside e Osiride). Nell’antica Roma la de-fixio, che era assimilata al veneficium (av-velenamento), era un sistema sicuro per mandare a morte una persona: una lamina di piombo (legata a Saturno, dio dei mor-ti) con il nome ed il genere di morte che si augurava al malcapitato, si arrotolava e trapassava con un chiodo, per poi seppel-lirla in luoghi ritenuti in diretto contatto con l’oltretomba. Così si immaginava che ferite o mutilazioni inferte a una immagine (statuina di cera o di argilla, il “doppio” del malcapitato) ledessero veramente la perso-na reale: come nei riti vudù, che nelle An-tille sono stati importati dall’Africa nera, con gli schiavi6.

E con nuove ed eterogenee “masse” giungo-no anche disperati devianti. La cronaca nera di cui siano protagonisti gli stranieri ingenera accessi di xenofobia negli europei e comun-que li induce a formulare maggiori misure di sicurezza intrasistemiche7. È necessario aprire ogni sapere professionale

6 Il Vodù/Vudù (ingl. Voodoo, franc. Vaudou) corri-sponde ad altri termini come Macumba, Candomblé, Santeria (Cuba). Originario dell’Africa a cui è lega-to (Dahomey, Nigeria,al Bori del Sudan, allo Zar in Abissinia), è un rituale popolare haitiano, in buona parte danzato, anche in forme estatiche di posses-sione. Sono tutte forme sincretistiche tra politeismo africano e santi cristiani. Studioso di riferimento ne è Alfred Metraux ( La comédie rituelle dans la pos-session, Diogéne, 11, 26-49, 1955.)

7 La società sotto assedio (2003) è un saggio del so-ciologo polacco Zygmunt Bauman che descrive già dal titolo lo scenario del nuovo millennio. Anche gli altri lavori di Bauman hanno titoli altrettanto evo-cativi dei drammi moderni e delle speranze che ne derivano: Dentro la globalizzazione. Le conseguen-ze sulle persone, Modernità liquida, Intervista sul-

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al nuovo, all’imprevisto, al diverso-da-noi, uscendo dallo schema “europocentrico” che caratterizza anche la migliore e rispettosa del-le formazioni.

• La psicoanalisi, la psichiatria, la psicolo-gia, ogni metodologia di diagnosi ed inter-vento, risultano inevitabilmente etnocen-triche nel confronto con il diverso-da-noi ed hanno dovuto sviluppare aspetti inter-facciali nel confronto con culture diverse: si pensi alla ricerca di Geza Roheim (di cui si parlerà successivamente), alla etnopsi-canalisi sviluppata recentemente presso il “Centre Georges Deveraux”, centro di so-stegno psicologico alle famiglie immigrate nel distretto parigino di Seine-Saint Denis; si pensi alla etnopsichiatria ed alla psichia-tria transculturale8 dell’ultimo trentennio, alla attività del Centro Frantz Fanon di Torino, sorto nel 1996, che offre psicote-rapia e counselling a cittadini stranieri con il tramite dei “mediatori etnoclinici”(R.Be-neduce, 2001)9.

• L’analisi transazionale per la natura rela-zionale della transazione - ponte “gianico” tra intrapsichico ed interpersonale - e per la genesi decisamente “culturale” dei concetti berniani di genitorizzazione e di copione, si presta in maniera versatile all’incontro con la dimensione antropologica.

Gli urti epistemologici, infatti, alla solidità dell’edificio psicoanalitico - ricordiamolo - vennero precocemente e proprio dalle ricer-che sul campo condotte da antropologi come

l’Identità e Voglia di Comunità. I titoli, tali e quali, possono ben figurare nell’ordine del giorno di qua-lunque Conferenza abbia come oggetto (a cuore) i destini inestricabili dell’Uomo e della Biosfera.

8 Si veda Inglese S:, Peccarisi C., Psichiatria oltre frontiera, UTET Periodici Scientifici, Torino 1997.

Un classico “datato” è Scarpa A., Pratiche di Etnome-dicina, RED ed., Como 1988

9 Beneduce R., Taliani S., Un paradosso ordinato. Possessione, corpi, migrazioni, in Possessione, An-tropologia, Meltemi, 1, 1, 2001.

Margaret Mead (1901-1978), moglie di Gre-gory Bateson, che cominciarono a dubitare non tanto della esistenza dell’Edipo ma della non-applicabilità universale di taluni princìpi freudiani a tutte le culture: ogni società an-dava studiata in sé (ne nacque il culturalismo ed il relativismo culturale). Nessun antropo-logo ha peraltro seriamente messo in dubbio l’esistenza di un inconscio10. Persino l’etno-centrismo, va ribadito, non è necessariamente razzismo, come ebbe a formulare provocato-riamente Claude Lévi-Strauss (attirandosi gli strali dei detrattori perbenisti), ma un vettore intrinseco ad ogni cultura finalizzato alla au-toconservazione. Per superare l’etnocentrismo non basta fare proclami “politicamente corretti” o colmi di quel “buonismo” mediatico, che poi confer-mano aspetti non-ok del “copione culturale” italiano. All’utente classico si affianca oggi un utente “diverso” perché non inquadrabile nel nostro retroterra culturale. Ciò che in un europeo bianco sarebbe diagnosticabile come un “delirio di possessione diabolica” (patolo-gia paranoide grave anche a livello progno-stico) può essere, in un soggetto nigeriano, una disfunzione assai meno grave, in quanto essa va inquadrata nel mondo spirituale di

10 Claude Lévi-Strauss, che fu affascinato da marxi-smo, freudismo e junghismo senza mai ingabbiar-si in alcun costrutto ideologico, suppose nella sua “antropologia strutturale” la pre-esistenza di schemi culturali riconoscibili nella struttura, (come nella capacità del linguaggio secondo Chomsky) e que-sto inconscio straussiano è stato accostato ad un in-conscio kantiano. Riconoscere una “struttura” (per esempio un fossile dalla ganga, un fascio di relazioni nell’analisi di un mito ecc.) è l’insegnamento di L.-S. che più rassomiglia a quello di Gregory Bateson sul-la struttura-della-struttura, la struttura-che-connette o metastruttura (si veda il libro di Bateson, Mente e Natura, Adelphi ed..). Spesso “zio Gregory” - come veniva affettuosamente chiamato - iniziava le lezio-ni lasciando una conchiglia, un fossile agli studen-ti perché ne cogliessero la metastruttura (che cosa fa intuire dell’oggetto osservato la natura animale? La natura non-viva, morta? La simmetria raggiata o spirale come può preservarsi in quanto “proget-to” virtuale nell’accrescimento del mollusco?). Sia Lévi-Strauss che Bateson partivano sempre dalla osservazione della Natura per cogliere quell’asse, il Naturale, da cui è derivato l’asse Culturale.

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appartenenza ove l’animismo è la regola: un esempio per tutti viene dall’operato dell’et-nopsichiatra/antropologo Roberto Beneduce il quale ha approfondito molto, con il suo gruppo di ricerca ed intervento, a Torino, un modello di “possessione”, il Mami Wata, tra le donne nigeriane che vivono in Piemonte11. Ignorare può comportare danni da intervento disinformato. Gli uomini recano con sé nel bagaglio la propria cultura ed il Mami Wata va conosciuto anche fuori della regione ove è stato descritto, anche per comprendere la ap-parente ‘tendenza’ di certe etnie alla prostitu-zione e la integrazione già digerita di tenden-ze occidentali, quali il consumismo.

Il Mami Wata è spirito delle acque, quasi sempre femminile (Wata è deformazione del-l’inglese water) che è andato ad arricchire il politeismi africano: Mami Wata ha volto dai tratti femminei, indoeuropei, pelle bianca (!), capelli lisci, e neri; si palesa come donna-sirena o donna-serpente che “ostenta bellezza e ricchezza e che affligge, arrecando morte e malattia, coloro che…trasgrediscono le sue …proibizioni.” (Beneduce). Il Mami Wata è culto comunitario delle regioni del Golfo di Guinea sino alla Rep. Democratica del Congo (qui si chiama Mamba Muntu). Fa riflettere come la nuova dea mutua chiaramente tratti occidentali “consumistici” (la dea ed i suoi seguaci amano auto, vestiti lussuosi, case confortevoli ecc.) e per sua natura fa adep-ti con una territorialità senza confini. Il cul-to è collegato ad un tenebroso ed autoctono ciclo di bambini-spiriti (Ogbanje o returning children) o Abiku (“born to die”), bambini destinati a nascere più volte nel ventre della madre per poi morire ciclicamente in tenera età o prima della adolescenza; collegato è il mito delle donne-pesce, “figlie” di Mami Wata, amanti della bella vita e del benessere (Li Uwa è una che vuole “divorare” il mon-do). Le adepte di Mami Wata sono per natura ambivalenti, spiriti delle acque intrappolate in corpi e costretti tra i vivi, “come un terzo

11 Si veda Beneduce R., Taliani S., Un paradosso ordi-nato. Possessione, corpi, migrazioni, in Possessione, Antropologia, Meltemi, 1, 1, 2001.

genere che si scaglia contro le nostre catego-rie” mentali, dice Beneduce. Esse sono con-temporaneamente: • donne anche malate, oggetto di diagnosi

psicopatologiche (episodi psicotici);• donne anche immigrate, prese nelle trap-

pole identitarie dell’ essere come il bianco, imprigionate in processi di mimesi sociale ed economica;

• anche adepte di confraternite, donne che hanno avuto esperienza di possessione, che hanno partecipato a rituali e necessitano di rituali da hoc, per “guarire”.

Il problema delle adepte di Mami Wata è cor-relato anche al fenomeno di facile prostitu-zione delle nigeriane in Europa: donne Igbo, Yoruba, Ibo, Edo ecc. La prostituzione reli-giosa (ierogamia) non era estranea alla cultu-ra greca antica (la praticavano p.e. sull’Acro-corinto le sacerdotesse di Artemide).

Oggi - dunque - non si può prescindere dal discorso sulla Cultura e la inter-Cultura12. La prima metà del Novecento si è dedicata alla in-dagine dell’intrapsichico, la seconda metà del Novecento si è focalizzata sull’interpersonale delineando utili teorie della comunicazione (G. Bateson e scuola di Palo Alto, E.Berne e l’analisi transazionale, I. Eibl-Eibelsfeldt e l’etologia umana ecc.) e dei sistemi (Ludwig Von Bertalanffy e Teoria Generale dei Siste-mi). Questo secolo si apre come si è chiuso il precedente: sull’interesse antropologico, non più inteso come un qualcosa che richiede un

12 Miglionico A., et Al.,Manuale di Comunicazione e Counselling, CSE, Torino 2000. Miglionico ha dedicato nel 2000 schede di psichia-tria transculturale, un modello di intervista intercul-turale ed un intero capitolo al “fattore Cultura” nel “Manuale di Comunicazione e Counselling”, CSE, Torino. L’interesse personale di ricerca in ambito etnopsichiatrico dell’A., - che opera in campo in-terculturale sin dalla fondazione (1996) del SIEB Italia-Spagna, - si è spinto oltre: perfezionamento in Antropologia Medica presso la Università Bicocca di Milano, approfondimenti tematici (Polinesia, Au-stralia, Africa, America del Sud ) e studi sul campo (cultura Rapa Nui), seminari. Il SIEB organizza dal 2006 – a latere dei corsi in counselling - corsi per mediatori culturali e interculturali.

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lungo e faticoso viaggio per contattare “po-poli allo stato di Natura”13. Oggi basta girare l’angolo della strada e si incontra il mercato nordafricano, o la costellazione di negozi ci-nesi che prima si vedevano solo nei film sta-tunitensi. Allora non fa meraviglia se anche nella sala d’aspetto del nostro studio privato vi è una donna con il velo islamico o un nige-riano che ci attendono, anzi che attendono il nostro “aiuto”.

Lo studio dell’Uomo: il sistema curatore/

curando tra emico ed etico.

Perché invitare lo psicoterapeuta o il counsel-lor a riflessioni antropologiche? Non solo per la fase storica che stiamo vivendo. Lo studio dell’antropologia, studio della specie umana in toto, dal versante biologico a quello cul-turale, “...è prezioso per chiunque progetti di esercitare una professione in un campo interessato alla dimensione culturale del-l’esistenza umana.14 Una cultura consiste nei modi socialmente acquisiti di pensare, senti-re ed agire dei membri di una particolare so-cietà. Le culture mantengono la propria con-tinuità attraverso il processo di trasmissione di cultura…La trasmissione di cultura indica il processo con cui la cultura viene trasmessa da una generazione all’altra, la diffusione in-dica quello con cui la cultura viene trasmessa da una società all’altra…”

Questa è esattamente l’area di intervento di ogni professionista d’aiuto. Marvin Harris (1927-2001), nel suo trattato di Antropologia Culturale, ci ricorda, oltre la trasmissione di cultura e la diffusione, anche il processo di resistenza alla diffusione. Poi Marvin Harris

13 NaturVölker li chiamava efficacemente Herbert Tischner (e la etnografia tedesca) in Völkerkunde, 1959 (Etnologia, Feltrinelli, 1963). Popoli di inte-resse etnologico sono generalmente quelli privi di un vero sistema di scrittura. Già nel 1959 Tischner av-visava che molte delle culture descritte nel volume - impeccabile - erano esposte a “rapido declino” e che costituivano un presente già passato.

14 Harris M., Antropologia culturale, Zanichelli, 1990, p.17

introduce un chiarimento che avvicina l’antro-pologo ancor di più al nostro ruolo di profes-sionisti d’aiuto in una società “complessa”:

“Gli esseri umani possono descrivere i loro pensieri e comportamenti dal proprio punto di vista. Di conseguenza, nello studio delle culture umane si deve chiaramente indicare se viene esposto il punto di vista della po-polazione indigena facente parte di un dato gruppo sociale o quello dell’osservatore. Ri-spettivamente si tratta di punti di vista emici o etici…”15.

Emico è l’intrasistemico (“Mi faccio Pigmeo per comprendere i Pigmei” oppure “intervi-stare e raccogliere vissuti ed esperienze dei Pigmei”); l’etico è percepibile dal di fuori del sistema osservato. Ma qui nasce la dif-ficoltà comune alla ricerca antropologica e psicoterapeutica: il problema della impossi-bile “neutralità” rispetto all’osservato - che è circolarmente anche un osservatore (sia esso

15 Emico ed etico sono stati coniati in riferimento ai concetti linguistici di fon-emico, fon-etico

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un cliente di Manhattan di fronte a Berne op-pure una tribù Bororo del Brasile studiata da Claude Lévi-Strauss). Non per niente si sono sviluppate nelle varie metodologie di inter-vento psicoterapeutico opportune strategie che contrastassero aspetti emici in favore di quelli etici: per esempio la supervisione diret-ta (attraverso lo specchio nel caso dell’inter-vento psicoterapeutico sul sistema-famiglia) o indiretta.

“Le versioni, emica ed etica della realtà spes-so differiscono considerevolmente, benché vi sia di solito un certo grado di corrispondenza fra esse.” (M.Harris)

In realtà, a causa della natura circolare della comunicazione, aspetti emici di natura con-trotransferale (= di natura psicologica e cul-turale) complicano ancora di più qualunque rapporto tra “osservato” ed “osservatore” e colpiscono in pari misura sia lo psicotera-peuta-counsellor sia l’antropologo: se ne era ben accorto Claude Lévi-Strauss il quale, in Tristi Tropici (1963) e altrove, ammise che taluni aspetti di una tribù brasiliana gli muo-vevano “simpatia” ed altri “antipatia”, anzi quasi lo disgustavano. In effetti è difficile studiare il “cannibalismo” di un criminale o di una tribù senza contemplare interferenze emiche personali (contaminazioni di natura controtransferale). Ed è altrettanto vero che i fenomeni emici, se gestiti - alla pari degli eventi controtransferali in psicoterapia -, fi-niscono per favorire l’osservazione. L’analisi dei sogni o di un delirio in setting psicotera-peutico, l’analisi di un mito in un villaggio Huichol in un setting antropologico, pongono gli stessi problemi e le stesse risoluzioni di problemi. È ravvisabile una inclinazione emi-ca anche nella capacità degli psicoterapeuti di attivare il canale empatico e quindi favorire l’alleanza di lavoro (individuata da Berne): qualunque alleanza di lavoro in qualunque sistema Curatore/Curando16 . D’altronde non

16 Che corrisponde al già ampio concetto di Sistema Professionista d’aiuto/Utente, introdotto da Miglio-nico A. nel Manuale di Comunicazione e Counsel-ling, CSE, Torino, 2000

sono lo stesso medico o psicoterapeuta assai più vicini di quanto suppongano alla struttura di pensiero ed azione di uno sciamano o di un curandero? È vero: “La magia dello stregone bianco è potente”, ammettono guaritori tradi-zionali di ogni dove. Ma nel mondo si cura da sempre e da prima dell’avvento scientifi-co-tecnologico, con la medicina tradizionale. In foto si ammira un curandero odierno di et-nia Huichol (di nome San Andrés Cohamiata, 2005). Medicina tradizionale e medicina uffi-ciale coesistono in Messico ed altrove. Così la la medicina sciamanica non va rifiutata sic et simpliciter da un punto di vista etnocen-trico (pregiudizio/contaminazione emici, di stampo occidentale) e mono-etico (“non fun-ziona mai e non può funzionare”); va invece inquadrata emicamente (la gente ci crede da secoli ed attiva alleanza terapeutica con mag-giore semplicità) ed eticamente (per esempio inaspettatamente “funziona”).

• È noto che Claude Lévi-Strauss (n. 1908), il quale assistette di persona alla sorpren-dente efficacia di una terapia simbolica (una danza) sulla evoluzione di un parto che si era messo assai male, si interrogò a lungo - come aveva fatto prima di lui lo scettico Franz Boas (1858-1942) – su come fosse possibile che una “rappresen-tazione cantata o una bambola” potessero agire sul “corpo” e guarirlo realmente. Ed aveva ammesso (interrogandosi in termi-ni di cervello e mente, come Freud): “L’ efficacia simbolica consisterebbe appunto in questa proprietà induttrice di cui, le une rispetto alle altre, sarebbero dotate struttu-re formalmente omologhe, edificabili, con materie prime differenti, ai differenti sta-di del Mondo vivente: processi organici, psichismo inconscio, pensiero riflesso” (in Antropologia strutturale I, 1958, p. 226).

Quando il sofferente si riferisce a categorie diagnostiche diverse da quelle del terapeuta, quest’ultimo ha da rivedere il proprio modo di percepire e “costruire”. La relazione d’aiu-to ha un suo valore intrinseco di “guarigione” di ordine “culturale”: una dimensione che

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tutti avvertiamo come presente in ogni nostro atto professionale d’aiuto.

• Il gesuita Eric de Rosny (n. 1930), autore di un libro Gli occhi della mia capra (Les yeux de ma chèvre, ed. 1981), insegnava negli anni Cinquanta in un liceo africano (Camerun) “affamato di europeità: Vol-taire ecc “: allora la medicina tradiziona-le non era proprio presa in considerazione ma, quando un liceale fu “impossessato” da un “genio dell’acqua”, dinanzi alla im-possibilità di aiutarlo con la medicina eu-ropea, scelse di iniziarsi alla medicina tra-dizionale. Un libro coraggioso che rivela un mondo latente. E de Rosny divenne un po’ nganga (stregone)17.

La relazione e la capacità di instaurare una relazione sarebbe - e questo non desta mera-viglia nello psicoterapeuta di qualunque for-mazione - il primum movens di una possibile “induzione” di processi di autoguarigione, insiti in ogni individuo. D’altronde la Natura non poteva aspettare la nascita della cultura scientifica (come per far nascere i suoi figli non ha atteso i ginecologi): l’autoriparazione è ubiquitariamente presente a livello organi-smico. Da un punto di vista psichico lo stesso sogno è un tentativo di autoterapia (che può fallire, come tutti). La stessa tecnica di de-contaminazione, ricordava Novellino anni fa in una lezione, attiva un processo di autode-contaminazione, già presente nell’uomo. C’è tanto da imparare tra emico ed etico.

“ Oltre agli aspetti emici, etici, mentali e comportamentali, tutte le culture condivido-no un modello universale”, concludeva l’an-tropologo Marvin Harris.

Il legame di ogni contraddizione o antinomia è l’uomo nel suo gruppo di appartenenza, cominciando dal primo gruppo, la famiglia.

17 Nato nel 1930 in Francia, E. De Rosny insegna an-tropologia della salute all’Università Cattolica del-l’Africa Centrale. Tra i suoi ultimi scritti (da Yaoun-dé, in Camerun) Nuove forme del ministero della guarigione in Africa

Questo ci ricorda la analogia freudiana tra “sogno quale mito individuale” e “mito qua-le sogno collettivo”. Anche noi professionisti d’aiuto facciamo “altalena” tra dentro e fuori, tra emico ed etico: • tra empatia (che è una capacità emica di

“mettersi nei panni di”, di “sintonizzarsi” sull’Altro-da-me) e ascolto attivo (capacità etica);

• tra controtransferale (emico) e transferale (etico);

• tra “mappa” del cliente e mappe in nostro possesso, mai smarrendo - speriamo - un modello universale di riferimento.

È come se oggi al terapeuta, per esprimere la propria indagine e prassi professionale, fosse richiesto di essere anche antropologo del “privato”, dell’individuo18; un terapeuta in grado di differenziare aspetti emici (vis-suti, sogni, narrazioni personali, opinione e credenze copionali individuali, gruppali, fa-miliari…) dagli aspetti etici osservati. Così il copione ha una parte narrata (emica) ed una osservabile a livello di output comportamen-tale (etico).

Persino la differenza tra messaggio di contro-copione (messaggio interno) e spinta (versan-te comportamentale della controingiunzione e quindi osservabile dall’esterno) è più facile considerando il primo un aspetto emico ed il secondo un aspetto etico dello stesso fenome-no copionale.

Di più. Il professionista d’aiuto è chiamato ad operare oggi in una società non solo “com-plessa” ma anche multi-etnica per cui culture e subculture comportano talora titanici con-trasti tra multi-emico e multi-etico.Tra gli argomenti descritti in analisi transazio-nale post-berniana due suggeriscono l’apertu-ra immediata ad una visione antropologica: il Genitore Culturale di Pearl Drego ed il Siste-ma di Riferimento schiffiano. Entrambi i fe-nomeni si inscrivono nel grande capitolo del

18 Individuo che in antropologia, guarda caso, si de-nomina “Ego”,quando si considerano relazioni di parentela e regole di discendenza

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copione. Come anticipavano correttamente (e profeticamente in un certo qual senso) C. Moiso e M. Novellino (p.67, 1982) “secondo l’estensione ed il numero di individui che ne condividono gli assunti di base (e il destino) il copione si può classificare come culturale, subculturale, familiare, individuale”. È giunto il momento di dire di più.

“alla ricerca del copione perduto”

In “Ciao!”… e poi? Berne, già dalle prime pagine, non nasconde il disegno ambizioso di inoltrarsi nella terra degli interrogativi in-quietanti, quelli che sono “alla base del vivere umano”. Berne, alla pari di Freud e Jung, non è estraneo alla antropologia e cita con disin-voltura testi classici e testi moderni. Prima di Berne molti studiosi si erano accorti che nelle vicende umane vi sono schemi comportamen-tali caratterizzati da ripetitività e spesso di-struttività. Freud aveva notato che ci sono cose e fatti, potenzialmente auto-eterodistruttivi, che si ripetono nella trama di vita delle perso-ne ed aveva parlato di coazione a ripetere. Lo stesso Berne individua la caratteristica coattiva del copione, anzi è da lì che parte nella sua in-tuizione del copione psicologico (1966).

• Il copione psicologico berniano di per sé è sotto l’influenza della dea greca della ne-cessità Ananke come la chiama Freud. In linguaggio psicoanalitico, esso è guidato dalla coazione a ripetere. Berne correla la coazione a ripetere alla voce non “stento-rea” ma “seduttiva” del dèmone (p. 235 ed. it., 1972) e non crede, come Freud, che dietro ci sia una spinta prettamente “bio-logica”. Il dèmone, è una voce più pro-to-culturale, “seduttiva”, un fare di sfida relazionale che il bambino prova già sul “seggiolone” versando “la pappa sul pavi-mento con gli occhi che brillano di gioia aspettando di vedere cosa faranno i geni-tori” (p.11, 1972). Chiarisce l’apparente incongruenza tra biologico e culturale in nota (7, p.264) : “…il dèmone, l’impulso, è un impulso dell’Es. Ma fenomenologica-mente, il dèmone è vissuto come una voce

(o più precisamente la voce del dèmone del genitore) impressa nel bambino. Parlando per l’Es del genitore, parla anche per l’Es del genitore”19. Il c.d. Bambino pazzo del genitore introiettato è una forma meno sot-tile e più eclatante di dèmone (7, p.264). Si tratterebbe quindi di contenuti program-matici a trasmissione prevalentemente culturale, contro i quali usare rimedi cul-turali20. “Il rimedio contro i demoni sono sempre state le parole magiche”(Berne, p. 235, 1972).

Ripetitività. E che dire degli anonimi compo-sitori di miti che costellano la storia e le cul-ture di ogni dove? Ripetitività. E dei cantori o drammaturghi di ogni epoca che descrivono strade quasi obbligate degli uomini? Ripeti-tività. I pazienti stessi, poi, talora vengono a consulto manifestando intuizioni del genere (“Dottore, ci sono cose nella mia vita che si ripropongono tali e quali ed io sembra non posso farci nulla…”)21.

• Che il copione psicologico possa essere funzionale o disfunzionale Berne lo aveva visto subito e, cogliendo una analogia discutibile con il tavolo da gioco parlava di individui che mostrano un:- Copione “perdente” o “distruttivo” (secon-

do C. Moiso e M. Novellino, 1982), carat-terizzato da “sconfitte” intermedie e finali (sino al più tragico di tutti l’“amartico”22);

- Copione “vincente”, o “costruttivo”, (se-

19 Individuo che in antropologia, guarda caso, si de-nomina “Ego”,quando si considerano relazioni di parentela e regole di discendenza

20 Anche se noi, a differenza di Berne, crediamo anche alla compresenza di possibili fattori biologici (non necessariamente genetici): non si possono escludere instabilità psicocomportamentali su base biologica. Ogni organismo è diverso da un altro nella intera-zione tra genotipo e fenotipo (persino un gemello monocoriale, il massimo della concordanza geneti-ca, non è veramente “identico”)

21 Inserire ripetitività in un discorso - come abbiamo fatto ora - lo può portare ad essere poetico, enfatico o addirittura fastidioso.

22 “in ricordo della definizione di Aristotele della amar-tia, l’errore inconsapevole che porta il protagonista

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condo C. Moiso e M. Novellino, 1982), in-somma “a lieto fine”;

- Copione “banale” o “improduttivo” (se-condo C. Moiso e M. Novellino, 1982), in cui le persone non manifestano solo che talune potenzialità, limitando la propria crescita e le opportunità; gli obiettivi sono raggiungibili ma con grande spreco di ri-sorse e conflittualità.

Non è un caso che Berne sia colpito dal lavoro di Joseph Campbell, noto per i lavori di mi-tologia comparata sul Monomito23 presentato nell’ Eroe dai mille volti (1949). L’intuizione “antropologica” è forte in lui.

Il copione “psicologico” è “individuale” o “personale” e non è solo psicologico in quanto l’individuo non può essere studiato fuori del nesso relazionale e sociale (micro-macrosociale). Il copione personale, ergo, per la sua natura esistenziale e referenziale, si pone alla osservazione pluridisciplinare tra psicologia evolutiva, psicopatologia e antropologia culturale.

Né sono sfuggiti a Berne lo studio di Gre-gory Bateson sul ‘gioco’, The Message ‘This is Play’ (1956) e l’opera di Huizinga. Berne ha letto Homo Ludens (1938) dell’olandese Johan H. Huizinga, lo “storiografo della cul-tura” che i nazisti non erano stati capaci di zittire, neanche con la deportazione in un la-ger per ostaggi. La caratteristica più significa-tiva del “gioco” - in Huizinga - è di essere un atto libero, almeno per l’uomo adulto. Inoltre il gioco si differenzia dalla vita normale come lo scherzo dalla cosa seria, anche se a vol-

alla tragedia finale”( Moiso C. e Novellino M., Stati dell’Io, Astrolabio, Roma, 1982, p.66).

23 Il mito fondamentale (“monomith”) descritto da Campbell si articola in: 1) nascita misteriosa; 2) re-lazione complicata con il padre (orfano, padre catti-vo ecc.); 3) ritiro dalla società, apprendimento di una lezione (talora aiutato da guida potente o sovranna-turale); 4) ritorno alla società e messa a frutto degli insegnamenti , talora, grazie ad una arma/potere che solo lui/lei può usare. Che questo mix di componenti abbia presa sull’immaginario collettivo lo dimostra anche il caso della fortunata trama di Guerre Stellari, che ha tenuto incollati allo schermo due generazioni (il regista Lucas si è ispirato a Campbell).

te esso viene preso molto sul serio. Il Gioco crea Cultura, ne è uno dei motori più attivi24. Egli considera la cultura come un sistema in cui tutti gli elementi interagiscono tra di loro: economia, politica, diritto, usi e costumi, arte. Anche lui, come fa Campbell per i miti, usa un metodo comparativo. Per comprendere il significato di eventi storici e culturali bisogna conoscere la storia e le culture precedenti, così la pensa Huizinga. Tale convinzione lo obbliga a lavorare su periodi di grande durata, progettando strutture su vasta scala temporale. Forse Huizinga cerca quanto altri storiografi il copione storico dell’Uomo, senza riuscir-vi, però in Homo Ludens25 apprezziamo una “enorme costruzione di antropologia cultu-rale fondata sull’etnografia, la psicologia storica, la sociologia, la linguistica, lo studio del folklore ecc., ovvero un’analisi globa-le del ruolo dei miti e della immaginazione mondiale, del gioco come principio univer-sale del divenire della cultura umana. Non a caso il nome di Huizinga è stato accostato a quello di M. Mauss e di C. Lévi-Strauss” (E. Galavotti, 2005)26.

La psicoanalisi, già dagli albori, si era tro-

24 Va detto che gli studi di etologia - un versante biolo-gistico del sapere - sostengono il ruolo del gioco tra i Primati non umani ed umani, sottolineando come esso compaia in assenza di minaccia e quale strut-turazione del tempo: il gioco non è quel comporta-mento inutile che qualcuno considera. Attraverso il gioco e la emulazione si apprendono abilità e com-portamenti sociali. P.e. il gioco con le pietre è stato osservato tra i giovani macachi del Giappone (M. Huffman in Angelo Tartabini, L’Uomo allo spec-chio, PSE, 1997). L’attitudine creativa del primate, unitamente alla capacità di apprendimento, consen-te di attuare comportamenti e problem solving al di fuori degli schemi genetici: invenzione/scoperta + apprendimento=tradizione. Grazie alla possibilità di diffusione orizzontale e non solo verticale di informazioni, la cultura si distacca dal patrimonio genetico e finisce per influenzarlo, attraverso la plasticità neuronale.

25 Dopo l’edizione del 1973 (Einaudi), al momento ci risulta, dopo un silenzio di quasi trent’anni, la nuova edizione italiana di Huizinga J. H., Homo Ludens, Einaudi, datata 04/2002. In inglese la edizione più recente è quella della Routledge, 1998.

26 Galavotti E., La Storiografia della Cultura di J. Hui-

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vata ad affrontare temi antropologici solo apparentemente distanti dallo studio del sin-golo. S. Freud, affascinato dalla linea evolu-tiva magia>>>religione>>>scienza, esposta da J.G.Frazer (in Totemism and Exogamy, 1910) ed ora rivisitabile, si spinse a scrivere Totem e Tabù (1912-13). Berne si sofferma sulla integrazione tra psicoanalisi e antropo-logia operata da Geza Roheim, studiosa che, scappata da Budapest per sfuggire ai nazisti, si era rifugiata in USA. • Vale la pena di sottolineare che la Roheim,

da antropologa di impostazione psicoana-litica, propose “un paradigma di teoria psi-coanalitica sociale in grado di confrontarsi con il tema della differenza culturale, pur mantenendo una dimensione universali-stica della psiche umana”27. I tempi erano cambiati. Freud aveva aderito al paradig-ma evoluzionistico in antropologia28 svi-luppando la “ricapitolazione” filogenetica e fornendo una analogia tra il pensiero “primitivo” ed il pensiero “infantile”, tra nevrosi ossessiva e formazioni rituali con particolare riferimento alla organizzazio-ne totemica ed ai relativi tabù o sistemi di divieto/regolamentazione sociale (ma non c’era secondo Freud identità tra nevrosi e tabù, come qualcuno ritiene, ma solo “con-cordanza”). La Roheim, l’unica antropolo-ga ad essere stata in analisi (con Ferenczi), fu mandata “sul campo”, tra gli Aranda, in Australia, grazie agli interventi di Freud, Ferenczi stesso e la principessa Marie Bo-naparte. Ne venne fuori una pubblicazione su “Totemismo australiano”. Negli USA scrisse la sua opera più famosa “Psicoana-lisi e Antropologia” (1950), letta da Berne e citata in “Ciao!”… e poi?.

zinga, 2005, su www.homolaicus.com

27 Così Lombardozzi A., Figure del Dialogo. Tra an-tropologia e psicoanalisi, Borla ed., Roma 2006

28 Paradigma evoluzionistico: sir E. Burnett Tylor, J.George Frazer (quello de Il Ramo d’Oro, per inten-dersi), W. Baldwin Spencer (che aveva vissuto tra gli Aranda), Paul Broca (lo studioso delle aree ce-rebrali noto in neuropsichiatria); Bachofen J. Jakob, Engels Friedrich (sì, il cofondatore del marxismo).

Concetto centrale nella Roheim è il “trauma ontologico” concepito “come il modo di in-tervento della cultura sullo sviluppo libidico del bambino attraverso divieti e gratificazio-ni” della agenzia educativa. Il concetto della Roheim travalica i ristretti confini dell’indivi-duo avulso dalla società e visto come mona-de, e appare più vicino al concetto di copione trans-personale, culturale29.La tabella che segue (tratta e migliorata da una ns. pubblicazione del 1996, TA Papers: Tribute to Eric Berne) sintetizza le fonti da cui ha attinto l’opera berniana, citando in ta-luni casi una pubblicazione che in particolare abbia riconoscibile attinenza con il concetto di copione, per ammissione dello stesso Ber-ne. Per “le basi berniane del copione psicolo-gico” si suggerisce di leggere l’esaustivo ed omonimo paragrafo in Novellino M. (2004).

Con la distinzione tra piano di vita e corso di vita, Eric Berne cominciò a riflettere sul copione psicologico quale “modello del de-stino umano” (con la “d” minuscola) da con-trapporre alla “magia” del Destino (con la “D” maiuscola). L’ineluttabile delle vicende umane, il “doveva finire così”, l’inatteso che poi in fondo era atteso, uscivano dal caldero-ne informe del Fato greco-romano, del Qadar (la predestinazione islamica) e di altre forme istituzionali di pensiero che negano il “libero arbitrio”, per divenire oggetto di speculazione scientifica, di previsione non del “certo” ben-sì “dell’altamente probabile”. L’analisi del Copione è una griglia di lettura applicabile ad individui e sistemi, che facilita il compito diagnostico e prognostico ai terapeuti e coun-sellor (di ogni formazione) fornendo loro un potente strumento di osservazione ed inter-vento preventivo/curativo a carattere longitu-dinale. Il Copione è il concetto più sistemi-co di Berne in termini di interazioni sociali. Quando scatta la interazione con l’Altro/gli Altri, l’avere un copione impone di “recita-

29 Gaillard G., Dictionnaire des ethnologues et des an-thropologues, Armand Colin/Masson, Paris 1997.Per il punto di vista psicoanalitico è anche interes-sante consultare Fossi G., Rossi R., Mito, religione e pensiero psicoanalitico, CIC ed.int., RM, 1992

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re” un qualcosa che non è un qualcos’altro. E sulla scena può essere osservato. L’Uomo è pluri-ruolo ed impersona molti attori contem-poraneamente: alcuni suoi ruoli sono di pro-tagonista, altri di co-agonista, altri ancora di importanza minore (ma non secondaria) sino al ruolo di semplice comparsa.

Già Berne lo aveva previsto (p. 119, 1972). Oggi-giorno si ritiene che tra autonomia e limiti copio-nali vi sia un continuum ad andamento dinamico. Nessuno è fermo staticamente in un punto tra gli estremi; noi ci muoviamo sul continuum in un di-namismo che è sottoposto alla azione dei fattori stressanti (gli stressor). Eventi di particolare ca-rattere usurante possono farci oscillare verso la non-okness del copione anche quando ne siamo sufficientemente autonomi ed allora ci sentiamo come “risucchiati” dal polo copionale (“risucchio copionale”, lo chiamiamo da quando un cliente ce lo descrisse così). Chi è “imprigionato” nello schema di vita è polarizzato in una situazione di non-autonomia.

In definitiva: Il copione personale si delinea come un piano di vita personale, concepito e deciso nella prima infanzia in base alle in-fluenze parentali e sociali, e successivamen-te dimenticato o rimosso, che limita l’auto-

nomia individuale. Ha una componente inconscia (il Protocollo o scena pri-maria) ed una larga parte preconscia.Abbiamo così ricordato e meglio delineato il copio-ne personale. Ma noi non introiettiamo unicamente i messaggi e comporta-menti dei nostri diretti ca-regiver. Noi introiettiamo attraverso i genitori, con-viventi, istruttori, amici, associati ecc. anche il Genitore Culturale della nostra comunità. Così si perviene al concetto di co-pione trans-personale.Con lo sviluppo storico

della analisi transazionale psicodinamica (C. Moiso e M. Novellino ne sono i promotori e per questo vincitori di due distinti Premi Eric Berne) ed il susseguente recupero della dimensione inconscia, va sot-tolineato l’aspetto transferale dell’agito co-pionale. Il copione psicologico è un dramma transferale, se si recupera l’inconscio bernia-no (che è sovrapponibile all’inconscio freu-diano). Non a caso Novellino (2004) parla di copione come Io transferale.Berne (1961): “…Il copione [psicologico] appar-tiene al regno dei fenomeni di transfert, cioè è un derivato, o più propriamente un adattamento di reazioni ed esperienze infantili; esso però non si occupa semplicemente di una reazione di transfert o situazione di transfert; è un tentativo di ripetere in forma derivata un interno dramma transferale, spesso suddiviso in atti, esattamente come i copio-ni teatrali, che sono dei prodotti artistici intuitivi dei drammi primitivi dell’infanzia. Dal punto di vista operativo il copione è un complesso insieme di transazioni che per sua natura tende a ripetersi ciclicamente...” (pp.101-102). Ricordiamo la se-quenza di sviluppo del copione secondo Berne

protocollo>Decisione>palinsesto>tornaconto

Il protocollo è una versione arcaica del dramma

copioNe NoN oK aUtoNomia

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edipico, rimossa negli anni successivi; sono le esperienze drammatiche originarie sulle quali si basa il copione; dunque è inconscio.

• Berne classificò i copioni non-ok in rap-porto al tempo: Mai (Tantalo), Sempre (Aracne), Finché/Prima (Eracle/Giasone), Poi/Dopo (Damocle), Quasi/Prova e Ri-prova/Più e più volte (Sisifo), Indetermi-nato (Filemone e Bauci).

• Il Mito di Ulisse/Odisseo è vincente (Clark-son): egli rinuncia alla immortalità (onni-potenza) per fare rientro ad Itaca (accettare limiti Adulti).

Tali miti dell’umanità, che la cultura occiden-tale sembra voler dimenticare, costituisco-no ancora un prezioso punto di riferimento anche se oggi vanno “tradotti” dinanzi ad una cultura sempre più depauperata dalla mediocrazia e dalla decadenza della istitu-zione scolastica.

• Il copione è per definizione “personaliz-zato”. Noi, nell’analisi ad personam di co-pione, già suggerimmo il concetto di mito

personale nella genesi del copione, acco-stando il mito in particolare al protocollo (pag.145-154, Miglionico A. e Novellino M., 1993). Da notare come nelle forma-zione del copione il linguaggio prevalen-te delle origini sia analogico-metaforico (come nel sogno).

Abbiamo così ricordato e meglio delineato il copione personale. Ma noi non introiettiamo unicamente i messaggi e comportamenti dei nostri diretti caregiver. Noi introiettiamo at-traverso i genitori, conviventi, istruttori, ami-ci, associati ecc. anche il Genitore Cultura-le della nostra comunità. Così si perviene al concetto di copione trans-personale.

fine prima parte

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Formazione del copione: figura tratta da A. Miglionico Mito e Linguaggio metaforico nel Copione (1994)

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Questo articolo è un capitolo di un mio se-condo libro sui giochi psicologici in corso di pubblicazione. Ha lo scopo di collocare in una rappresentazione grafica di più facile comprensione i concetti di emozione sostitu-tiva, di ingaggio (racketeering secondo la de-finizione di F.English) e di gioco psicologico nelle sue varie modalità.

Qual’è la spinta, la motivazione, di ogni azio-ne umana? Detto in modo molto semplificato è la più o meno intensa percezione di benessere o di malessere. L’azione che ne consegue va nel-la direzione di prolungare e migliorare il be-nessere ovvero di superare il malessere. Ma questo modo così semplice di esprimerci ci fa subito intravedere una serie di apparenti contraddizioni.

Quando provo un dolore a un piede ho una percezione di malessere. Il dolore fisico è la sentinella che l’evoluzione ha posto a guardia della mia integrità fisica. Non è una sentinella infallibile, ma se l’ascolto ho maggiori proba-bilità di sopravvivere. La mia mente raziona-le tiene conto del segnale di allarme, si rende conto che ho indossato delle scarpe nuove e mi invita a togliermele.Mi fa male un piede mentre sono a metà stra-da nel portare una notizia urgente e impor-tantissima ad una persona cara. La mia mente tiene conto del segnale di allarme, si rende conto che ho indossato delle scarpe nuove, verifica (tramite la fantasia) cosa accadrebbe se desistessi dall’impresa, scopre che il di-spiacere o il mancato piacere sarebbero meno sopportabili del dolore al piede e mi invita a

proseguire nonostante la sofferenza e la pro-babilità di un danno fisico.In questo secondo esempio, a differenza del primo, vediamo il convergere di diverse moti-vazioni: una essenzialmente fisica (il dolore al piede) e altre di natura non fisica, ma emozio-nale e razionale. È dal confronto fra queste che nasce la scelta comportamentale.

A fianco del sistema piacere/dolore fisico gli animali superiori posseggono un sistema gradevole/sgradevole di natura emotiva. Ov-vero le emozioni e, con modalità diversa, le sensazioni fisiche sono la sentinella posta a guardia della nostra sopravvivenza come in-dividui e come specie. Tanto più l’organismo è complesso (cioè tanto più saliamo nella sca-la evolutiva) tanto maggiore è l’intreccio tra i contributi fisici e i contributi emotivi.L’eroe, il santo, il genitore, l’amico che si sa-crificano (sostenendo sofferenza fisica o mo-rale) lo possono fare in quanto al loro interno il bilancio tra sofferenza e aspettativa positiva volge a favore di quest’ultima. È questa una visone altruistica nella quale non è tan-to il piacere o l’evitamento di sofferenza del singolo individuo a contare, ma il concetto di “sopravvivenza” si allarga ad altri e forse a tutta la propria specie, l’umanità. Posso sof-frire fisicamente, posso soffrire moralmente in quanto misconosciuto, perché attraverso il mio sacrificio altri ne beneficeranno. Questa prospettiva è più gradita della rinuncia e mi permette di scegliere la sofferenza attuale in vista di un bene auspicato.Così come questa complessità di motivazioni può riguardare motivi “alti”, allo stesso modo vi può essere una complessità al servizio della

emozioNi sostitUtiVe e Giochi psicoLoGici

Giacomo Magrograssi

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difesa e della paura del mondo.Siamo esseri estremamente complessi: vivia-mo e facciamo le nostre scelte in funzione del significato che momento per momento attribuiamo alle percezioni esterne e interne (portati esterocettivi e propriocettivi1). Per significato intendo ciò che la memoria degli eventi passati e l’emozione che vi si associa costituiscono quel particolare momento come un vissuto che ha senso per noi, anche grezzo, non razionalizzato, e che ci invita ad un’azione per mantenere/migliorare ciò che è piacevole o per superare ciò che è spiacevole tenendo con-to al contempo della complessità delle nostre aspirazioni più o meno consapevoli.In questo quadro trovo che si collochi in modo molto interessante il concetto di emozione so-stitutiva2. Dalla prima formulazione di Berne (1964a) sino ai contributi della English (dal 1971 al 1977) vi è stato un progressivo affina-mento del concetto.L’emozione è una delle nostre funzioni psi-chiche, come è la percezione, come è il pen-siero. Dicevo sopra che serve a darci la misura del nostro benessere o malessere (non fisico, ma con forti interdipendenze bilaterali con lo stato fisico) e a “spingerci”3 all’azione. Una cosa sono le emozioni “naturali”, quelle più semplici alle quali ci ha preparato la no-stra evoluzione. Quelle che il bambino, quan-do incontra un ambiente complessivamente accettante, per esempio può percepire in rap-porto ad ostacoli reali ed attuali imparando a riconoscerle, ma imparando anche a dosare l’azione conseguente.Una cosa diversa sono le emozioni “sosti-

1 Magrograssi G. (2005a), pag. 64.

2 Tra i termini di Racket (della prima e indifferenziata formulazione berniana), Ricatto, Racketeering, Ri-cattamento, emozione parassita ed emozione sosti-tutiva preferisco quest’ultima perché mi sembra che meglio degli altri termini rappresenti in italiano ciò che intende significare.Ho dedicato alcune pagine alle emozioni sostituitive in: Magrograssi G. (2005b), da pag. 42.

3 Dal latino: emotiònem da emòtus part. pass. di emovère (trasportar fuori, smuovere, scuotere), Composto dalla particella e (da) che aggiunge forza all’azione espressa dalla parola alla quale è unita, e movère (agitare, muovere).

tutive” bene illustrate dalla English (1971 e 1972). Perché un’emozione s’instauri come sostitutiva è stata probabilmente vissuta una sofferenza, fisica o psichica (e dunque sem-pre, in ultima analisi, psichica) che ha fatto preferire la scelta di percepire la propria real-tà interna in modo forzato e distorto rispet-to allo stimolo; modo consono comunque (e spesso anche premiato) con quanto consenti-to dall’ambiente familiare.Ovviamente non esiste un modo “puro” di provare le emozioni, in quanto esse sono il risultato unico e soggettivo dell’interazione complessiva dell’organismo, nelle funzioni che lo esprimono4, con l’ambiente esterno. Nonostante ciò ha senso parlare di emozioni “genuine” e di emozioni “sostitutive” dove le prime sono quelle che più si avvicinano ad un comune modo di sentire delle persone sane e a una maggiore probabilità di essere “risolte” da un agire congruente; le seconde più lonta-ne dal comune modo di sentire si presentano ripetutamente e l’azione a loro conseguente non giunge all’esito e al sollievo sperato.

Ecco quindi che con le emozioni sostitutive si apre il grande tema della ripetizione. La ripetizione è necessaria, non possiamo ogni volta ricominciare da capo, ma tanto più essa è pervasiva tanto maggiore è la libertà alla quale dobbiamo rinunciare. Il Copione è ripetizione (di lettura di dati percettivi, di sensazioni corporee, di emozioni, di ricordi, di fantasie, di convinzioni, di pensieri e infi-ne di comportamenti) e tanto più il Copione è stringente tanto meno la ripetizione lascia possibilità alternative. È l’eterno dilemma tra la dipendenza (da ciò a cui ci aggrappiamo per galleggiare) e l’autonomia. Fra la sicurez-za di ciò che ben conosciamo e la novità del continuo divenire.Proprio dall’esito di queste apparenti con-trapposizioni ben presto evidenti già in età evolutiva, dipende la nostra libertà e la nostra felicità in età adulta.

Vediamo ora come possiamo rappresentare

4 Magrograssi G., ibid.

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in un semplice e intuitivo grafo insiemistico appartenente al piano5 dell’emozione sostitu-tiva le modalità sociali del racketeering, del passatempo e le varie modalità di Gioco.Il grafo in figura illustra i rapporti reciproci tra le diverse espressioni (ripetizioni) note delle emozioni sostituitive. Da questo punto di vista il gioco psicologico più che essere un tema a sé stante rappresenta un caso partico-lare di manifestazione sostitutiva6. Il campo più esterno, bianco, connotato col numero 1, riguarda quelle emozioni sostitu-tive che vengono provate dal soggetto senza

che diano tuttavia luogo a comportamenti di ricerca di relazione. Si tratta di ciò che la English ha chiamato rackets, dunque di un aspetto intrapsichico non osservabile ma ac-cessibile ad un’analisi fenomenologica.Gli insiemi più interni si riferiscono invece

5 Piano sia in senso figurato che geometrico.

6 È questo il punto di vista anche della English (1977, pag. 141) la quale considera però l’intervento sul-l’emozione sostitutiva l’unico tipo di intervento effi-cace sui giochi psicologici:“Il compito che si impone durante il trattamento sarà di aiutare il Ricattatore a riconoscere, identificare, provare a dare un nome ai sentimenti nascosti o ai comportamenti ai quali i ricatti si sono sostituiti o sotto i quali si sono nascosti.”

alle conseguenze relazionali delle emozioni sostitutive. Si tratta di ciò che la English ha chiamato racketeering e che io, nell’intradu-cibilità letterale del termine7, e con l’intento di non drammatizzare, preferisco chiamare ingaggio nel mio lavoro professionale.Il campo connotato col numero 2 si riferisce a quei tentativi “di aggancio” a partire da emo-zioni sostitutive (e, direi, da ruoli del trian-golo drammatico) che non sortiscono alcun risultato perché l’interlocutore non è interes-sato a questo genere di scambio. La conversa-zione (e le relative carezze) languono.

L’insieme tratteg-giato, connotato col numero 3 rap-presenta invece i tentativi di ingag-gio fruttuosi: si porta a casa qual-cosa. Per esempio un buon passatem-po (primo campo all’interno alla zona tratteggiata) e con esso una certa quantità di carezze qualitativamente mediocri…., ma se la partecipazione del partner vacilla

7 Erskine (1994, pag. 54) sostiene che il termine rac-ket non può essere adeguatamente tradotto in lingue diverse dall’inglese. Sono d’accordo con Erskine nel caso la traduzione in italiano sia troppo letterale: ri-catto, ricattamento e ricattatore sono dei termini del tutto inadeguati per rendere i concetti sottostanti. Ritengo invece che il termine ingaggio si presti a tradurre in italiano senza equivoci ciò che vogliamo significare.Zalcman (1990, pag. 374) a proposito del “Racket System” propone la sostituzione del termine racket perché confusa e fuorviante.English (1975, pag. 144-145) ritiene che il termine racket, per quanto familiare nella lingua americana, sia confuso e colpevolizzante nelle traduzioni che ne vengono fatte:“Mi auguro di riuscire a far comprendere in modo chiaro l’essenza e il significato di tali termini affin-ché possano essere resi con precisione anche nelle altre lingue, senza dover ripiegare su parole ameri-cane vaghe e intraducibili.”

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ecco che si farà pagare caro il tradimento e la delusione con un improvviso Scambio8 che tornerà a darci un brivido di orgoglio, anche a costo di vergognarsi. È questo il campo dei giochi psicologici (l’ellisse orizzontale al cen-tro del disegno) che è suddiviso tra i giochi che conseguono a un passatempo e quelli che si at-tuano per altre vie.Sono tra questi ultimi quelli privi del termine R della formula berniana, senza passatempi, che arrivano come un fulmine a ciel sereno (Berne 1972, pag. 29-30). Oppure quelli che vengono giocati da uno solo dei due interlocutori, che interpreta l’evento comunicativo col filtro re-strittivo delle sue modalità copionali. Mi spiego meglio utilizzando il medesimo esempio di Berne (1972, pag. 29-30):“… in un gruppo di terapia, se un paziente in preda al panico chiede ripetutamente al tera-peuta di essere rassicurato (“dottore mi dica che migliorerò”), e, una volta confortato, rin-grazia, non è detto che si tratti di una transa-zione ulteriore. Il paziente ha manifestato il suo bisogno in modo diretto e chiaro, è stato sì appagato, ma non trae alcun vantaggio dal-la situazione ma solo dalla risposta cortese. Queste transazioni dunque non costituiscono un gioco ma una semplice operazione; e le operazioni, non importa quante volte possa-no essere ripetute, vanno distinte dai giochi, proprio come i procedimenti razionali (frutto di ragionamento) debbono essere distinti dai rituali.Se però un’altra paziente chiede al terapeuta rassicurazione e, ricevutala, la usa per far fare al terapeuta la figura dello stupido, bene in questo caso abbiamo un gioco. Per esempio, una paziente chiede al dottore: “Dottore, pen-sa che riuscirò a migliorare?” e il terapeuta pieno di sentimento [i corsivi sono miei], le rispose: “Certo che migliorerà!” A quel pun-to, la paziente rivelò di aver avuto un secondo fine ponendo quella domanda, infatti invece

8 È questo solo un esempio (English, 1977, pag.130), credo che in realtà, come motivo in altri punti del libro, le cause dei giochi possano anche essere altre. Non ritengo inoltre che tutte le volte che il passatem-po viene meno si abbia un gioco, né che il passatem-po ne sia la indispensabile premessa.

di dire: “Grazie” come avrebbe fatto se si fos-se trattato di una transazione diretta, cambiò all’improvviso atteggiamento dicendo: “Cosa le fa credere di sapere sempre tutto?” Questa domanda mise per un momento il terapeuta in imbarazzo, che era proprio lo scopo che la paziente voleva ottenere. Il gioco si concluse con la paziente esultante e col terapeuta fru-strato …” Il primo esempio non tratta di un gioco e Berne è chiaro nel mostrarlo. Nel secondo esempio il gioco viene certamente giocato dalla paziente. Lo gioca anche il terapeuta nel momento in cui, allettato dalla richiesta della paziente (“pieno di sentimento”), tende in-consapevolmente a mettersi in una posizione di superiorità rispetto a lei, ma viene preso di contropiede dalla rivelazione inaspettata del-l’intento sotterraneo della paziente (“far fare al terapeuta la figura dello stupido”).Berne in questo caso si ferma qui e non esa-mina le due possibilità ulteriori:a) che il terapeuta conoscendo la paziente

partecipi intenzionalmente al gioco per future utilizzazioni terapeutiche, in questo caso gioca solo la paziente;

b) che si verifichi (non nel caso dell’esempio berniano citato perché sarebbe poco adatto, ma in una situazione meno prevedibile per il professionista) da parte del terapeuta una se-rena disponibilità e, ignaro delle sotterranee intenzioni della paziente, rimanga sì sorpreso e forse per un momento anche ferito dalla ri-sposta, non per un suo allettamento al gioco ma per l’improvvisa scortesia e ribaltamento del rapporto. Come mostrato in un capitolo precedente voglio cioè dire che è possibile osservare situazioni nelle quali la risposta del partner è diretta e sincera e non mossa da al-cun intento sotterraneo. Anche in questo caso non c’è gioco da parte del partner pur essen-do presenti sorpresa e sentimento negativo (che deve essere in questo caso non ripetitivo e non sostitutivo).

Nel campo 3, tratteggiato, rimane libera un’area nella quale possono essere rappre-sentati quei tentativi di ingaggio che hanno successo (ovvero agganciano l’interlocutore in forme ripetitive di interazione), che pre-sumibilmente esistono nella comunicazione,

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ma che la ricerca non ha ancora individuato.

Infine ho inserito nel disegno due ulteriori in-siemi che non considero giochi psicologici in senso stretto:- i “Giochi buoni” berniani (1964b, pag.187),

in realtà passatempi, superati dalle successive definizioni e smentiti dalla formula G;

- i “Giochi a una mano”, che si trovano sia in Berne (1970, pag.176) che in Goulding (1979, pag.37), ma che hanno la caratteri-stica di non necessitare di alcun partner e quindi non sono il frutto di una relazione.

Giacomo magrograssi, psicologo e psicote-rapeuta analista transazionale, svolge la sua attività presso il Centro E.Berne (Milano) del quale è stato cofondatore nel [email protected]

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Magrograssi G. (2005a), Migliorare la con-sapevolezza di sé: le funzioni psichiche, Ri-flessioni N°2, Centro Berne, Milano 2005

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Zalcman M. (1990), Analisi dei Giochi e anali-si del Ricatto: visione d’insieme, critica, e ul-teriori sviluppi, Polarità 1994, Vol. 8, N° 3

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“Nacqui una seconda volta,quando la mia anima e il mio corpo

si innamorarono e si sposarono”( K.Gibran, Sabbia e onda)

L’argomento religioso interessa tutti e cia-scuno. e dunque anche me. La pratica psi-coterapeutica mi pone sistematicamente all’ascolto del discorso dell’altro. e colgo in ciascun discorso il tentativo di risolvere la tensione - spesso l’angoscia - dell’esi-stenza attraverso l’accoglimento o la co-struzione di una propria cultura religiosa. per questo ritengo che lo psicoterapeuta, che nel suo lavoro si occupa prevalente-mente di psiche-soffio-anima, debba evita-re di relegare il rapporto con Dio e la fede, al campo etico e/o filosofico, per consentire al suo paziente di interrogarsi anche ri-spetto alla questione religiosa. Questo ar-ticolo costituisce una sorta di sintesi delle mie riflessioni e un invito per me e per chi legge a proseguire nella ricerca con ulte-riori approfondimenti.

sviluppo umano e ricerca religiosa

Parlare di religione in ambito psicologico è difficoltoso se pur estremamente interessante . La principale difficoltà insorge nel concilia-re sintesi ed esaustività. La religione è una manifestazione cultural-mente determinata dai tentativi che l’uomo fa per dare senso alla sua vita e anche alla sua morte. Tutte le culture hanno elaborato spiegazioni delle origini dell’umanità e del destino ultimo che attende gli umani dopo la

morte fisica. Ogni cultura ha un proprio complesso intrec-cio di credenze religiose che offrono diverse possibilità di costruzione di senso. L’indivi-duo perciò assimila le credenze dominanti. Perciò ogni bambino che cresce trova nel suo contesto familiare e culturale l’opportunità e il modo per dare senso alla propria esistenza e per organizzare un sistema di significati e di credenze che lo sostenga nei suoi percorsi di vita.Questo sforzo di trovare significato e di co-struire un senso per se stessi è l’essenza della vita psichica. Ciascun individuo deve infatti rispondere alla più radicale delle domande. Chi sono io? Le continue risposte a questa domanda diven-tano per ciascun cucciolo d’uomo quel nucleo psichico di esperienza a partire dalla quale egli forma il suo senso di identità e il suo modo di partecipare alla vita e alle credenze religiose della sua cultura.È vero che la domanda ‘formale’ non potrà porsela prima dell’adolescenza allorché la sua capacità intellettuale gli consente di usare il pensiero astratto e concettuale. Eppure, fin dall’inizio il bambino pone domande in for-me coerenti con il suo momento evolutivo.La vita psichica dipende dalla relazione con gli altri e dalle modalità con cui con essi ci re-lazioniamo. Ci strutturiamo e riconosciamo in quanto soggetti, nella relazione. In termini psicanalitici si può dire che essere collegato “religatus” è l’essenza degli esseri umani. E “re-ligare”, collegare, è la radice etimologica del termine religione.Queste riflessioni mostrano la connessione che esiste tra l’esperienza del mettersi in rela-

La QUestioNe ReLiGiosa iN psicoteRapia

Santina Ficara

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zione con gli oggetti umani e il modo perso-nale con cui ogni individuo si confronta con le credenze e i riti religiosi offerti dalla cultu-ra allo scopo di trovare il suo spazio psichico per esistere.In ogni stadio del suo sviluppo, attraverso l’esperienza del legame con i genitori, il bam-bino pone la richiesta essenziale di relazione che gli permetterà di strutturarsi progressiva-mente in quell’essere psichico che diverrà. Egli dunque ha bisogno di una relazione si-gnificativa rispondente ai suoi bisogni in cia-scun momento del suo sviluppo. Le religioni offrono Dio come Genitore più potente, e Dio diviene non solo una rappre-sentazione conscia, ma anche un oggetto con cui relazionarsi nel culto privato e pubblico.La rappresentazione di Dio sarà rivista e tra-sformata nel corso del processo evolutivo, non solo come risultato della trasformazione delle imago parentali, ma anche attraverso un processo di valutazione emotivo e intellettivo che porta a decidere se Dio merita di ricevere la fede e l’impegno di una relazione persona-le oppure di essere rifiutato. La lotta interna con l’essere divino interna-lizzato riemerge ciascuna volta in cui nuovi eventi mettono alla prova la capacità di reg-gere le prove della vita.Le religioni hanno creato credenze, dogmi, riti e liturgie per accompagnare e sostenere la sofferenza umana, offrendo al contempo si-stemi di significato che consente di integrare la sofferenza che appare inutile e incompren-sibile.Le offerte della religione non sono prive di ambiguità e possono far riemergere frustra-zioni e sofferenze passate. Esperienze prece-denti con i genitori o con loro sostituti posso-no essere rievocate e creare conflitti di fede, di ambivalenza religiosa e dubbio, di paura e sottomissione, di identità personale.Indipendentemente dal tipo di Dio che la re-ligione della famiglia e la cultura offrono all’individuo in crescita , il processo psicodi-namico di formazione della propria personale rappresentazione divina, farà del dio persona-le di ciascuno, una realtà assolutamente parti-

colare e idiosincratica.Possiamo perciò ritenere che il legame con l’essere divino e la religione che lo presenta, diventa inseparabile dai processi psichici che contribuiscono alla formazione di una parti-colare struttura di carattere e personalità.Le rappresentazioni dei genitori e la rappre-sentazioni del Sé sono così profondamente intrecciate con lo sviluppo progressivo delle convinzioni personali e religiose e la forma-zione di una rappresentazione di Dio nel con-testo delle credenze religiose familiari, che è impossibile separarle nettamente.Alla luce di quanto esposto, trascurare la di-mensione religiosa in un trattamento psicote-rapeutico e analitico transazionale. vuol dire ignorare l’elaborazione privata di momenti significativi dello sviluppo in cui il bambino/fanciullo ha fatto ricorso al suo dio, alle sue idee, sentimenti e convinzioni religiose per organizzare la propria esperienza coi genitori e con se stesso.A prescindere dalla tradizione religiosa di ri-ferimento del paziente, occorre invece che il terapeuta includa nelle sue prime esplorazio-ni, le problematiche religiose, non in quanto religiose, ma in quanto essenziali alla com-prensione del paziente nella sua organizza-zione psichica.

Sono molti i fattori che intervengono a far sì che tematiche religiose vengano spesso eluse nelle psicoterapie. Intendo qui sottolinearne alcuni.- Si avverte da parte della psicologia una sor-ta di avversione nei confronti della religione a motivo della sua necessità/ambizione di un riconoscimento del suo status di scienza. Tale ambizione rischia di essere delegittimata dal-le apparentemente inestricabili difficoltà che si incontrano nell’indagine di un fenomeno tanto complesso.Ignorarlo perciò, tacciandolo come non su-scettibile di studio è un comportamento co-mune a gran numero di psicologi.

- Il pensiero di Freud mantiene la sua influenza.La questione religiosa è affrontata in nu-

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merose sue opere. In alcune (Totem e Tabù 1913; Mosè e il monoteismo 1938) l’approc-cio è prevalentemente storico e antropologi-co, mentre in altre (L’avvenire di un’illusio-ne, 1927 ) la questione viene elaborata da un punto di vista nettamente psicologico. Egli ritiene che il bisogno religioso presente in ciascun individuo scaturisca da una situa-zione di insicurezza e inferiorità. Freud così descrive le rappresentazioni reli-giose: “si tratta di assiomi, di asserzioni su fatti e su rapporti della realtà esterna (o inter-na) le quali ci comunicano qualcosa che non abbiamo trovato da noi e che pretendono da parte nostra un atto di fede” ….. Sono illusio-ni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell’umanità; il segreto della loro forza risiede nella forza di questi desideri” (1927).L’aggancio all’infanzia appare inevitabile. “ la terribile impressione di impotenza del bam-bino ha fatto sorgere il bisogno di protezione – protezione tramite l’amore – cui il padre ha provveduto; il riconoscimento del perdurare di tale importanza nel corso dell’intera vita ha causato il mantenimento dell’esistenza di un padre, questa volta tuttavia più potente. Me-diante il benigno governo della Provvidenza divina, l’angoscia di fronte ai pericoli della vita viene colmata, l’istituzione di un ordine morale assicura l’appagamento dell’esigenza di giustizia, che nella civiltà umana è rima-sta così spesso inappagata, il prolungarsi del-l’esistenza terrena mediante una vita futura istituisce la struttura spaziale e temporale in cui questi appagamenti di desideri devono trovare il proprio compimento” (1927)Freud definisce “illusioni” le dottrine religio-se in quanto si reggono su credenze inerenti l’appagamento di un desiderio e prevedono la rinuncia alla verifica.Nella sua elaborazione il passaggio successi-vo prevede la definizione di religiosità come nevrosi. “La religione sarebbe la nevrosi os-sessiva universale dell’umanità; come quella del bambino, scaturì dal complesso edipico, dalla relazione paterna. Stando a tale conce-zione, è da prevedere che l’abbandono della religione debba aver luogo con l’inesorabilità

fatale di un processo di crescita…” (1927) Egli crea una sorta di equivalenza tra uomo religioso/bambino insicuro. Quindi il credente sarebbe nevrotico, anche se affetto da nevrosi “universale e il progetto della psicoanalisi/psicoterapia è di “liberare gli uomini da una nevrosi”.

- Difficoltà personali Credo che affrontare tematiche religiose ri-chieda una preparazione e una formazione vasta e approfondita. È molto più facile par-lare di religione in senso astratto, che vivere in prima persona la questione della presenza o meno della divinità nella vita dell’uomo. Nel processo terapeutico ed analitico, molte sono le zone che necessitano da parte dello psicoterapeuta un calarsi profondo nei mean-dri delle stesse: lo sviluppo sessuale, i mecca-nismi di difesa, i primi ricordi ecc. Ciascun terapeuta si attiva e si prepara a com-piere questo percorso formandosi e informan-dosi e laddove incontrasse difficoltà si prende cura delle stesse, scegliendo spazi e relazioni che gli consentano di superarle. Sembra invece che pochi siano gli spazi e le relazioni nelle quali la religiosità possa supe-rare quella sorta di censura che consente di eludere la questione. L. Grandi nel suo testo sull’argomento sot-tolinea la difficoltà della ricerca e “investi-gazione” sul cammino-rapporto del paziente con la religione. Tale difficoltà faciliterebbe la reticenza e la fuga.”. Egli scrive “Diventa difficile eludere il sospet-to che il vago ed indefinito timore, si traduca in ansia disturbante per il terapeuta stesso, troppo spesso bisognoso di sicurezze e situazioni da considerarsi ‘definitive’. L’aver finalmente de-ciso in merito al rapporto personale con la re-ligione, qualunque sia la finale organizzazione decisionale, viene considerato come definitivo e volutamente rassicuratorio”.Si può perciò ipotizzare che entrare nel mon-do affettivo del paziente, nei suoi vissuti, nel-la sua intimità, possa produrre una sorta di vortice ansiogeno che il terapeuta in maniera

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inconsapevole tenta di eludere.

- MetodologiaQuando si inizia un nuovo trattamento il te-rapeuta pone al paziente domande su ogni aspetto della sua vita, ma spesso come si è vi-sto non è altrettanto attento alle sue esperien-ze religiose. Il paziente interpreta, neppure consapevolmente, la mancanza di domande come richiesta censoria e suppone che le sue esperienze religiose non siano importanti nel-la cura.Si trasforma così l’argomento religioso in una sorta di “zona franca”, nella quale trova-no spazio emozioni, sensazioni e esperienze rimosse.Inoltre il paziente che può descrivere i suoi ge-nitori come li percepiva, vive invece Dio e le sue esperienze religiose come una sorta di pro-prietà privata, una compagnia consolante o un tormento segreto (Jung) che possono rilevare, se manifestati, aspetti fragili, dolorosi o anche teneri e nobili degli stati più profondi della vita affettiva. Infatti l’esperienza della persona con Dio include un immaginario molto privato del quale si è estremamente gelosi.Se il terapeuta riconosce la propria difficoltà potrà, senza reticenze e fughe, attivarsi per sciogliere i nodi inerenti il suo percorso per-sonale e sarà nella condizione, muovendosi

in maniera puntuale e adeguata, di entrare nel fragile e prezioso mondo interno del suo paziente per aiutarlo a cogliere gli eventuali aspetti patologici della sua esperienza religio-sa recuperando ed analizzando, per esempio gli aspetti e gli elementi copionali, le convin-zioni e le decisioni che reggono la sua perso-nale teoria religiosa.

Bibliografia

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Aletti, Di Nardi, Psicoanalisi e religione, Centro Scientifico Editore Torino 2002

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Freud, Il disagio della civiltà Opere, vol. 10 Boringhieri 1978

L. Grandi, Psicoterapia e religione, Quaderni di Psicologia individuale Torino 1986

C. Jung, I rapporti della psicoterapia con la cura delle anime, Opere vol. XI Boringhieri 1981.

Dott.ssa santina ficara, Analista Transazionale ficara.santina @libero.it

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Questo articolo scaturisce dalle letture ri-guardanti le tematiche religiose da me svol-te in questi anni, dalla conoscenza di diversi ambienti cattolici e dall’esperienza di ac-compagnamento di pazienti in terapia.Nella mia esperienza clinica, l’aver accom-pagnato pazienti con problematiche “re-ligiose” mi ha permesso di acquisire una visione globale della persona, che sollecita il terapeuta a tener presente nel suo inter-vento oltre alla dimensione fisica, cogniti-va ed emotiva della persona, anche quella valoriale e spirituale. Questa visione più complessa del paziente-persona deriva an-che dagli anni di formazione e di scambio professionale con carlo moiso che alle tre dimensioni dell’autonomia proposte da Berne, consapevolezza, spontaneità, inti-mità, ha aggiunto quella dell’etica, intesa come l’insieme dei valori, elaborati e sinte-tizzati dall’adulto, che orientano la persona nella determinazione delle proprie scelte, nel comportamento e nelle relazioni inter-personali. La teoria evolutiva qui esposta è stata condivisa ed elaborata nella Bottega analitico transazionale di Roma, diretta da carlo moiso.

problematizzazione

Vi è mai capitato di sentire frasi simile a que-ste nell’intimità del vostro studio?“Dottoressa come faccio a separarmi da mio marito? Mi sono sposata in chiesa e sono molto religiosa”“Voglio capire se ha senso rinnovare i voti di vita consacrata o no”“Non so come fare a conciliare il mio cammi-

aNaLisi tRaNsazioNaLe e matURazioNe DeL cReDo ReLiGioso

Daniela Allamandri

no psicologico con i dettami della mia fede”Questi ed altri interrogativi ci stimolano nel conoscere e comprendere le questioni religio-se e i possibili risvolti nel lavoro clinico.In questo articolo farò riferimento in partico-lare alla religione cattolica, ma ritengo che le riflessioni siano estendibili anche ad altre fedi e/o religioni.

Religione, salute mentale e stili di attaccamento

Le interconnessioni tra benessere, salute mentale e religione sono immensamente com-plesse, infatti il coinvolgimento religioso può avere sia effetti positivi, che negativi o neu-trali sul benessere. È quindi molto interessan-te comprendere quali possano essere di volta in volta e che cosa determini la positività o meno degli stessi. Nel caso di un effetto po-sitivo, spesso, in diverse ricerche americane si è rilevato come le credenze religiose siano significative in particolar modo per la dimi-nuzione di sintomi ansiosi, per l’incremento della propria autostima e della percezione di sé stessi come persona “in compagnia”, non sola , “in relazione”. Questi dati sollecitano il terapeuta ad interpretare le dinamiche reli-giose come reali manifestazioni di processi di attaccamento, in modo molto simile alle rela-zioni “bambino-caregiver”.Sono state condotte molte ricerche da parte dei teorici dell’attaccamento, per rilevare cor-relazioni e differenze a riguardo. Da questi studi spesso è emersa una corrispondenza fra stili di attaccamento della persona ed espe-rienza religiosa. Rifacendosi ad Ainsworth è stato verificato che individui che possiedono

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modelli mentali generalizzati positivi e “si-curi” di sé o delle figure principali di attac-camento, tendenzialmente considerino Dio o le altre divinità in modo affettivo e presente. Allo stesso modo ci si può aspettare che un orientamento “evitante” nei confronti delle relazioni strette si manifesti, in ambito reli-gioso, come agnosticismo, ateismo o in una visione di Dio come remoto ed inaccessibile. Infine, un orientamento “ambivalente” può esprimersi in una relazione con Dio profon-damente emozionale, dispendiosa ed eccessi-vamente dipendente.Altri studi e ricerche, invece, hanno rilevato come gli individui spesso, insoddisfatti delle relazioni di attaccamento avute in passato o nell’oggi, si rivolgono a Dio come figura so-stitutiva, per instaurare una relazione di attac-camento alternativa e più adeguata, rispetto a quella avuta. Seguendo questi studi si può ipotizzare che un lavoro terapeutico focalizzato sulla cura del-le relazioni oggettuali probabilmente influirà sulla visione religiosa del paziente, mutando la sua idea di Dio e rendendola maggiormente si-mile a quella tipica delle persone con un attac-camento “sicuro”. Nella mia pratica clinica ho confermato più volte questa ipotesi: man mano che la terapia ha portato alla rivisitazione ed elaborazione del rapporto con le figure geni-toriali, i pazienti si sono concessi di rivedere le proprie credenze religiose in modo più ra-gionato e Adulto, talvolta distaccandosi da una trasmissione religiosa rigida e fatta di precetti e riti vuoti di significato, ma elaborando una propria visione etica e morale della vita; altre volte scoprendo un forte desiderio di matura-zione e crescita delle proprie convinzioni re-ligiose che li ha portati a documentarsi e con-frontarsi con letture specifiche e/o dialogando con persone di forte spiritualità. Il compito del terapeuta è quello di accom-pagnare questa evoluzione senza pregiudizi e paure, ponendosi accanto al paziente con modalità simili a quelle messe in atto nel facilitare lo sviluppo delle altre dimensioni evolutive (sessuali, sociali, culturali…). Lo sviluppo etico e la dimensione religiosa sono strettamente correlati, in quanto forniscono

alla persona delle piste di risposta alle do-mande fondamentali della vita (chi sono, da dove provengo, che senso ha la mia vita), per cui non possono essere sottovalutate nel la-voro terapeutico, anzi sono parte fortemente integrante della terapia stessa.Ma quali sono gli strumenti teorici e metodo-logici specifici che un Analista Transazionale può utilizzare nel trattare le problematiche religiose?

analisi transazionale e formazione del credo religioso

Seguendo l’intuizione dei teorici dell’at-taccamento noi Analisti Transazionali po-tremmo riflettere e studiare maggiormente le tematiche religiose, rilevando le possibili corrispondenze fra visione personale di Dio e formazione della struttura di personalità. Se si fa riferimento alla teoria di Haykin, per esempio, si può notare come pazienti psicoti-ci spesso riportino deliri religiosi, mostrando come la visione religiosa sia interiorizzata in modo scisso e confusivo, fantasioso e/o ango-sciante (G0).Allo stesso modo pazienti con struttura Bor-derline spesso si vivono Dio come assoluto e risolutivo di ogni problema (G1+) o forte-mente punitivo e castrante (G1-), alternando queste visioni e cercando contenuti di fede che avvalorino e confermino queste idee.Pazienti con una struttura tripartita completa sono più disposti a viversi Dio con caratte-ristiche paterne e materne, con sfaccettature simili a quelle dei propri genitori introiettati. La collocazione dei contenuti religiosi nei diversi Stati dell’Io facilita il compito del-l’Analista Transazionale.Possono trovarsi nell’Esteropsiche in quanto introietti genitoriali incorporati già dall’in-fanzia. Ne sono un esempio il seguire le pra-tiche religiose, perché si è imparato a farlo, a partire da un insegnamento familiare o ri-cevuto nell’ambito parrocchiale, trasmesso come un dato di fatto: “si fa così…. È bene fare così….”.Possono trovarsi anche nella Neopsiche, in quanto elaborazioni personali di dettami tra-

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smessi e riformulati in modo adeguato all’in-terno di un quadro interpretativo soggettivo, che equilibra gli stimoli provenienti dalla Archeopsiche, Esteropsiche e ambiente. La stessa decisione di andare a messa e ricevere i sacramenti, per esempio, può essere frutto di una scelta profondamente sentita e voluta.I contenuti di fede possono trovarsi fortemen-te nella nostra Archeopsiche, in quanto corre-lati a bisogni biologici profondi; questo con-cetto è collegabile alla teoria Junghiana degli Archetipi, presenti nell’uomo fin dalla nascita e trasmessi di generazione in generazione. Da sempre, infatti, la credenza religiosa ha fatto parte delle le società di tutti i tempi, come ri-sposta alla ricerca di senso della vita.È molto interessante rifarsi alla teoria di Car-lo Moiso, riguardante lo sviluppo dello Stato dell’Io Genitoriale, per cogliere parimenti il possibile sviluppo dell’interiorizzazione dei contenuti spirituali.Secondo Moiso, alla nascita, la persona riceve in eredità un piccolo nucleo genitoriale (G0): il Genitore Genetico, uguale a tutti gli esse-re umani. Il G0 può essere suddiviso in due componenti: una ontogenetica, che riguarda tutti quei controlli sugli impulsi trasmessi ge-neticamente e una filogenetica, che riguarda tutti gli aspetti di controllo e contenimento trasmessi dalla specie umana. All’interno di questa seconda dimensione si può far rientra-re l’aspetto spirituale.Nei primi anni di vita si struttura, a seguire, il G1 (Genitore Oggettuale), attraverso un pro-cesso di introiezione di parti genitoriali posi-tive e negative (Strega e Fata Buona) (G1+ e G1-). I contenuti introiettati sono vissuti come assoluti e rigidi, per cui i dettami reli-giosi risultano essere assunti (in questa fase) in modo fideistico e tassativo, con connotati positivi idealistici o profondamente negativi. Quando il bambino comincia ad individuarsi e a separarsi dalla mamma, inizia il processo di assimilazione delle figure genitoriali reali, con tutti i loro comportamenti, i loro pensieri ed emozioni; si viene a formare il G2. La for-mazione del G2 (Genitore Parentale) avviene attraverso un processo dialogico fra il bam-bino e le figure genitoriali presenti, per cui i

contenuti vengono assimilati in modo un po’ meno assolutistico e rigido, rispetto a quelli introiettati nel G1, sebbene si tratti sempre di assunzione di regole, prescrizioni, divieti, affettuosità e conforto trasmessi come dati di fatto, senza farli passare al vaglio di una mes-sa in discussione critica.L’organo di contenimento genitoriale conti-nua ad evolversi grazie al processo di socia-lizzazione del bambino nel mondo dei pari e si inizia così a formare il G3 (Genitore Socia-le). Il G3 si costruisce grazie alle norme che il bambino osserva ed incorpora dal gruppo di appartenenza.I contenuti religiosi che si acquisiscono, ap-partenendo a gruppi di matrice religiosa, sono assunti con determinazione ed intensità, perché facilitano il formarsi di una determi-nata identità sociale e ciò diventa sempre più importante in corrispondenza al crescere del-l’età.Esiste, infine, un quinto livello: il G4 (Genito-re Personale), che si viene a formare quando la persona si concede di rivedere i contenuti incorporati nel G3, assimilati nel G2, introiet-tati nel G1 ed ereditati nel G0, per elaborarli, farli propri in modo più ragionato, più morbi-do e personale. Kohlberg parlerebbe di mora-le autonoma e di stadio post-convenzionale. Moiso definisce il G4 Genitore Personale e sottolinea come, mentre il G0 e G1 siano Ar-cheopsichici, il G2 e G3 siano Esteropsichici, il G4, invece, sia Neopsichico e faccia parte dell’Ethos dell’Adulto.Questa teoria è molto utile per avere un qua-dro di riferimento interpretativo chiaro dei contenuti religiosi. Compito dell’Analista

Transazionale è di comprendere le questioni religiose proposte al paziente collocandole all’interno del proprio quadro interpretativo,

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per poi aiutare la persona nel processo evo-lutivo in atto, sciogliendo con lei pregiudizi e paure, facilitando il passaggio e l’elaborazio-ne dei contenuti religiosi presenti nei diversi Stati dell’Io Genitoriali, affinché siano rivisti e integrati all’interno della visione valoriale personale (G4).Lo svolgersi di questo processo è molto com-plesso in quanto, a differenza di altri con-tenuti genitoriali, i contenuti religiosi sono interiorizzati in modo più rigido e determina-to, i dettami sono visti come “divini”, quindi oggettivi ed indiscutibili. Mentre un valore umano è importante, ma modificabile per una giusta causa etica, un dettame religioso è molto meno modificabile, in quanto la per-sona nel metterlo in discussione, si sentirebbe in colpa rispetto a Dio e si percepirebbe “su-perba” nel tentativo di equipararsi alla divi-nità, o in contraddizione rispetto gli insegna-menti divini. Si potrebbe dire che i contenuti religiosi siano introiettati come dei Super G0 G1 G2, a cui bisogna corrispondere necessa-riamente se si dice di aver fede (“chi sono io per contraddire Dio… farmi una fede a mio uso e consumo!?”)Mi sembra interessante diagrammare questo concetto nel seguente modo:

giosi attuali, o quando utilizza la religione per confermare le proprie problematiche psicolo-giche. Con un bagaglio di conoscenze suffi-cienti il terapeuta potrà affiancarsi al paziente in modo consapevole e potente, ottenendo la fiducia della persona in cura e stimolando un confronto aperto e Adulto. Solo così potrà ac-cadere che “il Bambino del paziente accetti il suo Adulto come sostituto valido del Genito-re Originario” (Berne 1962).A questo proposito sento utile proporre una breve digressione riguardante lo sviluppo della teologia; per fornire un quadro di riferimento di studi da cui partire per ulteriori approfondimenti ed acquisizioni.

excursus storico sullo sviluppo della teologia cattolica

Le credenze religiose vengono trasmesse da persone umane e non da Dio stesso, per cui passano necessariamente attraverso il filtro personale, filosofico, culturale e storico a cui si appartiene. Gli studi teologici attuali, in primis, sottolineano come nel tempo vi siano stati diversi approcci interpretativi della Bib-bia stessa.

Le chiese antiche sono state in gran parte determinate dall’autorità dei trattati dei Pa-dri della Chiesa. Essi conoscevano ancora le antiche scritture che oggi sono scomparse e si sono occupati principalmente di come creare una relazione fra l’uomo e Dio nella preghiera e nella meditazione. La scolastica e la canonistica medioevale condussero ad una sistematizzazione teologica attraverso dedu-zioni o conclusioni che potremmo definire in-tellettuali o meglio filosofico-religiose; i Pa-dri della Chiesa avevano ancora autorità, ma solo nella misura in cui questi concordavano con tali posizioni. Questo salvaguardò la fede sotto forma di dottrine e dogmi, ma condusse anche a pratiche inquisitorie. Il severo metodo scolastico è ancora oggi un punto di partenza fondamentale per la teologia sistematica, so-prattutto nell’ ambito cattolico. Un ulteriore contributo fu fornito da parte dei Riformatori,

Di conseguenza è importante che il terapeuta si attrezzi ulteriormente, per poter distinguere quando il paziente propone dei contenuti reli-

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che cercarono di ritornare alle origini bibli-che. Questo riuscì però in maniera piuttosto limitata, perché essi erano i figli del loro tem-po e conoscevano poco le correnti spiritua-li e mistiche della storia del Cristianesimo. Inoltre il settore protestante non fu sempre così tollerante come potrebbe sembrare. La Controriforma, le guerre di religione ecc. fe-cero il resto. Il periodo della nuova filosofia, dell’illuminismo e delle scienze naturali che seguì, portò sempre più i teologi storico-criti-ci ad orientarsi, in maniera consapevole o in-consapevole, verso la sensibilità delle scien-ze naturali tipica di quel tempo. La teologia divenne in parte una corrente di ricerca della scienza della letteratura e della linguistica. Ciò non rappresenta un approccio sbagliato, ma sicuramente parziale. Nel XX secolo vi furono diversi sforzi per trovare nella teologia sfaccettature che essa fino ad allora non ave-va preso in considerazione sufficientemente, senza però includere quella dimensione mi-stico-spirituale che già Karl Rahner aveva riconosciuto come necessaria. Questi tenta-tivi nel campo cattolico ed evangelico han-no significato molto per la società, essendosi occupate di più delle preoccupazioni pratiche dell’uomo (la teologia politica, la teologia di liberazione del terzo mondo, così come la teologia di creazione, la teologia femminista,) ... . In alcune correnti come nella “Entmytho-logisierungstheologie” (teologia della smitiz-zazione) di Bultmann però la fede veniva ri-dotta ad una comprensione materialistica del mondo - come accennato prima già superata - anche se veniva tenuto presente che la fede non necessitava di un’oggettivazione scien-tifica. Drewermann tentò poi un’interpreta-zione psicologica del profondo dei Vangeli. Questo approccio ha stimolato un recupero della ricchezza interiore, ma la psicologia del profondo non è la dimensione spirituale del-la Bibbia. Nel XXI secolo si sta cercando di teorizzare un rinnovamento delle possibilità spirituali del Cristianesimo, mantenendo sia la profondità della fede antica che la vigilan-za sociale conseguita, ciò implica un grosso sforzo di costruzione di una mentalità ed una coscienza aperta. Ciò richiede una precisione

spirituale e uno sguardo differenziato sulla società e sul mondo, anziché un’amministra-zione delle correnti di ricerca della teologia e della scienza della religione ed un’ulteriore frammentazione delle stesse. Da questo breve excursus storico-teologico si evince come la fede cristiana non sia solo quella scolastica (spesso sentita e predicata nelle parrocchie), ma gli studi teologici sia-no molto più complessi ed aperti di quanto sembri. I diversi approfondimenti teologici propongono teorie ed interpretazioni dei con-tenuti di fede in continua evoluzione e i risul-tati derivanti da questi studi vengono proposti come ipotesi di avvicinamento alla “Verità”.

metodologia analitico transazionale e cura delle problematiche religiose

Dal breve excursus teologico si evince come il terapeuta possa porsi con un atteggiamen-to di dialogo e apertura rispetto alle questio-ni religiose portate dal paziente, in quanto le attuali teologie propongono una visione reli-giosa ragionata e approfondita, tutt’altro che dogmatica e rigida.Spesso, il bisogno di sicurezza, di avere degli schemi interpretativi della realtà che diano una direzione, abbinato ad insegnamenti mo-ralistici e semplicistici, trasmessi dal catechi-smo ricevuto, porta ad acquisire dei contenuti di fede in modo rigido e riduttivo. Compito del terapeuta è dare al paziente la possibilità di allargare, ammorbidire il “Copione reli-gioso”, affinché il credo religioso, rivisitato ed interiorizzato nell’Ethos dell’Adulto, offra un nuovo quadro di senso e di direzione della vita, sicuramente più “evoluto” di quello pre-cedente. Compito del professionista è quello di documentarsi, per poter seguire “con co-gnizione di causa” il paziente, che porta le sue problematiche religiose nella stanza della terapia. Il paziente, infatti, spesso considera il terapeuta e/o il mondo della psicologia come ostacolanti alla possibilità di vivere la pro-pria fede ed ha bisogno di smontare eventuali pregiudizi e convinzioni limitanti a riguardo. Il rendersi conto di essere di fronte ad una persona che conosce le tematiche religiose,

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spesso lo porta automaticamente a mettere in discussione i propri stereotipi e a rassicurare le proprie paure. Ciò faciliterà la riflessione successiva circa l’importanza di contestua-lizzare e di approfondire certi dettami, senza prenderli in modo assolutistico. Il lavoro ini-ziale di Decontaminazione è valido per tutti i pregiudizi Genitoriali, ma ancor di più per quelli relativi a qualsiasi credo religioso, in quanto sono introiettati in modo ancor più assoluto, perché “divini”. È per questo che risulta importante che il terapeuta acquisti

autorevolezza e potenza nel porsi accanto al paziente con le proprie conoscenze riguar-danti le tematiche religiose e con un atteg-giamento aperto al dialogo e all’integrazione. Spesso ho sentito dei colleghi dire: “Io non tratto le questioni religiose… dico al paziente di parlarne altrove”. Ciò a mio avviso rischia di essere riduttivo, perché ciascuna persona porta in terapia le proprie domande o rispo-ste circa il senso della vita, la presenza del bene e del male, la morale… e non possiamo esimerci dall’entrare nel merito, affiancando la ricerca e la crescita del paziente nella sua dimensione etica. È importante affiancarci con rispetto e apertura, scevri da pregiudizi e paure, proponendoci come modellamento per una maturazione ragionata e approfondita. A livello metodologico è bene che il terapeuta, prima di chiedere al paziente cosa pensa di un determinato contenuto di fede, si ponga accanto alla persona in cura, utilizzando un linguaggio e un contenuto sintonico a quello dello stesso, evitando così di colludere o al contrario di non affrontare questioni impor-tanti. Per esempio: se il paziente sostiene di non voler esprimere la rabbia, perché la re-

ligione cattolica predice l’amore verso tutti, il terapeuta, prima di chiedere un’opinione personale a riguardo, potrebbe affiancarsi utilizzando il linguaggio del paziente e cita-re l’episodio di Gesù che si arrabbia al tem-pio e rovescia le bancarelle o insulta i farisei chiamandoli “sepolcri imbiancati”. Il citare dal proprio Adulto esplicitamente dei conte-nuti di fede, facendo attenzione al modo con il quale vengono formulati, affinché siano visti come una integrazione e non come una proposta in contrapposizione, normalmente

stupisce il paziente e lo porta a confrontar-si, a sua volta, da uno Stato dell’Io Adulto, lasciando la precedente posizione difensiva. L’interazione, portata come esempio, potreb-be essere diagrammata come segue:La transazione di risposta può essere vista come una transazione a bersaglio, il terapeuta non si pone in contrapposizione, ma si offre come persona autorevole, in quanto conosci-trice dei contenuti religiosi e rispettosa degli stessi. Il paziente potrebbe sentirsi positiva-mente “spiazzato” da risposte di questo tipo, in quanto è più propenso ad aspettarsi una non comprensione e/o condivisione delle proprie idee in materia religiosa, per cui la dissonan-za cognitiva che si crea, può stimolare una messa in discussione dei propri pregiudizi. La risposta offre, inoltre, nuove informazioni all’Adulto, particolarmente fruibili, in quan-to date con lo stesso linguaggio del paziente, rassicura la parte Bambina rispetto a possibili timori di messa in discussione della propria fede, ammorbidisce i dettami Genitoriali, grazie all’offerta di un modellamento auto-revole ed esperto in materia. Di conseguen-za il paziente sarà più disposto a parlare e a

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rivalutare le proprie convinzioni religiose, sentendo il terapeuta alleato con lui, disposto ad accompagnarlo nella costruzione di una visione religiosa maggiormente integrata con la persona ed etica. Questa fiducia reciproca diventa la base per iniziare un processo di elaborazione dei contenuti derivanti da G0, G1, G2, G3 , che porterà la persona in cura a rivedere e consolidare le proprie convinzioni etiche e religiose nel G4.Questo “affiancamento” potrebbe essere para-gonato, “mutatis mutandi”, alla teoria di Paul Ware sulle tre porte: così come risulta inutile in un primo momento focalizzarsi sulla porta bloccata o bersaglio del paziente, allo stesso modo non è produttivo pensare di attivare una valutazione personale Adulta in tema religio-so, se prima non ci si occupa di ammorbidire i freni e gli impedimenti sottostanti.Questo lavoro con il paziente risulta molto importante, anche perché, spesso, i dettami religiosi maggiormente trasmessi sono quelli derivanti dalla teologia scolastica, in quanto sono quelli più sistematici e quindi più sem-plici da trasmettere, ma attualmente superati ed integrati da altri studi. Il compito del tera-peuta non è quello di fornire i contenuti degli studi teologici successivi, ma quello di ser-virsene, per facilitare la crescita del paziente verso un’elaborazione ed acquisizione degli stessi nel proprio G4. Il lavoro terapeutico è molto delicato e complesso, in quanto si trat-ta di agevolare un’evoluzione globale, che ri-guarda tutta la persona con i suoi vissuti, pen-sieri e comportamenti, che vanno rivisti ed interiorizzati in modo nuovo, aperto, profon-damente etico, filosoficamente, culturalmente e teologicamente fondato. Ciò è possibile se il professionista si pone accanto con molto ri-spetto e una grossa capacità di facilitare l’ela-borazione etica del proprio paziente, senza imporre le proprie convinzioni, ma stimolan-do la capacità Adulta della persona in cura, affinchè riformuli il proprio credo in modo consapevole e maturo. Mi piace sottolineare quanto sia fondamentale che il terapeuta si ponga accanto all’accompagnamento etico e religioso del paziente senza pregiudizi e pau-re, per non rischiare di sminuire o svalutare o

giudicare le problematiche che vengono por-tate dal paziente, per cui si potrebbe dire che la maturazione “etica” della persona in cura vada di pari passo con una buona Decontami-nazione ed eticità del proprio terapeuta.

Daniela allamandri, psicoterapeuta Anali-sta Transazionale PTSTA, docente all’itat di Torino. [email protected]

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Il tuo nome è Nessuno, e come Ulisse vaghi alla ricerca della tua Itaca.

Come Ulisse cerchi quell’isola amata, come Ulisse cavalchi i flutti marini, toccando terre

sconosciute e misteriose. Sei Nessuno per l’Altro che non conosce e non ri-conosce la

tua anima. Sei quel Nessuno che porti dentro la tua essenza. Sei Nessuno perché Essere diventa insostenibile. Non hai cura del tuo

Esserci,disperso nei flutti di un navigare naufragante, in spiagge e lidi sconosciuti dove ti illudi di trovare la tua casa, il tuo

popolo, i tuoi amati cari. Il tuo nome è Nessuno, perché Nessuno dà il significante

alla tua vita, una vita spesa alla deriva, una vita offuscata, bruciata, morsa, perduta. Una vita in cui trovarsi è difficile. Il tuo

nome è Nessuno perché tu abiti il territorio Ghiacciato-del-Nulla.

Ogni volta che mi accingo a porre la mia pen-na su un foglio bianco si dischiude quel sen-tiero inebriante ed avvolgente della ricerca che conquista la mia mente all’interno di nuo-ve connessioni, conducendomi ad esplorare ulteriori luoghi mondani, originali territori di sapere, nuovi spazi di ricerca. In ognuna di queste regioni di pensiero ho la possibilità di incontrare quella luce di sapienza che può solo arricchire la mia conoscenza ed il mio sentire, all’interno di quel fare e di quell’Es-sere, che conduce poi alla consapevolezza di un Esserci significativo e significante. Questi sono luoghi dove la manifestazione dell’es-sere umano si svela all’Altro in tutto il suo aspetto per-turb-a(t)tivo, tras-form-a(t)tivo e tras-mut-a(t)tivo. L’Altro è quello Stranie-ro, che tanto ha inciso nella cultura del ‘900,

siGNificato, siNtomo, Vita

Barbara Fabbroni

arrivando a noi come un’eredità a volte in-gombrante, altre volte imbarazzante, ma pur sempre un interlocutore che sta-di-fronte. Ed Io, nel mio fare e nel mio essere una psico-terapeuta in cammino, mi avvicino, timida-mente, a volte quasi ponendo solo l’ascolto attento, a quei territori culturali, che mi offro-no l’opportunità di nutrire quella parte di me, che cerca un soddisfacimento autentico, che mi doni la possibilità di ri-emergere dal mag-ma di inconsapevolezza umana, che a volte si incontra nel mondo sia clinico che sociale. È attraverso la sperimentazione di un pensie-ro, o meglio del mio pensiero, che penetra in quei tòpos (luogo), in quei territori, in quelle casseforti dell’anima mundi, che la mia sete d’in-contro con l’Altro si fa sempre più de-siderosa, placandosi solo nel momento in cui ho la possibilità di comunicare il mio sentire a Te, che pazientemente ti poni all’ascolto delle mie parole. E come un Ulisse vago alla ricer-ca della mia Itaca, di quel territorio che possa essere luogo-di-appartenenza, luogo-di-rico-noscimento, luogo-di-in-contro della Mia e della Tua pre-senza. Così può costruirsi quel mezzo-ponte, quel territorio-del-in-contro, si può cementare quella relazione della pre-sen-za, quella capacità di stare-in-empatia,di es-sere-in-empatia e di vivere-in-empatia. Tutto ciò non è un sentimento, è la pre-messa, è la base su cui poi i sentimenti autentici posso-no trovare un territorio accogliente, nutritivo, tras-mut-a(t)tivo. Questa modalità di entrare-in-re-l-azione non vuol significare vivere quello che l’Altro vive, perché io mai avrò originariamente quello che l’Altro sta vivendo (E. Stein, 1917). Ben-sì è ri-conoscere che l’Altro è Persona. Ciò

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è attualizzabile solo se l’Altro, grazie all’in-contro, si pone autenticamente in-ascolto, creando quel territorio in cui si orchestra la re-l-azione-in-ascolto, la re-l-azione-con-ascolto e la re-l-azione-per-ascolto. Il com-prendere autenticamente è già in parte curare, ma oltre al saper com-prendere è fondamen-tale sintonizzarsi e risonare nell’Altro, ricer-cando empaticamente la continuità di senso di quella persona che è di-fronte-a-Me. L’Al-tro offre una nuova modalità conoscitiva di sé attraverso l’Altro-da-Sé. Così l’esperienza dell’Altro diviene Einfühlung (empatia) ed è un Altro-me-stesso. Questa possibilità di vi-vere-nel-mondo dona l’opportunità di Esserci (Da-Sein) con-e-per-l’Altro, con-e-per-Sé, strutturando il tempo-della-vita, nel qui ed ora che rinvia a quella realtà misurabile in cui si verificano i comportamenti e gli eventi del-la vita umana. Nell’in-contro con l’Altro la persona può scoprirsi insofferente, mancan-te, bisognosa, può percepire la sua posizione esistenziale (E. Berne, 1979) ingabbiata al-l’interno di un Esserci insufficiente, dove il desiderio dell’Encore (J. Lacan, 1957) si fa insaziabile fino a quando non si dischiude in quella coscienzialità-esistenziale che si apre al clinico. Ma è qui, in questo in-contro con l’Altro, se il clinico ne ha cura, che si orche-stra nella persona quella donazione-di-senso, che diviene senso-di-Sé, senso-del-Altro, senso-del-mondo, all’interno del senso-del-tempo e del senso-nel-tempo nel qui ed ora del suo bisogno. Di quel bisogno che urla in silenzio di essere riconosciuto.Così l’essere umano può fidarsi, e fidandosi, si potrà affidare, tanto da iniziare ad aprire quelle scatole cinesi che contengono il suo dolore, racchiuso scatola dopo scatola all’in-terno di un nucleo che sembra proteggerlo ed avvolgerlo come in un guscio. Quel gu-scio che è il tòpos (luogo) dove l’individuo può sentirsi protetto e con-tenuto. Dove può esistere senza nascondersi. Dove può ri-co-noscersi senza paura. Dove può essere ri-co-nosciuto senza falsità. Dove può ri-conoscere l’Altro-da-Sè. È di fronte alla complessità dell’Altro che il clinico in-con-tra quel limite, quella cifra, quel con-fine, che non offre, alla

persona che lo vive, la possibilità di Essere (Sein) ed Esserci (Da-Sein), conducendolo all’interno di quelle situazione-limite, che si presentano come inevitabili. Esse sfuggono alla comprensione della persona, sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo (K. Jaspers, 1978). Pur non potendo essere evitate, tali situazioni-limite possono essere affrontate realizzando in noi l’esistenza pos-sibile: sperimentare situazioni-limite ed esi-stere é la stessa cosa, spiega Jaspers (1978). Di fronte a queste situazioni-limite affiora l’angoscia, la vertigine della libertà di fron-te alle scelte, il momento critico in cui si é consapevoli di poter essere annullati, travolti dal Nulla, ingabbiati dall’inconsapevolezza, inondati dall’angoscia. Ogni angoscia, infatti, è angoscia-della-morte. L’uomo naufragando di fronte a queste si-tuazioni apre un rinvio a quel che é al-di-là di esse e si compie un salto alla ricerca del-l’Essere (Sein). Jaspers (1974) ci dice, io non ho mai l’Essere, ma sempre e solo un Esse-re. Se l’esistenza potesse fondarsi esclusiva-mente su se stessa, avrebbe trovato la verità incondizionata nell’Essere temporale, che é proprio dell’esistenza, ma questo é un tenta-tivo disperato inattuabile. L’uomo é costretto a rendersi conto che il suo fondamento può venirgli solamente da fuori, da colui-che-è-di-fronte. Così di fronte ad essa, l’esistenza possiede la coscienza autentica della propria finitezza e si manifesta come quell’insuffi-cienza (K. Jaspers, 1974) che coincide con la ricerca dell’Altr-ove. Questo luogo si annuncia alla persona come simbolo. Il simbolo diviene mezzo-di-com-unic-azione di Sé all’Altro, è ciò che con-tie-ne il suo Sein (Essere), ciò che esprime il suo Da-Sein (Esserci). Questo è anche un simbo-lo-sintomo, che l’individuo, avvolto nel mon-do-della-psico(pato)logia, fatica ad esprime-re, perché denota un aspetto per-turb-a(t)tivo all’interno di quella costruzione simbolica di significati, che danno un significante alla sua vita, identificandolo in qualcosa-di-altro. Quel qualcosa-di-altro che è strutturato e reso visibile dal sintomo, dalla patologia psichica, da quel mondo dissonante e discordante che

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ogni paziente vive in maniera simbolica. In fondo, l’uomo è un animale simbolico, che è riuscito ad instaurare la società nel momen-to in cui ha strutturato uno scambio di segni da cui è nato il linguaggio. Non solo il lin-guaggio verbale, ma tutta la cultura, i riti, le istituzioni, i rapporti sociali, il costume, altro non sono che forme simboliche, dai significa-ti significanti, in cui l’essere umano racchiu-de la sua esperienza vissuta (Erlebnis) per renderle intercambiabili. L’Essere, quindi, sussiste in quanto si fa linguaggio, diviene dia-logos, contatta quella terra cifrata ove si trova l’Essere. È lì, in quel territorio, che si attualizza, la possibilità di oltrepassare quel limite accedendo all’Altr-ove, all’Oltre, alla terra-di-nessuno.È quel bisogno-di-esistere, di Essere, di Es-ser-ci, che dà l’avvio all’Erlebnis mondana orchestrata nel territorio-della-vita, luogo all’interno del quale si plasmano i tre mon-di (sto parlando del mondo-del-Bambino, del mondo-del-Genitore, del mondo-del-Adul-to) che strutturano la personalità dell’indi-viduo. Tutto può essere cifra: la natura, la storia e l’uomo. È un simbolismo inconscio che sfugge alla coscienza, ma che è parte della coscienza. L’esistenza si configura, al-lora, come il luogo di lettura della scrittura cifrata; in modi diversi, anche contrapposti, mitologia, teologia e filosofia provano ad esprimere oggettivamente l’Essere. Così la scrittura cifrata diventata com-unic-abile: tramite la sua mediazione si può entrare-in-con-tatto con l’incomprensibilità dell’Essere, che costituisce la persona nel suo fondamento di significato, nella sua coscienzialità. Quel significato diviene significante ed origina la storia-di-vita dell’individuo attraverso la pa-rola. Quella parola, che è dia-logos, crea la possibilità di comunicarsi all’Altro nella ri-cerca del Da-Sein (M. Heidegger, 1927) che si sprigiona dal Daimon (J. Hilmann, 1984). Tutto questo risiede nell’inconscio che è lo scrigno della conoscenza dell’essere umano. Conoscenza che si apre solo se in-con-tra un Altro nutritivo ed autentico. Quell’Altro che la persona in-con-tra nella mondanità, luogo in cui l’individuo è esistenzialmente in-con-

tra-to, ma attraverso il quale entra-in-comu-ne, entra-in-con-tatto, in-con-tra l’Altro ed è in-con-tra-to dall’Altro. Tutto ciò permette l’in-contro-con-il-Sé grazie alla possibilità di mettere in-comune l’Io ed il Tu, che diviene coscienza-della-vita. Coscienza-di-Me, co-scienza-di-Te, coscienzialità-di-Noi. La Coscienza è la porta che apre al clinico l’accesso all’interno della conoscenza della persona. Fa definire i suoi livelli. Evidenzia i suoi strati, con le sue sfere percettive-reat-tive, vissute, intenzionali, di attribuzione di significato, con i suoi gradi di consapevolez-za, con le sue ombre, le sue penombre e le sue perturbazioni. Il fare terapia psicologica attraverso le analisi delle strutture vissute dalla coscienza del paziente, ponendo come verifica intersoggettiva l’alterità del clinico, offre la possibilità tras-form-a(t)tiva della coscienza sintomatica in conoscenza-di-Sé autentica, integra ed integrata, autentica e decontaminata. La dimensione coscienzia-le appare in un primo momento stratificata, non unilineare, complessa e piena di allarga-menti policentrici e concentrici, di pieghe, di sfumature, di campi, di modulazioni. Lo sdoppiamento interiore tra Io empirico ed Io trascendentale rimanda allo sdoppiamento, insito nel Da-Sein, tra l’essere-qui e l’esse-re-anche-là (che può essere considerato come il qui ed ora ed il lì ed allora dei vissuti del-la persona), il coincidere di corpo e mondo nella loro tensione divergente. Attraverso il continuo spostarsi dell’attenzione sulle forme sorg-enti dal mondo-della-vita, il terapeuta rompe la cristallizzazione e la compattezza della propria coscienza e della coscienza del paziente. Ne scopre, di entrambe, la stratifica-zione, la variazione dei significati, l’esplosio-ne dei significanti in tutta quella dirompenza attualizzante di una passione sintomatica per-turb-a(t)tiva. Tant’è che si potrà coglierne il senso senza disperdersi nella molteplicità del fatto, e senza rinunciare alla moltiplicazione degli orizzonti e delle prospettive. Questo fa prendere confidenza con il territorio magma-tico del mondo-della-vita, dove è evidente la stratificazione del fluire coscienziale come fluire temporale che diviene l’unica cono-

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scenza che di Sé ha la persona. Se nel momento in cui la persona giunge nel territorio-della-vita, non si rende possibile quell’accoglienza autentica e quel nutrimento dei bisogni, perché chi lo accoglie non riesce a strutturare quel tempo-del-in-contro-nutri-tivo, quel essere umano, può strutturare una manifestazione per Esser-ci solo, attraverso e grazie ad un vissuto sintomatico, che de-nuncia la sua mancanza. I tre mondi (Geni-tore, Adulto, Bambino), che strutturano la personalità di quella creatura umana, che un giorno è stata gettata-nel-mondo, troveranno un adattamento a ciò che il naufragio nel ter-ritorio mondano gli ha proposto come unica possibilità. Ecco che, attraverso il sintomo, quella persona travolta dalla forza dirom-pente di un esistere-al-limite, denuncerà il mal-di-vivere, quel mal-essere, che è il male dell’anima. Una sofferenza che induce la per-sona a respingere la vita, a volerla fuggire, a distruggerla o a trovare l’unico adattamento possibile per sostenerla: il sintomo. Questo vissuto sintomatico è in stretto rapporto con le carenze affettive ed i traumi familiari vis-suti nell’infanzia, con la mancanza-di-carez-ze (E. Berne, 1979), con quella assenza-di-ri-conoscimento, che a volte, giunge da lontano, dal periodo fetale, oppure è solo la risultante di un accumulo di situazioni di sofferenza che porterà la persona a ritenere che la vita è angoscia. L’unica maniera per poter espri-mere questa sofferenza dell’anima è la parola sintomatica che si rende manifesta all’interno di quella corrispondenza tra la struttura del-l’inconscio e la struttura del linguaggio, che si attualizza nell’Erlebnis-del-vissuto della persona. Questo vissuto è narrazione-di-Sé all’Altro attraverso la parola sia essa verbalizzata che mostrata. Ma la parola senza il gesto, il ver-bale senza il suo opposto il non verbale, sem-brano impoverire il discorso, perché l’anima si nutre sia del con-tatto-di-Sé che del con-tatto-con-l’Altro-da-Sè. Tant’è che se questo con-tatto è mancante, la persona sprofonda nel vuoto che cerca di riempire strutturando a volte dei comportamenti psicopatologici. Quel mondo-vissuto-sintomaticamente, è l’aspetto

visibile all’Altro della sofferenza dell’anima che si struttura in seguito alla mancanza del soddisfacimento dei bisogni. Ad esempio, un neonato che nella sua esperienza ha sentito e vissuto nella sua pelle il rifiuto di attenzione davanti al suo pianto come indifferenza, ed ha creduto di non essere voluto, strutturerà nella sua percezione l’idea che non può vivere se non essendo amato e potrà spingersi in quel territorio-del-sintomo. Quasi tutti i bambini che si sono sentiti ignorati o che sono cresciu-ti in un clima di litigi e violenza, sono afflit-ti dal dis-agio-di-vivere. Ma ognuno di loro ha imparato a strutturare dei meccanismi di sopravvivenza attraverso un sintomo perché avranno compreso: se sono malato, si prende-ranno cura di me! Questo condurrà non solo quel bambino a riconoscersi nel sintomo ma anche l’adulto che sboccerà da lui. Quel vissuto sintomatico sarà la sua ragione-di-vita, la possibilità di Esser-ci, il senso-del-la-vita, la sua donazione-di-senso-alla-vita, per-la-vita e con-la-vita. Sarà la situazione-limite. Se un individuo ha bisogno di dare un significato sintomatico al senso-della-vita per poter camminare nel mondo, ciò significa che l’uscire dalla norma gli offre la possibilità di ottenere finalmente lo sguardo dell’Altro, di essere riconosciuto, di existere, di Esserci. Il valere nulla per l’Altro ha condotto la perso-na nel mondo perturbante del sintomo. Un sintomo che dovrà essere ascoltato, accolto, consolato e ri-definito per essere lasciato an-dare facendo così spazio alla vita. Il vissuto sintomatico esiste solo nella sua costituzio-ne, non esiste di per sé, prima dell’in-con-tro con il terapeuta. Esso è vivencia (A. A. Bello, 1997), esperienza (Erlebnis), perché l’Er-leb-nis (Ex-perior) con-tiene-in-sé una coda di cocente attualità rispetto all’esperien-za fatta. Erlebnis è sia l’esperienza fatta sia l’esperienza che la persona sta ancora facen-do. Si tratta di qualcosa che l’individuo ha già cominciato ad es-perire ma al tempo stesso sta ancora es-perendo, in quanto l’Erfahrung (esperire) della sua identità è in continua evo-luzione. Questo è il modo in cui la coscienza fa esperienza-di-Sé attraverso l’in-contro con

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l’Altro-da-Sè. Ciò-che-è-dalla-persona-vissuto, è l’attualiz-zazione dell’Erlebnis, è ciò che è sia nel qui ed ora che in quel lì ed allora, in quanto la persona nel qui ed ora è il risultato di ciò che è stata. Il mondo-es-perito in questo vivere riflettente continua in certo modo a rimanere per me, percepito come prima, col contenuto che in ogni caso gli è proprio. Continua ad apparirmi come mi apparve prima, solo che io, non mantengo più, non dò più valore alla credenza nell’Essere (Seinsglaube), che è naturale per esperienza, sebbene questa cre-denza sia ancora là, di-fronte-a-me e sia colta dall’attenzione del mio sguardo. Allo stesso modo va la cosa per tutte le altre intenzioni che appartengono alla mia corrente di vita e sono al-di-là della coscienza empirica, con le mie rappresentazioni non intuitive e i miei giudizi, posizioni di valori, decisioni, posi-zioni di fini e di mezzi, tutte parimenti non intuitive ecc., e specialmente con le mie prese di posizione che necessariamente si attuano in quelle attività mediante un atteggiamen-to naturale non riflesso della vita, in quanto queste prese di posizione presuppongono il mondo in generale e quindi implicano in sé una credenza d’essere riguardo al mondo (E. Husserl, 1970).Ecco che il procedere (fahren) nel territorio mondano è proprio dell’es-perire (erfahren), esso ha il significato originario del condurre (M. Heidegger, 1927) ed al tempo stesso del fare esperienza. Se io mi attengo puramente a ciò che capita al mio sguardo mediante la libera epoché rivolta all’essere-del-mondo-dell’esperienza, è allora un fatto significativo che io con il mio vivere rimango intatto nel mio valore di Essere, comunque stia poi la cosa riguardo all’Essere e al non-Essere-del-mondo o comunque io mi possa decidere al riguardo. Quest’Io che mi rimane necessaria-mente in virtù di tale epoché e la vita dell’Io (Sein Ich-leben) non costituiscono un pezzo-del-mondo, sicché dire io sono, ego cogito vuole dire: io, quest’uomo qui, sono. Né, di più, io sono colui il quale si ritrova nell’espe-rienza naturale di sé come uomo; io non sono l’uomo che si trova nella limitazione astratti-

va al puro stato interiore dell’esperienza-di-Sé puramente psicologica e che scopre la sua propria e pura mens sive animus sive intellec-tus, non sono nemmeno un’anima che coglie se stessa separatamente (E. Husserl, 1970). La persona come l’eroe romantico va alla ricerca del senso-del-Sé affrontando le peri-pezie della vita, arrischiandosi in quel formi-dabile deserto-del-mondo. Così l’individuo moderno va alla ricerca del proprio con-(e)sistere mettendosi in gioco rispetto a se stesso, rispetto agli altri, rispetto al mondo. Se l’eroe romantico orienta i suoi gesti ed il suo agire nel mondo esclusivamente per la sua auto-esplorazione, per mettere alla pro-va il suo Io, l’individuo cerca il proprio con-(e)sistere attraverso il riconoscimento del-l’Altro, negoziando la sua identità attraverso il dia-logos-con-l’Altro, che se manca diviene l’esperire-del-vissuto-sintomatico. Negoziare la propria identità è soprattutto una sfida al mondo ed all’Altro, allo straniero, che vie-ne introiettato, assimilato, ingerito in Sè. Lo straniero, l’Altro, è confinato nel limbo delle persone che hanno il potere di dare o togliere il riconoscimento. Quel riconoscimento bra-mato dalla persona che è attuabile attraverso l’esperire empatico, cioè la capacità di sentire l’Altro e di rendersi conto di qualcosa o di qualcuno che sta-davanti-a-me. Empatizzan-do, la persona in-con-tra ed è in-con-tra-ta dall’Altro. L’Altro, affiorando di colpo da-vanti a me, mi si contrappone come oggetto (come le sofferenze che leggo sul viso del-l’Altro); ma mentre analizzo le tendenze che questo porta con Sé, mentre cerco di chiarire a me stesso lo stato d’animo nel quale l’Al-tro si trova, questo non è più oggetto in senso proprio ma mi ha co-in-volto-in-Sé (E. Stein, 1985). L’esperire empatico è la com-prensione del-l’Altro. È il trovarsi presso l’Altro. È quella condizione esistenziale che è l’essere-in-un-mondo-comune a partire dalle prime espe-rienze, di natura puramente emozionale. È l’essenza della capacità di istituire comunica-zioni intersoggettive, fino a mettersi nei panni dell’Altro (E. Stein, 1917). L’esperire empa-tico è come una sorta di prima grammatica

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elementare del conoscere umano: un passag-gio, da parte del soggetto, dalla percezione esterna alla consapevolezza di percepire em-paticamente. Un continuo esperire empatico è la condizione dell’empatia come possibilità di collegare l’autoreferenza originaria della coscienza (con cui il soggetto auto riflette la propria identità) con l’autoreferenza del-l’Altro e viceversa. Però, anche nel momento della massima partecipazione ed immedesi-mazione, l’Io non scompare, non si fonde, appunto, con l’Io dell’Altro, ma gli resta ac-canto, intimamente solidale, eppure diverso. Ed è proprio il permanere della diversità che consente l’empatia, vissuta così da un Io che rimane ben determinato. Se l’Io si annullasse, venisse cancellato o assorbisse l’Altro, non ci sarebbe più l’esperienza dell’Altro.L’empatia diventa così la strada per sperimen-tare l’esistenza di soggetti diversi da noi, an-ch’essi al centro di un loro mondo circostante, e per oltrepassare la visione del nostro mondo e giungere a quella del mondo oggettivo. Ciò rafforza la sensibilità nei confronti di chi è diverso da noi e rende possibile un gioco di interazioni al punto tale che spontaneamente sentiamo il bisogno di ridefinire e ristruttura-re la nostra identità grazie all’in-contro con l’Altro. L’Io si libera così dal suo carattere monadico per riemergere in un Noi come soggetto di grado più elevato. Lo stesso può accadere agli altri e così, empatizzando, arric-chiamo il nostro sentire, e Noi ora sentiamo un’altra gioia rispetto a quella che sentivamo Io, Tu o Lui restando isolati. L’esperire empa-tico permette di entrare-in-re-l-azione con il sapere-del-vissuto-altrui. Infatti, l’identità di ogni individuo è alimentata e contaminata da molte altre identità. E l’empatia è un rendersi conto che c’è l’Altro nell’orizzonte del mio Essere, della mia esperienza. L’empatia atte-sta, dunque, la possibilità della circolazione o comunicazione dell’esperienza, non perché due soggetti diventino uno, si confondano o trovino un’analogia e un’identità misteriosa, ma perché è possibile riferirsi a qualcosa che non siamo Noi, ma non è una cosa, è la realtà vissuta di un Altro essere umano. L’essenza dell’empatia non significa una immedesi-

mazione con l’Altro, ma una disponibilità a lasciare all’altra persona la sua autonomia; pertanto la mia autonomia e quella dell’Al-tro implicano, comunque, una contrattazio-ne che non è necessariamente cognitiva ma può svolgersi anche in modalità emotive e/o narrative. La capacità di entrare-in-empatia è una esperienza esperita che dà il tono ad una vita, perforando quell’enigma che è l’identità di una persona. Il mio divenire s’incrocia con il divenire del-l’Altro, il mio Essere s’incrocia con l’Essere dell’Altro. Io non sono identico a me stesso come l’Altro non è mai identico a se stesso. Non c’è un’identità che osserva ed in-con-tra l’alterità, ma c’è un’identità che osserva e in-con-tra l’identità. È solo attraverso un’espe-rienza di profonda vicinanza con l’Altro che scopro il mio con-(e)sistere, la mia ineludi-bile contingenza (G. Anders, 1993). Alimen-tandosi alla linfa della con-(e)sistere, l’identi-tà assume così carattere proteiforme e scopre la sua errante radice. Ed infatti quest’uomo è il più legato a me per parentela ed abita dove abito io (Platone, in A. E. Taylor, 1976), abita quel luogo che diviene territorio della pre-senza, dell’in-contro, dell’ascolto, del con-tatto terapeutico. Attraverso la terapia, la parola si fa cura, non solo quando c’è un Al-tro che ascolta, ma quando l’Altro diviene sia Altro-da-Sè sia Persona, grazie alla sua pre-senza autentica, partecipante e partecipativa. L’Altro si fa Persona nell’in-contro autentico che mette in gioco entrambe le parti tanto da coinvolgerle. Ascoltarsi e sentirsi ascoltati o ascoltatori, in una sorta di danza che mischia o inverte l’ordine di queste parole senza cam-biarne il risultato (M.A.Giusti, 2006). La persona ricostruendo nel setting-di-terapia la storia della sua vita, inizia quel cammino-nel-Sé attraverso l’in-contro con l’Altro (il clinico) e la strutturazione del tempo-del-Noi, che la porterà a contattare il suo dolore nell’anima, il suo mal-di-vivere. L’operazio-ne dell’in-contro-con-l’Altro, se il clinico ne ha cura, è una continua donazione-di-senso, e non l’ipse dixit. In questo modo si può ve-dere il percorso patologico della persona, i movimenti evolutivi (positivi o negativi) del

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disturbo, ricercandone la continuità di senso per quella persona, al di là di qualsiasi cluster nosografico. Fondamentale qui è l’ascolto, la sintonizza-zione, la risonanza, il con-tatto, la re-l-azione con l’Altro, l’apertura-al-mondo, all’immen-so spazio degli eventi. Soltanto nell’ascolto e nella capacità di mettersi in-relazione con l’Altro, l’ego perde la propria ego-mania, evita la tras-form-azione di Sé in feticcio (pensiamo al corpo anoressico), in un vuoto idolo (pensiamo alla chiusura narcisistica o al mondo autistico). L’ascolto però non si esau-risce in ciò, esso è anche, e non meno essen-zialmente, l’ascolto della silenziosa voce del mondeggiare del mondo, del gioco di spazio-tempo del mondo, del gioco sommo, entro il cui gioco soltanto noi possiamo giocare e sia-mo giocati. Ed i giochi (E. Berne, 1979) mes-si in atto all’interno del copione di vita (E. Berne, 1979) che la persona struttura come risposta adattiva alla sua mondanità ed al ter-ritorio-di-vita-familiare mostrano l’incapaci-tazione di uscire fuori da quel circolo vizioso che fluisce nel sintomo. Ecco che soltanto a partire dal silenzio può risonare, al-di-là della chiacchiera (M. Heidegger, 1927) trionfante, nella parola autentica attraverso quel raccon-to-di-Sé che si fa attualizzazione dell’Erleb-nis di colui che si narra. Il racconto-di-Sé dovrà rintracciare quelle tappe che dalla vita fetale conduce all’even-to nascita, che dall’infanzia porta all’adole-scenza sino al qui ed ora. Le narrazioni-di-Sè, qualunque esse siano, da quella individuale, come storia autobiografica, a quella dei rac-conti familiari offrono un caveaux stracol-mo di gemme preziose nel momento in cui la relazione si fa significativa e l’alleanza diviene tras-mutante. Allorquando, quell’in-dividuo si presenta davanti al clinico, è in-dispensabile ascoltare bene quel corpo, quel corpo che parla, perché esso ha il suo modo di comunicare alla persona quando è stanco, quando deve staccare la spina, quando il do-lore è troppo grande ed insostenibile tanto da esprimerlo con un messaggio corporeo, così come è importante ascoltare il racconto che la persona fa della sua storia-di-vita, in quanto

lì, è possibile rintracciare l’elemento di con-giunzione, che diviene ponte tra due sponde parallele, al quale il sintomo si lega per poter esperire e mostrarsi all’Altro. Infatti, è fon-damentale frugare nella memoria per risalire all’evento che ha dato luogo al dis-agio-di-vivere. Tant’è che arriverà quel momento in cui la persona potrà fare spazio per accogliere quel bimbo che era allora, quel bambino che per sopravvivere ha dovuto strutturare un vis-suto a-tipico. Dall’esperienza clinica è possibile osservare come gli eventi della vita non vengono vis-suti in ugual modo da tutti, tutto dipende da come viene interpretato dal singolo, dalla fi-losofia di vita che caratterizza la persona, dal copione di vita (E.Berne, 1971) che struttura la sua esistenza. Purtroppo, quando la perso-na sviluppa sindromi psichiche, esse possono strutturarsi all’interno di un circolo vizioso che perpetua ed alimenta il sintomo ed il di-sturbo, tanto da portare la persona a mettere in atto un comportamento patologico. Que-sta modalità di vivere tiene vivo il sintomo, lo amplifica e sempre più vincola le scelte e condiziona la vita dell’individuo, creando una storia infinita che oscilla tra attese ed evi-tamenti, tra confine e perdita del limite, dove l’unica possibilità sembra quella di essere ri-succhiati dal Nulla. Questa storia-di-vita diviene la mitologia del-la persona, è ciò che le offre l’opportunità di presentarsi all’Altro. Infatti, l’individuo con il suo modo di pensare e con i suoi atteggia-menti costruisce la sua felicità o infelicità. Tuttavia, non bisogna cercare di guarire il corpo senza cercare di guarire l’anima perché è in quell’anima che il mal-di-vivere ha or-chestrato il suo significante che è reso visibile attraverso il sintomo-simbolo. All’interno di questa processualità di pensiero emerge la sto-ria-di-vita che appartiene alla persona che si narra e si comunica all’Altro. Essa travalica i confini del pensiero e del linguaggio e giunge a sovrapporsi alla vita stessa, estrapolandone i veri significati che altrimenti avrebbero avu-to resistenza ad emergere. È in questo senso che si può dire che nella narrazione emerge la nozione del Sé e del rapporto Sé/Altro. Il

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pensiero narrativo nel cercare la logica delle azioni umane, si muove al livello dell’inten-zionalità dei significati, cercando di ricostrui-re la ricchezza del caso singolo secondo un quadro unitario attraverso l’intersoggettività dell’in-contro clinico. La pietra angolare dell’intersoggettività è la cosiddetta sintonizzazione, cioè un fenomeno che chiama in causa le emozioni, gli affetti, il desiderio di comunicare. La sintonizzazione è la capacità umana di entrare-in-una-re-l-azio-ne-reciproca con gli altri, riconoscere l’esi-stenza degli altri in quanto esseri dotati di una mente sostanzialmente simile alla propria, ac-cedere e comprendere le manifestazioni della mente degli altri e, infine, collegarsi con gli altri e comunicare attraverso gli stessi co-strutti di pensiero (strutture comuni di signi-ficato). La sintonizzazione è sostanzialmente un atto incarnato basato sul fenomeno dell’in-tercorporeità (M. Merleau-Ponty, 1964): la capacità di comprendere l’Altro basata sulla risonanza tra il mio corpo e il corpo dell’Al-tro. È la percezione diretta, attraverso il mio corpo risonante, della vita emotiva dell’Altro. Giacché se la persona è malata, deve prima scoprire che cosa è successo per condurla in quel luogo-di-sofferenza, in quanto quell’an-goscia è un correttivo che mette in luce quel-la lezione che non è possibile com-prendere con altri mezzi, e non può essere eliminata fino a quando quell’insegnamento non è stato com-preso, con-diviso, ascoltato, tras-mutato e tras-formato.Nella narrazione, che i soggetti fanno della loro storia-di-vita, il conflitto, la mancanza per i bisogni non riconosciuti, per il non rico-noscimento come persona, il senso di colpa, che sono alla base di molti sintomi, vengono espressi rendendo il significato più evidente e la sua interpretazione più esplicita. Sono que-ste narrazioni, che parlano delle gravi pres-sioni interiori che l’individuo ha dentro di sé. La stimolazione da parte del clinico della loro narranza, consente di soddisfare i bisogni e le fami (E. Berne, 1979) infantili che stanno alla base del sintomo su un piano diverso da quello reale e razionale, originando una mo-tivazione verso e per una vita soddisfacente

ed integrata. Ciò permette alla persona di far emergere le ansie e di dare significato ai fan-tasmi interiori, esteriorizzandoli in forme ac-cettabili, poiché quando del materiale incon-scio è in certa misura lasciato entrare nella coscienza e rielaborato nell’immaginazione, la sua potenziale dannosità è molto ridotta. La narrazione, l’in-contro, la pre-senza, l’ascolto empatico, il con-tatto ritengo siano l’attualizzazione di quel processo terapeutico grazie al quale il paziente trova le sue soluzio-ni, trova l’Altro accogliente e nutritivo, sco-pre per la prima volta quel luogo-di-apparte-nenza, quel territorio-autentico-di-in-contro. Così ha inizio la storia-di-una-nuova-vita. Il trasporre le vicende personali sul piano della narrazione consente infatti, di prendere di-stanza dai conflitti interiori e di oggettivarli, ma anche di affidarsi all’Altro. Il calare le proprie esperienze personali in una narrazio-ne permette di dare un particolare significato ad esse, poiché gli individui costruiscono gli eventi passati e le loro azioni in narranze per-sonali, con le quali definiscono le loro iden-tità e costruiscono la loro vita. La via che si propone, come processo terapeutico, è il per-corso che dal significato-del-sintomo condu-ce al significato-della-vita, e qui il clinico usa quella cassetta degli attrezzi (L. Wittgenstein, 1953) per la messa in opera del suo lavoro. Dal mio punto di vista gli elementi fondanti l’essere-terapeuta, il fare-terapia, l’aver-cura ed il curare, sono riassunti nei principi di epo-ché, vissuto, costituzione, empatia (L. Calvi, 1993, 1999), coscienza. Il terapeuta accompagna il paziente verso un luogo dove non si sente più solo, qualunque e dovunque sia questo luogo. In questo senso egli diventa il Daseinspartner (L. Binswan-ger, 1955), cioè si fa viandante, compagno di viaggio, lavorando con chi è prigioniero dell’assedio anancastico, con chi è fissato nel delirio, con chi è ghiacciato dalla malinco-nia e con chi è volatilizzato dalla mania per rimetterlo, in qualche modo, sulla strada, in cammino verso una casa comune. Non rinun-ciando, dove necessario, all’esercizio del-l’epochè condivisa lavora all’incrinarsi del delirio, dell’allucinazione, della ossessione,

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dalla melanconia. Il disancoraggio da realtà percepite come tremende e necessarie, con-sente, a poco a poco, di relativizzare ciò che appare, invece, cristallizzato come essere in-Se-per-Sé. Tornare al per-Me, attraverso il per-Noi. Dal tutto-solo-per-Me della centralizzazione psi-copatologica al questo-qui-ora-per-Noi della condivisione terapeutica. Muoversi, in questo modo, tra il ritardo e l’anticipo, sentirsi den-tro e sentirsi fuori, nella circolarità che dal-l’Io va verso l’Altro, incontrandolo come Tu e ritornando al Sè. In una sorta di triangolo in cui tutto diviene reciproco e si attualizza reci-procamente. Dal mio Io all’Altro, dall’Altro nuovamente a Me, all’interno di quel nucleo fondante il Noi. Il clinico è quell’essere umano capace di ac-compagnare il paziente verso un luogo dove, oltre a non sentirsi più solo, gli riesce di sentirsi accolto. Tenta di mettersi all’unisono con lui, dandogli una costante sensazione di apertura e di accoglienza, sospingendolo verso l’in-tersoggettività e al rapporto interpersonale, rendendo il suo fare-terapia un costrutto tras-form-a(t)tivo, tras-mut-a(t)tivo, attualizzante. Con-divisione, cambiamento, spostamento, atto trascendentale come atto metamorfico e anamorfico: è questo il mutamento che si attualizza dalla patologia alla vita-vissuta in maniera integra ed integrata. La terapia di-viene in questo modo un tragitto accogliente, un viaggio tras-formativo, un percorso tras-mutativo, all’interno di un andare avanti ed indietro, un andirivieni, per usare una parola assai cara a Merleau-Ponty, con un andamen-to allargato sempre a struttura circolare, mai lineare. Ed allora in questo luogo-di-tras-form-azione, in questo in-contro-ri-conosci-tivo, in questa danza relazionale Io-Tu-Noi, il sensus communis è l’elemento costitutivo della percezione della realtà e come tale è la vera colonna della vita mentale normale. Il comune è ciò che concatena gli uomini in una comunità. È ciò che produce l’indissolubile coesione degli uomini e, quindi, l’indistrutti-bilità del genere e dell’individuo. I confini della percezione della realtà inizia-no e sono tracciati dall’evidenza del sensus

communis da essi partono per giungere poi al sensus individuale di Sé. Ecco che, le sto-rie, che i pazienti portano al clinico, all’Altro, allo straniero, sono vasi per portare signifi-cato, sono il Santo Graal dell’Essere, ed esse compongono il mondo reale, il qui ed ora, la realtà che si può vivere, che si deve vivere, che è vivibile. Quella realtà che non è più invasa da un passato troppo ingombrante, perché il passato è stato ri-definito, ri-deci-so, ri-strutturato, ri-collocato nel lì ed allora, affinché non dilaghi nel presente impedendo il futuro. In questa alchimia di significati, in questa metamorfosi dell’Esserci, l’uomo, il paziente, ha la possibilità di costruire e ri-costruisce i propri mondi narrandoli, ed al tempo stesso scopre il narrare come ri-defini-zione dell’identità, ri-strutturazione di Sé, ma soprattutto si scopre vivo, vitale e visibile per ciò che lui realmente È.

Barbara fabbroniPsicologa Psicoterapeuta-SaggistaSpecialista in Psicoterapia Breve e [email protected]

Bibliografia

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NoRme ReDazioNaLi

come da esempio seguente:Berne E., (1961), Transactional Analysis in Psychoterapy, Grove Press, New York.Gli articoli di riviste vanno indicate come se-gue: Pisani M.L., Pagina bianca e blocchi psico-logici: Diagnosi... della leggibilità, in “Neop-siche, n° 5/85”.

Se esiste una traduzione italiana deve essere citata questa e deve essere citato prima della versione originale indicando comunque l’an-no di prima pubblicazione dell’edizione ori-ginale, per es.Berne E., (1961), Analisi transazionale e psi-coterapia, Astrolabio, Roma 1971

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Devono contenere, al fondo, Cognome Nome, professione, qualifica A.T. e indirizzo mail dell’autore.

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La bibliografia va indicata a fondo del lavoro

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