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Novantatrerosso www.novantatrerosso.blogspot.com MERCOLEDÌ 30 MARZO 2011 Trimestrale Associazione Bastioni - Firenze N° 6 Registro Stampa Periodico del Tribu- nale di Firenze N° 5659 in data 14 maggio 2008 Il nuovo numero di Novantarerosso esce in occasione della XVIII edizione del Salone dell’Arte e del Restauro e della Conserva- zione dei Beni Culturali e Ambientali di Ferrara. Il tema del nuovo giornalino è IL FUTURO. Ad oggi la cultura non ha futuro. Il 14 marzo 2011 il Prof. Andrea Carandini, presidente del Consiglio Supe- riore dei Beni Culturali (l’organo cui spetta la gestione e l’utilizzo dei fondi di bilancio del Ministero dei Beni Culturali), si è dimesso "nella constatazione dell'impossibilità del ministero di svolgere quell'opera di tutela e sviluppo del patrimonio culturale stante la progressiva e mas- siccia diminuzione degli stanziamenti di bilancio", come si apprende da una nota del MIBAC. Già il 18 novembre 2010 Carandini dichia- rava sul Corriere della Sera: «La scelta che il governo sta compiendo è quella di lasciare il nostro Ministero in condizione di non poter più agire per la manutenzione e per il restauro del patrimonio culturale. Dai 335 milioni di euro del 2004 si è passati ai 148,5 milioni per l’anno corrente, con un taglio pari al 55,73 per cento». L’Associazione Bastioni ha pensato che per avere un futuro bisogna guardare il passato, capire dove si è sbagliato e magari ricominciare con una nuova mentalità come auspica il Dott. Simon Lambert dell’ICCROM nell’articolo che pubblichiamo a seguito. Nell’occasione abbiamo anche fatto una chiacchierata con l’Architetto Carlo Minelli, presidente dell’Istituto Mnemosyne di Brescia, costitui- to in associazione e che si occupa della salvaguardia del patrimonio storico. Per finire un aggiornamento da parte dell’ Associazione la Ragione del Restauro, con una lucida analisi dello stato attuale del nostro patrimonio culturale. In occasione del centocinquantenario dell’unità d’Italia vogliamo lasciarvi alla lettura di Novantarerosso con un’ultima occhiata all’articolo 9 della Costituzione della Repubblica Italiana: La Repubbli- ca promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. ( FRANCESCA ATTARDO [email protected]) La conservazione preventiva comprende "tutte le misure e azioni volte ad evitare e ridurre al minimo il futuro deteriora- mento o la perdita"(ICOM- CC 2008; traduzione dell’autore). Contrariamente ai trattamenti di conservazione che riguardano singoli oggetti, la conservazione preventiva si concentra su intere collezioni e il loro ambiente circostante. E’ un approccio concet- tuale alla conservazione che implica un cambiamento di menta- lità, da come a perché le cose dovrebbero essere conservate . Che cosa determina questo cambiamento e perché a un paese come l'Italia, così orgoglioso del proprio patrimonio storico-artistico, manca attualmente una strategia per la protezione del patrimo- nio culturale, che abbracci una visione globale a lungo termine? Rintracciare le origini della conservazione preventiva La volontà di ridurre al minimo il deterioramento e la perdita dei beni culturali è universale. Questo sentimento permea attraverso molti trattati europei dell'antichità, del Medioevo e del Rinascimento. L'approfondita codificazione di tecniche artistiche ed istruzioni per la manutenzione delle opere d’arte indicano che queste società davano valore alla loro produzione artistica contemporanea ed avevano grande cura nel garantire che tale patrimonio fosse stato trasmesso ai posteri. I progetti di conservazione degli affreschi di Raffaello a Roma, così ben do- cumentati (1659 e 1702), includevano per esempio misure preventive per bloccare le infiltrazioni di acqua, ridurre l'accu- mulo di polvere e limitare i copisti dal macchiare le pitture con le loro carte da ricalco intrise di olio Alcuni restauratori mostrano anche una consapevolezza del danno potenziale causato dagli interventi stessi. Quasi un seco- lo dopo, Pietro Edwards, Direttore al restauro delle Pubbliche Pitture di Venezia e del Rialto, avverte gli operatori e gli ispetto- ri di limitare gli interventi eccessivamente invasive sostiene la messa in opera di regimi di prevenzione mirati alla conservazio- ne di collezioni intere. Un esempio remoto di conservazione preventiva, applicato alle collezioni, viene documentato in Museographia, la guida alle gallerie, musei e le biblioteche d'Europa, scritta dallo studioso e mercante di Amburgo Caspar F. Neickel. Nella guida, l'autore fornisce istruzioni sull’evitare problemi di umidità esponendo gli oggetti in stanze orientate a sud- ovest, sull’importanza di assicurare un monitoraggio costante degli insetti nelle bibliote- che e sulla prevenzioen dei danni alle opere esposte mediante un'attenta progettazione dell’area espositiva In seguito a questi casi sporadici, un corpo coeso di conoscenze noto come housekeeping (it. “manutenzione delle case”) emerse nel XVI secolo in Inghilterra. Le pratiche di housekeeping , che consistevano in direttive per la manutenzione e la gestione del personale in case di proprietà, venivano tramandate in diari, manuali, lettere e dipinti. Queste linee guida includevano racco- mandazioni per il controllo dell’umidità, del calore, luce, degli insetti, della polvere e per la prevenzione dei danni causati da abrasioni. La tutela dei beni culturali si è spesso materializzata in attività programmate che comprendono sia un regolare mo- nitoraggio che manutenzione. Una coscienza della necessità di prevenire il deterioramento costante e cumulativo dei beni culturali esiste quindi da migliaia di anni. La guerra e la minaccia dei rischi Sebbene il concetto di prevenzione continua fosse probabilmen- te già radicato nella pratica quotidiana, fu la perdita totale o la paura di perdita totale, a risvegliare la necessità di innescare attività di conservazione preventiva più strutturate. Il settore della conservazione del restauro è ormai consapevole delle misu- re di sicurezza e dell’evacuazione delle raccolte museali del Bri- tish Museum e della National Gallery effettuate nei mesi prece- denti i raid aerei della Prima Guerra Mondiale. In seguito ai danni conservativi causati da un improprio stoccag- gio delle collezioni del British Museum, venne fondato il labora- torio scientifico all’interno del museo. Questo episodio contri- buì alla migrazione progressiva della scienza nel mondo dei musei. Lentamente, la prevenzione e lo studio dei meccanismi di deterioramento sono stati aggiunti alle tradizionali attività dei laboratori di restauro. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l'uso di raid aerei fu intensificato, mentre i beni culturali vennero saccheggiati e depredati intenzionalmente. Come le minacce cambiavano così le collezioni del British Museum furono spostate più volte. Presso la National Gallery, il personale aveva ricevuto un adde- stramento alle emergenze particolari, permettendo così alle intere collezioni di essere evacuate solo tre giorni prima della dichiarazione di guerra. I lavori furono successivamente spostati in ambienti con clima controllato: i sotterranei di alcune cave di ardesia del Galles. In Italia, un’operazione poco nota, ma di proporzioni conside- revoli, fu condotta per proteggere il patrimonio culturale mobi- le ed immobile sotto la guida del Ministro della Pubblica Istru- zione Bottai del regime fascista. Quando scoppiò la guerra, fu detto che la maggior parte dei beni culturali dell'Italia era stata resa "invulnerabile" ai danni. In tutta la penisola, edifici storici e monumenti furono protetti strutturalmente con impalcature, muri di sostegno, contrafforti e pilastri. L’ Istituto Centrale del Restauro (ICR), fondato a Roma nel 1939, creò un Consiglio Tecnico incaricato di verificare l’idoneità delle condizioni am- bientali delle opere d'arte durante la guerra. Opere mobili dai più importanti centri artistici furono trasferite in centinaia di depositi, lontani da ogni obiettivo militare Con le esperienze delle guerre, emergeva una base di conoscenze importante per giustificare la crescente spesa per la protezione di intere collezio- ni, piuttosto che interventi su singoli beni. Di fronte a minacce generalizzate, catastrofiche e urgenti, l’Italia programmò ed attuò un’operazione di singolari proporzioni. Dopo la guerra, la grande sfida sarebbe stata la protezione dei beni culturali del paese contro un progressivo degrado, e contro l’abbandono e l’incuria. La Commissione Franceschini: una prima possibilità per l’Italia Negli anni sessanta e settanta del Novecento, l'Italia ebbe diver- se occasioni di adottare misure di conservazione preventiva, ma tali tentativi fallirono già in fase di attuazione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la prosperità economica dei paesi alleati stimolò una rapida crescita, tecnologica e industriale, e l'espan- sione del settore edile. Grida di disapprovazione si fecero sentire a livello internazionale nel settore dei beni culturali. L'Interna- tional Council of Museums (ICOM 1962, res 4; traduzione dell’autore) deliberò di proteggere il patrimonio culturale e naturale da una rapida industrializzazione e da "l'era meccanica". Analogamente l’ International Council of Monuments and Sites (ICOMOS) espresse la sua volontà di proteggere il patri- monio monumentale da uno sfrenato e disarmonico sviluppo. Prima della Seconda Guerra Mondiale, l'Italia era fondata su un’economia principalmente rurale e sottosviluppata. In segui- to fu industrializzata rapidamente con l'afflusso di finanziamenti internazionali per la ricostruzione. Nuove infrastrutture furono sviluppate, fiorì l'industria e la popolazione cominciò a muover- si fuori dai centri storici verso le periferie di recente costruzione. In Italia questo importante cambiamento socio-economico è stato ritenuto responsabile del lento avvio di degrado urbano e ambientale. In risposta alla minaccia imminente di costruzione abusiva e di speculazione edilizia, fu aperta una pubblica inchie- sta nel 1964. Comunemente chiamata Commissione 'Franceschini' dal ministro che la presiedeva, questo gruppo era composto da 16 membri del parlamento e 11 esperti di storia dell'arte, archeologia, diritto e biblioteconomia. La Commissio- ne fu incaricata della revisione della legislazione vigente, del quadro amministrativo e dei meccanismi di finanziamento per la protezione del patrimonio culturale. A seguito di un’approfondita analisi della situazione furono emesse 84 rac- comandazioni. Queste furono sintetizzate in nove “raccomandazioni” per un'azione urgente, indicando chiara- mente un crescente desiderio di cambiamento sociale: - Urgenza di provvedere alla sicurezza del patrimonio culturale. - Provvedimenti d’urgenza per la difesa ambientale - Catalogazione dei Beni culturali - Restituzione di Beni a dignità artistica - Provvedimenti d’urgenza contro deturpazioni di Beni culturali - Sedi per gli organi centrali e le istituzioni scientifiche nazionali - Provvedimenti d’urgenza per la formazione del personale scien- tifico e tecnico - Interventi per l’arte contemporanea - Educazione e sensibilizzazione dei cittadini al rispetto dei Beni culturali (CITVPSAAP 1967, 133-139). L'Ufficio Centrale per il Catalogo e la Documentazione, fonda- to nel 1969, fu un risultato diretto della terza raccomandazione. Seguirono ulteriori due Commissioni: la 'Papaldo' I (1968) e la 'Papaldo' II (1970). Il loro scopo era quello di estrarre dalle di- chiarazioni e raccomandazioni della Commissione Franceschini ciò che poteva essere trasformato in legislazione. Purtroppo, niente si materializzò di questo lavoro e le raccomandazioni non furono mai esaminate dal Parlamento Lo storico del restauro e la conservazione Bruno Zanardi (1999) sostiene che le Commissioni Franceschini e Papaldo furono inconcludenti per tre motivi principali. In primo luogo, la lobby di sviluppo immobiliare, saldamente ancorata all'interno del governo, ostacolò intenzionalmente l'attività delle commissioni. In secondo luogo, la burocrazia italiana era notoriamente lenta e inefficace. In terzo luogo, nel 1968 la priorità in Europa fu data al far fronte alle violente rivoluzioni ed alla democratizza- zione delle università. Anche se raramente menzionate, le implicazioni economiche portate da queste raccomandazioni avrebbero potuto essere notevoli, in quanto avrebbe richiesto un aumento significativo dei fondi stanziati per i beni culturali. Purtroppo, sarebbero passati diversi anni prima che l’idea di tutela globale del patri- monio fosse stata resuscitata. Giovanni Urbani: una seconda possibilità per l’Italia Dalla specificità alla globalità Anche se il lavoro delle Commissioni Franceschini, Papaldo I e II fu inconcludente, ci fu una certa presa di coscienza pubblica del rapporto precario tra il patrimonio culturale e naturale. Nel 1966, le alluvioni di Firenze e Venezia furono un richiamo violento a questa fragilità. Nello stesso anno, si verificò una frana ad Agrigento, in Sicilia, mostrando le gravi conseguenze di una sfrenata espansione urbanistica e della speculazione edilizia nella Valle dei Templi. Nei primi anni Settanta, i tempi erano maturi in Italia per riesaminare ciò che poteva essere fatto in concreto per affrontare questi problemi e prevenire danni futuri. In un'intervista radiofonica, Giovanni Urbani, storico dell'arte, restauratore e futuro Direttore dell'ICR (1973-1983), espresse che l'essenza del problema in Italia stava nella capacità di fonde- re la protezione del patrimonio naturale e culturale in un unico piano. Egli osservò che, dal 1967 al 1976 la spesa pubblica sul 'restauro' (cioè interventi di natura di estetica su oggetti singoli) era decuplicata, senza alcun miglioramento riscontrabile nelle condizioni generali dei beni culturali in Italia. Urbani propone- va qualcosa di radicalmente diverso dall’intervento di restauro classico, cioè la conservazione preventiva. Sosteneva che la scien- za aveva un ruolo importante da svolgere nella conservazione, ma solo se fosse applicata a campioni di quantità importanti, per esempio intere raccolte, e non a singoli oggetti. Nel fondere la protezione della natura con quella dei beni culturali, e nell’orientare decisioni di conservazione in base ad indagini scientifiche, si otteneva una manifestazione concreta della sua visione integrata e globale della conservazione. La conservazione programmata e il Piano pilota dell’Umbria È stato affermato, anche se lo stesso vale per altri paesi, che il patrimonio culturale italiano è un caso unico per l'importanza del legame con il territorio, della sua distribuzione geografica capillare, della sua stratificazione e continuità per millenni, e per la sua presenza in quantità notevoli. Nel 1976, Urbani pre- sentò al Ministero Italiano dei Beni Culturali il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria (ICR 1976). Una volta attuato, il Piano pilota avrebbe fornito una visione più comprensiva della vulnerabilità del patrimonio cul- turale mobile ed immobile, nonché del suo grado di esposizio- ne a diversi fattori di deterioramento: geologico-sismici, meteo- climatici, inquinamento atmosferico, e spopolamento. Questo avrebbe potuto consentire al Ministero dei Beni Culturali di prendere decisioni di conservazione entro un quadro sistemati- co e programmatico. Come prima tappa,i dati erano stati raccol- ti nella regione Umbria, laddove i nuovi strumenti per la gestio- ne dei rischi e per la formazione sarebbero poi stati messi in applicazione. Avrebbe seguito un piano per il territorio intero che tenesse conto della specificità culturale di ciascuna regione. Secondo Urbani stesso, la conservazione programmata era una "tecnica" che comprendeva "l’insieme delle misure periodiche preventive atte a mantenere quanto più possibile costante e bassa la velocità di deterioramento dei materiali antichi". Il Piano Pilota aveva tre obiettivi principali: - la valutazione degli effetti di alcuni fattori di deterioramento (…) sullo stato di conservazione dei beni culturali dell’Umbria; - la definizione delle varie tecniche di rilevamento e intervento, e dei relativi programmi operativi, mediante cui assicurare la conservazione dei beni predetti; - la definizione della struttura e delle dimensioni di un organi- smo tecnico territoriale per la regolare attuazione dei program- mi di rilevamento e intervento (…). definire le tecniche da utiliz- zare per la documentazione e trattamenti, e istituire programmi di manutenzione del patrimonio culturale. il bastion contrario oirartnoc noitsab li L’ITALIA E LA STORIA DELL A CONSERVAZIONE PREVENTIVA Di SIMON LAMBERT, consulente presso l’ICCROM (Roma) [email protected] Protezione dell’Ara Pacis a Roma. Credits: Lazzeri, 1942

Novantatrerosso Il Giornale dell'Associazione Bastioni - News Sheet of the Association Bastioni

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Giornale trimestrale su temi riguardanti la professione del conservatore/restauratore e tutti quei professionisti legati al mondo della prevenzione, dello studio e della ricerca dei beni culturali. NOVANTATREROSSO, a news sheet that discusses issues related to the profession of the conservator/restorer and to all those professionals who work for the conservation, preservation, study and research of our national heritage.

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MERCOLEDÌ 30 MARZO 2011

Trimestrale Associazione Bastioni - Firenze

N° 6 Registro Stampa Periodico del Tribu-

nale di Firenze N° 5659

in data 14 maggio 2008

Il nuovo numero di Novantarerosso esce in occasione della XVIII edizione del Salone dell’Arte e del Restauro e della Conserva-zione dei Beni Culturali e Ambientali di Ferrara. Il tema del nuovo giornalino è IL FUTURO. Ad oggi la cultura non ha futuro. Il 14 marzo 2011 il Prof. Andrea Carandini, presidente del Consiglio Supe-riore dei Beni Culturali (l’organo cui spetta la gestione e l’utilizzo dei fondi di bilancio del Ministero dei Beni Culturali), si è dimesso "nella constatazione dell'impossibilità del ministero di svolgere quell'opera di tutela e sviluppo del patrimonio culturale stante la progressiva e mas-siccia diminuzione degli stanziamenti di bilancio", come si apprende da una nota del MIBAC. Già il 18 novembre 2010 Carandini dichia-rava sul Corriere della Sera: «La scelta che il governo sta compiendo è quella di lasciare il nostro Ministero in condizione di non poter più agire per la manutenzione e per il restauro del patrimonio culturale. Dai 335 milioni di euro del 2004 si è passati ai 148,5 milioni per l’anno corrente, con un taglio pari al 55,73 per cento».

L’Associazione Bastioni ha pensato che per avere un futuro bisogna guardare il passato, capire dove si è sbagliato e magari ricominciare con una nuova mentalità come auspica il Dott. Simon Lambert dell’ICCROM nell’articolo che pubblichiamo a seguito. Nell’occasione abbiamo anche fatto una chiacchierata con l’Architetto Carlo Minelli, presidente dell’Istituto Mnemosyne di Brescia, costitui-to in associazione e che si occupa della salvaguardia del patrimonio storico. Per finire un aggiornamento da parte dell’ Associazione la Ragione del Restauro, con una lucida analisi dello stato attuale del nostro patrimonio culturale. In occasione del centocinquantenario dell’unità d’Italia vogliamo lasciarvi alla lettura di Novantarerosso con un’ultima occhiata all’articolo 9 della Costituzione della Repubblica Italiana: La Repubbli-ca promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

(FRANCESCA ATTARDO — [email protected])

La conservazione preventiva comprende "tutte le misure e azioni volte ad evitare e ridurre al minimo il futuro deteriora-mento o la perdita"(ICOM-CC 2008; traduzione dell’autore). Contrariamente ai trattamenti di conservazione che riguardano singoli oggetti, la conservazione preventiva si concentra su intere collezioni e il loro ambiente circostante. E’ un approccio concet-tuale alla conservazione che implica un cambiamento di menta-lità, da come a perché le cose dovrebbero essere conservate . Che cosa determina questo cambiamento e perché a un paese come l'Italia, così orgoglioso del proprio patrimonio storico-artistico, manca attualmente una strategia per la protezione del patrimo-nio culturale, che abbracci una visione globale a lungo termine? Rintracciare le origini della conservazione preventiva La volontà di ridurre al minimo il deterioramento e la perdita dei beni culturali è universale. Questo sentimento permea attraverso molti trattati europei dell'antichità, del Medioevo e del Rinascimento. L'approfondita codificazione di tecniche artistiche ed istruzioni per la manutenzione delle opere d’arte indicano che queste società davano valore alla loro produzione artistica contemporanea ed avevano grande cura nel garantire che tale patrimonio fosse stato trasmesso ai posteri. I progetti di conservazione degli affreschi di Raffaello a Roma, così ben do-cumentati (1659 e 1702), includevano per esempio misure preventive per bloccare le infiltrazioni di acqua, ridurre l'accu-mulo di polvere e limitare i copisti dal macchiare le pitture con le loro carte da ricalco intrise di olio Alcuni restauratori mostrano anche una consapevolezza del danno potenziale causato dagli interventi stessi. Quasi un seco-lo dopo, Pietro Edwards, Direttore al restauro delle Pubbliche Pitture di Venezia e del Rialto, avverte gli operatori e gli ispetto-ri di limitare gli interventi eccessivamente invasive sostiene la messa in opera di regimi di prevenzione mirati alla conservazio-ne di collezioni intere. Un esempio remoto di conservazione preventiva, applicato alle collezioni, viene documentato in Museographia, la guida alle gallerie, musei e le biblioteche d'Europa, scritta dallo studioso e mercante di Amburgo Caspar F. Neickel. Nella guida, l'autore fornisce istruzioni sull’evitare problemi di umidità esponendo gli oggetti in stanze orientate a sud-ovest, sull’importanza di assicurare un monitoraggio costante degli insetti nelle bibliote-che e sulla prevenzioen dei danni alle opere esposte mediante un'attenta progettazione dell’area espositiva In seguito a questi casi sporadici, un corpo coeso di conoscenze noto come housekeeping (it. “manutenzione delle case”) emerse nel XVI secolo in Inghilterra. Le pratiche di housekeeping, che consistevano in direttive per la manutenzione e la gestione del personale in case di proprietà, venivano tramandate in diari, manuali, lettere e dipinti. Queste linee guida includevano racco-mandazioni per il controllo dell’umidità, del calore, luce, degli insetti, della polvere e per la prevenzione dei danni causati da abrasioni. La tutela dei beni culturali si è spesso materializzata in attività programmate che comprendono sia un regolare mo-nitoraggio che manutenzione. Una coscienza della necessità di prevenire il deterioramento costante e cumulativo dei beni culturali esiste quindi da migliaia di anni. La guerra e la minaccia dei rischi Sebbene il concetto di prevenzione continua fosse probabilmen-te già radicato nella pratica quotidiana, fu la perdita totale o la paura di perdita totale, a risvegliare la necessità di innescare attività di conservazione preventiva più strutturate. Il settore della conservazione del restauro è ormai consapevole delle misu-re di sicurezza e dell’evacuazione delle raccolte museali del Bri-tish Museum e della National Gallery effettuate nei mesi prece-denti i raid aerei della Prima Guerra Mondiale. In seguito ai danni conservativi causati da un improprio stoccag-gio delle collezioni del British Museum, venne fondato il labora-torio scientifico all’interno del museo. Questo episodio contri-buì alla migrazione progressiva della scienza nel mondo dei musei. Lentamente, la prevenzione e lo studio dei meccanismi di deterioramento sono stati aggiunti alle tradizionali attività dei laboratori di restauro. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l'uso di raid aerei fu intensificato, mentre i beni culturali vennero saccheggiati e depredati intenzionalmente. Come le minacce cambiavano così le collezioni del British Museum furono spostate più volte. Presso la National Gallery, il personale aveva ricevuto un adde-stramento alle emergenze particolari, permettendo così alle intere collezioni di essere evacuate solo tre giorni prima della dichiarazione di guerra. I lavori furono successivamente spostati in ambienti con clima controllato: i sotterranei di alcune cave di ardesia del Galles.

In Italia, un’operazione poco nota, ma di proporzioni conside-revoli, fu condotta per proteggere il patrimonio culturale mobi-le ed immobile sotto la guida del Ministro della Pubblica Istru-zione Bottai del regime fascista. Quando scoppiò la guerra, fu detto che la maggior parte dei beni culturali dell'Italia era stata resa "invulnerabile" ai danni. In tutta la penisola, edifici storici e monumenti furono protetti strutturalmente con impalcature, muri di sostegno, contrafforti e pilastri. L’Istituto Centrale del Restauro (ICR), fondato a Roma nel 1939, creò un Consiglio Tecnico incaricato di verificare l’idoneità delle condizioni am-bientali delle opere d'arte durante la guerra. Opere mobili dai più importanti centri artistici furono trasferite in centinaia di depositi, lontani da ogni obiettivo militare Con le esperienze delle guerre, emergeva una base di conoscenze importante per giustificare la crescente spesa per la protezione di intere collezio-ni, piuttosto che interventi su singoli beni. Di fronte a minacce generalizzate, catastrofiche e urgenti, l’Italia programmò ed attuò un’operazione di singolari proporzioni. Dopo la guerra, la grande sfida sarebbe stata la protezione dei beni culturali del paese contro un progressivo degrado, e contro l’abbandono e l’incuria.

La Commissione Franceschini: una prima possibilità per l’Italia Negli anni sessanta e settanta del Novecento, l'Italia ebbe diver-se occasioni di adottare misure di conservazione preventiva, ma tali tentativi fallirono già in fase di attuazione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la prosperità economica dei paesi alleati stimolò una rapida crescita, tecnologica e industriale, e l'espan-sione del settore edile. Grida di disapprovazione si fecero sentire a livello internazionale nel settore dei beni culturali. L'Interna-tional Council of Museums (ICOM 1962, res 4; traduzione dell’autore) deliberò di proteggere il patrimonio culturale e naturale da una rapida industrializzazione e da "l'era meccanica". Analogamente l’ International Council of Monuments and Sites (ICOMOS) espresse la sua volontà di proteggere il patri-monio monumentale da uno sfrenato e disarmonico sviluppo. Prima della Seconda Guerra Mondiale, l'Italia era fondata su un’economia principalmente rurale e sottosviluppata. In segui-to fu industrializzata rapidamente con l'afflusso di finanziamenti internazionali per la ricostruzione. Nuove infrastrutture furono sviluppate, fiorì l'industria e la popolazione cominciò a muover-si fuori dai centri storici verso le periferie di recente costruzione. In Italia questo importante cambiamento socio-economico è stato ritenuto responsabile del lento avvio di degrado urbano e ambientale. In risposta alla minaccia imminente di costruzione abusiva e di speculazione edilizia, fu aperta una pubblica inchie-sta nel 1964. Comunemente chiamata Commissione 'Franceschini' dal ministro che la presiedeva, questo gruppo era composto da 16 membri del parlamento e 11 esperti di storia dell'arte, archeologia, diritto e biblioteconomia. La Commissio-ne fu incaricata della revisione della legislazione vigente, del quadro amministrativo e dei meccanismi di finanziamento per la protezione del patrimonio culturale. A seguito di un’approfondita analisi della situazione furono emesse 84 rac-comandazioni. Queste furono sintetizzate in nove “raccomandazioni” per un'azione urgente, indicando chiara-mente un crescente desiderio di cambiamento sociale: - Urgenza di provvedere alla sicurezza del patrimonio culturale. - Provvedimenti d’urgenza per la difesa ambientale - Catalogazione dei Beni culturali - Restituzione di Beni a dignità artistica - Provvedimenti d’urgenza contro deturpazioni di Beni culturali - Sedi per gli organi centrali e le istituzioni scientifiche nazionali - Provvedimenti d’urgenza per la formazione del personale scien-tifico e tecnico - Interventi per l’arte contemporanea - Educazione e sensibilizzazione dei cittadini al rispetto dei Beni culturali (CITVPSAAP 1967, 133-139).

L'Ufficio Centrale per il Catalogo e la Documentazione, fonda-to nel 1969, fu un risultato diretto della terza raccomandazione. Seguirono ulteriori due Commissioni: la 'Papaldo' I (1968) e la 'Papaldo' II (1970). Il loro scopo era quello di estrarre dalle di-chiarazioni e raccomandazioni della Commissione Franceschini ciò che poteva essere trasformato in legislazione. Purtroppo, niente si materializzò di questo lavoro e le raccomandazioni non furono mai esaminate dal Parlamento Lo storico del restauro e la conservazione Bruno Zanardi (1999) sostiene che le Commissioni Franceschini e Papaldo furono inconcludenti per tre motivi principali. In primo luogo, la lobby di sviluppo immobiliare, saldamente ancorata all'interno del governo, ostacolò intenzionalmente l'attività delle commissioni. In secondo luogo, la burocrazia italiana era notoriamente lenta e inefficace. In terzo luogo, nel 1968 la priorità in Europa fu data al far fronte alle violente rivoluzioni ed alla democratizza-zione delle università. Anche se raramente menzionate, le implicazioni economiche portate da queste raccomandazioni avrebbero potuto essere notevoli, in quanto avrebbe richiesto un aumento significativo dei fondi stanziati per i beni culturali. Purtroppo, sarebbero passati diversi anni prima che l’idea di tutela globale del patri-monio fosse stata resuscitata. Giovanni Urbani: una seconda possibilità per l’Italia Dalla specificità alla globalità Anche se il lavoro delle Commissioni Franceschini, Papaldo I e II fu inconcludente, ci fu una certa presa di coscienza pubblica del rapporto precario tra il patrimonio culturale e naturale. Nel 1966, le alluvioni di Firenze e Venezia furono un richiamo violento a questa fragilità. Nello stesso anno, si verificò una frana ad Agrigento, in Sicilia, mostrando le gravi conseguenze di una sfrenata espansione urbanistica e della speculazione edilizia nella Valle dei Templi. Nei primi anni Settanta, i tempi erano maturi in Italia per riesaminare ciò che poteva essere fatto in concreto per affrontare questi problemi e prevenire danni futuri. In un'intervista radiofonica, Giovanni Urbani, storico dell'arte, restauratore e futuro Direttore dell'ICR (1973-1983), espresse che l'essenza del problema in Italia stava nella capacità di fonde-re la protezione del patrimonio naturale e culturale in un unico piano. Egli osservò che, dal 1967 al 1976 la spesa pubblica sul 'restauro' (cioè interventi di natura di estetica su oggetti singoli) era decuplicata, senza alcun miglioramento riscontrabile nelle condizioni generali dei beni culturali in Italia. Urbani propone-va qualcosa di radicalmente diverso dall’intervento di restauro classico, cioè la conservazione preventiva. Sosteneva che la scien-za aveva un ruolo importante da svolgere nella conservazione, ma solo se fosse applicata a campioni di quantità importanti, per esempio intere raccolte, e non a singoli oggetti. Nel fondere la protezione della natura con quella dei beni culturali, e nell’orientare decisioni di conservazione in base ad indagini scientifiche, si otteneva una manifestazione concreta della sua visione integrata e globale della conservazione. La conservazione programmata e il Piano pilota dell’Umbria È stato affermato, anche se lo stesso vale per altri paesi, che il patrimonio culturale italiano è un caso unico per l'importanza del legame con il territorio, della sua distribuzione geografica capillare, della sua stratificazione e continuità per millenni, e per la sua presenza in quantità notevoli. Nel 1976, Urbani pre-sentò al Ministero Italiano dei Beni Culturali il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria (ICR 1976). Una volta attuato, il Piano pilota avrebbe fornito una visione più comprensiva della vulnerabilità del patrimonio cul-turale mobile ed immobile, nonché del suo grado di esposizio-ne a diversi fattori di deterioramento: geologico-sismici, meteo-climatici, inquinamento atmosferico, e spopolamento. Questo avrebbe potuto consentire al Ministero dei Beni Culturali di prendere decisioni di conservazione entro un quadro sistemati-co e programmatico. Come prima tappa,i dati erano stati raccol-ti nella regione Umbria, laddove i nuovi strumenti per la gestio-ne dei rischi e per la formazione sarebbero poi stati messi in applicazione. Avrebbe seguito un piano per il territorio intero che tenesse conto della specificità culturale di ciascuna regione. Secondo Urbani stesso, la conservazione programmata era una "tecnica" che comprendeva "l’insieme delle misure periodiche preventive atte a mantenere quanto più possibile costante e bassa la velocità di deterioramento dei materiali antichi". Il Piano Pilota aveva tre obiettivi principali: - la valutazione degli effetti di alcuni fattori di deterioramento (…) sullo stato di conservazione dei beni culturali dell’Umbria; - la definizione delle varie tecniche di rilevamento e intervento, e dei relativi programmi operativi, mediante cui assicurare la conservazione dei beni predetti; - la definizione della struttura e delle dimensioni di un organi-smo tecnico territoriale per la regolare attuazione dei program-mi di rilevamento e intervento (…). definire le tecniche da utiliz-zare per la documentazione e trattamenti, e istituire programmi di manutenzione del patrimonio culturale.

il bastion contrario oirartnoc noitsab li

L’ITALIA E LA STORIA DELL A CONSERVAZIONE PREVENTIVA Di SIMON LAMBERT, consulente presso l’ICCROM (Roma) [email protected]

Protezione dell’Ara Pacis a Roma. Credits: Lazzeri, 1942

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Novantatrerosso NUMERO 6

Novantatre rosso

EDITORE Associazione Bastioni PRESIDENTE Daniela Murphy [email protected]

Sede legale: Via San Niccolò 93r 50125 Firenze

TIPOGRAFIA Tipografia RISMA di Barbagli Simone Via degli Alfani 22r 50121 Firenze

DIRETTORE RESPONSABILE Francesca Attardo [email protected]

L’Associazione Bastioni é un’associazione senza scopo di lucro costituita nella sua maggioranza da restauratori e conservator i professio-nisti specializzati in diversi settori del restauro delle opere d’arte. Lo scopo dell’associazione é quello di svolgere ricerche su materiali quotidianamente usati nel campo del restauro, studiare soluzioni alternative alle tante problematiche ancora esistenti nel se ttore, nonché approfondire la conoscenza delle tecniche artistiche usate nel passato. L’Associazione Bastioni vuole essere una sede aperta al dialogo e allo scambio quotidiano fra i tanti professionisti che lavorano nel campo del restauro. Lavoro che, come ben sappia mo tutti, richiede passione, rispetto, onestà, ed un’infinita voglia di conoscenza.

IL PATRIMONIO NON SI PUO’ TOCCARE Di ANDREA CIPRIANI,

restauratore - Presidente dell’Associazione“La Ragione del Restauro” www.laragionedelrestauro.org

In una fase preliminare, i dati erano stati raccolti in Umbria per capire la composizione e la distribuzione regionale dei beni culturali e dei fattori di deterioramento selezionati. Furono create schede per la catalogazione dei vari tipi di beni, e diverse mappe regionali indicando la concentrazione e l’intensità dei fattori di deterioramento. In un futuro lontano, una volta la conservazione programmata integrata nelle politiche ministeriali, Urbani riteneva che all'Ita-lia sarebbe anche servita una nuova ed innovativa legislazione per la tutela dei beni culturali. Era anche convinto che il Mini-stero dei Beni Culturali doveva aumentare la sua presenza terri-toriale, decentralizzando il proprio potere e avviando una nuova collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, il Ministero della Pubblica Istruzione e con gli enti regionali. Purtroppo, niente di tutto ciò fu mai attuato. Il fallimento del Piano Pilota Nei mesi seguenti la pubblicazione del Piano pilota di Urbani, emerse una polemica di cui Perrotta (2004) fornisce un riassun-to. Sembrava che l'ICR fosse stato criticato severamente per aver affidato al settore privato lavoro che sarebbe dovuto rimanere nel settore pubblico. In breve, il Piano pilota nasceva da una collaborazione con TECNECO, una filiale dell’ENI. Successive disapprovazioni arrivarono dal Partito Repubblicano (allora al potere), che sosteneva che con questo suo piano Urbani cercas-se di appropriarsi del ruolo della Regione. Questo creò un’agitazione considerevole all’interno della Soprintendenza dell’Umbria, la quale si oppose al progetto categoricamente. Roberto Abbondanza, allora ispettore regionale per i beni cultu-rali in Umbria, dichiarò sui quotidiani nazionali che il suo ruo-lo era stato usurpato e che il Piano pilota doveva essere riscritto per intero. Inoltre, il Partito Comunista sosteneva che Urbani volesse fare guadagnare l’ENI per la correzione dei propri errori, visto che il progetto si concentrava in parte sul degrado associa-to all’inquinamento industriale. Il Partito Comunista affermava anche che nel promuovere la privatizzazione della gestione del patrimonio culturale, il Piano pilota era antidemocratico. Zanardi, un ex-studente di Urbani presso l’ICR, ritiene che questa polemica è stata alimentata intenzionalmente dalla buro-crazia ministeriale, e da sovrintendenti e professori universitari non qualificati per commentare il contenuto tecnico e scientifi-co del progetto. Ciò avvenne, sostiene Zanardi, perché tutti avrebbero perso il loro controllo manageriale nel momento in cui il Piano pilota fosse stato attuato. Giorgio Torraca, un caro amico e collega di Urbani, spiegava che Urbani odiava gli ostacoli, e anche se era lui stesso un fun-zionario pubblico, Urbani non accettò mai i principi fonda-mentali della pubblica amministrazione italiana. Anche se la collaborazione con TECNECO era stata inizialmente proposta ad Urbani dal Ministro social-democratico Matteotti, anche lui amico di Urbani, lavorare con la società era equivalente ad aggirare i consueti canali burocratici ed esporre il progetto ad opposizioni. Dopo una serie di controversie con il Ministero dei

Beni Culturali su questa e altre questioni, alla fine, Urbani si dimise dal suo incarico di Direttore dell’ICR nel 1983. Uno dei pochi risultati concreti del Piano pilota apparve qualche anno dopo. Il progetto per la Carta del Rischio del Patrimonio Culturale fu attivato nel 1987 sotto la direzione di Pio Baldi, un architetto dipendente dell’ICR. La Carta sviluppava uno degli aspetti del Piano pilota, cioè la mappatura della distribuzione dei beni culturali e dell’intensità dei fattori di deterioramento. Ur-bani, anche se non fu consultato nel progetto, lo guardava con favore: Una tale carta (…) permette di organizzare il lavoro in rappor-to a qualcosa di definito, analizzato, che impone delle scadenze. Oggi i soprintendenti non hanno nulla di tutto questo. E di manutenzione non se ne parla. Dal punto di vista tecnico da questo può nascere una politica di tutela vera e propria. Da tempo si è detto che la Carta del Rischio sarebbe stata utilizza-ta come strumento per la gestione della conservazione a livello nazionale. Eppure, 20 anni dopo, queste promesse non sono ancora state mantenute a pieno. Discussione Come è avvenuto negli anni della Commissione Franceschini, la costruzione abusiva e la speculazione edilizia sono tuttora problemi molto attuali ), i quali continuano ad avere un impat-to nefasto sulla conservazione dei beni culturali in Italia. In un paese con una forte tradizione burocratica, spesso difficile da conciliare con le esigenze del settore privato, ci si può chiedere se il destino del Piano pilota sarebbe stato diverso se Urbani avesse messo da parte la sue convinzioni personali ed avesse agito seguendo l’iter burocratico previsto dal Ministero dei Beni Culturali. Certo, è probabile che senza il supporto di TECNE-CO, questo documento non avrebbe mai visto la luce. Anche se aneddoti personali e resoconti delle controversie aiu-tano a contestualizzare gli eventi che hanno portato al fallimen-to del Piano pilota, gli aspetti economici e morali dovrebbero essere ulteriormente sottolineati. Nel 1976, la spesa pubblica annuale per il restauro di proprietà pubbliche e private di mo-numenti, gallerie e siti archeologici fu di circa 35 miliardi di lire. L’attuazione del Piano pilota sarebbe costata solo circa 1,4 miliar-di di lire (escluso il tempo del personale), o il 4 % di tale impor-to. Questo solleva una questione che è centrale alla nozione stessa di conservazione preventiva. Quanto denaro era disposta ad investire la pubblica amministrazione italiana nel 1976, per prestazioni di cui avrebbero usufruito generazioni future? Al contrario del restauro, la conservazione preventiva non ha risul-tati visibili e adottarla richiede un significativo cambiamento di mentalità. Recentemente, Michalski ha utilizzato il concetto di tasso sociale di sconto (TSS) per indagare sul processo decisionale inerente alla conservazione. L’autore offre la seguente parafrasi per il TSS: ”l'interesse che qualcuno è disposto a pagare (...) per otte-nere qualcosa adesso 'a credito'." Applicato alle due iniziative principali discusse in questo articolo, si può dire che l'Italia

operava con un TSS elevato. In altre parole, nell’omettere di investire nella conservazione a lungo termine in passato, quella generazione è riuscita ad amplificare le perdite e il deteriora-mento dei beni culturali per cui è responsabile ora. Vale la pena notare che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) si interessa tuttora a singoli interventi di restauro con alta visibilità e commerciabilità, com’è ben visibile nella sezione “Grandi restauri” del suo sito web. Uno dei pochi (se non l'unico) piano di conservazione naziona-le attuato con successo è lo spesso citato Deltaplan nei Paesi Bassi. Invece di prendere origine da professionisti nel settore dei beni culturali, la spinta per questo piano è arrivata da una rela-zione del 1987 emessa dalla Corte dei Conti, che evidenziava problemi maggiori nel modo in cui i fondi pubblici venivano spesi per la conservazione delle collezioni nazionali. Per svilup-pare il Deltaplan, le istituzioni interessate sono state consultate sistematicamente, istituendo un interscambio tra loro e il gover-no centrale. Preziose lezioni possono essere tratte da questo episodio sul valore di istituire consultazioni con le parti interes-sate per assecondare l’introduzione della conservazione preven-tiva e l'importanza di fornire forti giustificazioni finanziari per favorire la sua attuazione. Conclusione In Italia, le questioni inerenti ai beni culturali sono regolate dallo Stato, e la prevenzione e la manutenzione sono iscritte nel Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici (MiBAC 2004, art. 29). Anche se le strutture per facilitare l’attuazione di una strategia nazionale per la protezione dei beni culturali sono presenti, leggi e regolamenti non hanno ancora dato luogo ad un piano d’azione concreto. Attualmente, la conservazione preventiva è senza dubbio la soluzione a lungo termine più conveniente per l'Italia, questo in particolare, visto che dal 2007 la spesa pubbli-ca per la tutela e la promozione del patrimonio culturale in Italia è stata ridotta del 35%. Recentemente, Roberto Cecchi, Direttore Generale del patri-monio storico artistico ed etnoantropologico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha così commentato la rovina dei siti archeologici di Roma sul New York Times: "È’ necessario impostare metodi e regole. Dobbiamo iniziare a pensare al futu-ro, non solo rispondere quando la crisi è già in atto" . Ora, oc-corre un impegno formale da parte del governo centrale per avviare questo cambiamento di mentalità. Meglio tardi che mai.

Nell’ultimo triennio i tagli alla Ricerca, alla Cul-tura, all'Istruzione e all'Università oltre che sul sistema pubblico di tutela e sul MIBAC ammontano a 1 miliar-do e 402.092.902,83 euro (D. L. 112/2008). Pensando che siamo già il fanalino di coda tra i paesi sviluppati in quanto a risorse destinate ai Beni Culturali, il quadro è quantomeno desolante. L’endemica mancanza di risorse e di attenzione - non solo economica- destinata al settore dei Beni Culturali impedisce, di fatto, una seria politica di programmazione per quanto riguarda la tutela, la valorizzazione, la gestione, la manutenzione e il restauro del patrimonio storico artistico, con ovvie ripercussioni sul suo stato - già precario - di salute generale. Gli effetti sono ben visibili: impossibilità a far fronte anche alle normali esigenze di tutela e dunque continuo stato di

emergenza; il tutto aggravato dalla mancanza di politiche che inseriscano i Beni Culturali tra le priorità di sviluppo economico e culturale del Paese. In questo triste scenario le professionalità che operano nel settore non godono della dovuta tutela e del giusto riconoscimento professionale; stiamo così dissipando un ulterio-re ricchezza: un patrimonio intangibile ed incorporeo costituito dalla passione e dall’amore di chiunque abbia scelto una professione legata ai Beni Culturali. Che sia restauratore, archeologo, bibliotecario e cosi continuando, tutti hanno fatto una scelta precisa di vita seguendo, concedetemi il termine, “una vocazione”. Ed è anche per questo che tanti di noi si stanno impegnando per difendere il proprio lavoro, che non è appunto solo un lavoro, ma anche un sogno, un progetto faticosa-mente costruito investendo risorse economiche ed emotive, per fare del nostro lavoro la nostra vita. Questo patrimonio immateriale di saperi e di passione è una ricchezza su cui vale assolutamente la pena puntare; si deve - si dovrebbe - guardare a queste professionalità, a queste persone, come a un’occasione unica, come a un ricco giacimento diffuso capillarmente su tutto il territorio nazionale cui attingere nell’interesse stesso del Paese e dei Beni Culturali. In più la localizzazione dei pro-fessionisti sul territorio, la conoscenza dei materiali e delle tradizioni storico artisti-che locali, garantiscono una coerenza anche intellettuale negli interventi, rinsaldan-do il legame tra territorio/bene e coloro che lo tutelano. I nostri operatori sono apprezzati e godono di grande prestigio anche fuori dai confini nazionali, perché rinunciare a priori a gran parte di queste professionalità già formate? Perché rele-garle in ruoli e mansioni subalterne rispetto a quelle che già legittimamente svolgo-no? A chi giova tutto ciò, al Patrimonio Culturale? Stiamo, di fatto, aspettando il restauratore del futuro rinunciando a gran parte di quanti nel presente già svolgo-no legittimamente questa professione . Sembra tutto congegnato in modo che le poche risorse economiche disponibili vadano a pochi eletti. Guardiamo dunque agli operatori come a una possibilità in più per uscire dalla palude in cui è finito l’intero settore dei beni culturali; guardiamo a questo patrimonio d’individui, di sapere, di passione per il proprio lavoro come un’opportunità unica: valorizziamo-ne le professionalità, investiamo nel completamento dei loro profili, se carenze vi sono, considerandoli un’ulteriore risorsa, un’ opportunità in più. Salvaguardiamo dunque anche coloro che non hanno la pretesa di effettuare restauri d’ eccellenza ma che quotidianamente svolgono eccellenti restauri, così neces-sari al nostro dissestato e sterminato patrimonio Storico Artistico.

E’ possibile leggere l’articolo integrale con bibliografia sul blog di Novantatrerosso

URL: http:/www.novantatrerosso.blogspot.com/ L’articolo è stato presentato per la prima volta su CeROArt [Online], 6|2010, pubblicato online

il 18 Novembre 2010.

D: Quando nasce l'Istituto Mne-mosyne e da quale esigenza? R: Mnemosyne è un Istituto di Salvaguardia bresciano nato nel 2005, ma continuatore di una storia tutta bresciana che ha avuto il suo inizio con i dialoghi sviluppati fin dai primi Anni '70 dal direttore di Mnemosyne

Pietro Segala con Giovanni Urbani allora direttore dell’Istituto Centrale del Restauro (dialoghi che han-no, tra le altre cose, rafforzato la Scuola regionale E-NAIP di Botticino e favorito la promozione di innu-merevoli seminari e conferenze). L’Istituto Mnemo-syne è l’ultimo nato di questa esperienza e riunisce personalità, studiosi, docenti, professionisti (locali e nazionali), che hanno costituito una struttura con un comitato scientifico e uno direttivo e con uno statuto che vincola l’ambito della nostra attività al mondo della “salvaguardia” e della durabilità dei materiali e della prevenzione (realtà sicuramente più schiva, na-scosta e meno popolare di quanto non sia il restauro). D: Nel venire a contatto con voi abbiamo letto dell'i-dea di "rivoluzione copernicana" di Giovanni Urba-ni. Può spiegarci meglio il concetto? R: L'ipotesi, che le elaborazioni di Giovanni Urbani costituissero una vera e propria “rivoluzione coperni-cana” per i processi di conservazione del patrimonio di storia e d'arte, è maturata con i Seminari del Proget-to “Ecologia per l'arte” (dei quali si possono leggere alcune relazioni in www.istituto-mnemosyne.it ). Nella scheda di presentazione del 7° Seminario dello stesso Progetto (dedicato a: “Dalla riduzione delle cause di degrado alla promozione delle condizioni della durabi-lità dei materiali di storia e d'arte”), tra l'altro si leggeva: Perché reputo corretto parlare di “rivoluzione copernicana”? Perché, per la conservazione dell'arte, infatti, si continua a operare per le singole opere, anziché per l'adeguamento dei contesti ambientali nei quali sono allocate. La convinzione generale è che solo il restauro serva a conservare le opere d'arte. Per fortuna, peraltro, sia pure con difficoltà (ma in coerenza con le proposte di Giovanni Urbani) comincia a diffondersi la coscienza dell'opportunità di uscire dalla conce-zione “restaurocentrica” che postula il restauro quale “sole” del sistema conservativo. Se ben guardato, nono-stante la sua supposta e conclamata centralità, il restauro (proprio come la Terra) è soltanto un “pianeta” sempre più congestionato e inquinato, il cui limite maggiore è costituito dal prioritario orientamento a riparare (in preva-

lente funzione estetica) le manifestazioni del degrado anziché a rimuoverne (o almeno limitarne) le cause. D: Come vede il futuro dei Beni Culturali in Italia? R: Dal momento che riteniamo il restauro un inter-vento sempre “in ritardo” rispetto al fenomeno di degrado (cioè un intervento su situazioni ormai com-promesse) e, quindi, fondamentalmente inadeguato rispetto alla finalità della conservazione del Bene Cul-turale (qualunque esso sia) ed essendo consapevoli che l’unica strategia malamente applicata in Italia alla tutela dei Beni Culturali è quella del restauro sulle singole emergenze, la nostra risposta non può che essere pessimistica. Il futuro potrebbe prefigurare que-sta situazione: restauri sempre più ravvicinati nel tempo che interverranno sempre più frequentemente sui danni causati dai restauri precedenti - i quali saran-no sempre orgogliosamente etichettati come “inadeguati” senza pensare che anche l’ultimo restau-ro, essendo figlio della propria cultura, sarà ritenuto “inadeguato” dal successivo intervento – in una catena di eventi che mai interverrà sulle reali cause del degra-do ma solo sui suoi effetti distruttivi. D: Quale consiglio darebbe ad un giovane che vuole iniziare la sua carriera come restauratore? R: In questo momento mi sentirei di consigliargli di rileggere gli scritti di Giovanni Urbani e di ragionare sull’importanza della prevenzione anche nel campo della tutela. “Prevenire è meglio che curare” è una massima che (come Mnemosyne va scrivendo ogni mese anche nella Rubrica “Prevenire conviene”del “Giornale di Brescia”) può e deve essere applicata sempre di più ai processi della conservazione delle opere d’arte, ricordando che qualsiasi intervento diret-to sull’opera è potenzialmente dannoso per l’opera stessa, anche quando è ridotto al minimo possibile e anche se preceduto da una campagna diagnostica approfondita e scientificamente fondata. Forse l’idea di scrivere una “Carta dei diritti delle opere d’arte”, che ogni tanto ritorna nel mondo della tutela, è da riprendere e sviluppare con il contributo di molteplici campi del sapere. Solo così potrà essere resa evidente la centralità e la priorità da attribuire alla prevenzione intesa come riduzione programmata delle cause di degrado. Ecco allora che nuove figure professionali come i “tecnici della manutenzione”, con una solida preparazione tecnica e teorica, avrebbero ampi spazi professionali di lavoro.

E’ possibile leggere l’intervista integrale sul blog di Novan-tatrerosso: http:www.novantatrerosso.blogspot.com

L’ APERITIVO CON…

Carlo Minelli Presidente dell’Istituto Mnemosyne di Brescia—Istituto per la Salvaguardia del Patrimonio Storico