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Alle origini della Magna Grecia Mobilità migrazioni fondazioni ATTI DEL CINQUANTESIMO CONVEGNO DI STUDI SULLA MAGNA GRECIA TARANTO 1-4 OTTOBRE 2010 Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia - Taranto MMXII

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Alle origini della Magna Grecia Mobilità migrazioni fondazioni

ATTI DEL CINQUANTESIMO CONVEGNODI STUDI SULLA MAGNA GRECIA

TARANTO 1-4 OTTOBRE 2010

Istituto per la Storia e l’Archeologiadella Magna Grecia - Taranto

MMXII

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TAvolA roTonDA

e. greco

A. ponTrAnDolfo

M. loMbArDo

f. frisone

M. loMbArDo

c. AMpolo

e. lippolis

A. ponTrAnDolfo

M. grAs

v. nizzo

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Emanuele Greco

Se vogliamo avviare una discussione conclusiva credo che dobbiamo indicare innanzitutto alcuni dei grandi temi che ci hanno visto impegnati in questi giorni e procedere ad un con-fronto tra le diverse posizioni che siamo in grado di esprimere. in primo luogo ci siamo chie-

sti e ci chiediamo: possiamo parlare di fondazioni? Ed entro quali limiti, in quali casi con certezza ed in quali non? Secondo: possiamo parlare di metropoli, cioè la visione tradizionale in cui c’è una metropoli ed un’apoikia è operativa o la metropoli è un’invenzione tardiva ? Poi dobbiamo parlare del ruolo dell’ecista, se è una figura storica o no. E a questo riguardo ricordiamo tutto il dibattito, anche recente (Malkin, Moggi ed altri), a proposito della storicità dell’ecista, su cui si può dire che l’archeologia può dare solo due contributi: uno è la dedica ad Antifemo a Gela, che è del 480 a.C. (comunque è un terminus ante quem), e coincide con uno degli ecisti, Antifemo di Rodi. I culti ecistici di tipo eroico non entrano in questo orizzonte, ovviamente; ricordo la bella espressione di claude bérard, ‘recuperer la mort du prince’ che ha da tempo ben chiarito la differenza. insomma teseo ed il Theseion o tisameno con le sue ossa da riportare a Sparta sono altra cosa da batto di cirene o Antifemo di gela.

l’altro caso, da me indicato altre volte, si ricava da alcune monete di Poseidonia in cui verso il 530 a.c. compare su alcuni incusi dell’apoikia sibarita questo Fiis. Seguendo Pugliese carra-telli, e prima di lui lasserre, l’ho inteso come ‘ois’ perché giustamente lasserre restituiva il testo con Ois ho Elikeus. tutto ciò, comunque, che sia Ois o che sia Is è indipendente dal fatto che sulle monete di Poseidonia del 530 c’è il nome dell’ecista di Sibari. come dire che è ancora molto forte, non dico la dipendenza dalla metropoli, ma la predominanza dei gruppi che si richiamano all’ecista della madrepatria. la riprova della vivacità della situazione, si ha ancor di più in rilevo quando, nel V secolo a.C., al posto di Ois troviamo Megyl: già la Guarducci lo aveva detto, e prima di lei Kluge nel 1909; nel 470, un antroponimo su una moneta non può che essere quello dell’ecista. e allora ponevo a Giangiulio il problema se anche la figura storica dell’ecista in qualche caso, non possa essere il risultato di una competizione politica per cui ad un certo punto una parte prevale e la parte che prevale poi impone l’ecista della sua parte, della sua tradizione. e questo avviene in un periodo che è indicabile, ma purtroppo a Poseidonia non ci sono le fonti letterarie, come momento di grande trasformazione: il passaggio dalla moneta incusa al doppio rilievo, quello che è stato definito l’eredità di Sibari, momento nel quale inserirei l’ekklesiasterion, monumento creato in questo momento, e questo qualche cosa deve significare, perché prima l’edificio non c’era e dun-que era inesistente anche la funzione che vi si svolgeva dentro. Sul problema dell’ecista non mi pare che l’archeologia possa dire molto di più. e poi c’è il problema del rapporto greci e indigeni, i comportamenti delle varie comunità autoctone, e la strutturazione della città, argomento su cui abbiamo discusso poco fa per Megara e Selinunte. dieter Mertens mi ha chiesto, e mi fa un immen-so piacere, del modello acheo, perchè il modello acheo è, anche a detta dei revisionisti, qualcosa che richiede riflessione e non conclusioni affrettate. Potrebbero dire i negazionisti ‘sì, ma stiamo parlando di colonie di seconda generazione, non di prima generazione’, è vero però, voglio dire, la fine del VII secolo è pur sempre un terminus ante quem e queste città sono strutturate in base a principi che erano stati maturati in esperienze precedenti. Su crotone poi abbiamo i contributi di Sabbione, di Spadea e anche di Mertens per cui, anche se attraverso una serie di saggi sparsi, viene

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a delinearsi una bella agorà trapezoidale come quella di Selinunte, alla confluenza di assi viari o di orientamenti di edifici che sono divergenti; certo, gli agganci cronologici sono ben lungi dall’essere chiaramente definibili, ma comunque siamo di fronte ad una città strutturata almeno dal VII secolo. Su Sibari mi sono lanciato qualche hanno fa in una serie di ipotesi basate su pochissimi elementi, perché come sapete Sibari sta sott’acqua, ci vuole lo scafandro per andarla a scavare. A parte gli Stombi che comunque sembra un quartiere marginale, qualche cosa si può ricavare dalle scoperte di Zanotti bianco al Parco del cavallo e poi da quelle fatte dagli scavatori negli anni ’60, da d’Andria e da tutto il gruppo che scavò prima che Piero guzzo poi assumesse la direzione dello scavo, e che provano in maniera inequivocabile, (come poi anche Silvana luppino ha dimostrato con un saggio dietro il teatro), che dove è il teatro di Copiae si trovava un grande santuario urbano di Sibari con fregi scolpiti, il famoso fregio delle danzatrici, e la testa bruciacchiata appartenente ad una metopa che Zanotti bianco connesse con l’incendio del 510. Proviamo a mettere insieme tutti questi dati, anche se mi rendo conto che non sono omogenei e confrontiamoli con Strabone il quale trova nelle sue fonti la notizia in base alla quale Sibari all’akmè della sua potenza riempiva un circuito di 50 stadi. ora 50 stadi sono 9 chilometri, quasi 10, e riempiono un cerchio che da nord a sud misura km 3 circa. ora, da Stombi, dove Piero guzzo ha trovato l’unico quartiere di Sibari non ricoperto da strutture urbane di epoca successiva, a tal punto che in superficie si riconosce una fattoria di turi (quindi la chora di Turi si sovrappone ad un quartiere urbano di Sibari), fino al Parco del Cavallo ci sono 2 chilometri. E non sappiamo se la città finisce a Stombi (nello scavo tra Porta Nord e Stombi per esempio non abbiamo trovato tracce di occupazione arcaica), quindi Si-bari era disposta a maglie larghe, con continuità e discontinuità del tessuto, che si infittisce a sud, per quel poco che possiamo intuire allo stato della nostra documentazione, con un grandissimo santuario (e, secondo me, la contigua agora). Naturalmente, non sono prove provate della struttura-zione urbana in età arcaica vicina alla fondazione tradizionale. come facevo notare al compianto renato Peroni l’anno scorso durante la visita allo scavo di Sibari, se la distribuzione della popola-zione della Sibaritide, che privilegia le colline, è un fatto inequivocabile, ci chiediamo: quanti siti abbiamo scavato nella pianura? nessuno. non siamo arrivati neanche ai livelli arcaici di Sibari, figuriamoci alle capanne enotrie. Ora quando vediamo che a Metaponto De Siena trova, nell’area della futura agorà metapontina e sulla costa, insediamenti protostorici, perché devo escluderne la presenza a Sibari? Poi naturalmente Mertens mi chiede il rapporto tra l’impianto urbano di Sibari e quello di turi. Personalmente non posso dire che ci sia continuità (come piacerebbe a lui che pensa all’impianto di Thuri come ad un’eredità tardo arcaica) e sarei cauto nel ritenere l’impianto di Sibari un antefatto dell’ippodameismo: il mio culto privato per Ippodamo passa attraverso la fi-losofia ionica, i frammenti di Stobeo, attraverso Aristotele, soprattutto l’esperienza del Pireo prima e di Rodi dopo. Però una cosa è certa: quando Orsi diceva ‘ma come mai le città sono state create prima di ippodamo?’, si esprimeva come avrebbe detto Strabone di Antioco di Siracusa in modo aplòs e archaikòs, erano ingenuità degli albori, il modo di pensare e di identificare l’urbanistica con un ippodamo protos heuretés. ippodamo, a nostro avviso, ha fatto tesoro dell’esperienza colo-niale, su questo non avrei dubbi. cioè è l’ultimo arrivato sul piano della prassi, ma è il primo che ne scrive, quindi l’Hippodameios tropos è chiaramente un modo di concepire la città di un teorico che ne ha scritto, l’altro era empeiria pura. ora scavando a Sibari noi abbiamo trovato sotto la plateia di Turi, cioè sotto i livelli del III, del IV e del V secolo a.C., il solito piccolo strato di limo che segnala l’alluvione che ricopre Sibari e ancora sotto una strada di Sibari, orientata alla stessa maniera della strada successiva. Ovviamente non posso sapere quanto fosse larga: la strada di Turi è larga 100 piedi, la strada di Sibari è più piccola, è contenuta come in una scatola cinese entro la più grande, successiva; ne abbiamo scavato un tratto molto piccolo, raggiunto a fatica con l’acqua, ma sicuramente concordo con guzzo sul fatto che si tratterebbe della ripresa di crinali di dune,

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di una ripresa piuttosto limitata, un caso isolato, e relativo ai pochi metri portati alla luce che non possiamo generalizzare.

invece quando arriviamo a Metaponto e a Poseidonia chiaramente emergono i grandi modelli. Primo la continuità agorà-santuario: anni fa, studiando la topografia del sacro, segnalavo il mo-dello tipo Velia-Locri, le enceintes sacreés come diceva Martin, cioè i santuari disposti in circuito intorno alla città, e poi Metaponto e Poseidonia con l’agorà, la strada che passa in mezzo e il san-tuario; tutto si gioca in quello spazio, con un’altra caratteristica, che mi è sembrato di mettere in luce discutendo ad un convegno parigino, che le agorai dell’occidente sono grandi, come Strabone dice dell’agorà di taranto (eumeghetes), come Cicerone dice dell’agorà di Siracusa, forum am-plissimum, ipertrofia degli spazi pubblici, che noi verifichiamo archeologicamente anche lì dove, come a Metaponto e Poseidonia, le fonti non lo dicono, perché l’agorà di Poseidonia misura 10 ettari, quella di Metaponto non meno di 9 ettari, quindi spazi pubblici enormi. e si tratta di concetti che noi vediamo operativi sin dall’origine, perché sono spazi risparmiati sin dalla fondazione, non sono spazi ricavati dalla demolizione di occupazioni precedenti con altre destinazioni e con altri orientamenti.

naturalmente, oltre che gli Achei, ci sono gli altri. tralascerei di parlare di nuovo della Siriti-de e Metapontino perché l’argomento è stato delibato già più volte e non vedo cosa si possa dire di nuovo: si possono comporre e scomporre le evidenze, ma rimane il fatto, per noi inequivocabile: Siris sta alla foce del Sinni, altrimenti si chiamerebbe Agri, perché sarebbe buffo che il castello del Barone sta vicino all’Agri e la città si chiama Sinni con il nome dell’altro fiume che dista qualche kilometro. il castello del barone è un elemento del territorio, che poi verrà occupato da Heraclea e questo gli darà una centralità, ma solo dal V secolo, nella città precedente il nucleo eponimo è il santuario di Atena iliàs che sta alla foce del Sinni, che diventa epineion di Heraclea dopo la fonda-zione di Heraclea e dopo lo spostamento, perché Heraclea viene fondata dove era Siris, poi dopo il prevalere della parte tarantina fu cambiato il nome ed il luogo; certo questo è Antioco che lo dice, uno storico del V secolo, ma io credo più ad Antioco che alle banalità di moderni interpreti, veri azzeccagarbugli archeologici, pasticcioni e superficiali.

Purtroppo Siris alla foce del Sinni, per ragioni idrogeologiche e per la presenza del grande Bosco, è introvabile: la situazione è disperante oggi, dobbiamo solo auspicare una grande ricerca con investimenti adeguati. Anche lì, tutto quello che abbiamo dell’archeologia della Siritide ri-guarda principalmente questa indubitabile cogestione del territorio, con gli indigeni che continua-no ad essere percepibili attraverso l’autonoma esibizione della loro cultura. rispetto ai nostri mo-delli tradizionali, va ribadito, insomma, che, fino alla fine del VI secolo, continuano ad esprimersi con libertà, e non c’è bisogno di invocare i bestioni di Vico, come faceva Mazzarino, criticato per questo da Mario napoli nel iii convegno, quello su Metropoli e colonie del 1963.

Su locri abbiamo appreso con immenso piacere le novità; sia da quelle presentate da Sabbio-ne, che da diego elia, vengono nuovi elementi sulla ristrutturazione dello spazio urbano e della necropoli. Arriviamo con i dati alla metà del VII secolo; anche qui si pone il problema che con Dinu Theodorescu avevamo verificato scavando a Poseidonia le strade (il filo di Arianna di una ricerca urbanistica). Abbiamo aperto decine e decine di saggi, ed ovunque i livelli più antichi delle strade urbane sono risultati databili all’ultimo quarto del VI a.C. direttamente sulla roccia. Ne avevo tratto quasi una legge, una specie di modello: per avere un impianto urbano definito passano due generazioni almeno, 50-60 anni dalla fondazione.

infatti, questi 50-60 anni a Poseidonia sono occupati dalle necropoli e dal sacello che ha illustrato Marina cipriani, quello con le celebri terrecotte architettoniche numerate con le lettere dell’alfabeto acheo. la scoperta della fase degli accampamenti a Megara, così ben individuata e restituita da tréziny deve indurci, a cominciare da me, ad usare una certa cautela, perché forse

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un giorno anche in queste città cosiddette secondarie si potrà trovare l’insediamento che annulla il gap cronologico con la necropoli. Per il resto, io avevo un’idea circa la sparizione degli inse-diamenti indigeni nella chora di Poseidonia, la cui acquisizione è progressiva, coincidendo stra-ordinariamente quella finale con l’ultimo quarto del VI. Pongo un problema di forza-lavoro, cioè improvvisamente tra il 530 e il 500 i Poseidoniati costruiscono la basilica, il tempio di cerere, l’Heraion del Sele, pavimentano kilometri di strade, fanno il muro di cinta (probabilmente nella fase tardo-arcaica), c’è, insomma, un impiego della forza-lavoro incredibile. Questa forza-lavoro, a mio avviso, i greci l’hanno razziata nei villaggi indigeni che non erano talmente forti da potersi opporre; ne ho indicato in passato la riprova archeologica nella duna antistante la spiaggia di Posei-donia dove Gianni Avagliano scavò anni fa una densa necropoli (la necropoli di Ponte di Ferro). Le sepolture, 160 tombe in uno spazio di pochi metri quadrati, una sopra l’altra, con coperture di te-gole, tutte scarti di fornace, con pochissimo corredo occupavano un arco di tempo, coincidente con quello che ho indicato prima tra 530 e 480 a.c. ora, ne possiamo anche discutere, probabilmente propongo un’identificazione troppo rapida, ma non conosco in tutta la Magna Grecia un cimitero dalla condizione servile di una povertà senza pari, come quello. Mettiamo a confronto Ponte di Ferro con le altre necropoli della stessa area. Altrove abbiamo tombe a cassa, tombe a camera, a semi-camera, grandi sepolcreti intorno a tutta la città, sul lato ovest c’è la duna, qui ci sono poco più che fosse comuni, con cadaveri scaricati. Sono tombe alla cappuccina di tegole scarti di fornace e con corredi poverissimi. dunque non vedo perché non la si debba ritenere un’anomalia da riferire alla condizione servile degli inumati.

Poi abbiamo visto che le colonie locresi sono probabilmente più antiche di quanto pensassi-mo, ed anche Caulonia probabilmente, ma dobbiamo essere cauti prima di dire un parola definitiva.

intanto prendiamo atto della scoperta di questi materiali. non abbiamo parlato di cuma e Pithecusa perché se ne è occupato il convegno dell’anno scorso. Per ultimo vorrei dire qualcosa su Velia ed il Tirreno, perché dopo la presentazione di Giovanna Greco e poi quella di Gregorio Aversa vorrei provare a mettere un poco d’ordine nella materia, in quanto ci sono una serie di altre cose da mettere in gioco. La prima è che ormai sicuramente, a mio avviso, la fondazione di Velia si inquadra in un accordo con Sibari che sta dietro il Poseidoniate, che diventa quello che a Rhegion indica il locus condendae urbis.

dopo di che la chora di Velia si arresta fino ad un certo livello, perché Palinuro ha una moneta di tipo sibarita, e da questo momento gli episodi che prima, come la Petrosa e altri, sono di solito effimeri, conoscono un incremento quantitativo esponenziale, per esempio la stessa Petrosa di Scalea da quattro cocci della prima metà passa alle migliaia di frammenti della seconda metà del VI secolo per poi arrestarsi con l’arrivo dei Sibariti nel 510 a.C. (secondo me Laos è una ktisis di Sibari dopo la distruzione, non prima) e poi anche Palinuro smette di esistere alla stessa epoca.

Nella seconda metà del VI secolo a.C. si avvertono fenomeni che sulla scia dell’antropolo-gia americana ho chiamato gateway communities, sono rivoli che scendono dalla lucania interna proprio come ruscelletti, e vanno ad occupare la costa a partire da un periodo che coincide con la fondazione di Velia, vero elemento motore dell’economia di questa fascia. Tutto questo mondo dopo la distruzione di Sibari ha due esiti diversi, c’è chi sopravvive e chi scompare. Sopravvive la fascia da Maratea, Tortora, San Brancato fino alla valle del Lao, a Castelluccio sul Lao, dove a mio avviso erano insediati i Serdaioi, che ho proposto di collocare in questa area. l’esperienza coloniale di Velia, che ovviamente non è una fondazione tradizionale ma una colonia di popola-mento, con una migrazione di massa è un caso a parte, ma ci insegna altre cose. Quando erodoto dice ‘acquistarono’, a me è sempre sembrato, e anche ai nostri Maestri, che ektesanto polin ges tes Oinotrias non significa che comprarono una città prefabbricata dagli Enotri che avevano costruito la città che poi vendono ai greci, i quali comprarono la terra in cui avrebbero eretto la città e quindi

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è inutile andare a cercare i confronti con le poleis enotrie che archeologicamente non esisterebbero se non avessimo Stefano da bisanzio. Si tratterebbe di capire il livello dell’accordo tra i Focei e gli indigeni che sono in grado di imporre la transazione, a riprova di una situazione indigena forte in questa area dove non a caso la poesia parla di gens enotria crudelis (Virgilio). Perché sono crudeli?

Perché non si fanno colonizzare e perché ammazzano Polites, di draconte non sappiamo chi è ma anche lui ha un heroon (a Laos) e poco più su c’è Palinuro. Sono tutti fenomeni che danno idea di un rapporto conflittuale tra Greci e Indigeni in quest’area, almeno per una certa fase. Dopo il 510 il mondo cambia: la fine di Sibari provoca il rimescolamento di tutte le carte, comincia un’altra storia.

Ma la storia arcaica è storia di migrazioni, di fondazioni, di gente che arriva a piccoli o grandi gruppi, autonomamente organizzati o espressione di una città-madre, ed anche di città fondate non da sbandati con la sacca del pellegrino alla ricerca dell’avventura.

Angela Pontrandolfo

rispetto alle tematiche di questo Convegno ritengo che la riflessione e il dibattito debbano focalizzarsi sulla definizione dei diversi aspetti in cui si ravvisano le diverse forme ri-conducibili al fenomeno che chiamiamo colonizzazione, naturalmente ben esplicitando la

condivisione del presupposto che riteniamo sia un fenomeno realmente esistito. Su questi presupposti uno dei problemi di fondo è la connotazione dei segni che registriamo

attraverso i materiali mobili appartenenti alle varie fasi storiche, soprattutto quando vi è la possibi-lità di indagare in ambiti come Megara Hyblaea o Selinunte dove la situazione consente di definire anche organizzazioni spaziali in modo più chiaro e valutare attraverso la distribuzione dei rinve-nimenti mobili l’organizzazione funzionale degli spazi urbani, o calibrare il rapporto tra indicatori di materiali importati e produzioni riconducibili a comunità stanziate nell’area precedentemente.

Soprattutto è necessario definire formule condivise per articolare nel tempo quali sono gli elementi che ci permettono di riconoscere una apoikia attraverso i dati dell’archeologia e come questi dati possono entrare in gioco con le notizie delle fonti scritte.

rispondendo a quanto detto da emanuele greco riferendosi alla necropoli di Poseidonia, chiarisco che sposo la teoria di quanti sostengono che la sepoltura è qualcosa che riflette un diritto a cui non tutti possono accedere, e pertanto la considero un chiaro indicatore perché attraverso la deposizione o gli oggetti del corredo posso identificare una deposizione non greca, probabilmente pertinente ad un gruppo del quale va definita la posizione all’interno del sistema sociale della co-munità senza immediatamente generalizzare che si tratti di indigeni.

Mario Lombardo

io vorrei ritornare sulle questioni che hanno posto emanuele greco e Angela Pontrandolfo e cioè sulla precisa identificazione dei problemi che abbiamo voluto discutere e affrontare in questo convegno e sulla prospettiva in cui li si è voluti affrontare e discutere. Anch’io sono

d’accordo che non è tanto importante la posizione ‘negazionista’, o se si preferisce revisionista, di robin osborne in sé per sé. È importante perché in qualche modo ci ha indotto a interrogarci sui nostri modelli interpretativi, e a metterli in discussione, o, almeno, ci ha sollecitato a formularli in maniera più motivata e più approfondita. dobbiamo chiederci, allora, se il lavoro che abbia-mo fatto in questi giorni ci permette oggi di riproporre, per l’appunto in maniera più motivata

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e approfondita, i modelli interpretativi elaborati dalla nostra tradizione storiografica per leggere le esperienze coloniali greche di età arcaica. Modelli che, come abbiamo detto all’inizio, seppur centrati sulla nozione di apoikìa come esperienza di ‘distacco/invio’ da un determinato ambiente ‘metropolitano’, ne hanno sempre, tuttavia, colto e sottolineato gli aspetti di varietà e pluralismo, sia nella diacronia (ad es. tra le ‘fondazioni’ di VIII-inizi VII sec. a.C. e quelle di VII-VI secolo) che nella sincronia (ad es. tra colonie ‘euboico-calcidesi’ e colonie achee o corinzie, o ancora tra colonie ‘ioniche ‘ e doriche’ o, infine, tra colonie ‘emporiche’ e colonie ‘di popolamento’). Su che basi possiamo oggi ribadire determinate tesi a proposito dell’arrivo e dell’impianto dei greci in italia meridionale, e del loro interagire con le popolazioni epicorie, come espressione, pur ampia-mente differenziata, di esperienze promosse (o almeno ‘autorizzate’ e ‘agevolate’) da una o più co-munità locali (o etnico-regionali) dell’area metropolitana e consistenti nell’invio, in qualche modo organizzato, di gruppi composti (almeno prevalentemente) da membri di quelle stesse comunità, ad insediarsi in una nuova e diversa comunità ‘lontano da casa’. Questo è il punto fondamentale, rispetto al quale la questione ‘terminologica’ mi sembra secondaria, nella sua dimensione, come si diceva l’altro giorno, sostanzialmente nominalistica, che non ci dovrebbe troppo preoccupare. la terminologia della ‘colonizzazione’ - colonia, coloni, colonizzare, etc. -, la possiamo usare tra vir-golette, come diceva lepore, anche solo mentali, o possiamo inventarci una diversa terminologia in cui trovi più diretta espressione l’orizzonte della cultura e delle esperienze greche - de Angelis ha recentemente proposto apoikization -, ma non mi pare che cambierebbe nulla di sostanziale. il punto importante si colloca sul terreno dell’ermeneutica: secondo quali modelli, e su quali basi documentarie, possiamo leggere e ricostruire le esperienze d’insediamento dei greci in Sicilia e in Italia Meridionale tra l’VIII e il VII sec. a.C., nelle, di volta in volta possibilmente diverse, forme e modalità con cui sono stati organizzate e realizzate, e nei riflessi che esse hanno avuto nella vi-cenda, anche relazionale, delle aree territoriali in cui si sono verificate e nei successivi rapporti tra tali aree, e tali insediamenti, e quelle di provenienza dei ‘coloni’? in questa prospettiva, l’aspetto metodologico fondamentale - non dobbiamo mai dimenticarcene - consiste nella radicale negazio-ne, da parte dei sostenitori delle tesi ‘revisioniste’, di qualunque statuto di attendibilità alle ‘infor-mazioni’ offerte dalle fonti letterarie sulle fondazioni coloniali: i ‘racconti di fondazione’, risalenti ad orizzonti posteriori di non meno di tre secoli rispetto alle vicende della ‘colonizzazione’, non possono in alcun modo restituirci memoria attendibile attendibile e dettagliata di quelle vicende. ora, come ho già detto l’altro giorno, un esame rigoroso - rinvio a quanto ci ha pur sinteticamente indicato nella sua relazione Maurizio giangiulio, sulla scorta di importanti e recenti contributi, anche suoi - di tali tradizioni, non può non metterne in rilievo lo statuto di ‘memorie culturali’ di matrice fondamentalmente ‘orale’, il cui significato e la cui attendibilità vanno primariamente colti e valutati in termini di ‘storia intenzionale’ e in rapporto agli orizzonti più vicini ai loro livelli più antichi di attestazione scritta, mentre è assai più problematico apprezzarne l’attendibilità in rapporto agli orizzonti ‘storici’ ai quali esse fanno riferimento. ne emerge dunque la sostanziale correttezza di quella posizione metodologica, almeno nella sua pars destruens. in altre parole, alla luce delle modalità con cui, come oggi sappiamo, si costruiscono e si tramandano le ‘memorie cul-turali’ - specie quelle a più forte valenza identitaria - in contesti a prevalente ‘cultura orale’, se non è affatto scontato che si debba pensare a forme di costruzione di una ‘storia fittizia’, interamente ‘inventata’ sulla base di elementi e modelli contemporanei - tanto più nel nostro caso, in cui un modello ‘coloniale’ e ‘apecistico’ di età classica semplicemente non esiste -, è necessario tuttavia tenere nel debito conto la possibilità - e direi qualcosa di più della semplice possibilità - di forme di rielaborazione delle ‘memorie culturali’ alla luce di nuove esigenze - di definizione e affermazione identitaria, in primo luogo - emerse ad un certo momento entro contesti relazionali interni alla comunità o nell’orizzonte dei suoi rapporti con gli ‘altri’. esigenze tali da determinare l’elabora-

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zione ‘intenzionale’ della memoria storica in forme diverse rispetto a quelle che erano ‘conservate’ e tramandate fino ai pochi anni prima. Tutto questo implica che noi non possiamo appoggiarci fiduciosamente sulle tradizioni di fondazione, sui racconti di fondazione, per ricostruire nei loro precisi contorni e modalità, le vicende che portarono all’insediamento - agli insediamenti - dei Greci in Italia Meridionale e in Sicilia a partire dall’VIII secolo a.C.

Ma il fatto che i contenuti ‘informativi’ di quei racconti non possano essere accolti ‘alla lette-ra’ in tutti i loro dettagli, in quanto soggetti a possibili forme di rielaborazione ‘attualizzante’, non significa che essi non possano conservare e veicolare elementi informativi attendibili sulle vicende di cui recano testimonianza e sulle forme e modalità con cui si erano verificate: se l’indicazione di determinate figure ecistiche quali protagonisti di una certa spedizione o fondazione, o quella di un loro preciso collegamento con determinati ambienti metropolitani, o, ancora, la precisa ‘descrizio-ne’ (e ‘citazione’) di un intervento oracolare delfico, possono essere espressione di forme di riela-borazione seriori, ciò non significa necessariamente che non vi siano stati affatto, nelle vicende che portarono i i greci a insediarsi in italia, ecisti, o fondazioni, o metropoli, o consultazioni oracolari.

Alla luce di quanto sopra evidenziato, il nostro proposito è, ed è stato in questi giorni, quello di interrogarci sulle basi documentarie e gli strumenti metodologici che ci possano consentire di cogliere e ricostruire le modalità con cui si realizzarono quelle vicende, nel loro insieme e nei diversi orizzonti ‘coloniali’, verificando nel contempo la maggiore o minore attendibilità di quegli elementi di informazione offerti dalle fonti letterarie che si prestano ad una tale verifica: certo, non potremo mai (?) verificare nell’evidenza epigrafica o archeologica l’attendibilità delle ‘notizie’ sulla fondazione di Taranto ad opera di Falanto e di un gruppo denominato Parteni (o Epeunacti) spronati da un responso dell’oracolo delfico, ma forse possiamo verificare se è attendibile la crono-logia offerta dalle fonti sull’arrivo dei greci nel sito di taranto, e se lo sono le ‘notizie’ sulla loro provenienza dalla laconia, o sulle modalità e l’impatto del loro insediamento sul contesto locale. in quest’ottica, i problemi metodologici principali ai quali ci mette di fronte il record archeologico sono quelli evocati da Emanuele Greco e da Angela Pontrandolfo: con quali strumenti possiamo riuscire a leggere, e distinguere, forme diverse di ‘insediamento’ e di interazione da parte di gruppi di provenienza greca nell’orizzonte che ci interessa? Mi riferisco, ovviamente, a forme di pre-senza e interazione di tipo ‘coloniale’, collegabili cioè a esperienze di insediamento autonomo e ‘strutturato’, di ‘fondazione’, rispetto a forme diverse, collegabili a esperienze di inserimento e/o integrazione nei contesti insediativi epicori. È questo il problema che ho evocato ieri, chiedendo a teresa cinquantaquattro e ad Antonio de Siena di esplicitare le implicazioni interpretative e ri-costruttive del record archeologico rispettivamente osservabile nell’orizzonte tarentino e in quello metapontino (e sirita). E mi pare che dalle loro relazioni - ma più in generale, direi, dall’insieme di quanto abbiamo sentito in questi giorni - sia emerso che abbiamo gli elementi e gli strumenti ido-nei allo scopo. in effetti, nel caso di Metaponto appaiono ben riconoscibili - e distinguibili rispetto a quelle legate ai precedenti orizzonti di presenza e interazione tra greci e indigeni -, le evidenze archeologiche collegabili all’insediamento degli Achei, e direi alla fondazione della colonia. così come - ho cercato di mostrarlo nella mia relazione - le evidenze epigrafico-linguistiche di Taranto e della sua sub-colonia di eraclea, ma anche quelle di Pithekussai - nella loro dimensione fattuale e ‘comunitaria’ e nell’orizzonte cronologico in cui si collocano o a cui rinviano - consentono di verificare, credo attendibilmente, le notizie delle fonti sulla provenienza, rispettivamente da Sparta e dall’Eubea, del gruppo (o dei gruppi), verosimilmente ‘dominanti’ numericamente e/o cultural-mente, per opera dei quali l’identità della comunità ‘coloniale’, tarantina o pitecusana, si esprime, o finisce per esprimersi, in maniera privilegiata sul terreno delle, e nei termini di quelle, prassi lin-guistiche e alfabetiche. gli strumenti, dunque, ci sono, anche se bisogna onestamente riconoscere e indicare, di volta in volta, se e quanto la documentazione disponibile sia sufficiente e adeguata per

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consentirci verifiche e implicazioni interpretative corrette, come mi sembra si possa affermare nei casi appena evocati, ma non con altrettanta sicurezza, ad esempio, in quello delle colonie ‘achee’.

Per fare un altro esempio, a Megara e a Selinunte è possibile sviluppare un certo tipo di ar-gomentazione e di ‘verifica’ sulle modalità dell’impianto, qui evidentemente di tipo ‘coloniale’, perché ci sono le condizioni documentarie che lo consentono, mentre in altri come Sibari tali condizioni non sussistono, almeno non ancora in misura sufficiente, come invece comincia a pro-filarsi, ad esempio, per Taranto. Lo sforzo in cui dobbiamo perseverare, e a cui ci sprona la nostra tradizione di studi, è quello di cercare, portare alla luce e valorizzare sempre più elementi docu-mentari suscettibili di consentirci, su scala sempre più ampia, verifiche e ricostruzioni sempre più attendibili di quel complesso di esperienze che vide la fondazione delle apoikìai greche in italia.

un complesso variegato ma anche riconoscibile in quanto tale, nei suoi caratteri di fondo e nelle sue ‘conseguenze’, anche rispetto ad altri tipi di fenomeni di presenza e interazione che han-no interessato, ma con modalità e conseguenze diverse, questi stessi territori.

Flavia Frisone

Questa era una sfida, e se noi non impariamo anche a dialogare con linguaggi, con sensi-bilità, con processi intellettuali diversi dai nostri, se non accettiamo la sfida intellettuale che ci fa una cultura viva nella trasformazione, allora vuol dire che abbiamo giocato a

tressette con il morto. Questa poteva essere, io spero che lo sia stata, un’occasione per confrontar-si, ma confrontarsi vuol dire anche ricordarsi che quando, ad esempio, Van Dommelen - che non voglio affatto qui difendere - parla di colonialismo e colonizzazione, ne parla da una prospettiva di ricerca antropologica, a volte di archeologia antropologica, che è diversa dalla nostra, o meglio da quella con cui siamo abituati a dialogare e a confrontarci. e allora dobbiamo cercare, o meglio creare, l’occasione e il contesto per parlare, dialogare, confrontarci direttamente anche con questo tipo di approcci ‘diversi’ e per certi versi ‘distanti’.

Mario Lombardo

rispondo subito perché quel che è stato appena detto mi induce a chiarire meglio quale sia stata l’impostazione di questo convegno. capisco bene che esso possa aver dato adito all’impressione - emersa del resto anche nei giorni scorsi, ad esempio in un intervento

di Francesco d’Andria - di una scarsa apertura al confronto diretto con prospettive ermeneutiche diverse, come quelle espresse da Osborne o Van Dommelen. O, per dirla con Flavia Frisone, che si sia voluto ‘giocare a tressette col morto’, dal momento che non sono stati invitati qui a parlare i protagonisti delle radicali revisioni con cui si volevano fare i conti. io vorrei qui smentire radi-calmente tale impressione, per il semplice motivo che l’obiettivo primario del convegno è stato quello di compiere, proprio alla luce di quelle nuove prospettive ermeneutiche, una verifica critica e approfondita dei modelli e degli strumenti interpretativi con i quali la nostra tradizione storiogra-fica aveva letto le esperienze coloniali greche di età arcaica. Ci è sembrato doveroso, come eredi di una tradizione di studi che si è espressa anche nei quarantanove convegni annuali che hanno preceduto questo, confrontarci innanzitutto tra di noi e verificare la maggiore o minore solidità dei nostri modelli interpretativi, o meglio la maggiore o minore necessità di rivederli, aggiornarli o precisarli. Se noi, qui, avessimo tutti le idee chiare - e se tali idee fossero le stesse, cosa che, come

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si è visto, almeno in parte non è -, allora potremmo confrontarci, o avremmo potuto confrontarci, efficacemente con chi ha proposto così radicali revisioni dei nostri modelli interpretativi! Credo di poter dire che, con questa iniziativa, la nostra tradizione di studi ha mostrato di voler raccogliere la sfida, sottoponendo a una seria discussione i propri modelli interpretativi alla luce delle questioni sollevate, e cercando di elaborare e mettere a punto quegli elementi di approfondimento e messa a fuoco critica che ci permetteranno, mi auguro, di portare avanti le nostre ricerche in maniera sem-pre più convinta e rigorosa e di confrontarci anche, spero, in un prossimo futuro, con tutti coloro che vorranno un dialogo aperto e senza posizioni pregiudiziali di sorta.

Carmine Ampolo

Mario Lombardo ha toccato un punto fondamentale per quanto riguarda gli storici: il valo-re di quella che noi chiamiamo tradizione, una tradizione estremamente complessa, che pone una discussione che va avanti dal ‘700 e sempre ci sarà. il punto chiave è che essa

assume nel tempo sempre forme diverse, attuali, concetti, modelli, paradigmi diversi che cambiano nel tempo, nei modi e nello spazio.

In realtà, una serie di posizioni non sono altro che la manifestazione applicata al caso specifico dei fenomeni di migrazione, colonizzazione ecc, del decostruzionismo.

Se ci confrontiamo con le fonti letterarie, in particolare con l’ambiente dell’archeologia sici-liana, sostengo che si possa dire che esistono anche delle forme non statali o meglio non strutturate, ma le fonti le tacciono, almeno in un certo numero di casi.

È stato citato, giustamente, il caso di Zancle con l’occupazione iniziale da parte di pirati il che è qualcosa un pò diverso dalla reale fondazione di una colonia. di Megara si è detto e lo stesso accadde in altri casi.

un altro punto cui bisogna tenere conto è cosa c’è accanto alla discussione che investe il valore della tradizione letteraria. c’è anche un’altro dibattito, che ha assunto toni molto aspri in passato e rende vivo il dibattito tuttora, sulla statutarietà delle polis che investe anche le colonie.

Enzo Lippolis

Mi complimento con il bell’ intervento di carmine Ampolo, che per me ha dato una lezione circa la qualità e la complessità del dibattito. il problema non è solo osborne, perché c’è una tradizione che viene poi riversata in ambito archeologico in maniera semplicistica e

che si traduce, molto spesso, in una serie di tentativi di rileggere dei fenomeni marginalizzando la documentazione e la filologia, così come indicava Emanuele Greco.

La cosa è sistematica e non riguarda solo il problema delle colonie, riguarda il IV secolo, la produzione della ceramica, come si leggono le immagini, riguarda cose su cui pensiamo di non dover più discutere come la realizzazione e produzione in loco dei vasi. basti vedere quello che scrivono carpenter o boardman o anche la manualistica, come quella di archeologia classica greca e romana curato proprio da Osborne. La parte relativa alla colonizzazione è significativa, chiara-mente questo vuol dire che esiste una tradizione di studi che non bisogna assolutamente eliminare, ma con la quale dobbiamo confrontarci.

Arrivati alla fine di un convegno che è stato ricchissimo di spunti, ognuno di noi ha in mente dei modelli che portano ad una serie di istanze; ad esempio, ci sono state delle tesi da cui derivano dei modelli che dovrebbero essere omnicomprensivi per stile ed applicazione.

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Queste suggestioni sono, però, frammentate e disperse all’interno dei vari interventi. Sarebbe, forse, necessario trasformare questo ricco patrimonio, in una sintesi che possa essere facilmente accessibile e dalla quale possano derivare approfondimenti filologici e specifici.

gli elementi sono tanti, perché abbiamo spaziato sui problemi di una cultura materiale che crea una cesura fortissima tra materiale importato e materiale che viene lavorato in loco, secondo modelli che non sono prettamente quelli della tradizione precedente. Quantità e attestazioni mo-strano, inoltre, un uso dello spazio gestito in maniera energica e appaiono forme che sono, come a Taranto, fenomeni difficili da vedere su più larga scala. Dall’altra parte, l’aspetto urbanistico discusso precedentemente, non risulta assolutamente secondario.

Vorrei insistere sull’aspetto cultuale, che si manifesta dall’inizio e non riguarda soltanto la produzione o la manipolazione banale degli oggetti, ma riguarda i sistemi identitari di queste co-munità che arrivano con dei modelli di comportamento rituale, che implicano delle forme di col-legamento, di associazione, di costruzione non soltanto rispetto all’esterno, ma rispetto anche alla loro ripartizione interna.

Se ritorniamo alle semplificazioni che sono state elaborate, ad esempio da Yntema (che forse è la più compiuta sul versante archeologico), individuiamo delle situazioni, dei casi problematici e fortemente enfatizzati, che creano un modello riferito all’arrivo di piccoli gruppi che si pongono in un ambiente marginale rispetto alla comunità principale già esistente. il problema di base è che, poi, il modello si applica anche in altri siti, sulla base di una lettura che ignora quasi integralmente la documentazione edita.

Angela Pontrandolfo

Qualunque sia l’obiettivo della ricerca e in qualsiasi modo si imposti il lavoro si fa sempre una scelta ben precisa in parte non volontaria, ma ideologicamente connotata. il rischio maggiore lo ravviso proprio nella ricerca archeologica spesso debole nella esplicitazione

dei modelli utilizzati nell’interpretazione dei dati. Soprattutto va ravvivato e potenziato il con-fronto con i sistemi interpretativi ricavati dai testi scritti, cercando di impostare un dialogo per dare il giusto peso al contributo offerto da serie documentare diverse in piena autonomia e senza giustapposizioni combinatorie.

Michel Gras

Su Selinunte, quando con dieter Mertens abbiamo visto la pianta e la tomba stessa, mi è ve-nuto subito da dire che quella era una tomba costruita dai Megaresi, perché la medesima ti-pologia di costruzione dei particolari, si ritrova tranquillamente a Megara, verso la metà del

VII secolo. Questo aspetto, pone delle difficoltà perché non è affatto scontata l’identità megarese. Sulla colonizzazione greca concordo pienamente su quello che è stato detto da emanuele

greco e Angela Pontrandolfo. la domanda fondamentale è sapere se loro negano l’esistenza di poleis in Sicilia e in Magna grecia.

Alcuni come il De Angelis o Van Dommelen, sono stati ingannati dal fatto che, leggendo Me-gara 1 e la guida di Megara, hanno interpretato impropriamente alcuni dati. essi, esaminando una casa in mezzo ad un isolato, hanno pensato che esistessero poche case, alla fine dell’VIII secolo, organizzate all’interno di isolati con terreni intorno.

Ho scritto nel 1995 un libro e, per gioco, decisi che in tutto il libro “il Mediterraneo nell’età

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arcaica” non avrei mai usato la locuzione ‘colonizzazione greca’ e, sorprendentemente, non ho avuto nessuna difficoltà a redigerne il testo, questo non vuol dire che io neghi la colonizzazione greca.

Valentino Nizzo

Visto che si incoraggiano i giovani a prendere la parola cercherò di rubarvi due minuti per presentare rapidamente qualche breve spunto di riflessione. Come, credo, tutti i convenuti io sono qui in primo luogo per imparare e, da questo punto di vista, sento di poter dire

che alcuni degli interrogativi che mi ponevo prima di questo incontro sono rimasti purtroppo insoddisfatti, forse perché è nella natura di questi convegni dare per scontata tutta una serie di cose che invece meriterebbe di essere discussa in modo più esplicito. Quanto diceva prima la dott.ssa tomay in merito all’esigenza di una metodologia condivisa nella presentazione e nella discussione di dati come i tanti mostrati in questi giorni, io lo condivido e lo sottoscrivo nel modo più convinto, poiché è a mio avviso imprescindibile per la comprensione e l’interpretazione di una documentazione archeologica così ampia e complessa poter disporre di dati omogenei e statisticamente contestualizzati, tali, insomma, da poter essere stimati e apprezzati per la loro significatività in rapporto alla situazione di provenienza.

Quando, nel 2003, ho cominciato ad avvicinarmi alle problematiche relative alla prima colonizzazione greca era giunto all’apice il dibattito critico sui “sistemi” cronologici della prima età del Ferro, un dibattito che vedeva fronteggiarsi scuole di pensiero nettamente contrapposte fra quanti difendevano le cronologie tradizionali e coloro i quali propendevano, invece, per un sensibile innalzamento delle datazioni correlato ai più recenti risultati delle analisi radiocarboniche calibrate; un dibattito che, come noto, sarebbe poi culminato nel convegno romano Oriente ed Occidente dai cui voluminosi atti, editi nel 2005, traspare con tutta evidenza una divergenza di vedute apparentemente inconciliabile1.

negli ultimi tre anni ho partecipato a tutte le edizioni del Convegno di Taranto e, con mio stupore, ho potuto constatare come, nonostante le tematiche prescelte – almeno limitatamente all’edizione del 2008 e a quella attuale – cadessero pienamente in quell’orizzonte cronologico oggetto del tentativo di revisione critica sopra citato, non si sia mai fatto un accenno in questa sede a tali questioni; cosa ancor più sorprendente visto che fra i relatori che qui si sono susseguiti ve ne sono molti che, nel convegno romano del 2003, avevano mostrato una propensione per un innalzamento dell’inizio dell’Orientalizzante di alcuni decenni o, addirittura, fino al 780 a.C.2.

1 G. bartoloni, F. delPino (edd.), Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronologia dell’Età del Ferro italiana, incontro di studio, roma 30-31 ottobre 2003, (Mediterranea I, 2004), Roma 2005. Su queste problematiche, prima ancora degli atti precedentemente citati, si veda la sintesi di F. delPino, Datazioni problematiche: considerazioni sulla cronologia delle fasi villanoviane, in Miscellanea etrusco-italica III (Quaderni di Archeologia Etrusco-Italica, 29), Roma, pp. 1-35, nella quale si evidenziano criticamente le varie ipotesi formulate da quanti si sono schierati nel tempo a favore della analisi naturalistiche e contro le datazioni tradizionali.

2 il termine del 780 a.c. come cronologia per l’inizio dell’orientalizzante è stato proposto, a partire dalla documentazione indigena peninsulare e dal riscontro con analisi radiocarboniche, in a.j. nijboer, j. van der Plicht, a.m. bietti sestieri, a. de santis, A high chronology for the

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Mi stupisco, quindi, che un dibattito così acceso fra “etruscologi” e “protostorici” (in particolare di quelli appartenenti alla scuola di renato Peroni, più volte ricordato in questi giorni, e del quale anch’io mi vanto di essere allievo) e che tante conseguenze ha, com’è facile immaginare, sul piano dell’interpretazione storica, non abbia trovato spazio anche in questa sede.

tale circostanza mi sembra offrire una prova evidente di quella lacerazione (o, per usare un termine suggeritomi dalla Prof.ssa Pontrandolfo, “frantumazione”) esistente fra archeologi e storici alla quale facevo cenno anche ieri. non mi è parso, infatti, di aver sinora mai sentito uno “storico” (salvo forse il Prof. Ampolo in un intervento al citato convegno del 2003 che non venne poi inserito negli atti), discutere delle conseguenze che un innalzamento anche lieve della cronologia della parte terminale della prima età del Ferro avrebbe potuto avere sul più ampio panorama storico-politico del Mediterraneo dell’VIII sec. a.C. e, conseguentemente, sulle diverse “fonti” alle quali esso risulta ancorato grazie a una solida tradizione di studi, lentamente costruita attraverso il dialogo interdisciplinare fra filologia, storia e archeologia.

Vengo, quindi, alla seconda riflessione strettamente legata alla precedente. In questi giorni, in contributi come quelli della Professoressa Kourou e del Prof. d’Agostino, abbiamo spesso sentito fare riferimenti alla documentazione archeologica vicino orientale. l’“oriente”, in senso lato, è a mio avviso uno dei grandi assenti nel dibattito odierno, poiché sono fermamente convinto che per una piena comprensione dei fatti storici correlati alla prima colonizzazione in occidente, sia necessario volgere contestualmente lo sguardo alla documentazione orientale. Si tratta forse di una riflessione ovvia e scontata tuttavia l’assenza, in convegni come questo, di orientalisti può essere probabilmente intesa come un segno dell’eccesso di specializzazione al quale siamo pervenuti, una specializzazione che ci induce a perdere di vista il contesto generale in cui necessariamente si collocano gli eventi in discussione. le proposte di innalzamento cronologico cui facevo cenno dimostrano, infatti, come non soltanto non si sia tenuto conto di documenti quali lo scarabeo col cartiglio di bocchoris della tomba 325 di Pithekoussai, ma che si sia integralmente dimenticata la puntuale sequenza di eventi che segna la storia del Mediterraneo orientale in quegli anni e che non si riassume soltanto nella successione di faraoni egiziani ma che va ricercata soprattutto in quelle che sono le tappe della progressiva espansione assira, strettamente correlate a una sequenza di eponimi a sua volta ancorata a eventi astronomici puntuali, come la ben nota eponym Canon eclipse del 763 a.c.3. le tappe di questa espansione possono trovare e trovano, a mio avviso, ampi riscontri nel flusso di determinate categorie di merci verso occidente, come mi è parso di ravvisare

Early Iron Age in central Italy, in Palaeohistoria, 41-42, pp. 163-176. tale cronologia è stata successivamente ribadita in altre sedi dagli autori citati sebbene, in lavori recenti, sembra che per l’inizio dell’orientalizzante si sia tornati a propendere per una datazione meglio conciliabile con quella tradizionale, cronologia che, è bene ricordarlo, è saldamente ancorata alla presenza nella tomba 325 di Pithekoussai di uno scarabeo con il cartiglio del faraone Bocchoris (cfr. a tal proposito G. bartoloni, v. nizzo, Lazio protostorico e mondo greco: considerazioni sulla cronologia relativa ed assoluta della terza fase laziale, in, Oriente e Occidente cit. alla nota precedente, pp. 409-436), un elemento che, quando si cominciò a parlare di cronologie alte, sembrava essere stato quasi totalmente dimenticato. nella versione a stampa degli atti del convegno Oriente e Occidente del 2003, molte posizioni precedentemente critiche come quelle di Peroni, Vanzetti e Pacciarelli, risultano già allineate a favore di cronologie non più alte del 750-725 a.c. per la transizione all’orientalizzante, seppure con sfumature diverse.

3 cenni a tal proposito in v. nizzo, Intervento nella discussione, in Oriente e Occidente cit., p. 645-6.

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nel caso dei sigilli del Lyre player group, sebbene le tesi espresse sulla loro origine da Marina Martelli e dalla sua scuola mostrino una chiara propensione a vantaggio di una loro origine rodia4.

ed è proprio in un recente lavoro della Martelli che l’aspra critica al “tenace credo pithecusocentrico professato e propalato da mezzo secolo” che “non ha ancora subìto il pur ineludibile ridimensionamento e troppi «fantasmi euboici» [...] continuano ad aleggiare nei cieli anglo-napoletani”5 mi sembra fornire un evidente attestato di quella “frantumazione” cui prima accennavo.

È proprio in casi come questo che assume grande importanza quanto diceva prima la dott.ssa tomay ed è necessario che in sedi come queste vengano sviluppati gli strumenti metodologici necessari per una corretta interpretazione storica di dati archeologici come, ad esempio, quello cumano appena citato o i tanti nuovi contesti presentati in questi giorni.

ed è proprio con il caso di cuma che vorrei concludere questo mio intervento. Se, infatti, almeno sino al convegno di taranto del 2008, i materiali Medio geometrici riemersi nei recenti scavi erano stati considerati da alcuni (come la Martelli) una prova per smentire o, per lo meno, attenuare la priorità di Pithekoussai tràdita da alcune fonti, sembra oggi chiaro che l’interpretazione di quei reperti vada considerata in termini più complessi e possa, al contrario, essere correlata non tanto allo stanziamento dei primi greci, quanto piuttosto a quella fase di contatti di cui vi è ampio riscontro in altri contesti indigeni come Veio e Pontecagnano e che tutto lascia supporre che abbia avuto luogo anche a cuma, come testimoniano le coppe a chevrons delle tombe osta o l’associazione di materiali greci e indigeni nei focolari delle abitazioni dell’VIII secolo, scavate e pubblicate da Matteo d’Acunto.

ciò che manca per approfondire criticamente tale documentazione sono i dati provenienti dall’acropoli e, in particolare, quelli relativi agli scavi ivi condotti nel 1910 da ettore gabrici e rimasti, per varie vicende che non sto qui a riassumere, sino ad ora inediti. Sono fra i pochi che hanno la fortuna di conoscere la documentazione relativa a quelle esplorazioni e mi permetto di esortare quanti hanno in corso di studio tali documenti a renderli di pubblico dominio sebbene le indagini successivamente condotte da giorgio buchner nell’area del tempio di Apollo abbiano

4 da ultima m. a. rizzo, I sigilli del gruppo del suonatore di lira in Etruria e nell’Agro Falisco, in AnnAStorAnt n.s. 15-16, 2008-2009, pp. 105-142.

5 m. martelli, Il fasto delle metropoli dell’Etruria meridionale. Importazioni, imitazioni e arte suntuaria, in m. torelli, a. m. moretti sGubini (edd.), Etruschi, le antiche metropoli del Lazio, Catalogo della mostra (Roma Palazzo Esposizioni 2008-2009), Milano 2008, pp. 120-139, con particolare riguardo alla nota 4, p. 134 da cui è tratta la citazione sopra riportata. Sulla possibile interpretazione da dare ai materiali greci Mg finora rinvenuti a cuma che hanno indotto la Martelli, così come altri autori (cfr. ad es. alcuni cenni in tal senso in m. Pacciarelli, P. criscuolo, La facies cumana della prima Età del Ferro nell’ambito dei processi di sviluppo medio tirrenici, in AA.VV., Cuma, Atti del XLVIII Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 27 settembre-1° ottobre 2008, Taranto 2009, pp. 323-352), a proporre un ridimensionamento del décalage cronologico fra Pithekoussai e cuma cfr. quanto lo scrivente ha già avuto modo di osservare in v. nizzo, Intervento al dibattito, ibid., pp. 564-566; id. in v. nizzo, s. ten Kortenaar, Veio e Pithekoussai: il ruolo della comunità pithecusana nella trasmissione di oggetti, tecniche ed “idee”, in AA.VV., Incontri tra Culture nel Mondo Mediterraneo Antico, Atti XVII International Congress of Classical Archaeology, rome, 22nd September-26th September 2008, in Bollettino di Archeologia on-line 2010 < http:// 151.12.58.75archeologia/bao_document/articoli/7_NIZZO.pdf >, pp. 50-68.

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dimostrato che le stratigrafie scavate da Gabrici consistevano in semplici accumuli di terreno di riporto utilizzati per colmare i dislivelli esistenti nell’area6.

nonostante quest’ultimo limite, la documentazione riemersa al principio del secolo scorso appare di indubbio interesse, poiché all’interno di strati rimescolati compaiono in apparente associazione materiali greci frammisti a manufatti in ceramica d’impasto locale; insieme ad essi vennero in luce anche armi di bronzo indigene forse raccolte e/o tesaurizzate con lo scopo di rifonderle, come parrebbero testimoniare anche le tracce consistenti di attività artigianali a carattere metallurgico; il tutto mescolato con i segni più o meno evidenti di incendi e devastazioni che, forse, una volta editi, potrebbero contribuire a comprendere meglio le prime fasi della penetrazione greca sul suolo della nostra Penisola.

6 Sulla questione cfr. l. jannelli, La frequentazione dell’acropoli di Cuma in età pre-protostorica. I dati dello scavo Buchner, in AnnAStorAnt 6, 1999, pp. 73-90; per una breve cronistoria delle vicende degli scavi sull’acropoli cumana cfr. il contributo di l. jannelli, Storia degli scavi e topografia dell’area sacra, in m. catucci, l. jannelli, l. sanesi mastrocinQue, Il deposito votivo dall’acropoli di Cuma, corpus delle stipi votive in italia, 16. regio i, 2, roma 2002, pp. 97-108. cenni a tale documentazione vi sono anche in P.G. Guzzo, Kyme Palaiotaton Ktisma, in ASAtene 87, 2009, (2010), pp. 507-522 (con riferimenti agli scavi in discorso alle pp. 510 e ss.), che costituisce anche la più recente e aggiornata sintesi sulla storia più antica della città, con una revisione critica della documentazione archeologica alla luce dei dati della tradizione.

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Finito di StAMPAre nel MeSe di diceMbre 2012DA STAMPA SUD S.P.A. - MOTTOLA (TA)

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so m m a r i o

Premessa 5

iNtroduzioNe 7

PeR una stoRia deL PRoBLema

gLi storici deL xix e xx secoLo di froNte aLLa coLoNizzazioNe greca iN occideNte (C. Ampolo)

11

La coLoNizzazioNe greca: modeLLi iNterPretativi NeL diBattito attuaLe (E. Greco, M. Lombardo)

35

iL diBattito (G. Maddoli, A. Mele, F. Frisone, A. Pontrandolfo, F. D’Andria, C. Ampolo)

61

L’aRea egea agLi inizi deL i miLLennio (1000-750 a.c.)

the form aNd structure of euBoeaN societY iN the earLY iroN age Based oN some receNt research (A. Mazarakis Ai-nian)

71

cuLti e cuLtura NeLLa grecia di età geometrica (1000-750 a.c.) (A. Duplouy)

101

hygrA keleuthA. maritime matters aNd the ideoLogY of sea-fariNg iN the greek ePic traditioN (J. P. Crielaard)

133

L’orizzoNte euBoico NeLL’egeo ed i Primi raPPorti coN L’oc-cideNte (N. Kourou)

159

achaia: oNe or tWo? (M. Petropoulos) 189

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PotterY ProductioN of achaea iN the NortherN PeLoPoNNese duriNg the time of coLoNizatioN (A. Gadolou)

221

iL diBattito (E. Greco, A. Mele, M. Giangiulio, M. Lombardo, A. Duplouy, E. Greco, A. Pontrandolfo, E. Arena)

247

tRa oRiente e occidente

moBiLità mediterraNea: traffici e PreseNze egee e orieNtaLi

iN occideNte tra ix e viii sec. a.c. (D. Ridgway †)257

Le isoLe ioNie suLLe rotte Per L’occideNte (B. d’Agostino) 277

Le origiNi deLLa magNa grecia: i Poemi omerici, esiodo e i Lirici (A. Mele)

305

Le origiNi coLoNiaLi tra memoria e tradizioNe (M.Giangiulio) 387

Pratiche cuLturaLi e raPPorti tra coLoNia e metroPoLi (M. Lombardo)

397

La ricerca archeoLogica e Le maNifestazioNi rituaLi tra metroPoLi e ApoikiAi (E. Lippolis, V. Parisi)

421

iL diBattito (M. Lombardo, P. Poccetti, M. Giangiulio, M. Lom-bardo)

471

L’occidente: foRme e PRocessi di uRBanizzazione e teRRitoRiaLizzazione

Processi di strutturazioNe territoriaLe: iL caso di taraNto

(T. E. Cinquantaquattro)485

moBiLità, migrazioNi e foNdazioNi NeL taraNtiNo arcaico:iL caso di L’amastuoLa (G.-J. Burgers, J. P. Crielaard)

523

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1517

iL saLeNto NeLLa Prima età deL ferro (ix - vii sec. a.c.):iNsediameNti e coNtesti (F. D’Andria)

549

Forme e Processi di urBaNizzazioNe e territoriaLizzazioNe:L’area ioNica tra BradaNo e cavoNe (A. De Siena)

593

forme e Processi di urBaNizzazioNe e di territoriaLizzazioNe

NeLLa fascia costiera ioNica tra i fiumi siNNi e BaseNto (S. Bianco, L. Giardino)

609

siBaritide: riLetture di aLcuNi coNtesti fuNerari tra viii e vii sec. a.c. (S. Luppino, F. Quondam, M. T. Granese, A. Van-zetti)

643

a greek eNcLave at the iroN age settLemeNt of timPoNe deLLa motta (J. K. Jacobsen, S. Handberg)

683

crotoNe e crotoNiatide: Primi documeNti archeoLogici (fiNe viii - iNizio vii secoLo a.c.) (R. Spadea)

719

materiaLi greci e coLoNiaLi deLLa Prima fase deLL’aNtica krotoN. scavo 2009 NeL quartiere setteNtrioNaLe (D. Ma-rino, M. Corrado, G. P. Mittica, F. Cristiano)

741

iL diBattito (V. Nizzo, E. Lippolis, A. Pontrandolfo, P. G. Guzzo, M. Lombardo, E. Greco, T. Cinquantaquattro, G.-J. Burgers, F. D’Andria, I. Tirloni, M. Lombardo, A. De Siena, S. Bianco, J. de La Geniere, S. Luppino, F. Quondam, L. Tomay)

803

Locri ePizefiri: segNi di uNa città iN formazioNe (C. Sab-bione)

821

Locri ePizefiri. Nuovi scavi deLL’uNiversità di toriNo (D. Elia, V. Meirano)

847

hipponion, medma e cauLoNia: Nuove evideNze archeoLogi-che a ProPosito deLLa foNdazioNe (M. T. Iannelli, B. Minniti, F. A. Cuteri, G. Hyeraci)

855

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1518

Nota suLLa ceramica di viii e vii secoLo a.c. daLLo scavo s. marco Nord-est a cauLoNia (M. R. Luberto)

913

L’area sacra deLL’isoLato z a messiNa e La ktiSiS di zaNcLe (M. Bacci, G. Tigano, M. Ravesi, G. Zavettieri)

927

rhegion tra porthMòS e SilA SilvA (R. Agostino) 947

caLaBria e area euBoica (L. Mercuri) 969

moBiLità e diNamiche iNsediative NeL goLfo di saLerNo (M. Cipriani, A. Pontrandolfo)

985

eLea: daLLa foNdazioNe aLLa formazioNe deLLa città (G. Greco)

1015

La fascia aLtotirreNica caLaBrese tra comuNità iNdigeNe e suB-coLoNie (G. Aversa)

1077

forme e Processi di territoriaLizzazioNe a metaPoNto (J. C. Carter)

1103

MégArA hyblAeA: Le domaNde e Le risPoste (M. Gras, H. Tréziny)

1131

seLiNuNte: L’eredità di MegArA hyblAeA e taNte domaNde aPerte (D. Mertens)

1149

iL diBattito (M. Lombardo, F. Frisone, E. Greco, A. Mele, E. Greco, M. Lombardo, E. Casavola, J. de La Genière, P. Poccetti, C. Ampolo, V. Nizzo, M. Gras, H. Tréziny, M. Gras, D. Mertens)

1171

tavoLa rotoNda (E. Greco, A. Pontrandolfo, M. Lombardo, F. Frisone, M. Lombardo, C. Ampolo, E. Lippolis, A. Pontrandolfo, M. Gras, V. Nizzo)

1183

Le Rassegne aRcheoLogiche

La PugLia (T. E. Cinquantaquattro) 1207

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1519

la BasiLicata (A. De Siena) 1259NaPoLi e PomPei (V. Sampaolo) 1307Le ProviNce di saLerNo, aveLLiNo, BeNeveNto e caserta (L. Rota)

1355

La caLaBria (S. Bonomi) 1405the greek excavatioNs iN siBari (M. Petropoulos) 1451

La croNaca (L. Pierri, G. Florido, A. Cervellera, C. Petrocelli, E. Greco, A. Siciliano, G. Maddoli, C. Pagano)

1477

eLeNco coNtriButi Borse di studio aNNo 2010 1489

Lista degLi iscritti e dei ParteciPaNti aL coNvegNo 1491

indici

iNdice dei Nomi e deLLe LocaLità NotevoLi 1499

sommario 1515

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Finito di StAMPAre nel MeSe di diceMbre 2012DA STAMPA SUD S.P.A. - MOTTOLA (TA)

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