8
Sat Lavis Piazza Loreto, 3 Ho usato il tolo del Gogna–Blog del 9 febbraio (qui il link hp://www.banff.it/la-colonizzazione-delle-vee/ ) Alessan- dro, come dabitudine, descrive con sagace ironia, velata di amarezza, le megalomaniedi Sölden , tanto decantate dai media grazie anche alle ulme mirabolan immagini del nuo- vo 007. Purtroppo la montagna non è nuova a questo genere di sfruamento indiscriminato che, oltre ad essere estraneo allessenza dellandar per monè, naturalmente, deleterio sia per lambiente che per la psicologia colleva che tende a minimizzare impegni e rischi di chi ama questo volar per mondove il sudore è un oponal e lunica vea che si vuo- le raggiungere (da parte dei distributori di beni e servizi dislo- ca in zona) è quella grafica dellandamento del conto cor- rente. La polemica è ormai trita e ritrita; laddove cè il Dio- soldonon cè posto per altri pantheon, non ci sono margini per lo sfruamento (brua parola ma comprensibile da tu) sostenibile della Dimensione montana”. Il riferimento è chia- ro anche ad altri even, sintomaci di ciò che veramente con- ta per chi potrebbe cambiare le cose sul pianeta: -la conferenza sul clima di Parigi (solo i più omis possono credere che bas laccordo formale sooscrio da tu i pae- si del mondo se non suffragato da poliche idonee. Io pur- troppo non sono tra ques, Rif. il protocollo di Kyoto che nes- suno ricorda più è lì a dimostrarlo) arcolo Internazionalecliccando qui; -il connuo tentavo, da parte di imprenditori miopi e senza scrupoli di costruire impian di risalita sempre più faraonici (con soldi molto spesso pubblici) e sempre più impaan in aree ad alto valore ambientale e paesaggisco, a quote sem- pre più basse, nonostante linnalzamento progressivo della temperatura globale (è un fao ormai conclamato e dimo- strato dalle bizze meteo che stanno colpendo un potuo il mondo ma che da mol viene archiviato come ciclico e non influente sul divenire dellecosistema planetario) Rif. Dolomi- , patrimonio Unesco ma fino a quando?; -lavallo dato da mol amministratori pubblici di zone turis- che che vedono nella montagna e nellambiente in generale solo il fondale per speculazioni edilizie ed imprenditoriali che giusficano con il fao che portano lavoro e benessere Rif. Sölden ; -e via dicendo, a slalom tra eliski dalta quota, reality show assurdi per vendere limmagine di una montagna facile ed accessibile a tu (lha fao quello, perché non posso farlo anchio che sono più allenato di lui...), apertura ai motori su seneri che già facano ad avere un loro equilibrio idrogeolo- gico, pra e campi incol che hanno visto spuntare, nella stagione degli incenvi alle energie sostenibili, pannelli solari e fotovoltaici. Ed ancora andando e spulciando tra gli arcoli dei giornali, spesso passa in sordina in trafile sulle pagine periferiche. Lungi da me voler fare il fusgatore di costumi altrui ma vor- rei esternare queste considerazioni che, parlando con perso- ne che come me hanno a cuore la montagna e l ambiente, sono da mol condivise. Cè solo da chiedersi se, dopo tue le traversie economico-finanziarie degli ulmi anni, ha senso ricominciare da capo con lo stesso modello e parametro di crescita, basato solo sul valore del denaro e meendo in pri- mo piano la crescita solo economica o non sia forse tempo di cominciare a pensare in modo diverso leconomia e lo sfrua- mento delle risorse a nostra disposizione? Febbraio 2016 Numero 1 La colonizzazione (economica) delle vette

Newsletter 02 marzo 2016

Embed Size (px)

DESCRIPTION

 

Citation preview

Page 1: Newsletter 02 marzo 2016

Sat Lavis Piazza Loreto, 3

Ho usato il titolo del Gogna–Blog del 9 febbraio (qui il link

http://www.banff.it/la-colonizzazione-delle-vette/ ) Alessan-

dro, come d’abitudine, descrive con sagace ironia, velata di

amarezza, le “megalomanie” di Sölden , tanto decantate dai

media grazie anche alle ultime mirabolanti immagini del nuo-

vo 007. Purtroppo la montagna non è nuova a questo genere

di sfruttamento indiscriminato che, oltre ad essere estraneo

all’essenza “dell’andar per monti” è, naturalmente, deleterio

sia per l’ambiente che per la psicologia collettiva che tende a

minimizzare impegni e rischi di chi ama questo “volar per

monti” dove il sudore è un optional e l’unica vetta che si vuo-

le raggiungere (da parte dei distributori di beni e servizi dislo-

cati in zona) è quella grafica dell’andamento del conto cor-

rente. La polemica è ormai trita e ritrita; laddove c’è il “Dio-

soldo” non c’è posto per altri pantheon, non ci sono margini

per lo sfruttamento (brutta parola ma comprensibile da tutti)

sostenibile della “Dimensione montana”. Il riferimento è chia-

ro anche ad altri eventi, sintomatici di ciò che veramente con-

ta per chi potrebbe cambiare le cose sul pianeta:

-la conferenza sul clima di Parigi (solo i più ottimisti possono

credere che basti l’accordo formale sottoscritto da tutti i pae-

si del mondo se non suffragato da politiche idonee. Io pur-

troppo non sono tra questi, Rif. il protocollo di Kyoto che nes-

suno ricorda più è lì a dimostrarlo) articolo “Internazionale”

cliccando qui;

-il continuo tentativo, da parte di imprenditori miopi e senza

scrupoli di costruire impianti di risalita sempre più faraonici

(con soldi molto spesso pubblici) e sempre più impattanti in

aree ad alto valore ambientale e paesaggistico, a quote sem-

pre più basse, nonostante l’innalzamento progressivo della

temperatura globale (è un fatto ormai conclamato e dimo-

strato dalle bizze meteo che stanno colpendo un po’ tutto il

mondo ma che da molti viene archiviato come ciclico e non

influente sul divenire dell’ecosistema planetario) Rif. Dolomi-

ti, patrimonio Unesco ma fino a quando?;

-l’avallo dato da molti amministratori pubblici di zone turisti-

che che vedono nella montagna e nell’ambiente in generale

solo il fondale per speculazioni edilizie ed imprenditoriali che

giustificano con il fatto che portano lavoro e benessere Rif.

Sölden ;

-e via dicendo, a slalom tra eliski d’alta quota, reality show

assurdi per vendere l’immagine di una montagna facile ed

accessibile a tutti (l’ha fatto quello, perché non posso farlo

anch’io che sono più allenato di lui...), apertura ai motori su

sentieri che già faticano ad avere un loro equilibrio idrogeolo-

gico, prati e campi incolti che hanno visto spuntare, nella

stagione degli incentivi alle energie sostenibili, pannelli solari

e fotovoltaici. Ed ancora andando e spulciando tra gli articoli

dei giornali, spesso passati in sordina in trafiletti sulle pagine

periferiche.

Lungi da me voler fare il fustigatore di costumi altrui ma vor-

rei esternare queste considerazioni che, parlando con perso-

ne che come me hanno a cuore la montagna e l’ambiente,

sono da molti condivise. C’è solo da chiedersi se, dopo tutte

le traversie economico-finanziarie degli ultimi anni, ha senso

ricominciare da capo con lo stesso modello e parametro di

crescita, basato solo sul valore del denaro e mettendo in pri-

mo piano la crescita solo economica o non sia forse tempo di

cominciare a pensare in modo diverso l’economia e lo sfrutta-

mento delle risorse a nostra disposizione?

Febbraio 2016

Numero 1

La colonizzazione

(economica) delle vette

Page 2: Newsletter 02 marzo 2016

Dall’Enciclopedia delle Dolomiti –Protagonisti

Leo Aegerter, Le più belle carte

delle Dolomiti

(Parigi 1875-Zirl 1953) Car-tografo, è autore di una serie di carte delle Alpi orientali che verranno alle-gate alla Zeitschrift des DOAV; Sassolungo e Sella nel 1904, Marmolada nel 1905, Brenta nel 1908. Aegerter ebbe l’incarico di realizzare nel 1919 la carta ufficiale del nuovo confine del Brennero; per questo e per la drammatica situazio-ne della Germania nel pri-mo dopoguerra la carta delle Pale di San Martino, già pronta verso la fine del conflitto, fu pubblicata solo nel 1931. Le carte di Aeger-

1866-2015: la guerra delle croci La discussione iniziata nel 2015 sulla stampa in merito all'erezio-ne delle croci in memoria dei soli militari austroungarici caduti durante la prima guerra mondiale, ricorda quella che fu chiamata la “guerra delle lapidi” del 1866 (quasi centocinquant'anni orso-no) sorta al termine della battaglia di Bezzecca nella terza guerra d'indipendenza italiana: ma a parti invertite. Allora, al termine della battaglia che vide i garibaldini padroni del campo, un loro ufficiale volle fosse eretta sul colle di Santo Stefano a Bezzecca, una lapide in memoria dei volontari italiani, morti in quella batta-glia: “AI MORTI COMBATTENDO PER LA PATRIA I VO-LONTARI ITALIANI” riportava la lapide. Ma il famoso “Obbedisco” interruppe l'approntamento della stele e le truppe italiane si ritirarono in tutta fretta in Lombardia portando con sé anche i feriti per evitare fossero fatti prigionieri e passati per le armi (la Croce Rossa non era ancora riconosciuta da tutti i belli-geranti). Il piccolo monumento rimase incompiuto e, fra l'altro, non pagato all'artigiano scalpellino autore dello stesso; la lunga discussione che ne seguì fra l'autorità locale e quella austriaca, termino con l'ordine tassativo della sua distruzione. “L'erezione di un monumento in un luogo pubblico non può seguire se non dietro il permesso della competente autorità….deve essere dun-que demolito e ne ha l'obbligo chi lo eresse...” scrisse il 23 otto-bre 1866 il Conte Hohenwart. Trent'anni dopo, il 10 ottobre 1896,

"Quando fa galeta i perseghi no fa galeta i cavaleri” (da “Antica saggezza dei nostri nonni” di Umberto Raffaelli-2015 Ed. Programma)

Storie e Storia

2

Page 3: Newsletter 02 marzo 2016

Continua da pag. 2

ter sono monumenti insuperati della cartografia delle Dolomiti. Il sistema delle curve di livello è estremamente preciso; grade-voli i colori, sul rosa pastello e grigio; i rilievi sono disegnati non solo con la precisione dello studioso, ma anche con la cu-riosità dell’alpinista e la passio-ne del naturalista, testimoniate anche dai disegni preparatori dal vero. Dai rilievi eseguiti Aegerter ricavò una serie di plastici per il Museo Alpino di Monaco, che andarono in buo-na parte distrutti nella seconda guerra mondiale. Il plastico del Brenta, donato dall’autore al geologo trentino Giovanni Battista Trener, è conservato al Museo di Scienze Naturali di Trento (attuale Muse).

in sostituzione della lapide

garibaldina contestata, fu eretto dall'amministrazione austroungarica il monumento tuttora esi-stente a Bezzecca sul Colle di Santo Stefano, monumento scolpito dall'I.R. Scuola Professiona-le di Trento con la doppia iscrizione in tedesco e in italiano: “DEN IM GEFECHTE VOM21 JULI 1866 GEFALLENEN OESTERREICHISCHEN UND ITALIENISCHEN KRIEGERN” “ALLA MEMORIA DEI GUERRIERI AUSTRIACI ED ITALIANI CADUTI NEL FATTO D'ARMI 21 LUGLIO 1866” Dopo la prima guerra mondiale, la vicenda ebbe successivi sviluppi e la stele garibaldina ritor-nò sul colle nel 1919 assieme a quella austroungarica. E' indubbiamente curioso che a distanza di quasi centocinquant'anni si propongono quasi le stesse discussioni: gli Schützen attuali sem-brano, infatti, interpretare, a riferimenti invertiti, la parte dei Garibaldini mentre l'Austria di al-lora sembra aver dimostrato molto maggior equilibrio nell'interpretare la sensibilità dell'intera popolazione. Ogni espressione di pensiero è indubbiamente legittima, ma ricordando le parole di Bertolt Brecht che titolano la stessa esposizione del MART sulla guerra: “La guerra che ver-rà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vin-ti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.” Vien da pensare che, qualora ve ne fosse bisogno, i monumenti dovrebbero esse-re fatti a tutta la povera gente, soldati e non, italiana e austroungarica. Bruno Santoni Da “Strenna Trentina 2016”

3

Sopra: Carta topografica del XVIII° secolo sotto: il monumento sul colle S.Stefano

Page 4: Newsletter 02 marzo 2016

Dalla nostra biblioteca

FRÊNEY 1961, di Marco Albino Ferrari

Premessa

Alla fine, dopo mesi di attesa, la telefonata di con-

ferma arrivò. L’appuntamento veniva fissato per un

giorno dell’imminente autunno, alle 11.30 in punto,

nel palazzo della Commission des Lois, a Parigi. “Si

prega la cravatta” concludeva la voce. Quando la

porta dell’ufficio si aprì, lo vidi in fondo alla grande

sala affrescata. Il Presidente della Commission des

Lois (la Corte Costituzionale Francese) era immerso

nel suo lavoro alla scrivania. Entrai e mi avvicinai

lentamente. “Si accomodi” ordinò Pierre Mazeaud

senza neppure alzare lo sguardo dalle sue carte.

“Mi chiamo….” Iniziai, “sono qui per….” Avrei biso-

gno che mi raccontasse del Pilone Centrale del

Frêney…”. Cercavo di misurare le parole ripetendo il

discorso imparato a memoria davanti allo specchio.

Fin quando lo vidi alzare la mano per fermarmi. “Lei

aveva quindici minuti, ora gliene rimangono tredici.

Se vuole consumare il suo tempo così faccia pure…

Altrimenti lasci parlare me” disse con voce risoluta.

Mi zittii.

Pierre Mazeaud, il compagno di Bonatti durante i

fatti tragici del luglio 1961, iniziò il racconto. Partì

pacato, un po’ distratto. Ma già dopo poco il tono e

l’intensità del suo discorso iniziarono a farsi più

decisi. Era chiaro che in lui stava scattando qualco-

sa. Iniziò a gesticolare e a indicare in alto immagi-

nando la Chandelle del Pilone nella tempesta.

Mazeaud sembrava un fiume in piena. Poi prese la

cornetta del telefono e sottovoce ordinò di annulla-

re gli appuntamenti successivi. Parlò, parlò a lungo

quella mattina. Lo vidi piangere, ricordarsi i suoi

compagni morti: Vieille, Guillaume e l’amico Kohl-

mann. A un certo punto prese un foglio intestato

della Commission des Lois (che conservo come una

reliquia) e disegnò nel dettaglio la dinamica dell’ini-

zio della bufera, quando il fulmine li aveva colpiti e

la storia era cominciata. Lo salutai dopo un paio

d’ore. E mi ritrovai da solo nell’immensità di Parigi,

con quella voce, con quelle parole che non avrei più

dimenticato.

Erano i primi anni Novanta, e adesso, due decenni

dopo, mi ricordo ancora dei pensieri che si accaval-

lavano mentre vagavo senza meta per le strade

affollate di Parigi. Mi persi, rimuginando sulla storia

che avevo appena udito. E ripensavo anche a quella

montagna magnifica, rossa di granito luccicante, il

Pilone Centrale del Frêney, che avevo salito l’anno

prima. Mi ricordavo che quando ero passato nel

punto del bivacco dei sette alpinisti sotto la Chan-

delle avevo sentito un brivido lungo la schiena: lì si

era consumata la tragedia più impensabile e beffar-

da dell’intera storia dell’alpinismo: gli italiani, gui-

dati dal più forte alpinista del mondo, avevano in-

contrato una cordata di francesi che era diventata

l’altro filo di un cortocircuito. Mi ricordavo le

quattro successive lunghezze di corda, i passaggi

chiave della via vissuti con il mio compagno di allo-

ra, Marco Villa, l’uscita in cima al Pilone al tramon-

to, e i passi nel ghiaccio sulla calotta sommitale del

Bianco sotto il cielo ormai pieno di stelle.

Quel pomeriggio, vagando per ore prima di ripren-

dere il treno che alla sera partiva per l’Italia, avevo

capito: dovevo provare a scrivere la storia della

tragedia del Pilone. Il mio lavoro di redattore alla

rivista Alp mi lasciava qualche spazio e così avrei

potuto almeno arrischiare un tentativo. Iniziai ad

accumulare documenti, vecchi giornali e interviste

dei testimoni oculari, alle guide alpine, ai soccorri-

tori, alla gente di Courmayeur, ai familiari dei prota-

gonisti, ai giornalisti che trent’anni prima si erano

dedicati al caso. Passai molto tempo a parlare con

Walter Bonatti. Fui ospite per più giorni nella casa

di Dubino: lui e la sua compagna Rossana Podestà

mi avevano preparato una comoda sistemazione

per la notte.

La primissima edizione del libro uscì nel giugno del

1996. Bonatti, ricevuta la prima copia, mi scrisse

che approvava il risultato, ma che avrei

“assolutamente” dovuto apportare alcune correzio-

ni sulla prima ristampa: la “tenda” di cui avevo

scritto doveva essere sostituita con la dicitura più

corretta “sacco-tenda”. E aggiungeva qualche altro

irrinunciabile ritocco. Già dopo poche settimane ci

fu la prima ristampa. Il libro ebbe poi decine di ri-

stampe e venne pubblicato nel 2009 da Corbaccio.

Negli anni, il rapporto con Walter Bonatti, fitto fitto

prima dell’uscita del libro, si allentò: e ci perdemmo

di vista. Nel 2002 accettò di scrivere un articolo sul

tagne, nel quale esprimeva la sua indignazione per la riapertura del

Tunnel del Monte Bianco, e invitava a manifestare

fermo rifiuto, a fare insomma barriera civile

rivista a dar voce alle sue opinioni, sempre nette e decise. Morì il 13

settembre 2011, dopo una fulminante malattia.

Ripenso a tutto quanto con un po

riche per la nuova edizione del libro. Ripenso a Walter Bonatti, e lo ve-

do nei colori sbiaditi del Kodachrome, nel bianco e nero di un tempo

che non è il mio tempo

montagne non erano assediate dal turismo e serbavano ancora spazio

per nuove esplorazioni. Si sa, la nostalgia porta a rifugiarsi nell

nazione; e pensando a Bonatti immagino la montagna in un tempo più

ricco di ideali, più ingenuo, più incantato, che continua a farmi sognare.

A volte, d

Courmayeur si risale la strada che porta ad Entrèves, può capitare di

fermarsi a osservare la cima del Monte Bianco. Da est, i raggi del sole

illuminano la complessa bastionata superiore. E

sale di granito rosso: un caos di seracchi, di pareti, di creste, di pilastri

divisi tra loro da sottili strisce di ghiaccio azzurro e bianco. Là in mezzo,

tra rocce e neve, nel punto culminante dell

pilastro dalla forma davvero particolare, è il Pilone Centrale del Frêney.

Dritto come una candela e leggermente inclinato verso il vuoto. Non

tutti però riescono a vederlo: è, si, il pilastro più imponente, più im-

pressionante e lineare dell

Le dimensioni, il gioco delle ombre e le prospettive distorte delle alte

quote lo nascondono agli occhi di molti.

Quando il Pilone era entrato tra gli obbiettivi dell

giovani vivevano sulla prospettiva di un futuro carico di promesse. In

Italia si sentivano gli effetti del

in cambiamento, un mondo miracoloso e nevrotico: nelle case entrava-

no le lavastoviglie, gli oggetti di plastica, i settimanali e le schedine del

Totocalcio. Ma in quel mondo schizofrenico c

prima) aveva condannato alla residenza coatta Giulia Locatelli, la

“Dama Bianca

dell

Nord, le casalinghe leggevano le prime riviste femminili col mito della

“donna moderna

davano migliaia e migliaia di cartoline alla Rai perché, nell

televisivo, alle 18 di ogni giorno venisse recitato il Rosario. La televisio-

ne, nata nel 1954, entrava nelle case e nei bar ed era portavoce di un

talietta perbene e moralista. I giornali, in pochi anni, aumentarono vor-

ticosamente le tirature: era il trionfo della cronaca, della cronaca nera,

di quella rosa, del gusto per lo scandalo, dei titoli sbraitati. La

con le grandi fotografie e i titoloni, appassionava le masse e riempiva

grossi spazi nei quotidiani, appassionava le masse e riempiva grossi

spazi nei quotidiani, soprattutto quelli del pomeriggio e nei giornali

radio che detenevano il primato di ascolto e di rapidità nel dare infor-

mazione. L

chio di registrazione Nagra

e lì messo in scaletta per il primo radiogiornale. In quei giorni del luglio

1961, la radio, i giornali e la televisione dedicheranno amplissimi spazi

alla cronaca della tragedia del Monte Bianco: La Stampa di Torino riem-

pirà tutta la prima, la seconda e la terza pagina con gli articoli e le foto-

grafie del dramma.

Sono anni di nuovo benessere, nascono nuovi divi, nuovi miti, nuovi

modelli da imitare. E

zare i suoi sogni: ed è proprio in questo mondo onirico che Walter Bo-

Page 5: Newsletter 02 marzo 2016

tagne, nel quale esprimeva la sua indignazione per la riapertura del

Tunnel del Monte Bianco, e invitava a manifestare “un corretto ma

fermo rifiuto, a fare insomma barriera civile”. Poi tornò rare volte sulla

rivista a dar voce alle sue opinioni, sempre nette e decise. Morì il 13

settembre 2011, dopo una fulminante malattia.

Ripenso a tutto quanto con un po’ di nostalgia mentre scrivo queste

riche per la nuova edizione del libro. Ripenso a Walter Bonatti, e lo ve-

do nei colori sbiaditi del Kodachrome, nel bianco e nero di un tempo

che non è il mio tempo – gli anni Cinquanta e Sessanta – quando le

montagne non erano assediate dal turismo e serbavano ancora spazio

per nuove esplorazioni. Si sa, la nostalgia porta a rifugiarsi nell’immagi-

nazione; e pensando a Bonatti immagino la montagna in un tempo più

ricco di ideali, più ingenuo, più incantato, che continua a farmi sognare.

A volte, d’estate, in certe fortunate mattine senza nuvole, quando da

Courmayeur si risale la strada che porta ad Entrèves, può capitare di

fermarsi a osservare la cima del Monte Bianco. Da est, i raggi del sole

illuminano la complessa bastionata superiore. E’ una cattedrale colos-

sale di granito rosso: un caos di seracchi, di pareti, di creste, di pilastri

divisi tra loro da sottili strisce di ghiaccio azzurro e bianco. Là in mezzo,

tra rocce e neve, nel punto culminante dell’intera montagna spunta un

pilastro dalla forma davvero particolare, è il Pilone Centrale del Frêney.

Dritto come una candela e leggermente inclinato verso il vuoto. Non

tutti però riescono a vederlo: è, si, il pilastro più imponente, più im-

pressionante e lineare dell’intero versante, però è difficile da vedere.

Le dimensioni, il gioco delle ombre e le prospettive distorte delle alte

quote lo nascondono agli occhi di molti.

Quando il Pilone era entrato tra gli obbiettivi dell’alpinismo di punta, i

giovani vivevano sulla prospettiva di un futuro carico di promesse. In

Italia si sentivano gli effetti del “boom economico”, si viveva un mondo

in cambiamento, un mondo miracoloso e nevrotico: nelle case entrava-

no le lavastoviglie, gli oggetti di plastica, i settimanali e le schedine del

Totocalcio. Ma in quel mondo schizofrenico c’era chi (qualche anno

prima) aveva condannato alla residenza coatta Giulia Locatelli, la

“Dama Bianca”, colpevole di adulterio con Fausto Coppi. Nei termitai

dell’edilizia popolare, sorti come funghi nelle periferie delle città del

Nord, le casalinghe leggevano le prime riviste femminili col mito della

“donna moderna”: tutta casa, elettrodomestici e figli. E i cattolici man-

davano migliaia e migliaia di cartoline alla Rai perché, nell’unico canale

televisivo, alle 18 di ogni giorno venisse recitato il Rosario. La televisio-

ne, nata nel 1954, entrava nelle case e nei bar ed era portavoce di un’I-

talietta perbene e moralista. I giornali, in pochi anni, aumentarono vor-

ticosamente le tirature: era il trionfo della cronaca, della cronaca nera,

di quella rosa, del gusto per lo scandalo, dei titoli sbraitati. La “nera”,

con le grandi fotografie e i titoloni, appassionava le masse e riempiva

grossi spazi nei quotidiani, appassionava le masse e riempiva grossi

spazi nei quotidiani, soprattutto quelli del pomeriggio e nei giornali

radio che detenevano il primato di ascolto e di rapidità nel dare infor-

mazione. L’inviato componeva il suo pezzo (sul modernissimo apparec-

chio di registrazione Nagra-Kudelski) che poi veniva trasmesso a Roma

e lì messo in scaletta per il primo radiogiornale. In quei giorni del luglio

1961, la radio, i giornali e la televisione dedicheranno amplissimi spazi

alla cronaca della tragedia del Monte Bianco: La Stampa di Torino riem-

pirà tutta la prima, la seconda e la terza pagina con gli articoli e le foto-

grafie del dramma.

Sono anni di nuovo benessere, nascono nuovi divi, nuovi miti, nuovi

modelli da imitare. E’ un’Italia che ha bisogno di nuovi eroi per cataliz-

zare i suoi sogni: ed è proprio in questo mondo onirico che Walter Bo-

nando l’ideale positivo di un’inte-

ra epoca. L’uomo che conquista

spazi ancora sconosciuti, che sale

verso l’alto toccando cime mai

toccate in tutte le parti del mon-

do. L’uomo che contribuisce a

riscattare l’immagine dell’italiano

medio, ancora oppressa dall’ere-

dità della guerra e delle tragedie

del fascismo.

L’alpinismo ha un consenso socia-

le altissimo. Walter Bonatti è tra

gli uomini più invidiati. I suoi oc-

chi vedono cose che nessuno può

vedere. Gli alpinisti non sono dei

pazzi: Walter Bonatti non è un

pazzo, è un sognatore e fa sognare la gente. Quando rimane appeso

per sei giorni filati sui seicento metri strapiombanti di un picco di grani-

to sopra Chamonix, la gente sogna. Quando attraversa tutte le Alpi con

gli sci in sessanta giorni, riposandosi solo sei e avanzando nella tempe-

sta per ventitrè, la gente sogna.

Già negli anni Cinquanta, le cime delle Alpi erano state in gran parte

salite anche dai versanti più difficili: l’alpinismo cercava obiettivi diversi,

pilastri più remoti dall’accesso difficile, linee logiche ma nascoste e ri-

maste ancora territorio vergine. Il Pilone Centrale del Frêney era un

simbolo di questo alpinismo, una sfida formidabile, un pilastro dalla

struttura rettilinea, elegante. Era l’ultimo grande problema delle Alpi.

Negli ultimi otto anni avevo respinto diversi tentativi (compreso uno di

Bonatti), e la sua scalata avrebbe simboleggiato il compimento di un’e-

poca. I francesi, gli svizzeri, gli italiani, i tedeschi, gli inglesi, i polacchi,

gli americani, tutti volevano salire per primi il formidabile pilastro. Qui

di seguito si racconta di quelle pagine di storia che sconvolsero l’opinio-

ne pubblica, ma che fecero anche capire un po’ meglio – a dispetto del

pessimo lavoro dei giornalisti, eccetto quello di Andrea Boscione della

Radio Rai – lo spirito di quell’attività chiamata alpinismo.

Molti oggi a Courmayeur hanno ancora il ricordo del dramma di quei

giorni del luglio del 1961, ma pochi sanno spiegarsi il vero motivo che

portò alcuni uomini, i più forti alpinisti dell’epoca, a tendere la mano

alla morte in modo tanto assurdo. Questo libro narra la storia di un’im-

possibile follia, diventata uno dei fatti di cronaca più clamorosi di quegli

anni. E’ una storia di destini incrociati, un momento simbolico che rac-

chiude lo spirito di una grande epopea umana.

Page 6: Newsletter 02 marzo 2016

Proposte di cammino...

In collaborazione con “Itinerari e

Luoghi” una proposta per la visita (a

piedi) di un luogo particolare. Questo

mese due montagne che hanno

sempre avuto, e tuttora hanno, il

fascino discreto della leggenda.

CIVETTA E MARMOLADA

Scialpinistica Cima di Terento (2378 m.)

12 marzo

Itinerario poco frequentato e selvaggio sopra la Val di

Fundres. Si parte da Fundres e si sale nel vallone del Rio

Semanza fino alla Malga Pietrabianca (1768 m.), si con-

tinua nel bosco e poi in campo aperto sotto la cima di

Terento sino ad una sella a quota 1612 m. Da qui si

scende verso sud per 100 m. e si costeggia la cresta est

fino alla cima. Discesa: per l’itinerario di salita

Partenza: Loc. Fundres

Dislivello in salita: 1680 m.

Tempo complessivo: 5-6 ore

Difficoltà: BS

6

Page 7: Newsletter 02 marzo 2016

"Sul tompestà no val benedizion” (da “Antica saggezza dei nostri nonni” di Umberto Raffaelli-2015 Ed. Programma)

13 marzo

Comoda, facile e frequentata escursione invernale, aperta

anche agli scialpinisti nella prima valle a sx. del Passo del

Brennero in Austria, la Obernbergtal. La meta è la Cima

Sattelberg, situata sul confine italo-austriaco. Presso la

Malga Sattelberg (1600 m. un po’ discosta dall’itinerario)

vi è la possibilità di consumare un pasto caldo. Rientro sul-

lo stesso itinerario di salita, mentre gli scialpinisti possono

scendere su una ex pista dismessa.

Partenza: Passo del Brennero (1370 m.) Dislivello salita: 900 m. circa

Tempo complessivo: 4-5 ore circa Difficolta: EAI F

Mi padre me diceva

Mi’ padre me diceva: fa attenzione

a chi chiacchiera troppo; a chi pro-

mette

a chi dopo èsse entrato, fa:

“permette?”;

a chi arribarta spesso l’opinione

e a quello, co’ la testa da cojone,

che nu’ la cambia mai; a chi scom-

mette;

a chi le mano nu’ le strigne strette;

a quello che pìa ar volo ogni occa-

sione

pe’ di’ de sì e offrisse come

amico;

a chi te dice sempre “so’

d’accordo”;

a chi s’atteggia come er più

ber fico;

a chi parla e se move sotto-

traccia;

ma soprattutto a quello – er

più balordo –

che quanno parla, nun te guarda in

faccia.

Aldo Fabrizi ( 1905-1990)

7

Ciaspolata alla Cima Sattelberg (2113 m.)

Angolo della Poesia

Page 8: Newsletter 02 marzo 2016

Dal Lago di Carezza a Obereggen

Dal parcheggio del Lago di Carezza (1525) si scende per 350 m.

lungo la strada in direzione di Bolzano fino a incrociare una seconda

strada forestale sulla sinistra (indic. Geigerhof, segnavia 8). Questa

via, chiamata anche “Templweg”, si addentra nel solitario bosco

invernale ai piedi del leggendario Latemar offrendo continui e sug-

gestivi colpi d’occhio sulle torri dolomitiche: la Foresta di Carezza/

Karerforst costituisce uno dei boschi più belli e meglio conservati di

tutto l’Alto Adige. In neanche un’ora su strada forestale prevalente-

mente pianeggiante si giunge ai prati della Kölbistall (1487). Sem-

pre sul n°8, dopo 10’ di moderata salita si perviene a un’altura,

quindi per prati in direzione sudovest al Bewallerhof (1500 no bar

rist.). a questo punto si imbocca il sentiero n°9 a fianco della strada

carrozzabile, seguendolo fino alla Sella di Obereggen/Obereggen

Sattel. Poco più di 200 m. separano ora dal trambusto dell’area

sciistica di Obereggen (1550), dotata di impianti di risalita, alberghi

e vari punti di ristoro. Chi avesse raggiunto in autocorriera il punto

di partenza del Lago di Carezza, può rientrare da Obereggen a Bol-

zano sempre con i mezzi pubblici. Altrimenti ritorno al parcheggio

sulla via dell’andata.

Tempo 2.30’ ore totale Dislivello quasi nullo Diff. Facile

Proposte di Stagione—Ciaspole

Da “Escursioni con le Ciaspole in Dolo-miti” (Stimpfl-Oberrauch)

8

Contatti

CONTATTI

mail: [email protected]

Web: http://satlavis.weebly.com

Facebook: https://www.facebook.com/

sat.lavis.9

Google+: https://plus.google.com/u/0/

Twitter: https://twitter.com/SatLavis

Telefono:

I nostri Sponsor

Importante: Il Trofeo Caduti della Montagna, inizialmente previsto per il 28 febbraio si svolgerà il 6

marzo a Campo Carlo Magno. Iscrizioni in sede possibilmente entro la settimana entrante.