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nottetempo Giorgio Agaben Pilato e Ges sassi nello stagno l filosofia

nottetempo Giorgio Agarnben Pilato e Gesti - sduk.us · Che cos'è il contemporaneo? Che cos'è un dispositivo? Genius Il Giorno del Giudizio L'amico La Chiesa e il Regno Giorgio

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� nottetempo

Giorgio Agarnben Pilato e Gesti

sassi nello stagno l filosofia

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Chi è Ponzio Pilato, il prefetto della Giudea

davanti al quale si svolse il processo a Gesù

che si concluse con la crocifissione? Un tiranno

crudele e spietato o un funzionario pavido ed

esitante, che si lascia convincere dal sinedrio .a

condannare un uomo che ritiene innocente? Una

maschera ironica e disincantata che pronuncia

battute memorabili (''Che cos'è la verità?", "Ecce

Homo�", "Quel che ho scritto, ho scritto") o una

severa figura teologica senza la quale il dramma

della passione non avrebbe potuto compiersi?

Rimettendo in scena il processo in tutte le sue

fasi, Agamben ne propone una inedita e pun­

tuale lettura. Nel dialogo fra Pilato e Gesù, due

mondi e due regni si stanno di fronte: la storia

e l'eternità, il sacro e il profano, il giudizio e la

salvezza.

ISBN Y ltl-!:18-ì4SL-t;UY-Y

6,00 Euro 9 788874 524099 >

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ISBN 978-88-7 452- 409- 9 © 2013 nottetempo srl

nottetempo, piazza Farnese 44- 00186 Roma

www.edizioninottetempo.it

[email protected]

Stampa: Global Print, Gorgonzola (MI)

Terza edizione novembre 2013

Pilato e Gesti

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Giorgio Agamben è stato docente di Filosofia teoretica all'Univer­

sità di Venezia e ha pubblicato un'ampia opera tradotta in tutto il

mondo. Tra i suoi testi ricordiamo Homo sacer (19 9 5), La comunità che viene (2001), L'aperto (2002), Stato di eccezione (2003), Il sacra­

mento del linguaggio (2008), Il mistero del male: Benedetto XVI e la fine dei tempi (20 13).

Dello stesso autore presso nottetempo:

Nudità

Pro/a nazioni Che cos'è il contemporaneo?

Che cos'è un dispositivo?

Genius Il Giorno del Giudizio

L'amico La Chiesa e il Regno

Giorgio Agamben

Pilato e Gesti

nottetempo

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l. Il symbolon, il "credo" in cui i cristiani com­pendiano la loro fede, contiene, accanto a quelli del "signore Gesu Cristo" e della "vergine Ma­ria", un unico nome proprio, del tutto estraneo - almeno in apparenza - al suo contesto teolo­gico. Si tratta, per di piu, di un pagano, Ponzio Pilato: staurothenta te yper emon epi Pontiou Pilatou, "crocifisso per noi sotto Ponzio Pila­to". Il "credo" che i Padri avevano formulato a Nicea nel 325 non conosceva questo nome. Esso vi fu aggiunto nel 381 dal Concilio di Co­stantinopoli, secondo ogni evidenza per fissa­re anche cronologicamente il carattere storico della passione di Gesu. "Il credo cristiano", è stato osservato, "parla di processi storici. Pon­zio Pilato vi figura per ragioni essenziali e non

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è solamente un uccello del malaugurio capitato per caso in quei luoghi" (Schmitt, p . 253 ).

Che il cristianesimo sia una religione storica, che i "misteri" di cui essa parla siano anche e innanzitutto fatti storici, è scontato. Se è vero che l'incarnazione di Cristo è "un evento sto­rico di infinita, inappropriabile, inoccupabile unicità" (ibid. ) , il processo di Gesti è allora uno dei momenti chiave della storia dell'umanità, in cui l'eternità ha incrociato in un punto de­cisivo la storia. Tanto piu urgente è il compito di comprendere come e perché questo incrocio fra il temporale e l'eterno e fra il divino e l'u­mano abbia assunto proprio la forma di una krisis, cioè di un giudizio processuale.

2. Perché proprio lui, Pilato? Una formula del tipo Tiberiou kaesaros - che si legge sulle mo­nete coniate da Pilato e aveva per sé l'autorità di Luca, che data cosi la predicazione di Gio­vanni (Le. 3,1 ) - o sub Tiberio (come Dante fa dire a Virgilio: "nacqui sub Iulio", In/ 1,70)

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sarebbe stata certamente piu consona all'uso. Se i padri riuniti a Costantinopoli hanno pre­ferito Pilato a Tiberio, il prefetto - o, come preferisce chiamarlo Tacito (Ann. XV,44), in una delle poche testimonianze extrabibliche che menzionano il suo nome, il "procurato­re" della Giudea - a Cesare, è possibile che sull'indubbio intento cronografico abbia pre­valso il rilievo che la figura di Pilato ha nel­la narrazione dei Vangeli. Nella puntigliosa attenzione con cui soprattutto Giovanni, ma anche Marco, Luca e Matteo descrivono le sue esitazioni, il suo tergiversare e mutare opinio­ne, riferendo alla lettera le sue parole, a volte decisamente enigmatiche, gli evangelisti rive­lano forse per la prima volta qualcosa come l'intenzione di costruire un personaggio, con la sua psicologia e i suoi idiotismi. È la vivezza di questo ritratto che fa esclamare a Lavater in una lettera a Goethe del 17 8 1: "Io trovo in lui tutto: cielo, terra e inferno, virtu, vizio, sag­gezza, follia, destino, libertà: egli è il simbolo di tutto in tutto". Si può dire, in questo senso,

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che Pilato sia forse l'unico vero "personaggio" dei Vangeli (Nietzsche lo ha definito nell'An­ticristo "l'unica figura - Figur- del Nuovo Te­stamento che meriti rispetto"), un uomo di cui conosciamo le passioni ("si meraviglia mol­to", Mt. 27, 14; Mc. 15,5; "ha grande paura", Gv. 19,8), il risentimento e l'ombrosità (come quando, a Gesu che non gli risponde, grida: "Ah, non mi parli - emoi ou laleis! Non sai che posso liberarti o farti crocifiggere?"), l'ironia (almeno secondo alcuni, nella famigerata re­plica a Gesu: "Che cos'è la verità?"), l'ipocrita scrupolosità (di cui testimonia tanto il solleva­re una questione di competenza con Erode che il lavacro rituale delle mani, con cui crede di purificarsi del sangue del giusto condannato), la stizza (il perentorio "quel che ho scritto, ho scritto" ai sacerdoti che gli chiedono di cam­biare l'iscrizione sulla croce). Ne conosciamo fuggevolmente anche la moglie, che durante il processo gli manda a dire di non condannare Gesu, "perché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua" (Mt. 27, 19).

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3. Di questa vocazione a diventare personag­gio si ricorderanno Michail Bulgakov, nelle stupende storie su Pilato che il diavolo rac­conta nel Maestro e Margherita, e Alexander Lernet-Holenia, nella grandiosa farsa teologi­ca inserita nel Conte di Saint-Germain. Ma ne testimonia per tempo, nei testi che ci si ostina a chiamare "apocrifi" del Nuovo Testamento (il termine, che ha finito col significare "falsi, non autentici", significa in verità semplice­mente "nascosti"), la presenza di un vero e proprio ciclo di Pilato. lnnanzitutto nel Van­gelo di Nicodemo (Moraldi, pp. 567-588), in cui il processo di Gesu è messo in scena in modo molto piu dettagliato rispetto ai sinot­tici. Quando Gesu è introdotto da Pilato, gli stendardi che i vessilliferi tengono in mano si inchinano miracolosamente davanti a lui. Nel processo intervengono anche dodici proseliti che testimoniano - contro l'accusa che Gesu sia "figlio della fornicazione" - che Giuseppe e Maria hanno contratto matrimonio, e Ni­codemo, che testimonia anch'egli a favore di

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Gesti. In generale tutto il processo è qui reso drammaticamente come un contraddittorio fra gli accusatori ebrei, che sono nominati uno per uno (Anna, Caifa, Summa e Datan, Gamaliele, Giuda, Levi, Alessandro, Neftali e Giairo) e Pilato, che appare spesso fuori di sé ed è quasi apertamente dalla parte di Gesti, anche perché sua moglie "è devota a Dio e simpatizza con gli Ebrei". Il dialogo con Gesti sulla verità, che nei sinottici termina bruscamente con la domanda di Pilato, qui, come vedremo, continua e acqui­sta tutt'altro significato. Tanto p i ti inaspettato è il cedimento finale di Pilato alle insistenze degli Ebrei, quando preso da un improvviso timore, ordina che Cristo sia flagellato e crocifisso.

4. La leggenda su Pilato (i cosiddetti Acta o Ge­sta Filati) si costituisce secondo due linee diver­genti. Innanzitutto una leggenda "bianca", at­testata dalle lettere pseudoepigrafe a Tiberio e dalla Paradosis, secondo la quale Pilato, insieme a sua moglie Proda, avrebbe compreso la divini-

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tà di Gesti e solo per debolezza avrebbe ceduto alle insistenze degli Ebrei. Di questa leggenda testimonia Tertulliano scrivendo che Pilato era stato forzato a far crocifiggere Gesti dalle violen­te pressioni degli Ebrei (violentia su/fragiorum in crucem dedi sibi extorserint) , ma "essendo già nel suo intimo cristiano (pro sua conscientia christianus)" aveva informato con una lettera l'Imperatore dei miracoli e della resurrezione di Gesti (Apol. XXI, 18-24). La Paradosis (qualco­sa come la "consegna", ma anche la "tradizio­ne") di Pilato presuppone la redazione di questa lettera (di cui esistono numerose versioni, tutte, ovviamente, false) e comincia appunto con l'in­dignazione di Tiberio dopo la lettura del mes­saggio (Moraldi, pp. 7 17-723). Egli fa condurre Pilato in catene a Roma e gli chiede come abbia potuto crocifiggere un uomo che sapeva autore di cosi grandi prodigi. Pilato si giustifica accu­sando gli Ebrei e si dichiara persuaso che Gesti "fosse superiore a tutte le divinità che noi ado­riamo". La leggenda bianca di Pilato lo presenta cioè, paradossalmente, in qualche modo come

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un segreto campione del cnst1anesimo contro gli Ebrei e i pagani. Ne testimonia l'autodifesa che Pilato rivolge a Gesti quando Tiberio decide di punirlo con la decapitazione:

Signore, non mi confondere con questi miserabili

Ebrei nella distruzione. Giacché, se io ho levato la

mano contro di te, l'ho fatto forzato da quella folla

di Ebrei che mi tormentava: ma tu sai che ho agi­

to per ignoranza. Non condannarmi dunque per

questo peccato, ma perdonami e cosi perdona an­

che la tua serva Proda, che mi sta accanto nell'ora

della morte e che tu hai destinato a profetizzare la

tua crocifissione. Non condannarla a causa della

mia mancanza ma abbi pietà e includici fra i tuoi

giusti.

E quando un Pilato ormai cristianizzato ter­mina la sua supplica, si ode dal cielo una voce che ne annuncia la salvezza:

Tutti i popoli e tutte le generazioni proclameranno

la tua felicità, perché sotto il tuo governo hanno

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avuto compimento le profezie che mi riguardava­

no. E tu, mio testimone, comparirai nella mia se­

conda venuta allorché giudicherò le dodici tribu di

Israele e coloro che non confessano il mio nome.

A questo punto Pilato viene decapitato, ma un angelo ne raccoglie la testa mozzata. Proda, alla vista dell'angelo che porta in cielo la testa, "piena di beatitudine, emise l'ultimo respiro e fu sepolta con suo marito per volere del nostro Signore Gesti Cristo".

La cristianizzazione di Pilato tocca il suo ver­tice nel Vangelo di Gamaliele, conservato m

una recensione etiopica. Qui si legge che

Pilato e sua moglie amavano Gesu come se stes­

si. Egli lo aveva fatto flagellare per compiacere i

malvagi Ebrei, affinché il loro cuore si disponesse

piu favorevolmente e lo lasciassero andare senza

condannarlo a morte. (Moraldi, p. 662)

Gli Ebrei lo avevano, infatti, ingannato, fa­cendogli credere che, se lo avesse punito in quel

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modo, essi lo avrebbero lasciato andare. Per questo, dopo la crocifissione, Gesu appare in so­gno a Pilato ("il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad ec­cezione della sinagoga degli Ebrei") e lo consola dicendo: "Pilato, tu piangi forse perché hai fla­gellato Gesu? Non aver paura ! Si è, infatti, awe­rato ciò che di lui era stato scritto" (ivi, p. 673 ).

Si è osservato che la giustificazione di Pila­to da parte dei cristiani mirava ad accattivarsi la benevolenza dei Romani e cessò per questo con la fine delle persecuzioni. Quel che è certo, in ogni caso, è che l'assoluzione di Pilato nella leggenda coincide con l'intenzione di attribu­ire la responsabilità della crocifissione esclu­sivamente agli Ebrei. Non stupisce, pertanto, che Pilato finisca con l'essere santificato dalla Chiesa etiopica e sua moglie festeggiata nella Chiesa greca il 26 ottobre.

5. La leggenda bianca di Pilato contrasta con quanto di lui ci tramandano le fonti extrabibli-

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che. Filone, che ne parla nella Legatio ad Gaium (par. 299-305), a proposito di un'azione che gli Ebrei sentirono come sacrilega (aveva colloca­to nel palazzo di Erode degli scudi dorati con la dedica a Tiberio) lo descrive come un uomo "inflessibile, ostinato e crudele (akamptos, au­thades, ameiliktos)". Poco dopo, in una scena in cui Pilato sembra in preda a timori ed esi­tazioni simili a quelli descritti nei Vangeli, egli viene definito "sprezzante e collerico". È un personaggio di questo genere che fa da protago­nista alla leggenda nera di Pilato, che s'incrocia curiosamente con quella della Veronica. Secon­do questa leggenda (Moraldi, pp. 72 1-724), in cui tanto Gesu che la Veronica figurano per il loro potere taumaturgico, Tiberio malato viene a sapere che a Gerusalemme c'è un medico di nome Gesu, che guarisce tutte le malattie con la sua sola parola (Bulgakov doveva conoscere questa versione, perché nel suo racconto Pila­to si rivolge ostinatamente a Gesu come a un medico). Manda allora un suo agente, Volusia­no, da Pilato perché gli ordini di trovare Gesu

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e lo faccia portare a Roma. Quando Volusiano, giunto a Gerusalemme, gli espone la richiesta dell'imperatore, Pilato "atterrito perché sapeva di aver fatto uccidere Gesti per invidia" gli ri­sponde che quell'uomo era un malfattore e lo aveva fatto per questo crocifiggere. Volusiano, tornando alla sua abitazione, s'imbatte in una donna di nome Veronica, le chiede di Gesti e le spiega le ragioni della sua missione.

La donna scoppiò allora in lacrime, dicendo:

"Ahimè, egli era il mio Dio e il mio Signore, che

Pilato condannò a morte e consegnò perché fos­

se crocifisso". Allora, pieno di tristezza, egli dis­

se: "Mi dolgo profondamente, perché non posso

portare a termine ciò per cui sono stato mandato

dal mio signore". E Veronica a lui: "Quando il mio

Signore andava in giro predicando, io con molto

dispiacere ero privata della sua presenza; volli per­

ciò dipingermi un'immagine affinché, privata del­

la sua presenza, avessi un sollievo almeno con la

rappresentazione della sua immagine. Mentre sta­

vo portando un panno da dipingere al pittore, mi

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venne incontro il mio Signore e mi domandò dove

andavo. Avendogli manifestato il motivo del mio

viaggio, egli mi richiese il panno e me lo restitui in­

signito della sua venerabile faccia. Orbene, se il tuo

signore osserverà devotamente questa immagine,

subito riacquisterà il beneficio della sanità". Egli

domandò: "Questa immagine si può acquistare

con oro o argento?" E lei: "No, ma con pio affetto

devozionale. Verrò dunque con te, portando l'im­

magine da vedere a Cesare; poi me ne ritornerò".

Volusiano torna dunque a Roma con Vero­nica e comunica all'imperatore Tiberio che il medico Gesti era stato da Pilato e dagli Ebrei consegnato, per invidia, a un'ingiusta morte.

"Ma è venuta con me una certa matrona portando

la sua immagine: se tu la guarderai devotamente,

subito riacquisterai il beneficio della tua salute".

Cesare fece dunque preparare la strada con panni

di seta e ordinò che gli fosse presentata l'imma­

gine; non appena la guardò, ottenne la primitiva

salute.

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Tiberio ordina allora che Pilato sia arrestato e condotto a Roma. Ma, al momento di compa­rire davanti all'imperatore furente, Pilato, che la leggenda presenta sempre come un furfante, indossa la "tunica incorruttibile" di Gesu che aveva portato con sé (è la tunica inconsutilis, "senza cuciture", di Gv. 19,23, che la leggenda non spiega come fosse giunta nelle sue mani). Immediatamente la collera di Tiberio scompa­re ed egli non riesce a formulare le sue accuse. La scena si ripete piu volte, nello stupore gene­rale: l'uomo che, mentre era assente, gli appari­va come un feroce criminale, una volta presen­te gli sembra pio e mansueto. Finalmente, per ispirazione divina o, forse, grazie al consiglio di qualche cristiano, Tiberio ordina che Pilato venga svestito della tunica. Immediatamente l'incantesimo scompare e l'imperatore, ritrova­ta la padronanza di sé, fa imprigionare Pilato e lo condanna a una morte ignominiosa. Udita la sentenza, Pilato si uccide, trafiggendosi col suo coltello. Il suo cadavere viene allora legato a un'enorme pietra e gettato nel Tevere, ma

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spiriti maligni e immondi, uscendo dal suo corpo

maligno e immondo, presero a muoversi nell'ac­

qua, suscitando nell'atmosfera fulmini e tempeste,

tuoni e grandine terribile, sicché tutti erano presi

da un'atroce paura.

La leggenda di Pilato si confonde a questo punto con quella della migrazione del suo ca­davere indemoniato di sepoltura in sepoltura. I Romani estraggono il cadavere dal Tevere e, in segno di spregio, lo trasportano a Vienne, per gettarlo nel Rodano. "Vienne, infatti, è det­ta cosi quasi come via della gehenna, perché allora era un luogo maledetto". Ma anche qui affluiscono gli spiriti maligni, provocando lo stesso sconcerto. Il cadavere viene allora trasfe­rito a Losanna, dove, dopo il consueto sabba, viene alla fine portato sulle montagne e calato in un pozzo profondissimo, dal quale, a quanto riferisce la leggenda, "esalano tuttora macchi­nazioni diaboliche".

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6. Gli evangelisti, che certo non potevano es­sere presenti al processo, non si preoccupano di indicare le fonti della loro narrazione e pro­prio questa assenza di scrupoli filologici con­ferisce al racconto il suo incomparabile tono epico . Le lettere e le leggende, col loro esito fosco o glorioso, sono state presumibilmente inventate per fornire una documentazione del processo e, insieme, per dar conto del compor­tamento di Pilato . Esse spiegano tanto perché il prefetto della Giudea cerchi in ogni modo di evitare la condanna di Gesti (egli sapeva, come risulta dalla lettera a Tiberio, che Gesti non solo era innocente, ma operava miracoli come un dio), che il suo improvviso cedimento agli Ebrei (era, in realtà, invidioso e codardo) . In ogni caso, il comportamento di Pilato durante il giudizio doveva apparire enigmatico e, tutta­via, che un giudizio davanti al prefetto avesse luogo era, per qualche motivo, essenziale .

Giudizio si dice in greco krisis (da krino, che significa etimologicamente "separare, de-cide­re") . Accanto a questo significato giuridico,

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convergono nel termine tanto un significa­to medico (krisis come il momento decisivo nell'evoluzione di una malattia, quando il me­dico deve "giudicare" se il malato morirà o so­pravvivrà), che uno teologico (il Giudizio fina­le: en emerai kriseos, "nel giorno del giudizio", è l'ammonimento che torna p i ti volte sulla boc­ca di Gesti; in Paolo: en emerai ote crinei, "nel giorno in cui Dio giudicherà", Rm. 2, 16).

Nella narrazione degli evangelisti il termine non compare . Il termine tecnico per la funzio­ne del giudice è, qui, bema, il seggio o il podio su cui siede colui che deve pronunciare il giu­dizio (la sella curulis del magistrato romano) . Quando Pilato sta per pronunciare la con­danna, egli si siede sul bema: "Pilato condus­se fuori Gesti e sedette sul podio in un luogo chiamato Lithostrotos" ( Gv. 19, 13); cosi in M t. 27,19: "Mentre Pilato sedeva sul bema" (cioè esercitava la sua funzione di giudice; la vulga­ta traduce sedente pro tribunali) , "sua moglie mandò a dirgli[ . . . ]". Negli Atti ( 18, 12), il ter­mine significa semplicemente "tribunale": "Gli

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Ebrei insorsero contro Paolo e lo condussero al tribunale (eis to bema)". Non diversamente, in Paolo, bema designa per sineddoche il Giu­dizio finale: "Tutti devono comparire davan­ti al bema di Cristo" (2 Cor. 5, 10). Il giudizio di Dio è, però, esplicitamente contrapposto a quello degli uomini, che non devono giudicarsi fra loro: "Ma tu perché giudichi (ti krineis) tuo fratello? [ ... ] Tutti dovranno presentarsi da­vanti al bema di Dio" (Rm. 14, 10).

Nel processo che si svolge davanti a Pilato, due bemata, due giudizi e due regni sembrano fronteggiarsi: l'umano e il divino, il temporale e l'eterno. Spengler ha espresso con la consue­ta vivacità questa contrapposizione: "Quando Gesu viene portato davanti a Pilato, due mondi stanno immediatamente e inconciliabilmente di fronte: quello dei fatti e quello delle verità, e con tanta spaventosa chiarezza come mai altro­ve nella storia del mondo" (Spengler, p. 968).

Ed è il mondo dei fatti che deve giudicare quello della verità, il regno temporale che deve pronunciare un giudizio sul Regno eterno.

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Tanto piu necessario è valutare con cura ogni dettaglio della cronaca di questo confronto de­cisivo, di questa krisis storica che, in qualche modo, è sempre in corso.

7. La narrazione di Giovanni è, rispetto ai si­nottici, tanto piu ampia e particolareggiata, da risultare del tutto indipendente da essi. I dia­loghi fra Pilato e Gesu, che i sinottici sbrigano in poche righe, acquistano qui uno spessore e un significato in ogni senso decisivi. Giovanni scandisce drammaticamente il racconto in set­te scene, a ognuna delle quali corrisponde un cambiamento di luogo, ora fuori ora dentro il pretorio, ogni volta (tranne per la quinta sce­na) introdotto dalle formule stereotipe: "Pilato usci fuori (exelthen)", "entrò di nuovo (eisel­then palin) ", "usci di nuovo (exelthen palin)". Conosciamo inoltre la durata del dramma, cin­que ore, dal mattino presto (proi- Gv. 18,28) all'ora sesta (ivi, 19, 14).

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l) (FUORI) Nella prima scena, poiché i sa­cerdoti che hanno condotto Gesti nel pretorio non vogliono entrarvi per non contaminarsi prima del pasto pasquale, Pilato esce fuori (exelthen [. . . ] exo) e chiede: "Qual' è l'accusa (kategorian) che portate contro quest'uomo?" La domanda è coerente con la struttura del processo romano, che iniziava con l'iscrizione dell'accusa, che doveva essere determinata e non calunniosa. Gli Ebrei non formulano l' ac­cusa, ma si limitano a dichiarare genericamen­te che "se costui non fosse un malfattore non te l'avremmo consegnato (paredokamen)". La conseguente ingiunzione di Pilato agli Ebrei, di prendere l'accusato e di giudicarlo "secon­do la vostra legge (kata ton nomon ymon) ", sembra seguire ancora una logica processuale: dal momento che l'accusa non era stata forma­lizzata, la legge romana non poteva applicarsi. La replica degli Ebrei ("A noi non è permes­so uccidere") segna una svolta nel comporta­mento di Pilato. Il commento di Giovanni (gli Ebrei dicevano questo "affinché si adempisse

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la parola di Gesti quando aveva indicato di quale morte doveva morire") non poteva certo riguardare Pilato e, tuttavia, è come se il pre­fetto interpretasse la replica degli Ebrei come la formulazione di un'accusa di lesa maestà. Secondo il Digesto, infatti "è un crimine di lesa maestà (maiestatis crimen) quello che vie­ne commesso contro il popolo romano o con­tro la sua sicurezza" (Dig. 48.4. 1. 1). E la lex ]ulia maiestatis del 46 a.C. stabiliva per questo delitto, secondo la condizione del colpevole, la crocifissione, la consegna alle belve o l'esi­lio. In ogni modo, Pilato decide inaspettata­mente di interrogare Gesti.

II) (DENTRO) Ha luogo a questo punto il primo serrato confronto fra Pilato e Gesti.

Allora Pilato entrò di nuovo (eiselthen palin) nel

pretorio, chiamò Gesu e gli chiese: "Sei tu il re dei

Giudei?" Gesu rispose: "Dici questo da te stes­

so o altri te l'hanno detto di me?" Rispose Pila­

to: "Sono io forse un giudeo? La tua nazione (to

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ethnos to san) e i sommi sacerdoti ti hanno conse­

gnato a me. Che cosa hai fatto?"

Il sintagma "re dei Giudei" (basileus ton Iou­daion) , che avrà in seguito una funzione cosi decisiva, appare qui nel processo per la prima volta. A giudicare dalla sua replica, Gesu non si aspettava la domanda: cosa ha a che fare, infatti, il prefetto romano con una questione interna del giudaismo, qual' era l'attesa ebraica del messia? Pilato sembra leggergli nel pensie­ro: "Sono io forse un giudeo?"

Comincia qui quel dialogo sul Regno e sulla verità, su cui sono state scritte innumerevo­li pagine. Invece di rispondere alla domanda: "Che cosa hai fatto?", Gesu replica alla pre­cedente:

"li mio regno non è di questo mondo (He basileia

he eme ouk estin ek tou kosmou toutou). Se il mio re­

gno fosse di questo mondo, i miei inservienti avreb­

bero combattuto per me, affinché non fossi conse­

gnato ai Giudei. Ora il mio regno non è di qui".

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La risposta è ambigua, perché nega e, insie­me, afferma la condizione regale. Gli antichi commenti, da Agostino a Crisostomo fino a Tommaso, insistono concordi su questo punto. Gesu, suggerisce Agostino, non ha detto "non è in questo mondo (non est in hoc mundo) ", ma "non è da questo mondo (de hoc mundo)"; e Crisostomo spiega: '"Il mio regno non è da questo mondo' significa che non ha origine da cause mondane e dalla scelta degli uomini, ma viene da altrove, cioè dal Padre". E Tommaso: "Dicendo che il suo regno non è qui, intende che non ha principio da questo mondo, e tut­tavia è qui, perché è dovunque (est tamen hic, quia ubique est) ".

Pilato ha dunque ragione di replicare: "Dun­que tu sei re (oukoun basileus ei sy) ?" La rispo­sta di Gesu sposta improvvisamente il discorso dal Regno alla verità:

"Tu lo dici che io sono re (sy legeis ati basileys eimi

ego). Io sono nato per questo e per questo sono

venuto al mondo, per testimoniare della verità (ina

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martyreso te i aletheiai). Chiunque è dalla verità (ek

tes aletheias), ascolta la mia voce".

E qui Pilato pronuncia quella che Nietzsche ha definito la "battuta piti sottile di tutti i tem­pi (die grosste Urbanitlit aller Zeiten)": "Che cos'è la verità (ti estin aletheia) ?"

In realtà la domanda di Pilato, interpretata tradizionalmente come espressione ironica di scetticismo (in questo senso Spengler contrap­poneva i fatti - Tatsachen - il cui campione è Pilato, alla verità, rappresentata da Gesti) e perfino di scherno (il "signorile sarcasmo" con cui, secondo Nietzsche, un "romano" avrebbe annientato il Nuovo Testamento- I; Anticristo, par. 46), non è necessariamente tale. Né essa è necessariamente un "corpo estraneo" (De­mandt, p. 86) nel suo contesto, che - occorre non dimenticarlo - è quello di un processo. Come Tommaso suggerisce nel suo commento, Pilato, una volta chiarito che il Regno di Gesti non riguarda questo mondo, vuole sapere la verità e venire in chiaro del regno di cui l' accu-

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sato sta testimoniando (cupit veritatem scire ac elfici de regno eius) : la sua domanda non si rife­risce alla verità in generale (non quaerens quid sit definitio veritatis) , ma alla speciale verità che Gesti sembra intendere e che egli non rie­sce ad afferrare. A fronteggiarsi non sono qui forse verità e scetticismo, fede e incredulità, ma due diverse verità, o due diverse concezioni della verità. Nel Vangelo di Nicodemo, l'inter­rogatorio continua con la risposta di Gesti: "La verità viene dal cielo", e con la nuova domanda di Pilato: "Non vi è sulla terra alcuna verità?" La risposta di Gesti: "Tu vedi come coloro che dicono la verità sono giudicati dai poteri ter­reni", conclude l'interrogatorio (Moraldi, p. 572). Il giudizio terreno non coincide con la testimonianza della verità.

III) (FUORI) Pilato a questo punto esce nuovamente (palin exelthe) dal pretorio. Si è spesso sottolineato il fatto che egli voluta­mente non aspetta la risposta di Gesti (Baco­ne ha scritto ironicamente: "What is truth?,

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said jesting Pilatus and would not stay for an answer"; ma già Tommaso osserva che egli responsionem non expectavit) . La decisione improvvisa si spiega con la sua apostrofe ai Giudei: "Io non trovo in lui alcuna colpa. Ma voi avete l'usanza che io vi liberi qualcuno per la Pasqua. Volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?" Non avendo trovato colpevole l'accusato, Pilato avrebbe dovuto emettere un verdetto di innocenza (la formula prevista nel processo romano era absolvo o videtur non /e­cisse) o sospendere il processo e chiedere un supplemento di indagine (la formula prevista era non liquet o amplius est cognoscendum) . Egli pensa, invece, di risolvere il caso serven­dosi dell'amnistia pasquale. Per tutto il corso del processo - è un fatto su cui occorre ri­flettere -, Pilato cerca tenacemente di evitare la pronuncia di un verdetto . Anche alla fine, quando cede alle tumultuose insistenze dei Giudei, il prefetto non pronuncia, come ve­dremo, una sentenza: si limita a "consegnare (paredoken) " l'accusato agli Ebrei.

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Gli Ebrei vanificano il suo proposito gridan­do: "Non lui, ma Barabba" (come informa Mc. 15,7, Barabba, letteralmente "il figlio del pa­dre", era un ribelle omicida). (È a questo pun­to che, nel racconto di Matteo - M t. 17,24 -, si situa l'episodio della lavanda delle mani, di cui Giovanni non fa parola: "Pilato, vedendo che non c'era nulla da fare, ma che il tumulto po­teva crescere, prese dell'acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: ' Sono innocente del sangue di questo giusto'").

IV) (DENTRO) Rientrato nel pretorio - il testo non lo dice, ma risulta inequivocabilmen­te dal passo successivo - Pilato fa un ultimo tentativo.

Prese Gesu e lo fece flagellare. I soldati intreccia­

rono una corona di spine, gliela posero sul capo

e lo rivestirono di un manto di porpora; si avvici­

navano a lui dicendo: "Salve, re dei Giudei," e gli

davano schiaffi.

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La flagellazione era una pena accessoria pre­vista come preliminare alla crocifissione: Pilato intende invece servirsene, alquanto incongrua­mente - ma ciò rientrava con ogni probabilità nei suoi poteri discrezionali (cfr. Dig. 48.2.6)

- com� pena per un non specificato reato mi­nore. E guanto Luca gli fa dire con chiarezza: "Non ho trovato nulla in lui che meriti la mor­te. Lo farò castigare e poi lo metterò in libertà" (Le. 23 ,22).

V) (FUORI) Ancora un cambiamento di luo­go:

Pilato di nuovo usci fuori e disse loro: "Ecco, ve

lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo

in lui alcuna colpa". Usci dunque Gesu, portando

la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato

disse loro: "Ecco l'uomo (idou ho anthropos, vulg.

ecce homo)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro

inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!"

Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo;

io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei:

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"Noi abbiamo una legge e secondo questa legge

deve morire, perché si è fatto figlio di Dio".

L'accusa che, secondo Lev. 24, 16, meritava per gli Ebrei la pena capitale era stata già men­zionata in Gv. 5, 18 ('' Per questo i Giudei cer­cavano di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma chiamava Dio suo padre, facendo se stesso uguale a Dio") e Gesti si era difeso con queste parole:

"A colui che il padre ha santificato e ha mandato

nel mondo voi dite: 'Tu bestemmi,' perché ho det­

to: 'Sono figlio di Dio'. Se non faccio le opere del

Padre mio, non credetemi. Ma se le faccio, anche

se non credete a me, credete alle opere, affinché

sappiate che il Padre è in me e io nel Padre". (i vi,

10, 36-38)

VI) (DENTRO) Da questo momento la con­dotta di Pilato si fa - almeno in apparenza -sempre piu incoerente.

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Quando udf queste parole, Pilato ebbe ancora piu

paura. Rientrò (eiselthen) nel pretorio e disse a

Gesu: "Da dove sei tu (pothen ei sy;)?" Gesu non

gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: "Non mi

parli? Non sai che ho il potere (exousian) di libe­

rarti e il potere di crocifiggerti?" Gli rispose Gesu:

"Non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse

stato dato dall'alto (anothen). Per questo colui che

mi ha consegnato (ho paradous) a te ha un peccato

piu grande".

La domanda "da dove" si riconnette secon­do ogni evidenza al dialogo precedente, quan­do Gesti aveva dichiarato che il suo Regno non era "da (ek) questo mondo" e aveva evocato "colui che è 'dalla verità"'. Le domande di Pi­lato continuano dunque a seguire, malgrado le apparenti oscillazioni, una logica di accerta­mento della verità. La risposta di Gesti, che fa provenire anche l'autorità di Pilato "dall'alto", sembra convincere ulteriormente il prefetto della sua innocenza, poiché "da quel momento Pilato cercava di liberarlo. Ma i Giudei conti-

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nuavano a gridare: 'Se tu liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque infatti si fa re, si

C "' oppone a esare .

VII) (FUORI) Ultima scena, all'aperto:

Sentite queste parole, Pilato condusse fuori (egagen

exo) Gesu e sedette sul seggio (ekathisen ept tou be­

matos) nel luogo chiamato Lithostrotos ("pavimen­

to di pietra"), in ebraico Gabbanà. Era la prepara­

zione della Pasqua, intorno all'ora sesta. Pilato disse

ai Giudei: "Ecco il vostro re!" Ma quelli gridarono:

"Via! Via! Crocifiggilo!" Disse loro Pilato: "Croci­

figgerò il vostro re?" Risposero i sommi sacerdoti:

"Non abbiamo altro re che Cesare". Allora lo con­

segnò (paredoken) loro perché fosse crocifisso.

Bickerman ha osservato a ragione che il fat­to che soltanto a questo punto Pilato si segga sul seggio significa che tutto il dibattito prece­dente non ha valore processuale, ma privato: "Secondo le regole invariabili della procedura romana, i crimini capitali, com'era quello di

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Gesti, non potevano essere giudicati altrimenti che pro tribunali [ . . . ] Pilato agisce qui come intermediario, arbitro e non come giudice" (Bickerman, p. 223 ).

Non è un caso, inoltre, che, al momento dell'improvvisa capitolazione di Pilato, la questione della regalità di Gesti sia nuova­mente evocata da Pilato. Poiché l'accusa che il sinedrio muove a Gesti è, appunto, la pre­tesa messianica alla regalità, che gli Ebrei ri­fiutano, ma che Pilato, con la sua domanda, sembra rimettere in causa. La questione del Regno di Gesti, mondano o celeste che sia, resta fino alla fine in sospeso. Ed è proprio per questo che l'argomentazione finale dei si­nedriti ( '' Non abbiamo altro re che Cesare") convince Pilato a consegnare Gesti.

La questione della regalità torna con forza nell'iscrizione (titulus) che Pilato fa porre sul­la croce: "Gesti nazareno Re dei Giudei" (Gv. 19, 19). Menzionando il motivo per cui egli è stato condannato (Mt. 27,37), essa sembra insieme affermarne la regalità. Il titulus nelle

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esecuzioni capitali doveva riportare i l crimine che veniva punito, ma Bonaventura, nel suo commento, lo accosta invece all'insegna che elencava le vittorie dell'imperator trionfante e lo chiama per questo titulus triumphans, "per­ché è in lode di Cristo e a vergogna dei Giudei, in quanto era stato condannato come malfat­tore, ma non era tale, bensi Re" (In Ev. Johan. XIX,3 1). Ancora piti arbitrariamente, Cirillo di Alessandria identifica il titulus coi chiro­grafo di cui parla Paolo (Col. 2, 14- 15), "che il Signore inchiodò sulla croce, trionfando e sot­tomettendo a sé le potenze mondane" (In Ev. Johan. XII, 19, 19).

L'ambiguità dell'insegna non sfugge ai sine­driti, perché essi chiedono a Pilato di cambiar­la: "Non scrivere 'Re dei Giudei', ma che ha detto di essere Re dei Giudei". Qui Pilato pro­nuncia la sua seconda battuta storica, che sem­bra smentire quella, altrettanto celebre, sulla verità e, con questa, le sue precedenti tergiver­sazioni e ogni supposto scetticismo: "Quel che ho scritto, ho scritto" (Gv. 19,2 1-22).

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8. Per tutta la narrazione del processo - e non solo in Giovanni - una forma verbale torna cosi ossessivamente che la sua ripetizione non può essere casuale: paredoken ("consegnò", vulg. tradzdit) , al plurale paredokan ("consegnarono", vulg. tradiderunt) . Si direbbe che l'evento che è in questione nella passione di Gesti non è altro che una "consegna", una "tradizione" nel senso proprio del termine. Tutte le forme verbali del verbo paradidomi sono mobilitate a questo sco­po. n primo atto di questa tradizione è la scena in cui Giuda, baciando Gesti, lo "consegna" agli Ebrei (Mc. 14, 10). Nella vulgata di Mt. 27,1-3, esse si alternano quasi come una rima interna o un'allitterazione: ut eum morti traderent [. .. ] et tradiderunt Pontio Pilato[. . . ] ]udas qui eum tra­dzdit. Giuda è, nei Vangeli, per eccellenza, "co­lui che consegna", il "tra-ditore" (ho paradidous, vulg. qui tradebat eum, Gv. 18,5); cosi anche in Mc. 3,19: "Giuda Iscariota, che poi lo consegnò (hos kai paredoken auton)" e in Mt. 10,4: "l'an­che lui consegnante (ho kai paradous auto n)".

A loro volta gli Ebrei "consegnano" Gesti a

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Pilato: "Se non fosse un malfattore, non te l'a­vremmo consegnato" (cfr. anche Mc. 15, 1; Mt. 27 ,2) e, alla fine del processo, Pilato consegna Gesti agli Ebrei, perché lo crocifiggano.

Che la "consegna" abbia in verità un signi­ficato teologico è stato Karl Barth a notarlo. Alla "tradizione" terrena di Gesti fa riscontro, infatti, puntualmente una precedente tradizio­ne celeste, che Paolo enuncia in questi termini:

"Dio non risparmiò il proprio figlio, ma lo con­

segnò (paredoken) per noi" (Rm. 8,32). Gesti

è consapevole di questa tradizione, che evoca

esplicitamente: "Il figlio dell'uomo sarà conse­

gnato (paradidotai) nelle mani degli uomini e

lo uccideranno" (Mc. 9,3 1 ); "Dio ha amato il

mondo e ha dato (edoken) il suo Figlio unige­

nito, affinché chi crede in lui non perisca" (Cv.

3, 16). In questa prospettiva teologica, la "con­

segna" terrena - il "tradimento" - di Giuda,

e poi quella degli Ebrei e di Pilato appaiono

come un'esecuzione della "consegna" divi­

na. "L'azione di Giuda non deve essere intesa

come un invidioso incidente e ancor meno

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come una manifestazione del regno delle tene­bre al di fuori della volontà e dell'opera divina, ma dall'inizio alla fine come un elemento del­la volontà di Dio. Agendo come vuole, Giuda esegue ciò che Dio ha voluto che fosse fatto. Già lui - e non soltanto Pilato - è un executor Novi Testamenti" (Barth, p. 559).

Il dramma della passione, che Giovanni nar­ra con tanta ricchezza di particolari, diventa cosi un copione da sempre iscritto in quel pia­no provvidenziale che i teologi chiamano "eco­nomia della salvezza" e all'interno del quale gli attori non fanno che eseguire una parte già scontata. L'ultima scena di questo dramma è ancora una consegna: il momento in cui Gesti "consegna lo spirito (paredoken to pneuma, vulg. tradidit spiritum)" (Gv. 19,13).

9. Il vocabolo paradosis, "consegna", è usato nel Nuovo Testamento nel significato trasla­to di insegnamento o dottrina tramandata. In questo senso lo usa Gesti criticando le tradi-

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zioni orali degli Ebrei. Ai farisei che gli chie­dono perché i suoi discepoli "non camminano secondo la tradizione degli anziani (kata ten paradosin ton presbyteron)", egli risponde infu­riato: "Voi avete abbandonato il comandamen­to (ten entolen) di Dio per osservare la conse­gna (ten paradosin) degli uomini" (Mc. 7,8). E poco dopo: "Voi annullate la parola di Dio con la tradizione che vi siete traditi (tei paradosei h e paredokate)" (ivi, 7,13). La stessa contrapposi­zione di entole e paradosis, mandato divino e tradizione umana, si legge in M t. 15,3.

A questa valutazione negativa del termi­ne, corrisponde il significato messianico della "consegna" nella passione di Gesti. A parte le istruzioni per la vita quotidiana cui Paolo si riferisce ricordando ai Corinzi di "osserva­re le consegne (paradoseis) cosi come ve le ho consegnate (paredoka)" (l Cor. 11,2), vi è una sola autentica tradizione cristiana: quella della "consegna" - da parte prima del Padre, poi di Giuda e degli Ebrei - di Gesti alla croce, che ha abolito e realizzato tutte le tradizioni.

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10. È nella prospettiva di questa "consegna" - cosi Barth sembra suggerire - che dovrebbe essere iscritto anche l'episodio di Pilato. Molti elementi, tuttavia, impediscono di vedere nel prefetto della Giudea soltanto un "esecutore". Se egli fosse, come Giuda, soltanto questo, perché non limitarsi semplicemente a ratificare la decisione del sinedrio? Perché inscenare un processo (o un simulacro di processo) e perché quelle tergiversazioni, quei sotterfugi, quelle dichiarazioni di innocenza dell'imputato? E che ha a che fare con l'economia divina il so­gno della moglie, che Lutero è costretto infat­ti a spiegare come un intervento del demonio per cercare di impedire la crocifissione? Che il comportamento di Pilato segua altre ragioni che quello di Giuda è attestato al di là di ogni dubbio dal fatto che mentre Gesu dice a Giu­da: "Quello che devi fare, fallo presto" (Gv. 13,27), egli si sofferma invece a discutere con Pilato e sembra fino all'ultimo volerlo convin­cere della propria innocenza. Il ruolo del pre­fetto della Giudea e del giudizio, della krisis

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che deve pronunciare non si iscrive nell' econo­mia della salvezza come uno strumento passi­vo, ma come il personaggio reale di un dramma storico, con le sue passioni e i suoi dubbi, i suoi capricci e i suoi scrupoli. Col giudizio di Pilato, la storia irrompe nell'economia e ne sospende la "consegna". La krisis storica è anche e in­nanzitutto crisi della "tradizione".

Ciò significa che la concezione cristiana del­la storia come esecuzione dell'economia divina della salvezza - o, nella sua versione secolariz­zata, come realizzazione di inderogabili leggi a essa immanenti - dev'essere, almeno nel nostro caso, rivista. Come magistrato romano, Pilato deve esercitare il suo giudizio e lo esercita a suo modo senza tener conto di quell'economia della "consegna" che ignora e alla quale cederà alla fine solo perché sembra essersi convinto che un re dei Giudei è comunque politicamente pro­blematico. Certo egli è in grado di capire che vi può essere - almeno per quel giovane ebreo che ha davanti ai suoi occhi - un piano che trascen­de la storia (altrimenti non avrebbe replicato:

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"Dunque tu sei re", quando Gesu gli chiarisce che il suo Regno non è di questo mondo); e, tut­tavia, sa che, come prefetto della Giudea, deve giudicare anche questo piano, perché esso po­trebbe provocare - e ha già provocato - delle conseguenze fattuali (la sommossa fra i Giudei di cui testimonia la folla che gli sta davanti). Il rappresentante del regno terreno è competente a giudicare il "regno che non è di qui" e Gesu - è importante non dimenticarlo - gli ricono­sce questa competenza, che gli viene "dall'alto". Che ciò awenga, come riteneva Pasca!, per ac­crescere la misura dell'ignominia ('' Gesu Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme della giustizia, perché è molto piu ignominioso mori­re per giustizia, che per una sedizione ingiusta", Pasca!, p. 695) o per qualche altra ragione, è cer­to che egli non ha voluto sottrarsi al giudizio.

1 1. Il giudizio che Pilato celebra non è, tutta­via, propriamente un giudizio. Gli storici del diritto hanno provato a esaminare il processo

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di Gesu dal punto di vista del diritto romano. Non sorprende che le conclusioni non siano concordi. Se il processo, come ha scritto un grande giurista, Salvatore Satta, è un "miste­ro", le ambiguità di questo mistero vengono qui con particolare evidenza alla luce. Tutti gli studiosi convengono sulla competenza del procuratore romano a giudicare di un delitto che metteva in questione la sicurezza di Roma e sull'applicabilità della !ex Julia. Pilato, come sembrano attestare due passi di Giuseppe Fla­vio, era inoltre investito dello ius gladii, cioè del diritto di infliggere la pena capitale, che gli Ebrei reclamavano contro Gesu.

Le opinioni divergono, tuttavia, quanto alla regolarità del processo. Secondo alcuni, non una delle formalità procedurali è stata osserva­ta: non l'iscrizione e la determinazione dell' ac­cusa, non l'accertamento del fatto, non la pro­nuncia di una chiara sentenza di condanna. Dal punto di vista del diritto: "Gesu di Nazareth non fu condannato, ma ucciso: il suo sacrificio non fu una ingiustizia, fu un omicidio" (Rosa-

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di, pp. 407-408 ) . Altri ha obiettato che il dirit­to romano si applicava soltanto ai cittadini ro­mani e che, su un non cittadino come Gesti, il procuratore esercitava non la iurisdictio, ma la semplice coercitio, tanto piti che nelle province veniva meno la chiara distinzione fra il proce­dimento ordinario e la cognitio extra ordinem, che non era tenuta a rispettare le norme del processo formulare (Romano, pp. 3 13 -3 14 ).

Un ottimo conoscitore delle due tradizioni giuridiche, tanto dell'ebraica che della roma­na, ha osservato che la difficoltà di delineare un quadro coerente dello svolgimento del pro­cesso deriva dal fatto che gli studiosi cercano di comporre proceduralmente i racconti degli evangelisti, mentre ciascuno di essi seguiva ve­risimilmente una presentazione diversa della passione a fini teologici (Bickerman, pp. 228-229). È probabilmente per un difetto prospet­tico di questo genere, che uno storico del dirit ­to romano di indubbia competenza, Pietro De Francisci, ha creduto di poter escludere la cor­rettezza del processo a Gesti. Egli ha ricordato

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l 'esistenza di norme che imponevano al magi­strato di non lasciarsi influenzare dalle voces populi e di punire anzi vigorosamente coloro che organizzavano un moto sedizioso come se­condo ogni evidenza avevano fatto non Gesti, ma i sinedriti. Pilato, per mancanza di corag­gio, aveva dunque "messo in non cale le norme del diritto che era suo dovere applicare; aveva abdicato alla propria autorità non reprimendo il tumulto fazioso; ed aveva voltato le spalle alla giustizia abbandonando un uomo, che riteneva innocente, alla preordinata vendetta dei suoi dichiarati nemici" (De Francisci, p. 25).

(A una conclusione analoga doveva essere giunto Dante che, in Inferno III,60, evoca fra gli ignavi, senza nominarlo, Pilato, se è vero, secondo la profonda intuizione di Pascoli, che in "colui che fece per viltade il gran rifiuto" si debba vedere non Celestino V, ma Pilato, che per ignavia rinunciò a esercitare la sua autorità di giudice).

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12 . L'ambiguità insita in ogni interpretazione dei testi sacri appare qui in piena evidenza. I Vangeli devono essere considerati come docu­menti storici o in essi è innanzitutto in questio­ne un problema genuinamente teologico? Già un osservatore pagano , Porfìrio, aveva osserva­to che "gli evangelisti sono inventori (epheuro­tas) e non storici (historas, "testimoni ") degli eventi che riguardano Gesti. Ciascuno di essi scrive infatti in disaccordo e non in accordo con gli altri , soprattutto quanto al racconto della passione " (Bickerman , p. 23 1).

Anche rispetto a Pilato gli interpreti passano senza soluzione di continuità da un piano all'al­tro , dal personaggio storico alla "persona " teo­logica , dall'ermeneutica giuridica all'economia della salvezza , da un vuoto involucro nominale agli abissi della psicologia. Cosi un piano vie­ne usato per interpretare l'altro , e la codardia , l'ignavia o l'invidia spiegano le esitazioni , gli errori e i cedimenti che, sul piano dell'econo­mia provvidenziale , non hanno alcun senso. Un autore può cosi evocare , a proposito delle

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sue indebite discussioni con i sinedriti , "l'im­perdonabile errore tattico che ha cacciato Pi­lato in una situazione da cui non saprà uscire " (Blinzler, p. 283) e un altro osservare che non si capisce per quali ragioni Pilato non sia ricorso , com'era previsto dalla procedura romana, a un aggiornamento del processo.

Il canone ermeneutico cui qui ci atterremo è, invece, che solo in quanto personaggio sto­rico Pilato svolge la sua funzione teologica e , viceversa, che egli è un personaggio storico solo in quanto svolge una funzione teologica. Personaggio storico e persona teologica, pro­cesso giuridico e crisi escatologica coincidono senza residui e solo in questa coincidenza, solo nel loro "cadere insieme " essi trovano la loro verità.

13. È precisamente a questo punto che , però , tutto si complica. Nella scena finale del pro­cesso , la traduzione corrente recita: "Pila­to condusse fuori Gesti e sedette sul seggio

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(ekathisen epi tou bematos, vulg. sedit pro tri­bunali) ". Ma una tradizione esegetica che ha per sé l'autorità di Giustino (Apol. l ,XXXV,6) e, fra i moderni, quelle di Harnack e di Di­belius, intende ekathisen in senso transitivo: "Condusse fuori Gesti e lo fece sedere sul seggio". Nello stesso senso l'Evangelium Petri (3 ,7) riferisce che "gli Ebrei lo rivestirono di porpora e lo fecero sedere sul seggio del giudi­zio ( ekathisan auton epi tou bematos kriseos) , gridando: 'Giudica giustamente, re di Israele ( dikaios krine, basi! eu tou Israel) ' ". L' obiezio­ne secondo cui, per avere significato transiti ­vo, il verbo dovrebbe avere un complemen­to oggetto ( auto n) cade, se si considera che ekatisen può senza difficoltà riferirsi al "Gesti ( Iesoun)" che immediatamente precede. E che Gesti sia fatto sedere sul bema si accorda con le narrazioni di Marco e Matteo, secon­do le quali, subito prima della crocifissione, Gesti viene rivestito di un manto di porpora e, con in mano una canna a guisa di scettro, viene salutato come re dei Giudei. Anche in

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Giustino, gli Ebrei, dopo aver fatto sedere Gesti sul bema, lo invitano per scherno a eser­citare la funzione di giudice che compete a un re: "Giudicaci !" E che Pilato non sieda sul seggio è del tutto coerente col fatto che egli non emette un verdetto, ma si limita a "con­segnare" Gesti. Se questo è vero, allora non soltanto - come ha notato Bickerman - il di­battito nelle cinque ore precedenti, ma nem­meno ciò che avviene nell'ora sesta avrebbe il valore di un giudizio processuale.

Qui davvero due giudizi e due regni stanno l'uno di fronte all'altro senza riuscire a giunge­re a compimento. Non è nemmeno chiaro chi giudichi chi, se il giudice legalmente investito dal potere terreno o il giudice per scherno, che rappresenta il Regno che non è di questo mon­do. È possibile, anzi, che nessuno dei due pro­nunci veramente un giudizio.

14. Che non sia Gesti a giudicare è del tutto coerente non solo con la sua posizione di im-

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putato, ma anche con le sue parole. La criti­ca radicale di ogni giudizio è parte essenziale dell'insegnamento di Gesti: "Non giudicate (me krinete) , affinché non siate giudicati !" (Mt. 7,1), a cui fanno eco le parole di Paolo nella lettera ai Romani (Rom. 14,3 ): "Non giudichi (me krineto) ! " Da nessuna parte come nello stesso Vangelo di Giovanni il fondamento teo­logico di questo divieto è affermato con tanta chiarezza: "Dio non ha mandato il suo figlio nel mondo per giudicarlo (ina krine) , ma per salvarlo (ina sothe)" (Cv. 3, 17). Il monito "non giudicate !" (ripetuto in Gv. 3, 18: "Chi crede in lui non giudica") trova qui la sua ragione: l'eterno non vuole giudicare il mondo, vuole salvarlo; almeno fino alla fine dei tempi, giudi­zio e salvezza si escludono a vicenda.

Se questo è vero, perché colui che non giu­dica deve essere sottoposto al giudizio di un giudice, il Regno eterno essere "consegnato" al giudizio del regno terreno?

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15. Dante nomina Pilato nel De monarchia (II, 12). E lo fa per conciliare il piano divino della salvezza col giudizio del rappresentante di Cesare, il Regno spirituale di Cristo col re­gno temporale di Roma. La sua argomentazio­ne deve, per questo, affermare la legittimità, insieme giuridica e teologica, del giudizio di Pilato. "Se l'Impero Romano non fosse legit­timo", egli scrive, "allora il peccato di Adamo non sarebbe stato punito in Cristo". Perché l'umanità fosse riscattata dal peccato, era, cioè, necessario che Cristo fosse sottoposto al giudi­zio e punito da un giudice che avesse la giuri­sdizione legittima su tutto il genere umano.

Si deve sapere che punizione non è semplicemen­

te la pena inflitta a chi ha commesso il delitto, ma

la pena inflitta da chi ha la giurisdizione di pu­

nire, per cui se la pena non è inflitta dal giudice

legittimo (ab ordinario iudice), non è punizione,

ma piuttosto delitto [ . . . ] . Se pertanto Cristo non

avesse subito il giudizio di un giudice legittimo,

la sua pena non sarebbe stata punizione [ . . . ] . E

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giudice legittimo poteva essere solo quello che

avesse la giurisdizione su tutto il genere umano,

in modo che tutto il genere umano fosse punito

nella carne di Cristo, che, come dice il profeta,

"portava i nostri dolori". E Tiberio Cesare, di cui

Pilato era il vicario, non avrebbe avuto la giuri­

sdizione, se l'Impero Romano non fosse stato le­

gittimo (de iure) .

Dante lega qui indissolubilmente la realizza­zione dell'economia della salvezza alla legitti­mità del giudizio di Pilato, in quanto rappre­sentante dell'Impero Romano. La crocifissione di Cristo non è una semplice "pena", ma una "punizione legittima (punitio) ", inflitta da un giudice ordinario che, come rappresentante di Cesare, aveva giurisdizione su tutto il genere umano, che solo in questo modo poteva essere riscattato dal peccato.

16. Che Gesti abbia dovuto sottoporsi al giudi­zio di Pilato risulta cosi sufficientemente pro-

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vato. Si tratta per Dante, con ogni evidenza, di una tesi teologico-politica, che deve legittimare l'Impero rispetto alla Chiesa. L'Impero Roma­no è iscritto nel piano divino della salvezza, ma vi è iscritto precisamente in quanto autonomo e agisce come tale. La storia fa parte dell' econo­mia della salvezza, ma ne fa parte come una re­altà a tutti gli effetti, e non come uno spettacolo di marionette. Per questo Pilato non è solo un executor Novi Testamenti, ma un attore storico con tutte le sue ineliminabili contraddizioni.

Queste contraddizioni non sono, tuttavia, soltanto di ordine psicologico. In esse viene alla luce un contrasto piu profondo, che ri­guarda l'antitesi di economia e storia, del tem­porale e dell'eterno, di giustizia e salvezza, che la dottrina dantesca cerca invano di conciliare. Pilato è questa contraddizione. Anche Cristo, in quanto il verbo in lui si è fatto carne, lo è per eccellenza. Ma, attraverso le dispute che, fra il V e il VI secolo, divisero profondamente la Chiesa opponendo monofisiti e difisiti, i teo­logi riuscirono - o credettero di riuscire - a

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risolvere la contraddizione grazie alla dottrina delle due nature e delle due volontà, quella di­vina e quella umana, distinte e insieme unite ipostaticamente in un'unica persona.

Pilato non dispone di questo privilegio, nel suo confronto con l'Eterno non ha che la natu­ra umana. È uomo e basta. Non ha, come Cri­sto, due volontà, grazie alle quali può dire "al ­lontana da me questo calice" e, insieme, "non come voglio io, ma come tu vuoi" (Mt. 26,39); ne ha una sola, con cui cerca, a suo modo, la giustizia e la verità.

17. La dottrina delle due volontà, se trasferi­ta sul piano dell'etica, contiene una parte di ipocrisia. Un soggetto che disponesse di due volontà, con una delle quali pretende di giu­stificare quello che vuole o che fa con l'altra, uscirebbe immediatamente dall'ambito dell'e­tica. Quando Gesu dice a Pilato che è venuto al mondo per testimoniare della verità, non in­tende certo dire che avendo due nature e due

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volontà, con una di esse - quella umana - te­stimonia dell'altra - quella divina (e viceversa). Il compito sarebbe cosi troppo facile. Anche se si accetta il dogma delle due nature e delle due volontà, esso può solo significare che l'una non può invocare l'altra per affermarsi o per giustificarsi. Mentre Gesu è uomo, è uomo e basta, esattamente come Pilato. Per questo la sua testimonianza è paradossale: egli deve te­stimoniare in questo mondo che il suo regno non è di questo mondo - non che egli è qui un semplice uomo, ma altrove è un dio.

L'affermazione di Gesu sulla testimonianza della verità è stata spesso considerata enigma­tica o comunque tale che Pilato non poteva capirla. La frase, se restituita al suo contesto, non ha in realtà nulla di enigmatico. Gesu si trova in un processo davanti a un giudice che lo interroga e testimoniare della verità è quel­lo che ci si aspetta da ogni imputato e da ogni testimone. Subito dopo l'episodio dell'adultera (che Gesu si rifiuta di condannare), agli Ebrei che gli obiettano: "Tu testimoni di te stesso: la

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tua testimonianza non è vera (he martyria sou ouk es ti n alethes) ", egli aveva del resto risposto :

"Anche se io testimonio di me stesso, la mia te­

stimonianza è vera, perché so da dove (pothen)

vengo e dove (pau) vado. Voi giudicate secondo la

carne, io non giudico nessuno (ego ou krino oude­

na) " . (Gv. 8,13 -15)

Ora egli si trova in un giudizio, cioè nel luo­go piu adatto a provare la verità della sua te­stimonianza. Ma enigmatica e ardua non è la testimonianza in sé, ma la verità di cui deve te­stimoniare, cioè il fatto paradossale che egli ha un regno, ma che questo non è "di qui". Egli deve attestare nella storia e nel tempo la presen­za di una realtà extrastorica ed eterna. Come si può testimoniare della presenza di un regno che non è "di qui"?

18. Nel libello contro Martensen, che, nel suo necrologio, aveva definito il pastore Mynster

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un "testimone della verità", Kierkegaard spie­ga che cosa egli intenda per "testimoniare del­la verità". Richiamandosi alla lettera del testo evangelico, egli scrive cosi che "un testimone della verità, un autentico testimone della veri­tà è un uomo che viene flagellato, maltrattato, trascinato da una prigione all'altra e infine [ . .. ] crocifisso o impiccato o dato alle fiamme o arso su una graticola, il suo corpo esanime deposto insepolto in un luogo isolato dall'aiutante del boia". Ma è nel breve saggio Della dzf/erenza fra un genio e un apostolo che Kierkegaard pro­va veramente a pensare che cosa costituisca l'autorità di una testimonianza. Questa non ha nulla di profondo o di geniale, né può fornire la prova di se stessa, poiché sarebbe un non­senso "esigere la certezza fisica che Dio esiste". L'autorità di una parola non dipende dal suo contenuto semantico, che chiunque può ripe­tere tale e quale, ma dal luogo della sua enun­ciazione, che dev'essere altrove: "L'autorità è quella specifica qualità che, provenendo da altrove, diventa qualitativamente apparente

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quando il contenuto del messaggio o dell'atto è posto come indifferente ".

Anche Kierkegaard non riesce qui a venire a capo della contraddizione fra l'umano e il di­vino, lo storico e l'eterno. La sua tesi è, infatti, insieme falsa e vera. Falsa, perché afferma che il contenuto è indifferente, mentre la testimo­nianza della verità è, proprio al contrario, quel­la che esibisce eo ipso la verità di ciò che dice . Vera, perché proprio questa singolare evidenza fa schizzare la testimonianza al di fuori del pia­no dei fatti, costituisce la sua speciale autorità e, insieme, la sua debolezza.

19. Pilato e Gesu, il vicario del regno monda­no e il re celeste, stanno uno di fronte all'altro in uno stesso, unico luogo, il pretorio di Ge­rusalemme, quello stesso di cui gli archeologi hanno creduto di identificare l'improbabile sito. Per testimoniare della verità, Gesu deve affermare e, nello stesso tempo, smentire il suo Regno, che è lontano ( '' non è di questo

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mondo ") e, insieme, vicinissimo, anzi, a por­tata di mano ( entos ymin, Le. 17,2 1). Dal p un­to di vista del diritto, la sua testimonianza non può che fallire e finisce in una farsa: il manto di porpora, la corona di spine, la canna come scettro, le urla: "Giudicaci ! " Egli - che non è venuto per giudicare il mondo, ma per salvar­lo - si trova, forse proprio per questo, a dover rispondere in un processo, a sottostare a un giudizio, che il suo alter ego, Pilato, del resto non pronuncerà, non può pronunciare. Giu­stizia e salvezza non possono essere conciliate, tornano ogni volta a escludersi e a chiamarsi a vicenda. Il giudizio è implacabile e, insieme, impossibile, perché in esso le cose appaiono come perdute e insalvabili; la salvezza è pieto­sa e, tuttavia, inefficace, perché in essa le cose appaiono come ingiudicabili. Per questo, nel "pavimento di pietra " detto in ebraico Gab­banà, né il giudizio né la salvezza - almeno per quanto concerne Pilato - hanno luogo: essi finiscono in un comune, indeciso e inde­cidibile non liquet.

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Testimoniare, qui e ora, della verità del Re­gno che non è qui, significa accettare che ciò che vogliamo salvare ci giudichi. Poiché il mondo, nella sua caducità, non vuole salvezza, ma giustizia. E la vuole precisamente perché non chiede di essere salvato. In quanto insalva­bili, le creature giudicano l'eterno: questo è il paradosso che alla fine, di fronte a Pilato, toglie la parola a Gesu. Qui è la croce, qui è la storia.

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