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1 © Opera Omnia di Giacomo B. Contri Giacomo B. Contri - Saggi, testi pro-manuscripto, … Giacomo B. Contri 2. [*] NOZIONI FONDAMENTALI NELLA TEORIA DELLA STRUTTURA DI JACQUES LACAN [ 1] Una teoria inclusiva di una mancanza che deve ritrovarsi a tutti i livelli. [2] Premessa Inizieremo da unaffermazione di Jacques Lacan tratta dagli Ecrits: Nellinconscio che non è tanto profondo quanto piuttosto inaccessibile allapprofondimento cosciente, cè chi parla, ça parle: un soggetto nel soggetto, trascendente il soggetto...(p. 437). Se torniamo a Freud in uno dei suoi ultimi scritti, assai breve, pubblicato postumo, [3] troviamo associati intimamente, in un modo che non manca di colpire, largomento stesso quello di una Ichspaltung, di una scissione del soggetto già indicato nel titolo, e una dichiarazione dellautore in apertura dello scritto stesso, in cui l umiltà del tono non nasconde un nuovo progetto ambizioso, consegnato ad altri: “Per un momento mi sorprendo nellinteressante posizione di non sapere se ciò che ho da dire debba essere considerato come qualcosa di assai familiare e ovvio o come qualcosa di interamente nuovo e strano (befremdend). Ma sono incline a pensare in questultimo modo.Crediamo che lopera di Lacan vada collocata in questa prospettiva, in questo presagio di una nuova apertura, termine questo che scegliamo per accostarlo a quello ora ricordato da Spaltung o scissione, poiché una nuova

Nozioni fondamentali nella teoria della struttura di ...€¦ · sarebbe occupato dall·affetto funzionante come soggetto protopatico, ma di un soggetto che nasce come appello cioè

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Giacomo B. Contri

2. [*]

NOZIONI FONDAMENTALI NELLA TEORIA

DELLA STRUTTURA DI JACQUES LACAN [1]

Una teoria inclusiva di una mancanza

che deve ritrovarsi a tutti i livelli. [2]

Premessa

Inizieremo da un’affermazione di Jacques Lacan tratta dagli Ecrits:

“Nell’inconscio che non è tanto profondo quanto piuttosto inaccessibile

all’approfondimento cosciente, c’è chi parla, ça parle: un soggetto nel

soggetto, trascendente il soggetto...” (p. 437).

Se torniamo a Freud in uno dei suoi ultimi scritti, assai breve,

pubblicato postumo, [3] troviamo associati intimamente, in un modo che

non manca di colpire, l’argomento stesso — quello di una “Ichspaltung”, di

una scissione del soggetto — già indicato nel titolo, e una dichiarazione

dell’autore in apertura dello scritto stesso, in cui l’umiltà del tono non

nasconde un nuovo progetto ambizioso, consegnato ad altri: “Per un

momento mi sorprendo nell’interessante posizione di non sapere se ciò che

ho da dire debba essere considerato come qualcosa di assai familiare e ovvio

o come qualcosa di interamente nuovo e strano (befremdend). Ma sono

incline a pensare in quest’ultimo modo.”

Crediamo che l’opera di Lacan vada collocata in questa prospettiva,

in questo presagio di una nuova apertura, termine questo che scegliamo per

accostarlo a quello ora ricordato da Spaltung o scissione, poiché una nuova

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apertura sorge ed è necessaria dove qualcosa che era aperto è stato chiuso,

immobilizzato, malamente suturato, suturato tout court. Pertanto non ci

sembra di compiere una semplice giustapposizione di testi citando qui,

all’inizio di questa esposizione, l’opposizione Hegel-Freud così come Lacan

la formula. Là dove Hegel dà una “soluzione ideale, quella, se così si può

dire, di un revisionismo permanente, in cui la verità è in riassorbimento

costante in ciò che essa ha di più perturbante” (p. 797), Freud “riapre alla

mobilità da cui escono le rivoluzioni, il giunto fra verità e sapere” (p. 802).

[4]

La difficoltà stessa presentata dallo stile lacaniano, attinente all’unità

di movimento implicito nel suo oggetto, nel suo metodo e nel suo

insegnamento, non è anch’essa inquadrabile in quella specie di piccolo

testamento lasciato da Freud? Gli Ecrits di Lacan infatti sono anche strani,

singolari, befremdend, o puzzling per usare un termine felice della

traduzione inglese.

Il soggetto in questione, soggetto dell’inconscio, è quello che Freud

ha potuto far avanzare con la scoperta dell’inconscio e, distintamente,

dell’Es, nel momento in cui né la nozione del soggetto psicologico —

intenzionale, soggetto della conoscenza, del sapere saputo, della

comprensione —, né la sua contestazione oggettivistico-

comportamentistica lo avevano saputo rimettere in rilievo, portare alla luce,

dopo la sua oscurazione — l’oscurazione della sua questione, la questione

dell’essere del soggetto — come effetto storico di quell’operazione

storicamente determinata che è il sorgere della scienza moderna, nel

momento che Lacan fa coincidere con il Cogito cartesiano, come momento

di un certo rimaneggiamento universale dell’incline umano, che è ordine

simbolico o di linguaggio.

Se si va al cuore dei processi primari, quelli che “danno all’inconscio

il suo regime” (p. 728), si potranno ritrovare le tracce di questo soggetto,

privo di conoscenza e rimosso dalla conoscenza, anzi il suo stesso nascere.

Non si tratta né di un nucleo soggettivo autonomo presente

all’origine — origine inevitabilmente mitica non meno della concezione che

lo formula — né, secondo un’altra versione della stessa concezione, di un

Io progressivamente sorgente là dove fino a un certo punto il suo posto

sarebbe occupato dall’affetto funzionante come soggetto protopatico, ma di

un soggetto che nasce come appello cioè come effetto di un messaggio non

indirizzato ad alcun soggetto già costituito e in ascolto di ciò che gli si può

dire. Esso nasce come effetto di linguaggio, come chiamato all’essere da un

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desiderio inconscio che ha origine nel linguaggio perché è dal linguaggio,

non dalla società o dalla natura, che nell’ordine umano si costituiscono le

funzioni di padre e madre, di uomo e donna, nel loro desiderio di generare

in funzione di ciò che, in modi diversi per l’uno e per l’altro, si sottrae,

manca, al livello stesso e allo stesso livello del linguaggio, causando per la

sua indisponibilità il desiderio di rappresentarlo, ri-presentarlo, riprodurlo.

Questo messaggio, questo desiderio, questo investimento

significante è implicito nell’inconscio ed è l’inconscio a trasmetterlo, non

come soggetto che comunica a e con un altro soggetto, ma come struttura

che ri-crea qualcosa di Mercato, a partire da ciò di cui essa difetta affinché

quello ne occupi il posto, perché faccia funzione di presenza nella sede di

una mancanza, come luogotenente del difetto originale della struttura

significante o logica che è l’inconscio.

Questo messaggio è emesso incessantemente, insistentemente, e non

potrebbe essere altrimenti. L’inconscio è in moto perché — ma dovremmo

dire meglio: il moto dell’inconscio consiste nel fatto che — ogni suo

elemento ruota intorno al solo centro concepibile in questo universo: un

difetto o una mancanza. Esso non farà altro che rappresentare sempre la

stessa cosa. E non: questa cosa è rappresentata per qualcuno, ma: qualcuno

è rappresentato per rappresentare qualcosa. Il soggetto è chiamato a

rappresentare la cosa che non è accessibile, e, poiché è accessibile solo ciò

che è rappresentabile, il soggetto è chiamato come rappresentante della

rappresentazione impossibile. In questa funzione di rappresentante il soggetto

non è però solo, e lo vedremo quando parleremo di ciò che Lacan chiama

oggetto a.

Il messaggio così emesso dall’inconscio costituisce un deposito

all’insaputa del soggetto, clic pure ne risulta determinato, e di cui il soggetto

non è né sciente né co-sciente (cioè in comune con un altro soggetto).

Questo deposito è un sapere senza soggetto, che all’opposto di ogni altro

sapere sopravvenuto, non ammetterà mai un soggetto che se ne faccia

l’enunciante, sia pure in un momento secondo di un recupero o una

riappropriazione che restituisca al soggetto ciò che si era prodotto senza di

esso — come nella concezione fenomenologica o in quella archetipica —,

ma fonda il soggetto dell’inconscio come soggetto dell’enunciazione,

soggetto all’enunciazione. “Che ci sia un inconscio vuol dire che c’è un

sapere senza soggetto.” [5] E altrove Lacan definisce il Trieb freudiano “un

sapere che non comporta la pur minima conoscenza, essendo inscritto in un

discorso di cui, come lo schiavo-messaggero dell’uso antico, il soggetto…

non sa né il senso né il testo, né in quale lingua è scritto” (p. 803).

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Posizione della mancanza

Riprendiamo dal processo primario così come Freud lo concepisce,

nel suo rapporto di preminenza rispetto ai processi secondari: non solo e

non tanto in quanto questi siano, per così dire, disposti all’occorrenza a

ritirare le proprie esigenze, ma in quanto essi propriamente servono i

processi primari e, lungi dal rappresentare il primato finalmente raggiunto

della realtà intesa come il normale e valido interlocutore del soggetto, o di

una normatività realistica, non fanno che rappresentare, una volta di più, lo

statuto di subordinazione della “realtà” (oggetti, bisogni, leggi, percezioni)

rispetto a un’altra dimensione che sull’attributo “reale” avanza propri e

speciali diritti. Anzi, mentre correntemente usa privilegiare i processi

secondari dell’attributo della “maturità”, si potrebbe anticipare che

l’elemento simbolico messo in vigore nel discorso lacaniano, il significante,

a fortiori, poiché era già lì a esercitare i suoi effetti, anche nei riguardi di

questa maturità secondaria, è lui a essere veramente “maturo”.

Si potrebbe riassumere nei termini seguenti la legge primaria dello

psichismo nella sua tendenza all’identità di percezione” propria secondo

Fremi dei processi primari: 1) esso vive di un’esigenza essenziale di

soddisfazione; 2) tale soddisfazione consiste in un ritrovamento, e non nella

soddisfazione di un bisogno. L’inconscio non conosce il bisogno, del cibo

per esempio, e quando l’oggetto del bisogno viene ad occuparvi un posto,

esso sarà già altro, concatenato con altri oggetti in modo strano cd estraneo

al bisogno. Specifici bisogni, la nozione stessa del bisogno, potranno entrare

in questa catena allo stesso titolo di tutti gli altri possibili oggetti; 3)

l’oggetto di questa ricerca di soddisfazione è perduto. Ciò implica anche che

un oggetto perduto può essere l’oggetto di una ricerca inesorabile, cioè il

fatto di essere perduto non lo rende meno oggetto, e il fatto di essere

oggetto non lo rende meno perduto.

La ricerca tende all’oggetto in quanto perduto. Esso esiste come

mancante all’esterno dove è sperimentato come ciò che viene meno, che si

sottrae (per esempio le assenze della madre, la non disponibilità del seno, e

forse più ancora l’esaurimento del seno). L’esterno è incontrato, in termini

radicali, come ciò che è essenzialmente caratterizzato dal venir meno, dal

decadere, e a un tempo come ciò da cui quello che è vissuto come

soddisfacente si stacca (esempio: il seno dal corpo materno) per il fatto del

suo venir meno.

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Già nella più elementare delle esperienze si presenta così.

simultaneamente, una serie di temi collegati dell’esperienza di soddisfazione

in rapporto con l’oggetto in quanto caduco, parziale, diviso, staccato.

É in questo punto che si ha come un primo abbozzo della

soggettività: nel sorgere di una questione di esistenza, nella rivelazione

dell’esistenza là dove qualcosa si produce non come presenza ma come

mancanza.

Nella mancanza come la proprietà fondamentale dell’oggetto si

fonda la funzione significante o di rappresentazione, che è funzione di ri-

presentazione: l’oggetto mancante non è mancanza pura, non manca di

ritornare. Il seno esaurito ritorna come seno allucinato, come ri-

presentazione, cine come significante, oggetto significante: è sempre

oggetto, però non è più quell’oggetto semplicemente, ma attivo, con la

funzione (li ri-presentare qualcosa di diverso da lui, e che non è

rappresentabile: rimosso.

Qualcosa in meno, la mancanza, ha prodotto qualcosa in più,

qualcosa che è lì per un qualche effetto di significazione. Sarà questa

funzione a dominare i processi primari e a interferire con tutta l’esperienza

umana.

I processi primari tendono a risperimentare, a far ritornare, a ri-

presentare ciò che una volta si è presentato conte soddisfacente, cioè

all’identità di percezione. Ma è qui che nasce la difficoltà, la questione, la

divisione. Nell’allucinazione — quella propriamente detta, così come quella

del sogno — la rappresentazione in scena, clic riproduce indubbiamente lo

stesso oggetto che ha soddisfatto il bisogno, non è tuttavia la

rappresentazione legata al desiderio inconscio che l’ha messa in scena. A il

desiderio inconscio, dice Freud, a produrre l’allucinazione cioè la

rappresentazione; ma ciò che vi appare, di cui si ha coscienza, non è

l’oggetto del desiderio inconscio. Il desiderio tende per sua natura ad

allucinare il suo oggetto, ma sulla scena tale oggetto resta nascosto, non si

ripresenta: la rappresentazione fallisce, l’identità non è raggiunta; la

tendenza all’identità di percezione rimane come motore, ma manca il suo

scopo.

M. Safouan, dopo aver citato il seguente passo di Freud riferito al

“sogno dell’iniezione a Irma”: “Non avviene che un desiderio sia cosciente

e successivamente la sua realizzazione allucinatoria. Solo quest’ultima sarà

cosciente, e l’anello intermedio (il desiderio) deve essere inferito”, conclude:

“Basta questo testo a far rovinare l’interpretazione corrente secondo cui la

rappresentazione allucinata, che riproduce un oggetto di cui il soggetto ha

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precedentemente preso coscienza come quello che ha soddisfatto il suo

bisogno (il seno per esempio), sarebbe la rappresentazione cui si collega il

desiderio inconscio. Si esige di fatto una nuova definizione dell’oggetto del

desiderio nella sua eccentricità radicale in rapporto alla coscienza, così come

nella sua irriducibile distinzione in rapporto ad ogni oggetto del bisogno.”

[6]

Una mancanza impone da sempre, senza che vi sia un’origine, la sua

legge. Se tali ne sono le caratteristiche, non ci si può limitare a collocare tale

oggetto-mancante sullo sfondo della prospettiva che si è aperta di

soddisfazione-ritrovamento, ma va messo all’apertura stessa della

prospettiva, è l’apertura stessa, l’intero spazio dell’apertura, occupandovi

così il posto della causa.

Struttura

L’oggetto del desiderio è perduto non perché un avvenimento dato

l’abbia fatto venir meno. I processi primari tendono a una “identità di

percezione”, ma quella percezione, proprio quella, cui precisamente tendono

tali processi, tanto è quella, quanto non ha mai avuto luogo, allora. Ma se

nessuna espulsione da un interno a un esterno ha avuto luogo, e se l’inizio

(la mitica prima percezione) non è contabile nel seguito dei giorni, se le

nozioni classiche di spazio e tempo non possono dar conto di un evento

tanto impossibile, come il famoso coltello senza manico e senza lama,

occorrerà fare ricorso, per renderne conto, a nozioni appropriate.

Rifiutando la teoria come “modello teorico” cui ridurre la metapsicologia

freudiana, Lacan avanza una nozione di struttura già operante con queste

caratteristiche, e che sarebbe la stessa “macchina originale” operante

nell’esperienza “che vi mette in scena il soggetto” (p. 649).

Contro l’antinomia fra una struttura apparente dell’esperienza o del

fenomeno “naturale” descritto, e una struttura a distanza dall’esperienza che

sarebbe lo stesso “modello teorico”, Lacan propone un modo terzo della

struttura, quella che insiste negli “effetti che la combinatoria pura e

semplice del significante determina nella realtà in cui essa si produce” (p.

649).

Lacan paragona gli effetti della struttura sull’esperienza a “ciò che

una turbina, cioè una macchina ordinata secondo una catena di equazioni,

apporta a una cascata naturale, per la realizzazione dell’energia” (p. 649).

Paragone che mette anche in evidenza la particolare natura dei rapporti fra

il prima e il poi in questo modo della struttura: nello spazio e nel tempo la

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cascata viene prima della turbina, ma ciò che interessa non è la realtà della

cascata, ma la realizzazione dell’energia, grazie a quel dopo che è la turbina.

Cosi a partire da un concetto, realisticamente impensabile, di una

mancanza — formulabile nei termini: qualcosa manca, ma nulla manca nel

reale — si pone l’esigenza di ripensare la logica dei processi soggettivi, e di

costruire i concetti adeguati di una nuova logica. Il primo di questi concetti

è quello di inconscio, senza aver scoperto il quale, dice Lacan, Freud non

avrebbe scoperto nulla, e che deve essere chiarito non avere “la pur minima

realtà come apparato differenziato nell’organismo”: l’inconscio è un

concetto costruito non “a distanza” dall’esperienza, ma sulla strada di una

ricerca logica da proseguire.

La struttura esige un’impossibile percezione prima, non

sovrapponibile né riducibile a un qualsivoglia perceptum “reale”,

un’oscillazione o una divisione a livello del perceptum, al posto dell’univocità

che comunemente e classicamente gli è riconosciuta, con la precisione della

reiterazione hic et nunc di un là e allora. Questa esigenza indistruttibile della

struttura è anche un’indigenza che a nessun riempimento, a nessuna

Erfüllung è dato, di colmare.

La divisione riconoscibile nel perceptum si ripete in ciò che concerne il

percipiens, la cui unità è instancabilmente invocata da diversi autori anche

quando ne è ammessa una profonda oscillazione nel perceptum: si pensi alla

distinzione corrente fra percezione normale, con oggetto, e allucinazione, o

percezione senza oggetto, distinzione ultimamente fondata non sul dato

sperimentale, ma sull’ipotesi preliminare e ideale dell’autoidentità del

soggetto anche nelle sue oscillazioni più estreme.

Si può far notare qui una certa prossimità con il problema

dell’angoscia, correntemente definita come affetto senza oggetto.

Non si tratta di un generico accostamento, ma, quanto al “senza

oggetto”, di una precisa identità di problematica.

La concezione lacaniana di una mancanza o di un difetto strutturale

della funzione rappresentativa, che investe ogni oggetto rendendolo

essenzialmente insufficiente o insoddisfacente, e investe il soggetto

rendendolo diviso, porterà anche a definire l’angoscia e l’allucinazione come

una terza eventualità: non “con oggetto”, non “senza oggetto”, ma non senza

oggetto.

Il suo soggetto esiste come il conciato di tale mancanza circoscritta,

che è sia questa mancanza — dell’hic et nunc della ricerca in cui è impegnato

il soggetto, impegno di cui il soggetto è non il contraente ma la posta: in

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gioco è l’essere del soggetto — sia quella mancanza, oggetto che manca

precisamente là dove è atteso, e dove il soggetto è chiamato a esistere “en

souffrance”, in una “stupida esistenza” o nella sua “imbecillità” di

rappresentante della mancanza dell’Altro, in cui rimarrà fino al momento

della sua nuova nascita quale desiderante, come avviene in modo esemplare,

ma non esclusivo, nella cura: “...la psicoanalisi può accompagnare il

paziente sino al limite estatico del ‘Tu sei questo’, deve gli si rivela la cifra del

suo destino mortale, ma non sta solo al nostro potere di psicoanalista il

condurlo a questo momento in cui comincia il suo vero viaggio” (p. 100).

Valorizzando la metafora della prospettiva già utilizzata,

visualizzabile con il disegno di due linee divergenti, si può vedere che non si

propone qui nulla di comune con la prospettiva disegnata da una psicologia

che al vertice ponga il soggetto, simbolizzabile con un occhio, e nello spazio

che vi si apre il campo della realtà, generando così l’eterna diatriba e

pseudoconflitto intorno al quesito dei diritti da attribuire rispettivamente

all’uno e all’altra. Psicologismo e realismo, od oggettivismo: opposizione —

con tutte le sue varianti, variamente distribuite nelle “scienze umane” in

funzione delle diverse ottiche di cui ciascuna si serve, e nella misura in cui

ciascuna funziona secondo un’ottica — di comodo, sia nel senso che l’una

finisce in qualche modo per accomodarsi o adattarsi all’altra, sia nel senso

che il loro moderato conflitto serve a mascherare la questione fondamentale

dell’identità del soggetto e del suo posto rispetto alla causa. Il modello

prospettico, che subito abbandoneremo, serve a mostrare che lo spazio

dell’esperienza è quello di un’apertura — Lacan propone “beanza”, come

quella di una ferita o di un taglio — i cui estremi non sono occupati da una

visione e dal suo oggetto (ricordiamo qui la polemica freudiana contro ogni

Weltanschauung): l’intero spazio trova il suo determinante principale e

principiale in un’assenza localizzata e senza origine temporale che funge da

causa nella dialettica soggettiva.

Il modello utilizzato andrà abbandonato proprio per ciò che esso

permette di comprendere: sarà il ricorso alla topologia, per il suo modo

particolare di trattare delle superfici, che permetterà di reperire dei

“modelli” adeguati a una logica che non saprebbe più bastare a sé stessa,

rispondere alle proprie esigenze, se non diventando topo -logica.

É la direzione stessa imboccata da Freud clic, avendo costruito un

concetto (quello di inconscio) sul piano logico, è stato necessitato a

costruire una certa topologia per rendere conto delle esigenze imposte

dall’introduzione di questa nuova sorta di concetto.

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Ordine simbolico, catena significante, tratto unario

L’inconscio è caratterizzato dal “non potersi soddisfare che

ritrovando l’oggetto fondamentalmente perduto” (p. 45).

L’inconscio freudiano implica una concezione della memoria, a partire

dall’introduzione, nel “Progetto”, del sistema ψ, primo passo sulla via della

scoperta dell’inconscio.

Lacan prosegue: “Noi insegniamo al seguito di Freud che l’Altro è il

luogo di quella memoria che egli ha scoperto sotto il nome di inconscio,

memoria che egli considera come l’oggetto di una questione rimasta aperta

in quanto condiziona l’indistruttibilità di certi desideri. A tale questione noi

risponderemo con la concezione della catena significante, in quanto una

volta inaugurata dalla simbolizzazione primordiale (il gioco del “Fort-Da”,

messo in luce da Freud all’origine dell’automatismo di ripetizione, la rende

manifesta) questa catena si sviluppa secondo nessi logici la cui presa su ciò

che va significato, cioè l’essere dell’esistente, si esercita attraverso gli effetti

di significante, che abbiamo descritto come metafora e metonimia” (p. 575).

Concezione della memoria in funzione del ritrovamento, che

riprende l’opposizione kierkegaardiana fra ripetizione e reminiscenza, e la

completa “sottraendo all’agente umano identificato alla coscienza, la

necessità inclusa in questa ripetizione” (p. 46). Il gioco del “Fort-Da” è un

esempio della posizione cardine del soggetto nell’alternativa

presenza/assenza, + / l’oggetto del gioco essendo del tutto indifferente allo

sviluppo dell’alternativa: “Questo gioco (...) manifesta nei suoi tratti radicali

la determinazione che l’animale umano riceve dall’ordine simbolico.

L’uomo letteralmente devolve il suo tempo a dispiegare l’alternativa

strutturale in cui la presenza e l’assenza si richiamano l’una all’altra. Nel

momento della loro congiunzione essenziale, o per così dire al punto zero

del desiderio, l’oggetto umano cade sotto il colpo della cattura, che

annullandone la proprietà naturale lo asserve ormai alle condizioni del

simbolo. Veramente qui troviamo uno scorcio illuminante dell’ingresso

dell’individuo in un ordine la cui massa lo supporta e l’accoglie nella forma

del linguaggio, e sovrappone nella diacronia come nella sincronia la

determinazione del significante a quella del significato. Si può cogliere alla

sua stessa emergenza questa sovradeterminazione che è la sola di cui si tratti

nell’appercezione freudiana della funzione simbolica” (pp. 46 sg.).

Per i fini della nostra esposizione, riterremo alcuni aspetti essenziali

di quella che va considerata come la struttura della determinazione

simbolica:

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1) l’ordine simbolico è autonomo e determinante;

2) la sovradeterminazione significante deriva dalle condizioni

privilegiate dell’ordine simbolico, e non è concepibile come

sovradeterminazione reale;

3) la soggettività ha origine come effetto del significante e non

come rapporto con il reale;

4) la natura dell’oggetto è secondaria e la sua importanza è

subordinata.

Il problema che ora ci interessa è di cogliere come sorga il soggetto

confrontato con il difetto strutturale della funzione rappresentativa, e con la

catena significante in quanto tale, o inconscio, o — con una terminologia non

capricciosa che ha il vantaggio e la funzione di definire l’inconscio non

soltanto in termini negativi a partire dalla coscienza come positivo —

l’Altro. Il negativo, la negazione, non esiste che per la coscienza.

L’inconscio, in ciò che ha di più strano — strano solo se si parte, com’è

normalmente, da ciò che essenzialmente lo misconosce, cioè ancora il

soggetto della coscienza stessa — non conosce la negazione.

Esso è corredato di un positivo, di un sapere, esso stesso inconscio,

una memoria, che necessariamente bisogna attribuirgli per il suo tendere

incessante e cieco verso un oggetto che per il fatto di essere perduto non è

tuttavia il puro nulla [7] esclusivo di un qualsiasi sapere. Nella ripetizione

che la muove, ogni forma rappresentativa, ogni significante, non è

concepibile che come ciò che rappresenta qualcosa o qualcuno invece di,

per, un altro significante, che, se si rappresentasse, se comparisse nella

catena, se avesse la possibilità dell’auto-rappresentazione, darebbe

finalmente luogo all’identità, all’identicamente identico instancabilmente

cercato.

In questo gioco di un significante per un altro, il primo è

interscambiabile con qualsiasi altro, avendo in comune con ogni altro il suo

significare-per; il secondo, quello per cui tutti rappresentano, restando

muto, inimmaginabile, incalcolabile, unico, dà a tutti i significanti la loro

funzione comune, che ne permette lo scambio, che è quella di rappresentare

per, e che, in questo, li rende equivalenti fra loro.

Tutti i significanti hanno un tratto comune unico, ma questo tratto è

quello che, unico fra tutti, pone in rapporto con ciò che sfugge alla

rappresentazione. Tale tratto è dunque il significante della ripetizione,

simbolizzabile con I, o anche della non identità a sé di nessun significante o

dell’assenza di identità, che si può scrivere come: “Non: A=A”. Il soggetto,

non potendo reperirsi, identificarsi, essere identico a sé stesso, a livello

dell’oggetto (per-duto), né di un qualsiasi significante (mai identico a sé

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stesso) né di quel significante (non rappresentabile), non potrà che reperirsi

o identificarsi a livello dell’unico significante per cui vale il principio di

identità perché, e proprio e solo perché, è il significante dell’identità

impossibile. Il soggetto vi si identifica, si coglie nell’unico possibile

significante del soggetto. Ma poiché tale significante e significante di una

non autoidentità, di una separazione o una differenza di ogni significante da

sé stesso, di qualcosa che può essere immaginato solo come un taglio o una

divisione, e poiché ogni significante non fa che significare questo taglio, è a

livello di questo, del puro intervallo, che si può riconoscere lo spazio del

soggetto. Il soggetto viene a essere in quanto effetto del significante, là dove

ciascuno significa la sua mancanza a essere (manque-à-être): “Il significante

rappresenta un soggetto per un altro significante.”

Ciò equivale a dire che il primo statuto del soggetto, potremmo

anche dire il soggetto in statu nascendi, preriflessivo e pre-egoico, è a livello

simbolico. Esso vi esiste in quanto appello, in quanto chiamato: per una

profonda necessità strutturale, esso si ritroverà nel suo nome proprio, che lo

attende nel desiderio dei suoi genitori come nella riga vuota del registro

dell’anagrafe. E in quanto nasce come effetto del difetto originale della

struttura, della sua mancanza a essere, il suo essere si riduce alla questione del

suo essere — “chi sono io?”, formulazione discutibile: l’analisi la riformula

in: “Chi è ‘io’?” —, che a un tempo è richiesta insistente di una risposta,

richiesta di un sapere che fonda il soggetto come desiderio di sapere.

Ritroviamo qui la necessità che spiega il fatto altrimenti inspiegabile

dell’immensa ricerca teorica infantile che si rivela nelle complesse, precoci e

a modo loro rigorose “teorie sessuali infantili”, che testimoniano di quel che

definiremmo l’ intellettualismo senza fondo dell’ in-fans , riconducibili la

dove il soggetto sorge come questione del proprio essere e come desiderio

di sapere.

Questa identificazione simbolica permette anche di chiarire un’altra

distinzione freudiana, spesso data per oscura e lasciata in disparte, la

distinzione fra ideale dell’Io e Io ideale: il primo essendo costituito dalla stessa

identificazione simbolica, che funzionerà da filo di Arianna nel labirinto

delle identificazioni immaginarie, ingannevoli nella loro natura e costituenti

l’Io ideale. É importante notare fin d’ora che lo studio dell’ideale e

dell’idealità, così come Freud lo ha iniziato, è stato studio della funzione

soggettiva di idealizzazione, e non applicazione di un ideale, che nel caso

dello scienziato sarebbe l’ideale dello scienziato e miei caso dello

psicoanalista l’ideale dello psicoanalista.

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Come significante del soggetto sorto da una mancanza, il tratto

unario andrà preso come significante di questa tendenza, della tendenza del

soggetto, del soggetto come tendenza o come desiderio. L’ideale dell’Io che

se ne costituisce non avrà altro che una funzione guida del soggetto verso

l’oggetto del suo desiderio: la Verità non è dell’ideale — né dell’ideale

dell’Io, né degli “ideali” dell’Io ideale —, ma del desiderio,

E se l’analisi ha per compito quello di condurre un individuo

all’assunzione del proprio desiderio, prima che alla guarigione dei suoi

sintomi, anzi come “ristabilimento”, non rispetto alla malattia ma delle

condizioni per il dissolvimento dei sintomi, la funzione guida dell’ideale vale

solo fino a un certo punto, quello in cui “inizia il vero viaggio”.

Alla definizione del soggetto come sbarrato, S, in quanto non ha

accesso all’oggetto del desiderio, ma vi entra in rapporto attraverso il

desiderio di un altro, della Madre, che è desiderio dell’Altro, si aggiunge, o

meglio la perfeziona, la definizione del soggetto come divisione. Si tratta della

stessa divisione colta fra significante e significato, cioè come discontinuità,

taglio, nel discorso, e che può essere ripresa come divisione fra sapere e

verità, divisione strutturale.

La discontinuità, il taglio, se può essere considerata come il prezzo

pagato alla perdita d’origine, il debito che il soggetto che viene al mondo

deve pagare alla sua origine, può anche essere presa come un guadagno, se è

quella che fra vero e falso stabilisce una continuità classicamente illogica, ma

logicamente risultante come effetto di linguaggio.

La realtà umana viene così a essere quella di un soggetto che non

coincide con l’esercizio di un discernimento fra vero e falso e con

l’accumulo della verità sul conto del proprio sapere, ma che è soggetto a

una logica di scambio fra dimensioni che si contendono senza fisse

frontiere il suo campo, quello della realtà. Si tratta delle altre due dimensioni,

o “registri”, definite come immaginario e simbolico.

La relazione immaginaria e il suo terzo

All’inizio l’individuo umano è impotente, non sa nulla, è alla mercé

più completa di un altro: da cui dipende non solo nei suoi bisogni di

sussistenza, poiché anche in tali bisogni riceve soddisfazione esclusivamente

in funzione di ciò che rappresenta nel desiderio dell’altro e nei motivi per

cui questi se ne prende cura. Al suo nascere, egli è già altrove che in sé

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stesso, nella pretesa che ha su di lui l’altro, e al posto simbolico che occupa

nel suo desiderio inconscio, e che in questa accezione è altro a diverso

titolo, per la sua azione simbolizzante, e perciò va preso come Altro. La

madre è Madre, Altro realizzato, o meglio occupa realmente il posto

dell’Altro.

Nella condizione iniziale, il significante si esercita sull’individuo

umano allo stato puro, senza alcuna struttura soggettiva di mediazione,

imponendogli, in una prima cattura della realtà umana nell’ordine

significante, la propria condizione, quella che gli autori francesi definiscono

di morcellement, o di frammentazione. La realtà del corps morcelé è tale perché il

significante è tale: frammenti. In questo stadio il corpo è un insieme di

elementi immaginari senza che nessuna funzione soggettiva li unifichi in

una totalità. Condizione di frammentazione irriducibile a una

considerazione realistica del corpo, e riconducibile, nella sua anarchia

regolata, alla sovrapposizione, per meglio dire alla coincidenza, del

significante con il corpo: come si verifica per il corpo nel sogno, nella

psicosi e anche nell’anatomia fantasmatica rigorosamente operante

nell’isteria. E poiché il significante come insieme rappresentativo articolato

attorno a una perdita è l’Altro stesso, e poiché il corpo è il luogo di quella

perdita che è la castrazione, il corpo e l’Altro coincidono per essenza:

l’Altro è il corpo.

Fino a quel nuovo momento soggettivo che sarà l’assunzione di

un’immagine unificata del corpo, il soggetto esiste da e per il significante

senza mediazioni: è il taglio, continuo e mobile, che il significante impone al

corpo in frammenti, dei cui contorni il soggetto può essere inteso come la

mappa intracciabile, perduto in un immaginario senza centro e senza

menzogna, sprovvisto di Io e di parola. Solo vi esiste come riferimento

l’oggetto incontrato come mancanza e restituito come significante, come

rappresentazione fallita salvo che in un punto, quello di dar luogo al

soggetto come votato al significante non rappresentabile,

A partire da un’età variabile, intorno al sesto mese di vita, un nuovo

evento soggettivo può prodursi con quello che Lacan definisce “stadio dello

specchio”: in quel tipo di relazione duale che è costituita dalla coppia

bambino/sua immagine allo specchio, si verifica la prima fondamentale

identificazione nel senso psicoanalitico del termine, quella per cui

l’assunzione di un’immagine produce una trasformazione nel soggetto, e, in

questo caso, quella per cui l’immagine percepita al di là dello specchio si

lega all’insieme degli elementi immaginari del corpo in frammenti

sollevandolo in un’unità e totalità immaginaria, assunzione di una forma che

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“situa l’istanza dell’Io, prima della sua determinazione sociale, in una linea

di finzione” (p. 94).

Possiamo trascrivere la relazione come: corpo-immagine del corpo,

immagine reale-immagine virtuale, i-i’. Il primo lato della relazione, e

dell’equazione immaginaria che attraverso l’identificazione si stabilisce, è

inaccessibile alla percezione del soggetto, che accede alla sua immagine solo

alienandosi nell’al di là speculare. Il corpo per lui non è nulla eccetto che ciò

che gli è dato di cogliere nell’al di là del corpo reale, nell’immagine.

Ma ciò che decide questo importante momento di soggettivazione è

che quell’al di là non si riduce alla dualità della relazione immaginaria: questa

è determinata e guidata dal simbolico, essendo necessaria la presenza di un

Altro reale, la Madre, che esercitando un riconoscimento, in funzione delle

esigenze che le sono proprie cioè il suo stesso desiderio, implicandovi il

bambino come significante del proprio desiderio, autorizza, si direbbe sotto

i suoi auspici, quella coalescenza immaginaria, che ha luogo dunque non in

sé stessa ma altrove, in A.

L’Io come identificazione immaginaria non farà che misconoscere la

sua filiazione in una linea di dipendenza simbolica, la topologia che

generandolo lo include e gli assegna un luogo e una funzione: ma

nonostante la sconfessione della causa, come causalità strutturale, implicita

nella sua stessa struttura di Io, tuttavia non vi si potrà sottrarre, nelle sue

operazioni, nel suo discorso, come già nella sua origine. Le menzogne che

emetterà a partire dalla menzogna iniziale che è l’illusione del credere di

ritrovarsi come soggetto per il fatto di designarsi nell’enunciato — cogito ergo

sum —, sono in qualche modo calcolate e calcolabili essendo preordinate

non da lui. L’Io è misconoscimento, ma non è lui a costituirsi come tale: la

menzogna è un’arte difficile che l’Io non sa esercitare da solo.

L’Io è una struttura che si forma necessariamente, e che corrisponde

a una più profonda necessità strutturale, quella per cui vero e falso non si

oppongono poli/mente, ma per cui la menzogna è una tappa obbligata della

verità storica: il cui tracciato deviante passa per una tappa che è di inganno

o di finta, e una finta complessa perché in essa si finge di fingere, si cerca di

far prendere per falsa una traccia vera. E, più ancora, per ottenere questo

effetto, nell’individuo umano la finta è fondata su una cancellazione delle

tracce, operazione che non sarebbe possibile né concepibile se non per la

garanzia di un ordine Altro, di un ordine che non si riduce alla relazione

dell’alterità immaginaria, Altro rispetto all’altro. “Ma è chiaro che la Parola

non inizia che con il passaggio della finta all’ordine del significante, e che il

significante esige un altro luogo — il luogo dell’Altro, l’Altro testimone, il

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testimone Altro da qualsiasi dei partner —, affinché la parola che esso

supporta possa mentire, cioè porsi come Verità” (p. 807).

È di questo Altro che si deve trattare, in rapporto a quanto si è già

accennato riguardo alla mancanza, al puro soggetto del significante, o alla

relazione immaginaria in cui la Verità trova la sua mediazione, attraverso

falso- e vero-simiglianza. È l’Altro, “luogo trascendentale”, “sito

preliminare del puro soggetto del significante”, “luogo della Parola” e

“testimone della Verità” a dare all’inganno della Parola la sua dimensione.

Sono due e annodati i problemi essenziali rispetto a questo Altro:

1) che esso si mantenga nel suo statuto di alterità radicale, o nel suo

essere terzo, rispetto all’altro della relazione duale in cui ambedue i termini

sono “altro”, interscambiabili —, senza di che nessuna soggettività umana

sarebbe possibile; 2) che esso sia confrontato alla questione della mancanza,

e cioè all’alternativa, che è quella del teorico non meno che quella del

bambino, fra l’Altro come completo o come mancante, come esistente o

come non esistente, come soggetto (assoluto) o come luogo, come

onnipotente o limitato, come libero o come sbarrato esso stesso. In queste

formulazioni si potrà riconoscere la questione del bambino concernente la

castrazione, questione che nel bambino è universale: l’alternativa riguarda non

solo, anche se privilegiatamente, la madre, ma i diversi oggetti (animati e

inanimati, come nel caso del piccolo Hans descritto da Freud), il padre, e,

essenzialmente, lui stesso, e lui stesso quale che sia il suo sesso biologico: il

che conferma non solo l’universalità della questione, ma il fatto che essa è

posta a livello del simbolico e non del reale.

Nell’assunzione dell’immagine speculare non si contempla un Io che

dice: ecco la mia immagine, cioè un soggetto che si riconosce, una struttura

preliminare di riconoscimento, ma un Io che si forma proprio in questo

punto. Si potrebbe dire: l’lo non apprende ma è appreso, preso, catturato. E

questa coalescenza con l’immagine si verifica per l’intervento di mi fattore

terzo. Infatti, è nello sguardo della madre, nella sua approvazione, o nel suo

riconoscimento, che il bambino trova di che e perché riconoscersi,

identificarsi; l’assunzione dell’immagine risulta come riconoscimento di

riconoscimento, l’oggetto-immagine è preso come pegno di riconoscimento

o di amore: io sono ciò che tu mi vuoi là dove tu mi dimostri di volermi.

Sulla via aperta partendo dall’esigenza di soddisfazione, abbiamo così

una seconda dimensione, quella della domanda, distinta da quella del

bisogno, come domanda di amore o di riconoscimento, al di là degli oggetti

che chiede senza ridurvisi.

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Da A ad A. Domanda e desiderio

Su questa via manca che sia compiuto un altro passo. Non

solamente, in rapporto all’Altro, si costituisce l’Io come alienazione

nell’altro, del che l’Altro funziona oltre che come catalizzatore, anche e

soprattutto come il riferimento simbolico; ma anche, con la domanda come

appello incondizionato all’Altro, si ha una dimensione di alienazione del

soggetto nell’Altro, di soggezione del soggetto all’Altro, che si può istituire

solo in un fantasma dell’onnipotenza dell’Altro, in cui: l’Altro è, o: l’Altro

non manca, non è affetto da una mancanza, almeno perché come soggetto

posso sovvenire a questa mancanza, facendomene lo strumento (voglio ciò

che tu mi vuoi. É il caso della perversione, in cui “il soggetto si fa lo strumento

del godimento dell’Altro” (p. 823)), o cercando per mio conto ciò di cui

l’Altro manca (voglio ciò che tu vuoi. É il caso della nevrosi, per cui il

nevrotico è colui che “identifica la mancanza dell’Altro alla sua domanda”

(p. 823)). La domanda è un passaggio obbligato, e vi si ritrova il

fondamento delle perversioni e delle nevrosi “fisiologiche” dell’infanzia.

Dicendo passaggio obbligato, non si intende un semplice passaggio

evolutivo, ma piuttosto s’intende che per effetto della stessa dimensione

della domanda si apre una nuova dimensione, quella del desiderio: la quale,

per il fatto di risultare come effetto non è tuttavia secondaria, poiché

l’effetto della domanda di amore non è quello di creare il desiderio, ma di

rivelarlo, di fargli posto, al di qua della stessa domanda. Esso funzionava

già, dietro la domanda e sostenendola, e il suo effetto, al momento della sua

emergenza, è quello di arrestare il movimento della domanda che, essendo

quello di una domanda di amore, sempre tesa al di là dei suoi oggetti,

sarebbe infinito. “Il desiderio non è l’appetito della soddisfazione, né la

domanda di amore, ma la differenza che risulta dalla sottrazione del primo

dalla seconda, il fenomeno stesso della loro scissione (Spaltung)” (p. 691).

“Il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal

bisogno: e questo margine è quello che la domanda, il cui soggetto non può

essere incondizionato se non a riguardo dell’Altro, apre sotto la farina del

possibile difetto che il bisogno vi può apportare, per il fatto di non aver

soddisfazione universale (è quel che si chiama: angoscia)” (p. 814).

E nota la definizione ordinaria di angoscia: affetto senza oggetto.

Questa definizione si oppone a due altre:

l’una, per cui l’angoscia sorgerebbe come conseguenza di un

oggetto angoscioso reale, come tale presente nell’immagine, segnale per l’lo

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di un pericolo incombente e imminente, elemento della relazione duale o

immaginaria presa come modello esclusivo della relazione del soggetto col

inondo. L’oggetto sarebbe dunque specularizzabile, immaginabile,

simbolizzabile (nel modello duale della relazione crolla la distinzione tra

simbolo e immagine che risulterebbero così sinonimi). Questa concezione

misconosce un aspetto essenziale dell’angoscia, quello di essere relativa a

una perdita;

l’altra, per cui l’angoscia sorgerebbe in assenza di soddisfazione

alla domanda, come mancata sovrapposizione della domanda e del bisogno,

come difetto nella risposta dell’Altro che non colma lo spazio aperto dalla

domanda. In questo secondo caso, l’angoscia sarebbe il segnale di una

perdita oggettuale che chiama in causa l’Altro come colui che potrebbe

donare, o almeno realizzarsi nella dimensione del dono.

Ma è l’esperienza umana come tale a rimettere in causa ciò che prima

aveva posto Come causa: c’è infatti angoscia quando la risposta, nella

relazione pedagogica o sociale, assume un carattere colmante, onnipotente,

là dove la risposta è data ad ogni domanda, tendente a tutta la domanda, alla

domanda come tale.

Il sorgere dell’angoscia proprio in questo punto, manifestando il

colmamento del bisogno come otturazione, la saturazione come

saturazione, la sintesi come impasse, è ciò che rivela nella domanda una

componente di falsità (ciò che domando non è la mia verità), e nell’Altro un

aspetto che è pure di falsità (è falso che l’Altro sia onnipotente, l’Altro che

mi dà tutto mi inganna). La domanda, e la pretesa risposta che vi aderisce,

non esaurisce l’appello all’essere del soggetto, ma lo aliena (per questo la

funzione dell’analista non è quella di rispondere).

L’oggetto perduto non è dunque presente né presentabile,

specularizzabile nell’Altro. Ma simultaneamente l’angoscia resta come

segnale di una perdita, rapporto con un oggetto che è perduto ma è tuttavia

atteso. L’angoscia non è allora senza oggetto, a condizione che il “senza” sia

come assorbito sull‘oggetto, come sua proprietà essenziale, quella di

mancare; essa e il segnale stesso di questo non rappresentabile. Messaggio

che se ha nell’Io, topologicamente, il suo luogo di produzione, ha come

destinatario non l’Io ma il soggetto, S, che nell’angoscia ritrova il filo che lo

riconnette alla sua chiamata nel, e per mezzo del, linguaggio.

Con il che l’angoscia, sola cosa comune fra S e A, riformula la

questione dell’essere in termini nuovi: perché essa riguarda non solo il

soggetto ma l’Altro, che ne risulta non più come A pieno ma anch’esso

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come A. La condizione assoluta non è prerogativa dell’Altro, ma solo di un

altro, un oggetto, a, che manca. L’assoluto è la mancanza, e il soggetto

accederà alla condizione assoluta solo distaccandosi (Lacan fa notare che

“assoluto” vuol anche dire distacco) dalla pretesa assolutezza rinunciando

all’Altro come soggetto assoluto, alla soggezione all’Altro, per ricostituirsi,

riformularsi in funzione del distacco, cioè di ciò che si è staccato, caduto,

perduto.

É la dimensione del desiderio ad aprirsi attraverso la via stretta e

retrograda dell’angoscia: che implica la rinuncia alla via larga e progressiva

della domanda, così come alla sua ripetizione infinita e all’infinito della sua

ripetizione. Ma questa che è rinuncia all’alienazione nell’Altro e nella

ripetizione infinita, e che è rinuncia all’illusione che ciò che è perduto non

possa essere ottenuto salva una domanda, è realizzazione del soggetto in un

punto neutro, ne-uter, il punto in cui qualcosa manca in comune fra me e

l’altro cioè nell’Altro. Il soggetto si realizza come — o anche: la realtà

umana è; oppure ancora: l’essenza della realtà è — desiderio. Dopo aver

iniziato la sua avventura consegnandosi al desiderio dell’Altro concepito

come soggetto reale desiderante, c/o dopo essersi concepito come soggetto

che tende all’Altro come oggetto del suo desiderio (da cui la formula

lacaniana: “il desiderio è il desiderio dell’Altro”, nella quale il genitivo è

bivalente, soggettivo e oggettivo), il soggetto può arrivare a costituirsi nella

sua vera essenza di desiderio attraverso il riconoscimento di una mancanza

che è la sua.

Si è visto che il desiderio sorge in rapporto a qualcosa che manca.

Questo è definibile come oggetto del desiderio, e non di fronte al soggetto

desiderante, cioè in qualche modo compreso nella sua prospettiva, sia pure,

illusoriamente, in quella di un futuro infinito, ma per così dire alle sue

spalle, dietro di lui, come causa del suo desiderio, e come causa della sua

storia di soggetto la cui linea direttiva è la sua sovversione, se mai avviene,

in soggetto del proprio desiderio; questa relazione, del soggetto con

l’oggetto-causa del suo desiderio, primordiale e inconscia, è una vera e

propria “relazione oggettuale” a tre, matrice di tutte le relazioni oggettuali

clic saranno tali anzitutto in ragione di un fondo di mancanza. L’oggetto è

causa del desiderio nel produrre la separazione della domanda dal bisogno:

il desiderio sorge, la mancanza c’era già, in posizione tale da poter produrre

un effetto. Questa causa è strutturale: la catena significante, l’inconscio,

l’Altro, porta, nel suo discorso, una mancanza che si riproduce. É il

significante, il “logico puro”, nella sua impossibilità a significare sé stesso,

nella sua non identità a sé stesso, a generare una problematica la quale non è

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anzitutto quella del teorico che studia la psiche, ma è iscritta nel soggetto

che con ciò e per ciò pensa là dove non è, e dove è chiamato: “Il

significante, materialità investita del solo potere di un appello”; ed è nel

linguaggio, quello “effettivamente parlato da grandi masse umane”, che

esiste questa mancanza di cui il soggetto, nascendo al linguaggio, fa

l’esperienza allo stesso tempo che della propria divisione, non potendo

designarsi, se non per inganno, come soggetto del proprio discorso, ma

solamente, o meglio eventualmente, attraverso un evento, come soggetto

del proprio desiderio. Il rapporto soggetto-desiderio si sviluppa come

dialettica che implica un’alienazione, quella nella realtà immaginaria,

nell’immagine nascente e rinascente secondo le due coordinate immaginarie

di aggressione, dal lato dell’ideale di prestanza dell’Io, e di frustrazione, dal

lato della “cattura” da cui l’Io si è formato.

Ma questa alienazione non si riduce a essere nell’immagine: più

radicalmente, essa è nell’Altro, che la richiede, la vuole e per questo la

riconosce, come oggetto investito del suo desiderio. La disalienazione

essendo: anche l’Altro manca, non mi faccio più oggetto del suo desiderio,

amato invece clic amante, ma soggetto nel posto della sua mancanza: che è,

infine, la mia mancanza, l’Altro venendo a essere riconosciuto come luogo,

catena significante, intra-soggettivo, e non Soggetto avente un posto

privilegiato in una costellazione inter-soggettiva.

Castrazione simbolica

Ci resta da vedere come l’Altro investa gli oggetti, e in particolare

certi oggetti, e l’lo stesso come uno dei suoi oggetti, a partire da ciò di cui

manca. Si è parlato di qualcosa che manca alla “realtà psichica” che è

l’inconscio, in termini di difetto della funzione di rappresentazione, non

come funzione “conoscitiva” di un reale che preceda la conoscenza, ma

come funzione di soddisfacimento richiesto dalla legge primaria dello

psichismo. Che si tratti di soddisfacimento non toglie nulla alla portata

“intellettuale” di questo modo di funzionamento: un sapere riguardante

l’essere come tale — sapere costituito come l’affermazione: l’oggetto è —

precede ogni presa di conoscenza della realtà dell’oggetto, fino a rendere il

problema astratto della conoscenza assai meno interessante per il soggetto.

Un sapere riguardante l ‘essere ha luogo senza la minima presenza di un

soggetto della conoscenza: “Che ci sia un inconscio vuoi dire che c’è sapere senza

soggetto.”

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Questa divisione, che si riconosce al fondo della divisione conscio-

inconscio, così come nel desiderio dell’infante, e non solo di esso, come

desiderio di sapere, trae dal linguaggio e non dalla realtà la sua origine. Gli

elementi in presenza non sono: un desiderio uguagliato all’istinto o allo

pseudomistero di un “affetto” esistente per sé o eventualmente, e non

meno misteriosamente, come emergenza psicologica di certi processi di

base fisiologici, e un sapere uguagliato alla conoscenza di una realtà-

ambiente data con le sue esigenze date, con in più il conflitto a tendenza

adattiva il cui risultato non sarebbe poi lontano da ciò che Marx ha

abbondantemente criticato a proposito delle ideologie e delle relative

epistemologie come riflesso nel “cervello” dell’uomo dell’ordine sociale

dato preso come “la realtà”.

Gli “istinti” verrebbero a funzionare in questo schema, schema che

in ultima analisi abbandona la scoperta freudiana di un conflitto o una

divisione strutturale, per sostituirlo disinvoltamente col presupposto

adattivo che anima non solamente tanta psicologia. Sparisce l’essenziale, il

conflitto, e rimane Procuste: l’adattamento, nemmeno tanto come

moderazione o temperamento di quel riflesso, ma semplicemente come

fattori di modulazione e regolazione individuale.

I rapporti fra il soggetto, il desiderio c quel sapere che precede la

conoscenza, si abbozzano con la nascita nel linguaggio. Un’altra

formulazione lacaniana, da collegare alla precedente, è:

“C’è un inconscio non perché ci sia un desiderio inconscio, ottuso,

grave, calibano o animale, desiderio inconscio sorto dal profondo, che

sarebbe primitivo e dovrebbe elevarsi al livello superiore del conscio. Al

contrario, c’è desiderio perché c’è inconscio, cioè linguaggio che sfugge al

soggetto nella sua struttura e nei suoi effetti, c perché c’è sempre a livello

del linguaggio qualcosa che è al di là della coscienza, ed è qui che si può

situare la funzione del desiderio”. [8]

La proposizione “qualcosa manca” è insostenibile nel reale, che anzi,

dal lato della sua assunzione nella coscienza, se ne difende, proclamandosi

completo, opponendo la proposizione: nulla manca nel reale. Salvo

riapparirvi, cioè essere sostenuto, supportato, dal reale, secondo la regola

formulata da Freud come quella del ritorno del rimosso (ciò che manca è

l’oggetto della Urverdrängung, della rimozione originale freudiana).

Questa problematica della mancanza coinciderebbe essenzialmente

con quella freudiana della castrazione: questa non si limita a essere propria

di un certo stadio dello sviluppo, e l’effetto psicologico di un certo ingresso

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nella scena da parte della funzione paterna, ma, benché successiva, proietta

la sua luce retro-spettivamente sugli stati anteriori della storia del soggetto.

Si è già accennato alla questione della natura dei rapporti fra prima e dopo,

fra ciò che è anteriore e ciò che è successivo (après-coup) nella successione

degli eventi soggettivi così com’è impostata nella concezione lacaniana: la

struttura, la catena significante al suo incrocio con il processo della

soggettivazione, funziona secondo due assi, quello sincronico e quello

diacronico, di cui il primo impone al secondo la necessità di una ripetizione

incessante, legata alla alternativa radicale fra presenza e assenza o alla

mancanza originale per cui nessun elemento della batteria significante è

interamente presente a sé stesso, presso di sé (nessun significante è in grado

di significare sé stesso), e il secondo fornisce al primo tutto il materiale

significante, che con ciò viene a definirsi non archetipicamente né come

insieme a priori, ma in termini interamente storici, il sincronico essendo

nella sua ultima riduzione la stessa alternativa strutturale suddetta. Ciò che è

successivo, e, per riprendere le cose nei termini stessi di Freud, ciò che è

secondario rispetto a qualcosa di primario, non si limita a collegarsi a ciò

che precede in termini di sommazione, né a fungere semplicemente da

feedback grazie a cui il sistema si autoregolerebbe, ma è la realizzazione di

ciò che era atteso dal principio e in tutte le tappe anteriori. La castrazione

non è solo l’ultima tappa in una successione di privazioni, [9] né si riduce a

ricollegarvisi secondo il modo dell’analogia, o attraverso il vissuto

individuale (esempio: lo svezzamento “vissuto” come castrazione), ma è

legge simbolica di castrazione che agisce su tutta la serie, l’ultimo termine della

quale — la castrazione propriamente detta — è anche quello che chiarisce il

senso di tutto ciò che l’ha preceduto.

Cosi, l’interdizione dell’incesto indirizzata non solo al figlio:

“Non possiederai tua madre”, ma anche alla madre: “Non integrerai

tuo figlio” — conseguenza dell’intervento dell’ultimo e vero terzo, il padre,

alla quale e come effetto della quale è legata la castrazione come tappa —

non è, come legge di interdetto, né il tutto né l’essenziale della legge

governante la realtà psichica: che è ancora la stessa Legge di castrazione

simbolica, funzionante da sempre e che si realizza secondariamente,

successivamente. La legge, che è Legge del padre, è già presente

enigmaticamente all’origine. E lo stesso enigma che ritroviamo nel testo

freudiano, dove l’identificazione prima non è ne con l’alito della propria

immagine né con l’altro materno, ma con il padre: ed è qui che vanno

riprese le fila di ciò che è stato posto precedentemente come identificazione

al tratto unario e ideale dell’Io. Essa si realizza transitivamente, cioè

secondariamente, attraverso la Madre, l’Altro, attraverso il desiderio

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dell’Altro, il desiderio del piccolo umano come desiderio del desiderio

dell’Altro. Si collegano così la necessità della transizione, la castrazione

come interdizione, l’interdizione come rivelazione del desiderio, quindi

come retroazione del movimento per cui il soggetto è coinvolto nel

desiderio inconscio.

Questo movimento ha come asse quello di una realizzazione il cui

principio, la cui Legge, è lo stesso principio di realtà — vero aldilà del

principio di piacere — formulato da Freud. La realtà di cui si tratta non è

un limite esterno da integrare, limite esterno concepito come necessaria

frustrazione, e causa di frustrazione, uguagliata al principio di realtà

(equivoco e impasse di un realismo pedagogico preteso di ispirazione

psicoanalitica), ma concerne una realizzazione soggettiva in cui ciò che è

integrato non è “la realtà” ma la mancanza, il difetto originale, la mancanza-

ad-essere, e in cui ciò che è realizzato non è ne un’idea né l’Idea, ma la

sovversione del soggetto nella direzione della sua causa nel linguaggio.

Risultato che comporta anche che il soggetto smetta di curarsi a livello della

altrui domanda, per iniziare a coltivarsi dal lato del suo desiderio, e quindi

anche di perdersi rispetto all’abitudine sociale e al gioco speculare delle sue

comunicazioni, per rinascere quale soggetto della Cultura intesa come

ordine identico a quello del Linguaggio.

L’assunzione del desiderio non è l’avvenimento di una sintesi più o

meno felice conformemente a ciò che offre il mondo esterno, fra un’interna

tendenza al piacere — c’è dell’ironia nella formulazione freudiana di un

principio del “piacere”, commenta Lacan — e un contraccolpo della realtà

esterna: ciò che si realizza, non è la sintesi, ideale psicologico applicato in

una pratica psicosociale adattativi, ma è l’assunzione della dialettica stessa,

quella del desiderio: che non è il primitivo, l’istintivo, la tendenza adialettica,

che se incontra opposizione è solo fuori di sé, ma è la Legge stessa che

impone l’assunzione della mancanza. Il desiderio è la castrazione che l’ha

introdotto ed è ancora la castrazione che interviene per farlo riuscire.

L’avvenimento del soggetto dove qualcosa manca, è ciò che si produce

quando si realizza, in un secondo tempo, la capacità fondamentale

dell’inconscio, quella che Freud chiama l’onnipotenza dei pensieri — che è

ancora onnipotenza dell’inconscio, poiché l’inconscio non è altro se non

pensieri che non è più onnipotenza dell’Altro, ma capacità di conciliazione

dei contrari: l’inconscio non conosce la contraddizione, la qual cosa non

vuol dire che la abolisce (la sua abolizione anzi è tutto lo sforzo di

psicologizzazione cui la prospettiva freudiana è stata sottoposta), ma che ne

vive.

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Significante, tratto unario, oggetto (a)

Si è già detto che per il sorgere dell’angoscia non basta il reale,

l’assenza o la presenza di un oggetto reale. Essa sorge perché, nella

dimensione immaginaria instaurata nella relazione speculare, l’oggetto che vi

compare (al limite ogni oggetto e in particolare certi oggetti) vi è presente

senza bastarsi: nessun oggetto è definito dalla sua immagine, ogni oggetto

non è senza mancare di qualcosa, come oggetto. L’oggetto, l’altro in quanto

investito del desiderio dell’Altro, è sprovvisto, non è senza qualcosa, cioè è

supporto di una funzione oggettuale inconscia indicabile come (a) in cui le

parentesi vogliono dire che nell’immagine qualcosa manca. Il qualcosa

assente nell’immagine si trova altrove: nell’inconscio. Solo una topologia

potrà render conto di questa eccentricità dell’oggetto da sé stesso, di questo

sdoppiamento irriducibile dell’oggetto.

Nell’oggetto qualcosa vi-è (Da-sein) senza che sia specularizzabile.

Sull’oggetto della relazione duale o immaginaria qualcosa è stato investito

senza né ridurvisi (non ha immagine) ne esserne stato generato (ma vi è

stato investito). É da altrove, dall’Altro, la Madre, che parte questo

investimento: ciò che è investito è proprio ciò che essa non ha in quanto

soggetta alla castrazione e quindi alla ricerca di ciò di cui manca: per

riceverlo (dal padre) e per averlo (secondo l’unica possibilità aperta che è

quella di riprodurlo: il figlio). “Se il desiderio della madre è il fallo, il

bambino vuole essere il fallo per soddisfarlo” (p. 693).

Si può notare a questo punto l’importanza decisiva della coincidenza

reale, sulla via della costituzione della soggettività, dell’Altro (come batteria

significante costituita dall’insieme degli elementi differenziali presenti nel

linguaggio ordinario, non costituito perciò come soggetto, ma costitutivo

del soggetto) con la Madre (come soggetto, e individuo, Altro,

effettivamente presente nella relazione). Per l’in-fans, che nasce

nell’ambiguità di questa coincidenza, vengono a coincidere ciò che difetta

nel linguaggio (l’incapacità del significante a significare sé stesso) e ciò che

difetta nell’individuo (ciò per cui la madre desidera). Ne discende che le

definizioni del desiderio come effetto di linguaggio, e come desiderio del

desiderio della Madre, Altro, sono equivalenti fra loro e a una terza

definizione più completa, già data: “Il desiderio è desiderio dell’Altro.”

L’investimento di cui si è parlato avviene in quel momento che è

stato chiamato “stadio dello specchio” in cui si forma per l’individuo

umano un’immagine unificante del proprio corpo. Per questo avvenimento

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è determinante un intervento particolare della madre, il suo assenso o il suo

riconoscimento. Utilizziamo la sintesi di Martin:

“Nei suoi occhi il bambino rimira non tanto il suo ritratto, quanto il

riconoscimento di esservi significante del desiderio della madre. In esso egli

si collega alla mancanza-ad-essere della madre, che per essa è

preliminariamente investita in una simbolizzazione culturale del pene, cioè il

Fallo.” [10]

L’immagine reale, i, è unificata in funzione di ciò di cui è investita,

cioè del desiderio dell’Altro, A sbarrato, affetto dalla castrazione simbolica,

che la sceglie come suo oggetto, il quale dunque prende luogo nell’inconscio

al posto della sua mancanza.

L’oggetto essendo notato nella nostra simbolizzazione come a (=

altro), i sarà nell’inconscio i(a), immagine presa come oggetto del desiderio

al di là di essa. Questo investimento significante — l’immagine è

significante del desiderio dell’Altro — avviene da parte dell’Altro-Madre

come trasmissione a partire da ciò che essa non ha, ma che si trova

collegato al Padre, Altro ulteriore, esso stesso segnato dalla castrazione.

L’investimento dell’immagine è, potremmo dire, “in nome del Padre”.

Il tratto (nel senso di dire, ad esempio, un tratto del carattere) di cui

è investita l’immagine è lo stesso che hanno in comune tutti i significanti,

quello per cui ogni significante rappresenta per-, cioè quello per cui ogni

significante è in difetto rispetto alla sua stessa funzione che è quella di ri-

presentare. Tale “tratto unario” è il tratto dell’eccedenza o dello scarto della

funzione del significante sulla sua stessa efficienza.

L’immagine reale, quella del corpo reale, è inaccessibile alla

percezione del soggetto, ed è accessibile solo all’Altro reale, di cui è oggetto.

La sua immagine virtuale, i', riprodotta dall’immagine reale, è la sola

accessibile alla percezione, e la sua assunzione darà luogo all’immagine del

corpo come totalità, così come sarà la matrice dell’Io.

Ma l’assunzione di i' a partire da i(a) è di più della semplice

immagine, è i'(a), e l’immagine in quanto investita della funzione (a) ovvero

quella di rappresentare per l’Altro il suo desiderio. Con ciò questa che è

vera e propria identificazione narcisistica, è anche identificazione a ciò che

la eccede: l’immagine è supporto insufficiente a contenere l’investimento

fallico immaginario φ di cui è oggetto, per cui φ è -φ, cioè quel che è

investito non ha immagine speculare. Ciò nondimeno l’identificazione è

completa, avviene cioè anche dal lato dell’investimento non speeularizzato,

in altri termini è doppia: non è solo con l’immagine (Io ideale, Ideal-Ich,

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identificazione immaginaria, matrice della serie di i dentificazioni

successive), ma anche con il suo eccedente che è il tratto unificante o tratto

unario dei significanti (Ideale dell’Io, Ichideal, identificazione simbolica, al

Padre, legata al significante paterno, filo conduttore nell’ordine del

linguaggio che sostiene la stessa dimensione immaginaria). [11]

Attraverso questa seconda identificazione il soggetto si fa prodotto e

a un tempo sostegno della funzione simbolica di ripetizione o di

rappresentazione: nessun significante può rappresentare sé stesso, ovvero

un significante S ripetuto una seconda volta (vedi il gioco del “Fort-Da”)

non rappresenta lo stesso significante S presentato una prima volta, cioè S

non è S. Questo perché ogni significante è sempre in difetto rispetto a un

significante privilegiato, qual è nell’inconscio il significante sessuale, il fallo

simbolico ф»; ogni significante è diviso da sé stesso, incapace di

autorappresentazione, essendo sempre in difetto su quella che pure è la sua

funzione, di rappresentare qualcosa.

Il soggetto interviene (inter-viene fra S e S) a fare da supporto alla

loro identità; S non è S se non per il soggetto che si fa garante della

ripetizione. Ciò è possibile in virtù della sua identificazione al tratto unario

dei significanti, simbolizzato con un | , il bastone o l’asta delle scuole

elementari, puro significante ripetitivo ||| ..., cioè al tratto comune a tutti i

significanti meno uno, quest’ultimo simbolizzato da Lacan anche come un

(-1) inerente all’insieme dei significanti. Per mezzo di questa identificazione

il soggetto, identificato al tratto unario della ripetizione e dell’autodifferenza

di ogni significante da sé stesso, funge da sostegno della ripetizione. Il gioco

del “Fort-Da” riesce, riesce bene, diremmo: è un bel gioco, perché il

bambino si è fatto supporto del ritorno dell’oggetto fatto scomparire,

identificandosi con l’oggetto (indifferente) scomparso, cioè non con

quell’oggetto presente, ma con l’oggetto in quanto assente, cioè con un

significante mancante. Il soggetto rappresenta così il significante mancante.

Quest’ultimo essendo, per così dire, fuori portata, rappresentazione

impossibile, rappresentazione (Vorstellung) rimossa (verdrängt), il soggetto ne

sarà rappresentante, a sua volta esso pure in uno stato rimosso, senza sapere

la sua origine e funzione. Lo si potrà reperire e promuovere (e per questo

occorre un lavoro come quello analitico) ma non portarlo a uno statuto di

autosufficienza, quello per cui potrebbe designarsi da sé stesso. La sua

posizione nella struttura inconscia è tale da “dovervisi contare e a un tempo

adempiervi la funzione di mancanza” (p. 807).

É nel fantasma, come ad esempio sulla scena del sogno, che lo si

può ritrovare, in rapporto all’oggetto a del desiderio, fantasma che Lacan

simbolizza con la sigla (S ◊ a), (S desiderio di a), scena in cui, astrazion fatta

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da qualsiasi riferimento ad ogni altra contingenza, il soggetto si coglie nel

campo dell’Altro. “Il fatto è che un fantasma porta un bel disordine perché

non si sa dove ordinarlo, dato che ce lo si trova lì, tutt’intero nella sua

natura di fantasma che non ha altra realtà che di discorso e non attende

nulla dai vostri poteri, ma piuttosto è lui che vi domanda di mettervi in

regola con i vostri desideri” (p. 779). La struttura del fantasma è tale che “vi

si lega in modo essenziale... alla condizione di un oggetto... il momento di

un fading, o eclissi, del soggetto, strettamente legato alla Spaltung, o scissione,

che esso subisce per la sua subordinazione al significante” (p. 816).

Viste in forma riassuntiva le articolazioni fra una serie di termini —

A, S , |, (a) ecc. — qualcosa resta da dire ancora riguardo all’oggetto (a).

La teoria analitica è andata progressivamente riconoscendo una

funzione privilegiata comune a una serie di oggetti cosiddetti “parziali”. Essi

sono, ormai classicamente: mammella, scibale, fallo (precisato come oggetto

immaginario, punto su cui Lacan insiste). Mantenendo l’attributo loro

comune di parzialità, Lacan osserva però che questo tratto è legato non al

fatto che essi sono parti di un oggetto totale che sarebbe il corpo, ma al

fatto che essi “rappresentano solo parzialmente la funzione che li produce”

(p. 817), che è funzione di rappresentazione.

L’elenco di tali oggetti si allunga, comprendendo altri elementi carne

il fiotto urinario, ed è, commenta Lacan, una “lista impensabile, se vi si

aggiunge con noi il fonema, lo sguardo, la voce, il rien” (p. 817).

Ciò che tali oggetti hanno in comune è il fatto di essere selezionati in

funzione del desiderio dell’Altro, oggetti di desiderio fissati in una funzione

particolare, e il fatto di ritrovare, dopo essere sorti per una mancanza,

nell’investimento fallico e nella castrazione, retroattivamente, il loro senso.

Il fallo. La parte e il tutto

Nella sua relazione con la madre, il bambino non vive anzitutto della

sua dipendenza vitale da essa, ma della dipendenza dal suo amore. Il suo è

desiderio del desiderio della madre, con la tentazione alla perversione che

questo comporta, cioè a identificarsi con l’oggetto immaginario di questo

desiderio, il fallo, in cui la madre lo ha simbolizzato.

Questo ostinato fallocentrismo su cui la teoria analitica ritorna

costantemente, e che Lacan riprende nella dialettica della domanda e del

desiderio e nei differenti registri del reale immaginario e simbolico, riporta

alla difficoltà non meno che all’obiezione di sempre, che “dopo tutto la

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sessualità non è tutto”, in particolare di fronte all’elaborazione lacaniana che

riprende la questione del fallo a partire da e contro “la messa in ombra

attuale di questa questione del fallo, ridotto al ruolo di oggetto parziale nel

concerto analitico” (p. 555).

La risposta non potrebbe essere che la seguente: appunto, il fallo

non è tutto, è una parte, il significante sessuale, l’oggetto immaginario

fallico, e l’organo che fa da supporto a questa problematica nel momento

stesso che ne è preso, sono parti, non tutto, né semplici elementi o parti del

tutto, né “parti per il tutto”, secondo una definizione da rivedere della

metonimia. Nel linguaggio, è la metonimia ad assicurare quella funzione di

parzialità che nell’inconscio, “strutturato come un linguaggio”, è ripresa dal

significante metonimico fallico. Quel che è più proprio dell’inconscio, di

essere struttura rappresentativa in difetto, e di essere organizzato intorno a

un difetto senza cui nulla più verrebbe rappresentato, si sostiene proprio su

questa parzialità, sulla prevalenza di una parte sul tutto, sulla loro

opposizione e irriducibilità, su questa sorta di privilegio che ha il significante

sessuale nell’inconscio, privilegio non della sua presenza ma della sua

assenza, come significante immaginario fallico che fa difetto nell’inconscio

senza per ciò essere semplicemente nulla: esso vi esiste negativamente, in

negativa, “vi brilla per la sua assenza”, parte per sempre mancante ma

definita dal suo contorno, dal fatto di essere esattamente ciò che difetta, il

pezzo o il significante che manca, incapace, quanto a lui, di presenza, o, se

si vuole, di erezione, e per questo, per tale fondo di assenza, perno di ogni

operazione significante, ivi compresa quella del godimento sessuale e,

separatamente, della riproduzione sessuata.

Si tratta qui dello stesso pensare freudiano circa la morte e circa il

nesso fra la morte e la sessualità: senza la morte che è mancanza originaria,

e quindi pura ripetizione, Wiederholungszwang, non ci sarebbe né vita né

discorso né soggetto, soggetto che inizia la sua esistenza prendendo posto

in un certo punto di questa struttura ripetitiva, come rappresentante della

mancanza, cioè come soggetto della morte, e che, radicalmente, non ha

ragioni di temere la morte, perché è questa che lo porta; se invece la teme,

ciò è a partire dal suo Io immaginario, che prende la morte come un

pericolo piuttosto che come radice: donde la lotta a morte, tema lacaniano

ripreso da Hegel, dell’uomo con il simile, che è “lotta a morte immaginaria”

da cui è definita “la struttura essenziale dell’Io” (p. 432).

Se è la morte che porta la vita — non la morte della lotta

immaginaria, la cui incarnazione storica Freud ha visto nel “nemico

dell’umanità” identificato con il fascismo —, se una mancanza precede

logicamente il soggetto promuovendone l’esistenza, il pericolo estremo, ma

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anche la questione più fondamentale per il soggetto, sarà proprio quello

dello stabilirsi di condizioni in cui il limite originario all’esperienza di

soddisfazione sia abbattuto, in cui lo scacco in cui si mantiene e si sostiene

la ricerca di ripresentazione sia risolto, in cui il soggetto di questo scacco

mobilitante, il soggetto del desiderio o il soggetto rappresentato da un

significante per un altro significante, trovi un’alternativa nell’aldilà del

desiderio, nel godimento, e in un altro soggetto, il soggetto del godimento.”

[12] Il discorso freudiano, che Lacan riprende su questo punto, è quello di

un pericolo di morte legato al godimento, cui si oppongono il piacere c il

desiderio concepibili come formazioni di compromesso rispetto al

godimento, compromesso identico a quello in cui nasce il soggetto del

significante, a mezza strada fra godimento e castigazione. “É il piacere che

apporta al godimento i suoi limiti” (p. 821). “Il desiderio è una difesa, difesa

dall’oltrepassare un limite nel godimento” (p. 825).

Il privilegio che il significante fallico ha nell’inconscio è ciò che ne

rende eccentrico il discorso, il soggetto, l’oggetto, rispetto al discorso del

soggetto della coscienza e all’oggetto del bisogno. E la parzialità che così si

verifica per il desiderio sessuale, è tale rispetto all’altro grande desiderio

generico, quello della fame” che “non è rappresentato — come Freud ha

sempre sostenuto — in ciò che l’inconscio conserva per farlo riconoscere”

(p. 433).

L’eccentricità, sia apparente che strutturale, di questa scoperta

freudiana, diviene ancora più marcata quando si consideri che Lacan lega la

questione del sesso (e non la differenza dei sessi naturalmente stabilita) alla

questione dell’essere del soggetto.

Il passaggio per cogliere l’essenziale di questo rapporto sembra

essere quello dato da Lacan quando afferma: “(Freud) pone che c’è una sola

libido, e il suo testo dimostra che egli la concepisce di natura maschile” (p.

695). Il che equivale a dire: “Non c’è rappresentante psichico

dell’opposizione machile-femminile; la differenza sessuale si rifiuta al

sapere, designando il punto in cui il soggetto dell’inconscio sussiste per

essere soggetto di non sapere.” [13] Il soggetto non sa il suo essere sessuale

nel momento stesso in cui deve la sua nascita al desiderio dell’Altro come

desiderio sessuale. Il significante, di cui il soggetto e l’effetto, non crea

maschio e femmina, ma esseri che si trovano confrontati, nel punto stesso

della loro esistenza, e nel punto stesso in cui devono rispondere alla

questione della propria esistenza, con un problema di mancanza, e a

prendere posizione, quanto al proprio sesso, rispetto a tale problema sorto

da un’esperienza effettiva: quella che si svolge a partire dal momento in cui

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il fallo è scoperto come elemento che può mancare, e che, prima che a loro,

può mancare all’Altro (Madre) onnipotente, finora fondamento dell’essere

del soggetto, e non senza ragione. Questa scoperta potrà condurre a una

scissione, a riscoprire l’Altro come scisso nelle due componenti finora

confuse, quella di altro, madre, soggetto mancante, e quella di Altro, non

più soggetto (dunque il risultato di questa distinzione non è in alcun modo

di produrre le idee distinte di un soggetto empirico e di un soggetto

assoluto, idee queste che sono prodotto non del processo di soggettivazione

per mezzo del significante, ma di un processo mentale che lo offusca) ma

catena significante insufficiente a fornire, a rappresentare, la parte

mancante. Questa operazione può avvenire grazie all’intervento dell’Altro

paterno rispetto a cui l’altro materno è rivelato come relativo, marcato dalla

mancanza.

Qui, a livello di questo Altro ulteriore, il Padre, si imporrà una nuova

operazione di scissione fra Altro e altro, e sarà l’operazione della morte del

Padre o della sua uccisione: mito, come si sa, caro a Freud, ma non mitica

ne è la corrispondente operazione inconscia, quella il cui risultato d’un lato

è un padre relativizzato esso stesso, in rapporto alla mancanza, e non in

rapporto al realismo mitico di un conflitto fra generazioni, cui non

corrisponde invece alcuna operazione effettiva nell’inconscio. Ciò che è

relativizzato non è semplicemente mio padre, ma il Padre come

soddisfacente il limite dell’Altro, come Altro dell’Altro, come

metalinguaggio: “La mancanza di cui si tratta è proprio questo: che non c’è

Altro dell’Altro” (p. 818). Dall’altro lato l’avvento di un nuovo e definitivo

significante nell’inconscio, che è quello del Padre, o del Nome del Padre o

del Padre morto. Il Padre non è l’Altro, ma è un significante, cioè è

inconscio.

Attraverso questo pas — la lingua francese si presta a un gioco di

parole, fra pas-passo e pas-no — della morte del Padre e del suo avvento

come significante inconscio, potremmo dire che termina la lunga stagione

metonimica del soggetto, quella in cui il soggetto è determinato circa il suo

essere e il suo sesso da un messaggio funzionante senza pervenirgli, e inizia

quella dominata, non senza incertezze e tentazioni, non senza ricorso

continuo alla ulteriore determinazione simbolica al di là della

sovradeterminazione significante, dalla metafora, dal significante metaforico

del Nome del Padre o metafora paterna: grazie alla quale un significato,

quello fallico, è significato nell’inconscio al soggetto.

“Il fallo nella dottrina freudiana non è un fantasma, se con ciò

bisogna intendere un effetto immaginario. Esso non è neppure un oggetto

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(parziale, interno, buono, cattivo ecc...) nella misura in cui questo termine

tende ad apprezzare la realtà interessata in una relazione. Esso è ancora

meno l’organo, pene o clitoride, che simbolizza... Poiché il fallo è un

significante..., il significante destinato a designare nel loro insieme gli effetti

di significato, in quanto il significante li condiziona per la sua presenza di

significante” (p. 690).

“L’organo erettile viene a simbolizzare il posto del godimento, non

in sé stesso, e nemmeno in quanto immagine, ma come parte mancante

all’immagine desiderata” (p. 822).

“Esso non può giocare il suo ruolo che come velato, cioè esso stesso

come segno della latenza da cui è colpito ogni significabile dal momento in

cui è elevato (aufgehoben) alla funzione di significante. Il fallo è il significante

di questa stessa Aufhebung che esso inaugura con la sua sparizione” (p. 692).

E ancora: “Che il fallo sia un significante impone che sia al posto

dell’Altro che il soggetto vi abbia accesso. Ma poiché questo significante vi

è come velato e come ragione del desiderio dell’Altro, è questo desiderio

dell’Altro che al soggetto è imposto di riconoscere, cioè l’altro in quanto

esso stesso è soggetto diviso dalla Spaltung significante” (p. 693).

Questa scissione ultima — quella del significante riguardo alla,

propria stessa funzione che è quella di significare; quella dell’Altro riguardo

alla propria stessa composizione che è completa, essendo l’intera batteria

significante fornita dal linguaggio, e dunque non ammette alcun significante

al di fuori di sé — come ammetterla allora e dove reperirla? La si potrà solo

concepire come impossibilità dell’Altro a godere della propria stessa

completezza, come mancanza all’interno della completezza stessa: come

godimento interdetto sia dall’esterno (ogni significante essendo già

compreso in A) sia verso l’esterno, nella dimensione del dono (A non può

dare niente al soggetto, salvo metterlo in rapporto alla sua stessa mancanza

attraverso oggetti, la serie degli (a), che non fanno che presentificare, cioè

rappresentare positivamente, la mancanza di A. S è in rapporto con A

attraverso (a), rapporto simbolizzato con .

Questa condizione può essere concepita solo ammettendo un

significante già inerente nell’insieme dei significanti senza che vi sia

contabile né rappresentabile. Lacan lo indica come S(A), “significante di una

mancanza nell’Altro” (p. 818), il significante che manca ad A pur

trovandovisi, e pensabile come il cerchio di cui i significanti sono i punti,

“tratto clic si traccia col suo cerchio senza potervici essere contato” (p.

819). Il significante essendo definito come ciò che rappresenta il soggetto

per un altro significante, esso sarà il significante per cui tutti i significanti

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rappresentano il soggetto. Il suo simbolo sarà un (-1) inerente all’insieme

dei significanti.

Il fallo per parte sua si riporta a questa condizione dell’Altro come

insieme dei significanti, sdoppiandosi: d’un lato, esso è ф, fallo simbolico,

significante del godimento, positivo, presente, ma non rappresentabile; esso

fa da supporto al (-1) dei significanti, venendovi a coincidere non per una

sorta di armonia prestabilita dalla natura, ma per lo stesso rapporto per cui

l’inconscio è “strutturato come un linguaggio” senza essere tout-court il

linguaggio. Dall’altro, esso è fallo immaginario, (φ), o meglio (-φ), immagine

fallica negativa, atteso nell’immagine cara desiderata ma non ritrovato in

essa, assente, elemento negativo nella relazione narcisistica speculare. La

mancanza radicale di cui non si fa che parlare, non è dunque ultimamente a

livello di (-φ) ma di ф quest’ultimo, presente, positivo, non è

rappresentabile, e il primo, negativo, non fa che rappresentare la non

rappresentabilità, la mancanza, e in tale modo fa da mediazione fra S e A,

regolando i loro rapporti nei termini del desiderio, cioè in termini di

distanza dal godimento, mantenendone tuttavia in sospeso la questione,

senza abolirla: il godimento è ciò “il cui difetto renderebbe vano l’universo”

(p. 819).

L’immagine fallica è in rapporto con la serie degli ( a): ne fa parte

come oggetto (immaginario) nell’insieme di oggetti intercorrenti nei

rapporti di desiderio fra il soggetto e l’Altro, resti dell’operazione di

divisione del soggetto, rappresentanti della mancanza. Dall’altro lì investe

tutti di sé, retroattivamente (la fase fallica viene dopo), recuperandone, in

quanto negativo, la funzione, che è quella di rappresentare la mancanza cioè

la Legge simbolica di castrazione.

Riassumendo, la funzione di rappresentare la mancanza è a mi

tempo dell’oggetto (a), del soggetto inconscio e dell’inconscio come tale.

L’oggetto (a) è “rappresentante della rappresentazione nella

condizione assoluta”: ab-solutus, distaccato, decaduto dalla sua condizione

naturale e ripreso dalla determinazione del simbolico, venendo ad assumere

un posto nell’inconscio come oggetto del desiderio; esso “è al suo posto

nell’inconscio, dove causa il desiderio secondo la struttura del fantasma” (p.

814),

Quanto al soggetto: “É dunque quale rappresentante della

rappresentazione nel fantasma, cioè come soggetto originariamente

rimosso, che il S soggetto sbarrato del desiderio, fa da supporto del campo

della realtà” (p. 554), in rapporto allo stesso oggetto (a) secondo la formula

già data del fantasma. Troviamo ancora: “Quanto alla realtà del soggetto, la

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sua figura di alienazione, presentita dalla critica sociale, si lascia cogliere per

il fatto di giocarsi fra il soggetto della conoscenza, il falso soggetto dell’ ‘io

penso’, e quel residuo corporeo in cui ho sufficientemente, io penso,

incarnato il Dasein, per chiamarlo col nome che mi deve: cioè l’oggetto (a).”

[14]

Ma in ultima analisi è l’inconscio stesso a costituire questa funzione,

perché è esso stesso a lavorare questi due elementi producendoli. Esso fa e

non fa altro che questo, polifona monofonia: rappresentare la mancanza, e

così dà luogo ad (a) e a S che “mette in scena”. “ ‘Di questo — dice il

soggetto — non mi ricordo (rappelle).’ Cioè: all’appello di un significante per

cui bisognerebbe ‘che esso mi rappresentasse per un altro significante’, io

non rispondo ‘presente’, per la ragione che per effetto di questo appello

non mi rappresento più niente. Io sono una camera oscura in cui si è fatto

luce: non v’è più modo che vi si dipinga attraverso il suo buco di spillo

l’immagine di quel che avviene fuori. L’inconscio non è subliminale, debole

chiarore. Esso è la luce che non lascia spazio all’ombra, né che il contorno

si insinui. Esso rappresenta la mia rappresentazione là dove essa manca,

dove io non sono che una mancanza del soggetto. Donde il termine di

Freud di: rappresentante della rappresentazione [Vorstellung-Räpresentanz].

[15]

Metonimia e metafora

In guisa di breve conclusione, riprendiamo alcuni dei punti trattati

inserendoli in quelli che per Lacan sono i due meccanismi fondamentali

dell’inconscio, la metonimia e la metafora.

Torniamo alla definizione di inconscio: “L’inconscio, a partire da

Freud, è una catena di significanti che da qualche parte (su un’altra scena,

egli scrive) si ripete e insiste per interferire nei tagli che il discorso effettivo

e la cogitazione che esso informa gli offre.”

Ora, “i meccanismi descritti da Freud come quelli del processo

primario, in cui l’inconscio trova il suo regime, ricoprono esattamente le

funzioni che questa scuola [16] considera come quelle che determinano i

versanti più radicali degli effetti di sostituzione e di combinazione del

significante nelle dimensioni rispettivamente sincronica e diacronica in cui

compaiono nel discorso” (p. 728).

Quel che è decisivo in questo passaggio lacaniano che mette in

rapporto linguistica e psicoanalisi, non è il ricorso alle risorse di un’altra

disciplina, cioè una sorta di gemellaggio interdisciplinare, ma il fatto che

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metafora e metonimia non sono modelli linguistici a distanza

dell’esperienza, ma costituiscono l’inconscio “strutturato come un

linguaggio”, sono i suoi stessi pensieri: sono loro a rendere effettiva una

struttura per la quale il discorso umano si organizza intorno a una

mancanza, a un meno, una mancanza-ad-essere, che è anche un eccedente

rispetto al tutto di un universo del discorso concepito come interamente

pensabile dal soggetto, “ciò che manca al soggetto per pensarsi esaurito dal

suo cogito, cioè ciò che esso è di impensabile” (p. 819).

Metafora e metonimia sono concepibili come i mezzi di quella che è

definita come l’onnipotenza dell’inconscio, che fa progredire la

contraddizione senza annullarla, senza risolverla in una sintesi che non

potrebbe essere altro che a priori: ma è appunto qui che c’è l’impossibilità,

poiché il solo a priori del soggetto è l’Altro, e questo è per sua natura in

imbarazzo perché è proprio lì che manca qualche cosa. L’impossibile,

metafora e metonimia lo rendono, non possibile, ma reale nei suoi effetti: in

tal modo emergono sia il sintomo, che a suo modo è qualcosa di riuscito,

sia il desiderio, che è realizzato non perché l’oggetto del desiderio sia

divenuto disponibile, ma quando il debito d’origine è riconosciuto, e in

definitiva la castrazione simbolica è accettata.

“Freud — scrive Lacan — ha fatto rientrare all’interno del cerchio

della scienza quella frontiera fra l’oggetto e l’essere che sembrava segnare il

suo limite” (p. 527). Ed è attraverso la scoperta della condensazione e dello

spostamento, attraverso la metafora e la metonimia, che si varca questa

frontiera, perché “la metafora (è legata) alla questione dell’essere e la

metonimia alla sua mancanza” (p. 528).

Nella struttura metonimica “è la connessione del significante con il

significante a permettere l’elisione per cui il significante installa la

mancanza-ad-essere nella relazione oggettuale, servendosi del valore di

rinvio della significazione per investirla del desiderio mirante a quella

mancanza che esso supporta” (p. 515). Il fallo è l’oggetto metonimico del

desiderio: mancandole, causa il desiderio inconscio della Madre, venuta al

posto di A, come desiderio che il bambino sia il suo fallo. Attraverso questa

mediazione il bambino riceve a livello metonimico un messaggio che è

particolarmente indecifrabile per la connessione, la confusione, fra i due

significanti S e S', bambino e fallo. Il bambino per la madre è il fallo, è per

questo che è stato atteso e prodotto.

Il nesso, la fusione è tanto stretta che l’effetto è quello di un’elisione:

il bambino è interamente al posto del fallo, della mancanza della madre, il

suo essere è tutto sospeso alla mancanza-ad-essere di essa. In questa

relazione madre-bambino, il bambino rappresenta totalmente la mancanza

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senza che questa vi appaia come tale. La fissione di questa sorta di atomo

metonimico sarà possibile solo con l’intervento separante della Legge

paterna.

Ed è a livello della metonimia che si collocano la funzione degli

oggetti parziali e dell’angoscia. La funzione (a) è quella che rappresenta

metonimicamente ciò di cui il tutto manca, cioè che rappresenta non il tutto

— la metonimia, precisa Lacan, non è la parte per il tutto ma è parola per

parola, “mot à mot” — ma ciò che manca al tutto: con ciò essa è la funzione

metonimica stessa, quella che esprime una causalità strutturale.

Il carattere proprio di questa causalità la fa a-teleologica e a-

gerarchica. L’artificio cui potremmo ricorrere mettendo l’“a”,

opportunamente detto privativo, fra parentesi — (a)teleologica,

(a)gerarchica —, mostrerebbe a un tempo che è da un misconoscimento,

anch’esso preteso dalla struttura, della natura della causa che derivano le

concezioni cosmologiche e politiche, teoriche e pratiche corrispondenti, e

che è dall’utopia dell’oggetto e non dall’utopia dell’idea che esce ogni

movimento soggettivo con i suoi caratteri di direzione e di organizzazione.

Si potrebbero utilizzare ancora le risorse non casuali della lingua, il gioco

delle parole, per ridicolizzare la pretesa del soggetto psicologico, che prende

l’effetto per la causa, opponendo la grandezza, ovvero la grandeur, dell’Altro,

“A”, “grand A”,

“A” maiuscolo, così grande, così maiuscolo, eppure così in difficoltà

e in imbarazzo in sé stesso, e la piccolezza, la minuzia, il nonnulla, la

volgarità a volte, intimamente unita alla preziosità, dell’altro nell’inconscio,

“a”, “petit a”, “a” minuscolo, tanto piccolo, piccolo a piacere, eppure così

potente come causa del desiderio, sottratta ad ogni manipolazione.

Dalla concezione lacaniana dell’Altro deriva la suddetta critica che ci

siamo limitati ad abbozzare, e di cui ricordiamo soltanto quanto già detto,

che non c’è Altro, ovvero che l’inconscio come discorso dell’Altro non

deriva dall’Altro come causa ma da ciò che in esso fa difetto, o anche non

c’è Altro dell’Altro, discorso sul discorso, metalinguaggio, La sovversione

che ne risulta non è semplicemente nella teoria né in una nuova presa di

coscienza, ma è la stessa del soggetto attraverso la dialettica del suo

desiderio; “d” si separa da “D”, il desiderio, come metonimia, si separa dalla

domanda, secondo lo stesso modo per cui l’oggetto a, causa metonimica del

desiderio, è separato da A. In questa dialettica è la domanda stessa sul senso

(quale è il senso di...?) che viene ad essere sovvertita: L’Altro non ha e non è

il senso; io non sono in rapporto con esso né per esserlo né per assumerlo e

trasmetterlo, E, una volta scoperta e assunta la causalità metonimica, cioè la

castrazione simbolica, come il fulcro della “macchina originale che inette in

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scena il soggetto”, la domanda “qual è il senso della castrazione o della

metonimia” non ha nemmeno modo di nascere. In ultima analisi “il senso si

produce nel nonsenso” (p. 508).

La metafora, dice Lacan, è l’altro versante dell’inconscio, e a un tempo

è inglobata più vastamente nella metonimia. Nella struttura metaforica “è

nella sostituzione del significante al significante Cima parola per un’altra’)

che si produce un effetto di significazione che è di poesia o di creazione, in

altri termini l’avvenimento della significazione in questione” (p. 515).

Mentre nella metonimia un certo significante non può essere significato al

soggetto, è interamente latente, il passaggio del significante nel significato è

sbarrato, cioè si ha resistenza della significazione, nella metafora questo

passaggio invece ha modo di avvenire, si ha emergenza della significazione:

quel certo significante che è stato sostituito rimane in qualche modo patente

perché passa dal lato del significato, cioè non è completamente eliso nel suo

rapporto con il significante che lo sostituisce. Nella metafora o

condensazione significante, il significante S sostituito, non è dissolto,

interamente rimpiazzato, dal significante sostitutivo S': “La metafora va

definita per l’impianto in una catena significante dì un altro significante, per

cui quello soppiantato cade al rango di significato, e come significante

latente vi perpetua l’intervallo in cui un’altra catena significante può essere

innestata” (p. 708).

Dobbiamo rinunciare a esemplificare in una serie di casi questi due

versanti dell’effetto significante dell’inconscio, per limitarci a ricordare che

ad essi corrispondono, d’un lato il desiderio inconscio che è una metonimia,

perché prende il posto dei significante non rappresentabile, si connette

indissolubilmente alla mancanza dì un oggetto che nel desiderio non è mai

significato al soggetto, ma rimane per esso un enigma, quello ripetutamente

proposto dal desiderio nella frenesia del suo essere sempre desiderio di

un’altra cosa; anzi prendendo il desiderio come significante metonimico,

che prende il posto della mancanza, potremmo dire che questo significante

non ha significati, ma gli corrisponde solo la figura stessa dell’enigma.

Dall’altro il sintomo: che è una metafora, o una condensazione

significante, in cui il significante sostituito S non si esaurisce nella

sostituzione, ma ha una realizzazione nel significato, quello dello stesso

sintomo: in cui ha così luogo quel carattere di compromesso che Freud

aveva scoperto come uno dei caratteri fondamentali del sintomo nevrotico.

Nel sintomo, e più in generale nella metafora, troviamo così tre (almeno)

elementi: due significanti, S e S', l’uno rimosso e l’altro sopravvenuto; e un

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significato la cui posizione si trova ad essere non fissata rigidamente a S',

ma ambigua, mobile, scivolante sotto i due significanti. La restituzione del

loro legame, sola cosa che interessi il soggetto, renderà superflua questa

particolare operazione significante che è il sintomo, e si avrà qui la sua

risoluzione, riuscita del soggetto più che guarigione di un male.

Ora, per concludere, quel che ci interessa ancora è la formula

completa della metafora, poiché in essa si condensano non solo la

concezione lacaniana della metafora, ma i suoi nessi con la metonimia, e

l’insieme dei loro effetti nella dialettica del desiderio.

Non a caso Lacan dà questa formula nello scritto sulla psicosi

intitolato Sul possibile trattamento della psicosi, Si è detto che l’oggetto

immaginario del desiderio è simbolizzato nel fallo:

“Questa funzione immaginaria del fallo, Freud dunque svelata come

perno del processo simbolico che porta a termine nei due sessi la messa in

questione del sesso da parte del complesso di castrazione” (p. 555).

Nell’economia soggettiva, del lato dell’immaginario, la significazione

del fallo “è evocata nient’altro che da ciò che chiamiamo una metafora,

precisamente la metafora paterna” (p. 555).

La formula della metafora o della sostituzione significante è così

scritta da Lacan:

dove S e S' sono significanti, di cui il primo si sostituisce al secondo

nella catena significante; x è la significazione sconosciuta; s è il significato

indotto dalla metafora, per la riuscita della quale è necessaria l’elisione di S'.

Questa è la formula generale della metafora, che si applica alla

particolare metafora del Nome-del-padre, che è quella che “sostituisce

questo nome al posto simbolizzato in un primo tempo dall’operazione

dell’assenza della madre” (p. 557).

Attraverso le diverse fasi descritte, che sono altrettante tappe della

vicenda de] soggetto in rapporto al significante, fino all’interdizione

dell’incesto e alla castrazione, il Padre, non il padre reale ma il significante

del Padre che è il Nome-del-Padre, viene ad assumere nell’inconscio una

funzione essenziale, quella di permettere l’identificazione al Padre nella sua

funzione normativa, ultima tappa sulla via segnata dall’identificazione al

tratto unario c dalla costituzione dell’ideale dell’Io. Ciò può verificarsi con il

prodursi di un nuovo punto di ancoraggio della struttura soggettiva, al di là

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della madre, quello da cui è avvenuta la procreazione, come chiamata

nell’ordine significante prima che come realizzazione biologica:

L’attribuzione della procreazione al padre può essere soltanto

l’effetto di un puro significante, di un riconoscimento non del padre reale,

ma di ciò che la religione ci ha insegnato a invocare come il Nome-del-

Padre. Certo non vi è nessun bisogno di un significante per essere padre,

non più che per essere morto, ma senza significante nessuno, dell’uno o

dell’altro di questi stati d’essere, ne saprà mai nulla (p. 556).

Anteriormente all’avvenimento di questa struttura metaforica, ciò

che è significato al soggetto non va oltre l’Altro identico alla Madre, ma

resta unicamente e interamente sospeso al suo desiderio che il figlio sia il

suo fallo: esso è, ed è solo e tutto, il fallo. Il desiderio materno esiste per il

soggetto in termini esclusivamente metonimici, non produce nulla,

potremmo dire, fuori di sé: la significazione, finché è sospesa tutta e solo al

desiderio della madre, rimane incompiuta e il significato non ha luogo. In

questa posizione il figlio non esiste che nella pretesa della condizione

assoluta di A: per essere devo essere ciò che manca all’Altro, cioè non

essere nulla eccetto che l’oggetto immaginario del desiderio dell’Altro. In tal

modo ciò che può o deve essere significato al soggetto — il fallo essendo

legato come possibile significato solo al desiderio materno, che è una

metonimia — rimarrà del tutto sconosciuto ed enigmatico: ciò per cui il

soggetto è stato chiamato all’ordine del significante non gli è stato

significato. Nulla avviene dal lato del significato, si ha resistenza alla

significazione, il soggetto esisterà in condizioni di alienazione e dipendenza

assoluta rispetto all’Altro.

La metafora paterna interviene in questo cerchio o atomo

metonimico, rompendo la posizione di totale soggezione e facendo

avvenire la significazione rimasta sbarrata. È in questo che vediamo la

funzione della metafora: “Ma tutto questo significante, si dirà, non può

operare che essendo presente nel soggetto. È proprio ciò cui soddisfo

supponendo che sia passato al piano del significato” (p. 504)

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La metafora realizza compromissoriamente quel che era impossibile,

che con ciò diventa non possibile ma reale, condizione e distinzione

adeguata a ciò che Freud chiama ritorno al rimosso.

S(A)-ф resta inaccessibile, la sola possibilità che qualcosa ne sia

significato efficacemente al soggetto è attraverso il compromesso della

metafora: il fallo è bensì significato, ma lo è grazie a un significante

metaforico che come tale non è il significante di quel significato ma quello

della Legge della sua circolazione e della sua funzione. Lacan nota che si

dice “in Nome del Padre” come si dice “in nome della Legge”. Il

superamento (metafora) della sbarra — a un tempo si realizza nel

soggetto, realizza il soggetto e “realizza” senza altre specificazioni: il campo

della realtà è il campo del soggetto sbarrato S; soggetto del desiderio.

La realtà è dunque il campo del debito di origine (simbolico),

costantemente attraversato dal desiderio (immaginario, come l’oggetto

immaginario, il fallo, che lo causa). Reso possibile dalla metafora esso resta

sospeso alla questione che il desiderio, che è una metonimia, porta con sé:

quella del godimento e della trasgressione che lo renderebbe possibile, a un

altro livello di passibilità) [17]

Aprile 1971

NOTE

* in AA.VV, Cahiers pour l'analyse, Scritti scelti di analisi e teoria della scienza a cura del

Centro Ricerche 2, Boringhieri, Torino 1972, pp. 244-289.

1 Questo scritto intende esporre certe nozioni e soprattutto una certa problematica

lacaniane, così come l’autore le ha intese: assumendosene, com’è giusto, la responsabilità.

Ciò che più importa, al di là dei singoli argomenti, è l’opzione, che sta alla base dell’intero

scritto, per una prospettiva — nell’accostare il discorso lacaniano — che non è

essenzialmente né linguistica né psicologica né terapeutica, con tutte le possibili riduzioni

che vi si possono collegare. La prospettiva scelta è piuttosto quella del concetto di

mancanza proposto da Lacan, preso come quello intorno ai quale tutti gli altri vanno

articolati per non rischiare di perderne l’essenziale. Questa sottolineatura va di pari passo

con la convinzione che la stessa portata logica del discorso analitico, la sua incidenza sul

campo delle scienze cosiddette “umane”, e il suo stesso valore d’uso nell’ambito

terapeutico, siano strettamente relativi a tale concetto.

Le citazioni riportate nel testo, quando non hanno altro riferimento oltre al numero di

pagina, indicato fra parentesi, sono tratte da J. LACAN, Ecrits (Seuil, Parigi 1966).

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2 J. LACAN in “Scilicet”, N.1 a (Seuil, Parigi 1968) p. 40.

3 S. Freud, La scissione dell’Io nel processo di difesa (1938).

4 Il corsivo é nostro.

5 Dal seminario di J. Lacan, “L’acte psychanalytique”, tenuto nel 107-68, un breve sunto

del quale é comparso sull’Annuaire dell’EPHE (Parigi, 108-6) p. 214.

6 M. SAFOUAN, La struttura in psicoanalisi, in “Che cos’è io strutturalismo?”, trad. it.

(Istituto librario italiano, Milano 3971).

7 Lacan distingue fra néant e rien, facendo osservare che l’etimo di rien è il latino rem,

accusativo di res-cosa. In italiano possiamo rendere la distinzione con nulla e nonnulla: rien-

rem è proprio ciò che non è nulla, senza con ciò essere semplicemente tale o tal altra cosa

presente; esse occupa una posizione intermedia, ha valore di termine medio.

8 J. LACAN, intervento su Psychanalyse et Médecine, riportato in Lettres de l’Ecole

Freudienne, N. 1, p. 45.

9 La mancanza si configura diversamente secondo i diversi momenti della

soggettivazione. Lacan distingue tre categorie della mancanza, che in ordine progressivo

(occorre altresì tener conto dell’effetto retroattivo di ogni tappa sulle precedenti) sono:

privazione, in cui la mancanza è reale, e l’oggetto simbolico; frustrazione, in cui la mancanza

è immaginaria e l’oggetto reale; castrazione, in cui la mancanza è simbolica e l’oggetto

immaginario ma senza l’immagine speculare.

10 P. MARTIN, La théorie de la cure d'après J. Lacan, Lettres de l'Ecole Freudienne, N. 2, p.

17.

11 All’ideale dell’Io-identificazione simbolica, e all’Io ideale-identificazione speculare,

corrispondono quelli che ordinariamente la teoria psicoanalitica definisce come

meccanismi di introiezione e rispettivamente di proiezione: l’uno non è dunque

semplicemente l’inverso dell’altro.

12 Lacan pone una polarità tra il soggetto rappresentato dal significante per un

significante sempre altro, e il soggetto del godimento. Cahier pour l’Analyse, N. 5, 70.

13 In La phase phallique (articolo non firmato), Scilicet, N. 1, 83 (1968).

14 J. LACAN, Scilicet, N. 1, 58 (1965).

15 Ibid., p. 36

16 Si intende la linguistica moderna.

17 Osserviamo, come pseudoconclusione, che nelle diverse lingue troviamo risolto in

modi diversi il problema della mancanza — come vuoto o buco circoscritto, non come

nulla —, che si pone nel linguaggio. Nella lingua di Freud è il noto Es a indicarla, e si sa

come Freud ne abbia fatto uso per dare un nome a qualcosa che aveva scoperto e che era

altrimenti innominabile. Egli stesso, pur facendo normalmente un uso sostantivato dell’Es

della lingua tedesca, come Das Es, è giunto a piegare la stessa teoria all’uso della lingua,

come nella nota espressione “Wo es war soll ich werden”, in cui es compare non come

sostantivo, privo di articolo. Nel francese, lo stesso posto è occupato da ça, e Lacan vi

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ricorre abbondantemente e con rigorosa coscienza di causa. Quanto alla lingua italiana,

sembra potersi osservare una completa, appunto, mancanza, al posto di es tedesco e di ça

francese. Quella italiana sarebbe così una lingua più aderente, rispetto alla francese e alla

tedesca, alla funzione più propria dell’inconscio, quella di rappresentare una mancanza,

poiché questa lingua manca dove qualcosa manca. Bisognerebbe tenerne conto, in

particolare sul terreno della traduzione degli stessi testi di Freud, io cui Es è solitamente

tradotto con Es, con un raddoppiamento dell’ambiguità implicita nell’uso freudiano,

privandolo però, nel passaggio di lingua, della sua originalità e fecondità.