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1 Il forum di bioetica vuole suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna INDICE: Principi e Dilemmi Bioetica Coltivare la Speranza nella Modernità di Paolo Rossi La tragedia della modernità, 1. La dittatura morbida della gay culture, 2. La Crociata degli Indignati, 3. Il Family day è germinato per difendersi dalla dittatura del gender. La modernità ha un cuore laicista. 2. La mondanità priva il creato della speranza Pessimismo cosmico e disperazione Sulla speranza umana Il mondo in cui viviamo ha perso la speranza, “Ma la speranza non va da sé” La speranza cristiana 1. la fede di Abramo che è speranza, 2. la speranza durante l'esperienza dell'esilio del popolo di Israele, 3. Paolo fa della speranza il tema specifico della sua teologia, 4. la speranza di Gesù Coltivare la Speranza nella Modernità di Paolo Rossi Possano le tue scelte riflettere le tue speranze, non le tue paure. Nelson Mandela «La speranza è il solo bene che è comune a tutti gli uomini, e anche coloro che non hanno più nulla la possiedono ancora» 1 : è la fiduciosa attesa di un bene che quanto più desiderato tanto più colora l'aspettativa di timore o paura per la sua mancata realizzazione. 1 Aforisma attribuito a Talete nelle massime dei Sette savi FORUM di BIOETICA NEWSLETTER n. 128 luglio – 2015

newsletter n. 128 luglio 2015 · Italia dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Al centro del dibattito c’è una torta bianca, ... Nel 2014, un gruppo di attivisti

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Il forum di bioetica vuole suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna

INDICE:  

Principi e Dilemmi Bioetica Coltivare  la  Speranza  nella  Modernità  di  Paolo  Rossi  

La  tragedia  della  modernità,  1. La  dittatura  morbida  della  gay  culture,  2.  La  Crociata  degli  Indignati,  3.  Il  Family  day    è  

germinato  per  difendersi  dalla  dittatura  del  gender.  La  modernità  ha  un  cuore  laicista.  2. La  mondanità  priva  il  creato  della  speranza  

 Pessimismo  cosmico  e  disperazione    Sulla  speranza  umana  

Il  mondo  in  cui  viviamo  ha  perso  la  speranza,  “Ma  la  speranza  non  va  da  sé”  La  speranza  cristiana  1.  la  fede  di  Abramo  che  è  speranza,  2.  la  speranza  durante  l'esperienza  dell'esilio  del  popolo  di  Israele,  3.  Paolo  fa  della  speranza  il  tema  specifico  della  sua  teologia,  4.  la  speranza  di  Gesù  

 

 

 

Co l t i vare   l a   Speranza  ne l la  Modern i tà  

di Paolo Rossi

Possano  le  tue  scelte  riflettere  le  tue    speranze,  non  le  tue  paure.    Nelson  Mandela  

«La  speranza  è  il  solo  bene  che  è  comune  a  tutti  gli  uomini,  e  anche  coloro  che  non  hanno  più  nulla  la  possiedono  ancora»  1  :  è  la  fiduciosa  attesa  di  un  bene  che  quanto  più  desiderato  tanto  più  colora  l'aspettativa  di  timore  o  paura  per  la  sua  mancata  

realizzazione.    

1 Aforisma attribuito a Talete nelle massime dei Sette savi

 FORUM  di  BIOETICA  

NEWSLETTER  n .  128  

lug l io  –  2015  

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La  tragedia  della  modernità    

La modernità è certamente il tentativo di un’antropologia moderna che tenta di attuarsi pienamente senza nessun riferimento alla dimensione religiosa dell’esistenza, e quindi senza nessun riferimento alla presenza della tradizione cristiana, perché l’uomo avrebbe già in sé stesso tutte le potenzialità per comprendere e attuare pienamente la sua umanità. L’uomo moderno è l’uomo che non ha bisogno di nient’altro che di sé stesso per esistere, diceva Romano Guardini in quello splendido volumetto dal titolo La fine dell’epoca moderna, e questo è il cuore della modernità, ossia un’umanità senza Dio, una realtà culturale e sociale senza Dio. Ci si avvide subito, però, quando i grandi princìpi della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità – pensati non più secondo una dimensione metafisico-religiosa ma secondo l’istinto dell’uomo – diventarono il terrore giacobino e poi il terrore hitleriano e quello marxista-leninista, che la modernità ha il grande progetto di auto-realizzazione dell’uomo senza Dio, ma crea un mondo che, in quanto senza Dio, è contro Dio e quindi traccia un sentiero rovinoso che il filosofo Robert Spaemann definisce come il «sentiero polveroso del nulla». La modernità celebra i suoi fasti, e insieme i suoi nefasti, nelle grandi ideologie totalitarie del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo e nei sistemi totalitari da esse originati. Anche la stessa democrazia, aggredita e devastata dai totalitarismi, è una democrazia debole, che condivide in la concezione laicista dell’uomo. «Il laicismo è una ideologia che porta alla restrizione della libertà religiosa fino a promuovere il disprezzo o l'ignoranza dell'ambito religioso, relegando la fede alla sfera privata e opponendosi alla sua espressione pubblica. Il laicismo non è un elemento di neutralità che apre spazi di libertà a tutti: è un’ideologia che s’impone attraverso la politica e che non concede spazio pubblico alla visione cattolica e cristiana. Ci troviamo, cioè, di fronte ad una concezione puramente naturalistica della vita dove i valori religiosi o sono esplicitamente rifiutati o vengono relegati nel chiuso recinto delle coscienze e nella mistica penombra delle chiese, senza alcun diritto a penetrare ed influenzare la vita pubblica dell'uomo (la sua attività fìlosofica, giuridica, scientifica, artistica, economica, sociale, politica, ecc.). Abbiamo, così, un laicismo che si identifica in pratica con l'ateismo». (san Giovanni Paolo II).

A tutto ciò, nella nostra epoca si aggiunge la dittatura di un pensiero unico e partigiano che: 1) impone la gay culture; 2) uccide la libertà di parola; 3) proclama la dittatura del gender o dell’indifferenza sessuale 1.  La  dittatura  morbida  della  gay  culture: Il matrimonio gay ha vinto. e ora viene la parte più difficile: proteggere la libertà religiosa”. Vinta la battaglia politica a favore delle nozze arcobaleno in America e praticamente in tutta Europa, adesso la militanza Lgbt prepara l’offensiva culturale in uno scenario che avrà esiti certamente anche in Italia dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Al centro del dibattito c’è una torta bianca, cremosa, a tre piani e una coppia dello stesso sesso in miniatura che si bacia. Costringere i pasticcieri a sfornare queste torte gay non è più evidentemente grottesco. Prima è successo in Irlanda, dove alcuni pasticcieri sono a processo per essersi rifiutati. In America il caso più clamoroso è quello di Aaron e Melissa Klein, condannati dallo stato dell’Oregon a pagare 135 mila dollari per “danni emotivi” a una coppia di lesbiche che aveva chiesto una torta. I Klein si sono rivolti al fundraising per far fronte alle spese legali. E di dollari ne hanno raccolti 375 mila. 2 Il triplo di quelli che servivano. Perché la battaglia dei pasticcieri tira in ballo qualcosa di più della panna montata. Riguarda la libertà di coscienza e ottocento anni di pensiero occidentale, Spinoza, Kant, Locke e Mill. “la nuova intolleranza”. Perché come scrive Roger Pilon del Cato Institute, “un conto è non discriminare le coppie omosessuali, altra cosa è costringere individui e organizzazioni” a uniformarsi al pensiero unico. 2.  La  Crociata  degli  Indignati.  3    La nuova censura che sta uccidendo la libertà di parola. Mike Hume dice

2 Giulio Meotti, Sei contro le nozze arcobaleno? Rischi il posto e l’obbrobrio morale. Arriva la dittatura morbida della gay culture Il Foglio 23/07/2015 3 Mike Hume, “Trigger warning” Is the Fear of Being Offensive Killing Free Speech?. Imprint: William Collins 18/06/2015

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al Foglio (23/06/2015):  «Il linguaggio non è mai una cosa da ridere. Ma la cosa più importante è che i nostri atteggiamenti verso la libertà di espressione riflettono la nostra visione dell’umanità in ogni momento della storia. Quando l’umanità si muove in avanti, il sostegno per la libertà di parola e la libertà di stampa tendono ad aumentare con esso. Ma quando la fede nell’umanità crolla, come in gran parte della cultura occidentale oggi, il sostegno per la libertà di parola passa di moda. In particolare, oggi, le élite politiche e culturali temono le masse come inaffidabili e così vogliono controllare e sterilizzare quello che possono dire, sentire, leggere o anche solo pensare, dai mass media fino a una partita di calcio. Una cultura della proibizione verbale ha preso in consegna la società, guidata da un esercito di militanti sedicenti che si considerano i guardiani del pensiero corretto. Solo un paio di mesi fa, Elton John ha chiesto un boicottaggio del marchio di moda Dolce & Gabbana perché i due stilisti italiani avevano criticato la genitorialità gay e il trattamento di fertilità. Invece di un dibattito aperto e di uno scontro di idee sul futuro della società, l’obiettivo è semplicemente quello di evitare le controversie, mantenere le cose tranquille e sorvegliare il linguaggio che le persone utilizzano. Questo porta alla capitolazione della correttezza politica e all’autocensura. […]. Questo sdegno implacabile sul linguaggio sta causando un danno profondo, non solo ai singoli, ma anche al concetto stesso di libertà di parola, che è uno dei pilastri della nostra civiltà. Come ha detto George Orwell: ‘Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire’. […]. Odiosi sono i ‘Twitter mob’ e i firmatari di appelli online il cui slogan è ‘you-can- not-say-that’. Quando lo stato censura, oggi, si trova normalmente a farlo in risposta alle loro richieste. Essi sostengono, naturalmente, che non sono contro la libertà di parola, ma che vogliono proteggere i ‘più vulnerabili’. Nel 2014, un gruppo di attivisti ambientali nel Regno Unito ha sostenuto che i ‘negazionisti del cambiamento climatico’ sono ‘responsabili di crimini contro l’umanità’ e che devono affrontare una ‘sorta di Norimberga’ per aver diffuso attivamente il dubbio circa l’ortodossia sul riscaldamento globale. La cosa più deprimente per me, da vecchio giornalista di sinistra, è che la maggior parte di questi censori non ufficiali sostengono di essere di mentalità liberal. Nel mio libro descrivo queste forze come ‘contro Voltaire’. Questi fanatici non si accontentano di esercitare il loro diritto di criticare qualcuno. Tremanti d’indignazione ipocrita, vogliono mettere a tacere coloro che non sono conformi al loro pensiero di gruppo. Le università, che dovrebbero essere dei bastioni di libertà, sono trasformate in tristi cittadelle del conformismo.» 3.  Il  Family  day    è  germinato  per  difendersi  dalla  dittatura  del  gender.  I mamma e papà (una gran folla convenuta con i propri figli da tutta Italia a piazza San Giovanni), credono nella virtù della famiglia naturale eterosessuale. La dottrina che impone di considerare frutto di autodeterminazione lo status sessuale naturale di uomo e donna dilaga in tutto il mondo, ha per sé il marketing delle emozioni, dei desideri, dei diritti, agita le bandiere dell’uguaglianza e della lotta alle discriminazioni, del rispetto della differenza, e questo malgrado la filosofia del gender o dell’indifferenza sessuale sia il contrario esatto, l’opposto simmetrico, di questi princìpi. «Due elementi però spiccano e fanno certezza. Intanto il carattere intollerante delle reazioni di chi si fregia con esclusivismo mal riposto dell’etichetta di laico e di progressista. I manifestanti di San Giovanni sarebbero una retroguardia del pregiudizio, un’orda medievale (e “medievale”, come pensano indistintamente tutti gli ignoranti, vuol dire qualcosa di malamente, qualcosa di oscurantista che resiste al bagno di luce e di buone pratiche e felici pensieri che sono il prodotto dei tempi moderni), un’accozzaglia di odiatori dell’altro, di spregiatori delle libertà civili, di nemici feroci del diritto a ricercare ciascuno la sua felicità senza far male ad alcuno. I giornali e altri ricettacoli dell’opinione non riescono ad argomentare con equilibrio, con la misura del dialogo che sempre invocano, non riescono a pensare nemmeno un solo istante che ci sia ancora spazio per persone, per gruppi e magari per folle immense che considerano con obiettiva e serena avversione, e con preoccupazione, l’insegnamento scolastico del gender e il matrimonio o la filiazione omosessuale. Devono essere per forza nemici dell’umanità, dell’evoluzione, del progresso, della storia, delle idee giuste in sé e per sé, e delle pensioni di reversibilità. Gente pericolosa, alleati delle peggiori fobie della destra internazionale, gente alla quale tagliare la strada con divieti e legislazioni ricattatorie sui temi dell’omofobia. L’altra cosa che colpisce è l’alleanza, ormai pacifica, tra questo ostracismo sociale diffuso verso chi eccepisca dubbi non negoziabili sul carattere della più grande svolta antropologica della storia umana, la parificazione giuridica e culturale dei sessi ottenuta cancellandone la differenza naturale, e la chiesa gerarchica cattolica, colpita da diffidenza, grave imbarazzo e come obbligata a una presa di distanza che segnali l’arretratezza devozionale e di pensiero di queste formazioni sociali orientate alla protesta. Un vescovo a Milano chiede scusa allo stato e ai media se un uomo di curia si è permesso di domandare che cosa si studi nelle scuole in materia di amore, sesso, riproduzione e identità sessuale, sarà sicuramente una insana curiosità di tipo maccartista, una black list e che Dio ce ne guardi. Un altro vescovo, messo a guardia dell’ovile episcopale italiano, sfida la credulità ingenua e inautentica dei militanti pro life e li sbeffeggia per la loro contrizione di fronte alle pratiche abortive. Poi la gerarchia fa un po’ di attenzione, dirama qualche intervista benevola a cose fatte, e sanziona che in fondo il mondo non è un paradiso e la folla di San Giovanni non era composta da diavoli, bontà loro, ma questo dopo il fatto, post factum, e a sanatoria dello strano divorzio dottrinale e di coscienza tra chiesa e fedeli, tra gerarchia e un pezzo

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almeno del popolo di Dio. L’intolleranza confessionale delle reazioni e l’atteggiamento secolarizzatore e supino della gerarchia sono i due elementi chiave che testimoniano il fatto nuovo e inquietante. Altro che laicità, altro che libertà, altro che diritto eguale: dilaga una nuova religiosità politicamente e civilmente corretta, va avanti un mondo nuovo nel quale chiesa e establishment secolarista hanno deciso di riconoscersi fino in fondo, conducendo pecorelle e citoyens in un unico ovile dove si biascica la fuffa del pensiero unico, dal sesso al riscaldamento globale. Ed è un guaio serio.»4

La  modernità  ha  un  cuore  laicista, e dunque contro Dio, ma certamente ha anche un cuore aperto all’uomo e, sia pur in modo scorretto, tenta di metterlo al centro della propria considerazione. L’uomo è una potenzialità positiva sul piano intellettuale, morale, culturale e sociale; è l’uomo che si fa, che si crea, che si rigenera continuamente e che affronta le sfide dell ’esistenza, personale e sociale, facendo riferimento alla grande risorsa della propria intelligenza e della propria volontà. Questa è la complessità della modernità. La modernità non è soltanto ateismo laicistico e totalitarismo ideologico, ma è insieme crisi dell’umano e cuore che batte per l’uomo, e che pensa di poter realizzare un destino positivo per l’umanità. Ma nella modernità stessa emerge una sostanziale incapacità di mantenere le proprie promesse positive. Si può organizzare il mondo contro Dio, affermava Henry De Lubac, in quella splendida opera dal titolo Il dramma dell’umanesimo ateo, 5 ma una volta che lo si è organizzato contro Dio si deve amaramente riconoscere che lo si è organizzato contro l’uomo, perché Dio è necessario all’uomo, per un’autocoscienza adeguata della propria umanità e delle proprie possibilità positive o negative; soprattutto Dio è necessario perché la vita sia adeguatamente sostenuta dalla grazia, e dunque possa svolgersi secondo tutte le sue opportunità. Forse il punto di vista più adeguato sulla vicenda della modernità si trova nell’insegnamento del Papa emerito Benedetto XVI, quando ha affermato che l’apostasia 6 da Cristo comporta, presto o tardi, l’apostasia dell’uomo da sé stesso. L’uomo contemporaneo è gravemente condizionato dalla modernità. Bisogna riprendere l’inizio del n. 10 della Redemptor hominis e soprattutto quegli stralci dal discorso di san Giovanni Paolo II su Evangelizzazione e ateismo del 10 ottobre 1980. L’uomo rischia di essere nel mondo – per le conseguenze culturali, psicologiche e morali della modernità – un uomo senza nessuna profondità, e quindi senza nessuna dignità, in balìa delle circostanze e dei condizionamenti. L’uomo rinchiuso in sé stesso con la presunzione che la sua ragione sia capace di conoscere tutto, e la scienza e la tecnica siano capaci di organizzare e manipolare tutto, è un uomo che ha perso il senso del mistero che l’uomo è a sé stesso. Crisi  di  identità. L’uomo è stato travolto dai risultati del suo stesso tentativo di realizzarsi in modo pieno cioè senza Dio e quindi contro Dio. La crisi che ampiamente contrassegna la società, – non solo quella italiana –caratterizzandola anche oltre le crisi innegabili delle grandi ideologie, è una crisi profonda di identità, una crisi antropologica che è alla base di tutte le crisi, a cominciare da quella economica, che attanagliano l’umanità. Questi atteggiamenti di fondo hanno come conseguenza un’esistenza dell’uomo abbandonato a sé stesso, lasciato solo, non accolto da nessuno, tante volte neppure dai suoi genitori. Il mondo, dunque, in questa sua disintegrazione, ha bisogno di terre nuove e

4 Giuliano Ferrara, La fuffa del pensiero unico, dal sesso al riscaldamento globale. Il Foglio 23/06/2015 5 Libro pubblicato nel 1944, in cui de Lubac si confronta con la problematica dell’ateismo filosofico nelle sue molteplici declinazioni: di esso, rigetta totalmente la convinzione secondo la quale l’affermazione di Dio implicherebbe necessariamente la negazione dell’uomo. In rottura con questa tesi, de Lubac guarda a Kierkegaard e a Dostoevskij per capovolgere le posizioni dell’ateismo filosofico, sostenendo a più riprese che è la negazione di Dio a produrre la negazione dell’uomo. Come prove lampanti del suo asserto, de Lubac può portare tutte le tragedie che hanno costellato il Novecento e che sono state compiute ogni qual volta l’uomo ha preteso di negare Dio e fare da sé. In opposizione con l’ateismo, è possibile secondo de Lubac mettere in luce come umanesimo e cristianesimo, lungi dall’elidersi mutuamente, siano coessenziali. 6 L'apostasìa è l'abbandono formale e volontario dalla propria religione. All'apostasia può seguire sia l'adesione a un'altra religione (conversione) sia una scelta areligiosa (ateismo). Molte religioni considerano l'apostasia un vizio, una degenerazione della virtù della pietà nel senso che quando viene a mancare la pietà, l'apostasia ne è la conseguenza; spesso l'apostata viene fatto bersaglio di condanne spirituali (ad esempio la scomunica) o materiali ed è rifuggito dai membri del suo precedente gruppo religioso.

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cieli nuovi. Ha bisogno di sentirsi ridire con l’impeto di oggi, nel vivo dell’esperienza quotidiana così drammaticamente ma anche banalmente vissuta, la profondità di una tradizione di più di duemila anni, fondata sulla presenza di una realtà nuova nel mondo e del mondo. Quello che era impossibile all’uomo, Dio lo ha fatto 7. La  mondanità  priva  il  creato  della  speranza  «L’umiltà della fede è scomparsa: l’orgoglio del fare ha fatto fallimento; così va prendendo piede un nuovo atteggiamento non meno deleterio, un atteggiamento che vede l’uomo come un guastafeste che rompe tutto e che è il vero parassita e la vera malattia della natura. L’uomo non ha più simpatia per sé stesso, preferirebbe ritirarsi, affinché la natura ritorni sana. Ma neppure così ripristiniamo il mondo, perché contraddiciamo il Creatore anche quando non vogliamo più essere gli uomini che egli ha voluto. In questo modo non guariamo la natura, bensì distruggiamo noi e con noi il creato. Lo priviamo della speranza, che è in esso insita, e della grandezza a cui è chiamato» 8. Pessimismo  cosmico  e  disperazione  Un tema quasi d’obbligo è quello del parallelo dei grandi pessimisti del XIX, come Schopenhauer e Leopardi che hanno tratto parimenti il dolore di vivere. Sulla sofferenza universale essi concordano che tutti gli esseri dotati di sensibilità siano condannati alla sofferenza: non solo gli uomini, ma anche gli animali, anche le piante. Anche una foresta o un giardino, dove sembra regnare la pace e la tranquillità, sono un luogo di tormento. SCHOPENHAUER: "No, nella foresta tranquilla, che sembra sognare in disparte, nella prateria che allieta lo sguardo del poeta, tutto è guerra intestina: sterminio implacabile, da albero ad albero, da filo d'erba a filo d'erba, da fiore a fiore... Osservate questa povera pianta secca e smorta" (colloqui, Rizzoli, 1982, pagg. 274-275).

LEOPARDI: «Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia, pur quanto volete ridente. Sia nella pia mite stagione dell'anno, Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate dei patimenti. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di sofferenze, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali punto» (Da Zibaldone, 11, Mondadori, 1945, p. 1005). Leopardi e Schopenhauer sulla noia concordano che se i mali derivanti dai bisogni o dalle cure particolari hanno tregua, subito subentra la noia, che di per sé è sentimento di infelicità. SCHOPENHAUER: ":... non appena miseria e dolore concedono all'uomo una tregua, la noia e subito vicino tanto, che quegli per necessità ha bisogno d'un passatempo... E la noia è tutt'altro che un male di poco conto: che finisce con l'imprimere vera disperazione sul volto" (Da li mondo ecc., 1, cit., pp. 389-390). LEOPARDI: «Quando l'uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia» (Da Zibaldone, II, cit., p. 1306). In seguito alla crisi del 1819 il Leopardi aveva messo a punto, non senza ambivalenze, una concezione contradditoria di natura e ragione (Rousseau), nel corso degli anni successivi progressivamente egli la mette in discussione, per approdare a quello che è stato definito con fortunata formula il suo pessimismo cosmico e che costituisce l'assetto all'incirca definitivo del suo pensiero. L’uomo è soggetto ad una natura matrigna, che non è che l’immagine dell'intero universo come un ciclo di produzione-distruzione di materia, dell'assenza di qualsivoglia disegno provvidenziale. La ragione, considerata nel pessimismo storico, la causa dell’infelicità, avendo allontanato l’uomo dalla natura, ora è efficace strumento conoscitivo, in grado di svelare le contraddizione del reale.

7 mons. Luigi Negri, La ripresa dell’identità per superare la crisi. Studi Cattolici n. 651 maggio 2015 8 Joseph Ratzinger prediche quaresimali nella cattedrale di Monaco dall’ex arcivescovo, 1981

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Ciò comporta la critica ai dogmi del cristianesimo, sulla felicità. «La felicità che l'umano naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza ... », (Zibaldone). Soprattutto in La Ginestra, vera e propria summa e vertice della meditazione e della poesia dell'ultimo Leopardi 9, il Leopardi diviene apostolo di verità: è il titano e il nuovo Prometeo contro la natura. Sotto l'incombente, minacciosa mole del Vesuvio, nella desolazione di una pendice sterile dalla lava, cresce la ginestra "contenta dei deserti". La ginestra è l’esempio di coraggio: anche se il vulcano la travolgerà essa rimarrà sotto, come atto di titanismo. Leopardi si oppone al secolo sciocco e vile, che mette al centro l’uomo, quando esso è infinitamente piccolo e fragile nell’universo. Il Leopardi qui sposa l’idea utilitaristica e solidaristica del poeta: solo solidarizzandosi e confederandosi contro il nemico comune la natura e combattendo le "superbe fole" l’uomo potrebbe vivere una convivenza civile più salda e duratura. Anche Lucrezio nel De Rerum Natura dall'alto della sua solitudine e della sua collera terribile appare soggiogato e affascinato dall'onnipotenza della natura. Lucrezio esalta la sua crudeltà e attacca la stolta superbia degli uomini che pretendono di essere il centro dell'universo, mentre non sono che vermi. Lucrezio evidenzia il materialismo, per esempio: Haud igitur penitus pereunt quaecumque videntur Quando alid ex alio refecit natura nec ullam Rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena. (Qualsiasi cosa che si veda perisce, dal momento che la natura dall’una cosa un’altra né ricrea né nessuna cosa si trasforma se con l’aiuto della morte di un’altra). Fa polemica, contro gli ottimisti laudatori del genere umano, conclusioni simili alla Ginestra leopardiana: si parla del fanciullo che vive in un orizzonte doloroso, delle fatiche del parto e del vagito del bimbo che sono i primi segni delle sofferenze. La natura è matrigna e coinvolge tutto nel suo ciclo vitale. L’uomo sembra nascere con una colpa ignota, con un marchio ineliminabile di mediocrità e di dolore. Lucrezio così vive uno scoramento profondo e un cupo travaglio interiore. Anche se apparentemente legato al sistema epicureo, che designava la paura della morte e degli dei causa dell’infelicità umana, Lucrezio rispetto a Leopardi e a Schopenhauer non ha un sistema filosofico che controlli la sua intima irrazionalità. Al posto dell’atarassia vive il brivido per la vanità delle cose umane. Il titanismo prometeico, che Leopardi e Schopenhauer hanno promosso, presentando l'individuo in lotta contro la società ingiusta e contro la stessa divinità, è ripreso in musica da Beethoven con intensità senza pari. Le sue innovazioni si potrebbero compendiare nell'intensificazione dell’espressione, sotto tutte le forme, con tutti i mezzi a disposizione del musicista, dalla moltiplicazione degli strumenti in orchestra alla moltiplicazione delle difficoltà tecniche nell'impiego degli strumenti solisti, con conseguente arricchimento di effetti, dall'addensarsi di indicazioni espressive sempre più particolareggiate alla libertà del ritmo melodico. In Beethoven c’è la lotta di due principi opposti, in violento contrasto di luce e d'ombra, piuttosto che diffondersi in un anelito di luminosità com'era stato il caso per Mozart. I due elementi fondamentali dell'arte beethoveniana sono il dolore della vita, risentito da un animo che si fa eco dell'intera umanità, e l'energia nella disperata risoluzione di affrontarlo. Nella seconda Sinfonia, il chiaro di luna è una tragica e glaciale desolazione che assomiglia “Alla luna” di Leopardi e un impeto d’eroismo tempestoso. Beethoven prende su di sé i mali del mondo, le miserie dell'umanità; egli è l'apostolo battagliero della giustizia, è il grande eroe che in sé accoglie l'amore del prossimo e si fa guida all'uomo verso un ideale di bene e di libertà, di dignità umana duramente conquistata. La marcia funebre che costituisce il secondo tempo è come un'immensa voce di lamento, il corale rimpianto dell’umanità sulla

9 W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.

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spoglia di chi ne incarnava i più nobili aspetti e ne difendeva i diritti a viso aperto, La lotta contro le potenze avverse del destino, verso la fine della vita è superata con il recupero della fede: ogni residuo d'autobiografismo interiore, nell'animo di Beethoven - pur nello squallore sempre più tetro della vita, nella solitudine inesorabile cui la crescente sordità lo condannava - ascende alla contemplazione di supreme verità d'ordine religioso. Era prima di tutto la Natura che gli rivelava il suo segreto. La Sinfonia pastorale, op. 68 in fa maggiore (1805), parte da un semplice sentimento e di ristoro, di ricreazione del cittadino che s'abbandona alle delizie della campagna, e perviene ad afferrare il senso del divino che vive nella natura.

 Sulla  speranza  umana  

Un bene proprio dell’uomo La speranza è una forza spirituale che interessa l’uomo in quanto uomo. Essa connota e distingue l’uomo dagli altri esseri altrettanto bene quanto la ragione, la libertà, il linguaggio, la cultura, la religione ecc.. La speranza è propria dell’essere-uomo perché questi è un essere incompiuto, in continuo movimento, in costante tensione verso il futuro. La speranza semplicemente umana fonda la sua attesa fiduciosa su calcoli e su poteri umani.

La speranza è tipica dell'uomo 10 che come afferma Edmund Husserl, 11 «è un essere che progetta il suo futuro» 12 poiché è mosso dal desiderio di una vita più felice di quella che vive nel presente e quindi esplora «con il pensiero e l'immaginazione le strade per arrivarci...Noi pensiamo al possibile perché speriamo di poterlo realizzare. Ma la realizzazione del progetto da esplicare secondo ragione, mettendo da parte l'impulso e l'istinto, si scontra con il sentimento dell'indeterminatezza del futuro che genera il timore. 13 Nella   storia   della   filosofia il significato del termine "speranza" trova adeguata definizione soprattutto in Aristotele che la concepisce come un atto della volontà che nasce da una abitudine virtuosa che in potenza tende al raggiungimento di un bene futuro difficile ma non impossibile da realizzare. In questo comportamento occorre che sia ben definito il bene che si vuole ottenere e il mezzo che rende congruamente possibile conseguirlo: per cui la speranza si riferisce non solo all'oggettivo bene verso cui tende la volontà, ma anche a ciò con cui si ha fiducia di ottenerlo. La speranza è un atteggiamento che muta col mutare dell'età dell'uomo: la virtù della speranza è ben presente nella sua ben definita identità nella maturità, mentre nella giovinezza si manifesta con eccesso e nella vecchiaia difettosamente: «...I giovani sono mutevoli e presto sazi nei loro desideri...e vivono la maggior parte del tempo nella speranza; infatti la speranza è relativa all'avvenire, così come il ricordo è relativo al passato e per i giovani l'avvenire è lungo e il passato breve...» 14 perciò sono magnanimi perché inesperti e non ancora delusi dalla vita e, quindi, facili a sperare; i vecchi invece, amareggiati dalle asperità della vita passata e dai loro errori, sono meschini: si tengono al di sotto dei loro desideri e sperano solo ciò che attiene alla vita comune perché hanno paura del futuro. 15 Quando Pandora, fanciulla divina, per curiosità aprì il vaso che Zeus le aveva ordinato di non aprire , ne uscirono tutti i mali del mondo, eccetto la Speranza. Gli uomini, che prima erano felici e immortali come gli dei, conobbero allora il dolore e la morte, finché Pandora liberò anche la Speranza, che alleviò la loro insopportabile esistenza. Molti conoscono questa storia della mitologia greca tramandata da Esiodo, ma pochi forse si sono interrogati

10 «Se un albero che non riceve la luce piega il suo tronco in direzione del sole non possiamo sostenere che l'albero spera, perché la speranza in un uomo è legata ai sentimenti e alla coscienza che l'albero non ha. (In Erich Fromm, La rivoluzione della speranza. Per costruire una società più umana. Milano,Bompiani, 2002, p.19) 11 Husserl Edmund. - Filosofo tedesco (Moravia, 1859 - Friburgo in Brisgovia 1938). Fondatore della moderna fenomenologia, ha fornito sostanziali contributi allo sviluppo di un concetto di filosofia come scienza a priori, teorizzando la messa tra parentesi (epochè) dei presupposti del senso comune (l'esistenza di una realtà esterna al soggetto, le caratteristiche psicologiche del soggetto stesso), al fine di raggiungere una condizione di contemplazione disinteressata che permette di cogliere l'essenza stessa dei fenomeni. 12 In Antonio Poliseno, La speranza. Tra ragione e sentimento, Armando Editore, 2003 p.7 e sgg. 13 Ernst Bloch, Philosophy of the Future, New York, 1970 14 Aristotele, Rhetorica, 1389a 15 Aristotele, Rhetorica, 1389a, 1390b

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a fondo sul suo significato. Perché per i Greci la speranza era originariamente un male? Nella loro cultura era troppo vicina all’illusione, a cui seguiva inevitabilmente la delusione, che rende ancora più tragica la realtà; dunque, meglio non sperare.

Il  mondo  in  cui  viviamo  ha  smarrito  la  speranza  

L’uomo si interroga dolorosamente sul significato della sua esistenza senza trovarne un senso che lo appaga veramente: a cosa serve vivere? Perché vivere? Ecco le grandi domande che aspettano una risposta urgente! «Un semplice sguardo alla storia antica, d'altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell'uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l'orientamento da imprimere all'esistenza.»16 Come  mai  è  scomparsa   la  Speranza? Sarà perché Dio è ormai morto e d’ora in poi non se ne parla più? L’uomo infatti ha sostituito Dio con “l’Opera delle sue mani” (Isaia 2,8) cioè con i suoi Idoli, con le sue Ricchezze e con le sue Sicurezze? Così ha cancellato la Speranza che punta verso il Cielo, per inventarsi una propria speranza che poggia sulle proprie sicurezze. Essa però non ha risolto nessun problema perché mai come oggi la paura abita il suo cuore. Un futuro ignoto e assurdo lo paralizza! - Quando  scompare  la  Speranza,  il  futuro  si  fa  nemico  dell’uomo, gli impedisce di progettare e lo blocca. Ora quando il futuro è nemico, il presente diventa pesante e fastidioso. La cosa migliore allora è nascondersi per scomparire nel “carpe diem”! - Quante persone disperano! Sono tanti coloro che dopo un periodo tranquillo e comodo crollano nella depressione e disperazione perché sono svanite le loro sicurezze. Ma “La  Speranza  non  va  da  sé”. Lo diceva chiaramente il poeta francese Charles Peguy 17 nella sua poesia - «La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere non c’è che da lasciarsi andare, non c’è che da guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contraddirsi. Bloccarsi. Prendersi alla rovescio, mettersi a rovescio, tirarsi su. La fede è tutta naturale, è tutta andante, tutta semplice, che va e viene naturalmente, graziosamente. E’ una buona donna che si conosce, una vecchia buona donna, una buona vecchia parrocchiana, una buona donna della parrocchia, una vecchia nonna, una buona parrocchiana. Lei ci racconta le storie dei tempi andati che sono successe nei tempi andati. Per non credere, piccola mia, bisognerebbe coprirsi gli occhi e le orecchie. Per non vedere, per non credere. La carità va da sé. La carità cammina tutta sola. Per amare il prossimo non c’è che da lasciarsi andare, non c’è che da guardare quanta desolazione. Per non amare il prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contraddirsi. Bloccarsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi alla rovescia, mettersi a rovescio. Tirarsi su. La carità è tutta naturale, tutta sorgente, tutta semplice, tutta alla mano. E’ il primo movimento del cuore. E’ il primo movimento che è quello buono. La carità è una madre e una sorella. Per non amare il prossimo, bambina, bisognerebbe coprirsi gli occhi e le orecchie. Ma la Speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna essere felice, bisogna aver ottenuto, aver ricevuto una grande grazia.

16 Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et ratio, 1998, 1 17 Charles Péguy (1873 –1914) è stato uno scrittore, poeta e saggista francese. Nel 1907, si convertì al cattolicesimo. Morì in combattimento, all'inizio della prima battaglia della Marna.

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E’ la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. E’ la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile! E quel che è facile ed è la tendenza a disperare ed è la grande tentazione!» - Per   entrare   nella   Speranza,   bisognerà   passare   per   la   porta   della   fede. Lo dice l’Autore della Lettera agli Ebrei: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Ebrei 11, 1). La  speranza  cr i s t iana  1.  la  fede  di  Abramo  che  è  speranza  Il capitolo 15 della Genesi contiene la riflessione del redattore sulla vicenda di Abramo quale fu rivissuta da Israele in tempi molto lontani dall'esistenza di Abramo stesso. "Abramo credette e gli fu computato a giustizia". Nella tradizione biblica, credere significa stare appoggiato. Abramo credette: stette saldamente appoggiato alla Parola di Dio, visse ancorato alla promessa di Dio. La promessa di Dio è promessa di una terra e promessa di una numerosa discendenza. Ma la promessa di una terra è contraddittoria, perché i possessori di questa terra sono altri (i Cananei); anche la promessa di una numerosa discendenza è contraddittoria, perché Abramo non ha discendenti. È una promessa in un contesto di deserto di vita. La promessa di Dio si pone perciò in termini alternativi alla storia, alle condizioni obiettive. Abramo credette, superò la contraddizione tra promessa e realtà attuale e si ancorò alla promessa. La sua fede gli permise di occupare la giusta collocazione nei confronti di Dio. L'appoggiarsi   di   Abramo   alla   promessa   di   Dio (alternativa, contraddittoria rispetto alla situazione attuale) è  la  speranza. Scrive Paolo nella lettera ai Romani (4,18): «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza». Credette in un Dio «che rende vita ai morti e chiama all'essere le cose che ancora non sono" (versetto 17). La riflessione di Paolo è in chiave cristologica, perché Paolo ha presente la resurrezione di Cristo. Come Dio resuscitò dalla sterilità di Sara e dall'anzianità di Abramo il figlio Isacco, così Dio resuscitò da morte suo figlio Gesù. Dice Paolo: ««come ad Abramo fu computato a giustizia, così anche per noi. Abramo è il prototipo di colui che crede contro ogni speranza umana». - Questa speranza è speranza in un Dio che resuscita e che chiama all'essere ciò che non esiste; è  speranza  contro  ogni  speranza  umana. La speranza di Abramo (che rappresenta il tipo di ogni credente) non va confusa con il facile ottimismo. Non è un ottimismo che si basa sull'evoluzione positiva delle situazioni, ma è una speranza che si coniuga in termini di sfida alla situazione attuale. È una speranza nonostante. Questo deve far riflettere noi, che siamo i figli delle speranze facili, ottimistiche, a basso prezzo (quali le speranze del '68: sembrava che i cambiamenti fossero dietro l'angolo). La speranza di Abramo (e perciò dei credenti) è ad altissimo prezzo. - La speranza è affidarsi alla promessa, è appoggiarsi. Ma questo affidarsi alla promessa di Dio, questa fiducia, non vanno interpretate in termini di pigrizia storica. Abramo non si è affidato alla promessa di Dio in termini contemplativi: si è mosso, ha agito, è venuto nella terra che era sua per promessa, ma dei Cananei per titolo storico, giuridico. Affidarsi alla promessa significa uscire dalla situazione, dal passato e dal presente, che possediamo, e camminare verso. È un processo di sradicamento. Abramo è stato sradicato dalla sua situazione di possesso ("Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua parentela") per un nuovo radicamento: nella terra promessa. Venendo in Canaan, non ha ancora quello che avrà. Il camminare, il muoversi ha valore simbolico. Nella lettera agli Ebrei (cap. 13, versetto 14) si parla dei credenti come di coloro che non hanno qui la loro città, stabile, ma sono in cerca di quella futura. Abramo è in cerca della terra futura. 2.  la  speranza  durante  l'esperienza  dell'esilio  del  popolo  di  Israele  Nel 586 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, conquista Gerusalemme e la rade al suolo. Alcune migliaia di abitanti del regno di Giuda (gli strati più elevati) vengono deportati lungo

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i fiumi di Babilonia. Il salmo 137 è il canto nostalgico degli esuli che, lontani dalla loro patria, hanno appeso le cetre ai salici: non possono cantare un cantico del Signore in terra straniera. «Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se io non avrò memoria di te, se io non metterò Gerusalemme al di sopra di ogni mia allegrezza». C'è una grande nostalgia in questi esuli, anche perché Gerusalemme contava tutto per loro. Su una sponda del fiume di Babilonia cresce la pianta della rassegnazione, del disfattismo, della disperazione, poiché questi esuli sono coscienti di aver perduto tutto: terra, re, tempio, sacerdozio. Pensano che il progetto di Dio su di loro, popolo di Dio, sia finito, che sia la fine della storia dell'Alleanza. Dicono: «siamo morti, come ossa aride, sparse nella valle tra i due fiumi; o si considerano dei cadaveri chiusi ermeticamente nei sepolcri». Sull'altra sponda del fiume di Babilonia si fa udire la voce profetica di Geremia e Ezechiele, in contraddizione con il disfattismo degli esuli. Geremia abitava a Gerusalemme, ma seguiva da vicino gli esuli, col cuore era con loro, ritenendo che la rinascita del popolo di Israele partisse da loro. Quando a Gerusalemme la svalutazione delle proprietà terriere era al culmine, Geremia fece un gesto in contraddizione rispetto al processo inflazionistico, che spingeva tutti a vendere: comprò un campo e pubblicamente stese un atto notarile di compravendita (i profeti annunciavano la Parola di Dio non solo vocalmente, ma anche con azioni simboliche). Davanti alla meraviglia di tutti di fronte al suo gesto, Geremia disse: «Verrà quel giorno in cui si compreranno campi in questo paese, di cui voi dite: "È una desolazione, senza uomini e senza bestiame, abbandonato in potere dei Caldei. Si compreranno campi con denaro, si stenderanno dei contratti e si sigilleranno...» (32-43-44). Geremia  annuncia  la  speranza  in  un  momento  di  desolazione. Ezechiele viveva con gli esuli, perché faceva parte della classe sacerdotale di Gerusalemme. La sua parola però risuonava in esilio. Ha una visione di una valle piena di ossa aride; da Dio riceve l'ordine di profetizzare su quelle ossa, cioè di dire la Parola di Dio. Sotto l'effetto della Parola di Dio pronunciata dal profeta, il popolo si rialza, ma non può ancora camminare. Allora Dio dà ad Ezechiele il secondo ordine, di dire a quelle ossa aride: «Io mando il mio Spirito che è soffio di vita». Ezechiele  annuncia  la  rianimazione  delle  ossa  aride  e  lo  scoprimento  dei  sepolcri. Su questa sponda del fiume di Babilonia nasce la pianticella di speranza per bocca di Geremia ed Ezechiele. - Questa speranza è speranza contro ogni motivo di disfattismo, di disperazione. Ancora una volta è una speranza contraddittoria rispetto allo status quo; è speranza di resurrezione di un popolo. - Mentre la storia di Abramo è la storia di un credente (anche se il prototipo di tutti i credenti) la parola di Geremia ed Ezechiele presenta una speranza  comunitaria, di popolo. - È una speranza sostenuta sia dalla Parola di Dio (che rimette in piedi, ma non fa muovere), sia, in un secondo momento, dallo Spirito di Dio (che è il principio creativo). La speranza presentata dai profeti non equivale ad un programma per il futuro, da realizzare più o meno volontaristicamente, ma nasce in un campo di lotta tra forze di rassegnazione e forze vivificanti dello Spirito. Speranza,  nella  bibbia,  è   sinonimo  di  dinamismo,  di   creazione,  di  movimento. La speranza è una bandiera puntata sul campo di lotta che è in noi e intorno a noi. Le forze vivificanti sono forze donate da Dio, che è lo Spirito: perciò sono forze di vita, di resurrezione. La  speranza  si  gioca  nella  lotta. Non è attendere comodamente che piova la manna dal cielo: è la speranza dei combattenti che si appoggiano alla forza della Parola di Dio. Questa è forza che produce fiducia, che fa passare alla speranza; è energia, è come una pioggia, che risale al cielo non senza aver fecondato il campo; è creatrice, suscitatrice di essere dove non c'è essere. Parola e Spirito di Dio nella bibbia sono sempre coniugate come forze operative, creatrici. Giovanni: «la Parola è energia creatrice solo se animata dallo Spirito».

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Isaia, in una situazione di delusione, rilancia la speranza. Promette in nome di Dio la creazione di qualcosa di nuovo. «Non abbiate nostalgia del passato: Io, Dio, sto per creare cose nuove». Scrive Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (1, 20): «Tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate 'sì' ». Il rilancio della speranza dopo Cristo è un rilancio della speranza per coloro che solidarizzano con Cristo. - Lo  Spirito  di  Dio  sostiene  questa  speranza che è forza creativa. Lo Spirito di Dio non va inteso in termini trascendentali: al contrario, è una realtà che ci è donata, che è in noi, che è operante in noi. Dio promette: Io darò il mio Spirito al popolo. La speranza assume il volto della disponibilità allo Spirito, del fare spazio all'azione dello Spirito che è in noi. 3.  Paolo  fa  della  speranza  il  tema  specifico  della  sua  teologia  Prima lettera ai Tessalonicesi (4, 14-18) Paolo risponde ai quesiti che gli pone la comunità di Tessalonica (che noi dobbiamo ricostruire sulla base della risposta di Paolo). È convinzione comune tra i cristiani, in questi primi anni dalla morte di Gesù (neanche vent'anni dopo la sua morte), che Cristo ritornerà a brevissima distanza di tempo a chiudere la storia. Il suo ritorno provocherà il rapimento dei credenti nel cielo. Questi non passeranno attraverso la morte perché, essendo risorto Cristo, non c'è più morte, si pensa, ma solo un passaggio da questo all'altro mondo. Accade che a Tessalonica avvengano alcuni decessi: si crede allora che queste persone morte siano ormai perdute, non possano essere più salvate. La comunità giace nella desolazione, nell'abbattimento, che nasce appunto dalla “perdita di speranza nel destino dei morti”. Ma i cristiani di Tessalonica sono nella desolazione anche per se stessi. Si chiedono infatti: "Se morissi anch'io prima del ritorno di Cristo? Anch'io avrei questo destino di perdizione." Paolo dice loro che si comportano "come coloro che non hanno speranza", cioè come i pagani. Questa è la sua prima risposta: «Come crediamo che Gesù è morto e resuscitato, così anche quelli che si sono addormentati in Gesù, Dio li radunerà con Lui» (versetto 14). Paolo si appella alla fede cristiana nella resurrezione di Cristo: Dio ha resuscitato Cristo, cioè ha vinto la morte a favore di Cristo, ne consegue la speranza nella comunione nostra con Cristo. La  speranza,  cioè,  nasce  dalla  fede  nella  resurrezione  di  Cristo,  nell'intervento  di  Dio  che  ha  vinto  la  morte  in  Cristo. È una speranza che poggia sulla solidarietà nostra con Cristo. È Cristo risorto il motivo della nostra speranza. In quanto solidarizziamo con Lui nella fede, possiamo sperare. Non più abbattimento, ma consolazione, o meglio incoraggiamento. Paolo entra poi nel problema di quelli che sono morti e di quelli che sono ancora vivi: «... noi, i vivi, non saremo avvantaggiati su quelli che si sono addormentati. Perché il Signore stesso, a un cenno, alla voce di arcangelo e alla tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i rimasti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole...»" Esiste un legame molto stretto tra fede e speranza. La speranza è una possibilità che nasce dalla fede, non da una visione ottimistica delle cose; la speranza cristiana si fonda sull'adesione al Cristo risorto, non su una concezione filosofica o antropologica della realtà. Ciò vuol dire che la speranza cristiana ha una dimensione cristologica, è speranza in Cristo come fonte di aggregazione (Cristo risorto che aggrega a sé i credenti nella resurrezione). La speranza cristiana è quel movimento per cui scopriamo, nella fede, la dimensione di promessa che ha l'Evento (la resurrezione di Cristo). È evento avvenuto, per Cristo e promessa di realizzazione per noi. La speranza scaturisce da un Evento, si compie unicamente nella fede. - I contenuti obiettivi della speranza (in cosa speriamo). Paolo conclude: «e così saremo sempre con il Signore». Questo è il  contenuto:  la  comunione  con  il  Signore. La speranza dona a questa comunione il carattere di indefettibilità: sarà comunione per sempre, totale. L'oggetto della speranza è una realtà interpersonale (Gesù). Il soggetto è il noi della comunità cristiana: noi saremo sempre con il Signore. Prima lettera ai Corinzi (cap. 15).

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A Corinto c'era una vivace minoranza di credenti, che interpretava la salvezza di Cristo in termini di attualismo e di spiritualismo. Non credeva nella resurrezione futura e corporea: la resurrezione è già avvenuta (attualismo) e riguarda l'io interiore (spiritualismo). Il legame con la storia, con il mondo, con il tempo, c'è ancora, ma esso non è determinante. Davanti a quest'interpretazione massimalistica, di "fuga in avanti", Paolo dice: 1) la salvezza, la resurrezione, non sono attuali, ma future. Non siamo ancora risorti. 2) la resurrezione che attendiamo è corporea. Paolo fonda la resurrezione futura e corporea rifacendosi a Cristo: Cristo è risorto (lo crediamo e lo predichiamo), perciò i credenti resusciteranno. Pone un rapporto tra evento e promessa. Se i morti in Cristo non resuscitano, allora neppure Cristo è risuscitato. Perché questo legame tra Cristo e la resurrezione futura dei credenti? Perché Cristo  è  resuscitato  non  come  caso  sporadico  ed  eccezionale,  ma  come  primizia;  come  primo,  non   come   unico. Ci sono i secondi, e siamo noi i secondi. Ma l'immagine della primizia fa pensare ad una successione cronologica: al contrario, il legame tra Cristo e noi è più profondo di una successione cronologica. Infatti a questa immagine segue quella del Cristo risorto come nuovo Adamo. Adamo rappresenta un individuo e insieme il genere umano. Tre sono i rapporti tra Cristo (l'Evento) e l'evento promesso per noi: - prima lui, poi noi; - come lui, così noi (a sua immagine) - noi in forza di lui (lui è il resuscitato che resuscita noi). Cristo è risorto come primizia, immagine esemplare per noi, principio di resurrezione per noi, per cui l'evento della resurrezione di Cristo comporta la promessa di resurrezione per noi. La  speranza  nasce  da  questa  solidarietà  tra  Cristo  e  noi. Da ciò comprendiamo come Cristo sia la nostra salvezza. Cristo è un individuo singolo, ma occupa nella storia della salvezza un posto unico: quella di avere una funzione per gli altri uomini. Cristo è il principio di una nuova umanità. Cristo, il nuovo Adamo, per l'umanità significa speranza. L'evento di Cristo è promessa per noi. Da questa lettera di Paolo emerge anche il tema della resurrezione corporea. Per corpo qui si intende non la parte materiale contrapposta allo spirito, ma tutto l'uomo in quanto si apre, si relaziona a Dio, agli altri, al mondo. La resurrezione dei corpi interessa l'uomo come soggetto relazionale, comunicativo, in rapporto agli altri, a Dio, al mondo. Paolo   declina   i  contenuti  della  speranza  in  chiave  personalistica. La   speranza   riguarda   l'uomo   come   persona,   nella   sua   comunicatività, nella relazionalità. La solidarietà dell'uomo è il suo rapporto con gli altri, la sua mondanità è il suo rapporto nel mondo. La speranza cristiana di Paolo è in antitesi con la speranza del mondo greco. Questa si basa sull'abbandono del mondo, sull'esilio dal mondo. In Paolo la  mondanità  è  intensificata,  è  oggetto  di  speranza,  nel  senso  della  sua  piena  realizzazione. Dice Paolo che i corpi resuscitati saranno corpi spirituali: è la corporeità invasa e pervasa dallo Spirito di Dio, il principio della creatività. L'uomo spiritualizzato non è l'uomo tolto dalla storicità, ma è l'uomo in cui la mondanità raggiunge la sua pienezza e purezza in forza dello Spirito. L'uomo vive in questo mondo, è persona a questo mondo. 4.  la  speranza  di  Gesù  a) nella sua vita, nella sua missione Un dato certo è che Gesù ha incentrato la sua missione profetica nell'annuncio imminente del Regno di Dio. "Regno di Dio" è un'espressione peculiare della tradizione giudaica per dire che Dio si fa re. Il Regno di Dio è la regalità di Dio, non il territorio in cui Dio regna. L'antico Israele, come altri popoli, aveva una particolare ideologia regale: il re è anche l'istanza suprema di difesa, di giustizia nei confronti di coloro che non ne hanno nella società. La giustizia del re (da distinguere da quella della magistratura) è partigiana, sempre a favore dell'oppresso, del povero, dell'indifeso.

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La monarchia di Israele non soddisfece le attese dei poveri, perciò essi proiettarono la loro speranza in Dio re, nel Regno di Dio. Gesù si innesta in questo filone di attese dei poveri che Dio si faccia re e ne annuncia l'imminenza. Non è più un'attesa a lunga scadenza, ma ormai Dio bussa alla porta della storia. Gesù ha avuto coscienza di rappresentare nella storia questo momento in cui Dio re sta per entrare nella storia a rendere giustizia. Ma Gesù non si limita a proclamare quest'imminenza: egli proclama beati i beneficiari di Dio re. «Beati gli umili, perché di loro è il Regno dei Cieli» (Matteo 5, 3). «Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli» (Luca, 6,20). La beatitudine è una proclamazione di felicità: fortunati voi. In questa proclamazione, Gesù si felicita con i poveri. È paradossale che Gesù si feliciti con i poveri, cioè con quelli che non hanno potere nella storia, gli emarginati, i disperati. Per quale motivo? Non perché gli emarginati sono i più disponibili al suo annuncio, al Regno di Dio, ma perché Dio sta per diventare re a loro favore. Sta per venire il giorno in cui i poveri non saranno più tali, perché Dio farà giustizia. Dio è a loro favore con la sua giustizia partigiana. Gesù si congratula per questo, c'è la sua partecipazione. Ma Gesù non si limita a congratularsi, opera per la venuta del Regno, apre la porta attraverso la quale Dio entra nella storia come re. Nella missione di Gesù, una delle caratteristiche peculiari, è la guarigione degli indemoniati. Gli indemoniati erano persone con malattie psichiche, nella cultura di allora attribuite ad un possesso demoniaco, non potendo dare di esse una spiegazione scientifica. Gli avversari di Gesù attribuivano la sua attività sdemonizzatrice in senso malevolo, demoniaco. Rispondeva Gesù: «Ma se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora il Regno di Dio è già venuto fra voi» (Matteo 12, 28). La versione di Luca è più primitiva: «Ma se io scaccio i demoni col dito di Dio, è dunque venuto tra voi il Regno di Dio». Il Regno di Dio comincia realmente a germinare nella storia attraverso l'azione di Gesù. La  speranza  di  Gesù  è  operativa. È una speranza che lo fa mediatore di questo anticipo reale, anche se parziale. La speranza di Gesù è una speranza riposta in Dio re. Se Dio è re, Gesù non è ancora quello che sarà, perché non è ancora diventato re, lo sarà alla fine, ma comincia ad essere nella storia quello che sarà rendendo giustizia. La   speranza   è   speranza  nella   pienezza   dell'essere   degli   uomini,   correlativa   alla   speranza   nella   pienezza   dell'essere   di  Dio. Speriamo di essere nella pienezza e speriamo che Dio sia anch'egli nella pienezza come re. La missione di Cristo si prolunga nella missione della comunità dei discepoli di Cristo. La speranza di Dio divenuto re a favore dei poveri dipende da questa mediazione storica. b) nella sua morte in croce. Gesù si accorse che lo stavano condannando a morte. Pensò anche che il suo destino fosse simile a quello del servo di Dio (Isaia, capitoli 52 e 53), che subisce passione e morte violenta e attraverso essa rende riscatto al popolo e che sarà glorificato da Dio nella morte. Gesù andò incontro alla morte nella speranza che Dio gli avrebbe reso giustizia. Si affidò a Dio, «Nelle tue mani consegno la mia vita». Gesù morì in croce con la speranza in Dio. La   speranza   cristiana è la speranza dei crocifissi, che nasce all'ombra della croce, nascosta nei fori dei chiodi che trafissero Gesù. La speranza dei crocifissi è una speranza nell'impotenza, nella frustrazione estrema. Ma la speranza all'ombra della croce non è la speranza di chi si dimette dai suoi compiti, di chi si rassegna nella storia, di chi si abbandona a Dio. La croce, al contrario, significa lotta, azione nella storia, ma lotta da poveri, da crocifissi. Gesù è morto in piedi sulla croce. Non è sceso a compromessi, ma si è battuto bene, fino alla fine; però si è battuto da povero, da uomo qualunque, non da forte, perché questa sarebbe stata una speranza satanica. Gesù non è venuto meno nel suo battersi, nel senso che è morto in piedi contestando le forze che lo stavano schiacciando. Non scendendo a compromesso, non gettando le armi, ha tolto la maschera a queste forze: sono forze violente, più forti di Gesù, ma non onnipotenti, perché non riescono a firmare l'atto di resa. Finché ci sono i resistenti, le forze della morte sono battibili, la lotta va avanti. E' una lotta tra forze non onnipotenti. La speranza è la lotta che continua, è il risorgere della lotta.

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La Croce significa morte dei sogni di onnipotenza dell'uomo. La  Croce  annulla  la  pretesa  dell'uomo  di  giocare  nella  storia  da  superuomo. Chi più di Gesù poteva giocare da Figlio di Dio nella storia? C'è un modo demoniaco di confessare Gesù Figlio di Dio: quello che esce dalla bocca dei demoni. Al contrario il centurione confessa questo guardando la Croce. È l'ombra della Croce che rende vera la figliazione divina. Guardando la Croce, non c'è più l'equivoco di costituirsi come comunità messianica potente nella storia. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che non risparmia la morte a suo figlio e quindi a noi, suoi figli. È speranza in un Dio neppure Lui onnipotente nella storia. Non è stato potente a liberare Gesù dai suoi nemici. Dio non ha liberato Gesù perché non ha potuto, non perché non ha voluto: sarebbe un Dio malvagio se, potendo liberare suo figlio, non lo facesse. Gli uomini hanno sempre sognato l'onnipotenza; ma, di fronte alle frustrazioni, ammettono realisticamente di non essere onnipotenti. Tuttavia trasferiscono in Dio questo loro sogno di onnipotenza. "Se non sono io onnipotente, lo sia almeno Dio. Io lo prego e ho a disposizione un Dio onnipotente". Il Dio di Gesù sconvolge questa immagine di Dio: sulla Croce di Gesù, con il Figlio di Dio che muore crocifisso, muore quest'immagine di Dio onnipotente. Dio si è battuto accanto a suo figlio, non da onnipotente, ma standogli accanto, morendo con Lui. Ogni discorso su Dio parte da Gesù. In Gesù leggiamo il volto di Dio. Gesù è crocifisso: allora Dio è crocifisso. Se Dio non ha risparmiato la morte, ciò significa che non vuole risparmiare la morte ai suoi. Dio è colui che resuscita, non colui che risparmia ai suoi, né colui che fa ai suoi sconti generosi di travaglio storico. La  speranza  di  Gesù  è  speranza  in  un  Dio  che  resuscita. Non ha risparmiato la morte a Gesù, ma lo ha resuscitato. Questo Dio che resuscita è il modo di Dio di essere presente nella storia oggi. Dio non è vincente, perché se Cristo è battuto, Dio è battuto in Cristo. Ma Cristo resuscita, Dio resuscita in Cristo: cioè, la sconfitta non è definitiva, non è ultima. La lotta continua. Cristo resuscita, si batte di nuovo, esce vivo, più vivo di prima, anche se la vitalità di Dio nella storia è ancora debole. Quando l'ultimo nemico sarà vinto e anche la morte sarà vinta, allora Gesù sarà diventato re, anche lui si assoggetterà a Dio e Dio sarà il re.

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