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Giacomo B. Contri
2. [*]
NOZIONI FONDAMENTALI NELLA TEORIA
DELLA STRUTTURA DI JACQUES LACAN [1]
Una teoria inclusiva di una mancanza
che deve ritrovarsi a tutti i livelli. [2]
Premessa
Inizieremo da un’affermazione di Jacques Lacan tratta dagli Ecrits:
“Nell’inconscio che non è tanto profondo quanto piuttosto inaccessibile
all’approfondimento cosciente, c’è chi parla, ça parle: un soggetto nel
soggetto, trascendente il soggetto...” (p. 437).
Se torniamo a Freud in uno dei suoi ultimi scritti, assai breve,
pubblicato postumo, [3] troviamo associati intimamente, in un modo che
non manca di colpire, l’argomento stesso — quello di una “Ichspaltung”, di
una scissione del soggetto — già indicato nel titolo, e una dichiarazione
dell’autore in apertura dello scritto stesso, in cui l’umiltà del tono non
nasconde un nuovo progetto ambizioso, consegnato ad altri: “Per un
momento mi sorprendo nell’interessante posizione di non sapere se ciò che
ho da dire debba essere considerato come qualcosa di assai familiare e ovvio
o come qualcosa di interamente nuovo e strano (befremdend). Ma sono
incline a pensare in quest’ultimo modo.”
Crediamo che l’opera di Lacan vada collocata in questa prospettiva,
in questo presagio di una nuova apertura, termine questo che scegliamo per
accostarlo a quello ora ricordato da Spaltung o scissione, poiché una nuova
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apertura sorge ed è necessaria dove qualcosa che era aperto è stato chiuso,
immobilizzato, malamente suturato, suturato tout court. Pertanto non ci
sembra di compiere una semplice giustapposizione di testi citando qui,
all’inizio di questa esposizione, l’opposizione Hegel-Freud così come Lacan
la formula. Là dove Hegel dà una “soluzione ideale, quella, se così si può
dire, di un revisionismo permanente, in cui la verità è in riassorbimento
costante in ciò che essa ha di più perturbante” (p. 797), Freud “riapre alla
mobilità da cui escono le rivoluzioni, il giunto fra verità e sapere” (p. 802).
[4]
La difficoltà stessa presentata dallo stile lacaniano, attinente all’unità
di movimento implicito nel suo oggetto, nel suo metodo e nel suo
insegnamento, non è anch’essa inquadrabile in quella specie di piccolo
testamento lasciato da Freud? Gli Ecrits di Lacan infatti sono anche strani,
singolari, befremdend, o puzzling per usare un termine felice della
traduzione inglese.
Il soggetto in questione, soggetto dell’inconscio, è quello che Freud
ha potuto far avanzare con la scoperta dell’inconscio e, distintamente,
dell’Es, nel momento in cui né la nozione del soggetto psicologico —
intenzionale, soggetto della conoscenza, del sapere saputo, della
comprensione —, né la sua contestazione oggettivistico-
comportamentistica lo avevano saputo rimettere in rilievo, portare alla luce,
dopo la sua oscurazione — l’oscurazione della sua questione, la questione
dell’essere del soggetto — come effetto storico di quell’operazione
storicamente determinata che è il sorgere della scienza moderna, nel
momento che Lacan fa coincidere con il Cogito cartesiano, come momento
di un certo rimaneggiamento universale dell’incline umano, che è ordine
simbolico o di linguaggio.
Se si va al cuore dei processi primari, quelli che “danno all’inconscio
il suo regime” (p. 728), si potranno ritrovare le tracce di questo soggetto,
privo di conoscenza e rimosso dalla conoscenza, anzi il suo stesso nascere.
Non si tratta né di un nucleo soggettivo autonomo presente
all’origine — origine inevitabilmente mitica non meno della concezione che
lo formula — né, secondo un’altra versione della stessa concezione, di un
Io progressivamente sorgente là dove fino a un certo punto il suo posto
sarebbe occupato dall’affetto funzionante come soggetto protopatico, ma di
un soggetto che nasce come appello cioè come effetto di un messaggio non
indirizzato ad alcun soggetto già costituito e in ascolto di ciò che gli si può
dire. Esso nasce come effetto di linguaggio, come chiamato all’essere da un
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desiderio inconscio che ha origine nel linguaggio perché è dal linguaggio,
non dalla società o dalla natura, che nell’ordine umano si costituiscono le
funzioni di padre e madre, di uomo e donna, nel loro desiderio di generare
in funzione di ciò che, in modi diversi per l’uno e per l’altro, si sottrae,
manca, al livello stesso e allo stesso livello del linguaggio, causando per la
sua indisponibilità il desiderio di rappresentarlo, ri-presentarlo, riprodurlo.
Questo messaggio, questo desiderio, questo investimento
significante è implicito nell’inconscio ed è l’inconscio a trasmetterlo, non
come soggetto che comunica a e con un altro soggetto, ma come struttura
che ri-crea qualcosa di Mercato, a partire da ciò di cui essa difetta affinché
quello ne occupi il posto, perché faccia funzione di presenza nella sede di
una mancanza, come luogotenente del difetto originale della struttura
significante o logica che è l’inconscio.
Questo messaggio è emesso incessantemente, insistentemente, e non
potrebbe essere altrimenti. L’inconscio è in moto perché — ma dovremmo
dire meglio: il moto dell’inconscio consiste nel fatto che — ogni suo
elemento ruota intorno al solo centro concepibile in questo universo: un
difetto o una mancanza. Esso non farà altro che rappresentare sempre la
stessa cosa. E non: questa cosa è rappresentata per qualcuno, ma: qualcuno
è rappresentato per rappresentare qualcosa. Il soggetto è chiamato a
rappresentare la cosa che non è accessibile, e, poiché è accessibile solo ciò
che è rappresentabile, il soggetto è chiamato come rappresentante della
rappresentazione impossibile. In questa funzione di rappresentante il soggetto
non è però solo, e lo vedremo quando parleremo di ciò che Lacan chiama
oggetto a.
Il messaggio così emesso dall’inconscio costituisce un deposito
all’insaputa del soggetto, clic pure ne risulta determinato, e di cui il soggetto
non è né sciente né co-sciente (cioè in comune con un altro soggetto).
Questo deposito è un sapere senza soggetto, che all’opposto di ogni altro
sapere sopravvenuto, non ammetterà mai un soggetto che se ne faccia
l’enunciante, sia pure in un momento secondo di un recupero o una
riappropriazione che restituisca al soggetto ciò che si era prodotto senza di
esso — come nella concezione fenomenologica o in quella archetipica —,
ma fonda il soggetto dell’inconscio come soggetto dell’enunciazione,
soggetto all’enunciazione. “Che ci sia un inconscio vuol dire che c’è un
sapere senza soggetto.” [5] E altrove Lacan definisce il Trieb freudiano “un
sapere che non comporta la pur minima conoscenza, essendo inscritto in un
discorso di cui, come lo schiavo-messaggero dell’uso antico, il soggetto…
non sa né il senso né il testo, né in quale lingua è scritto” (p. 803).
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Posizione della mancanza
Riprendiamo dal processo primario così come Freud lo concepisce,
nel suo rapporto di preminenza rispetto ai processi secondari: non solo e
non tanto in quanto questi siano, per così dire, disposti all’occorrenza a
ritirare le proprie esigenze, ma in quanto essi propriamente servono i
processi primari e, lungi dal rappresentare il primato finalmente raggiunto
della realtà intesa come il normale e valido interlocutore del soggetto, o di
una normatività realistica, non fanno che rappresentare, una volta di più, lo
statuto di subordinazione della “realtà” (oggetti, bisogni, leggi, percezioni)
rispetto a un’altra dimensione che sull’attributo “reale” avanza propri e
speciali diritti. Anzi, mentre correntemente usa privilegiare i processi
secondari dell’attributo della “maturità”, si potrebbe anticipare che
l’elemento simbolico messo in vigore nel discorso lacaniano, il significante,
a fortiori, poiché era già lì a esercitare i suoi effetti, anche nei riguardi di
questa maturità secondaria, è lui a essere veramente “maturo”.
Si potrebbe riassumere nei termini seguenti la legge primaria dello
psichismo nella sua tendenza all’identità di percezione” propria secondo
Fremi dei processi primari: 1) esso vive di un’esigenza essenziale di
soddisfazione; 2) tale soddisfazione consiste in un ritrovamento, e non nella
soddisfazione di un bisogno. L’inconscio non conosce il bisogno, del cibo
per esempio, e quando l’oggetto del bisogno viene ad occuparvi un posto,
esso sarà già altro, concatenato con altri oggetti in modo strano cd estraneo
al bisogno. Specifici bisogni, la nozione stessa del bisogno, potranno entrare
in questa catena allo stesso titolo di tutti gli altri possibili oggetti; 3)
l’oggetto di questa ricerca di soddisfazione è perduto. Ciò implica anche che
un oggetto perduto può essere l’oggetto di una ricerca inesorabile, cioè il
fatto di essere perduto non lo rende meno oggetto, e il fatto di essere
oggetto non lo rende meno perduto.
La ricerca tende all’oggetto in quanto perduto. Esso esiste come
mancante all’esterno dove è sperimentato come ciò che viene meno, che si
sottrae (per esempio le assenze della madre, la non disponibilità del seno, e
forse più ancora l’esaurimento del seno). L’esterno è incontrato, in termini
radicali, come ciò che è essenzialmente caratterizzato dal venir meno, dal
decadere, e a un tempo come ciò da cui quello che è vissuto come
soddisfacente si stacca (esempio: il seno dal corpo materno) per il fatto del
suo venir meno.
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Già nella più elementare delle esperienze si presenta così.
simultaneamente, una serie di temi collegati dell’esperienza di soddisfazione
in rapporto con l’oggetto in quanto caduco, parziale, diviso, staccato.
É in questo punto che si ha come un primo abbozzo della
soggettività: nel sorgere di una questione di esistenza, nella rivelazione
dell’esistenza là dove qualcosa si produce non come presenza ma come
mancanza.
Nella mancanza come la proprietà fondamentale dell’oggetto si
fonda la funzione significante o di rappresentazione, che è funzione di ri-
presentazione: l’oggetto mancante non è mancanza pura, non manca di
ritornare. Il seno esaurito ritorna come seno allucinato, come ri-
presentazione, cine come significante, oggetto significante: è sempre
oggetto, però non è più quell’oggetto semplicemente, ma attivo, con la
funzione (li ri-presentare qualcosa di diverso da lui, e che non è
rappresentabile: rimosso.
Qualcosa in meno, la mancanza, ha prodotto qualcosa in più,
qualcosa che è lì per un qualche effetto di significazione. Sarà questa
funzione a dominare i processi primari e a interferire con tutta l’esperienza
umana.
I processi primari tendono a risperimentare, a far ritornare, a ri-
presentare ciò che una volta si è presentato conte soddisfacente, cioè
all’identità di percezione. Ma è qui che nasce la difficoltà, la questione, la
divisione. Nell’allucinazione — quella propriamente detta, così come quella
del sogno — la rappresentazione in scena, clic riproduce indubbiamente lo
stesso oggetto che ha soddisfatto il bisogno, non è tuttavia la
rappresentazione legata al desiderio inconscio che l’ha messa in scena. A il
desiderio inconscio, dice Freud, a produrre l’allucinazione cioè la
rappresentazione; ma ciò che vi appare, di cui si ha coscienza, non è
l’oggetto del desiderio inconscio. Il desiderio tende per sua natura ad
allucinare il suo oggetto, ma sulla scena tale oggetto resta nascosto, non si
ripresenta: la rappresentazione fallisce, l’identità non è raggiunta; la
tendenza all’identità di percezione rimane come motore, ma manca il suo
scopo.
M. Safouan, dopo aver citato il seguente passo di Freud riferito al
“sogno dell’iniezione a Irma”: “Non avviene che un desiderio sia cosciente
e successivamente la sua realizzazione allucinatoria. Solo quest’ultima sarà
cosciente, e l’anello intermedio (il desiderio) deve essere inferito”, conclude:
“Basta questo testo a far rovinare l’interpretazione corrente secondo cui la
rappresentazione allucinata, che riproduce un oggetto di cui il soggetto ha
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precedentemente preso coscienza come quello che ha soddisfatto il suo
bisogno (il seno per esempio), sarebbe la rappresentazione cui si collega il
desiderio inconscio. Si esige di fatto una nuova definizione dell’oggetto del
desiderio nella sua eccentricità radicale in rapporto alla coscienza, così come
nella sua irriducibile distinzione in rapporto ad ogni oggetto del bisogno.”
[6]
Una mancanza impone da sempre, senza che vi sia un’origine, la sua
legge. Se tali ne sono le caratteristiche, non ci si può limitare a collocare tale
oggetto-mancante sullo sfondo della prospettiva che si è aperta di
soddisfazione-ritrovamento, ma va messo all’apertura stessa della
prospettiva, è l’apertura stessa, l’intero spazio dell’apertura, occupandovi
così il posto della causa.
Struttura
L’oggetto del desiderio è perduto non perché un avvenimento dato
l’abbia fatto venir meno. I processi primari tendono a una “identità di
percezione”, ma quella percezione, proprio quella, cui precisamente tendono
tali processi, tanto è quella, quanto non ha mai avuto luogo, allora. Ma se
nessuna espulsione da un interno a un esterno ha avuto luogo, e se l’inizio
(la mitica prima percezione) non è contabile nel seguito dei giorni, se le
nozioni classiche di spazio e tempo non possono dar conto di un evento
tanto impossibile, come il famoso coltello senza manico e senza lama,
occorrerà fare ricorso, per renderne conto, a nozioni appropriate.
Rifiutando la teoria come “modello teorico” cui ridurre la metapsicologia
freudiana, Lacan avanza una nozione di struttura già operante con queste
caratteristiche, e che sarebbe la stessa “macchina originale” operante
nell’esperienza “che vi mette in scena il soggetto” (p. 649).
Contro l’antinomia fra una struttura apparente dell’esperienza o del
fenomeno “naturale” descritto, e una struttura a distanza dall’esperienza che
sarebbe lo stesso “modello teorico”, Lacan propone un modo terzo della
struttura, quella che insiste negli “effetti che la combinatoria pura e
semplice del significante determina nella realtà in cui essa si produce” (p.
649).
Lacan paragona gli effetti della struttura sull’esperienza a “ciò che
una turbina, cioè una macchina ordinata secondo una catena di equazioni,
apporta a una cascata naturale, per la realizzazione dell’energia” (p. 649).
Paragone che mette anche in evidenza la particolare natura dei rapporti fra
il prima e il poi in questo modo della struttura: nello spazio e nel tempo la
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cascata viene prima della turbina, ma ciò che interessa non è la realtà della
cascata, ma la realizzazione dell’energia, grazie a quel dopo che è la turbina.
Cosi a partire da un concetto, realisticamente impensabile, di una
mancanza — formulabile nei termini: qualcosa manca, ma nulla manca nel
reale — si pone l’esigenza di ripensare la logica dei processi soggettivi, e di
costruire i concetti adeguati di una nuova logica. Il primo di questi concetti
è quello di inconscio, senza aver scoperto il quale, dice Lacan, Freud non
avrebbe scoperto nulla, e che deve essere chiarito non avere “la pur minima
realtà come apparato differenziato nell’organismo”: l’inconscio è un
concetto costruito non “a distanza” dall’esperienza, ma sulla strada di una
ricerca logica da proseguire.
La struttura esige un’impossibile percezione prima, non
sovrapponibile né riducibile a un qualsivoglia perceptum “reale”,
un’oscillazione o una divisione a livello del perceptum, al posto dell’univocità
che comunemente e classicamente gli è riconosciuta, con la precisione della
reiterazione hic et nunc di un là e allora. Questa esigenza indistruttibile della
struttura è anche un’indigenza che a nessun riempimento, a nessuna
Erfüllung è dato, di colmare.
La divisione riconoscibile nel perceptum si ripete in ciò che concerne il
percipiens, la cui unità è instancabilmente invocata da diversi autori anche
quando ne è ammessa una profonda oscillazione nel perceptum: si pensi alla
distinzione corrente fra percezione normale, con oggetto, e allucinazione, o
percezione senza oggetto, distinzione ultimamente fondata non sul dato
sperimentale, ma sull’ipotesi preliminare e ideale dell’autoidentità del
soggetto anche nelle sue oscillazioni più estreme.
Si può far notare qui una certa prossimità con il problema
dell’angoscia, correntemente definita come affetto senza oggetto.
Non si tratta di un generico accostamento, ma, quanto al “senza
oggetto”, di una precisa identità di problematica.
La concezione lacaniana di una mancanza o di un difetto strutturale
della funzione rappresentativa, che investe ogni oggetto rendendolo
essenzialmente insufficiente o insoddisfacente, e investe il soggetto
rendendolo diviso, porterà anche a definire l’angoscia e l’allucinazione come
una terza eventualità: non “con oggetto”, non “senza oggetto”, ma non senza
oggetto.
Il suo soggetto esiste come il conciato di tale mancanza circoscritta,
che è sia questa mancanza — dell’hic et nunc della ricerca in cui è impegnato
il soggetto, impegno di cui il soggetto è non il contraente ma la posta: in
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gioco è l’essere del soggetto — sia quella mancanza, oggetto che manca
precisamente là dove è atteso, e dove il soggetto è chiamato a esistere “en
souffrance”, in una “stupida esistenza” o nella sua “imbecillità” di
rappresentante della mancanza dell’Altro, in cui rimarrà fino al momento
della sua nuova nascita quale desiderante, come avviene in modo esemplare,
ma non esclusivo, nella cura: “...la psicoanalisi può accompagnare il
paziente sino al limite estatico del ‘Tu sei questo’, deve gli si rivela la cifra del
suo destino mortale, ma non sta solo al nostro potere di psicoanalista il
condurlo a questo momento in cui comincia il suo vero viaggio” (p. 100).
Valorizzando la metafora della prospettiva già utilizzata,
visualizzabile con il disegno di due linee divergenti, si può vedere che non si
propone qui nulla di comune con la prospettiva disegnata da una psicologia
che al vertice ponga il soggetto, simbolizzabile con un occhio, e nello spazio
che vi si apre il campo della realtà, generando così l’eterna diatriba e
pseudoconflitto intorno al quesito dei diritti da attribuire rispettivamente
all’uno e all’altra. Psicologismo e realismo, od oggettivismo: opposizione —
con tutte le sue varianti, variamente distribuite nelle “scienze umane” in
funzione delle diverse ottiche di cui ciascuna si serve, e nella misura in cui
ciascuna funziona secondo un’ottica — di comodo, sia nel senso che l’una
finisce in qualche modo per accomodarsi o adattarsi all’altra, sia nel senso
che il loro moderato conflitto serve a mascherare la questione fondamentale
dell’identità del soggetto e del suo posto rispetto alla causa. Il modello
prospettico, che subito abbandoneremo, serve a mostrare che lo spazio
dell’esperienza è quello di un’apertura — Lacan propone “beanza”, come
quella di una ferita o di un taglio — i cui estremi non sono occupati da una
visione e dal suo oggetto (ricordiamo qui la polemica freudiana contro ogni
Weltanschauung): l’intero spazio trova il suo determinante principale e
principiale in un’assenza localizzata e senza origine temporale che funge da
causa nella dialettica soggettiva.
Il modello utilizzato andrà abbandonato proprio per ciò che esso
permette di comprendere: sarà il ricorso alla topologia, per il suo modo
particolare di trattare delle superfici, che permetterà di reperire dei
“modelli” adeguati a una logica che non saprebbe più bastare a sé stessa,
rispondere alle proprie esigenze, se non diventando topo -logica.
É la direzione stessa imboccata da Freud clic, avendo costruito un
concetto (quello di inconscio) sul piano logico, è stato necessitato a
costruire una certa topologia per rendere conto delle esigenze imposte
dall’introduzione di questa nuova sorta di concetto.
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Ordine simbolico, catena significante, tratto unario
L’inconscio è caratterizzato dal “non potersi soddisfare che
ritrovando l’oggetto fondamentalmente perduto” (p. 45).
L’inconscio freudiano implica una concezione della memoria, a partire
dall’introduzione, nel “Progetto”, del sistema ψ, primo passo sulla via della
scoperta dell’inconscio.
Lacan prosegue: “Noi insegniamo al seguito di Freud che l’Altro è il
luogo di quella memoria che egli ha scoperto sotto il nome di inconscio,
memoria che egli considera come l’oggetto di una questione rimasta aperta
in quanto condiziona l’indistruttibilità di certi desideri. A tale questione noi
risponderemo con la concezione della catena significante, in quanto una
volta inaugurata dalla simbolizzazione primordiale (il gioco del “Fort-Da”,
messo in luce da Freud all’origine dell’automatismo di ripetizione, la rende
manifesta) questa catena si sviluppa secondo nessi logici la cui presa su ciò
che va significato, cioè l’essere dell’esistente, si esercita attraverso gli effetti
di significante, che abbiamo descritto come metafora e metonimia” (p. 575).
Concezione della memoria in funzione del ritrovamento, che
riprende l’opposizione kierkegaardiana fra ripetizione e reminiscenza, e la
completa “sottraendo all’agente umano identificato alla coscienza, la
necessità inclusa in questa ripetizione” (p. 46). Il gioco del “Fort-Da” è un
esempio della posizione cardine del soggetto nell’alternativa
presenza/assenza, + / l’oggetto del gioco essendo del tutto indifferente allo
sviluppo dell’alternativa: “Questo gioco (...) manifesta nei suoi tratti radicali
la determinazione che l’animale umano riceve dall’ordine simbolico.
L’uomo letteralmente devolve il suo tempo a dispiegare l’alternativa
strutturale in cui la presenza e l’assenza si richiamano l’una all’altra. Nel
momento della loro congiunzione essenziale, o per così dire al punto zero
del desiderio, l’oggetto umano cade sotto il colpo della cattura, che
annullandone la proprietà naturale lo asserve ormai alle condizioni del
simbolo. Veramente qui troviamo uno scorcio illuminante dell’ingresso
dell’individuo in un ordine la cui massa lo supporta e l’accoglie nella forma
del linguaggio, e sovrappone nella diacronia come nella sincronia la
determinazione del significante a quella del significato. Si può cogliere alla
sua stessa emergenza questa sovradeterminazione che è la sola di cui si tratti
nell’appercezione freudiana della funzione simbolica” (pp. 46 sg.).
Per i fini della nostra esposizione, riterremo alcuni aspetti essenziali
di quella che va considerata come la struttura della determinazione
simbolica:
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1) l’ordine simbolico è autonomo e determinante;
2) la sovradeterminazione significante deriva dalle condizioni
privilegiate dell’ordine simbolico, e non è concepibile come
sovradeterminazione reale;
3) la soggettività ha origine come effetto del significante e non
come rapporto con il reale;
4) la natura dell’oggetto è secondaria e la sua importanza è
subordinata.
Il problema che ora ci interessa è di cogliere come sorga il soggetto
confrontato con il difetto strutturale della funzione rappresentativa, e con la
catena significante in quanto tale, o inconscio, o — con una terminologia non
capricciosa che ha il vantaggio e la funzione di definire l’inconscio non
soltanto in termini negativi a partire dalla coscienza come positivo —
l’Altro. Il negativo, la negazione, non esiste che per la coscienza.
L’inconscio, in ciò che ha di più strano — strano solo se si parte, com’è
normalmente, da ciò che essenzialmente lo misconosce, cioè ancora il
soggetto della coscienza stessa — non conosce la negazione.
Esso è corredato di un positivo, di un sapere, esso stesso inconscio,
una memoria, che necessariamente bisogna attribuirgli per il suo tendere
incessante e cieco verso un oggetto che per il fatto di essere perduto non è
tuttavia il puro nulla [7] esclusivo di un qualsiasi sapere. Nella ripetizione
che la muove, ogni forma rappresentativa, ogni significante, non è
concepibile che come ciò che rappresenta qualcosa o qualcuno invece di,
per, un altro significante, che, se si rappresentasse, se comparisse nella
catena, se avesse la possibilità dell’auto-rappresentazione, darebbe
finalmente luogo all’identità, all’identicamente identico instancabilmente
cercato.
In questo gioco di un significante per un altro, il primo è
interscambiabile con qualsiasi altro, avendo in comune con ogni altro il suo
significare-per; il secondo, quello per cui tutti rappresentano, restando
muto, inimmaginabile, incalcolabile, unico, dà a tutti i significanti la loro
funzione comune, che ne permette lo scambio, che è quella di rappresentare
per, e che, in questo, li rende equivalenti fra loro.
Tutti i significanti hanno un tratto comune unico, ma questo tratto è
quello che, unico fra tutti, pone in rapporto con ciò che sfugge alla
rappresentazione. Tale tratto è dunque il significante della ripetizione,
simbolizzabile con I, o anche della non identità a sé di nessun significante o
dell’assenza di identità, che si può scrivere come: “Non: A=A”. Il soggetto,
non potendo reperirsi, identificarsi, essere identico a sé stesso, a livello
dell’oggetto (per-duto), né di un qualsiasi significante (mai identico a sé
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stesso) né di quel significante (non rappresentabile), non potrà che reperirsi
o identificarsi a livello dell’unico significante per cui vale il principio di
identità perché, e proprio e solo perché, è il significante dell’identità
impossibile. Il soggetto vi si identifica, si coglie nell’unico possibile
significante del soggetto. Ma poiché tale significante e significante di una
non autoidentità, di una separazione o una differenza di ogni significante da
sé stesso, di qualcosa che può essere immaginato solo come un taglio o una
divisione, e poiché ogni significante non fa che significare questo taglio, è a
livello di questo, del puro intervallo, che si può riconoscere lo spazio del
soggetto. Il soggetto viene a essere in quanto effetto del significante, là dove
ciascuno significa la sua mancanza a essere (manque-à-être): “Il significante
rappresenta un soggetto per un altro significante.”
Ciò equivale a dire che il primo statuto del soggetto, potremmo
anche dire il soggetto in statu nascendi, preriflessivo e pre-egoico, è a livello
simbolico. Esso vi esiste in quanto appello, in quanto chiamato: per una
profonda necessità strutturale, esso si ritroverà nel suo nome proprio, che lo
attende nel desiderio dei suoi genitori come nella riga vuota del registro
dell’anagrafe. E in quanto nasce come effetto del difetto originale della
struttura, della sua mancanza a essere, il suo essere si riduce alla questione del
suo essere — “chi sono io?”, formulazione discutibile: l’analisi la riformula
in: “Chi è ‘io’?” —, che a un tempo è richiesta insistente di una risposta,
richiesta di un sapere che fonda il soggetto come desiderio di sapere.
Ritroviamo qui la necessità che spiega il fatto altrimenti inspiegabile
dell’immensa ricerca teorica infantile che si rivela nelle complesse, precoci e
a modo loro rigorose “teorie sessuali infantili”, che testimoniano di quel che
definiremmo l’ intellettualismo senza fondo dell’ in-fans , riconducibili la
dove il soggetto sorge come questione del proprio essere e come desiderio
di sapere.
Questa identificazione simbolica permette anche di chiarire un’altra
distinzione freudiana, spesso data per oscura e lasciata in disparte, la
distinzione fra ideale dell’Io e Io ideale: il primo essendo costituito dalla stessa
identificazione simbolica, che funzionerà da filo di Arianna nel labirinto
delle identificazioni immaginarie, ingannevoli nella loro natura e costituenti
l’Io ideale. É importante notare fin d’ora che lo studio dell’ideale e
dell’idealità, così come Freud lo ha iniziato, è stato studio della funzione
soggettiva di idealizzazione, e non applicazione di un ideale, che nel caso
dello scienziato sarebbe l’ideale dello scienziato e miei caso dello
psicoanalista l’ideale dello psicoanalista.
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Come significante del soggetto sorto da una mancanza, il tratto
unario andrà preso come significante di questa tendenza, della tendenza del
soggetto, del soggetto come tendenza o come desiderio. L’ideale dell’Io che
se ne costituisce non avrà altro che una funzione guida del soggetto verso
l’oggetto del suo desiderio: la Verità non è dell’ideale — né dell’ideale
dell’Io, né degli “ideali” dell’Io ideale —, ma del desiderio,
E se l’analisi ha per compito quello di condurre un individuo
all’assunzione del proprio desiderio, prima che alla guarigione dei suoi
sintomi, anzi come “ristabilimento”, non rispetto alla malattia ma delle
condizioni per il dissolvimento dei sintomi, la funzione guida dell’ideale vale
solo fino a un certo punto, quello in cui “inizia il vero viaggio”.
Alla definizione del soggetto come sbarrato, S, in quanto non ha
accesso all’oggetto del desiderio, ma vi entra in rapporto attraverso il
desiderio di un altro, della Madre, che è desiderio dell’Altro, si aggiunge, o
meglio la perfeziona, la definizione del soggetto come divisione. Si tratta della
stessa divisione colta fra significante e significato, cioè come discontinuità,
taglio, nel discorso, e che può essere ripresa come divisione fra sapere e
verità, divisione strutturale.
La discontinuità, il taglio, se può essere considerata come il prezzo
pagato alla perdita d’origine, il debito che il soggetto che viene al mondo
deve pagare alla sua origine, può anche essere presa come un guadagno, se è
quella che fra vero e falso stabilisce una continuità classicamente illogica, ma
logicamente risultante come effetto di linguaggio.
La realtà umana viene così a essere quella di un soggetto che non
coincide con l’esercizio di un discernimento fra vero e falso e con
l’accumulo della verità sul conto del proprio sapere, ma che è soggetto a
una logica di scambio fra dimensioni che si contendono senza fisse
frontiere il suo campo, quello della realtà. Si tratta delle altre due dimensioni,
o “registri”, definite come immaginario e simbolico.
La relazione immaginaria e il suo terzo
All’inizio l’individuo umano è impotente, non sa nulla, è alla mercé
più completa di un altro: da cui dipende non solo nei suoi bisogni di
sussistenza, poiché anche in tali bisogni riceve soddisfazione esclusivamente
in funzione di ciò che rappresenta nel desiderio dell’altro e nei motivi per
cui questi se ne prende cura. Al suo nascere, egli è già altrove che in sé
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stesso, nella pretesa che ha su di lui l’altro, e al posto simbolico che occupa
nel suo desiderio inconscio, e che in questa accezione è altro a diverso
titolo, per la sua azione simbolizzante, e perciò va preso come Altro. La
madre è Madre, Altro realizzato, o meglio occupa realmente il posto
dell’Altro.
Nella condizione iniziale, il significante si esercita sull’individuo
umano allo stato puro, senza alcuna struttura soggettiva di mediazione,
imponendogli, in una prima cattura della realtà umana nell’ordine
significante, la propria condizione, quella che gli autori francesi definiscono
di morcellement, o di frammentazione. La realtà del corps morcelé è tale perché il
significante è tale: frammenti. In questo stadio il corpo è un insieme di
elementi immaginari senza che nessuna funzione soggettiva li unifichi in
una totalità. Condizione di frammentazione irriducibile a una
considerazione realistica del corpo, e riconducibile, nella sua anarchia
regolata, alla sovrapposizione, per meglio dire alla coincidenza, del
significante con il corpo: come si verifica per il corpo nel sogno, nella
psicosi e anche nell’anatomia fantasmatica rigorosamente operante
nell’isteria. E poiché il significante come insieme rappresentativo articolato
attorno a una perdita è l’Altro stesso, e poiché il corpo è il luogo di quella
perdita che è la castrazione, il corpo e l’Altro coincidono per essenza:
l’Altro è il corpo.
Fino a quel nuovo momento soggettivo che sarà l’assunzione di
un’immagine unificata del corpo, il soggetto esiste da e per il significante
senza mediazioni: è il taglio, continuo e mobile, che il significante impone al
corpo in frammenti, dei cui contorni il soggetto può essere inteso come la
mappa intracciabile, perduto in un immaginario senza centro e senza
menzogna, sprovvisto di Io e di parola. Solo vi esiste come riferimento
l’oggetto incontrato come mancanza e restituito come significante, come
rappresentazione fallita salvo che in un punto, quello di dar luogo al
soggetto come votato al significante non rappresentabile,
A partire da un’età variabile, intorno al sesto mese di vita, un nuovo
evento soggettivo può prodursi con quello che Lacan definisce “stadio dello
specchio”: in quel tipo di relazione duale che è costituita dalla coppia
bambino/sua immagine allo specchio, si verifica la prima fondamentale
identificazione nel senso psicoanalitico del termine, quella per cui
l’assunzione di un’immagine produce una trasformazione nel soggetto, e, in
questo caso, quella per cui l’immagine percepita al di là dello specchio si
lega all’insieme degli elementi immaginari del corpo in frammenti
sollevandolo in un’unità e totalità immaginaria, assunzione di una forma che
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“situa l’istanza dell’Io, prima della sua determinazione sociale, in una linea
di finzione” (p. 94).
Possiamo trascrivere la relazione come: corpo-immagine del corpo,
immagine reale-immagine virtuale, i-i’. Il primo lato della relazione, e
dell’equazione immaginaria che attraverso l’identificazione si stabilisce, è
inaccessibile alla percezione del soggetto, che accede alla sua immagine solo
alienandosi nell’al di là speculare. Il corpo per lui non è nulla eccetto che ciò
che gli è dato di cogliere nell’al di là del corpo reale, nell’immagine.
Ma ciò che decide questo importante momento di soggettivazione è
che quell’al di là non si riduce alla dualità della relazione immaginaria: questa
è determinata e guidata dal simbolico, essendo necessaria la presenza di un
Altro reale, la Madre, che esercitando un riconoscimento, in funzione delle
esigenze che le sono proprie cioè il suo stesso desiderio, implicandovi il
bambino come significante del proprio desiderio, autorizza, si direbbe sotto
i suoi auspici, quella coalescenza immaginaria, che ha luogo dunque non in
sé stessa ma altrove, in A.
L’Io come identificazione immaginaria non farà che misconoscere la
sua filiazione in una linea di dipendenza simbolica, la topologia che
generandolo lo include e gli assegna un luogo e una funzione: ma
nonostante la sconfessione della causa, come causalità strutturale, implicita
nella sua stessa struttura di Io, tuttavia non vi si potrà sottrarre, nelle sue
operazioni, nel suo discorso, come già nella sua origine. Le menzogne che
emetterà a partire dalla menzogna iniziale che è l’illusione del credere di
ritrovarsi come soggetto per il fatto di designarsi nell’enunciato — cogito ergo
sum —, sono in qualche modo calcolate e calcolabili essendo preordinate
non da lui. L’Io è misconoscimento, ma non è lui a costituirsi come tale: la
menzogna è un’arte difficile che l’Io non sa esercitare da solo.
L’Io è una struttura che si forma necessariamente, e che corrisponde
a una più profonda necessità strutturale, quella per cui vero e falso non si
oppongono poli/mente, ma per cui la menzogna è una tappa obbligata della
verità storica: il cui tracciato deviante passa per una tappa che è di inganno
o di finta, e una finta complessa perché in essa si finge di fingere, si cerca di
far prendere per falsa una traccia vera. E, più ancora, per ottenere questo
effetto, nell’individuo umano la finta è fondata su una cancellazione delle
tracce, operazione che non sarebbe possibile né concepibile se non per la
garanzia di un ordine Altro, di un ordine che non si riduce alla relazione
dell’alterità immaginaria, Altro rispetto all’altro. “Ma è chiaro che la Parola
non inizia che con il passaggio della finta all’ordine del significante, e che il
significante esige un altro luogo — il luogo dell’Altro, l’Altro testimone, il
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testimone Altro da qualsiasi dei partner —, affinché la parola che esso
supporta possa mentire, cioè porsi come Verità” (p. 807).
È di questo Altro che si deve trattare, in rapporto a quanto si è già
accennato riguardo alla mancanza, al puro soggetto del significante, o alla
relazione immaginaria in cui la Verità trova la sua mediazione, attraverso
falso- e vero-simiglianza. È l’Altro, “luogo trascendentale”, “sito
preliminare del puro soggetto del significante”, “luogo della Parola” e
“testimone della Verità” a dare all’inganno della Parola la sua dimensione.
Sono due e annodati i problemi essenziali rispetto a questo Altro:
1) che esso si mantenga nel suo statuto di alterità radicale, o nel suo
essere terzo, rispetto all’altro della relazione duale in cui ambedue i termini
sono “altro”, interscambiabili —, senza di che nessuna soggettività umana
sarebbe possibile; 2) che esso sia confrontato alla questione della mancanza,
e cioè all’alternativa, che è quella del teorico non meno che quella del
bambino, fra l’Altro come completo o come mancante, come esistente o
come non esistente, come soggetto (assoluto) o come luogo, come
onnipotente o limitato, come libero o come sbarrato esso stesso. In queste
formulazioni si potrà riconoscere la questione del bambino concernente la
castrazione, questione che nel bambino è universale: l’alternativa riguarda non
solo, anche se privilegiatamente, la madre, ma i diversi oggetti (animati e
inanimati, come nel caso del piccolo Hans descritto da Freud), il padre, e,
essenzialmente, lui stesso, e lui stesso quale che sia il suo sesso biologico: il
che conferma non solo l’universalità della questione, ma il fatto che essa è
posta a livello del simbolico e non del reale.
Nell’assunzione dell’immagine speculare non si contempla un Io che
dice: ecco la mia immagine, cioè un soggetto che si riconosce, una struttura
preliminare di riconoscimento, ma un Io che si forma proprio in questo
punto. Si potrebbe dire: l’lo non apprende ma è appreso, preso, catturato. E
questa coalescenza con l’immagine si verifica per l’intervento di mi fattore
terzo. Infatti, è nello sguardo della madre, nella sua approvazione, o nel suo
riconoscimento, che il bambino trova di che e perché riconoscersi,
identificarsi; l’assunzione dell’immagine risulta come riconoscimento di
riconoscimento, l’oggetto-immagine è preso come pegno di riconoscimento
o di amore: io sono ciò che tu mi vuoi là dove tu mi dimostri di volermi.
Sulla via aperta partendo dall’esigenza di soddisfazione, abbiamo così
una seconda dimensione, quella della domanda, distinta da quella del
bisogno, come domanda di amore o di riconoscimento, al di là degli oggetti
che chiede senza ridurvisi.
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Da A ad A. Domanda e desiderio
Su questa via manca che sia compiuto un altro passo. Non
solamente, in rapporto all’Altro, si costituisce l’Io come alienazione
nell’altro, del che l’Altro funziona oltre che come catalizzatore, anche e
soprattutto come il riferimento simbolico; ma anche, con la domanda come
appello incondizionato all’Altro, si ha una dimensione di alienazione del
soggetto nell’Altro, di soggezione del soggetto all’Altro, che si può istituire
solo in un fantasma dell’onnipotenza dell’Altro, in cui: l’Altro è, o: l’Altro
non manca, non è affetto da una mancanza, almeno perché come soggetto
posso sovvenire a questa mancanza, facendomene lo strumento (voglio ciò
che tu mi vuoi. É il caso della perversione, in cui “il soggetto si fa lo strumento
del godimento dell’Altro” (p. 823)), o cercando per mio conto ciò di cui
l’Altro manca (voglio ciò che tu vuoi. É il caso della nevrosi, per cui il
nevrotico è colui che “identifica la mancanza dell’Altro alla sua domanda”
(p. 823)). La domanda è un passaggio obbligato, e vi si ritrova il
fondamento delle perversioni e delle nevrosi “fisiologiche” dell’infanzia.
Dicendo passaggio obbligato, non si intende un semplice passaggio
evolutivo, ma piuttosto s’intende che per effetto della stessa dimensione
della domanda si apre una nuova dimensione, quella del desiderio: la quale,
per il fatto di risultare come effetto non è tuttavia secondaria, poiché
l’effetto della domanda di amore non è quello di creare il desiderio, ma di
rivelarlo, di fargli posto, al di qua della stessa domanda. Esso funzionava
già, dietro la domanda e sostenendola, e il suo effetto, al momento della sua
emergenza, è quello di arrestare il movimento della domanda che, essendo
quello di una domanda di amore, sempre tesa al di là dei suoi oggetti,
sarebbe infinito. “Il desiderio non è l’appetito della soddisfazione, né la
domanda di amore, ma la differenza che risulta dalla sottrazione del primo
dalla seconda, il fenomeno stesso della loro scissione (Spaltung)” (p. 691).
“Il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal
bisogno: e questo margine è quello che la domanda, il cui soggetto non può
essere incondizionato se non a riguardo dell’Altro, apre sotto la farina del
possibile difetto che il bisogno vi può apportare, per il fatto di non aver
soddisfazione universale (è quel che si chiama: angoscia)” (p. 814).
E nota la definizione ordinaria di angoscia: affetto senza oggetto.
Questa definizione si oppone a due altre:
l’una, per cui l’angoscia sorgerebbe come conseguenza di un
oggetto angoscioso reale, come tale presente nell’immagine, segnale per l’lo
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di un pericolo incombente e imminente, elemento della relazione duale o
immaginaria presa come modello esclusivo della relazione del soggetto col
inondo. L’oggetto sarebbe dunque specularizzabile, immaginabile,
simbolizzabile (nel modello duale della relazione crolla la distinzione tra
simbolo e immagine che risulterebbero così sinonimi). Questa concezione
misconosce un aspetto essenziale dell’angoscia, quello di essere relativa a
una perdita;
l’altra, per cui l’angoscia sorgerebbe in assenza di soddisfazione
alla domanda, come mancata sovrapposizione della domanda e del bisogno,
come difetto nella risposta dell’Altro che non colma lo spazio aperto dalla
domanda. In questo secondo caso, l’angoscia sarebbe il segnale di una
perdita oggettuale che chiama in causa l’Altro come colui che potrebbe
donare, o almeno realizzarsi nella dimensione del dono.
Ma è l’esperienza umana come tale a rimettere in causa ciò che prima
aveva posto Come causa: c’è infatti angoscia quando la risposta, nella
relazione pedagogica o sociale, assume un carattere colmante, onnipotente,
là dove la risposta è data ad ogni domanda, tendente a tutta la domanda, alla
domanda come tale.
Il sorgere dell’angoscia proprio in questo punto, manifestando il
colmamento del bisogno come otturazione, la saturazione come
saturazione, la sintesi come impasse, è ciò che rivela nella domanda una
componente di falsità (ciò che domando non è la mia verità), e nell’Altro un
aspetto che è pure di falsità (è falso che l’Altro sia onnipotente, l’Altro che
mi dà tutto mi inganna). La domanda, e la pretesa risposta che vi aderisce,
non esaurisce l’appello all’essere del soggetto, ma lo aliena (per questo la
funzione dell’analista non è quella di rispondere).
L’oggetto perduto non è dunque presente né presentabile,
specularizzabile nell’Altro. Ma simultaneamente l’angoscia resta come
segnale di una perdita, rapporto con un oggetto che è perduto ma è tuttavia
atteso. L’angoscia non è allora senza oggetto, a condizione che il “senza” sia
come assorbito sull‘oggetto, come sua proprietà essenziale, quella di
mancare; essa e il segnale stesso di questo non rappresentabile. Messaggio
che se ha nell’Io, topologicamente, il suo luogo di produzione, ha come
destinatario non l’Io ma il soggetto, S, che nell’angoscia ritrova il filo che lo
riconnette alla sua chiamata nel, e per mezzo del, linguaggio.
Con il che l’angoscia, sola cosa comune fra S e A, riformula la
questione dell’essere in termini nuovi: perché essa riguarda non solo il
soggetto ma l’Altro, che ne risulta non più come A pieno ma anch’esso
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come A. La condizione assoluta non è prerogativa dell’Altro, ma solo di un
altro, un oggetto, a, che manca. L’assoluto è la mancanza, e il soggetto
accederà alla condizione assoluta solo distaccandosi (Lacan fa notare che
“assoluto” vuol anche dire distacco) dalla pretesa assolutezza rinunciando
all’Altro come soggetto assoluto, alla soggezione all’Altro, per ricostituirsi,
riformularsi in funzione del distacco, cioè di ciò che si è staccato, caduto,
perduto.
É la dimensione del desiderio ad aprirsi attraverso la via stretta e
retrograda dell’angoscia: che implica la rinuncia alla via larga e progressiva
della domanda, così come alla sua ripetizione infinita e all’infinito della sua
ripetizione. Ma questa che è rinuncia all’alienazione nell’Altro e nella
ripetizione infinita, e che è rinuncia all’illusione che ciò che è perduto non
possa essere ottenuto salva una domanda, è realizzazione del soggetto in un
punto neutro, ne-uter, il punto in cui qualcosa manca in comune fra me e
l’altro cioè nell’Altro. Il soggetto si realizza come — o anche: la realtà
umana è; oppure ancora: l’essenza della realtà è — desiderio. Dopo aver
iniziato la sua avventura consegnandosi al desiderio dell’Altro concepito
come soggetto reale desiderante, c/o dopo essersi concepito come soggetto
che tende all’Altro come oggetto del suo desiderio (da cui la formula
lacaniana: “il desiderio è il desiderio dell’Altro”, nella quale il genitivo è
bivalente, soggettivo e oggettivo), il soggetto può arrivare a costituirsi nella
sua vera essenza di desiderio attraverso il riconoscimento di una mancanza
che è la sua.
Si è visto che il desiderio sorge in rapporto a qualcosa che manca.
Questo è definibile come oggetto del desiderio, e non di fronte al soggetto
desiderante, cioè in qualche modo compreso nella sua prospettiva, sia pure,
illusoriamente, in quella di un futuro infinito, ma per così dire alle sue
spalle, dietro di lui, come causa del suo desiderio, e come causa della sua
storia di soggetto la cui linea direttiva è la sua sovversione, se mai avviene,
in soggetto del proprio desiderio; questa relazione, del soggetto con
l’oggetto-causa del suo desiderio, primordiale e inconscia, è una vera e
propria “relazione oggettuale” a tre, matrice di tutte le relazioni oggettuali
clic saranno tali anzitutto in ragione di un fondo di mancanza. L’oggetto è
causa del desiderio nel produrre la separazione della domanda dal bisogno:
il desiderio sorge, la mancanza c’era già, in posizione tale da poter produrre
un effetto. Questa causa è strutturale: la catena significante, l’inconscio,
l’Altro, porta, nel suo discorso, una mancanza che si riproduce. É il
significante, il “logico puro”, nella sua impossibilità a significare sé stesso,
nella sua non identità a sé stesso, a generare una problematica la quale non è
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anzitutto quella del teorico che studia la psiche, ma è iscritta nel soggetto
che con ciò e per ciò pensa là dove non è, e dove è chiamato: “Il
significante, materialità investita del solo potere di un appello”; ed è nel
linguaggio, quello “effettivamente parlato da grandi masse umane”, che
esiste questa mancanza di cui il soggetto, nascendo al linguaggio, fa
l’esperienza allo stesso tempo che della propria divisione, non potendo
designarsi, se non per inganno, come soggetto del proprio discorso, ma
solamente, o meglio eventualmente, attraverso un evento, come soggetto
del proprio desiderio. Il rapporto soggetto-desiderio si sviluppa come
dialettica che implica un’alienazione, quella nella realtà immaginaria,
nell’immagine nascente e rinascente secondo le due coordinate immaginarie
di aggressione, dal lato dell’ideale di prestanza dell’Io, e di frustrazione, dal
lato della “cattura” da cui l’Io si è formato.
Ma questa alienazione non si riduce a essere nell’immagine: più
radicalmente, essa è nell’Altro, che la richiede, la vuole e per questo la
riconosce, come oggetto investito del suo desiderio. La disalienazione
essendo: anche l’Altro manca, non mi faccio più oggetto del suo desiderio,
amato invece clic amante, ma soggetto nel posto della sua mancanza: che è,
infine, la mia mancanza, l’Altro venendo a essere riconosciuto come luogo,
catena significante, intra-soggettivo, e non Soggetto avente un posto
privilegiato in una costellazione inter-soggettiva.
Castrazione simbolica
Ci resta da vedere come l’Altro investa gli oggetti, e in particolare
certi oggetti, e l’lo stesso come uno dei suoi oggetti, a partire da ciò di cui
manca. Si è parlato di qualcosa che manca alla “realtà psichica” che è
l’inconscio, in termini di difetto della funzione di rappresentazione, non
come funzione “conoscitiva” di un reale che preceda la conoscenza, ma
come funzione di soddisfacimento richiesto dalla legge primaria dello
psichismo. Che si tratti di soddisfacimento non toglie nulla alla portata
“intellettuale” di questo modo di funzionamento: un sapere riguardante
l’essere come tale — sapere costituito come l’affermazione: l’oggetto è —
precede ogni presa di conoscenza della realtà dell’oggetto, fino a rendere il
problema astratto della conoscenza assai meno interessante per il soggetto.
Un sapere riguardante l ‘essere ha luogo senza la minima presenza di un
soggetto della conoscenza: “Che ci sia un inconscio vuoi dire che c’è sapere senza
soggetto.”
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Questa divisione, che si riconosce al fondo della divisione conscio-
inconscio, così come nel desiderio dell’infante, e non solo di esso, come
desiderio di sapere, trae dal linguaggio e non dalla realtà la sua origine. Gli
elementi in presenza non sono: un desiderio uguagliato all’istinto o allo
pseudomistero di un “affetto” esistente per sé o eventualmente, e non
meno misteriosamente, come emergenza psicologica di certi processi di
base fisiologici, e un sapere uguagliato alla conoscenza di una realtà-
ambiente data con le sue esigenze date, con in più il conflitto a tendenza
adattiva il cui risultato non sarebbe poi lontano da ciò che Marx ha
abbondantemente criticato a proposito delle ideologie e delle relative
epistemologie come riflesso nel “cervello” dell’uomo dell’ordine sociale
dato preso come “la realtà”.
Gli “istinti” verrebbero a funzionare in questo schema, schema che
in ultima analisi abbandona la scoperta freudiana di un conflitto o una
divisione strutturale, per sostituirlo disinvoltamente col presupposto
adattivo che anima non solamente tanta psicologia. Sparisce l’essenziale, il
conflitto, e rimane Procuste: l’adattamento, nemmeno tanto come
moderazione o temperamento di quel riflesso, ma semplicemente come
fattori di modulazione e regolazione individuale.
I rapporti fra il soggetto, il desiderio c quel sapere che precede la
conoscenza, si abbozzano con la nascita nel linguaggio. Un’altra
formulazione lacaniana, da collegare alla precedente, è:
“C’è un inconscio non perché ci sia un desiderio inconscio, ottuso,
grave, calibano o animale, desiderio inconscio sorto dal profondo, che
sarebbe primitivo e dovrebbe elevarsi al livello superiore del conscio. Al
contrario, c’è desiderio perché c’è inconscio, cioè linguaggio che sfugge al
soggetto nella sua struttura e nei suoi effetti, c perché c’è sempre a livello
del linguaggio qualcosa che è al di là della coscienza, ed è qui che si può
situare la funzione del desiderio”. [8]
La proposizione “qualcosa manca” è insostenibile nel reale, che anzi,
dal lato della sua assunzione nella coscienza, se ne difende, proclamandosi
completo, opponendo la proposizione: nulla manca nel reale. Salvo
riapparirvi, cioè essere sostenuto, supportato, dal reale, secondo la regola
formulata da Freud come quella del ritorno del rimosso (ciò che manca è
l’oggetto della Urverdrängung, della rimozione originale freudiana).
Questa problematica della mancanza coinciderebbe essenzialmente
con quella freudiana della castrazione: questa non si limita a essere propria
di un certo stadio dello sviluppo, e l’effetto psicologico di un certo ingresso
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nella scena da parte della funzione paterna, ma, benché successiva, proietta
la sua luce retro-spettivamente sugli stati anteriori della storia del soggetto.
Si è già accennato alla questione della natura dei rapporti fra prima e dopo,
fra ciò che è anteriore e ciò che è successivo (après-coup) nella successione
degli eventi soggettivi così com’è impostata nella concezione lacaniana: la
struttura, la catena significante al suo incrocio con il processo della
soggettivazione, funziona secondo due assi, quello sincronico e quello
diacronico, di cui il primo impone al secondo la necessità di una ripetizione
incessante, legata alla alternativa radicale fra presenza e assenza o alla
mancanza originale per cui nessun elemento della batteria significante è
interamente presente a sé stesso, presso di sé (nessun significante è in grado
di significare sé stesso), e il secondo fornisce al primo tutto il materiale
significante, che con ciò viene a definirsi non archetipicamente né come
insieme a priori, ma in termini interamente storici, il sincronico essendo
nella sua ultima riduzione la stessa alternativa strutturale suddetta. Ciò che è
successivo, e, per riprendere le cose nei termini stessi di Freud, ciò che è
secondario rispetto a qualcosa di primario, non si limita a collegarsi a ciò
che precede in termini di sommazione, né a fungere semplicemente da
feedback grazie a cui il sistema si autoregolerebbe, ma è la realizzazione di
ciò che era atteso dal principio e in tutte le tappe anteriori. La castrazione
non è solo l’ultima tappa in una successione di privazioni, [9] né si riduce a
ricollegarvisi secondo il modo dell’analogia, o attraverso il vissuto
individuale (esempio: lo svezzamento “vissuto” come castrazione), ma è
legge simbolica di castrazione che agisce su tutta la serie, l’ultimo termine della
quale — la castrazione propriamente detta — è anche quello che chiarisce il
senso di tutto ciò che l’ha preceduto.
Cosi, l’interdizione dell’incesto indirizzata non solo al figlio:
“Non possiederai tua madre”, ma anche alla madre: “Non integrerai
tuo figlio” — conseguenza dell’intervento dell’ultimo e vero terzo, il padre,
alla quale e come effetto della quale è legata la castrazione come tappa —
non è, come legge di interdetto, né il tutto né l’essenziale della legge
governante la realtà psichica: che è ancora la stessa Legge di castrazione
simbolica, funzionante da sempre e che si realizza secondariamente,
successivamente. La legge, che è Legge del padre, è già presente
enigmaticamente all’origine. E lo stesso enigma che ritroviamo nel testo
freudiano, dove l’identificazione prima non è ne con l’alito della propria
immagine né con l’altro materno, ma con il padre: ed è qui che vanno
riprese le fila di ciò che è stato posto precedentemente come identificazione
al tratto unario e ideale dell’Io. Essa si realizza transitivamente, cioè
secondariamente, attraverso la Madre, l’Altro, attraverso il desiderio
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dell’Altro, il desiderio del piccolo umano come desiderio del desiderio
dell’Altro. Si collegano così la necessità della transizione, la castrazione
come interdizione, l’interdizione come rivelazione del desiderio, quindi
come retroazione del movimento per cui il soggetto è coinvolto nel
desiderio inconscio.
Questo movimento ha come asse quello di una realizzazione il cui
principio, la cui Legge, è lo stesso principio di realtà — vero aldilà del
principio di piacere — formulato da Freud. La realtà di cui si tratta non è
un limite esterno da integrare, limite esterno concepito come necessaria
frustrazione, e causa di frustrazione, uguagliata al principio di realtà
(equivoco e impasse di un realismo pedagogico preteso di ispirazione
psicoanalitica), ma concerne una realizzazione soggettiva in cui ciò che è
integrato non è “la realtà” ma la mancanza, il difetto originale, la mancanza-
ad-essere, e in cui ciò che è realizzato non è ne un’idea né l’Idea, ma la
sovversione del soggetto nella direzione della sua causa nel linguaggio.
Risultato che comporta anche che il soggetto smetta di curarsi a livello della
altrui domanda, per iniziare a coltivarsi dal lato del suo desiderio, e quindi
anche di perdersi rispetto all’abitudine sociale e al gioco speculare delle sue
comunicazioni, per rinascere quale soggetto della Cultura intesa come
ordine identico a quello del Linguaggio.
L’assunzione del desiderio non è l’avvenimento di una sintesi più o
meno felice conformemente a ciò che offre il mondo esterno, fra un’interna
tendenza al piacere — c’è dell’ironia nella formulazione freudiana di un
principio del “piacere”, commenta Lacan — e un contraccolpo della realtà
esterna: ciò che si realizza, non è la sintesi, ideale psicologico applicato in
una pratica psicosociale adattativi, ma è l’assunzione della dialettica stessa,
quella del desiderio: che non è il primitivo, l’istintivo, la tendenza adialettica,
che se incontra opposizione è solo fuori di sé, ma è la Legge stessa che
impone l’assunzione della mancanza. Il desiderio è la castrazione che l’ha
introdotto ed è ancora la castrazione che interviene per farlo riuscire.
L’avvenimento del soggetto dove qualcosa manca, è ciò che si produce
quando si realizza, in un secondo tempo, la capacità fondamentale
dell’inconscio, quella che Freud chiama l’onnipotenza dei pensieri — che è
ancora onnipotenza dell’inconscio, poiché l’inconscio non è altro se non
pensieri che non è più onnipotenza dell’Altro, ma capacità di conciliazione
dei contrari: l’inconscio non conosce la contraddizione, la qual cosa non
vuol dire che la abolisce (la sua abolizione anzi è tutto lo sforzo di
psicologizzazione cui la prospettiva freudiana è stata sottoposta), ma che ne
vive.
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Significante, tratto unario, oggetto (a)
Si è già detto che per il sorgere dell’angoscia non basta il reale,
l’assenza o la presenza di un oggetto reale. Essa sorge perché, nella
dimensione immaginaria instaurata nella relazione speculare, l’oggetto che vi
compare (al limite ogni oggetto e in particolare certi oggetti) vi è presente
senza bastarsi: nessun oggetto è definito dalla sua immagine, ogni oggetto
non è senza mancare di qualcosa, come oggetto. L’oggetto, l’altro in quanto
investito del desiderio dell’Altro, è sprovvisto, non è senza qualcosa, cioè è
supporto di una funzione oggettuale inconscia indicabile come (a) in cui le
parentesi vogliono dire che nell’immagine qualcosa manca. Il qualcosa
assente nell’immagine si trova altrove: nell’inconscio. Solo una topologia
potrà render conto di questa eccentricità dell’oggetto da sé stesso, di questo
sdoppiamento irriducibile dell’oggetto.
Nell’oggetto qualcosa vi-è (Da-sein) senza che sia specularizzabile.
Sull’oggetto della relazione duale o immaginaria qualcosa è stato investito
senza né ridurvisi (non ha immagine) ne esserne stato generato (ma vi è
stato investito). É da altrove, dall’Altro, la Madre, che parte questo
investimento: ciò che è investito è proprio ciò che essa non ha in quanto
soggetta alla castrazione e quindi alla ricerca di ciò di cui manca: per
riceverlo (dal padre) e per averlo (secondo l’unica possibilità aperta che è
quella di riprodurlo: il figlio). “Se il desiderio della madre è il fallo, il
bambino vuole essere il fallo per soddisfarlo” (p. 693).
Si può notare a questo punto l’importanza decisiva della coincidenza
reale, sulla via della costituzione della soggettività, dell’Altro (come batteria
significante costituita dall’insieme degli elementi differenziali presenti nel
linguaggio ordinario, non costituito perciò come soggetto, ma costitutivo
del soggetto) con la Madre (come soggetto, e individuo, Altro,
effettivamente presente nella relazione). Per l’in-fans, che nasce
nell’ambiguità di questa coincidenza, vengono a coincidere ciò che difetta
nel linguaggio (l’incapacità del significante a significare sé stesso) e ciò che
difetta nell’individuo (ciò per cui la madre desidera). Ne discende che le
definizioni del desiderio come effetto di linguaggio, e come desiderio del
desiderio della Madre, Altro, sono equivalenti fra loro e a una terza
definizione più completa, già data: “Il desiderio è desiderio dell’Altro.”
L’investimento di cui si è parlato avviene in quel momento che è
stato chiamato “stadio dello specchio” in cui si forma per l’individuo
umano un’immagine unificante del proprio corpo. Per questo avvenimento
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è determinante un intervento particolare della madre, il suo assenso o il suo
riconoscimento. Utilizziamo la sintesi di Martin:
“Nei suoi occhi il bambino rimira non tanto il suo ritratto, quanto il
riconoscimento di esservi significante del desiderio della madre. In esso egli
si collega alla mancanza-ad-essere della madre, che per essa è
preliminariamente investita in una simbolizzazione culturale del pene, cioè il
Fallo.” [10]
L’immagine reale, i, è unificata in funzione di ciò di cui è investita,
cioè del desiderio dell’Altro, A sbarrato, affetto dalla castrazione simbolica,
che la sceglie come suo oggetto, il quale dunque prende luogo nell’inconscio
al posto della sua mancanza.
L’oggetto essendo notato nella nostra simbolizzazione come a (=
altro), i sarà nell’inconscio i(a), immagine presa come oggetto del desiderio
al di là di essa. Questo investimento significante — l’immagine è
significante del desiderio dell’Altro — avviene da parte dell’Altro-Madre
come trasmissione a partire da ciò che essa non ha, ma che si trova
collegato al Padre, Altro ulteriore, esso stesso segnato dalla castrazione.
L’investimento dell’immagine è, potremmo dire, “in nome del Padre”.
Il tratto (nel senso di dire, ad esempio, un tratto del carattere) di cui
è investita l’immagine è lo stesso che hanno in comune tutti i significanti,
quello per cui ogni significante rappresenta per-, cioè quello per cui ogni
significante è in difetto rispetto alla sua stessa funzione che è quella di ri-
presentare. Tale “tratto unario” è il tratto dell’eccedenza o dello scarto della
funzione del significante sulla sua stessa efficienza.
L’immagine reale, quella del corpo reale, è inaccessibile alla
percezione del soggetto, ed è accessibile solo all’Altro reale, di cui è oggetto.
La sua immagine virtuale, i', riprodotta dall’immagine reale, è la sola
accessibile alla percezione, e la sua assunzione darà luogo all’immagine del
corpo come totalità, così come sarà la matrice dell’Io.
Ma l’assunzione di i' a partire da i(a) è di più della semplice
immagine, è i'(a), e l’immagine in quanto investita della funzione (a) ovvero
quella di rappresentare per l’Altro il suo desiderio. Con ciò questa che è
vera e propria identificazione narcisistica, è anche identificazione a ciò che
la eccede: l’immagine è supporto insufficiente a contenere l’investimento
fallico immaginario φ di cui è oggetto, per cui φ è -φ, cioè quel che è
investito non ha immagine speculare. Ciò nondimeno l’identificazione è
completa, avviene cioè anche dal lato dell’investimento non speeularizzato,
in altri termini è doppia: non è solo con l’immagine (Io ideale, Ideal-Ich,
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identificazione immaginaria, matrice della serie di i dentificazioni
successive), ma anche con il suo eccedente che è il tratto unificante o tratto
unario dei significanti (Ideale dell’Io, Ichideal, identificazione simbolica, al
Padre, legata al significante paterno, filo conduttore nell’ordine del
linguaggio che sostiene la stessa dimensione immaginaria). [11]
Attraverso questa seconda identificazione il soggetto si fa prodotto e
a un tempo sostegno della funzione simbolica di ripetizione o di
rappresentazione: nessun significante può rappresentare sé stesso, ovvero
un significante S ripetuto una seconda volta (vedi il gioco del “Fort-Da”)
non rappresenta lo stesso significante S presentato una prima volta, cioè S
non è S. Questo perché ogni significante è sempre in difetto rispetto a un
significante privilegiato, qual è nell’inconscio il significante sessuale, il fallo
simbolico ф»; ogni significante è diviso da sé stesso, incapace di
autorappresentazione, essendo sempre in difetto su quella che pure è la sua
funzione, di rappresentare qualcosa.
Il soggetto interviene (inter-viene fra S e S) a fare da supporto alla
loro identità; S non è S se non per il soggetto che si fa garante della
ripetizione. Ciò è possibile in virtù della sua identificazione al tratto unario
dei significanti, simbolizzato con un | , il bastone o l’asta delle scuole
elementari, puro significante ripetitivo ||| ..., cioè al tratto comune a tutti i
significanti meno uno, quest’ultimo simbolizzato da Lacan anche come un
(-1) inerente all’insieme dei significanti. Per mezzo di questa identificazione
il soggetto, identificato al tratto unario della ripetizione e dell’autodifferenza
di ogni significante da sé stesso, funge da sostegno della ripetizione. Il gioco
del “Fort-Da” riesce, riesce bene, diremmo: è un bel gioco, perché il
bambino si è fatto supporto del ritorno dell’oggetto fatto scomparire,
identificandosi con l’oggetto (indifferente) scomparso, cioè non con
quell’oggetto presente, ma con l’oggetto in quanto assente, cioè con un
significante mancante. Il soggetto rappresenta così il significante mancante.
Quest’ultimo essendo, per così dire, fuori portata, rappresentazione
impossibile, rappresentazione (Vorstellung) rimossa (verdrängt), il soggetto ne
sarà rappresentante, a sua volta esso pure in uno stato rimosso, senza sapere
la sua origine e funzione. Lo si potrà reperire e promuovere (e per questo
occorre un lavoro come quello analitico) ma non portarlo a uno statuto di
autosufficienza, quello per cui potrebbe designarsi da sé stesso. La sua
posizione nella struttura inconscia è tale da “dovervisi contare e a un tempo
adempiervi la funzione di mancanza” (p. 807).
É nel fantasma, come ad esempio sulla scena del sogno, che lo si
può ritrovare, in rapporto all’oggetto a del desiderio, fantasma che Lacan
simbolizza con la sigla (S ◊ a), (S desiderio di a), scena in cui, astrazion fatta
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da qualsiasi riferimento ad ogni altra contingenza, il soggetto si coglie nel
campo dell’Altro. “Il fatto è che un fantasma porta un bel disordine perché
non si sa dove ordinarlo, dato che ce lo si trova lì, tutt’intero nella sua
natura di fantasma che non ha altra realtà che di discorso e non attende
nulla dai vostri poteri, ma piuttosto è lui che vi domanda di mettervi in
regola con i vostri desideri” (p. 779). La struttura del fantasma è tale che “vi
si lega in modo essenziale... alla condizione di un oggetto... il momento di
un fading, o eclissi, del soggetto, strettamente legato alla Spaltung, o scissione,
che esso subisce per la sua subordinazione al significante” (p. 816).
Viste in forma riassuntiva le articolazioni fra una serie di termini —
A, S , |, (a) ecc. — qualcosa resta da dire ancora riguardo all’oggetto (a).
La teoria analitica è andata progressivamente riconoscendo una
funzione privilegiata comune a una serie di oggetti cosiddetti “parziali”. Essi
sono, ormai classicamente: mammella, scibale, fallo (precisato come oggetto
immaginario, punto su cui Lacan insiste). Mantenendo l’attributo loro
comune di parzialità, Lacan osserva però che questo tratto è legato non al
fatto che essi sono parti di un oggetto totale che sarebbe il corpo, ma al
fatto che essi “rappresentano solo parzialmente la funzione che li produce”
(p. 817), che è funzione di rappresentazione.
L’elenco di tali oggetti si allunga, comprendendo altri elementi carne
il fiotto urinario, ed è, commenta Lacan, una “lista impensabile, se vi si
aggiunge con noi il fonema, lo sguardo, la voce, il rien” (p. 817).
Ciò che tali oggetti hanno in comune è il fatto di essere selezionati in
funzione del desiderio dell’Altro, oggetti di desiderio fissati in una funzione
particolare, e il fatto di ritrovare, dopo essere sorti per una mancanza,
nell’investimento fallico e nella castrazione, retroattivamente, il loro senso.
Il fallo. La parte e il tutto
Nella sua relazione con la madre, il bambino non vive anzitutto della
sua dipendenza vitale da essa, ma della dipendenza dal suo amore. Il suo è
desiderio del desiderio della madre, con la tentazione alla perversione che
questo comporta, cioè a identificarsi con l’oggetto immaginario di questo
desiderio, il fallo, in cui la madre lo ha simbolizzato.
Questo ostinato fallocentrismo su cui la teoria analitica ritorna
costantemente, e che Lacan riprende nella dialettica della domanda e del
desiderio e nei differenti registri del reale immaginario e simbolico, riporta
alla difficoltà non meno che all’obiezione di sempre, che “dopo tutto la
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sessualità non è tutto”, in particolare di fronte all’elaborazione lacaniana che
riprende la questione del fallo a partire da e contro “la messa in ombra
attuale di questa questione del fallo, ridotto al ruolo di oggetto parziale nel
concerto analitico” (p. 555).
La risposta non potrebbe essere che la seguente: appunto, il fallo
non è tutto, è una parte, il significante sessuale, l’oggetto immaginario
fallico, e l’organo che fa da supporto a questa problematica nel momento
stesso che ne è preso, sono parti, non tutto, né semplici elementi o parti del
tutto, né “parti per il tutto”, secondo una definizione da rivedere della
metonimia. Nel linguaggio, è la metonimia ad assicurare quella funzione di
parzialità che nell’inconscio, “strutturato come un linguaggio”, è ripresa dal
significante metonimico fallico. Quel che è più proprio dell’inconscio, di
essere struttura rappresentativa in difetto, e di essere organizzato intorno a
un difetto senza cui nulla più verrebbe rappresentato, si sostiene proprio su
questa parzialità, sulla prevalenza di una parte sul tutto, sulla loro
opposizione e irriducibilità, su questa sorta di privilegio che ha il significante
sessuale nell’inconscio, privilegio non della sua presenza ma della sua
assenza, come significante immaginario fallico che fa difetto nell’inconscio
senza per ciò essere semplicemente nulla: esso vi esiste negativamente, in
negativa, “vi brilla per la sua assenza”, parte per sempre mancante ma
definita dal suo contorno, dal fatto di essere esattamente ciò che difetta, il
pezzo o il significante che manca, incapace, quanto a lui, di presenza, o, se
si vuole, di erezione, e per questo, per tale fondo di assenza, perno di ogni
operazione significante, ivi compresa quella del godimento sessuale e,
separatamente, della riproduzione sessuata.
Si tratta qui dello stesso pensare freudiano circa la morte e circa il
nesso fra la morte e la sessualità: senza la morte che è mancanza originaria,
e quindi pura ripetizione, Wiederholungszwang, non ci sarebbe né vita né
discorso né soggetto, soggetto che inizia la sua esistenza prendendo posto
in un certo punto di questa struttura ripetitiva, come rappresentante della
mancanza, cioè come soggetto della morte, e che, radicalmente, non ha
ragioni di temere la morte, perché è questa che lo porta; se invece la teme,
ciò è a partire dal suo Io immaginario, che prende la morte come un
pericolo piuttosto che come radice: donde la lotta a morte, tema lacaniano
ripreso da Hegel, dell’uomo con il simile, che è “lotta a morte immaginaria”
da cui è definita “la struttura essenziale dell’Io” (p. 432).
Se è la morte che porta la vita — non la morte della lotta
immaginaria, la cui incarnazione storica Freud ha visto nel “nemico
dell’umanità” identificato con il fascismo —, se una mancanza precede
logicamente il soggetto promuovendone l’esistenza, il pericolo estremo, ma
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anche la questione più fondamentale per il soggetto, sarà proprio quello
dello stabilirsi di condizioni in cui il limite originario all’esperienza di
soddisfazione sia abbattuto, in cui lo scacco in cui si mantiene e si sostiene
la ricerca di ripresentazione sia risolto, in cui il soggetto di questo scacco
mobilitante, il soggetto del desiderio o il soggetto rappresentato da un
significante per un altro significante, trovi un’alternativa nell’aldilà del
desiderio, nel godimento, e in un altro soggetto, il soggetto del godimento.”
[12] Il discorso freudiano, che Lacan riprende su questo punto, è quello di
un pericolo di morte legato al godimento, cui si oppongono il piacere c il
desiderio concepibili come formazioni di compromesso rispetto al
godimento, compromesso identico a quello in cui nasce il soggetto del
significante, a mezza strada fra godimento e castigazione. “É il piacere che
apporta al godimento i suoi limiti” (p. 821). “Il desiderio è una difesa, difesa
dall’oltrepassare un limite nel godimento” (p. 825).
Il privilegio che il significante fallico ha nell’inconscio è ciò che ne
rende eccentrico il discorso, il soggetto, l’oggetto, rispetto al discorso del
soggetto della coscienza e all’oggetto del bisogno. E la parzialità che così si
verifica per il desiderio sessuale, è tale rispetto all’altro grande desiderio
generico, quello della fame” che “non è rappresentato — come Freud ha
sempre sostenuto — in ciò che l’inconscio conserva per farlo riconoscere”
(p. 433).
L’eccentricità, sia apparente che strutturale, di questa scoperta
freudiana, diviene ancora più marcata quando si consideri che Lacan lega la
questione del sesso (e non la differenza dei sessi naturalmente stabilita) alla
questione dell’essere del soggetto.
Il passaggio per cogliere l’essenziale di questo rapporto sembra
essere quello dato da Lacan quando afferma: “(Freud) pone che c’è una sola
libido, e il suo testo dimostra che egli la concepisce di natura maschile” (p.
695). Il che equivale a dire: “Non c’è rappresentante psichico
dell’opposizione machile-femminile; la differenza sessuale si rifiuta al
sapere, designando il punto in cui il soggetto dell’inconscio sussiste per
essere soggetto di non sapere.” [13] Il soggetto non sa il suo essere sessuale
nel momento stesso in cui deve la sua nascita al desiderio dell’Altro come
desiderio sessuale. Il significante, di cui il soggetto e l’effetto, non crea
maschio e femmina, ma esseri che si trovano confrontati, nel punto stesso
della loro esistenza, e nel punto stesso in cui devono rispondere alla
questione della propria esistenza, con un problema di mancanza, e a
prendere posizione, quanto al proprio sesso, rispetto a tale problema sorto
da un’esperienza effettiva: quella che si svolge a partire dal momento in cui
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il fallo è scoperto come elemento che può mancare, e che, prima che a loro,
può mancare all’Altro (Madre) onnipotente, finora fondamento dell’essere
del soggetto, e non senza ragione. Questa scoperta potrà condurre a una
scissione, a riscoprire l’Altro come scisso nelle due componenti finora
confuse, quella di altro, madre, soggetto mancante, e quella di Altro, non
più soggetto (dunque il risultato di questa distinzione non è in alcun modo
di produrre le idee distinte di un soggetto empirico e di un soggetto
assoluto, idee queste che sono prodotto non del processo di soggettivazione
per mezzo del significante, ma di un processo mentale che lo offusca) ma
catena significante insufficiente a fornire, a rappresentare, la parte
mancante. Questa operazione può avvenire grazie all’intervento dell’Altro
paterno rispetto a cui l’altro materno è rivelato come relativo, marcato dalla
mancanza.
Qui, a livello di questo Altro ulteriore, il Padre, si imporrà una nuova
operazione di scissione fra Altro e altro, e sarà l’operazione della morte del
Padre o della sua uccisione: mito, come si sa, caro a Freud, ma non mitica
ne è la corrispondente operazione inconscia, quella il cui risultato d’un lato
è un padre relativizzato esso stesso, in rapporto alla mancanza, e non in
rapporto al realismo mitico di un conflitto fra generazioni, cui non
corrisponde invece alcuna operazione effettiva nell’inconscio. Ciò che è
relativizzato non è semplicemente mio padre, ma il Padre come
soddisfacente il limite dell’Altro, come Altro dell’Altro, come
metalinguaggio: “La mancanza di cui si tratta è proprio questo: che non c’è
Altro dell’Altro” (p. 818). Dall’altro lato l’avvento di un nuovo e definitivo
significante nell’inconscio, che è quello del Padre, o del Nome del Padre o
del Padre morto. Il Padre non è l’Altro, ma è un significante, cioè è
inconscio.
Attraverso questo pas — la lingua francese si presta a un gioco di
parole, fra pas-passo e pas-no — della morte del Padre e del suo avvento
come significante inconscio, potremmo dire che termina la lunga stagione
metonimica del soggetto, quella in cui il soggetto è determinato circa il suo
essere e il suo sesso da un messaggio funzionante senza pervenirgli, e inizia
quella dominata, non senza incertezze e tentazioni, non senza ricorso
continuo alla ulteriore determinazione simbolica al di là della
sovradeterminazione significante, dalla metafora, dal significante metaforico
del Nome del Padre o metafora paterna: grazie alla quale un significato,
quello fallico, è significato nell’inconscio al soggetto.
“Il fallo nella dottrina freudiana non è un fantasma, se con ciò
bisogna intendere un effetto immaginario. Esso non è neppure un oggetto
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(parziale, interno, buono, cattivo ecc...) nella misura in cui questo termine
tende ad apprezzare la realtà interessata in una relazione. Esso è ancora
meno l’organo, pene o clitoride, che simbolizza... Poiché il fallo è un
significante..., il significante destinato a designare nel loro insieme gli effetti
di significato, in quanto il significante li condiziona per la sua presenza di
significante” (p. 690).
“L’organo erettile viene a simbolizzare il posto del godimento, non
in sé stesso, e nemmeno in quanto immagine, ma come parte mancante
all’immagine desiderata” (p. 822).
“Esso non può giocare il suo ruolo che come velato, cioè esso stesso
come segno della latenza da cui è colpito ogni significabile dal momento in
cui è elevato (aufgehoben) alla funzione di significante. Il fallo è il significante
di questa stessa Aufhebung che esso inaugura con la sua sparizione” (p. 692).
E ancora: “Che il fallo sia un significante impone che sia al posto
dell’Altro che il soggetto vi abbia accesso. Ma poiché questo significante vi
è come velato e come ragione del desiderio dell’Altro, è questo desiderio
dell’Altro che al soggetto è imposto di riconoscere, cioè l’altro in quanto
esso stesso è soggetto diviso dalla Spaltung significante” (p. 693).
Questa scissione ultima — quella del significante riguardo alla,
propria stessa funzione che è quella di significare; quella dell’Altro riguardo
alla propria stessa composizione che è completa, essendo l’intera batteria
significante fornita dal linguaggio, e dunque non ammette alcun significante
al di fuori di sé — come ammetterla allora e dove reperirla? La si potrà solo
concepire come impossibilità dell’Altro a godere della propria stessa
completezza, come mancanza all’interno della completezza stessa: come
godimento interdetto sia dall’esterno (ogni significante essendo già
compreso in A) sia verso l’esterno, nella dimensione del dono (A non può
dare niente al soggetto, salvo metterlo in rapporto alla sua stessa mancanza
attraverso oggetti, la serie degli (a), che non fanno che presentificare, cioè
rappresentare positivamente, la mancanza di A. S è in rapporto con A
attraverso (a), rapporto simbolizzato con .
Questa condizione può essere concepita solo ammettendo un
significante già inerente nell’insieme dei significanti senza che vi sia
contabile né rappresentabile. Lacan lo indica come S(A), “significante di una
mancanza nell’Altro” (p. 818), il significante che manca ad A pur
trovandovisi, e pensabile come il cerchio di cui i significanti sono i punti,
“tratto clic si traccia col suo cerchio senza potervici essere contato” (p.
819). Il significante essendo definito come ciò che rappresenta il soggetto
per un altro significante, esso sarà il significante per cui tutti i significanti
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rappresentano il soggetto. Il suo simbolo sarà un (-1) inerente all’insieme
dei significanti.
Il fallo per parte sua si riporta a questa condizione dell’Altro come
insieme dei significanti, sdoppiandosi: d’un lato, esso è ф, fallo simbolico,
significante del godimento, positivo, presente, ma non rappresentabile; esso
fa da supporto al (-1) dei significanti, venendovi a coincidere non per una
sorta di armonia prestabilita dalla natura, ma per lo stesso rapporto per cui
l’inconscio è “strutturato come un linguaggio” senza essere tout-court il
linguaggio. Dall’altro, esso è fallo immaginario, (φ), o meglio (-φ), immagine
fallica negativa, atteso nell’immagine cara desiderata ma non ritrovato in
essa, assente, elemento negativo nella relazione narcisistica speculare. La
mancanza radicale di cui non si fa che parlare, non è dunque ultimamente a
livello di (-φ) ma di ф quest’ultimo, presente, positivo, non è
rappresentabile, e il primo, negativo, non fa che rappresentare la non
rappresentabilità, la mancanza, e in tale modo fa da mediazione fra S e A,
regolando i loro rapporti nei termini del desiderio, cioè in termini di
distanza dal godimento, mantenendone tuttavia in sospeso la questione,
senza abolirla: il godimento è ciò “il cui difetto renderebbe vano l’universo”
(p. 819).
L’immagine fallica è in rapporto con la serie degli ( a): ne fa parte
come oggetto (immaginario) nell’insieme di oggetti intercorrenti nei
rapporti di desiderio fra il soggetto e l’Altro, resti dell’operazione di
divisione del soggetto, rappresentanti della mancanza. Dall’altro lì investe
tutti di sé, retroattivamente (la fase fallica viene dopo), recuperandone, in
quanto negativo, la funzione, che è quella di rappresentare la mancanza cioè
la Legge simbolica di castrazione.
Riassumendo, la funzione di rappresentare la mancanza è a mi
tempo dell’oggetto (a), del soggetto inconscio e dell’inconscio come tale.
L’oggetto (a) è “rappresentante della rappresentazione nella
condizione assoluta”: ab-solutus, distaccato, decaduto dalla sua condizione
naturale e ripreso dalla determinazione del simbolico, venendo ad assumere
un posto nell’inconscio come oggetto del desiderio; esso “è al suo posto
nell’inconscio, dove causa il desiderio secondo la struttura del fantasma” (p.
814),
Quanto al soggetto: “É dunque quale rappresentante della
rappresentazione nel fantasma, cioè come soggetto originariamente
rimosso, che il S soggetto sbarrato del desiderio, fa da supporto del campo
della realtà” (p. 554), in rapporto allo stesso oggetto (a) secondo la formula
già data del fantasma. Troviamo ancora: “Quanto alla realtà del soggetto, la
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sua figura di alienazione, presentita dalla critica sociale, si lascia cogliere per
il fatto di giocarsi fra il soggetto della conoscenza, il falso soggetto dell’ ‘io
penso’, e quel residuo corporeo in cui ho sufficientemente, io penso,
incarnato il Dasein, per chiamarlo col nome che mi deve: cioè l’oggetto (a).”
[14]
Ma in ultima analisi è l’inconscio stesso a costituire questa funzione,
perché è esso stesso a lavorare questi due elementi producendoli. Esso fa e
non fa altro che questo, polifona monofonia: rappresentare la mancanza, e
così dà luogo ad (a) e a S che “mette in scena”. “ ‘Di questo — dice il
soggetto — non mi ricordo (rappelle).’ Cioè: all’appello di un significante per
cui bisognerebbe ‘che esso mi rappresentasse per un altro significante’, io
non rispondo ‘presente’, per la ragione che per effetto di questo appello
non mi rappresento più niente. Io sono una camera oscura in cui si è fatto
luce: non v’è più modo che vi si dipinga attraverso il suo buco di spillo
l’immagine di quel che avviene fuori. L’inconscio non è subliminale, debole
chiarore. Esso è la luce che non lascia spazio all’ombra, né che il contorno
si insinui. Esso rappresenta la mia rappresentazione là dove essa manca,
dove io non sono che una mancanza del soggetto. Donde il termine di
Freud di: rappresentante della rappresentazione [Vorstellung-Räpresentanz].
[15]
Metonimia e metafora
In guisa di breve conclusione, riprendiamo alcuni dei punti trattati
inserendoli in quelli che per Lacan sono i due meccanismi fondamentali
dell’inconscio, la metonimia e la metafora.
Torniamo alla definizione di inconscio: “L’inconscio, a partire da
Freud, è una catena di significanti che da qualche parte (su un’altra scena,
egli scrive) si ripete e insiste per interferire nei tagli che il discorso effettivo
e la cogitazione che esso informa gli offre.”
Ora, “i meccanismi descritti da Freud come quelli del processo
primario, in cui l’inconscio trova il suo regime, ricoprono esattamente le
funzioni che questa scuola [16] considera come quelle che determinano i
versanti più radicali degli effetti di sostituzione e di combinazione del
significante nelle dimensioni rispettivamente sincronica e diacronica in cui
compaiono nel discorso” (p. 728).
Quel che è decisivo in questo passaggio lacaniano che mette in
rapporto linguistica e psicoanalisi, non è il ricorso alle risorse di un’altra
disciplina, cioè una sorta di gemellaggio interdisciplinare, ma il fatto che
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metafora e metonimia non sono modelli linguistici a distanza
dell’esperienza, ma costituiscono l’inconscio “strutturato come un
linguaggio”, sono i suoi stessi pensieri: sono loro a rendere effettiva una
struttura per la quale il discorso umano si organizza intorno a una
mancanza, a un meno, una mancanza-ad-essere, che è anche un eccedente
rispetto al tutto di un universo del discorso concepito come interamente
pensabile dal soggetto, “ciò che manca al soggetto per pensarsi esaurito dal
suo cogito, cioè ciò che esso è di impensabile” (p. 819).
Metafora e metonimia sono concepibili come i mezzi di quella che è
definita come l’onnipotenza dell’inconscio, che fa progredire la
contraddizione senza annullarla, senza risolverla in una sintesi che non
potrebbe essere altro che a priori: ma è appunto qui che c’è l’impossibilità,
poiché il solo a priori del soggetto è l’Altro, e questo è per sua natura in
imbarazzo perché è proprio lì che manca qualche cosa. L’impossibile,
metafora e metonimia lo rendono, non possibile, ma reale nei suoi effetti: in
tal modo emergono sia il sintomo, che a suo modo è qualcosa di riuscito,
sia il desiderio, che è realizzato non perché l’oggetto del desiderio sia
divenuto disponibile, ma quando il debito d’origine è riconosciuto, e in
definitiva la castrazione simbolica è accettata.
“Freud — scrive Lacan — ha fatto rientrare all’interno del cerchio
della scienza quella frontiera fra l’oggetto e l’essere che sembrava segnare il
suo limite” (p. 527). Ed è attraverso la scoperta della condensazione e dello
spostamento, attraverso la metafora e la metonimia, che si varca questa
frontiera, perché “la metafora (è legata) alla questione dell’essere e la
metonimia alla sua mancanza” (p. 528).
Nella struttura metonimica “è la connessione del significante con il
significante a permettere l’elisione per cui il significante installa la
mancanza-ad-essere nella relazione oggettuale, servendosi del valore di
rinvio della significazione per investirla del desiderio mirante a quella
mancanza che esso supporta” (p. 515). Il fallo è l’oggetto metonimico del
desiderio: mancandole, causa il desiderio inconscio della Madre, venuta al
posto di A, come desiderio che il bambino sia il suo fallo. Attraverso questa
mediazione il bambino riceve a livello metonimico un messaggio che è
particolarmente indecifrabile per la connessione, la confusione, fra i due
significanti S e S', bambino e fallo. Il bambino per la madre è il fallo, è per
questo che è stato atteso e prodotto.
Il nesso, la fusione è tanto stretta che l’effetto è quello di un’elisione:
il bambino è interamente al posto del fallo, della mancanza della madre, il
suo essere è tutto sospeso alla mancanza-ad-essere di essa. In questa
relazione madre-bambino, il bambino rappresenta totalmente la mancanza
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senza che questa vi appaia come tale. La fissione di questa sorta di atomo
metonimico sarà possibile solo con l’intervento separante della Legge
paterna.
Ed è a livello della metonimia che si collocano la funzione degli
oggetti parziali e dell’angoscia. La funzione (a) è quella che rappresenta
metonimicamente ciò di cui il tutto manca, cioè che rappresenta non il tutto
— la metonimia, precisa Lacan, non è la parte per il tutto ma è parola per
parola, “mot à mot” — ma ciò che manca al tutto: con ciò essa è la funzione
metonimica stessa, quella che esprime una causalità strutturale.
Il carattere proprio di questa causalità la fa a-teleologica e a-
gerarchica. L’artificio cui potremmo ricorrere mettendo l’“a”,
opportunamente detto privativo, fra parentesi — (a)teleologica,
(a)gerarchica —, mostrerebbe a un tempo che è da un misconoscimento,
anch’esso preteso dalla struttura, della natura della causa che derivano le
concezioni cosmologiche e politiche, teoriche e pratiche corrispondenti, e
che è dall’utopia dell’oggetto e non dall’utopia dell’idea che esce ogni
movimento soggettivo con i suoi caratteri di direzione e di organizzazione.
Si potrebbero utilizzare ancora le risorse non casuali della lingua, il gioco
delle parole, per ridicolizzare la pretesa del soggetto psicologico, che prende
l’effetto per la causa, opponendo la grandezza, ovvero la grandeur, dell’Altro,
“A”, “grand A”,
“A” maiuscolo, così grande, così maiuscolo, eppure così in difficoltà
e in imbarazzo in sé stesso, e la piccolezza, la minuzia, il nonnulla, la
volgarità a volte, intimamente unita alla preziosità, dell’altro nell’inconscio,
“a”, “petit a”, “a” minuscolo, tanto piccolo, piccolo a piacere, eppure così
potente come causa del desiderio, sottratta ad ogni manipolazione.
Dalla concezione lacaniana dell’Altro deriva la suddetta critica che ci
siamo limitati ad abbozzare, e di cui ricordiamo soltanto quanto già detto,
che non c’è Altro, ovvero che l’inconscio come discorso dell’Altro non
deriva dall’Altro come causa ma da ciò che in esso fa difetto, o anche non
c’è Altro dell’Altro, discorso sul discorso, metalinguaggio, La sovversione
che ne risulta non è semplicemente nella teoria né in una nuova presa di
coscienza, ma è la stessa del soggetto attraverso la dialettica del suo
desiderio; “d” si separa da “D”, il desiderio, come metonimia, si separa dalla
domanda, secondo lo stesso modo per cui l’oggetto a, causa metonimica del
desiderio, è separato da A. In questa dialettica è la domanda stessa sul senso
(quale è il senso di...?) che viene ad essere sovvertita: L’Altro non ha e non è
il senso; io non sono in rapporto con esso né per esserlo né per assumerlo e
trasmetterlo, E, una volta scoperta e assunta la causalità metonimica, cioè la
castrazione simbolica, come il fulcro della “macchina originale che inette in
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scena il soggetto”, la domanda “qual è il senso della castrazione o della
metonimia” non ha nemmeno modo di nascere. In ultima analisi “il senso si
produce nel nonsenso” (p. 508).
La metafora, dice Lacan, è l’altro versante dell’inconscio, e a un tempo
è inglobata più vastamente nella metonimia. Nella struttura metaforica “è
nella sostituzione del significante al significante Cima parola per un’altra’)
che si produce un effetto di significazione che è di poesia o di creazione, in
altri termini l’avvenimento della significazione in questione” (p. 515).
Mentre nella metonimia un certo significante non può essere significato al
soggetto, è interamente latente, il passaggio del significante nel significato è
sbarrato, cioè si ha resistenza della significazione, nella metafora questo
passaggio invece ha modo di avvenire, si ha emergenza della significazione:
quel certo significante che è stato sostituito rimane in qualche modo patente
perché passa dal lato del significato, cioè non è completamente eliso nel suo
rapporto con il significante che lo sostituisce. Nella metafora o
condensazione significante, il significante S sostituito, non è dissolto,
interamente rimpiazzato, dal significante sostitutivo S': “La metafora va
definita per l’impianto in una catena significante dì un altro significante, per
cui quello soppiantato cade al rango di significato, e come significante
latente vi perpetua l’intervallo in cui un’altra catena significante può essere
innestata” (p. 708).
Dobbiamo rinunciare a esemplificare in una serie di casi questi due
versanti dell’effetto significante dell’inconscio, per limitarci a ricordare che
ad essi corrispondono, d’un lato il desiderio inconscio che è una metonimia,
perché prende il posto dei significante non rappresentabile, si connette
indissolubilmente alla mancanza dì un oggetto che nel desiderio non è mai
significato al soggetto, ma rimane per esso un enigma, quello ripetutamente
proposto dal desiderio nella frenesia del suo essere sempre desiderio di
un’altra cosa; anzi prendendo il desiderio come significante metonimico,
che prende il posto della mancanza, potremmo dire che questo significante
non ha significati, ma gli corrisponde solo la figura stessa dell’enigma.
Dall’altro il sintomo: che è una metafora, o una condensazione
significante, in cui il significante sostituito S non si esaurisce nella
sostituzione, ma ha una realizzazione nel significato, quello dello stesso
sintomo: in cui ha così luogo quel carattere di compromesso che Freud
aveva scoperto come uno dei caratteri fondamentali del sintomo nevrotico.
Nel sintomo, e più in generale nella metafora, troviamo così tre (almeno)
elementi: due significanti, S e S', l’uno rimosso e l’altro sopravvenuto; e un
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significato la cui posizione si trova ad essere non fissata rigidamente a S',
ma ambigua, mobile, scivolante sotto i due significanti. La restituzione del
loro legame, sola cosa che interessi il soggetto, renderà superflua questa
particolare operazione significante che è il sintomo, e si avrà qui la sua
risoluzione, riuscita del soggetto più che guarigione di un male.
Ora, per concludere, quel che ci interessa ancora è la formula
completa della metafora, poiché in essa si condensano non solo la
concezione lacaniana della metafora, ma i suoi nessi con la metonimia, e
l’insieme dei loro effetti nella dialettica del desiderio.
Non a caso Lacan dà questa formula nello scritto sulla psicosi
intitolato Sul possibile trattamento della psicosi, Si è detto che l’oggetto
immaginario del desiderio è simbolizzato nel fallo:
“Questa funzione immaginaria del fallo, Freud dunque svelata come
perno del processo simbolico che porta a termine nei due sessi la messa in
questione del sesso da parte del complesso di castrazione” (p. 555).
Nell’economia soggettiva, del lato dell’immaginario, la significazione
del fallo “è evocata nient’altro che da ciò che chiamiamo una metafora,
precisamente la metafora paterna” (p. 555).
La formula della metafora o della sostituzione significante è così
scritta da Lacan:
dove S e S' sono significanti, di cui il primo si sostituisce al secondo
nella catena significante; x è la significazione sconosciuta; s è il significato
indotto dalla metafora, per la riuscita della quale è necessaria l’elisione di S'.
Questa è la formula generale della metafora, che si applica alla
particolare metafora del Nome-del-padre, che è quella che “sostituisce
questo nome al posto simbolizzato in un primo tempo dall’operazione
dell’assenza della madre” (p. 557).
Attraverso le diverse fasi descritte, che sono altrettante tappe della
vicenda de] soggetto in rapporto al significante, fino all’interdizione
dell’incesto e alla castrazione, il Padre, non il padre reale ma il significante
del Padre che è il Nome-del-Padre, viene ad assumere nell’inconscio una
funzione essenziale, quella di permettere l’identificazione al Padre nella sua
funzione normativa, ultima tappa sulla via segnata dall’identificazione al
tratto unario c dalla costituzione dell’ideale dell’Io. Ciò può verificarsi con il
prodursi di un nuovo punto di ancoraggio della struttura soggettiva, al di là
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della madre, quello da cui è avvenuta la procreazione, come chiamata
nell’ordine significante prima che come realizzazione biologica:
L’attribuzione della procreazione al padre può essere soltanto
l’effetto di un puro significante, di un riconoscimento non del padre reale,
ma di ciò che la religione ci ha insegnato a invocare come il Nome-del-
Padre. Certo non vi è nessun bisogno di un significante per essere padre,
non più che per essere morto, ma senza significante nessuno, dell’uno o
dell’altro di questi stati d’essere, ne saprà mai nulla (p. 556).
Anteriormente all’avvenimento di questa struttura metaforica, ciò
che è significato al soggetto non va oltre l’Altro identico alla Madre, ma
resta unicamente e interamente sospeso al suo desiderio che il figlio sia il
suo fallo: esso è, ed è solo e tutto, il fallo. Il desiderio materno esiste per il
soggetto in termini esclusivamente metonimici, non produce nulla,
potremmo dire, fuori di sé: la significazione, finché è sospesa tutta e solo al
desiderio della madre, rimane incompiuta e il significato non ha luogo. In
questa posizione il figlio non esiste che nella pretesa della condizione
assoluta di A: per essere devo essere ciò che manca all’Altro, cioè non
essere nulla eccetto che l’oggetto immaginario del desiderio dell’Altro. In tal
modo ciò che può o deve essere significato al soggetto — il fallo essendo
legato come possibile significato solo al desiderio materno, che è una
metonimia — rimarrà del tutto sconosciuto ed enigmatico: ciò per cui il
soggetto è stato chiamato all’ordine del significante non gli è stato
significato. Nulla avviene dal lato del significato, si ha resistenza alla
significazione, il soggetto esisterà in condizioni di alienazione e dipendenza
assoluta rispetto all’Altro.
La metafora paterna interviene in questo cerchio o atomo
metonimico, rompendo la posizione di totale soggezione e facendo
avvenire la significazione rimasta sbarrata. È in questo che vediamo la
funzione della metafora: “Ma tutto questo significante, si dirà, non può
operare che essendo presente nel soggetto. È proprio ciò cui soddisfo
supponendo che sia passato al piano del significato” (p. 504)
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La metafora realizza compromissoriamente quel che era impossibile,
che con ciò diventa non possibile ma reale, condizione e distinzione
adeguata a ciò che Freud chiama ritorno al rimosso.
S(A)-ф resta inaccessibile, la sola possibilità che qualcosa ne sia
significato efficacemente al soggetto è attraverso il compromesso della
metafora: il fallo è bensì significato, ma lo è grazie a un significante
metaforico che come tale non è il significante di quel significato ma quello
della Legge della sua circolazione e della sua funzione. Lacan nota che si
dice “in Nome del Padre” come si dice “in nome della Legge”. Il
superamento (metafora) della sbarra — a un tempo si realizza nel
soggetto, realizza il soggetto e “realizza” senza altre specificazioni: il campo
della realtà è il campo del soggetto sbarrato S; soggetto del desiderio.
La realtà è dunque il campo del debito di origine (simbolico),
costantemente attraversato dal desiderio (immaginario, come l’oggetto
immaginario, il fallo, che lo causa). Reso possibile dalla metafora esso resta
sospeso alla questione che il desiderio, che è una metonimia, porta con sé:
quella del godimento e della trasgressione che lo renderebbe possibile, a un
altro livello di passibilità) [17]
Aprile 1971
NOTE
* in AA.VV, Cahiers pour l'analyse, Scritti scelti di analisi e teoria della scienza a cura del
Centro Ricerche 2, Boringhieri, Torino 1972, pp. 244-289.
1 Questo scritto intende esporre certe nozioni e soprattutto una certa problematica
lacaniane, così come l’autore le ha intese: assumendosene, com’è giusto, la responsabilità.
Ciò che più importa, al di là dei singoli argomenti, è l’opzione, che sta alla base dell’intero
scritto, per una prospettiva — nell’accostare il discorso lacaniano — che non è
essenzialmente né linguistica né psicologica né terapeutica, con tutte le possibili riduzioni
che vi si possono collegare. La prospettiva scelta è piuttosto quella del concetto di
mancanza proposto da Lacan, preso come quello intorno ai quale tutti gli altri vanno
articolati per non rischiare di perderne l’essenziale. Questa sottolineatura va di pari passo
con la convinzione che la stessa portata logica del discorso analitico, la sua incidenza sul
campo delle scienze cosiddette “umane”, e il suo stesso valore d’uso nell’ambito
terapeutico, siano strettamente relativi a tale concetto.
Le citazioni riportate nel testo, quando non hanno altro riferimento oltre al numero di
pagina, indicato fra parentesi, sono tratte da J. LACAN, Ecrits (Seuil, Parigi 1966).
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2 J. LACAN in “Scilicet”, N.1 a (Seuil, Parigi 1968) p. 40.
3 S. Freud, La scissione dell’Io nel processo di difesa (1938).
4 Il corsivo é nostro.
5 Dal seminario di J. Lacan, “L’acte psychanalytique”, tenuto nel 107-68, un breve sunto
del quale é comparso sull’Annuaire dell’EPHE (Parigi, 108-6) p. 214.
6 M. SAFOUAN, La struttura in psicoanalisi, in “Che cos’è io strutturalismo?”, trad. it.
(Istituto librario italiano, Milano 3971).
7 Lacan distingue fra néant e rien, facendo osservare che l’etimo di rien è il latino rem,
accusativo di res-cosa. In italiano possiamo rendere la distinzione con nulla e nonnulla: rien-
rem è proprio ciò che non è nulla, senza con ciò essere semplicemente tale o tal altra cosa
presente; esse occupa una posizione intermedia, ha valore di termine medio.
8 J. LACAN, intervento su Psychanalyse et Médecine, riportato in Lettres de l’Ecole
Freudienne, N. 1, p. 45.
9 La mancanza si configura diversamente secondo i diversi momenti della
soggettivazione. Lacan distingue tre categorie della mancanza, che in ordine progressivo
(occorre altresì tener conto dell’effetto retroattivo di ogni tappa sulle precedenti) sono:
privazione, in cui la mancanza è reale, e l’oggetto simbolico; frustrazione, in cui la mancanza
è immaginaria e l’oggetto reale; castrazione, in cui la mancanza è simbolica e l’oggetto
immaginario ma senza l’immagine speculare.
10 P. MARTIN, La théorie de la cure d'après J. Lacan, Lettres de l'Ecole Freudienne, N. 2, p.
17.
11 All’ideale dell’Io-identificazione simbolica, e all’Io ideale-identificazione speculare,
corrispondono quelli che ordinariamente la teoria psicoanalitica definisce come
meccanismi di introiezione e rispettivamente di proiezione: l’uno non è dunque
semplicemente l’inverso dell’altro.
12 Lacan pone una polarità tra il soggetto rappresentato dal significante per un
significante sempre altro, e il soggetto del godimento. Cahier pour l’Analyse, N. 5, 70.
13 In La phase phallique (articolo non firmato), Scilicet, N. 1, 83 (1968).
14 J. LACAN, Scilicet, N. 1, 58 (1965).
15 Ibid., p. 36
16 Si intende la linguistica moderna.
17 Osserviamo, come pseudoconclusione, che nelle diverse lingue troviamo risolto in
modi diversi il problema della mancanza — come vuoto o buco circoscritto, non come
nulla —, che si pone nel linguaggio. Nella lingua di Freud è il noto Es a indicarla, e si sa
come Freud ne abbia fatto uso per dare un nome a qualcosa che aveva scoperto e che era
altrimenti innominabile. Egli stesso, pur facendo normalmente un uso sostantivato dell’Es
della lingua tedesca, come Das Es, è giunto a piegare la stessa teoria all’uso della lingua,
come nella nota espressione “Wo es war soll ich werden”, in cui es compare non come
sostantivo, privo di articolo. Nel francese, lo stesso posto è occupato da ça, e Lacan vi
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ricorre abbondantemente e con rigorosa coscienza di causa. Quanto alla lingua italiana,
sembra potersi osservare una completa, appunto, mancanza, al posto di es tedesco e di ça
francese. Quella italiana sarebbe così una lingua più aderente, rispetto alla francese e alla
tedesca, alla funzione più propria dell’inconscio, quella di rappresentare una mancanza,
poiché questa lingua manca dove qualcosa manca. Bisognerebbe tenerne conto, in
particolare sul terreno della traduzione degli stessi testi di Freud, io cui Es è solitamente
tradotto con Es, con un raddoppiamento dell’ambiguità implicita nell’uso freudiano,
privandolo però, nel passaggio di lingua, della sua originalità e fecondità.