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� nottetempo
Giorgio Agarnben Pilato e Gesti
sassi nello stagno l filosofia
Chi è Ponzio Pilato, il prefetto della Giudea
davanti al quale si svolse il processo a Gesù
che si concluse con la crocifissione? Un tiranno
crudele e spietato o un funzionario pavido ed
esitante, che si lascia convincere dal sinedrio .a
condannare un uomo che ritiene innocente? Una
maschera ironica e disincantata che pronuncia
battute memorabili (''Che cos'è la verità?", "Ecce
Homo�", "Quel che ho scritto, ho scritto") o una
severa figura teologica senza la quale il dramma
della passione non avrebbe potuto compiersi?
Rimettendo in scena il processo in tutte le sue
fasi, Agamben ne propone una inedita e pun
tuale lettura. Nel dialogo fra Pilato e Gesù, due
mondi e due regni si stanno di fronte: la storia
e l'eternità, il sacro e il profano, il giudizio e la
salvezza.
ISBN Y ltl-!:18-ì4SL-t;UY-Y
6,00 Euro 9 788874 524099 >
ISBN 978-88-7 452- 409- 9 © 2013 nottetempo srl
nottetempo, piazza Farnese 44- 00186 Roma
www.edizioninottetempo.it
Stampa: Global Print, Gorgonzola (MI)
Terza edizione novembre 2013
Pilato e Gesti
Giorgio Agamben è stato docente di Filosofia teoretica all'Univer
sità di Venezia e ha pubblicato un'ampia opera tradotta in tutto il
mondo. Tra i suoi testi ricordiamo Homo sacer (19 9 5), La comunità che viene (2001), L'aperto (2002), Stato di eccezione (2003), Il sacra
mento del linguaggio (2008), Il mistero del male: Benedetto XVI e la fine dei tempi (20 13).
Dello stesso autore presso nottetempo:
Nudità
Pro/a nazioni Che cos'è il contemporaneo?
Che cos'è un dispositivo?
Genius Il Giorno del Giudizio
L'amico La Chiesa e il Regno
Giorgio Agamben
Pilato e Gesti
nottetempo
l. Il symbolon, il "credo" in cui i cristiani compendiano la loro fede, contiene, accanto a quelli del "signore Gesu Cristo" e della "vergine Maria", un unico nome proprio, del tutto estraneo - almeno in apparenza - al suo contesto teologico. Si tratta, per di piu, di un pagano, Ponzio Pilato: staurothenta te yper emon epi Pontiou Pilatou, "crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato". Il "credo" che i Padri avevano formulato a Nicea nel 325 non conosceva questo nome. Esso vi fu aggiunto nel 381 dal Concilio di Costantinopoli, secondo ogni evidenza per fissare anche cronologicamente il carattere storico della passione di Gesu. "Il credo cristiano", è stato osservato, "parla di processi storici. Ponzio Pilato vi figura per ragioni essenziali e non
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è solamente un uccello del malaugurio capitato per caso in quei luoghi" (Schmitt, p . 253 ).
Che il cristianesimo sia una religione storica, che i "misteri" di cui essa parla siano anche e innanzitutto fatti storici, è scontato. Se è vero che l'incarnazione di Cristo è "un evento storico di infinita, inappropriabile, inoccupabile unicità" (ibid. ) , il processo di Gesti è allora uno dei momenti chiave della storia dell'umanità, in cui l'eternità ha incrociato in un punto decisivo la storia. Tanto piu urgente è il compito di comprendere come e perché questo incrocio fra il temporale e l'eterno e fra il divino e l'umano abbia assunto proprio la forma di una krisis, cioè di un giudizio processuale.
2. Perché proprio lui, Pilato? Una formula del tipo Tiberiou kaesaros - che si legge sulle monete coniate da Pilato e aveva per sé l'autorità di Luca, che data cosi la predicazione di Giovanni (Le. 3,1 ) - o sub Tiberio (come Dante fa dire a Virgilio: "nacqui sub Iulio", In/ 1,70)
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sarebbe stata certamente piu consona all'uso. Se i padri riuniti a Costantinopoli hanno preferito Pilato a Tiberio, il prefetto - o, come preferisce chiamarlo Tacito (Ann. XV,44), in una delle poche testimonianze extrabibliche che menzionano il suo nome, il "procuratore" della Giudea - a Cesare, è possibile che sull'indubbio intento cronografico abbia prevalso il rilievo che la figura di Pilato ha nella narrazione dei Vangeli. Nella puntigliosa attenzione con cui soprattutto Giovanni, ma anche Marco, Luca e Matteo descrivono le sue esitazioni, il suo tergiversare e mutare opinione, riferendo alla lettera le sue parole, a volte decisamente enigmatiche, gli evangelisti rivelano forse per la prima volta qualcosa come l'intenzione di costruire un personaggio, con la sua psicologia e i suoi idiotismi. È la vivezza di questo ritratto che fa esclamare a Lavater in una lettera a Goethe del 17 8 1: "Io trovo in lui tutto: cielo, terra e inferno, virtu, vizio, saggezza, follia, destino, libertà: egli è il simbolo di tutto in tutto". Si può dire, in questo senso,
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che Pilato sia forse l'unico vero "personaggio" dei Vangeli (Nietzsche lo ha definito nell'Anticristo "l'unica figura - Figur- del Nuovo Testamento che meriti rispetto"), un uomo di cui conosciamo le passioni ("si meraviglia molto", Mt. 27, 14; Mc. 15,5; "ha grande paura", Gv. 19,8), il risentimento e l'ombrosità (come quando, a Gesu che non gli risponde, grida: "Ah, non mi parli - emoi ou laleis! Non sai che posso liberarti o farti crocifiggere?"), l'ironia (almeno secondo alcuni, nella famigerata replica a Gesu: "Che cos'è la verità?"), l'ipocrita scrupolosità (di cui testimonia tanto il sollevare una questione di competenza con Erode che il lavacro rituale delle mani, con cui crede di purificarsi del sangue del giusto condannato), la stizza (il perentorio "quel che ho scritto, ho scritto" ai sacerdoti che gli chiedono di cambiare l'iscrizione sulla croce). Ne conosciamo fuggevolmente anche la moglie, che durante il processo gli manda a dire di non condannare Gesu, "perché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua" (Mt. 27, 19).
lO
3. Di questa vocazione a diventare personaggio si ricorderanno Michail Bulgakov, nelle stupende storie su Pilato che il diavolo racconta nel Maestro e Margherita, e Alexander Lernet-Holenia, nella grandiosa farsa teologica inserita nel Conte di Saint-Germain. Ma ne testimonia per tempo, nei testi che ci si ostina a chiamare "apocrifi" del Nuovo Testamento (il termine, che ha finito col significare "falsi, non autentici", significa in verità semplicemente "nascosti"), la presenza di un vero e proprio ciclo di Pilato. lnnanzitutto nel Vangelo di Nicodemo (Moraldi, pp. 567-588), in cui il processo di Gesu è messo in scena in modo molto piu dettagliato rispetto ai sinottici. Quando Gesu è introdotto da Pilato, gli stendardi che i vessilliferi tengono in mano si inchinano miracolosamente davanti a lui. Nel processo intervengono anche dodici proseliti che testimoniano - contro l'accusa che Gesu sia "figlio della fornicazione" - che Giuseppe e Maria hanno contratto matrimonio, e Nicodemo, che testimonia anch'egli a favore di
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Gesti. In generale tutto il processo è qui reso drammaticamente come un contraddittorio fra gli accusatori ebrei, che sono nominati uno per uno (Anna, Caifa, Summa e Datan, Gamaliele, Giuda, Levi, Alessandro, Neftali e Giairo) e Pilato, che appare spesso fuori di sé ed è quasi apertamente dalla parte di Gesti, anche perché sua moglie "è devota a Dio e simpatizza con gli Ebrei". Il dialogo con Gesti sulla verità, che nei sinottici termina bruscamente con la domanda di Pilato, qui, come vedremo, continua e acquista tutt'altro significato. Tanto p i ti inaspettato è il cedimento finale di Pilato alle insistenze degli Ebrei, quando preso da un improvviso timore, ordina che Cristo sia flagellato e crocifisso.
4. La leggenda su Pilato (i cosiddetti Acta o Gesta Filati) si costituisce secondo due linee divergenti. Innanzitutto una leggenda "bianca", attestata dalle lettere pseudoepigrafe a Tiberio e dalla Paradosis, secondo la quale Pilato, insieme a sua moglie Proda, avrebbe compreso la divini-
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tà di Gesti e solo per debolezza avrebbe ceduto alle insistenze degli Ebrei. Di questa leggenda testimonia Tertulliano scrivendo che Pilato era stato forzato a far crocifiggere Gesti dalle violente pressioni degli Ebrei (violentia su/fragiorum in crucem dedi sibi extorserint) , ma "essendo già nel suo intimo cristiano (pro sua conscientia christianus)" aveva informato con una lettera l'Imperatore dei miracoli e della resurrezione di Gesti (Apol. XXI, 18-24). La Paradosis (qualcosa come la "consegna", ma anche la "tradizione") di Pilato presuppone la redazione di questa lettera (di cui esistono numerose versioni, tutte, ovviamente, false) e comincia appunto con l'indignazione di Tiberio dopo la lettura del messaggio (Moraldi, pp. 7 17-723). Egli fa condurre Pilato in catene a Roma e gli chiede come abbia potuto crocifiggere un uomo che sapeva autore di cosi grandi prodigi. Pilato si giustifica accusando gli Ebrei e si dichiara persuaso che Gesti "fosse superiore a tutte le divinità che noi adoriamo". La leggenda bianca di Pilato lo presenta cioè, paradossalmente, in qualche modo come
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un segreto campione del cnst1anesimo contro gli Ebrei e i pagani. Ne testimonia l'autodifesa che Pilato rivolge a Gesti quando Tiberio decide di punirlo con la decapitazione:
Signore, non mi confondere con questi miserabili
Ebrei nella distruzione. Giacché, se io ho levato la
mano contro di te, l'ho fatto forzato da quella folla
di Ebrei che mi tormentava: ma tu sai che ho agi
to per ignoranza. Non condannarmi dunque per
questo peccato, ma perdonami e cosi perdona an
che la tua serva Proda, che mi sta accanto nell'ora
della morte e che tu hai destinato a profetizzare la
tua crocifissione. Non condannarla a causa della
mia mancanza ma abbi pietà e includici fra i tuoi
giusti.
E quando un Pilato ormai cristianizzato termina la sua supplica, si ode dal cielo una voce che ne annuncia la salvezza:
Tutti i popoli e tutte le generazioni proclameranno
la tua felicità, perché sotto il tuo governo hanno
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avuto compimento le profezie che mi riguardava
no. E tu, mio testimone, comparirai nella mia se
conda venuta allorché giudicherò le dodici tribu di
Israele e coloro che non confessano il mio nome.
A questo punto Pilato viene decapitato, ma un angelo ne raccoglie la testa mozzata. Proda, alla vista dell'angelo che porta in cielo la testa, "piena di beatitudine, emise l'ultimo respiro e fu sepolta con suo marito per volere del nostro Signore Gesti Cristo".
La cristianizzazione di Pilato tocca il suo vertice nel Vangelo di Gamaliele, conservato m
una recensione etiopica. Qui si legge che
Pilato e sua moglie amavano Gesu come se stes
si. Egli lo aveva fatto flagellare per compiacere i
malvagi Ebrei, affinché il loro cuore si disponesse
piu favorevolmente e lo lasciassero andare senza
condannarlo a morte. (Moraldi, p. 662)
Gli Ebrei lo avevano, infatti, ingannato, facendogli credere che, se lo avesse punito in quel
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modo, essi lo avrebbero lasciato andare. Per questo, dopo la crocifissione, Gesu appare in sogno a Pilato ("il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad eccezione della sinagoga degli Ebrei") e lo consola dicendo: "Pilato, tu piangi forse perché hai flagellato Gesu? Non aver paura ! Si è, infatti, awerato ciò che di lui era stato scritto" (ivi, p. 673 ).
Si è osservato che la giustificazione di Pilato da parte dei cristiani mirava ad accattivarsi la benevolenza dei Romani e cessò per questo con la fine delle persecuzioni. Quel che è certo, in ogni caso, è che l'assoluzione di Pilato nella leggenda coincide con l'intenzione di attribuire la responsabilità della crocifissione esclusivamente agli Ebrei. Non stupisce, pertanto, che Pilato finisca con l'essere santificato dalla Chiesa etiopica e sua moglie festeggiata nella Chiesa greca il 26 ottobre.
5. La leggenda bianca di Pilato contrasta con quanto di lui ci tramandano le fonti extrabibli-
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che. Filone, che ne parla nella Legatio ad Gaium (par. 299-305), a proposito di un'azione che gli Ebrei sentirono come sacrilega (aveva collocato nel palazzo di Erode degli scudi dorati con la dedica a Tiberio) lo descrive come un uomo "inflessibile, ostinato e crudele (akamptos, authades, ameiliktos)". Poco dopo, in una scena in cui Pilato sembra in preda a timori ed esitazioni simili a quelli descritti nei Vangeli, egli viene definito "sprezzante e collerico". È un personaggio di questo genere che fa da protagonista alla leggenda nera di Pilato, che s'incrocia curiosamente con quella della Veronica. Secondo questa leggenda (Moraldi, pp. 72 1-724), in cui tanto Gesu che la Veronica figurano per il loro potere taumaturgico, Tiberio malato viene a sapere che a Gerusalemme c'è un medico di nome Gesu, che guarisce tutte le malattie con la sua sola parola (Bulgakov doveva conoscere questa versione, perché nel suo racconto Pilato si rivolge ostinatamente a Gesu come a un medico). Manda allora un suo agente, Volusiano, da Pilato perché gli ordini di trovare Gesu
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e lo faccia portare a Roma. Quando Volusiano, giunto a Gerusalemme, gli espone la richiesta dell'imperatore, Pilato "atterrito perché sapeva di aver fatto uccidere Gesti per invidia" gli risponde che quell'uomo era un malfattore e lo aveva fatto per questo crocifiggere. Volusiano, tornando alla sua abitazione, s'imbatte in una donna di nome Veronica, le chiede di Gesti e le spiega le ragioni della sua missione.
La donna scoppiò allora in lacrime, dicendo:
"Ahimè, egli era il mio Dio e il mio Signore, che
Pilato condannò a morte e consegnò perché fos
se crocifisso". Allora, pieno di tristezza, egli dis
se: "Mi dolgo profondamente, perché non posso
portare a termine ciò per cui sono stato mandato
dal mio signore". E Veronica a lui: "Quando il mio
Signore andava in giro predicando, io con molto
dispiacere ero privata della sua presenza; volli per
ciò dipingermi un'immagine affinché, privata del
la sua presenza, avessi un sollievo almeno con la
rappresentazione della sua immagine. Mentre sta
vo portando un panno da dipingere al pittore, mi
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venne incontro il mio Signore e mi domandò dove
andavo. Avendogli manifestato il motivo del mio
viaggio, egli mi richiese il panno e me lo restitui in
signito della sua venerabile faccia. Orbene, se il tuo
signore osserverà devotamente questa immagine,
subito riacquisterà il beneficio della sanità". Egli
domandò: "Questa immagine si può acquistare
con oro o argento?" E lei: "No, ma con pio affetto
devozionale. Verrò dunque con te, portando l'im
magine da vedere a Cesare; poi me ne ritornerò".
Volusiano torna dunque a Roma con Veronica e comunica all'imperatore Tiberio che il medico Gesti era stato da Pilato e dagli Ebrei consegnato, per invidia, a un'ingiusta morte.
"Ma è venuta con me una certa matrona portando
la sua immagine: se tu la guarderai devotamente,
subito riacquisterai il beneficio della tua salute".
Cesare fece dunque preparare la strada con panni
di seta e ordinò che gli fosse presentata l'imma
gine; non appena la guardò, ottenne la primitiva
salute.
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Tiberio ordina allora che Pilato sia arrestato e condotto a Roma. Ma, al momento di comparire davanti all'imperatore furente, Pilato, che la leggenda presenta sempre come un furfante, indossa la "tunica incorruttibile" di Gesu che aveva portato con sé (è la tunica inconsutilis, "senza cuciture", di Gv. 19,23, che la leggenda non spiega come fosse giunta nelle sue mani). Immediatamente la collera di Tiberio scompare ed egli non riesce a formulare le sue accuse. La scena si ripete piu volte, nello stupore generale: l'uomo che, mentre era assente, gli appariva come un feroce criminale, una volta presente gli sembra pio e mansueto. Finalmente, per ispirazione divina o, forse, grazie al consiglio di qualche cristiano, Tiberio ordina che Pilato venga svestito della tunica. Immediatamente l'incantesimo scompare e l'imperatore, ritrovata la padronanza di sé, fa imprigionare Pilato e lo condanna a una morte ignominiosa. Udita la sentenza, Pilato si uccide, trafiggendosi col suo coltello. Il suo cadavere viene allora legato a un'enorme pietra e gettato nel Tevere, ma
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spiriti maligni e immondi, uscendo dal suo corpo
maligno e immondo, presero a muoversi nell'ac
qua, suscitando nell'atmosfera fulmini e tempeste,
tuoni e grandine terribile, sicché tutti erano presi
da un'atroce paura.
La leggenda di Pilato si confonde a questo punto con quella della migrazione del suo cadavere indemoniato di sepoltura in sepoltura. I Romani estraggono il cadavere dal Tevere e, in segno di spregio, lo trasportano a Vienne, per gettarlo nel Rodano. "Vienne, infatti, è detta cosi quasi come via della gehenna, perché allora era un luogo maledetto". Ma anche qui affluiscono gli spiriti maligni, provocando lo stesso sconcerto. Il cadavere viene allora trasferito a Losanna, dove, dopo il consueto sabba, viene alla fine portato sulle montagne e calato in un pozzo profondissimo, dal quale, a quanto riferisce la leggenda, "esalano tuttora macchinazioni diaboliche".
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6. Gli evangelisti, che certo non potevano essere presenti al processo, non si preoccupano di indicare le fonti della loro narrazione e proprio questa assenza di scrupoli filologici conferisce al racconto il suo incomparabile tono epico . Le lettere e le leggende, col loro esito fosco o glorioso, sono state presumibilmente inventate per fornire una documentazione del processo e, insieme, per dar conto del comportamento di Pilato . Esse spiegano tanto perché il prefetto della Giudea cerchi in ogni modo di evitare la condanna di Gesti (egli sapeva, come risulta dalla lettera a Tiberio, che Gesti non solo era innocente, ma operava miracoli come un dio), che il suo improvviso cedimento agli Ebrei (era, in realtà, invidioso e codardo) . In ogni caso, il comportamento di Pilato durante il giudizio doveva apparire enigmatico e, tuttavia, che un giudizio davanti al prefetto avesse luogo era, per qualche motivo, essenziale .
Giudizio si dice in greco krisis (da krino, che significa etimologicamente "separare, de-cidere") . Accanto a questo significato giuridico,
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convergono nel termine tanto un significato medico (krisis come il momento decisivo nell'evoluzione di una malattia, quando il medico deve "giudicare" se il malato morirà o sopravvivrà), che uno teologico (il Giudizio finale: en emerai kriseos, "nel giorno del giudizio", è l'ammonimento che torna p i ti volte sulla bocca di Gesti; in Paolo: en emerai ote crinei, "nel giorno in cui Dio giudicherà", Rm. 2, 16).
Nella narrazione degli evangelisti il termine non compare . Il termine tecnico per la funzione del giudice è, qui, bema, il seggio o il podio su cui siede colui che deve pronunciare il giudizio (la sella curulis del magistrato romano) . Quando Pilato sta per pronunciare la condanna, egli si siede sul bema: "Pilato condusse fuori Gesti e sedette sul podio in un luogo chiamato Lithostrotos" ( Gv. 19, 13); cosi in M t. 27,19: "Mentre Pilato sedeva sul bema" (cioè esercitava la sua funzione di giudice; la vulgata traduce sedente pro tribunali) , "sua moglie mandò a dirgli[ . . . ]". Negli Atti ( 18, 12), il termine significa semplicemente "tribunale": "Gli
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Ebrei insorsero contro Paolo e lo condussero al tribunale (eis to bema)". Non diversamente, in Paolo, bema designa per sineddoche il Giudizio finale: "Tutti devono comparire davanti al bema di Cristo" (2 Cor. 5, 10). Il giudizio di Dio è, però, esplicitamente contrapposto a quello degli uomini, che non devono giudicarsi fra loro: "Ma tu perché giudichi (ti krineis) tuo fratello? [ ... ] Tutti dovranno presentarsi davanti al bema di Dio" (Rm. 14, 10).
Nel processo che si svolge davanti a Pilato, due bemata, due giudizi e due regni sembrano fronteggiarsi: l'umano e il divino, il temporale e l'eterno. Spengler ha espresso con la consueta vivacità questa contrapposizione: "Quando Gesu viene portato davanti a Pilato, due mondi stanno immediatamente e inconciliabilmente di fronte: quello dei fatti e quello delle verità, e con tanta spaventosa chiarezza come mai altrove nella storia del mondo" (Spengler, p. 968).
Ed è il mondo dei fatti che deve giudicare quello della verità, il regno temporale che deve pronunciare un giudizio sul Regno eterno.
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Tanto piu necessario è valutare con cura ogni dettaglio della cronaca di questo confronto decisivo, di questa krisis storica che, in qualche modo, è sempre in corso.
7. La narrazione di Giovanni è, rispetto ai sinottici, tanto piu ampia e particolareggiata, da risultare del tutto indipendente da essi. I dialoghi fra Pilato e Gesu, che i sinottici sbrigano in poche righe, acquistano qui uno spessore e un significato in ogni senso decisivi. Giovanni scandisce drammaticamente il racconto in sette scene, a ognuna delle quali corrisponde un cambiamento di luogo, ora fuori ora dentro il pretorio, ogni volta (tranne per la quinta scena) introdotto dalle formule stereotipe: "Pilato usci fuori (exelthen)", "entrò di nuovo (eiselthen palin) ", "usci di nuovo (exelthen palin)". Conosciamo inoltre la durata del dramma, cinque ore, dal mattino presto (proi- Gv. 18,28) all'ora sesta (ivi, 19, 14).
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l) (FUORI) Nella prima scena, poiché i sacerdoti che hanno condotto Gesti nel pretorio non vogliono entrarvi per non contaminarsi prima del pasto pasquale, Pilato esce fuori (exelthen [. . . ] exo) e chiede: "Qual' è l'accusa (kategorian) che portate contro quest'uomo?" La domanda è coerente con la struttura del processo romano, che iniziava con l'iscrizione dell'accusa, che doveva essere determinata e non calunniosa. Gli Ebrei non formulano l' accusa, ma si limitano a dichiarare genericamente che "se costui non fosse un malfattore non te l'avremmo consegnato (paredokamen)". La conseguente ingiunzione di Pilato agli Ebrei, di prendere l'accusato e di giudicarlo "secondo la vostra legge (kata ton nomon ymon) ", sembra seguire ancora una logica processuale: dal momento che l'accusa non era stata formalizzata, la legge romana non poteva applicarsi. La replica degli Ebrei ("A noi non è permesso uccidere") segna una svolta nel comportamento di Pilato. Il commento di Giovanni (gli Ebrei dicevano questo "affinché si adempisse
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la parola di Gesti quando aveva indicato di quale morte doveva morire") non poteva certo riguardare Pilato e, tuttavia, è come se il prefetto interpretasse la replica degli Ebrei come la formulazione di un'accusa di lesa maestà. Secondo il Digesto, infatti "è un crimine di lesa maestà (maiestatis crimen) quello che viene commesso contro il popolo romano o contro la sua sicurezza" (Dig. 48.4. 1. 1). E la lex ]ulia maiestatis del 46 a.C. stabiliva per questo delitto, secondo la condizione del colpevole, la crocifissione, la consegna alle belve o l'esilio. In ogni modo, Pilato decide inaspettatamente di interrogare Gesti.
II) (DENTRO) Ha luogo a questo punto il primo serrato confronto fra Pilato e Gesti.
Allora Pilato entrò di nuovo (eiselthen palin) nel
pretorio, chiamò Gesu e gli chiese: "Sei tu il re dei
Giudei?" Gesu rispose: "Dici questo da te stes
so o altri te l'hanno detto di me?" Rispose Pila
to: "Sono io forse un giudeo? La tua nazione (to
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ethnos to san) e i sommi sacerdoti ti hanno conse
gnato a me. Che cosa hai fatto?"
Il sintagma "re dei Giudei" (basileus ton Ioudaion) , che avrà in seguito una funzione cosi decisiva, appare qui nel processo per la prima volta. A giudicare dalla sua replica, Gesu non si aspettava la domanda: cosa ha a che fare, infatti, il prefetto romano con una questione interna del giudaismo, qual' era l'attesa ebraica del messia? Pilato sembra leggergli nel pensiero: "Sono io forse un giudeo?"
Comincia qui quel dialogo sul Regno e sulla verità, su cui sono state scritte innumerevoli pagine. Invece di rispondere alla domanda: "Che cosa hai fatto?", Gesu replica alla precedente:
"li mio regno non è di questo mondo (He basileia
he eme ouk estin ek tou kosmou toutou). Se il mio re
gno fosse di questo mondo, i miei inservienti avreb
bero combattuto per me, affinché non fossi conse
gnato ai Giudei. Ora il mio regno non è di qui".
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La risposta è ambigua, perché nega e, insieme, afferma la condizione regale. Gli antichi commenti, da Agostino a Crisostomo fino a Tommaso, insistono concordi su questo punto. Gesu, suggerisce Agostino, non ha detto "non è in questo mondo (non est in hoc mundo) ", ma "non è da questo mondo (de hoc mundo)"; e Crisostomo spiega: '"Il mio regno non è da questo mondo' significa che non ha origine da cause mondane e dalla scelta degli uomini, ma viene da altrove, cioè dal Padre". E Tommaso: "Dicendo che il suo regno non è qui, intende che non ha principio da questo mondo, e tuttavia è qui, perché è dovunque (est tamen hic, quia ubique est) ".
Pilato ha dunque ragione di replicare: "Dunque tu sei re (oukoun basileus ei sy) ?" La risposta di Gesu sposta improvvisamente il discorso dal Regno alla verità:
"Tu lo dici che io sono re (sy legeis ati basileys eimi
ego). Io sono nato per questo e per questo sono
venuto al mondo, per testimoniare della verità (ina
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martyreso te i aletheiai). Chiunque è dalla verità (ek
tes aletheias), ascolta la mia voce".
E qui Pilato pronuncia quella che Nietzsche ha definito la "battuta piti sottile di tutti i tempi (die grosste Urbanitlit aller Zeiten)": "Che cos'è la verità (ti estin aletheia) ?"
In realtà la domanda di Pilato, interpretata tradizionalmente come espressione ironica di scetticismo (in questo senso Spengler contrapponeva i fatti - Tatsachen - il cui campione è Pilato, alla verità, rappresentata da Gesti) e perfino di scherno (il "signorile sarcasmo" con cui, secondo Nietzsche, un "romano" avrebbe annientato il Nuovo Testamento- I; Anticristo, par. 46), non è necessariamente tale. Né essa è necessariamente un "corpo estraneo" (Demandt, p. 86) nel suo contesto, che - occorre non dimenticarlo - è quello di un processo. Come Tommaso suggerisce nel suo commento, Pilato, una volta chiarito che il Regno di Gesti non riguarda questo mondo, vuole sapere la verità e venire in chiaro del regno di cui l' accu-
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sato sta testimoniando (cupit veritatem scire ac elfici de regno eius) : la sua domanda non si riferisce alla verità in generale (non quaerens quid sit definitio veritatis) , ma alla speciale verità che Gesti sembra intendere e che egli non riesce ad afferrare. A fronteggiarsi non sono qui forse verità e scetticismo, fede e incredulità, ma due diverse verità, o due diverse concezioni della verità. Nel Vangelo di Nicodemo, l'interrogatorio continua con la risposta di Gesti: "La verità viene dal cielo", e con la nuova domanda di Pilato: "Non vi è sulla terra alcuna verità?" La risposta di Gesti: "Tu vedi come coloro che dicono la verità sono giudicati dai poteri terreni", conclude l'interrogatorio (Moraldi, p. 572). Il giudizio terreno non coincide con la testimonianza della verità.
III) (FUORI) Pilato a questo punto esce nuovamente (palin exelthe) dal pretorio. Si è spesso sottolineato il fatto che egli volutamente non aspetta la risposta di Gesti (Bacone ha scritto ironicamente: "What is truth?,
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said jesting Pilatus and would not stay for an answer"; ma già Tommaso osserva che egli responsionem non expectavit) . La decisione improvvisa si spiega con la sua apostrofe ai Giudei: "Io non trovo in lui alcuna colpa. Ma voi avete l'usanza che io vi liberi qualcuno per la Pasqua. Volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?" Non avendo trovato colpevole l'accusato, Pilato avrebbe dovuto emettere un verdetto di innocenza (la formula prevista nel processo romano era absolvo o videtur non /ecisse) o sospendere il processo e chiedere un supplemento di indagine (la formula prevista era non liquet o amplius est cognoscendum) . Egli pensa, invece, di risolvere il caso servendosi dell'amnistia pasquale. Per tutto il corso del processo - è un fatto su cui occorre riflettere -, Pilato cerca tenacemente di evitare la pronuncia di un verdetto . Anche alla fine, quando cede alle tumultuose insistenze dei Giudei, il prefetto non pronuncia, come vedremo, una sentenza: si limita a "consegnare (paredoken) " l'accusato agli Ebrei.
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Gli Ebrei vanificano il suo proposito gridando: "Non lui, ma Barabba" (come informa Mc. 15,7, Barabba, letteralmente "il figlio del padre", era un ribelle omicida). (È a questo punto che, nel racconto di Matteo - M t. 17,24 -, si situa l'episodio della lavanda delle mani, di cui Giovanni non fa parola: "Pilato, vedendo che non c'era nulla da fare, ma che il tumulto poteva crescere, prese dell'acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: ' Sono innocente del sangue di questo giusto'").
IV) (DENTRO) Rientrato nel pretorio - il testo non lo dice, ma risulta inequivocabilmente dal passo successivo - Pilato fa un ultimo tentativo.
Prese Gesu e lo fece flagellare. I soldati intreccia
rono una corona di spine, gliela posero sul capo
e lo rivestirono di un manto di porpora; si avvici
navano a lui dicendo: "Salve, re dei Giudei," e gli
davano schiaffi.
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La flagellazione era una pena accessoria prevista come preliminare alla crocifissione: Pilato intende invece servirsene, alquanto incongruamente - ma ciò rientrava con ogni probabilità nei suoi poteri discrezionali (cfr. Dig. 48.2.6)
- com� pena per un non specificato reato minore. E guanto Luca gli fa dire con chiarezza: "Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo farò castigare e poi lo metterò in libertà" (Le. 23 ,22).
V) (FUORI) Ancora un cambiamento di luogo:
Pilato di nuovo usci fuori e disse loro: "Ecco, ve
lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo
in lui alcuna colpa". Usci dunque Gesu, portando
la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato
disse loro: "Ecco l'uomo (idou ho anthropos, vulg.
ecce homo)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro
inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!"
Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo;
io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei:
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"Noi abbiamo una legge e secondo questa legge
deve morire, perché si è fatto figlio di Dio".
L'accusa che, secondo Lev. 24, 16, meritava per gli Ebrei la pena capitale era stata già menzionata in Gv. 5, 18 ('' Per questo i Giudei cercavano di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma chiamava Dio suo padre, facendo se stesso uguale a Dio") e Gesti si era difeso con queste parole:
"A colui che il padre ha santificato e ha mandato
nel mondo voi dite: 'Tu bestemmi,' perché ho det
to: 'Sono figlio di Dio'. Se non faccio le opere del
Padre mio, non credetemi. Ma se le faccio, anche
se non credete a me, credete alle opere, affinché
sappiate che il Padre è in me e io nel Padre". (i vi,
10, 36-38)
VI) (DENTRO) Da questo momento la condotta di Pilato si fa - almeno in apparenza -sempre piu incoerente.
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Quando udf queste parole, Pilato ebbe ancora piu
paura. Rientrò (eiselthen) nel pretorio e disse a
Gesu: "Da dove sei tu (pothen ei sy;)?" Gesu non
gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: "Non mi
parli? Non sai che ho il potere (exousian) di libe
rarti e il potere di crocifiggerti?" Gli rispose Gesu:
"Non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse
stato dato dall'alto (anothen). Per questo colui che
mi ha consegnato (ho paradous) a te ha un peccato
piu grande".
La domanda "da dove" si riconnette secondo ogni evidenza al dialogo precedente, quando Gesti aveva dichiarato che il suo Regno non era "da (ek) questo mondo" e aveva evocato "colui che è 'dalla verità"'. Le domande di Pilato continuano dunque a seguire, malgrado le apparenti oscillazioni, una logica di accertamento della verità. La risposta di Gesti, che fa provenire anche l'autorità di Pilato "dall'alto", sembra convincere ulteriormente il prefetto della sua innocenza, poiché "da quel momento Pilato cercava di liberarlo. Ma i Giudei conti-
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nuavano a gridare: 'Se tu liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque infatti si fa re, si
C "' oppone a esare .
VII) (FUORI) Ultima scena, all'aperto:
Sentite queste parole, Pilato condusse fuori (egagen
exo) Gesu e sedette sul seggio (ekathisen ept tou be
matos) nel luogo chiamato Lithostrotos ("pavimen
to di pietra"), in ebraico Gabbanà. Era la prepara
zione della Pasqua, intorno all'ora sesta. Pilato disse
ai Giudei: "Ecco il vostro re!" Ma quelli gridarono:
"Via! Via! Crocifiggilo!" Disse loro Pilato: "Croci
figgerò il vostro re?" Risposero i sommi sacerdoti:
"Non abbiamo altro re che Cesare". Allora lo con
segnò (paredoken) loro perché fosse crocifisso.
Bickerman ha osservato a ragione che il fatto che soltanto a questo punto Pilato si segga sul seggio significa che tutto il dibattito precedente non ha valore processuale, ma privato: "Secondo le regole invariabili della procedura romana, i crimini capitali, com'era quello di
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Gesti, non potevano essere giudicati altrimenti che pro tribunali [ . . . ] Pilato agisce qui come intermediario, arbitro e non come giudice" (Bickerman, p. 223 ).
Non è un caso, inoltre, che, al momento dell'improvvisa capitolazione di Pilato, la questione della regalità di Gesti sia nuovamente evocata da Pilato. Poiché l'accusa che il sinedrio muove a Gesti è, appunto, la pretesa messianica alla regalità, che gli Ebrei rifiutano, ma che Pilato, con la sua domanda, sembra rimettere in causa. La questione del Regno di Gesti, mondano o celeste che sia, resta fino alla fine in sospeso. Ed è proprio per questo che l'argomentazione finale dei sinedriti ( '' Non abbiamo altro re che Cesare") convince Pilato a consegnare Gesti.
La questione della regalità torna con forza nell'iscrizione (titulus) che Pilato fa porre sulla croce: "Gesti nazareno Re dei Giudei" (Gv. 19, 19). Menzionando il motivo per cui egli è stato condannato (Mt. 27,37), essa sembra insieme affermarne la regalità. Il titulus nelle
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esecuzioni capitali doveva riportare i l crimine che veniva punito, ma Bonaventura, nel suo commento, lo accosta invece all'insegna che elencava le vittorie dell'imperator trionfante e lo chiama per questo titulus triumphans, "perché è in lode di Cristo e a vergogna dei Giudei, in quanto era stato condannato come malfattore, ma non era tale, bensi Re" (In Ev. Johan. XIX,3 1). Ancora piti arbitrariamente, Cirillo di Alessandria identifica il titulus coi chirografo di cui parla Paolo (Col. 2, 14- 15), "che il Signore inchiodò sulla croce, trionfando e sottomettendo a sé le potenze mondane" (In Ev. Johan. XII, 19, 19).
L'ambiguità dell'insegna non sfugge ai sinedriti, perché essi chiedono a Pilato di cambiarla: "Non scrivere 'Re dei Giudei', ma che ha detto di essere Re dei Giudei". Qui Pilato pronuncia la sua seconda battuta storica, che sembra smentire quella, altrettanto celebre, sulla verità e, con questa, le sue precedenti tergiversazioni e ogni supposto scetticismo: "Quel che ho scritto, ho scritto" (Gv. 19,2 1-22).
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8. Per tutta la narrazione del processo - e non solo in Giovanni - una forma verbale torna cosi ossessivamente che la sua ripetizione non può essere casuale: paredoken ("consegnò", vulg. tradzdit) , al plurale paredokan ("consegnarono", vulg. tradiderunt) . Si direbbe che l'evento che è in questione nella passione di Gesti non è altro che una "consegna", una "tradizione" nel senso proprio del termine. Tutte le forme verbali del verbo paradidomi sono mobilitate a questo scopo. n primo atto di questa tradizione è la scena in cui Giuda, baciando Gesti, lo "consegna" agli Ebrei (Mc. 14, 10). Nella vulgata di Mt. 27,1-3, esse si alternano quasi come una rima interna o un'allitterazione: ut eum morti traderent [. .. ] et tradiderunt Pontio Pilato[. . . ] ]udas qui eum tradzdit. Giuda è, nei Vangeli, per eccellenza, "colui che consegna", il "tra-ditore" (ho paradidous, vulg. qui tradebat eum, Gv. 18,5); cosi anche in Mc. 3,19: "Giuda Iscariota, che poi lo consegnò (hos kai paredoken auton)" e in Mt. 10,4: "l'anche lui consegnante (ho kai paradous auto n)".
A loro volta gli Ebrei "consegnano" Gesti a
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Pilato: "Se non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato" (cfr. anche Mc. 15, 1; Mt. 27 ,2) e, alla fine del processo, Pilato consegna Gesti agli Ebrei, perché lo crocifiggano.
Che la "consegna" abbia in verità un significato teologico è stato Karl Barth a notarlo. Alla "tradizione" terrena di Gesti fa riscontro, infatti, puntualmente una precedente tradizione celeste, che Paolo enuncia in questi termini:
"Dio non risparmiò il proprio figlio, ma lo con
segnò (paredoken) per noi" (Rm. 8,32). Gesti
è consapevole di questa tradizione, che evoca
esplicitamente: "Il figlio dell'uomo sarà conse
gnato (paradidotai) nelle mani degli uomini e
lo uccideranno" (Mc. 9,3 1 ); "Dio ha amato il
mondo e ha dato (edoken) il suo Figlio unige
nito, affinché chi crede in lui non perisca" (Cv.
3, 16). In questa prospettiva teologica, la "con
segna" terrena - il "tradimento" - di Giuda,
e poi quella degli Ebrei e di Pilato appaiono
come un'esecuzione della "consegna" divi
na. "L'azione di Giuda non deve essere intesa
come un invidioso incidente e ancor meno
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come una manifestazione del regno delle tenebre al di fuori della volontà e dell'opera divina, ma dall'inizio alla fine come un elemento della volontà di Dio. Agendo come vuole, Giuda esegue ciò che Dio ha voluto che fosse fatto. Già lui - e non soltanto Pilato - è un executor Novi Testamenti" (Barth, p. 559).
Il dramma della passione, che Giovanni narra con tanta ricchezza di particolari, diventa cosi un copione da sempre iscritto in quel piano provvidenziale che i teologi chiamano "economia della salvezza" e all'interno del quale gli attori non fanno che eseguire una parte già scontata. L'ultima scena di questo dramma è ancora una consegna: il momento in cui Gesti "consegna lo spirito (paredoken to pneuma, vulg. tradidit spiritum)" (Gv. 19,13).
9. Il vocabolo paradosis, "consegna", è usato nel Nuovo Testamento nel significato traslato di insegnamento o dottrina tramandata. In questo senso lo usa Gesti criticando le tradi-
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zioni orali degli Ebrei. Ai farisei che gli chiedono perché i suoi discepoli "non camminano secondo la tradizione degli anziani (kata ten paradosin ton presbyteron)", egli risponde infuriato: "Voi avete abbandonato il comandamento (ten entolen) di Dio per osservare la consegna (ten paradosin) degli uomini" (Mc. 7,8). E poco dopo: "Voi annullate la parola di Dio con la tradizione che vi siete traditi (tei paradosei h e paredokate)" (ivi, 7,13). La stessa contrapposizione di entole e paradosis, mandato divino e tradizione umana, si legge in M t. 15,3.
A questa valutazione negativa del termine, corrisponde il significato messianico della "consegna" nella passione di Gesti. A parte le istruzioni per la vita quotidiana cui Paolo si riferisce ricordando ai Corinzi di "osservare le consegne (paradoseis) cosi come ve le ho consegnate (paredoka)" (l Cor. 11,2), vi è una sola autentica tradizione cristiana: quella della "consegna" - da parte prima del Padre, poi di Giuda e degli Ebrei - di Gesti alla croce, che ha abolito e realizzato tutte le tradizioni.
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10. È nella prospettiva di questa "consegna" - cosi Barth sembra suggerire - che dovrebbe essere iscritto anche l'episodio di Pilato. Molti elementi, tuttavia, impediscono di vedere nel prefetto della Giudea soltanto un "esecutore". Se egli fosse, come Giuda, soltanto questo, perché non limitarsi semplicemente a ratificare la decisione del sinedrio? Perché inscenare un processo (o un simulacro di processo) e perché quelle tergiversazioni, quei sotterfugi, quelle dichiarazioni di innocenza dell'imputato? E che ha a che fare con l'economia divina il sogno della moglie, che Lutero è costretto infatti a spiegare come un intervento del demonio per cercare di impedire la crocifissione? Che il comportamento di Pilato segua altre ragioni che quello di Giuda è attestato al di là di ogni dubbio dal fatto che mentre Gesu dice a Giuda: "Quello che devi fare, fallo presto" (Gv. 13,27), egli si sofferma invece a discutere con Pilato e sembra fino all'ultimo volerlo convincere della propria innocenza. Il ruolo del prefetto della Giudea e del giudizio, della krisis
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che deve pronunciare non si iscrive nell' economia della salvezza come uno strumento passivo, ma come il personaggio reale di un dramma storico, con le sue passioni e i suoi dubbi, i suoi capricci e i suoi scrupoli. Col giudizio di Pilato, la storia irrompe nell'economia e ne sospende la "consegna". La krisis storica è anche e innanzitutto crisi della "tradizione".
Ciò significa che la concezione cristiana della storia come esecuzione dell'economia divina della salvezza - o, nella sua versione secolarizzata, come realizzazione di inderogabili leggi a essa immanenti - dev'essere, almeno nel nostro caso, rivista. Come magistrato romano, Pilato deve esercitare il suo giudizio e lo esercita a suo modo senza tener conto di quell'economia della "consegna" che ignora e alla quale cederà alla fine solo perché sembra essersi convinto che un re dei Giudei è comunque politicamente problematico. Certo egli è in grado di capire che vi può essere - almeno per quel giovane ebreo che ha davanti ai suoi occhi - un piano che trascende la storia (altrimenti non avrebbe replicato:
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"Dunque tu sei re", quando Gesu gli chiarisce che il suo Regno non è di questo mondo); e, tuttavia, sa che, come prefetto della Giudea, deve giudicare anche questo piano, perché esso potrebbe provocare - e ha già provocato - delle conseguenze fattuali (la sommossa fra i Giudei di cui testimonia la folla che gli sta davanti). Il rappresentante del regno terreno è competente a giudicare il "regno che non è di qui" e Gesu - è importante non dimenticarlo - gli riconosce questa competenza, che gli viene "dall'alto". Che ciò awenga, come riteneva Pasca!, per accrescere la misura dell'ignominia ('' Gesu Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme della giustizia, perché è molto piu ignominioso morire per giustizia, che per una sedizione ingiusta", Pasca!, p. 695) o per qualche altra ragione, è certo che egli non ha voluto sottrarsi al giudizio.
1 1. Il giudizio che Pilato celebra non è, tuttavia, propriamente un giudizio. Gli storici del diritto hanno provato a esaminare il processo
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di Gesu dal punto di vista del diritto romano. Non sorprende che le conclusioni non siano concordi. Se il processo, come ha scritto un grande giurista, Salvatore Satta, è un "mistero", le ambiguità di questo mistero vengono qui con particolare evidenza alla luce. Tutti gli studiosi convengono sulla competenza del procuratore romano a giudicare di un delitto che metteva in questione la sicurezza di Roma e sull'applicabilità della !ex Julia. Pilato, come sembrano attestare due passi di Giuseppe Flavio, era inoltre investito dello ius gladii, cioè del diritto di infliggere la pena capitale, che gli Ebrei reclamavano contro Gesu.
Le opinioni divergono, tuttavia, quanto alla regolarità del processo. Secondo alcuni, non una delle formalità procedurali è stata osservata: non l'iscrizione e la determinazione dell' accusa, non l'accertamento del fatto, non la pronuncia di una chiara sentenza di condanna. Dal punto di vista del diritto: "Gesu di Nazareth non fu condannato, ma ucciso: il suo sacrificio non fu una ingiustizia, fu un omicidio" (Rosa-
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di, pp. 407-408 ) . Altri ha obiettato che il diritto romano si applicava soltanto ai cittadini romani e che, su un non cittadino come Gesti, il procuratore esercitava non la iurisdictio, ma la semplice coercitio, tanto piti che nelle province veniva meno la chiara distinzione fra il procedimento ordinario e la cognitio extra ordinem, che non era tenuta a rispettare le norme del processo formulare (Romano, pp. 3 13 -3 14 ).
Un ottimo conoscitore delle due tradizioni giuridiche, tanto dell'ebraica che della romana, ha osservato che la difficoltà di delineare un quadro coerente dello svolgimento del processo deriva dal fatto che gli studiosi cercano di comporre proceduralmente i racconti degli evangelisti, mentre ciascuno di essi seguiva verisimilmente una presentazione diversa della passione a fini teologici (Bickerman, pp. 228-229). È probabilmente per un difetto prospettico di questo genere, che uno storico del dirit to romano di indubbia competenza, Pietro De Francisci, ha creduto di poter escludere la correttezza del processo a Gesti. Egli ha ricordato
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l 'esistenza di norme che imponevano al magistrato di non lasciarsi influenzare dalle voces populi e di punire anzi vigorosamente coloro che organizzavano un moto sedizioso come secondo ogni evidenza avevano fatto non Gesti, ma i sinedriti. Pilato, per mancanza di coraggio, aveva dunque "messo in non cale le norme del diritto che era suo dovere applicare; aveva abdicato alla propria autorità non reprimendo il tumulto fazioso; ed aveva voltato le spalle alla giustizia abbandonando un uomo, che riteneva innocente, alla preordinata vendetta dei suoi dichiarati nemici" (De Francisci, p. 25).
(A una conclusione analoga doveva essere giunto Dante che, in Inferno III,60, evoca fra gli ignavi, senza nominarlo, Pilato, se è vero, secondo la profonda intuizione di Pascoli, che in "colui che fece per viltade il gran rifiuto" si debba vedere non Celestino V, ma Pilato, che per ignavia rinunciò a esercitare la sua autorità di giudice).
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12 . L'ambiguità insita in ogni interpretazione dei testi sacri appare qui in piena evidenza. I Vangeli devono essere considerati come documenti storici o in essi è innanzitutto in questione un problema genuinamente teologico? Già un osservatore pagano , Porfìrio, aveva osservato che "gli evangelisti sono inventori (epheurotas) e non storici (historas, "testimoni ") degli eventi che riguardano Gesti. Ciascuno di essi scrive infatti in disaccordo e non in accordo con gli altri , soprattutto quanto al racconto della passione " (Bickerman , p. 23 1).
Anche rispetto a Pilato gli interpreti passano senza soluzione di continuità da un piano all'altro , dal personaggio storico alla "persona " teologica , dall'ermeneutica giuridica all'economia della salvezza , da un vuoto involucro nominale agli abissi della psicologia. Cosi un piano viene usato per interpretare l'altro , e la codardia , l'ignavia o l'invidia spiegano le esitazioni , gli errori e i cedimenti che, sul piano dell'economia provvidenziale , non hanno alcun senso. Un autore può cosi evocare , a proposito delle
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sue indebite discussioni con i sinedriti , "l'imperdonabile errore tattico che ha cacciato Pilato in una situazione da cui non saprà uscire " (Blinzler, p. 283) e un altro osservare che non si capisce per quali ragioni Pilato non sia ricorso , com'era previsto dalla procedura romana, a un aggiornamento del processo.
Il canone ermeneutico cui qui ci atterremo è, invece, che solo in quanto personaggio storico Pilato svolge la sua funzione teologica e , viceversa, che egli è un personaggio storico solo in quanto svolge una funzione teologica. Personaggio storico e persona teologica, processo giuridico e crisi escatologica coincidono senza residui e solo in questa coincidenza, solo nel loro "cadere insieme " essi trovano la loro verità.
13. È precisamente a questo punto che , però , tutto si complica. Nella scena finale del processo , la traduzione corrente recita: "Pilato condusse fuori Gesti e sedette sul seggio
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(ekathisen epi tou bematos, vulg. sedit pro tribunali) ". Ma una tradizione esegetica che ha per sé l'autorità di Giustino (Apol. l ,XXXV,6) e, fra i moderni, quelle di Harnack e di Dibelius, intende ekathisen in senso transitivo: "Condusse fuori Gesti e lo fece sedere sul seggio". Nello stesso senso l'Evangelium Petri (3 ,7) riferisce che "gli Ebrei lo rivestirono di porpora e lo fecero sedere sul seggio del giudizio ( ekathisan auton epi tou bematos kriseos) , gridando: 'Giudica giustamente, re di Israele ( dikaios krine, basi! eu tou Israel) ' ". L' obiezione secondo cui, per avere significato transiti vo, il verbo dovrebbe avere un complemento oggetto ( auto n) cade, se si considera che ekatisen può senza difficoltà riferirsi al "Gesti ( Iesoun)" che immediatamente precede. E che Gesti sia fatto sedere sul bema si accorda con le narrazioni di Marco e Matteo, secondo le quali, subito prima della crocifissione, Gesti viene rivestito di un manto di porpora e, con in mano una canna a guisa di scettro, viene salutato come re dei Giudei. Anche in
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Giustino, gli Ebrei, dopo aver fatto sedere Gesti sul bema, lo invitano per scherno a esercitare la funzione di giudice che compete a un re: "Giudicaci !" E che Pilato non sieda sul seggio è del tutto coerente col fatto che egli non emette un verdetto, ma si limita a "consegnare" Gesti. Se questo è vero, allora non soltanto - come ha notato Bickerman - il dibattito nelle cinque ore precedenti, ma nemmeno ciò che avviene nell'ora sesta avrebbe il valore di un giudizio processuale.
Qui davvero due giudizi e due regni stanno l'uno di fronte all'altro senza riuscire a giungere a compimento. Non è nemmeno chiaro chi giudichi chi, se il giudice legalmente investito dal potere terreno o il giudice per scherno, che rappresenta il Regno che non è di questo mondo. È possibile, anzi, che nessuno dei due pronunci veramente un giudizio.
14. Che non sia Gesti a giudicare è del tutto coerente non solo con la sua posizione di im-
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putato, ma anche con le sue parole. La critica radicale di ogni giudizio è parte essenziale dell'insegnamento di Gesti: "Non giudicate (me krinete) , affinché non siate giudicati !" (Mt. 7,1), a cui fanno eco le parole di Paolo nella lettera ai Romani (Rom. 14,3 ): "Non giudichi (me krineto) ! " Da nessuna parte come nello stesso Vangelo di Giovanni il fondamento teologico di questo divieto è affermato con tanta chiarezza: "Dio non ha mandato il suo figlio nel mondo per giudicarlo (ina krine) , ma per salvarlo (ina sothe)" (Cv. 3, 17). Il monito "non giudicate !" (ripetuto in Gv. 3, 18: "Chi crede in lui non giudica") trova qui la sua ragione: l'eterno non vuole giudicare il mondo, vuole salvarlo; almeno fino alla fine dei tempi, giudizio e salvezza si escludono a vicenda.
Se questo è vero, perché colui che non giudica deve essere sottoposto al giudizio di un giudice, il Regno eterno essere "consegnato" al giudizio del regno terreno?
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15. Dante nomina Pilato nel De monarchia (II, 12). E lo fa per conciliare il piano divino della salvezza col giudizio del rappresentante di Cesare, il Regno spirituale di Cristo col regno temporale di Roma. La sua argomentazione deve, per questo, affermare la legittimità, insieme giuridica e teologica, del giudizio di Pilato. "Se l'Impero Romano non fosse legittimo", egli scrive, "allora il peccato di Adamo non sarebbe stato punito in Cristo". Perché l'umanità fosse riscattata dal peccato, era, cioè, necessario che Cristo fosse sottoposto al giudizio e punito da un giudice che avesse la giurisdizione legittima su tutto il genere umano.
Si deve sapere che punizione non è semplicemen
te la pena inflitta a chi ha commesso il delitto, ma
la pena inflitta da chi ha la giurisdizione di pu
nire, per cui se la pena non è inflitta dal giudice
legittimo (ab ordinario iudice), non è punizione,
ma piuttosto delitto [ . . . ] . Se pertanto Cristo non
avesse subito il giudizio di un giudice legittimo,
la sua pena non sarebbe stata punizione [ . . . ] . E
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giudice legittimo poteva essere solo quello che
avesse la giurisdizione su tutto il genere umano,
in modo che tutto il genere umano fosse punito
nella carne di Cristo, che, come dice il profeta,
"portava i nostri dolori". E Tiberio Cesare, di cui
Pilato era il vicario, non avrebbe avuto la giuri
sdizione, se l'Impero Romano non fosse stato le
gittimo (de iure) .
Dante lega qui indissolubilmente la realizzazione dell'economia della salvezza alla legittimità del giudizio di Pilato, in quanto rappresentante dell'Impero Romano. La crocifissione di Cristo non è una semplice "pena", ma una "punizione legittima (punitio) ", inflitta da un giudice ordinario che, come rappresentante di Cesare, aveva giurisdizione su tutto il genere umano, che solo in questo modo poteva essere riscattato dal peccato.
16. Che Gesti abbia dovuto sottoporsi al giudizio di Pilato risulta cosi sufficientemente pro-
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vato. Si tratta per Dante, con ogni evidenza, di una tesi teologico-politica, che deve legittimare l'Impero rispetto alla Chiesa. L'Impero Romano è iscritto nel piano divino della salvezza, ma vi è iscritto precisamente in quanto autonomo e agisce come tale. La storia fa parte dell' economia della salvezza, ma ne fa parte come una realtà a tutti gli effetti, e non come uno spettacolo di marionette. Per questo Pilato non è solo un executor Novi Testamenti, ma un attore storico con tutte le sue ineliminabili contraddizioni.
Queste contraddizioni non sono, tuttavia, soltanto di ordine psicologico. In esse viene alla luce un contrasto piu profondo, che riguarda l'antitesi di economia e storia, del temporale e dell'eterno, di giustizia e salvezza, che la dottrina dantesca cerca invano di conciliare. Pilato è questa contraddizione. Anche Cristo, in quanto il verbo in lui si è fatto carne, lo è per eccellenza. Ma, attraverso le dispute che, fra il V e il VI secolo, divisero profondamente la Chiesa opponendo monofisiti e difisiti, i teologi riuscirono - o credettero di riuscire - a
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risolvere la contraddizione grazie alla dottrina delle due nature e delle due volontà, quella divina e quella umana, distinte e insieme unite ipostaticamente in un'unica persona.
Pilato non dispone di questo privilegio, nel suo confronto con l'Eterno non ha che la natura umana. È uomo e basta. Non ha, come Cristo, due volontà, grazie alle quali può dire "al lontana da me questo calice" e, insieme, "non come voglio io, ma come tu vuoi" (Mt. 26,39); ne ha una sola, con cui cerca, a suo modo, la giustizia e la verità.
17. La dottrina delle due volontà, se trasferita sul piano dell'etica, contiene una parte di ipocrisia. Un soggetto che disponesse di due volontà, con una delle quali pretende di giustificare quello che vuole o che fa con l'altra, uscirebbe immediatamente dall'ambito dell'etica. Quando Gesu dice a Pilato che è venuto al mondo per testimoniare della verità, non intende certo dire che avendo due nature e due
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volontà, con una di esse - quella umana - testimonia dell'altra - quella divina (e viceversa). Il compito sarebbe cosi troppo facile. Anche se si accetta il dogma delle due nature e delle due volontà, esso può solo significare che l'una non può invocare l'altra per affermarsi o per giustificarsi. Mentre Gesu è uomo, è uomo e basta, esattamente come Pilato. Per questo la sua testimonianza è paradossale: egli deve testimoniare in questo mondo che il suo regno non è di questo mondo - non che egli è qui un semplice uomo, ma altrove è un dio.
L'affermazione di Gesu sulla testimonianza della verità è stata spesso considerata enigmatica o comunque tale che Pilato non poteva capirla. La frase, se restituita al suo contesto, non ha in realtà nulla di enigmatico. Gesu si trova in un processo davanti a un giudice che lo interroga e testimoniare della verità è quello che ci si aspetta da ogni imputato e da ogni testimone. Subito dopo l'episodio dell'adultera (che Gesu si rifiuta di condannare), agli Ebrei che gli obiettano: "Tu testimoni di te stesso: la
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tua testimonianza non è vera (he martyria sou ouk es ti n alethes) ", egli aveva del resto risposto :
"Anche se io testimonio di me stesso, la mia te
stimonianza è vera, perché so da dove (pothen)
vengo e dove (pau) vado. Voi giudicate secondo la
carne, io non giudico nessuno (ego ou krino oude
na) " . (Gv. 8,13 -15)
Ora egli si trova in un giudizio, cioè nel luogo piu adatto a provare la verità della sua testimonianza. Ma enigmatica e ardua non è la testimonianza in sé, ma la verità di cui deve testimoniare, cioè il fatto paradossale che egli ha un regno, ma che questo non è "di qui". Egli deve attestare nella storia e nel tempo la presenza di una realtà extrastorica ed eterna. Come si può testimoniare della presenza di un regno che non è "di qui"?
18. Nel libello contro Martensen, che, nel suo necrologio, aveva definito il pastore Mynster
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un "testimone della verità", Kierkegaard spiega che cosa egli intenda per "testimoniare della verità". Richiamandosi alla lettera del testo evangelico, egli scrive cosi che "un testimone della verità, un autentico testimone della verità è un uomo che viene flagellato, maltrattato, trascinato da una prigione all'altra e infine [ . .. ] crocifisso o impiccato o dato alle fiamme o arso su una graticola, il suo corpo esanime deposto insepolto in un luogo isolato dall'aiutante del boia". Ma è nel breve saggio Della dzf/erenza fra un genio e un apostolo che Kierkegaard prova veramente a pensare che cosa costituisca l'autorità di una testimonianza. Questa non ha nulla di profondo o di geniale, né può fornire la prova di se stessa, poiché sarebbe un nonsenso "esigere la certezza fisica che Dio esiste". L'autorità di una parola non dipende dal suo contenuto semantico, che chiunque può ripetere tale e quale, ma dal luogo della sua enunciazione, che dev'essere altrove: "L'autorità è quella specifica qualità che, provenendo da altrove, diventa qualitativamente apparente
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quando il contenuto del messaggio o dell'atto è posto come indifferente ".
Anche Kierkegaard non riesce qui a venire a capo della contraddizione fra l'umano e il divino, lo storico e l'eterno. La sua tesi è, infatti, insieme falsa e vera. Falsa, perché afferma che il contenuto è indifferente, mentre la testimonianza della verità è, proprio al contrario, quella che esibisce eo ipso la verità di ciò che dice . Vera, perché proprio questa singolare evidenza fa schizzare la testimonianza al di fuori del piano dei fatti, costituisce la sua speciale autorità e, insieme, la sua debolezza.
19. Pilato e Gesu, il vicario del regno mondano e il re celeste, stanno uno di fronte all'altro in uno stesso, unico luogo, il pretorio di Gerusalemme, quello stesso di cui gli archeologi hanno creduto di identificare l'improbabile sito. Per testimoniare della verità, Gesu deve affermare e, nello stesso tempo, smentire il suo Regno, che è lontano ( '' non è di questo
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mondo ") e, insieme, vicinissimo, anzi, a portata di mano ( entos ymin, Le. 17,2 1). Dal p unto di vista del diritto, la sua testimonianza non può che fallire e finisce in una farsa: il manto di porpora, la corona di spine, la canna come scettro, le urla: "Giudicaci ! " Egli - che non è venuto per giudicare il mondo, ma per salvarlo - si trova, forse proprio per questo, a dover rispondere in un processo, a sottostare a un giudizio, che il suo alter ego, Pilato, del resto non pronuncerà, non può pronunciare. Giustizia e salvezza non possono essere conciliate, tornano ogni volta a escludersi e a chiamarsi a vicenda. Il giudizio è implacabile e, insieme, impossibile, perché in esso le cose appaiono come perdute e insalvabili; la salvezza è pietosa e, tuttavia, inefficace, perché in essa le cose appaiono come ingiudicabili. Per questo, nel "pavimento di pietra " detto in ebraico Gabbanà, né il giudizio né la salvezza - almeno per quanto concerne Pilato - hanno luogo: essi finiscono in un comune, indeciso e indecidibile non liquet.
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Testimoniare, qui e ora, della verità del Regno che non è qui, significa accettare che ciò che vogliamo salvare ci giudichi. Poiché il mondo, nella sua caducità, non vuole salvezza, ma giustizia. E la vuole precisamente perché non chiede di essere salvato. In quanto insalvabili, le creature giudicano l'eterno: questo è il paradosso che alla fine, di fronte a Pilato, toglie la parola a Gesu. Qui è la croce, qui è la storia.
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