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Nèura Magazine Numero 0 L’arte dove non te l’aspe Nèurastenie Gli appuntamen della semana 27/9 -4/10 “Fiato d’arsta” Nero sensibile ad Albissola Marina Il festival di Armando Punzo a Volterra Eunomia Manifesta 2012 Dolomi Contemporanee Logo ©Cristiano Baricelli 27 settembre 2012 Non È Una Rivista d’Arte

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L'arte dove non te l'aspetti

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Nèura Magazine Numero 0

L’arte dove non te l’aspetti

Nèurastenie

Gli appuntamenti della settimana 27/9 -4/10

“Fiato d’artista”

Nero sensibile ad Albissola MarinaIl festival di Armando Punzo a Volterra

Eunomia

Manifesta 2012Dolomiti Contemporanee

Logo ©Cristiano Baricelli

27 settembre 2012Non È Una Rivista d’Arte

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Logo in copertina e a pagina 3: ©Cristiano Baricelli, Ictus, 2005

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Editoriale

Ogni storia ha un inizio. Bene, la nostra parte dalla fine. Siamo quattro giovani grafomani che si sono conosciuti nella redazione web di una rivista d’arte e che hanno deciso di costruire qualcosa in-sieme, di gettare un punto di vista, proprio, in mezzo a tanti. Punto.

Allo stesso modo, pezzo dopo pezzo – ognuno proveniente da una testa diversa –, siamo riusciti a dare vita a Nèura, un progetto che si mostra da solo, o quasi. Ecco il perché delle presentazioni ufficiali.

Il nome viene da Silvia e vuole essere meno complicato di quanto possa sembrare. Il primo criterio di scelta si è basato sull’esclusio-ne della parola ‘arte’, con l’intento di darle (solo apparentemente) meno importanza, relegandola al sottotitolo. Il secondo punta il dito su un acronimo, che si scioglie con ‘Non È Una Rivista d’Ar-te’: il richiamo è un omaggio al celebre Ceci n’est pas une pipe di Magritte e quindi a una contraddizione in termini.

Infine, nel complesso, il termine Nèura intende riappropriarsi dell’ambito cognitivo, dell’amore per la riflessione e per il commen-to critico – fatto dunque con ragione di causa.

A un messaggio di questo tipo non poteva che affiancarsi, in sim-biosi perfetta, un’immagine raffigurante una testa. La scelta icono-grafica gioca una parte importante nella riconoscibilità della testata,

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ne siamo ben consci. Così, Anna ha pensato di contattare l’ottimo artista genovese Cristiano Baricelli, che ci ha gentilmente concesso di utilizzare una delle sue opere, Ictus, un lavoro che sembra costru-ito ad hoc per la nostra rivista: visionario, surreale e al tempo stesso estremamente realistico. Il risultato è un logo che fa breccia in chi ama l’arte, o almeno così ci pare.

Restava da definire il campo della riflessione. Di riviste ce ne sono tante. Tutte parlano di tutto. I generi si contaminano, le geografie si complicano, gli artisti si fanno nomadi, eretici, avventurieri. Noi volevamo essere diversi. Una classificazione, al giorno d’oggi, suona sterile, azzardata, inutilmente erudita. È lecita dopo, non prima. Per questo Roberto ha pensato di uscire dalle griglie della necrosco-pia, concentrandosi sulle rappresentazioni contemporanee dell’arte. Che sono due, essenzialmente: le politiche e le estetiche. Senza di-menticare il servizio ai lettori, naturalmente.

Ed ecco, allora, le tre sezioni in cui è articolata Nèura.Nèura è FIATO D’ARTISTA, l’estetica raccontata, le interviste agli

artisti, le recensioni alle mostre e agli eventi. Il titolo di questa sezione è un eufemismo che alle provocazioni di uno dei protagonisti dell’arte contemporanea, Piero Manzoni. Nèura legge, ascolta, vive l’arte e si sintonizza sulle frequenze della contemporaneità per dare fiato - ap-punto - alla creatività che gira intorno a noi.

Nèura è una panoramica sulle iniziative a livello istituzionale, le problematiche, le novità, gli interventi degli addetti ai lavori, ma soprattutto su come ci piacerebbe fosse la ‘pratica’ dell’arte. A tutto questo è dedicata la sezione EUNOMIA, che – Sonia cercava una parola antica ma non pesante, musicale ma autorevole - vuole essere un auspicio al buon governo dell’arte.

Nèura è NÈURASTENIE, ovvero le news – a cadenza settima-nale – sull’arte intorno a noi, i vernissage meno frequentati o i più frequentati, gli appuntamenti creativi da non perdere, le mostre e gli eventi scelti attraverso un #hashtag, un tema che cambierà per ogni uscita del magazine, uno sguardo in picchiata dallo smart della provincia al big della metropoli.

Vorremmo diventare una voce e tante teste. Metteteci la vostra. Noi siamo fuori, ogni giovedì.

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Indice - Numero 0

Editoriale

Eunomia - Manifesta 9. Una miniera per l’arte

contemporanea

“Fiato d’artista” - Le ceramiche crossover di Silvia

Calcagno

Eunomia - Dalle tragedie nascono i fior. Intervista con

Gianluca D’Incà Levis

“Fiato d’artista” - Il ritorno del teatro di piazza

Nèurastenie - Public Art

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Eunomia - Manifesta 9. Una miniera per l’arte contemporanea

Silvia Colombo

Manifesta 2012, nona edizione ormai agli sgoccioli della biennale internazionale itinerante è stata – nonostante le critiche – una delle sorprese espositive di quest’anno, a partire dalla scelta della loca-tion: Genk, un piccolo centro del Belgio di cultura fiamminga, non lontano da Maastricht, eppure così distante…

Per chi non avesse avuto l’onore di provare l’esperienza sulla propria pelle, si tratta di un itinerario più affine al pellegrinaggio old style, in-triso di quell’aura benjaminiana ormai così rara, ma utile a rendere la mostra una vera conquista. Partenza da Maastricht su un autobus locale di rada frequenza che attraversa quel lembo di campagna verdeggiante al confine tra l’Olanda e il Belgio. Si arriva a Genk, dove le indicazioni sembrano latitare: c’è chi non parla inglese e chi ignora l’esistenza dell’e-vento. Persino il centro informazioni sembra tentennare.

Tappeti per la preghiera (1950-1960), collezione privata, Belgio.Credit Silvia Colombo

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Persa per un soffio la coincidenza locale, non resta altro che masti-care, a piedi, sei chilometri lungo l’ordinaria e inquietante periferia, dove tutto è troppo preciso e silenzioso. Infine, la miniera di carbone Waterschei, imponente struttura industriale risalente ai primi decen-ni del Novecento, oggi in stato d’abbandono, sede della manifesta-zione dal titolo The Deep of the Modern, si palesa come un miraggio.

La mostra, fitto gioco di sguardi tra le opere d’arte e il luogo ospitan-te, ma anche cassa di risonanza della vocazione territoriale (il Belgio del lavoro, centro operaio e meta di forti immigrazioni dal continente durante il periodo dell’industrializzazione) è organizzata sul delicato rapporto che si insinua tra la storia/memoria e il presente/creazione.

La struttura ospitante, risistemata solo in corrispondenza della facciata principale, è lasciata così, nuda e decadente, di fronte al giudizio del visitatore che, aggirandosi per la mostra, sente ancora addosso e nel proprio respiro quel vago sentore di carbone, proprio di tante passate giornate di lavoro. La ‘profondità del moderno’ insi-ste quindi, metaforicamente, sull’azione dello ‘scavare’ dell’operaio, ma anche sulla sensibilità dell’operatore artistico, che si avvicina all’osservatore suscitando reazioni, domande e curiosità.

Gli ampi spazi fanno correre lo sguardo lontano, le lacune lasciate

Claire Fontaine, La casa della cultura energetica (2012). Credit Silvia Colombo

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dal cemento armato degradato e i pavimenti, di tanto in tanto vena-ti dai binari utili al trasporto del carbone, sono il ‘dietro le quinte’ di un’esposizione che poggia su tre sezioni principali. La prima ci fa entrare prepotentemente nella quotidianità del lavoratore attraverso l’esposizione di libretti di lavoro catalogati, tappeti per la preghiera appartenenti alla prima generazione di turchi immigrati e canzoni da lavoro rimaneggiate (si aggiunge una tonnellata in più alle 16 tons del motivetto originale). Squarcio storico amplificato dalla visita al preesistente museo della miniera, dove in modo semplice e didattico sono ricreati i diversi ambienti della ‘catena produttiva del carbone’.

La seconda (The Age of Coal: An Underground History of the Mo-dern) è un omaggio all’arte contemporanea più ‘storicizzata’, datata tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del XXI secolo, ed è un turbinio di riconoscimenti e ritorni. Tra i più apprezzati, la riproposizione dell’al-lestimento che Marcel Duchamp aveva progettato per l’Esposizione Internazionale del Surrealismo (Parigi, 1938) – sacchi appesi e in-combenti sopra le teste dei visitatori – e l’installazione Les régistres du Grand-Hornu (1997) di Boltanski, un monumento in ricordo di tutti

Ni Haifeng, Para-production (2008-2012). Credit Silvia Colombo

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i minatori, dove le luci flebili sui volti fotografati sono le stesse che hanno accompagnato le vite in ombra degli operai. Infine, l’ultimo piano accoglie lavori più recenti: da chi, come il fotografo Burtynsky, ha deciso di concentrarsi su scene corali ambientate in Cina, fino a un’artista come Claire Fontaine che – affrontando il tema della ‘tra-gedia energetica’ – rielabora la scritta al neon del centro culturale sito nel paese di provenienza dei lavoratori di Chernobyl.

Tripudio di colori, dimensioni e materiali, trionfa – imponendosi a doppia altezza – l’opera Para-production (2008-2012) del cinese Ni Haifeng, un lenzuolo realizzato da piccole pezze di tessuto di scarto, un work in progress a cui contribuisce lo stesso fruitore met-tendo mano a filo e macchina da cucire. Quando il nero non è più come il carbone, ma come il tessuto che, accantonato, riprende vita.

In sintesi, se Manifesta 9 si configura più come una mostra te-matica che come risposta diversificata a una domanda, rappresenta un tentativo ben riuscito di riuso temporaneo di un edificio ormai in decadenza. Quindi si può parlare certamente di valorizzazione dell’archeologia industriale locale, ma anche di avvicinamento e conoscenza della storia, della memoria di un luogo – e, per esten-sione, di un territorio.

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“Fiato d’artista” - Le ceramiche crossover di Silvia Calcagno

Sonia Cosco

[osses’sjo:ne] s.f. l’oggetto rappresentato in sé (un’attesa, una ferita), la sua morbosità, la sua iterazione

e i procedimenti variabili che ne generano il trattamento estetico

Silvia CalcagnoAA VV Dizionèuro 2012

Silvia Calcagno. Credit: Luigi Cerati

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Materia incandescente la ceramica di Albissola Marina (siamo in provincia di Savona) lo è sempre stata, nella fucina creativa di maestri come Fontana, Asger Jorn, Agenore Fabbri. Il classi-co e apollineo stile bianco e blu si sporca, ora più che mai, di dionisiache inquietudini con le opere dell’artista Silvia Calca-gno, classe 1974, genovese di nascita, albisolese d’adozione. È qui che vive e lavora e per incontrare la sua ceramica instabile bisogna andare off. In tutti i sensi. Off come la ‘Off Gallery’, spazio espositivo e laboratorio in via Repetto, off limits come i confini che oltrepassa con le sue sculture eteree e pulsanti, feroci e dolcissime come le poesie di Alda Merini. NeroSensibile è la mostra (curata dal critico Luca Beatrice) che - dal 4 agosto al 30 settembre 2012 - ha smosso i fondali artistici della stagione estiva ligure 2012, tra le pietre dello storico Pozzo Garitta con le installazioni della Calcagno in cui fotografia, video e ceramica si sono incontrati e hanno raccontato al pubblico storie di osses-sioni, solitudini, corpi di Ofelie postmoderne. Ecco il crossover, ecco gli scontri.

Ilaria (la prima installazione) la incontri appena entri nella penombra dello studio di Lucio Fontana, per noi si è scomposta in 400 moduli su ceramica cotta a 1250° che hanno rivestito le pareti, è sdraiata, le braccia sul petto, una “dialettica della diversità nell’identità” l’ha definita l’artista. Fotogrammi di una pellicola cinematografica, i moduli dell’installazione compongo-no le sequenze di un film dove il movimento è illusione come in un paradosso zenoniano; la trama misteriosa si frantuma sulle tre pareti finché non inciampiamo nell’ “anello che non tiene” della poesia I Limoni di Eugenio Montale, un tassello mancante dove la microproiezione Attesa ipnotizza lo spettatore con un video enigmatico.

Della fanciulla che siede di fronte a una sedia vuota e parla senza farsi capire non sappiamo il nome, ma la coordinata tempora-le Giovedì dà il titolo ai 711 moduli su ceramica della seconda installazione. Vorremmo confortare la fanciulla, ma l’unica cosa che possiamo fare è indossare delle cuffie e ascoltare le sue parole confuse, senza senso.

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Silvia Calcagno, credit: Luigi Cerati

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NeroSensibile è il titolo della mostra. Perché nero? Perché sensibile?

Il nero evoca il buio insonne, l’impossibilità del tangibile, al-ternata all’abilità nel generare visioni. Sensibile come sensibile alla luce, sensibile come offerta letterale di queste opere ai sensi del mio pubblico.

Luca Beatrice, in occasione dell’anteprima in cui ha presenta-to la tua mostra, ha sottolineato come il tuo modo di fare cera-mica sia originale, intenso, interattivo. Quando hai deciso che la tecnica tradizionale avrebbe cominciato a dialogare con i video, i suoni, le immagini?

Quando mi sono resa conto che, in circostanze particolari, non potevo fare a meno di concepire la ceramica senza farla immediata-mente dialogare con altri linguaggi e altre modalità espressive.

La tua mostra ha avuto un grande successo, al punto che avete deciso di prorogarla fino alla fine di settembre. Come ha rispo-sto il pubblico?

Mi ha colpito l’attenzione con cui molte persone hanno osservato a lungo le mie installazioni, con una disposizione che non saprei definire se non in termini di fidente partecipazione.

Nel tuo video LIPS, una bocca beckettiana non sa che espri-mere l’inesprimibile...

La bocca rappresenta al tempo stesso l’identità e la sua falsi-ficazione (mi riferisco in particolare all’ossessivo alternarsi del darsi accuratamente e del togliersi furiosamente il rossetto); l’ac-cettazione e il rifiuto di sé; la voracità dei sentimenti che riman-gono in potenza.

La protagonista delle installazioni sei tu, rimandando a una pratica del lavoro sul sé – fisico e mentale – di molte grandi arti-sti contemporanee (una su tutte Francesca Woodman). Da quale percorso culturale e artistico attingi la tua ispirazione?

Il mio lavoro si colloca nella tradizione di quelle artiste che, come la citata Francesca Woodman o come Gina Pane, hanno fatto del

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proprio corpo (visibile ed invisibile) un testo, un sistema non solo performativo ma anche retorico di segni.

Sei reduce da diversi successi: la 54° Biennale di Venezia e la Bacc 2012. Ci racconti queste esperienze?

Pur nella sua caoticità, l’esperienza della Biennale è stata fon-damentale perché, costringendomi a misurarmi con un evento molto più impegnativo e importante dei precedenti ha accre-sciuto la consapevolezza dei miei mezzi. Quanto al Bacc, si trat-ta di un’esperienza preziosa che mi ha consentito di entrare in relazione con diversi colleghi legati al linguaggio della ceramica contemporanea.

Quanto è importante per un giovane artista che i propri me-riti vengano riconosciuti anche a livello ufficiale e quali sono i tuoi nuovi progetti?

È certamente molto importante. Attualmente sto curando ulte-riori esposizioni delle mie ultime opere (Londra, Padova, Torino), contemporaneamente sto progettando nuovi lavori nello spirito di una continua sperimentazione.

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Eunomia - Dalle tragedie nascono i fior. Intervista con Gianluca D’Incà Levis

Anna Castellari

Un’ex scuola elementare, distrutta dall’onda del Vajont di quar-antanove anni fa. Un sindaco illuminato (quello di Erto e Cas-so). E un curatore che non guarda in faccia nessuno, vuole spin-gere l’arte tra le braccia dell’imprenditoria e pensare al futuro. È Gianluca D’Incà Levis, direttore artistico di Dolomiti Contem-poranee, che siamo andati a conoscere in occasione dell’inaugu-razione dello spazio di Casso (Pordenone). La mostra Bilico a fare da sfondo, in un paesaggio in bilico esso stesso.

Com’è nato, in origine, l’intero progetto Dolomiti Contem-poranee?

La scuola elementare di Casso, dopo il restauro. Sono stati mantenuti gli sfregi derivanti dall’onda del Vajont (Credit Anna Castellari)

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Dovrei risponderti in termini empatici e personali, ma il proget-to è nato nel 2011, il primo evento a curriculum è la stazione che abbiamo riaperto, Sass Muss. A me interessano alcune cose tra cui le Dolomiti, che possono sembrare l’elemento centrale, ma non lo sono. Due anni fa sono diventate patrimonio dell’umanità (credo che ci siano molti patrimoni sepolti) e quando l’ho saputo, ho guar-dato se ci fossero dei progetti in grado di lavorare su di esso con un senso. Un criterio ideativo, non una cartolina: e ho visto che non c’era niente. A me, personalmente, interessa molto la mon-tagna perché la pratico. Mi disturba perché è uno spazio retorico. Non esistono grandi libri sulla montagna, non c’è un Moby Dick della montagna, né contenuti e attività culturali serie su di essa. Ci sono strenne, tizi che scrivono libri sulla marmotta o sulla martora o l’elfo nel bosco che comunque mettono davanti una posizione ideologica rispetto a quella estetica. Se voglio leggere di montagna, sono costretto a prendere la relazione di un alpinista.

Credo che la montagna venga declinata malamente, per stereo-tipi. L’anno scorso ho pensato di fare Dolomiti Contemporanee – Laboratorio di Arti visive in ambiente, non perché volevo avere un atteggiamento contemplativo nei confronti di questo spettacolare ambiente. Era anche perché ero stanco dei cliché. I termini in cui si ragiona, che interessano a me, sono sperimentali.

E quindi, qua si inserisce un po’ il recupero di alcune aree...Questa è una visione molto generale. Non m’interessa l’archeolo-

gia industriale: m’interessa tutto il contenuto potenziale inespres-so. Ci sono aree chiuse, fabbriche di cui è stata decretata la morte: luoghi dove i piani industriali e il sistema produttivo hanno fallito – hanno provato a riavviarli e non ci sono riusciti. E m’interessa molto dire che l’arte, considerata spesso un luogo di inetti, lo spa-zio dei non-pragmatici, è capace di dare input pragmatici. L’arte è utile dal mio punto di vista quando non scrivi una strenna, non fai un ragionamento neoromantico sull’ambiente e la natura, o prendi una fabbrica che hanno provato ad aprire ma non ci sono riusciti, e la apri con un macrobudget. Io non ho budget, ma cento soggetti patrocinatori e sponsorizzatori. Il mio discorso parte dalla velleità di attivare un progetto culturale aperto rispetto a questo contenuto

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Ericailcane writer sulla pietra viva di Casso. Credit Anna Castellari

particolare, la montagna, attualmente in crisi perché non ci sono persone che lo imbracciano con forza e ferocia in termini intellet-tuali. I mezzi sono le idee, non il bilancio.

Ripeto, al centro dei miei pensieri ci sono i potenziali inespressi. L’anno scorso siamo andati a Sass Muss, c’era un borgo industriale chiuso da vent’anni e impossibile da restaurare. Senza budget, con ottanta soli sponsor siamo riusciti a mettere in piedi un’attività molto forte, e ci hanno visti tutti. Quando sono andato via, gli edifici sono stati affittati, e non per attività artistiche, culturali, curatoriali: erano fermi da vent’anni. Quest’anno ho fatto lo stesso a Taibon: ho trovato un abaco, spazi con potenzialità forte dal punto di vista espositivo. Ho costruito una grande architettura di rete, di soggetti pubblici e privati: tutti partner importanti, che mi consentono di lavorare pur non avendo il budget sufficiente. L’operazione Sass Muss costa due-centocinquantamila euro – io ne ho solo ottantamila, come faccio? Trovo contatti, innesto relazioni, pago i costi grazie a questi legami.

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E in tale contesto, come si inserisce la scelta di questo luogo?Questo è diverso. Siccome ho dimostrato di saper lavorare, (Sass

Muss ha funzionato, Taibon sta funzionando), un’amministrazione comunale, con un sindaco ‘sperimentale’ ha deciso che uno come me andava bene. Sono stato reclutato in quanto rivitalizzatore di cimiteri.

Quindi, ti hanno cercato loro...Ho conosciuto questa amministrazione, il sindaco ha visto come

ho lavorato sui siti depressi, Lui aveva in carico questo luogo, che è pazzesco, perché qui c’è Vajont, con tutta la memoria di quaranta-nove anni fa, una grande onda che ha ucciso tutti, quelle duemila persone. E poi ha continuato a uccidere tutti: questo è un evento talmente grave e incommensurabile che tutti quelli che sono nati e vissuti dopo non sono riusciti a liberarsi da questo fantasma. Non è la memoria del lutto, è proprio una specie di sudario, che grava sui vivi. Quindi, quest’area, che da un lato ha molti finanziamenti a causa di questo evento (e di conseguenza un interesse mediati-co e politico), è completamente chiusa dal punto di vista ideativo: non si pensa a un domani, perché impera ieri. A me interessano i contesti fermi, proprio perché combatto quest’idea di inerzia. In sostanza, credo che, si tratti di una fabbrica a Taibon o di un com-plesso industriale a Sass Muss, il discorso è sempre lo stesso: è una posizione di antagonismo culturale rispetto a una logica dell’inerzia o dell’inedia, di un luogo a cui è stata decretata anzitempo la morte. Prima, vediamo se la cultura, in particolare l’arte, e nel mio caso l’arte contemporanea, è funzionale o se è una puttanata di gente che non sa lavorare.

L’anno prossimo è il cinquantennale del Vajont: nel ‘63 c’è stata la prima onda di piena, che è venuta giù e ha danneggiato questo edificio. È stato chiuso. Poi, è ridiscesa a valle, e ha fatto duemila morti. L’anno prossimo per il cinquantennale arriva la seconda on-data di piena: quella della retorica celebrativa del puro lutto, fine a se stesso. Non è l’atteggiamento di un irrispettoso nei confronti del dolore: è il discorso di una persona che non ammette che l’unico ragionamento rispetto a un contesto di morte sia la morte stessa.

L’anno scorso sono andato dai sindaci di qui, e ho detto loro che sono quarantott’anni che celebrano il lutto. Ho detto basta. Avete

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la diga? Datemela, la dipingiamo. Ho chiamato cinque writer del mondo, e la diga da lapide diventa un’opzione vitale.

Mi hanno chiesto se ero scemo. Ho continuato a lavorare. Questa non è la testa di ponte per lavorare sulla diga, però è sicuramente un dispositivo che voglio attivo, creativo, dispositivo, per dire che in un luogo così difficile, critico, delicato, non solo è auspicabile, ma è necessario portare questa opzione vitale. La cultura è vita, tutto qua. Non è, come pensano alcuni industriali del nord est, una caga-ta perché la gente non sa lavorare. Non è vero neanche il contrario, quello che pensano alcuni operatori culturali: che l’industriale del nord est è una capra, e quindi lui, in antagonismo, fa la cultura. Non è così, io lavoro con l’imprenditore del nord est, non mi danno soldi ma lavorazioni, materiali, attenzione, assistenza. E con loro io costruisco le opere degli artisti.

Invece, in questo contesto specifico, il rapporto tra gli artisti che hai scelto e il territorio qual è?

Non devono essere delle Dolomiti, ma devono venire nelle Dolo-miti. Devono generare contenuti che escono da queste montagne, che ti propongono dei potenziali, per tema e per soggetto, concetto. Una montagna è verticale, se hai voglia di andare in cima devi com-piere un’esplorazione che è una ricerca. Questa mostra si intitola Bilico, perché questo luogo è in bilico, tra un passato che ammazza e un futuro che non si sa dov’è. Io penso di avere un’idea: ovvero che il futuro non è nel passato. Che bisogna costruire una macchi-na con progetti, questo spazio è uno spazio che deve essere vitale. Gli artisti non sono degli stronzi che fanno un’opera, sono perso-ne intelligenti, senzienti e sensibili, che vengono qua, vedono tutto subito e hanno voglia di dire la loro. Se li porti in un contesto del genere, diciamo, “vanno fuori di testa”, non vedono l’ora di insemi-nare. Devo confinarli nello spazio di mostra. Nessuno di loro voleva mettere un’opera in mostra, volevano tutti andare là o là, tra la diga e la frana. In generale, questa mostra ha la sua fisionomia. C’è un concetto particolare, ludico, che deriva da questa storia che ti dice-vo. Passato, presente, futuro, dalla geografia, tra Veneto e Friuli. Dal fatto che questo edificio è molto configurato architettonicamente: è stereometrico, ma poi c’è quella passerella che crea un disequilibrio.

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Il titolo è uscito da una conversazione con Denis Viva, il nuovo curatore del MART di Rovereto. L’altro bilico cui ti stavo accennan-do è questo: Casso, come me, è nella diocesi di Belluno, Erto, come Viva, nella diocesi di Pordenone. Per questo l’ho cercato due mesi fa. Perché questo luogo è sullo stesso crinale, anche a livello territoriale, Veneto-Friuli. Ho cercato di fare subito una mostra con un curatore friulano. Qua c’erano rappresentanti regionali di entrambe le regioni. A me interessa dire dove sono, che voglio lavorare in Veneto ma anche qui, in questo bilico, che apre il confine, non lo chiude.

Gli artisti che ho portato a Casso li avevo portati a Taibon, dove ho una residenza. Il fulcro del progetto DC è la residenza, ovvero il concetto che non voglio arredare uno spazio con delle opere, ma invitare degli artisti che sono invitati a vivere in uno spazio e a in-tenderlo. A Taibon ora la Bevilacqua La Masa sta facendo una mo-stra in cui gli artisti in residenza alla galleria veneziana fanno foto, video, interviste ai residenti del paese. Questa è l’unica modalità intelligente dell’arte: un sonar, un rilevatore. L’obiettivo è ottenere un’immagine nuova e interessante per la montagna, anche in questo luogo, una vera e propria tomba, per cui sono inviso per ora a parte dei locali di questa vallata, in quanto “guerrafondaio”. Ma loro sono seppelliti, e io non sono un pastore d’anime. Sono una persona che sente come nociva la staticità, e quindi voglio dire che qua non bi-sogna solo celebrare la morte, ma portare cose nuove.

Forse è dovuto un po’ al tuo modo di porti...Ma io devo andare veloce, perché non ho budget, perché è la mia

modalità intellettuale, perché devo dire alle persone di svegliarsi. Non è che io non rispetti la morte: mia nonna è morta nel Vajont. Non sono uno che non sa, ma che non accetta la situazione così com’è.

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“Fiato d’artista” - Il ritorno del teatro di piazza

Roberto Rizzente

Grecia, V secolo a.c. Con le sue storie, radicate in un mito condi-viso, nel presente sacralizzato della festa, il teatro giustifica il senso di appartenenza della comunità alla polis. Passano i secoli, è la volta del Rinascimento. Tra palco e platea si erige una barriera. L’espe-rienza teatrale slitta nel feriale. La tragedia prima, la commedia poi, diventano un genere letterario per il diporto di un’élite. Il revival del teatro di piazza, che ha caratterizzato l’estate festivaliera 2012, segna un’inversione di tendenza. Il teatro torna a farsi interprete e garante dell’unità della polis. Porta alla luce, mettendolo a nudo, un patrimonio condiviso di conoscenze, sapori, passioni. Non è cosa da poco. Il cittadino partecipa alla costruzione attiva della socie-tas in cui è inserito. La realtà irrompe sul palcoscenico. Mai come quest’anno si è avvertita, in teatro, l’urgenza di fare, di dire.

Il caso di Santarcangelo di Romagna (Rimini) è esemplare. Non solo per la scelta coraggiosa di portare in piazza, con ingresso

Armando Punzo - Mercuzio non vuole morire, Credit Carlo Gattai

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gratuito, spettacoli pure complessi come Give me money, give me sex_What the hell is happiness? di Codice Ivan, I topi lasciano la nave (Yes Sir, I can Boogie) di Zapruder filmmakersgroup e Karamazov di César Brie (quest’ultimo estremizzato nei suoi aspetti più ludici e spettacolari, come una telenovela ante litteram), ma per la poetica di certi spettacoli che, nel solco della tradizione scavata dai Rimi-ni Protokoll e i Gob Squad, pescano a piene mani nella realtà per restituirla tout court sul palco, senza il filtro della mediazione atto-riale. Così è stato per Ads di Richard Maxwell dei New York City Players, tappa conclusiva di un più ampio progetto che chiama a rapporto persone di ogni età, razza e classe sociale per interrogarle sulle proprie personali credenze, esplicitate pubblicamente di fronte ai concittadini.

Significativo anche il ‘fenomeno’ Monticchiello (Siena). Quella del Teatro Povero è una tradizione decennale: già prima del 1967, gli abitanti erano soliti scandire la vita del paese con feste e momenti ricreativi. Tanto che Mario Guidotti, inventando l’autodramma, non farà che sviluppare il modello in formule teatralmente più raffinate, come dimostra Palla avvelenata, lo spettacolo di quest’anno, diretto

Progetto Mercuzio - Volterra - Credit Pier Nello Manoni

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da Andrea Cresti. Meno blasonata di Monticchello, Modica (Ra-gusa) si è inventata invece, grazie alla Galleria LaveronicaArte Con-temporanea e Marco Scotini, un modus operandi nuovo, fondendo le processioni sacre con il teatro dei pupi, il teatro classico greco, lo screening-program, i comizi politici, le conferenze performative e le coreografie tradizionali in una macro-performance di 24 ore (I Vespri. Civic Forum in five acts), distribuita in luoghi topici della città. La fonte sono qui i Vespri siciliani di Verdi nella personalissima rilettura dei cittadini e di dieci artisti-performer internazionali, provenienti da Libano, Israele, Egitto, Libia, Croazia, Grecia, Cipro e Francia.

Ma il caso che più ha destato scalpore è certo Mercuzio non vuo-le morire a Volterra (Pisa). Mercuzio vale qui come metafora. La sua morte è il casus belli tra i Montecchi e i Capuleti. I giovani muoiono, i vecchi sopravvivono. In senso traslato, il mondo uccide la cultura. Ma se Mercuzio si rifiuta di morire, allora la cultura è salva, e con essa la speranza in un futuro migliore. Armando Punzo ha preso qui lo spettacolo dello scorso anno della Compagnia della Fortezza e ne ha fatto il leit motiv di una gigantesca orchestrazione per bambini, clown, giocolieri, detenuti, mimi, cittadini, attori e artisti di strada, portandolo fuori dal carcere per invadere Volterra e i comuni limitrofi di Pomarance e Montecatini Val di Cecina. Il canovaccio si snoda in una sequela d’immagini di grande impatto visivo, supportato da mille altri eventi collaterali, dalle Giuliette ad-dormentate alle mani insanguinate protese in cielo, dai versi degli autori impressi sul corpo degli astanti alle valigie in viaggio, piene di tutte le lacrime versate. Fino alla festa, la Mercuzio Night. Che è un po’ la festa di tutti, attori e non attori, uomini liberi e non. Il segnale è forte, la partecipazione della comunità copiosa e appassio-nata. C’è della retorica, certo. Ma non importa. I greci lo avrebbero apprezzato.

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L’evento

Where is the Time? accade quando una fabbrica di materiali iso-lanti Izolyatsia, non più in produzione e con grandi magazzini vuo-ti, smette di vivere come industria e rinasce come villaggio creativo, grazie all’intervento di Luba Michailova (figlio di quello che era stato direttore della fabbrica per oltre 30 anni) che ha istituto nel 2010 il progetto Izolyatsia, per riconvertire e ripopolare la zona con il coinvolgimento di artisti internazionali. Dal 2009 a oggi sono state numerose le attività espositive e curatoriali, l’ultima delle quali è Where is the Time? progetto ideato da Luba Michailova e Galleria Continua, al quale hanno collaborato con opere permanenti e si-te-specific artisti del calibro di Kader Attia, Daniel Buren, Leandro Erlich, Moataz Nasr, Hans Op de Beeck e Pascale Marthine Tayou.

L’evento

Seconda fase DC NEXT a Taibon. Da due mesi o poco più, l’ex fabbrica Visibilia è insediata da nuovi abitanti e da molti viandan-ti. Fulcro di questa ripopolazione è la Residenza di oltre 20 arti-sti che hanno vissuto e lavorato negli spazi rifunzionalizzati della fabbrica, realizzando buona parte delle opere delle 7 mostre che prenderanno il via sabato 22 settembre. Il secondo ciclo espositi-vo è quindi una sorta di affresco, di macroritratto, per parti, per singoli elementi incrociati, che sono i progetti e le opere, di questo

Nèurastenie - #Public Art

Sonia Cosco

Info e contatti

www.izolyatsia.org

Dove e quando

Donetsk, UcrainaDa giovedì a domenicaOrari: dalle 10 alle 18

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L’arte dove non te l’aspetti

contesto-spazio-ambiente incontrato, conosciuto, vissuto, nati da collaborazioni di DC con diverse realtà: la Fondazione Bevilacqua La Masa, Forte Marghera/Parco del Contemporaneo e, ancora, col-laboratori e gallerie che hanno consentito ai propri artisti di operarein modo sciolto, interpretando lo spirito del progetto e del conte-sto culturale di DC. Ogni mostra è il frutto di un progetto indi-pendente che ha preso stimoli dal territorio, dalle relazioni, dalle connessioni.

L’evento

OrbicularNebulosae è un evento di Public Art all’interno della suggestiva cornice del Castello Carlo V di Lecce, che vuole espri-mere in chiave sonoro-visivo-interattiva due concetti: orbicolare e nebulosa e parlare di interazioni tra cose e persone. Dall’idea di Raf-faele Quida, artista concettuale, e Guglielmo Greco Piccolo,art di-rector e intercultural connector, con il patrocinio di regione Puglia, provincia di Lecce e la città di Lecce, candidata capitale europea della cultura 2019. Sette gli artisti internazionali in mostra: Daniel Killeen (Scozia), Geri Loup Nolan (Scozia), Keith McIntyre (Sco-zia – Tyne and Wear), Magda Milano + DynaMode (Puglia - Italia – Scozia), M&P – Monticelli&Pagone (Abruzzo – Italia), Raffaele Quida (Puglia – Italia), Silvia Ranchicchio (Umbria – Italia).

Dove e quando

Taibon Agordino (BL)Dal 22 settembre 2012 al 21 ottobre 2012Da martedì a domenicaOrari 10:00-12:30 / 15:00-19:30

Info e contattiwww.dolomiticontemporanee.cominfo@dolomiticontemporanee.com

Dove e quando

Lecce, Castello di Carlo VDal 4 al 29 settembre 2012

Info e contatti

www.comune.lecce.it

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L’evento

The New Public, una nuova dimensione pubblica e un nuovo pubblico è la mostra tematica con cui Museion ha inaugurato la stagione autunnale. L’esposizione è a cura di Rein Wolfs, curatore ospite a Museion per il 2012 e direttore della Kunsthalle Fridericia-num di Kassel.Gli artisti in mostra sono Nina Beier, Rossella Biscotti & Kevin van Braak, Juliette Blightman, Valentin Carron, Matias Faldbakken, Pe-trit Halilaj, Christian Jankowski, San Keller, Klara Lidén, Erik van Lieshout, Helen Marten, Metahaven, Danh Vo.Tema centrale della mostra è la nuova “dimensione pubblica” nel-la politica, nella quotidianità e nell’arte, indagata attraverso più di 30 opere tra installazioni, sculture, video, disegni e performance. Juliette Blightman, Erik van Lieshout e Metahaven realizzeranno installazioni per l’occasione. San Keller svilupperà un nuovo lavoro performativo.

Dove e quando

Bolzano, Museion Dal 15 settembre 2012 al 13 gennaio 2013

Info e contatti

[email protected]

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L’arte dove non te l’aspetti

L’evento +

Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi è la grande mostra antologica allestita a Milano, nelle sale del piano no-bile di Palazzo Reale, promossa dall’Assessorato alla Cultura, Moda e Design e prodotta da Palazzo Reale insieme a 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, in collaborazione con il Musée National Pi-casso. La mostra è curata da Anne Baldassari, presidente del Musée National Picasso di Parigi, dov’è conservata la più grande collezione al mondo delle opere dell’artista spagnolo. Le opere esposte, tra di-pinti, sculture, fotografie, disegni, libri illustrati e stampe, sono più di 250, molte delle quali mai uscite dal museo parigino.All’interno del percorso espositivo, oltre 2.000 metri quadrati al piano nobile di Palazzo Reale con un allestimento curato da Italo Lupi con Ico Migliore e Mara Servetto, sarà presente anche la do-cumentazione che riguarda la mostra che Picasso tenne, sempre a Palazzo Reale, nel 1953, con la curatela di Francesco Poli, quando venne esposta per la prima volta in Italia, nella Sala delle Cariatidi, la grande tela di “Guernica” (1937).

Dove e quando

Milano, Palazzo RealeDal 20 settembre 2012 al 6 gennaio 2013Orari: lunedì, martedì e mer-coledì:8.30-19.30; giovedì, venerdì, sabato e domenica: 9.30-23.30

Info e contatti

www.mostrapicasso.itwww.comune.milano.it/pa-lazzoreale/

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Nèura Magazine è uno spazio culturale di prospettiva.

La redazione è composta da Anna Castellari, Silvia Colombo, Sonia Cosco e Roberto Rizzente.

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