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Nescafè Frappé

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Mauro Corticelli, narrativa

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Mauro Corticelli

NESCAFÉ FRAPPÈ

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www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it

NESCAFÈ FRAPPÉ Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-433-8 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone e/o cose re-almente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

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A Marco pater frater

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Giovedì 24 Marzo 2005 Bologna ore 21.30 circa Il portone si stava chiudendo lentamente alle sue spalle; girò la testa e guardò l’angolo di marciapiede dove erano soliti baciarsi tutte le sere, tranne quella; il rum ore dei tacchi di Chiara venne interrotto dal click della serratura e il traffico tornò a coprire ogni cosa. Cesare salì sul vecchio Range Rover; i finestrini erano ancora appannati da due ore di parole inutili, così come tante volte lo erano stati per i lo-ro sospiri ansi mati. S cartò l’ ultima ca ramella all a menta, la sciata d a Chiara sul po rtaoggetti, e girò la chia ve senza aspettare che la finestra dell’appartamento al secondo piano si illuminasse. «Cosa c’entrava l’esempio della barba? Ma come cazzo mi è venuto in mente? Che stronzo! Che…» Inghiottì le parole in un lungo sospiro. Strinse forte il pomello del cam-bio, ingranò la prima e la tirò, pr ovocando un rumore di carro armato e una fumata nera dal tubo di scappamento arrugginito. Fu la vol ta della seconda e poi della terza, i n rapida successione; voleva scappare p iù in fretta possibile, via da lì, lontano dalle lacrime di Chiara. Le vecchie raccomandazioni di suo padre risuonarono nella testa: “Se capisci di avere solo idee confuse, evita di parlare e attendi il mo-mento giusto! Se non avrai pazienza, aspettando che le parole si metta-no in fila da sole, rischierai di dire solo cazzate, nelle quali alla fine non crederai neanche tu!” Accelerò, sperando che il rumore copr isse quelle parole che i timpani gli facevano vibrare nelle orecchie come se le udisse realmente. Superò il labirinto di sensi unici e corsie preferenziali per raggiun gere i v iali; corse veloce, per quanto possibile, cercando di incastrare il suo tr attore

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anglosassone tra i verdi e i rossi dei s emafori, per tornarsene a casa e cercare di dimenticare. Sul percorso, lo stesso di ogni sera, incontrò le solit e finestre illumina-te, i soliti graffiti sui muri, i soliti cartelloni pubbl icitari di bian cheria intima. Solo quando arrivò in piazza Malpighi trovò qualcosa di diver-so. Incuriosito, rallentò e attraversò la piazza passando davanti alla ba-silica di S. Francesco a pa sso d’uomo, fino a ferm arsi. Intorno al peri-metro del cortile camminavano m olte persone, probabilmente famiglie; si mise a osservarle, gli sembrarono le stesse famiglie che incontrava al supermercato il sabato mattina, con la li sta in mano e i carrelli pieni di spesa; a incrociarle, gli sembravano sempre un po’ tristi nella loro nor-malità. “Cazzo fanno in giro il giovedì sera, invece di stare davanti alla tv!” Prese il cellulare e aprì il calendario. «Che giorno è… è vero, domenica è Pasqua!» Si ricordò che era la sera del Giovedì Santo e le parole di suo p adre suonarono nuovamente nella testa: “Non abbandonare mai Dio; puoi anche essere un uomo mediocre ma la preghiera e la sua presenza ti miglioreranno!” Pensò a voce alta. «Già, Dio!» Rimase fermo in doppia fila e continuò a osservare le famiglie che en-travano e uscivano dalla basilica. Suo padre era legato a molte tradizioni cattoliche; visitare i sep olcri la sera del Gio vedì Santo era una di que lle. Cenavano in anticipo e per Cesare, soprattutto da ba mbino, l’ atmosfera era quella di una gita. Il primo sepolcro che visitavano era sem pre quello allestito in S . Stefano, quando ancora la basilica si poteva raggiungere in auto. Era il più sug-gestivo; entravano, sua madre accendeva una candela poi si spostavano nella cripta, dove rimanevano in pre ghiera davanti al sepolcro per qual-che minuto. Usciti, ripartivano verso la chiesa successiva, solitamente S. Giovanni in Monte, poi la Chiesa della Vita, S. Pietro, e così di se-guito fi no a quando Cesare, sfinito, si addorm entava in m acchina du-rante il primo tragitto utile. Oltre alle parole stavano tornando an che le immagini, sbiadite come un vecchio filmino Super 8. Osservò un gruppo di boy scout uscire dalla basilica. Ripensò a quelle serate; anche la loro era stata una famigli a normale, e a vederla da fuori poteva essere sembrata una famiglia triste. Ripartì lentamente; la fuga dal port one di via Em ilia e dalle parole di suo padre sem brava finita. Con le soli te manovre complicate parcheg-

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giò il Range Rover nel garage in a ffitto, cercando di incastrarlo senza rovinare ulteriormente la carrozzeria color caffè. Chiuse la porta a basculante e giocò c on le chiavi tra le dita, tenendo lo sguardo perso nel vuoto . Sentì il biso gno di fare una passeggiata, per distrarre la testa ed evitare di rigirarsi nel letto, ch iudendo gli occhi senza riuscire a dorm ire. Strinse le chiavi nel pugn o e infilò le mani nelle tasche del giubbotto, poi s’in camminò verso i portici di via Ugo Bassi. Ritrovò subito i sol iti volti delle notti bolognesi, sempre meno raccomandabili. Costeggiò il com une e la Sala Borsa; si mise a contare il num ero di nordafricani, sudameric ani, orientali e ragazzi di color e che aveva inc ontrato in neanche un chilometro di strada. Passeggiando per le strade di Londra e Parigi avrebbe osservato quei volti stupito e contento, sentendosi parte di un ’integrazione razziale apparentemente perfetta. Passeggiando per le strade di Bologna riusciva solo a sentirsi estraneo tra estranei e quei volti restavano stranieri, non parte integrante della sua città. Attraversò piazza Re Enzo e passò sotto al Nettuno verso piazza Mag-giore, diretto a S. Petronio, la chiesa dei bolognesi. Si fermò a guardar-la; quella facciata incompiuta e grezza assomigliava a un giudice troppo severo, e tant e volte gli aveva tolto il coraggio di entrare. Quella sera invece, avvolta dall’ illuminazione artificiale e dalla foschia, gli sembrò particolarmente bella, quasi invitante. Sulla scalinata erano sedute mol-te persone, alcune poco rassicuranti, altre solo poco decorose, tutte però fuori luogo per il suolo ch e stavano occupando. Le porte delle n avate laterali erano aperte e anche lì c’er a l’insolito m ovimento incont rato davanti alla basilica di S. Francesco. Cesare salì i gradini ed entrò senza pensarci troppo. La chiesa era buia e a fatica si riusciva a vedere l’altare maggiore; sembrava infinita, e nell’aria c’era un forte aroma di incenso. Solo un piccolo altare sulla sinist ra era illum inato; davanti erano state schierate due file di panche, sulle quali erano sedute alcune decine di persone raccolte in silenzio e in preghiera. Cesare si sen tì improvvisamente fuori luogo, proprio come le per sone sui gradini. P er non fare troppo r umore iniziò a camminare in punta di piedi; si avvicinò alle pan che e cercò il posto più lo ntano dove sedersi, come f aceva a scuola qu ando non era preparato per l’ interrogazione. Guardò le persone sedute e trovò nu ovamente quelle facce tristi, da su-permercato, che sembravano inseguirlo. “Perché sono qui queste persone? Cosa sono venute a fare? Chiedono o ringraziano?” Poi arrivò il momento di pensare a se stesso.

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“E io? Che cazzo ci faccio qui?” Provò un senso di insoffer enza e sentì il bisogn o di uscire, forse per il troppo incenso, forse per l’ imbarazzo. Si fer mò ancora qualche secon-do, poi non riuscì più a re sistere; si alzò e uscì con passo veloce, senza preoccuparsi di fare rumore. Ripercorse la strada al contrario. Sm ise di pensare, di rimescolar e vec-chie parole e i mmagini sbiadite e di contare volti stranieri. Arri vò ai portici vuoti di via S. Felice senza qua si ac corgersene. La tensio ne si era allentata, come dopo gli esam i all’università; n on vedeva l ’ora di mettere la testa sul cuscino, sperando di addormentarsi. Giovedì 21 Aprile 2005 Treno Torino-Lecce ore 9.30 circa I vagoni della seconda classe er ano pieni di pendola ri e studenti i n vi-aggio verso casa, per sfrutt are al meglio il ponte del 25 Aprile. Chiara stava leggendo un libro ma non riusciva a concentrarsi per i rumori e le voci intorno a lei. Sul sedile di fronte, Beatrice si era alzata il cappuccio della felpa e se ne st ava accovacciata, guardano la pioggia fuori dal fi-nestrino, immaginando che la cam pagna romagnola, per u no strano i n-cantesimo, si fosse trasformata nella brughiera dei Cotswolds. Di fianco a l oro si era seduto un uomo con la barba i ncolta, un maglio-ne di lana grezza e le mani rovinate da anni di lavoro in cantiere; stava cercando la posizione migliore per addormentarsi. Dopo aver provato a girarsi più volte sul sedile, si era tolto gli scarponi pi eni di fango met-tendo in mostra i calzini di lana, di cui uno bucato. Chiara e Beatrice si trovarono a fissare nello stesso istante i calzini e gli scarponi dell’uomo poi, alzando gli sguardi, s’ incontrarono. Chiara sor-rise, Beatrice non riuscì a trattenere una sm orfia di disgusto e poi una risata, che nascose coprendosi la bocca con le mani per non fare troppo rumore. Allungò la testa verso Chiara e bisbigliò: «Mamma mia! Per fortuna tra un po’ scendo!»

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Chiara si mosse sul sedile allontanandosi il più possibile dal suo vicino, poi portò una mano intorno alla bocca e parlò sottovoce: «Io invece ho paura che me lo porterò fino in Puglia!» Cercò qualcosa nella borsa e tirò fuor i due cara melle alla menta allun-gandone una a Beatrice. «Ci vorrebbe un intero campo di menta ma purtroppo ho solo queste.» Beatrice fece scendere il c appuccio dalla test a, sorrise e accettò la ca-ramella. «Grazie.» «Non c’è niente di m eglio di una caramella all a menta per schiar ire la gola e le idee. Speriamo serva anche per i piedi sudati!» Beatrice iniziò a ridere, co ntrollando sempre che i loro rumori non sve-gliassero l’uomo seduto vicino a loro, poi tornarono entra mbe a sedersi in silenzio per qualche minuto. Beatrice riprese a guardar e il paesaggio fuori dal finestrino voltandosi di tanto in tanto verso Chiara, osservandola mentre girava le pagine de l suo libro. Cercò di leggere il titolo sulla copertina senza riuscirci; si al-lungò nuovamente verso di lei. «Sei salita anche tu a Bologna?» Chiara sollevò gli occhi dal libro, guardandola. «Come?» «Scusa, non volevo disturbarti!» Chiara chiuse il libro e lo ripose nella borsa. «Mi sembrava di averti visto salire a Bologna…» «Sì, a Bologna. Abito lì.» «Dai! Anch’io!» Chiara non c ontinuò il di alogo. Beatrice tornò a osservare la pioggia che intanto si era tr asformata in te mporale, minaccioso sopra gli a lberi da frutto in piena fioritura. Si girò e incontrò lo sguardo di Chiara. «Come va?» Piegò la test a indicando gli scarponi dell’ uomo. Chiara rispose co n un’espressione soddisfatta. «Uhm… pensavo peggio. Forse le car amelle alla menta hanno funzio-nato.» Beatrice sorrise. Chiara aprì nuovamente la borsa, tirando fuori il cellulare. «Dove stai andando? Raggiungi qualcuno per il ponte?» Chiara rimase ferma e rispose con tinuando a controllare eventuali mes-saggi e chiamate perse. «Vado a casa, dai miei.»

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«Anche tu? I miei hanno una gelateria in riviera, io sono di Riccione.» Si fermò senza ricevere una risposta. «Questo week end riaprono; è una sp ecie di inizio anticipato della sta-gione e io vado a dargli una mano.» Chiara ripose il cellulare nella borsa; anche lei iniziò a guardare la pioggia fuori dal finestrino. «Mio padre è malato, scendo a trovarlo.» Beatrice avrebbe voluto ri chiudersi nel cappuccio d ella sua felpa , e s i lasciò sfuggire un’imprecazione in un sospiro. «Cazzo!» «Non sentirti in im barazzo per favore. Piuttosto, dimmi cosa fai a Bo-logna.» «Sono istruttrice in una palestra, vicino a via Mazzini.» «Veramente? Io abito da quelle parti, in via Emilia Levante.» La campagna stava per lasciare il posto al mare. Chiara si guardò le braccia e le gambe, poi riv olse nuovamente lo sguardo verso Beatrice. «Avrei bisogno di m uovermi, ma sono sem pre stata troppo pigra per iscrivermi in palestra.» Beatrice osservò la morbidezza del suo corpo, le braccia arrotondate, strette sul seno abbondante quasi a coprirlo per l’imbarazzo. «Perché quando torni a Bologna non mi chiami? Potresti fare un paio di lezioni. Probabilmente rie sco a farle pa ssare come prova, non ti faccio pagare l’iscrizione. Provi, magari ti piace, e riesci a vincere la pigrizia.» «Forse hai ragione, dovrei provare.» Beatrice cercò il portafogli nelle tasch e della tuta e ne tirò fuori un bi-glietto da visita che allungò a Chiara. «Sono di quelli fatti alla Coop, nelle macchinette automatiche. Però so-no comodi. Ci ho scritto sopra “istruttrice di fitness” giusto per fare fin-ta che fossero come quelli veri.» Chiara afferrò il biglietto. «Tu almeno sai cosa scrivere sopra a un biglietto da visita!» Beatrice allungò la mano. «Dimenticavo; io sono Beatrice, ma mi chiamano tutti Bea.» Chiara allungò la mano e rispose al saluto. «Piacere, io sono Chiara.» Il treno entrò a Rimini e Beatrice iniziò a prepararsi per scendere. Si al-zò e prese il borsone sportivo, poi si girò verso Chia ra che stava scri-vendo su un piccolo pezzo di carta.

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«Tieni, questo è il mio primo biglietto da visita. Un po’ artigianale, non trovi? Ci ho scritto sopra quello che vorrei diventare: cantante!» Bologna ore 21.00 circa I portici del centro erano pieni di persone che passeggiavano, si iniziava a sentire voglia d’estate. Anche se la notte era um ida per i tem porali durati t utto il giorno, i ra-gazzi e le r agazze si erano liberati definitivamente di lana e piume d’oca, come se infilando un paio di jeans e una felpa giugno sem brasse improvvisamente più vicino. Gli universitari, gli spacciatori e i punkab-bestia affollavano via Zamboni e i suoi p ub, mentre i locali di via Cla-vature avevano azzardato i tavolini al l’aperto per i ragazzi della Bolo-gna “bene”. Bologna esprim eva anche così le sue contraddizioni; da una parte le studentesse a lternative mettevano in mostra le loro pance scoper te e i loro piercing, e brindavano alla vita con pinte di birra; dall’altra le ele-ganti figlie di buona fam iglia saliv ano sugli sgabelli e allungavano le gambe scoperte, sorseggiando drink e sognando già Milano Marittima. Più in là, ver so la periferia, Cesare Gamberini uscì dalla palestra cam-minando verso il parcheggio. Non avev a asciugato i capelli, co me al solito, e sentiva freddo; arrivato al Range Rover infilò la borsa nel bau-le cercando la cuffia di lana tra il tr iangolo di segnalazione, i cavi per la batteria e il crick arrugginito. «Ehi! Campione!» Coach Giovanetti si avvicinò con la sua espressione d a professore, deli-neata da un paio di occhiali stretti sul viso arrotondat o, e la postura d a babbo natale, leggermente curvo sotto il peso degli oggetti che stava trasportando, la rete dei palloni sulle spalle, la borsa medica a tracolla e la lavagnetta per gli schemi in mano. «Mi racco mando d omani sera! Ci trovi amo alle otto a lla palestra del Pilastro. Cerca di non arri vare tardi come al solito; ci saranno anche il presidente e lo sponsor! Non farm i fa re brutta figura, altri menti quei due rompono i maroni a me. E ricordati che se domani perdiamo, siamo praticamente fuori dai play off e il prossimo anno il presidente…» Ogni allenatore che aveva conosciuto amava infarcir e i propri dis corsi con un reper torio di frasi, più o m eno classi che, da usare a seconda dell’occasione. Coach Giovanetti, stava per pronunciarne una delle sue, ma Cesare lo anticipò.

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«Sì, lo so. Il presidente prende i nostri cartellini e a ottobre li usa per accendere il camino.» «Ecco, bravo! Se invece si vince lo sponsor ci porterà in pizzeria, quin-di vietato defilarsi dopo la doccia; a certe cose ci tiene e bisogna accon-tentarlo perché i suoi euro ci serviranno anche il prossimo anno!» «E dove ci porta? Ancora alla Perla?» «Certo, perché? Cos’è, facciamo i difficili anche sulle pizze offerte?» «Dai coach! Non potremmo per una volta andare in un posto d ove si mangia decentemente, che ne so, al Mulino Bruciato magari, come fan-no tutte le squadre? Lo sai anche tu, quella pizzeria è un cesso, il pizza-iolo è pakistano, la pizza è sempre bruciata e soprattutto la birra è an-nacquata… se ti sembra un premio partita!» «Quante pippe! Proprio tu! Ricordati che hai un debi to morale verso il nostro sponsor. A quest’o ra senza di lui stavi ancora cercando lavoro. Non fare storie e cerca di andare a dormire presto!» Cesare chiuse lo sportello senza salu tare. Coach Giovanetti si allontanò mandandolo a quel paese con un gesto plateale del braccio, cercando di non far cadere il suo carico da babb o natale, che odorava di sud ore e polvere. Ogni volta che ripartiva da quel pa rcheggio, Cesare non riusciva a fare a meno di ripensare ai dieci anni di cam pionati importanti, alle partite del sabato sera nei palazzetti di prov incia della seri e C, davanti a cin-quecento persone paganti e persino a qualche giornalista della cro naca sportiva locale. Non era ancora riuscito ad abituarsi alla puzza degli spogliatoi delle pa-lestre di periferia, al cal care e alla muffa delle docce, e non si era anco-ra abituato a quelle sfide d a dopolavoristi del venerdì sera, giocate da-vanti a qualche fidanzata. Venti mesi prima, durante la visita medica d’idoneità, gli era stata riscontrata un’aritmia che lo aveva obbligato a tre mesi di st op. I successi vi esami evidenziarono che il battito del suo cuore non era migliorato; il campionato per lui era finito senza ne mme-no iniziare. Dopo nuovi controlli e accertamenti, con l’inizio della nuo-va stagione a gonistica, arrivò la decisione finale del professor Castelli, il cardiologo che lo aveva preso in cura; pallacanestr o sì, ma i mpegni da ridurre drastica mente. L’unica so luzione possibi le per contin uare a giocare era scendere di categoria, accontentarsi di un paio di allenamen-ti alla settimana e sottoporsi a cont rolli trimestrali con elettrocardio-gramma, cercando nel frattempo di resistere alla puzza, al calcare e alla muffa delle palestre di periferia.

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Lucera (FG) ore 21.30 circa Chiara si sen tiva stanca, tanto stanca da dimenticare quasi la tristezza. Dopo il viag gio in treno da Bologna, aveva rischiato di addormentarsi andando e t ornando da S an Giovanni Rotondo, su strade diritte che sembravano non p ortare a niente. Entrò e si guardò intorn o co me a-vrebbe fatto un’estranea. Ormai, per lei, quello era solo l ’appartamento dei suoi genitori, non più casa sua. Sarebbe andata diretta mente in ca-mera da letto, per sdraiarsi e cercare di dorm ire, ma provò un forte di-sagio. Prese il plaid di lana da sopra al divano, lo mise sulle spalle e u-scì sulla terr azza. Un vento dal pr ofumo estivo accarezzava l’ attico al settimo piano del palazzo. Quella sera Bologna sembrava dall’altra par-te del mondo, lontana come un sogno, mentre la realtà era lì, tra Lucera e San Giovanni Rotondo; suo padre era sdraiato su un letto d’ospedale e la madre piangeva, a fianco, accucci ata in silenzio su una fredda sedia di formica. Sul lastrico del terrazzo il vento aveva trasportato sporco e polvere ch e da giorni, forse settimane, nessuno si era preoccupato di spazzare via. Si affacciò sulla ringhiera. Lucera non le apparteneva più, e lei final-mente non apparteneva più a Lucera; o sservava la sua città da sopra al terrazzo come avrebbe gu ardato il wat er dopo esser si alzata; i stintiva-mente, avrebbe voluto tira re l’acqua dello sciacquone, per dim enticare in fretta che quello che stava guardando era stato parte di lei. Dall’alto del settimo piano i particol ari non si riuscivano a distinguere, e i difetti si confondevano, calmando, solo in par te, il fastidio. Si sporse un po ’ e guardò in strada; tornò a provare repulsione per tutto, per i marciapiedi distrutti, per i cani randagi, per i sacchetti della spazzatura abbandonati, per i vicoli i ngolfati di gente in auto che si salutav a suonando il clac-son; odiava le apparenze ricercate disperatamente, di una mediocre vita di provincia del Sud. Chiuse gli oc chi. Erano stati sufficien ti otto anni per sentirsi stran iera, era avvenuto in modo naturale, come perdere ogni inflessione dialettale e acquistare l a “S” morbida delle bolognesi. Aveva appena com piuto vent’anni quando era scesa per la prim a volta alla st azione centrale di Bologna; in tasca aveva i soldi per iscriversi all’università e trovare un appartamento in affitto. Francesco Iannone, suo padre, era uno degli avvocati più fam osi e ri-spettati della provincia di Foggia. Non sopportava l’idea di vederla can-tare ai matrimoni, buttando gli stud i del Liceo Classico e lascian do lo studio legale di fam iglia senza un er ede. Aveva decis o che anche l ei si

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sarebbe iscritta alla facoltà di Giurispru denza, a Bologna, proprio come aveva fatto lui all’ inizio degli anni se ssanta e, dopo qualche anno sa-rebbe entrata nello studio legale di fa miglia per iniziare il praticantato all’avvocatura. Si sbagliò, e si accorse presto del fallimento delle sue intenzioni. Chiara aveva lasciato gli studi e mese dopo mese aveva approfittato della lon-tananza del padre per scrivere can zoni e partecipare a p rovini. L’avvocato era salito inutilmente a Bologna per convincerla a riprende-re gli studi, ma era stato un tentativo inutile. Da quando si era ammala-to, Chiara si sentiva stranam ente vuota, co me uno di quegli ero i che perde definitivamente il proprio antagonista cattivo. A Bologna, quella sera, ci sarebbero state le prove per la serata di jazz del sabato, sul piccolo pa lco della Cantina. Gianni Mingarelli, i l suo manager, stava organizzato l’evento da settimane; ai tavoli si sarebbero sedute le persone giuste, quelle che le avrebbero offerto un contratto per incidere il suo prim o disco, d opo avere ascolt ato quelle canzoni scritte lontano dagli occhi di suo padre. Chiara aveva paura che su quel treno per Foggia, insiem e a lei, fosser o partite tutte le sue speranze e i suoi sogni. Aspettò ancora qualche secondo, poi riaprì gli occhi sopra Lucera. Cer-cò nel calore del plaid di lana un abbraccio ancora p iù stretto, ripensò per un attimo a Bologna, poi lasciò che la stanchezza vincesse il disagio e rientrò in casa. Bologna ore 22.00 circa Simona Mattioli uscì dal bagno e camminò verso il s alotto; suo marito Luca si era addormentato sul divano, davanti al televisore acceso su un documentario. Cercò il pacchetto delle sigarette nella borsetta e si di-resse in cucina; aprì la finestra, si appoggiò al vetro e iniziò a fumare. Davanti a lei c’erano le case popolari e più in là lo stadio del baseball; il destino l’aveva riportata lì, a due passi dalle gradinate dove, una notte d’estate, a sedici anni, perse la ve rginità con il ragazzo di quarta di cui si era innam orata. Lo avev a scritto an che sul diario della sua migliore amica “quando sarà voglio che sia con te” e così era stato. Le disse che conosceva un posto dove potevano restare soli, quella sera non c’era la partita e lui av eva scoperto un passaggio segreto per entra-

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re nello stadio. Sembrava un sogno che stava per realizzarsi, ma il gior-no dopo iniziò un incubo. “Pensavi veramente che ci saremmo messi insieme? Ma lo sai come ti chiamano a scuola? La scamorza!” Le servirono anni per uscire da que ll’incubo e dimenticare quelle paro-le, anni di lacrime, di solitudine e soprattutto di disordini alimentari, per cercare di dimagrire e non essere mai più chiamata “la scamorza”. Suo marito aveva comprato quell’appartamento prima che si conoscessero e lei non ebbe mai il coraggio di raccontargli il dramma di quegli anni, iniziato proprio allo stadio del baseball. Quello era il panorama che vedeva da sei anni, da quando si era sposa-ta, fumando l’ultim a sigaretta della giornata. Se solo Luca avesse ac-quistato l’appartamento dall’altra parte del pianerottol o, tutte quelle si-garette le avrebbe fumate guardando Bologna e, più in là, San Luca. Stava fumando, con lo sguardo perso nel niente; le macchie che avev a visto sugli slip, pochi m inuti prima in bagno, significavano che il ciclo stava arrivando. Lei e Luca stavano cercando di avere un bam bino da quasi due anni; non si erano ancora decisi a fare esami e analisi, in parte per pigrizia, in parte perché non avevan o voglia di una sentenza defini-tiva. Era stanca di sentire le amiche ripetere le solite in utili frasi frustrant i “…non preoccuparti Simona, vedrai che il bambino arriverà; non do-vete pensarci troppo, perché altrimenti vi bloccate…” intanto tutte le coppie della loro com pagnia avevano almeno un figlio, tranne loro che erano stati i primi a sposarsi. Quella sera era decisa a dimenticar e ogni consiglio inutile, ogni frustra-zione, ogni vecchio incubo. Per la prima volta, dopo m esi, quelle mac-chie sugli slip non erano state una delusione, quella sera si sentiva sol-levata; avreb be voluto ess ere aff acciata alla cucina dell’appartamento dall’altra parte del pianerottolo, e fumare guardando i tetti di Bologna. Aprì il frigorifero e prese una birra. Luca si alzò dal divano, con i ca-pelli spettinati e il viso stropicciato; entrò in cucina sbadigliando. «Mi sono addormentato. Cosa stavi facendo?» «Niente di particolare; vuoi qualcosa da bere anche tu?» «No, grazie. Ti rompe se mi lavo i denti e vado a dormire? Domani sera ho quella cena con il sinda co, e non vorrei arrivarci in queste cond izio-ni.» «Vai pure. Io guardo la T v, dieci minuti, il tempo di finire la birra, poi arrivo.»

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Luca stava per uscire dalla cucina ma tornò indietro, passandosi una mano tra i capelli. «Ehi, tutto bene? Hai una faccia str ana da qualche giorno. Non è che ti rompe se vado alla cena di domani?» Simona cercò e trovò un s orriso plausibile in m ezzo ai pensieri che a-veva in testa, lontani anni luce da quella cena. «Sto bene. Tutto a posto.» «Per caso la signora del piano terra ha fermato anche te?» «Per il parroco?» «Poveretto! Mi dispiace, era una br ava persona. Ultimamente l’avevo incrociato in posta. Mamma quanto era ingrassato, troppo! Sem bra sia stato un infarto.» «Dispiace anche a me.» Luca si allun gò per darle un bacio, poi si incamminò lentam ente verso il bagno. Simona prese la borsetta, depositò le sigarette e spe nse il cellulare. In Tv stavano passando i tito li di coda del documentario; iniziò a sal ire il mal di testa che acco mpagnava sempre il suo ciclo. Bevve un sorso di birra. Una domanda continuava a girare nel cervello e nel cuore: “Simo, cosa ti sta succedendo?!” Purtroppo la risposta era già pronta dentro di lei. Pireo (Atene) ore 23.00 locali circa Sola nella grande camera matrimoniale, Amalìa M ontella controllava che tutto il neces sario per preparare le valigie fosse pronto sul divanet-to. Nelle altre camere Fragiskos, il figlio di dieci anni, stava giocando con il Gameboy nascosto sotto alle coperte e Maria, la figlia di sedici, stava parlando con il fidanzato al telefono da quasi un’ora. Appoggiò sul letto la maglia che stava piegan do e si affacciò al lungo c orridoio; cercò un tono severo e credibile e si schiarì la voce prima di parlare. «Fragiskos! Spegni quel gioco opp ure domani non parte con n oi! E tu, Maria! È l’ora di chiudere quella telefonata e spegnere la luce!» Accostò l’orecchio alle porte in attesa di una risposta. «Dai Mamma! Io e Yannis non ci vedremo per quindici giorni…»

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«È una fortuna, te ne accorgerai. Ho detto di attaccare ades so; magar i papà ha bisogno di chiamarci e trova occupato.» «Ma papà non chiam a mai sul telefono di casa, ti cerca sempre sul cel-lulare!» Amalìa socchiuse la porta, senza entrare. «Non si sa mai. Tu pensa a chiudere la telefonata.» Maria attaccò la cornetta a lla bocca e in iziò a sussurr are per evitar e di essere sentita. «Pronto Yannis! Ci sei ancora…? Amore tieni il cellulare acceso, appe-na sono sicura che mamma sia andata a dorm ire ti richiamo! Baci! Ba-ci! Baci!» Riattaccò e riprese a parlare normalmente. «Mamma… ho fatto!» «Perfetto tesoro. Adesso a dormire.» Fece alcuni passi verso la camera di Fragiskos. «E tu, mi hai sentito?» Si avvicinò alla porta. «Spegni quel gioco, o fa una brutta fine!» Il ronzio che proveniva d a sotto alle coperte si interruppe immediata-mente. Tornò verso la camera matrimoniale. Aveva deciso di prendere due settimane di vacanza e raggiungere il ma-rito per festeggiare tutti insieme la Pasqua Ortodossa. Dimos Papadopu-los era un manager di una multinazionale nel settore agroalimentare; da due anni dirigeva la filiale sudafricana a Città del Capo. Era considerata una tappa obbligatoria, pri ma di inizia re la scalata a lla dirigenza della sede centrale di Atene. Nell’appartamento regnava un silenzio tanto irreale quanto finto; Ama-lìa sapeva che i due ragazzi non stavano ancora dor mendo ma approfit-tava della tranquillità apparente per concentrarsi sul le valigie. Orm ai erano pronte, rimanevano alcuni spazi vuoti per le a ggiunte dell’ultimo momento; un ennesimo jeans di Maria, i vi deogiochi di Fragiskos e un paio di quei libri com prati nella sal a d ’aspetto di qualche aerop orto e mai letti, rimasti per mesi a prendere polvere sul comodino. Si avvicinò allo scrittoio, aprì un cassetto e prese i tre biglietti della South African Airlines, poi ne aprì un altro e prese il lettore mp3. Prima di spegnere il cellulare e metterlo sotto carica cercò il nu mero di Simona nella rubrica e lo confermò; qualche secondo dopo un messag-gio in italiano le comunicava che il cellulare dell’amica era spento.

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“Il cliente da lei desiderato non è al momento raggiungibile, la pre-ghiamo di riprovare più tardi.” Guardò la fot o del m atrimonio sullo scrittoio e provò una grande rab-bia. Prese in mano la cornice, fissò il viso di Dimos e iniziò a stringer e forte, mentre le mani iniziarono a tremare sem pre di più. Riuscì a vin-cere la t entazione di scagli arla a terra e distruggerla solo per non spa-ventare i bambini. La rim ise a posto e sentì scendere la pri ma lacrima. Si voltò istintivamente per controlla re che la porta fosse chiusa. Sua madre Kri shanti era m orta da pochi m esi e aveva l asciato un grande vuoto nella sua vita. Durante la malattia le aveva preso spesso la mano, l’aveva guardata negli occhi e le aveva ricordato le stesse parole: “Il destino di una donna forte è quello di poter piangere solo quando è sicura che non ci sia nessuno che possa vederla”. Afferrò un foulard di seta di Her mes, che aveva pre parato per il viag-gio, e lo passò sugli occhi. Era un ricordo di sua m adre, uno dei più ca-ri, un regalo di una cliente inglese; nonostante gli anni e i tanti la vaggi sembrava nuovo, e i colori dei fiori erano così vi vidi da farli sembrare veri. Riccione ore 23.00 circa Beatrice Morri uscì dalla doccia e si sdraiò sul letto stremata. Nessuno aveva immaginato che per il ponte del 25 Aprile sarebbero arrivati tanti turisti. I suoi genitori erano rimasti in gelateria fino a tardi, propri o co-me in una qualunque sera d’estate. Si arrotolò l’asciugamano sui capel-li, si levò l ’accappatoio bagnato e si i nfilò tra le lenzuola pulite che la madre aveva preparato per il suo ritorno a casa. Viveva a Bologna, do ve si era laurea ta in scienze motorie. Da qualche anno, oltre al lavoro come istruttrice in palestra, era diventata arbitro di pallacanestro nelle serie minori. Era successo quasi per caso. Una sera, a casa di un amico di Rimini, stavano passando in rassegna le videocas-sette alla ricerca di qualcosa da guardare. Lei aveva estratto una video-cassetta, incuriosita dal titolo scritto a pennarello. “Fantastico Myers!”. “Oh! Cos’è sta roba?” L’amico ave va afferrato l a videocass etta con la fac cia contenta di chi aveva ritrovato qualcosa di prezioso.

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“Caspita! Questa è la cassetta di Carlton Myers. Ti ricordi il porta-bandiera italiano alle Olimpiadi di Sidney? Questa è la partita storica Rimini contro Udine quando ha realizzato il record! Ottantasette pun-ti!” Infilò la cassetta nel videoregistrat ore e iniziarono a guardare la par tita. Come capitava spesso a Beatrice, non riuscì a frenare il suo entusiasmo; rimase incantata davanti alle i mmagini di quel ragazzo che non si fer-mava mai, canestro dopo canestro. “Dì allora, non è incredibile?” Quasi non prestava attenzione alle parole dell’amico. Aveva già deciso; in qualche modo anche lei doveva entra re a far parte di quell o sport. Il giorno dopo cercò su internet, seguì una serie di link e arrivò al sito del-la Fip. Un banner pubblici zzava un cor so per diventare arbitro; n on ci pensò un momento e si iscrisse. Palestra o partite da arbitrare, quando i genitori avevano bisogno non esisteva impegno che la potesse fer mare; prendeva il primo treno e tor-nava a Riccione per dare una mano nella gelateria di famiglia. Chiuse gli occhi e pensò a Chiara, la ragazza conosciuta sul treno. Prese il biglietto da visita i mprovvisato, appoggiato sul com odino. Rilesse la parola “cantante” e sorrise. Le venne voglia di chiamarla, ma allungan-do la mano sul com odino per cercare il cellulare lo sguardo si ferm ò sulla radiosveglia, e vedendo l’ora si fermò. Adorava la freschezza del le lenzuola pulite sulla pelle nuda e il loro profumo di casa. Spense la luce e allungò le mani sotto le coperte, ma il rumore delle chiavi nella serratura della porta bli ndata rovinò i l sapore dei suoi pensieri. Erano tornati i genitori; decise che era meglio fare fin-ta di dormire, come quando era adolescente.

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Venerdì 22 Aprile 2005 Bologna ore 9.00 circa Simona lavo rava co me i mpiegata presso la Proxima, un’ azienda dell’hinterland bolognese con più di trecento dipendenti. Aveva saltato centinaia di pranzi e spes so era usc ita dall’ufficio insieme agli addetti dell’impresa delle pulizie ma, da centr alista, in nove anni era diventata segretaria dell’ingegner Franzoni, azionista di m aggioranza dell’azienda. Era appena tornata dal pi ano terreno dove aveva bevuto il primo caffè della giornata insieme alle colle ghe. Aprì la porta dell’ufficio dell’ingegnere per controllare che la scrivania fosse in ordine e lo fosse-ro anche i quotidiani che il portie re aveva portato qualche minuto pri-ma, co me ogni m attina; uno sopra l ’altro, in rigorosa successione, c’erano il Corriere della S era, il Sole 24 ore, il Resto del Carlino e Sta-dio. Dopo aver avviato il com puter, uscì e si diresse verso il suo ufficio; ar-rivata alla scrivania control lò il cellulare e trovò la busta del messaggio sul display. Amalìa Cell. “Ciao Simo troverai la mia chiamata di ieri sera. Scusa ho fatto tardi con le valigie. Sono all’aeroporto tra un’ora partiamo. KALO PASKA! Un bacio Amalìa P.S.: puoi mandare sms.” Simona appoggiò di nuovo il cellulare sulla scrivania. «Kalo Paska anche a te! C he voglia che avrei di parlarti, ma tu c ome potresti capire?» S. Giovanni Rotondo ore 9.10 circa Chiara aveva voglia di entrare in chies a per ac cendere una cand ela e fermarsi qualche minuto p er pregare Padre Pio, prima di raggiu ngere sua madre. Stava attraver sando il piazzale quando sentì il suono di un messaggio in arrivo. Alzò gli occhi e guardò le finestre dell’osp edale spaventata, poi sospirò cercando di farsi coraggio. Aprì la borsa cer-cando il cellulare, guardò il displa y ma non riuscì a riconoscere il nu-mero.

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“Ciao Chiara! Sono Bea, ti ricordi di me…? la ragazza del treno. Tutto OK in palestra, per la prova no problem! Mi raccomando kiamami… se non ci aiutiamo tra noi finte bolognesi? !” Chiara riuscì a sorridere, sorpresa per aver ricevuto quel messaggio; era sicura che Beatrice sarebbe stata una delle tante persone in transito nel-la sua vita senza fermarsi più di un’ora. Scartò una caramella alla menta e decise di n on farsi troppe domande; si l asciò coccolare dal pensiero che qualcuno si stesse interessando a l ei, poi provò subito un pi ccolo rimorso pensando a Gianni, im pegnato a fare il possibile per sistemare la sua vita o almeno darle un punto di partenza. Riccione ore 9.30 circa Beatrice amava alzarsi presto la mattina, soprattutto quando era a casa, a Riccione, c osì poteva andare sulla spiaggia e corre re. Aveva se mpre sognato di farlo insieme a un cane, ma i suoi genitori non avevano mai voluto saperne di tenerne uno, soprattutto sua madre. «Di’, te! Tenere un cane è un impegno! E mentre te sei a Bologna , chi ci deve pensare, eh?» Era solita partire da piazzale Alba, vicino a casa, e co rreva fino a piaz-zale D’Annunzio, attraversando il porto canale, poi risaliva verso viale Ceccarini per fare colazione al ba r dove passavano m olti suoi amici, quelli più cari, quelli che le mancavano durante l’inverno bolognese. Anche quella mattina percorse lo stesso tragitto; negli ultim i metri ral-lentò la corsa fino a camminare prima di arrivare al bar. «Ohi! Ve’ chi c’è… la bolognese… vieni qua che ti do un bacio!» «Ciao a tutti! Per il bacio passo dopo! Come state?» «Guarda qui che casino, sem bra ferr agosto! Ci sono perfino i tede-schi… dolcezza, una salata e un tè caldo come al solito?» «Sì, ti ringrazio! Vado a sedermi nel tavolino là davanti!» «Vai pure, che te li porto tra un attimo.» Si sentiva ac caldata ma p iacevolmente stanca per la corsa; mentre s i stava sedendo al tavoli no, sentì suonar e il cellulare per l ’arrivo di u n nuovo messaggio. Chiara Cell:

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“Ciao Bea non puoi immaginare il piacere che mi ha fatto il tuo sms. Per la palestra non ti prometto niente ma quando torno a Bologna ti chiamo sicuramente. Grazie Chiara.” Arrivò il barista con la sua colazione e Beatrice sorrise. Bologna ore 12.40 circa Cesare era seduto al tavolo della mensa insieme al suo collega di ufficio Antonio, con il quale condivideva la passione per l a Fortitudo, l e di-scussioni per i problemi di lavoro, qualche file porno e le cazzate dette in mensa durante l’ora di pranzo. Forchettata dopo forchettata, stava selezionando attentamente i pezzi di carne del rag ù, cercando di scartar e quelli più grassi. Antonio picchiò con il gomito sul suo braccio, facendo volare un pezzo di carne sui pan-taloni. «Cazzo Antonio stai attento! Guarda che casino hai fatto con il ragù!» Antonio tentò di attirare nuovamente la sua attenzione. «Cosa te ne frega dei pantaloni? Guarda chi c’è davanti ai piatti dei se-condi!» Cesare cercò di rimediare, pulendo con il tovagliolo ma, per togliere il pezzo di carne, ingrandì la macchia di unto. Dopo essersi lasci ato sfug-gire un im precazione gett ando il tova gliolo sul tavolo, alzò gli occhi verso le persone in fila. Antonio si lasciò sfuggire un altro colpo con il gomito. «Piantala con questo gomito, sei fastidioso!» «Oh! Hai visto che minigonna che ha la Simo oggi!» Cesare inquadrò Simona; guardò le sue gambe velate da un paio di cal-ze color carne ma provò i n ogni modo a darsi un’ari a indifferente con l’amico. «Dai Antonio! Sei pesante! Ancora con la Simo?» «Mi fai girare i maroni! Non è che sei gay?» «Li sai i casini che ho con Chiara, sto a pensare alla Simo, proprio a-desso!» Simona prese una bottiglietta d’acqua e iniziò a cercare un tavolo dove sedersi. «Eccola! Guarda! Sono sicuro che ti ha visto e adesso verrà a sedersi qui!»

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Cesare allontanò il piatto con i maccheroni al ragù rimasti. «Dai Cesare! Voglio dire… la vita continua!» Antonio si fe rmò rendendosi conto di aver pronunciato una gran de ba-nalità. «Io ti invidio ! Guardati! Sco mmetto che non hai ne anche bisogn o di pettinarti la mattina! Tu sei nato così. Le donne la mattina ti troverebbe-ro affascinante anche sentendoti scoreggiare! Io, quando mi sveglio, per essere decente mi ci vorrebbe un esorcism o! Se tu decidi di non f arti la barba le donne ti vedono selvaggio, se non me la faccio io, mi scambia-no per un albanese appena sbarcato. Prima di uscire ti metti una camicia slim che ti fa due spalle d a granatiere, io devo m ettere una polo d i una taglia in più per coprire le maniglie… che poi non ho mai inco ntrato una donna che le apprezzi, al massimo la cuoca potrebbe trovarmi affa-scinante. Per carità, è una cara signora, ma…» «Se sei pesan te! Sempre con ‘ste storie! Tutte quest e donne i ntorno le vedi solo tu! Piuttosto guarda chi è entrato adesso! Eh! Cosa m i dici di quella bestia del capo magazziniere. Gli ho sbagliato una consegna d i circuiti stampati dalla Cina ed è tutta mattina che mi cerca!» Antonio alzò lo sguardo. «Cazzo! Mi ha già visto! Sbrigati a finire di mangiare per favore!» «Vedi che sei gay! Non guardi quella gnocca della Sim o e invece guar-di quella bestia del capo magazziniere! Smettila di fare finta di niente! Sai benissimo cosa dicono tutte le su e colleghe! Te l’ho già ripetut o un sacco di volte. Quella ne vuole da te… ma tu sei gay!» Simona si stava avvicinando al loro tavolo. Cesare si alzò in piedi. «Io vado a sentire dalla cuoca se ha nno qualcosa da mettere su qu esta macchia. Più cerco di toglierla più aumenta!» Antonio lo trattenne afferrandogli un lembo della giacca. «Non fare il coglione! Vedi che sta venendo qui!» Cesare si staccò dalla presa con uno scatto. «Ciao ragazzi, posso sedermi qui con voi?» Alzò gli occhi dalla macchia di ragù e incrociò quelli di Simona, mentre Antonio stava guardando tutto di Simona, tranne gli occhi. Lei sorrise. «Posso?» Antonio si alzò in modo plateale, senza riuscire a guardare Sim ona più in su del collo. «Certo, come no! Prego! Stavo propri o dicendo a Cesare che speravo arrivasse qualche donna. Sai! Ci ve dono sempre mangiare noi due da

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soli. Non vorrei che qualcuno pensasse che siamo gay… di questi tempi poi, sembra diventata una moda!» Ancora prima che Simona riuscisse ad appoggiare il vassoio sul tavolo, Cesare aveva già depositato il suo sulla rastrelliera dei coperti sporchi e si era incamminato verso l’uscita dalla mensa. «Mi sa che non avesse voglia di pranzare con me!» «Nooo! Scherzi?! Anzi! È solo che ha visto il capo magazziniere, han-no avuto una discussione per un im port dalla Cina, e non aveva v oglia di discutere, tutto qui!» Bologna ore 16.30 circa L’appuntato Logozzo bussò alla porta e si affac ciò con la testa dentro all’ufficio senza aspettare una conferma, come da sua abitudine. «Comandi signor m aresciallo! Avrei q ui il fax inviato dalla segretaria del sindaco c on la lista de lle manifestazioni sportive organizzate nelle prossime settimane. Il sindaco vorrebbe che lo legges se prima della ce-na di stasera. La segretaria si raccomanda, parole precise…» L’appuntato Logozzo entrò completamente nell’ufficio e iniziò a legge-re. «Ricordi al signor m aresciallo quanto i l sindaco ten ga alle manifesta-zioni sportive, vero fiore all’occhiello del nostro Comune, occasioni in-dispensabili di aggregazione per la nos tra gioventù, sano principio di fratellanza…» «Fermati Logozzo per favore! Ho capito! Portami quel fax!» L’appuntato Logozzo si a vvicinò alla scrivania, allungò i f ogli nella mano tesa di Luca e si ritrasse accennando un saluto ufficiale del tutto superfluo. «Vediamo quante indispensabili occasi oni di aggregazione ci ha prepa-rato il nostro sindaco.» Luca iniziò a leggere l’elenco. «…torneo giovanile di calcio, torneo di calcio dei b ar… be’, questo è sempre uno degli eventi più a rischio di risse, poi cosa abbiamo ancora, campionato italiano di pat tinaggio artis tico, cam pionato femm inile di softball, finale di cricket. Capito Logozzo? Pure il cricket! Non ci fac-ciamo mancare proprio niente qui a S. Lazza ro. Ancora calcio, finale di basket, bla bla bla.»

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Luca gettò i fogli sulla scrivania. «Abbiamo la Camorra e l’Ndrangheta che si stanno i nfiltrando nelle a-ziende del nostro territorio e io dovrei i mpiegare i miei uomini nei ser-vizi d’ordine per le manie sportive di quel megalomane del sindaco!» L’appuntato Logozzo si fece avanti con l’ intento di attirare l’attenzione di Luca. «Se mi è permesso, signor maresciallo, considerato che lei è arrivato da poco nella nostra ca serma, vorrei ricordarle che il sindaco è stato ca m-pione italiano di atletica leggera!» «Logozzo, fammi il piacere, torna a fare quello che stavi facendo.» L’appuntato Logozzo fece nuovamente un passo indietro e salutò. Stava quasi per uscire dalla porta quando Luca lo fermò. «Logozzo, scusa. Di dove hai detto che sei?» «Di Lucera, signore.» «Nocera? Nocera inferiore?» «No signore, Lucera, con la L. È in Puglia, in pr ovincia di F oggia. Vabbè che siamo carabinieri, ma la giografia!» «Ecco, appunto L ogozzo. La geografi a, con la E. Un favore, q uando bussi fammi il piacere di aspettare la mia risposta prima di aprire la por-ta. Eh… dammi una soddisfazione ogni tanto.» L’appuntato Logozzo si ferm ò dir itto davanti alla porta e salutò nuo-vamente. «Signorsì signore! Mi dia solo il tempo di abituarmi al cambio di mare-sciallo!» La porta si chiuse. «…che paraculo!» Bologna ore 22.00 circa Cesare uscì per ultim o dal la palestra del Pilastro, con i capelli ancora bagnati, come al solito. S tringendosi nel giubbotto troppo leggero, si incamminò verso il Range Rover con il borsone in spalla e la testa bas-sa. «Complimenti! Grande partita!» Alzò lo sgua rdo e tro vò Simona appoggiata al por tellone del b aule. L’impermeabile corto cop riva appena l a m inigonna vista a pranzo i n mensa. Lei d iede un ultim o tiro alla sigaretta accesa tra le dita, poi la

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gettò in terra e lasciò uscir e lentamente il fumo dalle labbra, facendo in modo che quei gesti coprissero lo spazio lasciato vuoto dal silenz io di Cesare. «Sorpreso?» Cesare cercò di mostrare il contrario. «No, perché sorpreso? Non dirmi che abbiamo battuto un tuo amico.» Simona allungò il piede a schiacciare la sigaretta la cui punta era ancora rossa. «Questa sera era proprio impossibile vincere… c’era un giocatore trop-po forte nell’altra squadra!» Cesare appoggiò il borsone a terra. «Non dirmi che era quello con cui ho discusso nel p rimo tempo per la gomitata!» «No! Acqua!» «Chi è allora? Quello che giocava sotto canestro? Giocatore esperto.» «No! Acquissima! Non ho amici che giocano a basket!» Cesare si passò una mano tra i capelli. «Perché non li hai asciugati?» Non rispose. «Se ti fa sentire meglio, posso dirti che passavo di qui per caso, d’altronde è normale farsi una passeggiata di notte al Pilastro di tanto in tanto…» Allungò una mano cercando di afferrare la sua, ma Cesare la tolse. «…altrimenti, se vuoi la verità, ti dico che è stato Antonio a dirmi che stasera giocavi qui. Io abito a un paio di uscite di t angenziale e stasera l’alternativa era guardare la televisione. Così mi sono fatta coraggio e ho deciso di venire.» Cesare continuava a non guardarla negli occhi. «Prima o poi dovevo tr ovare l’ occasione di vederti. Le m ie coll eghe stanno sparlando un p o’ troppo, già da qualche mese. La nostra n on è un’azienda pi ccola ma le notizie girano in fretta. Cosa dici? Mi se m-brava carino dirti certe cose di persona.» Simona cercò di avvicinarsi. Cesare si ricordò nuovamente del consiglio principale di suo padre, co-sì, nell’insicurezza, preferì restare in silenzio. Afferrò il borsone e si fece avanti verso il portellone del baule, urtando quasi Simona. Lo aprì, buttò il borsone tra il triangolo di segnalazione, i cavi per la b atteria e il crick arrugginit o, e lo richiuse in fretta, senza cercare la cuffia di cui avr ebbe avuto bisogno per coprire i capelli ba-gnati. In quel momento sentì le labbra di Simona appoggiarsi sull a sua

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guancia, m orbidamente. Annusò l ’aria e ne rimase infastidito per l’odore di fumo sui vestiti e nell’alito di Simona; era ferma a pochi cen-timetri da lui in attesa di una reazione. Si girò verso di lei. «Scusa ma ho promesso che…» Non riuscì a f inire la frase. Le labbra di Simona si attaccarono alle sue, ancora morbidamente, poi però, appena le lingue s’in contrarono, il ba-cio si fece più intenso, quasi frenetico; un bacio il cui ritm o era gestito solo da lei. Cesare si staccò e il naso per dispetto andò a cerc are ancora quegli odori di fumo. «Scusami ma devo andare! Ho promesso che sarei uscito con la squadra e a quest’ora saranno già tutti in pizzeria.» Si girò senza dare a Simona neanche il tempo per una parola. Salì, chiu-se lo sportello e mise in moto. Il solito rumore di ferraglia arrugginita e nello specchietto retrovisore, oltre al fum o nero, Sim ona, s empre più lontana, immobile in mezzo al parcheggio. Città del Capo ore 23.15 (locali) circa Amalìa, Fragiskos e Maria si aff acciarono alla sala d’ aspetto degli arri-vi del Cape Town International con un’ora di ritardo. Dimos era lì ad aspettarli, pre muroso co me se mpre. I due ragazzi gli corsero incontro lasciando ad Amalìa il carrello c on le valigie. Qu ando li raggi unse, venne finalmente il suo tu rno per quel bacio che stava aspettando da settimane. «Ciao Amore! Dammi, ci penso io!» Dimos prima la baciò sulle labbra, poi afferrò il manico del carrello. «Com’è andato il viaggio?» Amalìa allungò un braccio intorno alla schiena del marito camminan-dogli a fianco. «Insomma! C’è stato maltempo durante l’ultim a ora di volo; abbiam o ballato un po’ e non siamo riusciti ad atterrare subi to, poi i solit i pro-blemi alla dogana per i lor o passaporti; a questo aggiungi che mi sento il sedere app iattito… l’importante però, è che ora si amo qui, tutt i in-sieme!» «La mia dolce Amalìa! Meriti un altro bacio!» Dimos appoggiò teneramente le labbra sulla sua fronte.

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«Come fai a biasimare gli agenti della dogana? Guarda Maria! Dal vivo sembra già una donna, m entre nella fo to del passaporto di due anni f a era ancora una bambina!» «Perché Frag iskos?! Prim a di partire ho dovuto com prargli dei jeans nuovi. È cresciuto di altri sette centimetri!» «Bene! Così diventerà un grande giocatore dell’Olympiacos!» Amalìa gli diede un piccolo colpo con il gomito. «Scordatelo, niente basket! Tuo fig lio è nato per nuotare e per fare l’ingegnere meccanico, ricordatelo!» Mentre i due ragazzi correvano verso i negozi dell’ aeroporto, Amalìa e Dimos continuavano a parlare e a stare vicini, fino a quando non si ac-corsero di essere rimasti soli. «Bambini… non allontanatevi!» «Tu li chiami ancora bambini? Ecco perché non ti ubbidiscono, non ca-piscono che ti stai rivolgendo a loro!» «No, caro! Il problem a è che sono testardi, propri o come il padre! Per questo non mi ascoltano!» «Bene, iniziamo con i complimenti!» Quando uscirono dall’aeroporto per raggiungere il fuoristrada nel par-cheggio, la pioggia scendeva ancora f orte. Erano dall’ altra parte del mondo, l’autunno era appena cominciato.

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Sabato 23 Aprile 2005 Sestola ore 11.30 circa Claudio lasciò partire l’ elastico della fionda e in un attimo l’ennesima lattina colpita volò a tre metri dal tronco. «Caspita Claudio, hai u na predispos izione naturale! Immagina se ci fosse stato un cinghiale!» Luca prese la fionda dalle mani dell’amico. «Che ne dici? Non ti sembra più romantica di una pistola?» «È strano sentirlo dire da un maresciallo dei Carabinieri!» Luca sistemò la fionda nella sua valigetta mentre Claudio si incamminò verso le lattine sparse sull’erba. «Perché? Noi carabinieri non andiam o mica in giro a sparare co me gli sceriffi.» Claudio ne raccolse una completamente accartocciata dall’impatto della sfera di acciaio e rimase a fissarla per alcuni secondi. «Veramente puoi ucciderci un cinghiale?» «Certo! Però devi colpirlo bene, altrimenti se riesce a caricarti devi sta-re attento che lui non uccida te!» Luca scoppiò in una risata. «Ti dirò di più! Mio nonno mi raccontava spesso di un gruppo di ragaz-zini che si era unito ai partigiani, qui da noi sull’Appennino. Durante le operazioni contro i tedeschi quei ragazzini usavano le fionde. Sem bra che uno di loro, a Sasso, ne abbia ucciso uno con una fionda di ventata leggendaria. Poi il ragazzino venne colp ito e pri ma di morire regalò la fionda a m io nonno che era il capitano della brigata. Quella fionda ce l’ho ancora io, a casa!» «Ma fammi i l piacere! Ragazzini con le fionde cont ro i tedeschi! Che cazzata!» «Dici?! Può darsi che sian o cazzate. Di tedeschi non so, m a con quella di cinghiali mio nonno ne ha uccisi! L’ho visto con i miei occhi.» «Cinghiali! Con una fionda! Mah!» Si incamminarono verso la villetta. «Hai qualche impegno per il Due Giugno?» «Che giorno è il Due Giugno?» «Come che giorno è? È la festa della Repubblica, non ti ricordi? Ne ab-biamo parlato anche l’ anno scorso. La sf ilata delle forze ar mate ai Fori Imperiali.»

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«Cosa vuoi che mi interessi della festa della Repubblica?!» Arrivarono a due sdraio aperte davan ti alla villetta. Claudio si sedette mentre Luca continuò a guardare il paesaggio intorno a loro. «Ti ho sempre invidiato per questa villetta!» Claudio chiuse gli occhi. «Quest’anno sarà il mio primo Due Giugno da m aresciallo. Ci sarà una grossa manifestazione delle forze armate in piazza Maggiore. Mi fareb-be piacere se venissi a vederla!» Claudio riaprì gli occhi. «Il Due Giugno, hai detto?» Luca sorrise rassegnato. «Cos’è, vuoi fare il pisolino?» Claudio chiuse di nuovo gli occhi. «Ci vengo, ci vengo… adesso me lo scrivo.» Si addormentò lasciando Luca solo, ad ammir are il paesaggio intorno a loro. Domenica 24 Aprile 2005 Lucera (FG) ore 13.15 circa Chiara era uscita in frett a dalla messa in cattedrale, subito dopo la be-nedizione, pe r evitare di d over sal utare troppe persone che avrebbero preteso spiegazioni. Era riuscita a parla re con il professore. Le preghie-re orm ai servivano a poco per suo pa dre. Forse rimaneva da pregare perché il dolore si facess e sentire meno possibile, perché il cancro al pancreas, a quello stadio, non dava scampo e lo avrebbe fatto soffrire come un cane. Per tornare a casa dalla cat tedrale doveva passare per forza dalla Villa; era certa che per il ponte del 25 Aprile avrebbe incontrato tutti, anche quelli che ormai si erano stabiliti al nord per studio o per lavoro. Mentre usciva dalla piazza quasi correndo, il cellulare iniziò a suonare. Si fermò accostandosi a un portone guardando il fondo del vicolo. «Pronto!»

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«Buongiorno!» Riconobbe subito la voce di Gianni. «Che piacere sentirti!» «Come stai?» «Insomma!» «E tuo padre?» «Meglio evitare l’argomento.» «È peggiorato?» «È pelle e ossa, fa impressione! Ieri sono riuscita a parlare con il pro-fessore…» Chiara prese un lungo respiro. «Gli resta poco, siamo alla fine. Mia madre vuole portarlo a casa.» La risposta uscì secca e cinica come se i suoi veri problemi fossero stati altri. Restarono in silenzio per qualche secondo; Chiara riprese a camminare con passo veloce rischiando di lasciare i tacchi e le caviglie sui ciottoli delle strade del centro. Gianni n on sapeva cosa rispondere e non riuscì ad aprire bocca. «Com’è andata la serata ieri?» «Ci sei mancata!» «Sei il peggior adulatore che conosca!» «È vero, e lo sai molto bene!» Chiara si fermò nuovamente per prendere fiato. «Vuoi sapere com’è andata la cena con Joe Albano e il suo staff?» «Ho già paura! Racconta!» «Ho preso in disparte Joe Albano, l’ho convinto ad ascoltare un paio di canzoni del tuo demo, così siamo andati all’impianto di amplificazione del locale…» «Non ci credo! Ti eri portato dietro il mio demo! Allora?» «Allora, non ha neanche voluto ascoltare “The flower”.» «“My own love” non gli è piaciuta, vero?! Lo sapevo!» «Tu dici?» Chiara piegò la testa all’indietro contro la pietra del muro alle sue spal-le. «Avresti dovuto vederlo! Ha chiamato due del suo tavolo e ci ha chie-sto di riascoltarla subito.» «Non posso crederci! Gli è piaciuta?» «Secondo me, dire che gli è piaciuta è poco.» «Vedi com’è il destino! Magari, se fossi stata lì a cantare dal vivo…»

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La voce di Chiara si spezzò, la gola si era im provvisamente chiusa. Si appoggiò su un gradino di un portone e abbassò la testa. «Ehi! Aspetta almeno che ti finisca di raccontare!» «Scusa! È so lo che non è giusto! Si sta vendicando di me con questa malattia! Ha deciso di comandare la mia vita fino alla fine!» «Vuoi calmarti per favore? Ho una sorpresa. Vuoi sapere qual è?» «Ti prego, dimmi!» Chiara alzò l a testa e si passò le dita tra i capelli per farli tornare a po-sto. «Devi sapere che nella sua scuderia, Joe ha inserito un quartetto di ra-gazzi di New York che vuole mandare in giro per l’Europa a farsi le os-sa. Un quartetto, capisci! Proprio quello che fa per te!» «Quindi?» «Quindi, dob biamo ancora definire le date, ma li manderà un paio di settimane a Bologna; abbiamo la Phonomax a disposizione per registra-re le tue canzoni. Incideremo il tuo disco!» Gianni spera va di riuscire a sentire l a felicità di Chiara e invece cap ì che stava piangendo. Non era riuscita a sopportare il peso delle em o-zioni e dei suoi stati d’an imo cont rastanti. Provò la strana sensazione che i suoi occhi si fossero divisi, come se uno stesse piangendo di dolo-re e l’altro di felicità. «Chiara?!» Aveva spostato il cellulare dall’ orecchio sentendo il bisogno di appog-giare il viso sul palmo aperto dell’altra mano. «Chiara?! Ci sei ancora?» Avvicinò nuovamente il cellulare all’or ecchio e pulì le lacri me intorno al naso. «Sì, scusami! Scusa!» «Scusa di cosa? Vai a cas a adesso; ti chia mo con più cal ma stasera o domani.» Chiara provò inutilmente a trattenere le lacrime. «Grazie, Gianni! Non so… non so proprio come farei senza di te!» Gianni avrebbe voluto sfruttare quelle parole, ma sentì che sarebbe sta-to ingiusto e chiuse la telefonata. Chiara si alzò dal gradino e iniziò a correre, pensando che fosse l’unico modo per scappare dagli occhi indiscreti dai quali si sentiva inseguita e ai quali avrebbe dovuto dare una spiegazione anche per quelle lacrime.

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Bologna ore 14.30 circa Simona era sola in cucina cercando di riem pire la lavastoviglie fino all’ultimo piatto per evitare di lavarne qualcuno a mano. Luca era in sa-la con i suoceri e i suoi genitori; stavano giocando a Bestia tra le botti-glie di limoncello e nocino. Simona incastrava piatti e bicchieri cercando di non pensare a Cesare, ma ormai era diventato un a fissazione. Si era convinta che avesse biso-gno di tempo, così come a lei ne era servito per decidere di affrontarlo. Si fermò in piedi davanti al lavello. “Se mai tradirò Luca, sarà con lui!” Ripensò al gi orno quando, arrivando pe r caso al distributore del c affè, aveva trovato Cesare e Antonio che stavano parlando a bassa voce. Non poteva dimenticare lo sguardo di Cesare ; era preoccupato, smarrito, gli occhi venati di rosso. Parlava quasi bi sbigliando e lei era riuscit a a sen-tire solo poche parole, però aveva capito; era successo qualcosa tra lui e la sua fidanzata, non si frequentavano più. In q uel preciso istante, im -provvisamente, lei si era sentita sleg ata dal suo matrim onio, le paure erano passat e, non le im portava più neanche della maternità, contava solo Cesare. Un nuovo e i mprovviso entusiasmo creato da poche paro-le, sufficienti a liberare il fiume delle sue emozioni, che erano diventate quasi incontenibili. Ferma nella sua cucina, aff acciata sull’odiato stadio del baseball, dove-va scegliere i l programma del lavaggio per i piatti sporchi, m a in realtà stava scegliendo cosa fare della sua vita. Ormai faceva fatica a nascon-dere la sua insofferenza per Luca; giorno d opo gior no sentiva c he si stava esaurendo la voglia di condivisio ne con lui; aveva smesso di par-lare del loro futuro, anche di cose semplici, come un week end al mare. Tutti i progetti erano proiettati su Cesare. Pensò che la soluzione a t utto era scr itta sul post-it che aveva in borsa, il post-it su c ui Antonio aveva trascritt o il numero di cellulare di Cesa-re. Spinse a memoria i pulsanti della lavastoviglie. “Non puoi chiamarlo adesso, non puoi, c’è troppa gente, troppa!” Si sfilò i guanti di lattice e camminò ver so l’ingresso; cercò di non far e rumore, prese la borsetta e la portò in cucina. Trovò il post-it nel p orta-fogli e lo appoggi ò sul tavolo; prese il cellulare in mano ma in quel momento Luca entrò. «Hai finito con i piatti? Vuoi una mano?» Si accorse del post-it e del cellulare. «Stavi chiamando qualcuno?»

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Simona riuscì a inventarsi una bugia plausibile e capì di riuscire a farlo con spontaneità. «Stavo provando a mandare un messaggio ad Amalìa.» «Amalìa? Ma non è andata in Sud Africa a trovare suo marito?» «Appunto! Mi ha lasciato i l numero di Dimos così siamo sicure che lei riceva i miei sms.» Luca rimase soddisfatto di quella spiegazione, e tornò in sala senza fare ulteriori domande. La paura frenò l’istinto e Simona si convinse che era meglio rimandare quella telefonata, dirottando veramente i suoi pensieri su Amalìa. Città del Capo ore 16.00 (locali) circa Amalìa er a s eduta sulla te rrazza della club house. Maria er a al bar e stava parlando con due ragazzi inglesi m olto più grandi di lei. La con-trollava da lontano, in parte preoccupata, in parte soddisfatta, sperando che i due ragazzi le avrebbero fatto dimenticare per un po’ il suo Yan -nis. Sotto di lei, al campo di allenamento, Dim os stava insegnando a Fragiskos come colpire la palla c on il driver, m antenendo fede a una promessa fatt a da mesi, c osciente che vivendo così lontani era facile confondersi; i mesi erano come giorni e viceversa. Per quanto quelle giornate passate tutti insiem e la facessero sentir e più serena, nel suo cuore i ntuiva che quell a non era la felicità. Comunque osservava con orgoglio la sua famiglia che aveva difeso gelosamente da ogni problema, proprio come avevano fatto i suoi genitori per m olti an-ni, come diceva sempre suo padre “con l’aiuto di Dio e tanti sacrifici”. Se la Direzione della Compagnia avesse richiamato finalmente Dimos a casa, ad Atene, le cose sarebbero state più semplici. Due anni non sem-bravano più un momento transitorio per incentivare una carriera, inizia-vano ad assomigliare a un esilio; l’ unico che non voleva ancora accor-gersene era proprio Dimos. Appoggiò la tazza del tè sul tavolo e sussurrò a se stessa: «Pazienza!» Ma gli occhi si stavano bagnando e istintivamente, ricordando la sag-gezza di sua madre, si g uardò intorno per controllare che nessuno la stesse osserv ando. Prese una piccola t rousse dei tr ucchi dalla borsa e aprì lo specchietto; ogn i volta che lo faceva doveva confrontarsi con il

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naso che aveva sem pre odiato per le su e dimensioni. Sistemò il fo ndo-tinta, poi infilò gli occhiali da sole. Alzò gli occhi e guardò la Table Mount ain di fronte a lei. Era cop erta da nuvole bi anche. Le ricordò il m onte Enos prima dell’arrivo di un temporale. Pensò alle lunghe spiagge, alle piante, agli alberi. A parte il disagio che provava attr aversando le b aracche delle To-wnship della periferia, Città del Ca po le trasmetteva qualcosa di fam i-gliare fino a farle trovare una forzata somiglianza con la sua Cefalonia. Avrebbe voluto dimenticare di essere dall’altra parte del mondo non per fare la turista insieme alla sua famiglia, ma per trovare un marito in esi-lio. Si lasciò scappare un sospiro, poi riprese in mano la tazza del tè. Lo sorseggiò ma il sapore era diventato amaro, tanto da rendere amari an-che tutti i pe nsieri, tanto da farle odi are Città del Capo, tanto da farle venire voglia di scappare via anche da Atene, che l e aveva dato ric-chezza e benessere, piacevoli e or mai indispensabili; ora però si stava riprendendo indietro tutto con gli interessi, portandol e via la sua felici-tà. Avrebbe voluto cambiare il tè e ritrovare il sapore di un Nescafé frappè. Bologna ore 17.45 circa Per tornare d al pranzo a casa di sua madre, Cesare si era fatto a ccom-pagnare in macchina dagli zii che abitavano a Casalecchio. Il gusto del lesso girava ancora nello sto maco, così si fece las ciare a Porta Lame e si incamminò verso casa, sperando che una passeggiata potesse aiutare la sua digesti one. Passò davanti al Pala zzo dello Sport; dall’ altra parte della strada un uomo stava armeggiando e litigando con un passeggino, piegato dentro al baule di una BMW station wagon nuova di concessio-naria, sulla quale erano già saliti una giovane donna con enormi occhia-li neri, e un ba mbino di un paio d’ anni già assicurato sull’apposito seg-giolino. L’uomo sembrò essere riuscito a chiudere il passeggino; si rial -zò goffamente dall’abisso dell’i nterminabile baule sbattendo la testa contro la carrozzeria. Si guardò intor no sorridendo, come a volere anti-cipare lo sguardo impertinente di qualche curioso e incrociò gli occhi di Cesare. Scattò un sorriso di circostanza e di i mbarazzo, poi gli sguardi continuarono, si misero a fuoco e si interrogarono. «Cesare! Cesare Gamberini… nooo… non ci credo!»

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Cesare riconobbe l ’uomo davanti alla BMW e i mprecò per non e ssersi fatto accompagnare fino a casa. “Merda! Claudio Parisini!” «Cesare! Cosa aspetti? Vieni qui!» Ormai era lì, si erano rico nosciuti, non poteva fare f inta di niente, do-veva attraversare la strada e andare a salutarlo. Era così incazzato che non si guardò intorno e rischiò di essere investito da uno scooter. Clau-dio Parisini era un suo vecchio com pagno di scuola. Dopo il liceo si e-rano rivisti s olo un paio di v olte al l’Università. Arrivato davanti alla BMW, Cesare allungò la mano tesa, ma Claudio, quasi ignorandola, lo abbracciò. «Ma come?! Non ci vediam o da secoli e tu vuoi str ingermi semplice-mente la mano!» Dopo aver picchiato più volte con la mano sulle sue spalle, Claudio si staccò. «Come stai Cesare, eh? Che piacere! Per fortuna che Bologna è abba-stanza piccola da riuscire a incrociare i vecchi amici di tanto in tanto!» Nel frattempo la gio vane donna, incuriosita, era scesa dalla macchina. Claudio prese Cesare per mano. «Vieni che ti presento mia moglie!» La giovane donna si alzò gli enormi occhiali neri sopra ai capelli. «Francesca, ti presento un carissimo compagno di scuola! Non lo vede-vo da anni… lui è Cesare!» Lei allungò freddamente la mano e accennò un timido sorriso. «Piacere, Francesca.» Cesare ricambiò la stretta di mano. «Piacere mio.» «Ah, ma non è finita! Lo vedi il marmocchio in macchina? Lui è Matti-a! Adesso non lo tiro giù dal seggiolino perché si st a addormentando, però ti assicuro che mi rende orgoglioso!» Claudio sorrise e passò in carr ellata con lo sguardo, prima la moglie e poi nuovamente il figlio. «E tu? Raccontami un po’, cosa fai di bello? Studiavi Economia, gioca-vi a basket…» «Be’, niente di particolarmente interes sante. Gioco ancora ma così, per divertimento, per mantenermi in forma.» Claudio si affrettò a passare una mano sulla sua pancia. «Caspita Francesca, hai visto che fisico ha il mio amico! È sempre stato il preferito di tutte le nostre compagne di classe! Mannaggia…» Poi passò la mano sul suo stomaco pronunciato.

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«Eh già, anche a me servirebbe fare un po ’ di sport! Ma dimmi, con il lavoro invece, come sei messo?» «Per un po’ mi sono mantenuto con il basket, poi un paio di an ni fa, tramite una conoscenza, ho trovato un posto in una ditta a S. Lazzaro.» «Raccontami! Che ditta è?» «Proxima, si chiama Proxima.» Claudio diede un nuovo colpo sulla spalla di Cesare. «Ma la conosco benissi mo! È quell’ azienda che costr uisce impianti in-dustriali, vero?» Cesare tentò di reprimere il desiderio di reagire. «Sì, esatto, proprio quella. Lavoro agli acquisti…» «Ma lo sai che è seguita dal mio studio legale?! Avrai certamente senti-to parlare dello studio associato Farini!» «Sì, mi pare. Ne ho sentito parlare. Ti hanno preso a fare pratica lì?» Lo sguardo di Claudio si caricò. «Pratica! Ma scherzi? Quattro anni fa ho superato l’ esame di sta to. È vero, facevo pratica da lo ro, ma appena sono diven tato avvocato mi hanno fatto l avorare nello studio a tem po pieno. La vera botta di culo però, l ’ho av uta l’an no scorso! Pensa che uno dei soci più anziani, l’avvocato Mazzuchelli… forse ne hai sentito parlare…» Cesare annuì con l o sguar do, non tanto perché conoscesse veramente l’avvocato Mazzuchelli quanto per risparmiarsi ulteriori spiegazioni. «…be’! Devi sapere che era vedovo da un paio d’anni e aveva pr eso a mano una stragnocca di ventotto… no, dico, lui ne aveva ses santano-ve…» Cesare cercò di m ostrare interesse poi si voltò verso la giovane donna, che si era tolta definitivamente gli enorm i occhiali neri, e dovette trat-tenere un sorriso nel vede re il s uo sguardo seccato nel risentire quella storia, probabilmente ascoltata decine di altre volte. «…a giugno dell’anno scorso sono partiti per la Giamaica, lui e la stra-gnocca, e un giorno hanno deciso di mettersi a sc opare sulla spiaggia alle due del pomeriggio! Con una co me quella, ti giur o, saremmo a ri-schio anche noi, non so se mi spiego!» Gli picchiettò con il dorso della mano sullo stomaco. Cesare non aveva capito molto e lui sembrò accorgersene. «Dai! Avrai letto sicura mente la stor ia sul Carlino, l’anno scorso. Ne hanno scritto per una settimana, per non parlare dei necrologi…» Cesare annuì nel disperat o tentativo di porre fine a quell’ incontro. Di quella storia non ne sapeva niente e Il Resto del Carlino lo sfogl iava

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appena, la copia om aggio in sala mensa, quando era libera; leggeva le pagine della cronaca sportiva, e spesso solo gli articoli sulla Fortitudo. «…insomma, per farla breve, gli altr i soci hanno rilevato le quote dal figlio, che dell’ufficio leg ale non ne voleva sapere, l’hann o liqu idato, hanno ridistribuito e m i hanno offerto il cinque per cento della socie-tà…» Il finale del racconto riuscì ad a ttirare l’attenzione di Cesare facendolo sprofondare nello sconforto, nella frustrazione e in un senso di profonda inferiorità. Qualcosa di simile gli succedeva anche ai te mpi del liceo quando, ai cambi di stagione, arrivava a scuola con le sue Lu mberjack, comprate dalla ma mma n el negozio sotto casa; entrava in classe, cer-cando di non dare troppo nell’occhio, e incontrava puntualmente Clau-dio Parisini con le sue Tim berland nuove. Ritrovò quello stato d’animo dopo tanti an ni; Claudio P arisini si era sposato con un surrogato bolo-gnese di Pari s Hilton, era socio di uno dei più famosi studi legali della città, guidava un transatlantico made in Germany ed era riuscito ad ave-re anche un figlio. Mentre Ces are sentiva lo sto maco fati care s empre d i più a digerire il lesso mangiato a pranzo, Claudio avev a iniziato a elencare gli ex com -pagni di classe rivisti per caso in gi ro per la città, facendo il resoconto delle rispettive professioni svolte e attività intraprese. Cesare guardò la testa di Mattia appoggiata al segg iolino poi guardò Francesca e provò una sensazione si mile all’ invidia. Immaginò Mattia attaccato al seno di Francesc a, anche se nes suna immagine materna sembrava essere familiare a quella donna, che intanto aveva nuovamen-te appoggiato gli enormi occhiali neri davanti agli occhi. L’immagine nella sua mente, improvvisamente cambiò; rim ase Mattia ma Francesca sfumò, trasformandosi in Chiara, così diversa da lei, nuda con i suoi seni grandi a disposizione del bambino. Chiuse gli occhi e gli riaprì di colpo cercando di dimenticare tutto. “Ci sono corpi che sembrano essere stati creati apposta per il sesso che però contengono donne che non ne sanno assolutamente godere!” Si accorse di essersi eccit ato e cercò di non guarda re più Francesca. Claudio, nel frattempo, aveva ter minato l’ elenco, soprattutto sem brò essersi accorto del suo sguardo disattento. «Cesare, hai sentito? No, dico, ti re ndi conto?! La Casagrandi è diven-tata architetto e lavora per la Cooperativa dei Costru ttori! Tu ti faresti mai progettare l’appartamento dalla Casagrandi?»

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Cesare non pensò a un appartamento ma a un processo e provò a imma-ginare chi potesse avere il coraggio di farsi difendere da Claudio Parisi-ni in tribunale. «Sai cosa ti dico Cesare, che io dalla Casagrandi non mi farei progettare neanche la casetta in legno degli attrezzi!» Francesca ap poggiò una mano sul braccio di Claudio attirandone l’attenzione. Lui alzò il polsino della camicia e guardò il Rolex. «È tardissimo! Scusa ma dobbiamo scappare; portiamo Mattia dai miei perché abbiam o un aperitivo con degli am ici. Sai, per il ponte siamo rimasti così in pochi a Bol ogna che è meglio ritrovarsi a fare un po’ di ballotta, altrimenti ci viene la depressione! Mi ha fatto veramente piace-re rivederti!» Cesare abbozzò un sorriso nato dalla soddisfazione che quell’ incontro stesse per finire. «Anche a me.» «Oh, aspetta! Tieni!» Infilò una mano all’interno della giacca «Questo è il mio biglietto da visita… hai per caso il tuo da lasciarmi?» Cesare guardò Claudio come se fosse un marziano, cercando di fargli capire che non tutti giravano con i biglietti da visita in tasca, la domeni-ca pomeriggio. «Aspetta un secondo.» Tastò ancora l’interno della giacca e qu esta volta all ungò a Cesar e una stilografica e un foglio di carta piegato. «Preferisci darmi il cellulare oppure il numero dell’ufficio?» Cesare avrebbe voluto tirargli un pugno, forte, sulla sua faccia tonda; la seconda tentazione fu quella di scriv ere un numero falso. Decise di non cedere a nessuna delle due, la pri ma per educazione, la seconda perché aveva c apito che se Clau dio avesse voluto scovarlo, avrebbe tr ovato comunque il modo di farlo. Appena restituito il foglio di carta, Claudio lo abbracciò di nuovo, ter-minando ancora con quegli odiosi colpi sulle spalle. «Ti chiamo presto, perché noi due abbiamo un sacco di cose da raccon-tarci!» Claudio e Francesca salir ono in m acchina, chiusero gli sportell i, e la BMW partì. Cesare si girò verso il Palazzo dello Sport e lo guardò co-me avrebbe fatto con un amico, asp ettando un gesto di solidarietà. Ab-bassò un po’ la testa e riprese a camminare verso casa.

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Mercoledì 27 Aprile 2005 Castel S. Pietro Terme ore 11.45 circa Beatrice stava tornando a Bologna dopo il ponte del 25 Aprile, che era stato inaspettatamente faticoso per l’incessante via vai di clienti in gela-teria. Era contenta per esser e riuscita a trovare un po’ di te mpo libero per il suo jogging e per incontr are gli am ici più cari al solito bar di Viale Ceccarini, e perché gli impegni incessanti non avevano permesso a sua madre il solito interrogatorio. “Allora Beatrice, quand’è che ci porti a casa un bel fidanzato bologne-se?” Si era sempre chiesta il perché di quelle fissazioni, pe r quanto legittime dal punto di vista di una madre. Non capiva perché, prim a di tutto, per forza un ragazzo bolognes e, “con il viaggio che si fanno”; poi perché, se avess e avuto un m oroso fisso, avrebbe dovuto per forza portarlo a casa come un fidanzato. Non dava importanza alle ufficializzazioni, che sentiva lontane, come il Medioevo. Guardò la metà del suo viso riflessa sul finestrino. «Bisognerebbe abolirla, la parola fidanzato!» Non era mai riuscita a trovare un m odo delicato per spiegare a su a ma-dre che di uo mini poteva averne quanti ne voleva; tut te le volte che n e aveva sentito la necessità, ne aveva portato a letto uno diverso. Sbirci ò intorno; sui s edili vicini a lei non c’ era nessuno. Appannò il finestrino con l’alito e diede un’altra occhiata; usò l’ indice come fosse una matita e disegnò un membro maschile come quelli graffitati sui muri dei bagni delle scuole e degli autogrill. Sorrise davanti alla sua opera d’arte. “Per carità! Cosa vuoi che capisca mia mamma! Lei probabilmente è stata a letto solo con papà!” Passò qualcuno nel corridoio e Beatrice si affrettò a cancellare. “E se dopo averlo sposato si fosse accorta che papà a letto non la fa-ceva godere?” Per Beatrice gli uomini erano tutti ugua li e aveva sempre sostenuto che fossero interessati solo alla propria eiaculazione. “Ah… una bella spruzzata, poi di corsa verso il bagno per lavarsi, op-pure ‘cara mi sento stanco’ …si girano dall’altra parte e dormono! Mica che uno sia obbligato a chiacchierare e a raccontarmi la sua vita

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dopo aver scopato, vorrei però che facesse finire la scopata anche a me.” Gli uom ini sarebbero dovuti essere donna almeno per una notte , una specie di servizio militare per imparare a fare sesso. “Con i loro cazzi dei quali sono così orgogliosi!” Appannò nu ovamente il finestrino, stava per creare una nuova opera d’arte quando passò un signore distint o, in giacca, cravatta, i mpermea-bile e ventiquattrore. La guardò e sorrise, con un saluto apparentemente educato, poi proseguì verso la prima classe. «Bavoso!» “Vogliono abusare del nostro corpo e non si sforzano di imparare a usare qualcos’altro per arrivare dove non arrivano con i loro cazzi.” Disegnò un nuovo m embro maschile ma l’appannamento sopra al fine-strino era ormai svanito. “Si sforzassero almeno di capire anche le nostre fantasie e le nostre esigenze! Tanto è inutile! Solo una donna, può capire cosa serve a una donna per godere veramente!” Si guardò nuovamente intorno perché aveva paura di aver pensato a vo-ce alta. Allungò il collo tra i sedili. C ’era poca gente sul treno, vicino a lei era seduto solo un raga zzo che ar meggiava con il cellulare; per for-tuna non sembrava interessato ai suoi monologhi. Tastò e frugò nelle tasch e del giubbot to di jeans alla ricerca del suo. Sfogliò la rubrica: …A …B …C! Si fermò sul numero di Chiara. “Chissà se sta tornando anche lei.” Fermò il dito prima di premere il tasto di invio chiamata; non aveva mai dato troppa importanza alle convenzioni nei rapporti tra le persone. «Ma sì, chissenefrega. Io la chiamo.» Lucera ore 12.00 circa Chiara appoggiò le borse della spesa sul tavolo, le svuotò e divi se il contenuto tra il frigorifero e la dispensa. Aprì il sacchetto del forno e addentò un tarallo. Quando era a Bologna le capitava spesso di fare una classifica delle poche cose che le mancavano di Lucera; al pri mo posto metteva sempre i taralli con i semi di finocchio mentre i bocconci ni di mozzarella occupavano il secondo. Prese un altro tar allo e la classifica le tornò in mente.

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“…la focaccia con l’origano… pane e pomodoro… il sugo di carne… le chiosere… possibile? Sempre solo cose da mangiare!” Prese il terzo tarallo e lo mise in bocca, quando il cellulare iniziò a suo-nare; cercò di masticare e deglutire nel minor tempo possibile poi si af-frettò a risponde. «Pronto!» «Scusa! Stai mangiando? Se ti disturbo chiamo più tardi.» Chiara non riconobbe subi to la voce; staccò per un secondo il cellular e dall’orecchio per deglutire il boccone tutto in una volta senza farsi sen-tire, poi guardò il display e lesse il numero di Beatrice. «Ehi, ciao! Come va?» Le uscì un insolito accento pugliese come se i taralli l’avessero riportata veramente a casa. «Scusa, sai. Mi stavo sof focando con un aperiti vo im provvisato; da queste parti non si usa la parola pranzo prima delle due. Come stai?» «Io bene! Sto tornando a Bologna. Tu piuttosto?» «Insomma. Per certe cose va un po ’ meglio, altri problem i purtroppo sembrano non avere una soluzione.» Beatrice azzardò una frase di circostanza poco fortunata. «Figurati! Dai, che c’è una soluzione per ogni cosa.» «Be’, per mio padre credo non ci sia proprio.» Beatrice rimase in silenzio. «Sta male, ha un tumore, non curabile.» Beatrice non aveva mai vissuto prob lemi di salute gravi in fa miglia. Nonno e non na paterni se n’erano andati quando lei era piccola. Le a-vevano sempre fatto cr edere che erano morti di ve cchiaia, e lei si era fatta bastare quella spiegazione. Non sapeva come continuare la telefo-nata. Mimò un’imprecazione con le labbra. «Non starai mica dicendo una parolaccia come sul treno?» Ruotò la testa in aria sperando di scomparire in quello stesso momento. «Ehi, non preoccuparti. Te l’ho già detto, non devi sentirti in imbaraz-zo. Non pote vi saperlo, anzi, ho biso gno di persone co me te intorno, che mi facciano sentire meglio.» Beatrice ricaricò il suo entusiasmo. «Le tue canzoni come vanno?» «Come, scusa?» «Non ricordi? Il tuo biglietto da vi sita, quello dove hai scritto cantan-te!» Chiara riuscì a sorridere per la seconda volta in quei giorni, sempre per merito di Beatrice.

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«Quelle molto meglio. Anzi, ho ricevuto una notizia meravigliosa pro-prio ieri.» «Dimmi! Che notizia?» «Sembra che il mio agente abbia trovato un pro duttore interessato a pubblicarle. È un am ericano, be’, un it alo-americano per la precisione; si chiama Joe Albano ed è un pezzo grosso del Jazz.» «Non mi dirai che adesso te ne vai in America vero?!» «America?! Figurati! Prima ci sono da registrare le canzoni. Arriveran-no quattro musicisti da New York, poi si vedrà. Intanto incidiam o il di-sco, poi sarà già un successo riuscire a pubblicarlo qui in Italia, anche se da noi il Jazz non lo ascolta nessuno.» «Hai detto quattro musicisti…? Uomini?» «Sì! Da quello che ho capito, pure giovani.» «Splendido! Quattro giovanotti americani! Quand’è che me li fai cono-scere?» Il treno arrivò all’ultimo labirinto di scambi prima di entrare in Stazione Centrale. Be atrice se ne ac corse per i continui ca mbi di direzione del vagone, ognuno dei quali la faceva ri mbalzare da un lato all’ altro del sedile. Non avrebbe voluto chiudere la telefonata ma doveva raccoglie-re le sue cose e prepararsi per scendere. «Chiara scusa! Devo salutarti, il treno è arrivato in stazione. C’è sempre una stazione a interrompere le nostre chiacchiere!» «Eh già. Meglio non parlare di stazioni.» Chiara sospirò. «Senti, tra qualche giorno me ne torno pure io. Ti chiamo, così andiamo a berci qualcosa e parliamo un po’ della tua palestra.» «Non vedo l ’ora! Oh… non so cosa si dica in questi casi… auguri, in bocca al lupo. Per tuo padre intendo.» «Non diciamo niente! Co munque grazie , mi ha fatto veram ente bene sentirti. A presto!»

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Giovedì 28 Aprile 2005 Città del Capo ore 14.30 (locali) circa Amalìa prese la Nikon e scattò una fo tografia che la fece sorridere. In-torno al grande cartello “Cape of Goo d Hope” un intero pullm an di pensionati giapponesi era in posa per la foto di rito davanti all’au tista, improvvisato fotografo, intimidito dalla responsabilità. Dimos e i ragazzi avevano già attaccato la scalinata che portava al faro e non sembravano intenzionati a rallentare e fermarsi per aspettarla. Arrivati in cima, il vento proveniente dall’oceano era freddo e fastidio-so ma la vista, dai muraglioni s opra le scogliere, toglieva il fiato; l’entusiasmo impiegò pochi secondi a scaldarli e a far di menticare il vento freddo. Fragiskos e Maria si litig avano il binocolo e la telecame-ra. Amalìa avrebbe voluto richiamarli con il solito “bambini” poi ci ri-pensò e ne approfittò per avvicinarsi a Dimos; si era fermato, incantato anche lui co me un bam bino, davanti alle onde dell’Oceano Atlantico e dell’Oceano Indiano che si incontravano come in un bacio pieno di pas-sione, quasi violento. Amalìa infilò un braccio s otto a quello del m arito e appoggiò la testa sulla sua spalla. Dimos si staccò dallo spettacolo davanti a lui e incrociò il suo sguardo, le sorrise e le prese la mano. Riuscivano finalm ente a condividere un momento di intim ità. Amalìa non av rebbe voluto rovi-nare quei momenti di silenziosa complicità davanti a quel mare infinito, però sentì il bisogno di novità, positive. «Allora, ti hanno chiamato quelli di Atene?» «Certo, li sento regolarmente, almeno un paio di volte al giorno.» «Non fare lo spiritoso, non è il caso! Sai cosa intendo.» Dimos rimase in silenzio per qualche secondo. «Ci vorrà ancora un po’ di pazienza.» Amalìa sollevò la testa dalla spalla del marito. «Cosa significa ancora un po’ di pazienza? Ti hanno chiesto di rimane-re ancora? Cosa aspettavi a dirmelo?» «Volevo parlartene con un po’ di calma quando saremmo stati soli.» Tolse anche il braccio da sotto il suo. «Forza, adesso siamo soli. Quanto te mpo Dimos? Quanta pazienza mi chiedi ancora?»

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«La filiale sta avendo successi insperati. Il mercato del Sudafrica ha un potenziale incredibile; se riusciamo ad aggredirlo adesso, potremo esse-re leader per un sacco di anni.» «Queste cose le ho sentite già troppe volte! Quanto Dimos?» «Fino alla fine dell’anno.» «Stai scher zando vero?! Si era detto al massi mo Gi ugno, adesso im -provvisamente servono altri otto m esi? Per cosa Dimos? Per guad agna-re altri soldi? Non è dei so ldi che abbiamo bisogno adesso, di quelli ne abbiamo già a sufficienza per sistemare Maria, Fragiskos e anche i loro figli! Hanno bisogno della tua presenza a casa, di vederti la sera e par-larti dei loro problemi. L’hai detto anche tu un sacco di volte, no n sono più dei bambini piccoli che prendi e sposti a piacimento!» «Accidenti Amalìa, sono solo o tto mesi, poi sarà pronta la mia poltrona ad Atene!» «Ma che razza di poltrona ti serve? Ti rendi conto?! Quest’estate io do-vrò occuparmi anche di mio padre e degli studios!» «Perché non hai convinto tuo padre a venderli!» Amalìa sentì salire nuovamente le lacrime. Si strinse il viso nel fo ulard di Hermes di sua madre. Fragiskos co rse verso di lo ro piangendo, con l’espressione da bambino che mostrava sempre più raramente. «Mamma! Maria non vuole darmi il binocolo!» Trattenne il foulard sul viso ancora qualche secondo. “…ricordati, solo quando sei sicura che nessuno possa vederti!” Trovò a fatica il sorriso d i cui aveva b isogno. Lasciò Di mos dav anti all’oceano in tem pesta, prese Fragis kos per mano e si inginocchiò ad asciugargli le lacrime, dimenticandosi le sue. Bologna ore 21.30 circa Da qualche giorno la pioggia era una presenza costante; l’inverno stava disturbando la primavera con un colp o di coda inatteso e inopportuno, perché la lana e le piume d’oca stavano già soggiornando in qualche la-vasecco. La Fortitudo era stata eliminata dall’Eurolega e quella sera era saltato anche l’allenamento, perché la palestra era chiusa per un guasto, forse definitivo, alle tubature dell’acqua. Per Cesare si prospettava un insolito giovedì sera di relax. Dopo la doc-cia uscì dal b agno e andò in camera da letto; infilò un boxer m orbido,

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una t-shirt e la prima tuta che trovò nell’armadio. Da sopra il comodino prese un giallo di Loriano Macchiavelli, infilò le pantofole e passò nella zona giorno; prese una Beck’s dal frigo e andò a sdraiarsi sul divano. Era passato q uasi un m ese dall’ultima volta che avevo sentito Chiara; poche parole, solo brutte n otizie; non aveva saputo più niente, né d i lei né di suo padre. “Cazzo! Un tumore al pancreas è quasi una sentenza!” L’esperienza lo aveva convinto che quando due persone si lasciano, tut-to il contorno reciproco di amici e parenti lentamente muore. Progressi-vamente si perdevano i contatti, le notizi e; se non ci f ossero state le fo-tografie, si sarebbero dimenticati anche i visi. “Cazzo! Ma suo padre sta morendo veramente!” Pensò a Francesco Iannone, alle sue pr ediche durante i pranzi della do-menica, alle sue reazioni plateali, alla sua continua ricerca di inutili pu-nizioni esemplari per le insubordinazion i della figl ia. Però tornarono in mente anche le sue storie affascinanti e i suoi aneddoti raccontati a pas-seggio per la Villa, con la voce im postata da narrat ore, parlando degli anni vissuti a Bologna c he da quei racconti sem brava un’ altra città, quasi un posto da fiaba moderna, con la sua bella vita e la sua sq uadra di calcio che era ancora “lo squadrone che tremare il mondo fa”. In ogni caso era difficile di menticare Francesco Iannone, così co me e-rano difficili da dimenticare cinque anni trascorsi insieme a Chiara. Du-rante i prim i giorni gli era se mbrato di esser e tornato a respira re, il mondo sembrava pieno di novità em ozionanti e grandi occasioni senti-mentali; dopo qualche set timana l’entusiasmo era passato, le nar ici e i polmoni erano tornati a str ingersi, e quello stesso mondo che si era tro-vato di fronte non sembrava più così interessante. “Non si sta insieme a una persona cinque anni per sbaglio; ma se non te la senti di fare il passo successivo vuol dire che qualcosa manca, qualcosa di importante.” Il passo successivo si sarebbe chiama to convivenza. Gli tornarono in mente alcune parole di Sim ona, de tte in mensa tra colleghi, una delle tante volte che il gruppo di impiegati era finito a parlare di sesso. «Voi uomini siete sempre i soliti egoisti, poveri illusi! Volete che le vo-stre donne siano delle gran porche a letto con v oi poi, però, si tr asfor-mino in suore appena mettono il naso fuori di casa!» Cesare tornò a sentirsi ecci tato e ripensò all’ immagine di Chiara, nuda, morbida, con i suoi seni grandi m entre allattava Mattia, il figlio di Claudio.

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Lasciò il libro e la birra diventata ormai calda, si alzò dal divano e prese il cellulare, digitando i l numero c on le dita che tremavano per l’emozione. Lucera ore 22.00 circa Chiara era sdraiata sul letto e sfog liava una rivista d i moda e pettego-lezzi che sua madre aveva portato a casa dall’ ospedale. Suonò il c ellu-lare e sul display com parve il nome più inaspettato della rubrica. Sentì il cuore accelerare i battiti e rispose senza preoccuparsi di nascondere la sorpresa e l’emozione. «Ehi! Pronto!» Quel tono e quella risposta erano per Cesar e la co nferma che Chiara aveva voglia e piacere di sentirlo. «Come Stai?» «Non c’è male!» «Francesco?» «Male.» «Hanno confermato tutto?» «Sì, adesso è di là in camera sua. Mia madre si è messa in testa di ripor-tarlo a casa e non c’è stato verso di dissuaderla. Mi fa una pena vederlo così indifeso, non sono abituata!» «Avete parlato un po’?» «La settimana scorsa. Era ancora in osp edale è mi ha chiesto s e non ci avessi ripensato.» «Allora non è così indifeso.» «Negli ultimi giorni la situazione è cambiata molto. Non mangia quasi più niente, è dim agrito a vista d’occhi o. Ha preteso di parlare perso-nalmente con il professore prim a che l o dim ettessero. Sem bra gli ri-manga poco; forse un mese.» «Cazzo… scusa! E tua madre?» «Piange! Piange sempre, in continuazione. Ha sorriso solo ieri, per po-chi secondi, quando le ho detto che ci sono speranze che il mio disco venga pubblicato…» «Il tuo disco… e non mi dici niente?! Perché non mi hai chiamato?» «Pensavo non ti interessasse! Poi…» Chiara si fermò.

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«Stai scherzando?! Una notizia come questa!» «Tra qualche giorno t orno a Bologna. Hai voglia di venire a prendere un caffè? Così ti racconto tutto.» Cesare provò un piacere insolito per quell’invito, quasi fosse la promes-sa di un primo appuntamento. «Sei sicura?» «Sicura di cosa?» «Niente, fai come se non abbia parlato. Contaci. Ti chiamo, così ci met-tiamo d’accordo.» Non ci furono né retorica né im barazzo; Chiara e Ce sare si s alutarono scambiandosi la buonanott e come centinaia di altre sere, proprio co me sul solito angolo di marciapiede in via Emilia Levante. Sabato 30 Aprile 2005 Bologna ore 8.30 Cesare si svegliò di colpo. La vescica tirava forte per le birre del vener-dì notte, mentre le lenzuola, il pigiam a e la stanza odoravano di tu tte le notti della settimana. Andò in bagno poi tornò in camera e aprì gli scu-ri; la stanza prese colore mentre i suoi occhi faceva no fatica a st are a-perti. All’esterno, nei due metri quadrati di balcone mescolati alle tego-le dei tetti, c’era lo spazio per qualche vaso di coccio e un armadietto in pvc per le scope. Gli sportelli non si chiudevano mai completamente, al contrario di quanto aveva promesso la pubblicità del Brico trovato nella buchetta; nelle notti di vento sbattevano in modo insopportabile. Cesare ne spalancò uno facendo spuntare l’aspirapolvere; l’inconsueta giornata di sole gli scaldava il viso. “No, non ne vale la pena.” Richiuse lo sportello senza pensarci un attim o; stirò la schiena con un movimento circolare delle braccia poi tornò in casa cercando di rag-giungere velocem ente il bagno perché la vesci ca era diventata i ncon-trollabile.

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Il sabato mattina era l’occasione per fare colazione al bar e per indossa-re vestiti comodi, jeans, maglie e scarpe sportive che durante la setti-mana restavano chiusi nell’armadio. Saltarono le p ulizie e Cesare si presentò al banco del bar con un’ora abbondante d’anticipo. «Be’, cosa ci fai qui a qu est’ora? Cos’è, ti hanno ti rato giù dal l etto? Per caso è scoppiata una guerra?» Cesare era assonnato e i suoi occhi continuavano a combattere contro la luce. «Sbrigati! Non ho mica tempo da perdere come i tuoi amici virtussini!» I due si guardarono poi si sorrisero scambiandosi una stretta di mano all’americana. Cesare ordinò un bom bolone e un cappuccino poi diede uno sguardo veloce allo Stadio, la solita pagina, quella del basket. Uscì dal bar e camminò verso il garage per prendere il Range Ro ver. Il centro commerciale della spesa del sabato mattina si trovava alla perife-ria est della città, vicino al vecchio appartamento dei suoi genitori, dove aveva vissuto fino ai diciassette anni. A pochi chilometri dal parcheggio, Cesare era fermo a un s emaforo a-spettando il verde; tornare nella zona dove aveva vissuto l’infan zia e l’adolescenza gli faceva provare la piacevole sensazione di tenere vicini i ricordi, con semplicità, non perdendo di vista i luoghi a cui erano lega-ti; uno di quei luoghi era l a parrocchia di S. Giacomo in via Palestrina. A Bologna, da molti anni, non andava più di moda ascoltare quello che avevano da dire i preti la dom enica mattina a messa, e Cesare si era a-deguato a questa tendenza . La sua vecc hia parrocchia però, gli ric orda-va gli anni del catechism o e quelli successivi delle E state Ragazzi, so-prattutto, gli ricordava don Luigi, l’unico prete che gli fosse vera mente piaciuto ascoltare. Era fermo proprio lì, davanti alla rampa per salire al sagrato della chie-sa. Qualcuno dietro di lui suonò il clacson perché il semaforo era diven-tato verde. C esare mise la freccia, salutò l’autista con un paio di corna poi pestò a f ondo il piede sull’acceleratore, sterzò b ruscamente a sini-stra e lo coprì con la solita fu mata nera del Range Rover. Salì la rampa e arrivò sul sagrato dove non c’era neanche un’auto posteggiata, nem-meno la vecchia Uno nera di don Luigi; parcheggiò e scese guardandosi intorno. Entrò in chiesa, con qualc he esitazione, ma trovò quello che avrebbe voluto; l’ambiente era invariato, come se non fosse passato tut-to quel tem po dall’ultima volta. I m uri erano stati i mbiancati, però le immagini sacre appese alle pareti erano le ste sse, compreso un c ollage fatto proprio da lui e i suoi compagni appeso in un angolo, vicino al ta-volino dove l a domenica mattina si di stribuivano le copie del “Giorna-

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lino” e di “Fam iglia Crist iana”. Ce sare diede un’occhiata in giro se-guendo la successione delle statuette di legno raffiguranti le stazioni della Via Cr ucis. Sulle pri me panche e ra seduta una vecchietta c on il velo in testa; sentendolo entrare si girò v erso di lui guardandolo con a-ria sospettosa . Cesar e ric ambiò lo sgua rdo con un s orriso, ma la vec-chietta avvicinò istintivam ente a sé la b orsa appoggiata a qualche cen-timetro, lungo la panca, poi si guardò intorno, si fece il segno della cro-ce e si alzò in piedi. M uovendosi velocemente sulle sue gambe piccole e arcuate guadagnò l’uscita, mentre Cesare, per darsi un’aria indifferen-te, iniziò a fissare le scritte degli a vvisi parrocchiali senza in realtà leg-gerli. Dopo pochi secondi sentì alcuni passi che attirarono la sua at ten-zione facendolo girare verso l’ altare; con sorpresa e soddisfazione vide don Luigi intento a pulire il porta candele davanti alla statua della Ma-donna. Era ingrassato, parecchi chili, indossava il solito gilet di lana ne-ro sulla camicia color grigio. La montatura degli occhiali era cambiata; una volta assomigliava a quelli di Bettino Craxi, quella che portava in-vece, era molto più sottile, se mbrava quasi un paio di occhiali alla mo-da, insolito per lui. Dal fondo della chiesa, Cesare cercò di attirare la sua attenzione. «È permesso?» Don Luigi alzò la testa poi, come se non avesse vist o nessuno, iniziò a spolverare la base in mar mo della statua. Si girò nuovamente verso il fascio di luce che entrava dall’ anta spalancata del portone poi abbas sò lo sguardo e riprese a lucidare. «Eccone un altro di q uelli che viene q ui perché de ve sposarsi! È m io dovere avvertirti in merito alle ultime statistiche diramate dalla Diocesi di Bologna!» Cesare fece qualche passo tra le panche domandandosi a quali statisti -che facesse riferimento. «Le statisti che dicono che il cinquanta per cento dei matri moni tra i giovani d’oggi, in una fascia che va dai venti ai trentacinque anni, non arrivano a superare i pr imi quattro anni, con tutti i problemi che seguo-no! Appartamento, mobili, servizio buono da ridare alla nonna! Per non parlare dei figli! Anche se sei convinto ti sposerò lo stesso, mi dispiace ma dovrai ritornare, stamattina non riuscirei proprio a prepararti i do-cumenti necessari.» Alzò la t esta come per controllare se ci fosse stata una re azione, poi la riabbassò sulla base della statua. Cesare avrebbe voluto andarsene, sentì le mani che iniziavano a sudare. Don Luigi sembrò terminare le sue pu-

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lizie e iniziare a interessarsi final mente a lui. Fece qualche passo in a-vanti e si abbassò gli occhiali sul naso. «Cesare… Cesare Gamberini, giusto? Tua madre ogni tanto si ricorda-va della sua vecchia parrocchia, adesso però è un bel pezzettino che non si fa vedere più nessuno. Credimi, non vogl io essere scortese ma ho davvero poco tempo a disposizione.» Cesare si sentì lusingato per essere stato riconosciuto; trovava che esse-re ricordato dopo tanti ann i, nel bene e nel male, fosse comunque posi-tivo. Rin unciò alla tentazione di an darsene e si incamminò v erso l’altare facendosi un veloce e plateale segno della croce. «Buongiorno don Luigi! Veramente, non devo sposarmi, anzi… in real-tà passavo di qua, stavo andando al centro commerciale, ho visto la por-ta aperta e…» I due arrivarono a essere vicini e si strinsero la mano. «Mi fa molto piacere rivederla.» «Tutti uguali i giovani d’oggi. Al centro commerciale vanno sem pre volentieri, un salto in chiesa, invece, solo per caso!» Dalla canonica arrivò qualche ru more; don Luigi si girò a guardare po i si rivolse nuovamente verso Cesare: «Cosa stavi dicendo prima? Non devo sposarmi, anzi.» Cesare si pentì per aver pronunciato quell’ anzi, uscito dalla bocca per forza d’inerzia, temendo potesse scatenare una delle infinite prediche di don Luigi. «Una bella ragazza con c ui fidanzarsi, sposarsi e p oi mettere su fami-glia è un p unto fondamentale per da re un senso alla vita. E non credo che uno come te faccia fatica a trovarla. Ancora con quei capelli lasciati andare, vedo.» Cesare iniziò a sentire ca ldo, com e da piccolo, durante l’ estate, alla messa delle undici. «Aspetta un attimo però! L’ultima volta che ho visto tua madre, un paio di anni fa, mi aveva detto che ti eri trasferito a vivere nell’appartamento di tuo nonno in via S. Felice e ti eri fidanzato con u na bella ragazza pu-gliese.» Cesare si domandò perché non avesse tirato dritto al semaforo. Sarebbe già arrivato a metà della spesa. «È vero, è bene inform ato. Ero fidanzato ma ci siamo lasciati. Non sta-vamo male insieme, però…» «Però! Cosa? Cos’è? Oggi non hai vo glia di finire le frasi! Ho capito, bisogna che io e te si faccia una bella chiacchierata insieme.»

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Arrivarono altri rum ori dalla canonica e don L uigi sembrò avere fretta di andare a controllare; dalla tasc a dei pantaloni tirò fuori un ’agenda minuscola e iniziò a sfogliarla cer cando il segno sul calendario. Cesare iniziò a preoccuparsi, continuando a chiedersi perché si fosse f ermato. Sentì odore di confessionale o qualcosa del genere. «Guarda, questa settimana non è proprio possibile! Cosa fai di soli to il lunedì sera?» Cesare non riuscì a capire il senso della domanda e n on seppe cosa ri-spondere, l ’unica cosa sicura era che il lunedì sera non aveva al lena-mento. «Non saprei, il lunedì non ho impegni particolari…» Don Luigi sembrò non aspettare altre parole. «Bene! Allora lunedì prossimo vengo a cena a casa tua!» “Cazzo!” «Guardi don Luigi che io non sono un granché ai fornelli!» Don Luigi si toccò lo stomaco piuttosto voluminoso. «Non preoccuparti, non mi faccio particolari problemi a tavola, m angio praticamente di tutto!» Alzò la testa verso il Crocifisso quasi per scusarsi. “Cazzo! Mi ha incastrato!” «Oh, si intende, il vin o lo porto i o! È quello buono, di Mon te S. Pie-tro!» Sfogliò la piccola agenda fino alle ulti me pagine, ne scelse una e ci scrisse sopra un numero di telefono, di un cellulare, poi la strappò. «Tieni, questo è il mio numero. Cerca di non farti v enire strane idee e inventarti una scusa! Dovessero esserci dei problemi, puoi chiamarmi.» Nonostante tutto, Cesare iniziò a rivalutare quello strano appuntamento, a familiarizzare con l’idea di passare una serata a cena con don Luigi. I due si strinse ro nuovamente la mano poi Cesare si incamminò verso l’uscita. Arrivato in fondo alla chie sa, sentì il bisogn o di farsi il segno della croce in modo plateale, intingendo le dita nell’acquasantiera e in-ginocchiandosi; purtroppo don Luigi era sparito, come volato via, men-tre a Cesare sarebbe piaciuto che ammir asse il suo vecchio chierichetto esibirsi ancora nei panni del cattolico modello.

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Domenica 1 Maggio 2005 Bologna ore 16.00 circa Un calendari o poco sinda calista aveva piazzato la f esta dei lavo ratori sulla casella rossa della domenica. Luca era allo stadio di S. Lazza ro per il servizio d’ordine, Simona era a casa da sola; aveva rinunci ato all’invito di un’amica per una “vasca” in via Indipendenza. Non aveva voglia di fare niente; aveva passato la settimana pensando a Cesare, l’aveva cercato nei corridoi, in mensa, al distributore del caffè; ovunque fosse possibile osservarlo, co me per studiare il nem ico prima di un nuovo attacco. Era stato i mpossibile trovare l’ entusiasmo ne cessario per interpretare positivamente qualche segnale, qualc he sua mossa. Dopo essersi fatt a avanti avrebbe desider ato che si fo sse mosso an che lui, e invec e non aveva fatto assolutam ente niente di nuovo; non aveva messo neanch e un pizzico di malizia in un sorriso o in una battuta, neanche un accenno all’incontro nel parcheggio del Pilastro, come fosse stato veramente ca-suale. “Perché continui a evitarmi?” Nel portafogli aveva ancora il post-it con il suo numero; avrebbe voluto chiedere direttamente a lui “perché?”. Lo cercò e lo trovò tra un o scon-trino e il santino della Madonna di San Luca; prese il cellulare e d igitò il numero. Bologna ore 16.15 circa Cesare non avrebbe pot uto chiedere di meglio da una dom enica pome-riggio; pane e nutella davanti a un vecchio film di Peter Sellers, prima di andare al palazzo dello sport per la partita della Fortitudo. Sicura-mente non avrebbe voluto sentire suonare il telefono come invece stava facendo, sopr attutto perch é la suone ria era quella d i un num ero fuori rubrica. Era indeciso se alzarsi oppure no, m a il cellulare continu ava a suonare; si staccò dal divano e rispose secco e prevenuto.

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«Pronto!» «Cesare?» Lui capì che non era qualcuno che aveva sbagliato numero e abbandonò il piatto con la merenda sul tavolo. «Sì, chi parla?» «Qui è l’ufficio dell’inge gner Franzoni, vorrei parlare con il fam oso campione di basket Cesare Gamberini!» Cesare sentì improvvisamente caldo e le mani iniziarono a sudare. «Simona, sei tu?» «Ciao, ti disturbo?» Cesare guardò la fetta di pane sul tavolo perdendo la voglia di addentar-la. «Come hai fatto ad avere il mio numero?» «È così importante?» «No, non è importante, ma so di non avertelo dato io.» Simona avrebbe voluto riattaccare ma tornò a farsi coraggio. «Posso rubarti cinque minuti?» Mentre lo diceva, le tornò in mente una canzone degli Stadio che qual-che anno prima le piaceva cantare sotto la doccia “Dammi cinque minu-ti e chissà, chissà se ti piacerò…”. Cesare scelse di applicare un deterrente contro i fornitori rom piscatole, imparato sul lavoro, e pose subito un limite temporale alla telefonata. «Mi stavo preparando per andare al pal azzo, c’è la partita della Fortitu-do.» “La Fortitudo! Gli ho rotto i maroni!” Simona non sapeva come continuare ma sentì il bisogno di sfogare le proprie voglie. «Volevo parlarti di venerdì scorso…» Simona trattene a fatica i pensieri. “Cazzo Cesare, aiutami! Di’ qualcosa!” Cesare passò le risposte possibili in rapida carrellata. “Cazzo! Adesso cosa le dico?” «Cos’hai pensato di me?» Cesare si ricordò di un’altra regola per gestire le tel efonate con i forni-tori rompiscatole e decise di fare finta di non capire. «In che senso? Non capisco!» Simona continuò a trattenere i pensieri a fatica. “Cazzo, Cesare! Non è semplice provare a spiegarti certe cose se non mi aiuti!” «Come non capisci?»

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«Eh, no! Non capisco!» “Cazzo Cesare!” Questa volta Simona non riuscì a trattenere i pensieri, anzi li fece uscir e con un tono molto alterato. «Lo fai o lo sei?» Un fornitore rom piscatole sarebbe stato molto più se mplice da gestire. Cesare era in difficoltà e quando non sapeva cosa dire, spesso si dimen-ticava dei consigli del padre, e diceva una cazzata. «Non Cazzo Cesare… piuttosto Cazzo Sim ona! Non voglio fare il mo-ralista ma ti ricordo che sei sposata!» «Dai?! Non vuoi fare il moralista? Però l’unica cosa che sai dirmi è “sei sposata”! È l’unica cosa che riesci a dire a una donna che si sta innamo-rando di te e non sa come dirtelo?» Se fossero st ati uno di fronte a l’ altra probabilmente avrebbero smesso di parlare, si sarebbero guardati neg li occhi e sarebbero stati proi ettati insieme in quella dim ensione nella qual e chi tradisce crede non si a un errore, crede non sia peccato; quella di mensione dove Cesar e av rebbe scoperto anche l’ altra metà del corpo di Sim ona, quella che rimaneva coperta sotto le minigonne. Quella telefonata invece rimase legata a una dimensione diversa, ancorata e vicina alla realtà. Il silenzio dall ’altra parte del microfono non era più accompagnato dai respiri ma si era fat-to sintetico. La telefonata di Simona era durata meno dei cinque minuti richiesti.

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Lunedì 2 Maggio 2005 Bologna ore 10.30 circa Il rumore della vecchia serratura, gi rando la chiave, regalò a Chiara la rassicurante sensazione di essere a casa. Per pri ma cosa alzò le tappa-relle e aprì le poche finestre a di sposizione per cercare di vincere l’odore di umidità e muffa che l’accoglieva sempre al suo ritorno, come se il piccolo apparta mento di via Em ilia Levante av esse l’anima di co-municarle il proprio disappunto per le sue assenze. Sfogliò velocemente la posta che l a sua vicina, e padrona di casa, le a-veva raccolto con ordine sulla tavola; con un po ’ di delusione trovò so-lo bollette e pubblicità. Non aveva vog lia di disfare la valigia per fare qualche lavatrice e nemmeno di andare al supermercato per fare la spe-sa e riempire il frigorifero co mpletamente vuoto. Pr ese il cellulare e si lasciò sprofondare sul divanetto del tinello. Aveva voglia di sentire una voce amica, che le facesse riprendere definitivamente contatto con Bo-logna. Era indecisa se chiamare Gianni perché aveva paura che nel frat tempo il sogno fosse finito e il progetto del suo disco fosse saltato. Continuava a immaginare e sognare il suo CD a o cchi aperti, come se stesse sfo -gliando l’inlet-book e stesse sfiorando la superficie ruvida del suo nome stampato sul fronte. “No! Meglio aspettare che sia lui a chiamare!” Sfogliò la rubrica del t elefono fino alla fine, poi ri prese da cap o e si fermò sulla lettera B, B come Beatrice. Bologna ore 10.45 circa La lezione di aerobica delle 11.00 del lunedì mattina era destinata a u n piccolo gruppo di signore di m ezza età che si facevano passare per ca-salinghe, che a Bologna era sinonimo di donne ricche, e di qualche par-rucchiera che al lunedì aveva il negozio chiuso. Prima di infil arsi il body , Beatrice si guardò nel grande specchio dell o spogliatoio riservato alle i struttrici. Il prossim o ottobre sarebbero arri-

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vati i trent’ anni; il suo fisico era asci utto e muscoloso e non lasciava vedere alcun segno del passare degli anni, segni che invece sentiva evi-denti dentro. “Per quanto ancora potrò fare l’istruttrice di fitness? Questo lavoro mi garantirà la pensione?” Rimase ancora nuda davanti allo specch io; sembrava volerlo consultare come la regina cattiva di Biancaneve. Le dom ande che accompagnava-no i traguard i delle età erano sem pre tante; poi c’er ano quelle di sua madre, le solite, quelle sulla sua vita sentimentale, come se facesse par-te della sua st essa coscienza. Passavano gli anni e aumentava l’ affanno per trovare le risposte. “Una cosa è certa, non mi accontenterò di un uomo qualsiasi!” Si vestì e rior dinò il borsone sportivo; il cellulare iniziò a suonare pro-prio mentre stava per speg nerlo. Era indecisa se rispondere; le rimane-vano solo pochi m inuti per gli eserciz i di riscaldamento. Guardò il display e lesse “Chiara ”. Decis e che gli esercizi potevano aspettare e rispose. «Chiara! Ciao!» «Ciao Beatrice. Sono ritornata all’ombra delle Due Torri, finalmente.» «Che bello! Ti stavo aspettando! Quand’è che ti decidi a venire in pale-stra?» «L’energia non ti manca mai, eh? Se mi vedessi adesso! Sono s draiata sul divano e sto pensando seriamente di passarci il resto della mattina-ta.» «Però poi non ti lamentare!» «Non posso farci niente se sono pigra!» Beatrice avrebbe volut o chiederle de l padre ma la voce di Chiara sem-brava insolita mente serena e aveva paura che le avrebbe rovi nato l’umore con una domanda sbagliata. «Credo che le migliori compagne della pigrizia e dell’ozio siano un pa-io di birre al pub! Cosa ne dici?» «Dico di sì, purché siano due Beck’s e le offra io!» «Mi hai stupito! Affare fatto! Che ne dici di giovedì sera?» «Dico che è perfetto!» «Se non ricordo male mi hai detto che abiti in via Emilia levante?» «Esattamente, Al 146.» «Perfetto! Sarò lì alle ventuno precise…» «…e io sarò pronta entro dieci minuti di ritardo… promesso!»

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Mercoledì 4 maggio 2005 Città del Capo ore 9.45 circa Se avesse provato a tenere il conto di tutti i viaggi in aereo, le sare bbe stato impossibile riuscire a ricordar li tutti; tutte le a nsie per i decolli e gli atterraggi, le istruzioni di salvataggio delle hostess, i tentativi falliti di dormire sulle poltrone reclinate, gli sguardi indiscreti di qualche vi-cino di posto o quelli maliziosi di qualche stewart. Il prim o viaggio l o ricord ava molto be ne. Era stato Atene-Ro ma per andare a Napoli a trovare i nonni; aveva solo cinque anni, ma se avesse chiuso gli occhi avrebbe ricordato ogni cosa, tanto era grande l’emozione di quel giorno . Dopo qualche anno arrivarono i voli At ene-Manchester per accompagnare suo padre in Inghilterra nei viaggi di la-voro; dopo i niziarono que lli Cefalonia-Atene, ai tem pi dell’università su terribili bi motori a elica che se mbrava dovessero precipitare da un momento all’altro. Poi fi nalmente i primi viaggi per visitare il mondo , prima insieme a qualche amica, poi quelli con Di mos, che con il pri mo stipendio comprò due biglietti andata e ritorno per New York. In segui-to iniziarono quelli di lavoro, e infine quelli per il Sudafrica. Atene, Salonicco, Bologna , Cefalonia, Città del Capo. Decine di volte le stesse sale d’aspetto agli imbarchi, gli stessi annunci, sempre le stes-se ansie. Chiuse gli occhi. “Quante volte ancora senza di te, Dimos?” Li riaprì e g uardò, ancora per qualch e secondo, quel pezzo d’ Africa grande come l’oblò del Boing che li stava riportando a casa. Tentò di sporgere il c ollo tra le tes te dei ba mbini come se potesse vedere il suo Dimos da qualche parte. “Già! L’Africa!” Avrebbe voluto am are l’Africa, come suggerivano i suoi sensi, ma l’Africa le stava rubando un pezzo di cuore e ogni volta, a ogni decollo, un pezzo del suo matrimonio. Fragiskos le strinse la mano; entro dieci ore sarebbero arrivati ad Atene, tornando all’inutile vita agiata del Pireo.

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Giovedì 5 Maggio 2005 Bologna ore 22.30 circa Beatrice non sopportava aspettare le persone in ritardo; “Forse questa volta ne vale la pena!” Dopo venticinque minuti Chiara uscì dal portone di via Emilia Levante. Gli occhi e la bocca sorridevano; i ndossava una gonna di cotone sopra al ginocchio, una maglia scollo a “V”, un giubbotto di Jeans e una pa-shmina intorno al collo; sembrava che l’aria di Bologna l’avesse rigene-rata e trasformata. Beatrice scese dalla macchina; si salutarono e si abbr acciano come fos-sero state amiche da semp re. Partirono verso il centro. Dopo poch i mi-nuti trovarono un parcheggio non esattamente legale, ma insieme deci-sero che tanto illegale non era. «A me sembra perfetto!» «Per me è il miglior parcheggio che potessimo trovare!» Iniziarono a ridere prima di scendere e camminare; continuarono a ride-re e sche rzare verso una delle birrerie d i via del Pratello. L’ aveva sug-gerita Chiara, vittim a di un autom atismo incontrollabile, avendo fre-quentato quei locali tante volte insieme a Cesare, che viveva lì, a due passi. In realt à quella sera sembrava essere molto più lontano, almeno molto più del solito, dai suoi pensieri e soprattutto dal suo cuore; ci tor-nò parzialmente solo dopo la seconda birra, in mezzo ai discorsi di Bea-trice. «Tutte le volte che riesce a incastrarmi, mia madre inizia a fare il terzo grado… voglio un fidanzato… tira fuori un fidanzato… poi non so per-ché, ma aggi unge sem pre “bologn ese”! No, dico?! Guardati intorno! Siamo a Bologna, ma quanti bolo gnesi conti qui de ntro comprese tu e io?» Chiara si guardò intorno, poi si girò e sorrise. «E tu? Mi hai parlato delle tue canzoni, delle lotte c on tuo padre… e il fidanzato bolognese non ce l’hai?» «Non ci crederai ma io ce l’avevo fino a un paio di mesi fa, pure bolo-gnese DOC. Siamo stati insieme cinque anni, poi però…» «Poi? Cos’è successo?»

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«Prima, quando m i hai detto che fai l’ arbitro… be’, me l’hai fatto tor-nare in mente perché gioca a pallacan estro ed è se mpre lì con la testa persa dietro alla Fortitudo.» «Aspetta! Aspetta! Mi stai dicendo che ti sei lasciata scappare un bolo-gnese DOC che gioca a basket, dopo ci nque anni di fidanzamento? La-sciatelo dire, tu riusciresti a fare impazzire mia madre!» «Sto ancora riflettendo sulle parole che mi ha detto la sera che ci siam o lasciati.» «Gli uomini sono capaci di dire certe stronzate quando devono lasciar e una donna…» «Mi ha detto … uhm … fare l’am ore con te è diventato com e farsi la barba la mattina… qualcosa del genere.» Beatrice arricciò il naso in una smorfia di disapprovazione. «Cazzo! Questa però le batte vera mente tutte! Ma co sa dovrebbe signi-ficare?» «Boh! È per questo che ci sto ancora pensando.» «…come farsi la barba la mattina… e tu? Voglio dir e, non hai chiesto che ti spiegasse questa grandissima stronzata?» Chiara si passò una m ano tra i cap elli non riuscendo a nascondere il crescente imbarazzo. «Io ho iniziato a piangere, sono scesa dalla macchina, anzi, sono prati-camente scappata!» «Se avesse provato di dirla a me, gli avr ei stampato le cinque dita sulla faccia!» «Senti Beatrice, ti rompe se ne riparliamo un’altra volta? Stasera…» «Sono pienamente d’accordo! Anzi ti propongo un brindisi!» Beatrice afferrò la bottiglia. «Avvicinati un po’ perché credo sia meglio farlo sottovoce!» Chiara accettò l’invito e afferrò anche lei la bottiglia. Beatrice si spostò verso il suo orecchio destro com e per confessarle un segreto; si fer mò un secondo a respirare il suo profumo, che il caldo del locale e la birra avevano fatto uscire da sotto la pashmina. «A tutti i fidanzati bolognesi… delle altre donne… che ci scoperemo da qui ai prossimi cento anni!» Le guance di Chiara già rosse diventarono bollenti; alzò comunque la Becks, approvando il brindisi, e bevve un sorso profondo che le provo-cò una nuova piacevole sensazione di calore come se fosse stata seduta davanti a un camino acceso. Sentì u na goccia di sud ore scendere lungo la schiena; si sfilò il giubbotto di jeans e la pash mina. Beatrice non riu-

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scì a fare a meno di guardare la scollatura della maglia. Chiara se ne ac-corse, ma era abituata al fatto che non passasse inosservata. «Sono troppo grosse eh?! Lo so!» Con le mani fece un gesto co me se ne s tesse misurando la circonferen-za. «Cosa dici, l a scollatura è esagerata? Forse è meglio che ri metta la pa-shmina, anche se sto morendo dal caldo?» Beatrice distolse lo sguardo dal seno di Chiara; la guardò negli occhi e cercò di assumere un’espressione seria. «Penso sia meglio. Cosa succederebbe se facessi colpo su uno di questi finti bolognesi che poi ve nisse qui e ti chiedesse di fidanzarti con lui? Chi lo racconterebbe a mia madre?» Chiara iniziò a ridere e final mente si sentì sollevata co mpletamente dai problemi e dalle paure, almeno per qualche minuto. Decisero che la t erza birra sarebbe stata esagerata per un giovedì sera. Chiara pagò i l conto come da ac cordi. Uscirono e p asseggiarono verso la macchina, ritrovandola , straname nte senza nessu n foglietto giallo sotto al tergicristallo, nono stante il parcheggio im provvisato e poco le-gale. Salirono e partirono per tornare al 146 di via Emilia Levante. Chiara aprì la borsa e tirò fuori due caramelle alla menta. «Vuoi?» Beatrice sorrise; quelle car amelle le sembravano fuori dal tem po, trop-po vecchie per la realtà a c olori. Allungò la mano e ne prese una, poi la scartò e la mise in bocca. «So cosa pensi, ho vist o come le hai guardate sul treno, l ’altra v olta. Sono un po’ da nonna, eh?» Beatrice sorrise. «Credimi, te l’ho già detto, non c’è niente di meglio per schiarire la go-la e le idee. Vuoi anche questa? Non si sa mai, dovesse se rvirti per un emergenza!» Beatrice deglutì la saliva rinfrescata e sorrise nuovamente. «Quale emergenza?» «Per esempio, se vuoi essere sicura che l’alito sia fresco prima di bacia-re il tuo prossimo fidanzato bolognese!» Risero, poi scesero dalla Punto. In piedi, davanti al porto ne, bastò un bacio sulla guancia sinistra per confermare a Beatrice che anche l’altra metà di Chiara profumava dello stesso buon odore respirat o in birreria. Prese la seconda caramella alla menta, la infilò in fondo al marsupio e tornò alla macchina.

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Venerdì 6 Maggio 2005 Pireo ore 9.00 Dopo aver accompagnato i “bambini” alle rispettive scuole, Amalìa en-trò nel traffico di Atene su lla strada dell’ufficio, nutrendo l’inconsueta speranza che i suoi collaboratori le avessero lasciato qualche problema irrisolto durante le due set timane di assenza; le sarebbero serviti per di-strarsi, prima possibile, dai soliti pensieri sull’assenza di Dimos e il Sud Africa. Proprio quella speranza l’aveva convinta ad anticipare il rientro in uffi-cio senza aspettare il lunedì come da agenda. Era una splendida mattina di sole e il cruscotto della Lexus segnava già ventiquattro gradi. Amalìa guardò l ’orologio e tolse a memoria la solita ora di differenza con l’Italia. Pensò fosse il momento migliore per chiamare Simona che pro-babilmente stava salendo in macchina per andare anche lei al lavoro. Attivò il viv avoce, selezionando il numero di Simona dalla ru brica e inoltrò la chiamata. Bologna ore 8.10 Contrariamente alla pia cevole sensazione che accompagnava le i mpie-gate al lavoro il venerdì mattina, soprattutto in primavera, con il week-end già nella testa, Si mona salì sulla sua Lancia Y con il viso se gnato da chili di malinconia che neanche il suo solito trucco pesante ri usciva a nascondere. Da qualche mese, il fine settimana non aveva più lo stes-so sapore perché significava dover stare lontana da Cesare. Il cellulare iniziò a suonare; Simona guardò il nome sul display con una frenetica eccitazione, nella speranza di ricevere un’ insperata telefonata di Cesare. Il nome Amalìa disattese l’ eccitazione ma riaccese comun-que il suo entusiasmo. «Ami!» «Ciao Tesoro! Come stai?» «Disgraziata! Tu non sai quanto mi sei mancata! Dove sei?»

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«Ad Atene, sono tor nata mercoledì notte. Ieri ho d isfatto le valigie e adesso sto facendo un salto in ufficio.» «Come in ufficio? Mi ero segnata che saresti tornata lunedì! Hai paura che Dimitri e Natasha ti abbiano combinato troppi casini?» «Assolutamente no, lo sai che orm ai sono pi ù bravi di me nel gestire l’azienda. È che i bambini sono tornati a scuola e non mi andava di re-stare a casa da sola.» «Già, i bambini! Certo che non vuoi proprio saperne di accettar e l’idea che siano cresciuti! Eh, come stanno… i bambini?» «Loro benissimo. Con loro padre si sono divertiti un sacco.» Dal tono della voce, Si mona intuì il distacco che Amalìa aveva voluto prendere da Dimos. «Mamma mia che brutto tono! Sei tornata ad Atene bella incazzate eh?! Dimos ti ha fatto arrabbiare?» «Ha rimandato di nuovo il ritorno. Adesso si parla di fine anno!» «Come fine anno? Doveva tornare tra Giugno e Luglio!» «Sembra che la Direzione gli abbia chiesto di portare a ter mine alcuni progetti. Non ce la faccio più! Sono stanca!» Simona pensò ai suoi problemi. In confronto a quelli di Amalìa i suoi le sembravano ridicoli compreso quello principale, Cesare Ga mberini. Amalìa stava facendo di tutto per tenere unito il suo matrimonio, lei in-vece, se avesse potuto, lo avrebbe ridotto in m ille pezzi, sem pre ch e non lo fosse già. «Quand’è che vieni a Bologna a trovarm i? Ci facciamo la nostra solita passeggiata i n centro, io ti racconto tutti gli ultim i pettegolezzi della Proxima… ci diamo sotto con le risate e tiriamo su l ’umore! Cosa ne dici?» Simona provò a immaginare se in Pr oxima ci fosse già qualche collega che rideva di lei e Cesare; per anni, le varie “lingue merde”, come ave-va soprannominato le colleghe troppo pettegole, avevano usato la fanta-sia per attribuirle decine di flirt inesistenti. «Se non sbaglio il diciassette c’ è la presentazione del nuovo pr odotto realizzato con i giap ponesi. Magari mi fermo un paio di giorni, così ne approfitto anche per parlare con l’ingegner Franzoni.» «Già, è vero, la riunione del diciassette! L’avevo rimossa. Ci saranno tutti i venditori da seguire… che delirio! La cena ufficiale sarà il lunedì sera. S e resti fino al mercoledì e io so pravvivo a tutti i tuoi colleghi, martedì sera usciamo, ok?» Nel frattempo Amalìa era arrivata al parcheggio del la Proxima Helle-nic. Fermò la Lexus e spense il motore.

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«Perfetto. Chiederò a Natasha di prenotare il volo di ritorno per merco-ledì. Io sono arrivata.» «Io no, la via Emilia è un disastro stamattina! Ci sen tiamo la prossi ma settimana. Buon week end, intanto.» «Beata te che lo passi con tuo marito!» All’idea Simona si senti va male, ma cercò co munque di to gliersi dall’imbarazzo di un segreto che non riusciva e non poteva confessare, neanche alla sua migliore amica. «Tu cerca di avere un altro po’ di pazienza con Dimos!» Si sentì improvvisamente come una di quelle sue amiche che erano già diventate mamme e la ri coprivano di i nutili frasi di circostanza. Cercò di pronunciare qualche parola più concreta. «Dai, ormai siamo in estate; la fine dell’ann o arriva che non te ne ac-corgi neanche! Ti mando un bacio!» Amalìa, proprio come Simona, avrebbe voluto cancellare la parola pa-zienza dal di zionario. Di pazienza ne aveva conservata ormai poca, la stava esauren do, e il solo sentire ri petere quella parola peggiora va la situazione. Apprezzò co munque lo sfor zo dell’ amica; pensò all’ estate che stava arrivando e sentì il peso de lla tristezza di attenderla sen za a-spettative. «Un bacio grande anche per te!» FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...