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UN PAESAGGIO DI MUTI TESTIMONI SOSPESI NEL TEMPO.

Nessun luogo è lontano - Andrea Grotto

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Catalogo della mostra Nessun luogo è lontano Veronica de Giovanelli, Andrea Grotto, Cristiano Menchini, Stefano Moras a cura di Eugenia Delfini c/o Ex Macello, via Alvise Cornaro 1/b, Padova 5 Settembre - 5 Ottobre 2014

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UN PAESAGGIO

DI MUTI TESTIMONI

SOSPESI NEL TEMPO.

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1. Gli indiani ci stanno cercando 1997 - 140 x 170 cm - olio acrilico su tela, 20132. Escac - 60 x 60 cm - olio acrilico su tela, 20143. Houses # - 9,64 x 20 x 26 cm - materiali misti, 20144. Esci fuori! - 160 x 135 cm - olio acrilico su tela, 20135. Post Party, sala da pranzo 1997 - 162 x 202 cm - olio acrilico su tela, 20136. Red Ensign -125 x156 cm - olio acrilico su tela, 2014

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Nessun luogo è lontano

Veronica de Giovanelli

Andrea Grotto

Cristiano Menchini

Stefano Moras

_

dal 6 Settembre

al 5 Ottobre 2014

Ex Macello

via Alvise Cornaro 1/b

Padova

nessunluogo.tumblr.com

sottobosco.net

UN PROGETTO DI

Sottobosco

MOSTRA A CURA DI

Eugenia Delfini

PROMOSSO DA

Assessorato alla Cultura e Turismo

Comune di Padova

CON I PATROCINI DI

Fondazione Bevilacqua La Masa

FAI – Delegazione di Padova

Kio-A-Thau Sugar Refinery Artist Village

PROGETTO GRAFICO

Sottobosco

VISUAL IMPROVEMENT

Tiziano Manna

MEDIA PARTNER

Sherwood

SPONSOR TECNICO

Winezon

_P. D’Angelo, Filosofia del Paesaggio, Quodlibet, 2010U. Morelli, Paesaggio e mente, Bollati Boringhieri, 2011M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, 2009 F

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2014

La parola paesaggio designa tanto una porzione di territorio nella sua concreta realtà fisica e morfologica, quanto la rappresentazione di una porzione di spazio dotata di valori estetici: a partire da questo presup-posto, le ricerche in mostra indagano il paesaggio sia in quanto espres-sione della nostra identità sia in quanto generatore di esperienze este-tiche.

Nonostante a un primo sguardo si possano cogliere notevoli differenze stilistiche tra i lavori esposti, sono diversi gli aspetti teorici e metodo-logici che li accomunano. Per gli autori in mostra l’uomo è parte inte-grante del paesaggio, non esterno ad esso, e la pittura di paesaggio non un’attività di mimesi ma lo strumento attraverso il quale tentare di riav-vicinarsi e di riappropriarsi del reale. Questo movimento sui margini, tra il reale e la sua riproposizione estetica, permette loro di costruire una relazione sempre nuova con il mondo, di scoprirlo e di ripensare ciò che ci è conosciuto, contribuendo alla produzione di altri punti di vista. In questo lavoro di identificazione e successiva rielaborazione del paesag-gio, la tela diventa sinonimo di possibilità e il lavoro un procedere per gradi: il tempo per soffermarsi su un particolare vissuto o luogo e per dare visione al presente, qualsiasi cosa suggerisca.

Il nostro è sempre stato un paesaggio culturale, ovvero non solo na-tura ma anche opera umana, territorio sul quale l’azione dell’uomo ha inciso in profondità, attraverso i millenni, lasciando ben poco della sua conformazione originaria. Di conseguenza la nostra coscienza del paesaggio è quella di una natura percepita attraverso una cultura (Paolo D’Angelo) e l’esperienza che compiamo di fronte ad esso non può essere mai un’esperienza puramente sensoriale, ma un processo che organizza quel che vediamo sulla base di componenti immaginative, emotive, memoriali e identificative. Su questo discorso si innesta il lavoro di Veronica de Giovanelli che riflette sul paesaggio come dimensione relazionale frutto della mediazione tra stato di natura ed esigenze umane. La sua è una forma di esplorazione intima e di presa di coscien-za della singolarità dei luoghi, un’indagine costante tra sé e i contesti attraverso cui cogliere e restituire le qualità inespresse di un determi-nato spazio. Da sempre interessata a quelle che sono le energie sottese e le variabili dello stato di natura, da una parte nelle sue opere inscena manifestazioni di fenomeni naturali e dall’altra gli interventi per mano dell’uomo che hanno inciso profondamente sul paesaggio. Attraverso il punto di vista aereo e l’applicazione di velature fresche, fatte sedimen-tare in tempi diversi, Veronica evoca i luoghi e le strutture che abitano il nostro territorio, evidenziando l’idea di paesaggio come palinsesto e stratificazione vorticosa.

Il paesaggio è dentro di noi prima di essere intorno a noi (Ugo Morelli), per ciò la relazione con la natura non può ridursi alla sola identificazio-ne estetica, come mera immagine, ma va ricercata anche all’interno di dimensione cognitiva e simbolica del paesaggio. Negli ultimi anni Andrea Grotto ha attraversato diverse fasi di ricerca che lo hanno por-tato a ripensare il paesaggio come ad un insieme simbolico di oggetti: realtà di riferimento da cui partire per interpretare il mondo ed esplora-re i nostri universi concettuali ancorati al reale. Questo atlante simboli-co in progress, annette forme sedimentate nel suo immaginario, deline-ando da una parte una sua personale geografia emotiva e dall’altra il suo interesse per le connessioni esistenti tra le immagini che compongono la nostra quotidianità e quelle radicate nell’immaginario collettivo. Il tempo è sospeso, gli ambienti non sono riconducibili a qualcosa di identificabile, il paesaggio si fa scultura, il fruitore è libero di identifi-carsi con l’immagine o semplicemente di farla propria. Il serbatoio di immagini da cui attingere non è più allora solo il paesaggio ma la sua personale memoria, i ricordi d’infanzia e le suggestioni legate a specifici luoghi: è a partire da tutto questo che Andrea ricostruisce dei set attra-verso la sola riproposizione dei suoi elementi ausiliari - tappeti, scivoli,

vasi, bastoni e scatolini - come fossero muti testimoni da cui ripartire per una rielaborazione dei luoghi del vivere.

Rispetto a questo approccio sui confini tra il proprio mondo interno e quello esterno, Stefano Moras vive il paesaggio come una materia sempre ricca di suggestioni, luogo dell’accadere, palcoscenico delle trasformazioni organiche e vegetali.I suoi lavori sono il risultato di studi ravvicinati della natura, un discor-so molto personale tra autore e linguaggio, una ricerca costante che gli permette di comunicare e relazionarsi con il mondo. I suoi quadri sono come delle piattaforme sulle quali frammenti stratificati e parcellizzati della realtà si accumulano, scompaiono o riemergono. Fuori o dentro la superficie pittorica, la sua è una ricerca legata ai processi che possono suggerirci delle visioni del nostro reale, un modo di procedere nel quale ogni esperienza si sovrappone a quella precedente in un continuum ed incessante evolversi e ridefinire il suo apparire. Stefano non è interessato alla riproduzione o alla traduzione della realtà fine a sé stessa quanto alla sua rielaborazione a cui arriva attraverso un delicato lavoro di scompo-sizione e ricostruzione per frammenti. Così la tela diventa spazio vivo dove individuare delle coordinate e procede attraverso la proposizione di piccoli atti poetici, fatti di intagli, accostamenti, associazioni libere di forme, materiali e colori.Negli ultimi lavori in particolare l’ascolto dei fenomeni naturali e dei loro passaggi di stato non è più qualcosa di esterno ma qualcosa che si ritrova nel suo stesso fare, riscoprendoli come parte del processo pit-torico. Nulla è stabilito, si tratta di inseguire una necessità, legata al pro-prio sentire, che tende verso processi di scoperta ignoti e inaspettati che si cristallizzano in visioni di insieme, frutto del confronto costante con la realtà circostante.

Il paesaggio è allora ciò che risulta dalla nostra relazione con il mondo, ovvero il risultato artificiale di una cultura che ridefinisce perpetuamente la sua relazione con la natura, tanto che l’esperienza del paesaggio è in generale e in primo luogo, un’esperienza di sé (Michael Jacob).Perché esista un paesaggio devono allora esserci inevitabilmente un in-dividuo e la natura, e tra i due deve innescarsi una relazione. La ricerca di Cristiano Menchini nasce proprio dal confronto fisico con il pae-saggio, dal contatto diretto e dallo studio quasi scientifico di micro-cosmi vegetali. Muovendosi nello scarto che c’è tra il vero e la finzione, Cristiano ripropone universi simbolici, metafore di un mondo percepi-to, superfici dinamiche e indipendenti dalla realtà, non tanto per ripro-durre un semplice gioco di rassomiglianze, quanto per evocare spazi altri senza tempo, che da qualche parte forse esistono o sono esistiti. L’interesse è per i processi a noi invisibili che determinano lo sviluppo del mondo vegetale, la parte organica e morfologica della natura che cambia a seconda del clima, del vento, della luce. Alcuni suoi lavori evo-cano calibrati ecosistemi vegetali, altri invece scenari primitivi realizzati in scala reale, altri ancora infine, attraverso la ripetizione di un unico elemento vegetale nello spazio della tela, orientano il discorso verso l’astrazione formale.

Nessun luogo è lontano nasce come punto di incontro di più esperienze per osservare il quotidiano attraverso l’arte e per riflettere sui differenti modi di vedere, percepire e fare esperienza del paesaggio. In un’epoca in cui la relazione con la natura non è più data ed è da reinventare e ricreare, la mostra, vuole restituire il desiderio di entrare in risonanza con il paesaggio, provando a recuperare questa relazione attraverso la visione estetica e la sua rappresentazione. Il titolo della mostra, tratto dal libro omonimo di Richard Bach, riporta l’attenzione su questo: nes-sun luogo è lontano, tutto ciò che non è in mostra è possibile guardarlo fuori o ritrovarlo dentro di noi come qualcosa che non è mai andato perduto.

Eugenia Delfini

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Una pratica che volge l’attenzione al paesaggio, all’esterno, a tutto ciò che sta fuori dall’uomo ma è l’uomo stesso in quanto estensione ed espressione della sua identità storico culturale: qual è stato il tuo percorso? E cosa ti ha portato, oggi, ad oc-cuparti di “pittura di paesaggio”?

É bello che nella domanda tu mi abbia chiesto quale sia stato il mio per-corso, perché proprio di percorso si è trattato nel senso stretto del ter-mine. Il percorso per come l’ho voluto vedere implica un movimento, il percorrere una strada o un sentiero, seguire una direzione. A partire da questa riflessione ho iniziato ad occuparmi di pittura e di paesag-gio. Pensandoci bene, mi hai fatto notare che da quando ho iniziato a dipingere, mi sono sempre occupato di elementi che potevo osservare attorno a me. Si trattava di vegetali o animali ma sempre di elementi che facevano parte di luoghi a me vicini. Ho iniziato a pensare al percorso, nel momento in cui ho capito che per conoscere una determinata cosa, mi era necessario poterla vedere, conoscerne la provenienza e poterci girare attorno. Rispetto a questo, posso dirti con sicurezza, che a far “nascere” il mio lavoro, ha contribuito in grande parte il luogo da cui provengo, essendo molto vicino alle montagne e proprio la suggestione per queste mi ha provocato riflessioni sull’importanza di avere un riferi-mento, sia esso spaziale per orientarsi o semplicemente come presenza fisica.

Il paesaggio dunque come riferimento fisico ma anche come dimensione relazionale, luogo di comunanza tra comunità e territorio: in che modo rielabori il tuo “percorso” su tela? Quali luoghi o soggetti del nostro presente destano la tua at-tenzione e perché?

Il paesaggio è per me il luogo in cui succedono le cose, che causa relazioni e reazioni ad esso, e la tela invece è sinonimo di possibilità, spazio dove si costruisce l’immagine per gradi e l’idea iniziale cambia e si evolve. Il lavoro nasce per gradi, non mi piace usare immagini di riferimento da copiare. Spesso le tengo in mano mentre lavoro, come promemoria, ma non le seguo mai. Dopo aver lavorato sulla serie con le montagne ho pensato che il concetto di paesaggio, potesse anche annet-tere quei luoghi ricostruiti dall’immaginario, sia esso comune o perso-nale. La memoria ad esempio è composta di paesaggi non circoscrivibili perché si estendono e si dilatano di continuo. Mi viene in mente anche quel saggio sul Terzo Paesaggio di Gilles Clément in cui l’autore analizza quelle zone residuali di mondo che noi vediamo di continuo che non sono il luogo per eccellenza in cui vor-remmo disporre una coperta per un pic-nic, su cui camminare o recarsi per uno scopo preciso. Quei luoghi spesso risultano essere interessanti perché possiedono, secondo me, quel potenziale che rimane latente e non si esprime mai. Sono vuoti. Sono le isole di traffico, le piazzole di emergenza, lo spazio che divide le corsie dell’autostrada. Pensando a questo ho capito perché mi attraggono così tanto i paesaggi vuoti. In alcuni miei quadri ho rappresentato vasche in cemento che si tro-vavano in luoghi di montagna o nel mezzo di una foresta, che si stagliavano cozzando contro un paesaggio che non era “il loro”. L’attrito che si produce in queste immagini mi piace perché mantiene un senso di sospensione. Rimangono immersi in una atmosfera strana perché sono ambienti inesistenti, così come li ho immaginati quindi non sono nitidi nei particolari.

Cosa intendi quando dici che nella tua ricerca sei pas-sato dalla rappresentazione del paesaggio all’evocazione dell’immaginario paesaggistico?

Da tre anni più o meno sto tenendo una sorta di archivio di frammenti di immagini di varia natura. Li raccolgo mano mano che li trovo in giro e li conservo. I frammenti di solito mi interessano più delle immagini intere, non si sa da dove vengano e cosa componessero. Nell’ultimo periodo, ho cercato un suggerimento da un album di fotografie di famiglia trovato in casa. La cosa che mi ha colpito, sfogliando l’album, è che spesso non riuscivo ad affiancare ad una foto-grafia un’immagine mentale, un ricordo che mi suggerisse cosa era suc-cesso, prima e dopo lo scatto. In casi come avvenimenti importanti, mi tornavano alcuni flash, ma per la maggior parte delle volte mi risultava difficile individuare nella memoria altri particolari che completassero

l’immagine che stavo guardando. Sto parlando di fotografie risalenti agli anni ‘90, quindi al massimo potevo avere nove anni.Questa confusione di tasselli, ha stimolato la mia curiosità a cercare di rintracciare le connessioni tra le immagini presenti nella mia memoria e quelle che fanno parte della mia storia di cui non ho alcun ricordo, così ho deciso di iniziare dai giochi che facevo durante la mia infanzia. Non mi interessa raccontare la mia vita, ma trovo stimolante riuscire a scavare tra le visioni che compongono il mio immaginario cariche di sfu-mature ed influenzate dal mio personale vissuto. Penso all’immaginario come ad un grosso archivio fatto di immagini a loro volta composte di tutto ciò che incontriamo nella vita. Mi piace questa parola perché mi ricorda il planetario, per assonanza più che per significato, ma a dire la verità forse anche per significato dato che l’idea della rappresentazione del mondo è l’insieme di un mare di immagini.Nella mia ricerca i soggetti quindi sono cambiati, ti parlavo dei paesaggi, ma ci sono spesso anche giochi d’infanzia, giostre, spazi che vivevo quando ero bambino. Ad esempio, le due serie di disegni Walking I e Walking II parlano di due percorsi tematici provenienti da periodi diversissimi. Nella prima serie, ho lavorato su soggetti che provenivano da appunti presi camminando, la seconda serie invece parla di un per-corso attraverso la memoria d’infanzia. Infatti ho parlato di uno scivolo gonfiabile su cui non sono mai salito ma che ricordo distintamente per-ché ogni anno prima delle vacanze estive veniva montato vicino a casa mia, di un grande scivolo per il salto con gli sci che avevo visto su una rivista. Ho disegnato uno scivolo da parco giochi su cui era impossibile salire quando c’era il sole perché diventava rovente, ho rappresentato una torre rossa...non credo di averla mai vista dal vivo. Dopo aver rappresentato per tanti anni il paesaggio in quan-to contenitore e potenziale spazio dell’accadere, nelle opere recenti la tua attenzione si è spostata su quegli oggetti o strut-ture che lo abitano.

Nel momento in cui ho spostato l’attenzione dall’osservazione diretta del paesaggio a quella mentale, del ricordo, sono emerse spontanea-mente tutte quelle suggestioni che fanno parte del mio immaginario. Come ti accennavo prima, la serie Walking II, è interamente costituita di queste suggestioni, frutto di un percorso mentale e affiorate alla me-moria per varie ragioni. Ho voluto poi anche realizzare, con un atteg-giamento giocoso/sognante, una serie di oggetti in legno e cartone, una serie di maquette improbabili, con l’intento di riproporre un modellino in scala ridotta di una abitazione, di una casa sull’albero o di un grosso mostro organico su cui si potesse salire e abitare, immaginando però di essere alti 3 cm. Queste Houses # sono diventate una serie che dal 2012 cresce lentamente a formare un paesaggio.

In mostra presenti anche una serie di sculture realizzate attra-verso assemblaggi di materiali posti volutamente in equilibrio precario, vuoi raccontare l’origine di questi interventi?

Questa serie di oggetti che espongo all’interno di un armadio sono il continuum della serie Houses #, sono oggetti realizzati con ma-teriali poveri che sono andato a ricercare e ho portato poi in studio. Qui il mio obbiettivo era quello di cercare una via per mettere in equilibrio tra loro tutte le parti, di modo che andassero a formare un oggetto senza alcuna utilità pratica specifica. È stato un lavoro in cui ho ragionato essenzialmente sui materiali e sulla loro disposizione nello spazio in un equilibrio quasi sempre precario.

Tende, bivacchi o piccoli rifuggi, sono alcune delle immagini che spesso ritornano nella tua ricerca, penso ad esempio a Gli indiani ci stanno cercando 1997 o a Post Party, sala da pranzo 1997, vuoi parlare di questi lavori?

Sempre con l’ottica di inscenare una situazione, ho realizzato questi due dipinti che riportano nel titolo una data. In quel periodo con mio fratello si giocava con cuscini sgabelli, coperte e tutto ciò che potesse servire per realizzare fortini di guerra e bivacchi di montagna dove rifugiarsi e nasconderci, ci si inventava storie su presunti ladri o cattivi da combattere o addirittura, di indiani che ci spiavano. Per realizzare questi due lavori ho costruito due strutture che sono servite da modello e le ho poi dipinte.

Nei tuoi quadri non si trova traccia della figura umana, come se il paesaggio fosse l’unico contenitore della storia e potesse sintetizzare la relazione chiave tra lo stato di natura e le esi-genze umane, è così?

Non ho mai rappresentato la figura umana, ne parzialmente ne per in-tero. Non mi è mai interessato. Sinceramente lo trovo molto difficile; la figura umana ha per eccellenza una valenza molto forte, da tutti i punti di vista. Non mi è mai interessato indagare il corpo perché non la potrei rappresentare se non utilizzando dei modelli o degli studi ap-profonditi tramite fotografie. In realtà nei miei lavori non si trovano figure ma, soprattutto nell’ultimi più recenti, la presenza dell’uomo si può percepire. Si capisce che qualcuno è stato presente in quel posto, prima che io lo rappresentassi. In effetti non ho mai provato a fermare un avvenimento particolare, servendomi di soggetti umani, lo farei solo entrando in un ambito simbolista probabilmente. Non mi interessa ribadire con un dipinto, lo svolgersi di un’azione perché tutte le im-magini che possiamo trovare ogni qual volta ci muoviamo o chiudiamo gli occhi, sono piene di persone che fanno qualcosa. Mi interessa in-vece portare l’attenzione su alcuni elementi che hanno caratterizzato un momento, alcuni oggetti che possano evocarlo senza una descrizione. Quando funziona, è come se la chiave avesse aperto la porta giusta. Chi osserva il lavoro inizia ad associare all’immagine ad esperienze per-sonali e inizia a ricordare. Il dipinto ha solo dato il via a questo processo, tutte le altre immagini che ne conseguono le crea chi osserva.

Secondo te, possiamo pensare al processo pittorico come a un percorso di scoperta del mondo che ci permette di interio-rizzare e ripensare ciò che ci è conosciuto? Oppure? In altri termini tu come lo definiresti?

Senza ombra di dubbio. Qualche tempo fa mi è capitato per le mani un libro di Barthes sulla cultura giapponese. Lui faceva un excursus delle esperienze fatte in Giappone e ne analizzava la forma. Una delle parti che mi ha colpito raccontava di come in Giappone soprattutto nella capitale, non sia facile orientarsi per le vie perché non esistono indica-zioni come da noi. Per far fronte a questo problema B, ogni qualvolta cercasse un luogo chiedeva indicazioni ai passanti. La prima cosa che questi facevano era un disegno. Disegnavano le piantine dall’alto della zona in cui si trovavano e davano indicazioni prendendo come riferi-mento le facciate delle case, il loro colore, gli alberi... capitava però che nel momento in cui si stava costruendo il disegno, l’autore iniziasse ad avere ripensamenti, quindi cancellava rifaceva, cambiava la curvatura delle strade, aggiungeva particolari. Insomma, alla fine stavano pren-dendo coscienza di ciò che già conoscevano. Credo che un’esperienza ancora più forte la si abbia nel momento in cui ci si fa un autoritratto. La storia dell’arte è piena di artisti, che hanno fondato tutta la loro carriera artistica su questo, e non è stato altro che un continuo mettere a confronto la percezione interna della loro immagine personale, che credevano di avere, con quella reale con la quale alla fine tutti facciamo i conti. Questo è il sistema più efficace per mostrare come la pittura sia un processo di scoperta del mondo che ci consente di capire veramente ciò che crediamo di conoscere. Nel mio caso, soprattutto nel lavoro degli ultimi due anni, la pittura ha svolto un ruolo di vero scandaglio delle cose che conosco. Ho utilizzato la pittura e il disegno in modo ancor più diretto, proprio con lo scopo di capire quali fossero i legami tra le immagini che uscivano nel disegno prima e quindi nella pittura. Questo mi ha dato la possibilità di poter prendere del tempo per pensare e analizzare formalmente dei ricordi vaghi che a volte non sono facili da catalogare nella cronologia della memoria.

UNA CON- VERSAZIONE TRA EUGENIA DELFINIE ANDREA GROTTO

_Andrea Grotto nasce nel 1989 a Schio. Nel 2014 consegue il Diploma in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e nel 2013, con il progetto How we Dwell (M. Gobbi, A. Grotto, C. Menchini, A. Valeri), è tra gli assegnatari di un atelier della Fondazione Bevilacqua la Masa di Ven-ezia. Quest’anno ha vinto uno dei tre premi speciali under 35 del Premio Combat.