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razie alle frasi fatte, alle parole un po’ fruste del sociale che arrivano fedeli e dimesse a soccorrerci quando dob- biamo costringere nella rigidità dei formulari la nostra passione. In ogni caso è vero: abbiamo “dato voce a chi non ce l’ha” anche se solo a qualcuno, mai più di dieci o dodici alla volta; abbiamo “sensibi- lizzato il territorio”, un po’ ma sicuramente non a sufficienza; abbiamo “difeso i diritti degli ulti- mi” ma, per carità, su questo punto è meglio stendere un velo. Gli ultimi restano ultimi. Un bilancio onesto potrebbe anche tagliarci le gambe; nonostante gli sforzi e le fatiche, vicino a noi c’è ancora tanta gente convinta che in carcere l’ozio sia una fantastica opportunità, che vivere di televisione e branda sia il paradiso dei peccatori e che, comunque, per certi reati “sarebbe meglio la pena di morte”. Grazie di cuore a tutte queste persone per- ché, senza immaginarlo, motivano con grande efficacia il nostro lavoro. Fantastici pungoli, ci incentivano a continuare a scrivere, a raccontare, a ragionare; ci spronano ogni settimana a superare i tanti cancelli del carcere e i nostri limiti per tentare nuove strategie di comunicazio- ne, per trovare altre storie, per cercare di aprire strade di confronto pacifico, di ragione e di civiltà. Poche voci, pochi diritti, un territorio ancora molto duro da dissodare, tanto lavoro davanti a noi. Ma anche tanto calore e gratitudine. Per i nostri redattori, innanzitutto, per quelli di allora che ci hanno aiutato a partire e per quelli di oggi. Giovani, vivaci, irrequieti. Attingendo alle loro imprevedibili risorse siamo riusciti a dare continuità a un lavoro difficile e corag- gioso. Scrivere non è semplice; scrivere di sé è un rischio. Per tutti, ma per una persona “prigioniera” lo è un po’ di più. Grazie, dunque, ai nostri redattori, ma proprio a tutti; a quelli che sentiamo ancora, a quelli che abbiamo perso di vista, a quelli che ci hanno deluso e soprattutto a quelli che davvero hanno cambia- to la loro vita perché rendono plausibile la nostra speranza. Grazie agli amici di “Ristretti Orizzonti” e a Ornella perché segnano il passo della marcia, ci obbligano ad avanzare su un sentiero faticoso ma, in parte, già trac- ciato. Grazie a Brunello, a Mara e Valeria e all’as- sociazione “Oltre il muro” che ha adottato il nostro giornale; gra- zie a don Davide che ci ha permesso di distri- buirlo in un numero di copie inimmaginabile, grazie al Direttore del carcere che ci ha dato la possibilità di provare e di continuare, al Magistrato di Sorveglianza; grazie alla maestra Pinuccia vicina da sempre in modo discreto e prezio- so, a Francesca, Suor Claretta, a tutti i volon- tari e gli insegnanti e grazie a chi, tra il perso- nale dell’istituto, ci ha sostenuto e aiutato. Grazie, infine, al nostro gra- fico Renato. Tanta gratitudine, in ordine libero, per una volta senza gerarchie. Grazie a voi tutti lettori, perché siete la nostra vera ricchezza, il calore e il senso di quello che facciamo, grazie davvero a ciascuno di voi. Grazie, infine, al redattore più caro che mi ha lasciato un po’ sola e piena di nostalgia. Grazie a Enrico. Carla Chiappini Giornale della Casa Circondariale di Piacenza Numero 3 - DICEMBRE 2008 S osta F orzata G Cinque anni di “ Sosta Forzata” Cinque anni di “ Sosta Forzata” Continuare ostinatamente a tener vivo un confronto onesto tra dentro e fuori, senza pregiudizi e senza smancerie: questa è la nostra idea di pace Buon Natale! E tanti ringraziamenti

Numero 3 - DICEMBRE 2008 Cinque anni di “ Sosta Forzata” G · perché mi piace pensare in positivo. Io sono Eduart Kastratinato il 25 aprile del ’74 in Albania, ho 35 anni

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razie allefrasi fatte,alle paroleun po’ frustedel socialeche arrivanofedeli edimesse a

soccorrerci quando dob-biamo costringere nellarigidità dei formulari lanostra passione.

In ogni caso è vero:abbiamo “dato voce achi non ce l’ha” anche sesolo a qualcuno, mai piùdi dieci o dodici allavolta; abbiamo “sensibi-lizzato il territorio”, unpo’ ma sicuramente nona sufficienza; abbiamo“difeso i diritti degli ulti-mi” ma, per carità, suquesto punto è megliostendere un velo. Gliultimi restano ultimi.

Un bilancio onestopotrebbe anche tagliarcile gambe; nonostante glisforzi e le fatiche, vicinoa noi c’è ancora tantagente convinta che incarcere l’ozio sia unafantastica opportunità,che vivere di televisionee branda sia il paradisodei peccatori e che,comunque, per certireati “sarebbe meglio lapena di morte”.

Grazie di cuore atutte queste persone per-ché, senza immaginarlo,motivano con grandeefficacia il nostro lavoro.

Fantastici pungoli, ciincentivano a continuarea scrivere, a raccontare,a ragionare; ci spronanoogni settimana a superare i tanti cancelli del carcere e inostri limiti per tentare nuove strategie di comunicazio-ne, per trovare altre storie, per cercare di aprire stradedi confronto pacifico, di ragione e di civiltà.

Poche voci, pochi diritti, un territorio ancora moltoduro da dissodare, tanto lavoro davanti a noi.

Ma anche tanto calore e gratitudine.Per i nostri redattori, innanzitutto, per quelli di allora

che ci hanno aiutato a partire e per quelli di oggi. Giovani,vivaci, irrequieti. Attingendo alle loro imprevedibili risorsesiamo riusciti a dare continuità a un lavoro difficile e corag-

gioso. Scrivere non èsemplice; scrivere di séè un rischio. Per tutti,ma per una persona“prigioniera” lo è unpo’ di più.

Grazie, dunque, ainostri redattori, maproprio a tutti; a quelliche sentiamo ancora, aquelli che abbiamoperso di vista, a quelliche ci hanno deluso esoprattutto a quelli chedavvero hanno cambia-to la loro vita perchérendono plausibile lanostra speranza.

Grazie agli amici di“Ristretti Orizzonti” e aOrnella perché segnanoil passo della marcia, ciobbligano ad avanzaresu un sentiero faticosoma, in parte, già trac-ciato.

Grazie a Brunello, aMara e Valeria e all’as-sociazione “Oltre ilmuro” che ha adottatoil nostro giornale; gra-zie a don Davide che ciha permesso di distri-buirlo in un numero dicopie inimmaginabile,grazie al Direttore delcarcere che ci ha dato lapossibilità di provare edi continuare, alMagistrato diSorveglianza; graziealla maestra Pinucciavicina da sempre inmodo discreto e prezio-so, a Francesca, SuorClaretta, a tutti i volon-tari e gli insegnanti egrazie a chi, tra il perso-nale dell’istituto, ci ha

sostenuto e aiutato. Grazie, infine, al nostro gra-fico Renato. Tanta gratitudine, in ordine libero,per una volta senza gerarchie.

Grazie a voi tutti lettori, perché siete la nostravera ricchezza, il calore e il senso di quello chefacciamo, grazie davvero a ciascuno di voi.

Grazie, infine, al redattore più caro che miha lasciato un po’ sola e piena di nostalgia.Grazie a Enrico.

Carla Chiappini

Giornale della CasaCircondariale di Piacenza

Numero 3 - DICEMBRE 2008SostaForzata

G

Cinque anni di “ Sosta Forzata”

Cinque anni di “ Sosta Forzata”

Continuare ostinatamente a

tener vivo un confronto onesto

tra dentro e fuori, senza

pregiudizi e senza smancerie:

questa è la nostra idea di pace

Buon Natale!

E tanti ringraziamenti

Uomini chiusi,redattori volontari, di differentinazionalità, età, storie, religioni,ideologie, caratteri. E persino“ingombro fisico”: si va daiquasi due metri di Nest alla pic-cola statura di Vladan, con unavasta gamma di variazioni, tutteugualmente stipate nei banchettidi scuola dell’area pedagogica.Con il rischio, per me, di subireuna pericolosa “mutazione pro-fessionale”: Da giornalista a“maestra”, così come mi chia-mava, qualche anno fa, un sim-patico ragazzo africano. E questasarebbe solo una delle confusio-ni del carcere. Certamente non lapiù grave.

Uno strano gruppo- redazione che cambiacontinuamente nelle persone enegli umori; incrociando fortunee delusioni processuali e perso-nali, nascite e lutti; storie perlo-più solo intuite. Perché nel “pac-chetto” mai scritto di istruzionisul “sapersi fare la galera”, alprimo posto dovrebbe figurare ilnon parlare mai di questioni pro-fonde come, ad esempio, la fami-glia, il futuro, l’amore; nonesporsi e soprattutto non pensare

al passato e a quanto èsuccesso. Cioè il modomigliore per “farsi lagalera” è una sorta diparalisi del pensiero,dell’affettività e deiricordi.

Proprio il terrenoideale per promuoverequella “rieducazione”cui dovrebbe tendere lapena, almeno nel famo-so art. 27 dellaCostituzione.

Tuttavia - e inquesto contesto l’uso diun avverbio così pocoumano è possibile -tuttavia dicevamo, inredazione si riesceanche a discutere, siaprono rarissimi non-ché imprevedibilisquarci di sentimenti,paure e pensieri. Netracceremo brevi note afianco dei pezzi scrittidagli stessi redattoricon la speranza diriprodurre una qualcheimmagine, seppur sfuo-cata e approssimativa,di questo nostro lavora-re insieme.

SostaForzata2

VITA DI REDAZIONE

PIACERE, SONO….Io sono Roberto, ho 39 anni,

sono nato a San Severo, un paesebellissimo. Ho una mamma stupen-da. Non sono sposato e non ho figli.Ho una nipote bellissima che hanove anni e si chiama Giorgia. Houn’amica significativa. Ho un ocea-no di anni di carcere da scontare eho una grande forza di reazioneperché mi piace pensare in positivo.

Io sono Eduart Kastrati nato il25 aprile del ’74 in Albania, ho 35anni. Mi piace la musica, quellaclassica e in particolare WolfgangAmadeus Mozart. Mi piace lo sporte mi piace leggere. Un libro che miha colpito tanto è “Un luogo chia-mato libertà” di Ken Follet. Mipiace la vita, mi piace tanto aiutaregli altri quando si trovano in diffi-coltà. Ma vorrei ogni tanto chequalcuno aiutasse me, anche criti-

candomi ma senza giudicarmi.Convivo e ho due figli.

Io sono Ivana, ho 24 anni, vivo aPiacenza ma sono nata in Sicilia.Amo la sincerità e la chiarezza.Credo in Dio e credo che in ognu-no ci sia qualcosa di bello da sco-prire. Ho studiato Giurisprudenzae pochi giorni fa ho iniziato la pra-tica forense da un avvocato penali-sta. Credo nell’amore e nell’amici-zia: tornando a casa stanca da unagiornata piena, trovo ristoro nel-l’affetto e nel sorriso delle personeche amo

Io sono Luigi, ho 42 anni e sonodi torre Annunziata. Ho avuto trefigli da due donne diverse e non misono mai sposato; nel corso dellamia vita, il cuore ha quasi sempreprevalso sulla ragione. Questo miha portato a fare delle scelte sba-gliate ma non ho rimorsi.

Io sono Carla, ho 52 anni e quat-tro figli che amo infinitamente.

Fin da piccola volevo fare lagiornalista e sognavo in grande: il“Corriere della Sera” o qualchebella rivista patinata. Sono finita adirigere un giornale in galera;qualche volta mi dispiace ma piùspesso sono contenta.

Amo la chiarezza, il coraggio el’auto-ironia. Detesto la presun-zione, la violenza e la vigliacche-ria.

Amo leggere, camminare, anda-re in bici, cucinare, scrivere, parla-re coi miei figli. Detesto le ceneimportanti, le frasi fatte e i discor-si politici. Voglio bene ai mieiredattori anche quando li strozze-rei. Ho un po’ paura di invecchiare

Sono Nest Paci, sono nato inAlbania, ho 31 anni e vivo in Italiada 14 anni. Detesto le bugie.

Sono appassionato di calcio.Amo la cucina italiana e mi piacecucinare. Mi piace viaggiare,comunicare con la gente e aiutarechi ha bisogno. Mi piace leggere.Non sono sposato ma mi piacereb-

be avere una famiglia numerosa.

Io sono Pino, sono una personaemotiva, a volte sensibile. Ho uncarattere ribelle, ma forse piùprima. Sono una persona che amamolto ascoltare gli altri per con-frontarsi ma non mi piace giudica-re e neanche essere giudicato. Mipiace vivere la vita, anche se èstata negativa. Vorrei rispetto edignità per me e per gli altri, se lomeritano.

Io sono…è una parola moltocomplicata. Più semplice dire chemi chiamo Vladan, sono un ragaz-zo serbo, ho 27 anni, non sonosposato, amo lo sport. Per adesso ètutto; questo sono io.

Io sono Nando e sono tutto som-mato una persona solare ma conqualche aspetto negativo; a volteinfantile e orgoglioso. Se voglia-mo anche troppo diretto e impulsi-vo. Auto-ironico.

Io sono Alan, ho 25 anni e vengoda Napoli. Sono un ragazzo contante qualità ma anche con tanti

LA REDAZIONE SI PRESENTA

SostaForzata 3

OSPITE IN REDAZIONE

difetti. Mi piace tanto lo sport e, proprio perché sonoun tipo molto vivace, nervoso e irascibile non mifaccio mai mancare l’attività fisica…non riesco astare fermo più di due minuti e con lo sport riesco ascaricare tante tensioni. Ho anche tanti hobby, tra iquali la musica, la cucina e le donne. Mi piace esse-re al centro dell’attenzione, facendomi conosceresempre per quello che sono; un ragazzo eccentrico enello stesso tempo simpatico, romantico e sincero.

IL NOSTRO GIORNALE OGGI

Una delle cose più dure nel fare un giornalecome questo non è quella di avere idee e nem-meno quella di realizzarle. Il vero lavoro duroarriva quando scopri che alcune di quelle ideesono irrealizzabili. Funziona così da sempre:alti e bassi. Speranze e delusioni. Certezze esmentite. Delle 20 o 30 idee che butti in pasto algiornale all’inizio di ogni mese, quelle che riescia concretizzare si riducono a non più di unadecina. Ecco perché penso che questo giornalenon è la somma di idee diverse ma, in realtà, ilrisultato di una lunga sottrazione.

A volte, però, le cose funzionano in manieradiversa. Come in questo numero, per esempio,dove tutto si è magicamente realizzato senzasottrazioni. Anzi, sì, alcune sì ma per mancanzadi spazio.

Questo che avete tra le mani, quindi, è unnumero felice e anche ricco, sincero e allegro.

E con questo atteggiamento che abbiamo ini-ziato a riunirci, siamo partiti con una chiac-chierata e infine ci siamo innamorati di questomodo che abbiamo di metterci in discussionetra di noi e con il mondo in cui viviamo

Alan

POST SCRIPTUM Fantastico Alan che dice e non dice, eppure dice!

Parla di sottrazione ed è nuda verità. Una verità che gli è quasi scappata dalla penna

e, ancor prima, dagli occhi e dalle discussioni inredazione.

Un giornale del carcere è un giornale che pati-sce una forte auto-censura. Come tanti giornali,d’altronde, ma per motivi differenti. Perché quidentro è particolarmente difficile ricostruire unaverità condivisa, perché le stesse voci “ristrette”sono spesso discordanti, perché è impossibile rac-cogliere immagini, testimonianze, dati.

Perché il carcere è un’istituzione totale, non unacasa di vetro. I muri sono tanti e di cemento.Opachi. Noi tentiamo di aprire qualche spiraglio,di far uscire qualche pensiero, una storia, due sto-rie. Comunque mai complete; anch’esse indeboli-te da riserbo, pudore, prudenza. Ed è ancora sot-trazione.

c.c.

FRÀ BEPPE: RISVEGLIATO DAI LUPIDa un tempo immemorabile gira per le carceri

lungo tutta la penisola. È instancabile; o megliosi stanca anche lui e, ogni tanto, nei convegnirecupera un po’. Un pisolino al volo, quando nonvale la pena di ascoltare.

È venuto da Verona a trovarci e ha portato qual-cosa di buono. È un francescano un po’ pazzo,innamorato del santo di Assisi e dei tanti “lupiche ha incontrato e incontra negli istituti di penadel nostro paese.

Don Luigi Ciotti ha scritto la prefazione del-l’ultimo libro realizzato con la collaborazione diEmanuela Zuccalà “Risvegliato dai lupi”.

“Abitare il cuore dell’uomo: questa è la gran-de avventura che Frà Beppe Prioli tenta e realiz-za. Un abitare difficile e scomodo. Vissuto condiscrezione e passione. Scendendo nelle pieghepiù nascoste del cuore umano: dove bene e malesi incontrano e si confondono; dove sofferenza esperanza si mettono a dura prova, quasi l’unacontro l’altra; dove colpa, punizione e speranzadi redenzione sono così intrecciate da rendernedifficile la distinzione. Perché questa è la carat-teristica di Frà Beppe: il cuore dell’uomo lui locerca dietro le sbarre: dove manca la libertà fisi-ca e dove anche la libertà spirituale stenta asopravvivere…”

BACKSTAGEFrà Beppe li conquista. Tutti, persino i

più giovani, quelli che a tenerli tranquilli civuole un miracolo. Con il suo saio marroneda francescano, con le parole chiare maaffettuose, con le battute. Capiscono che luili capisce. Lo ascoltano e gli fanno doman-de. C’è un rosario per ciascuno di loro,uno anche per un ragazzo musulmano. Èun momento di pace.

Poi, in cella scrivono. E anche se c’è unpo’ di enfasi, la promuoviamo perché cipare assolutamente sincera. E non solo per-ché è Natale.

Frà Beppe; un uomo dall’apparenza debole,fragile. Magari anche per la sua età.

Invece ti trovi tutt’altra persona, con un carat-tere forte, un linguaggio abbastanza da malavito-so perché lui ha passato un bel po’ di anni adaiutare – come dicono le persone perbene – i“delinquenti”.

Passare un paio d’ore con lui è stato unpiacere perché ti insegna a vivere

anche nei momenti brutti. Noi umani siamo fatticosì: quando stiamo bene non abbiamo problemima, quando ci troviamo in difficoltà, facciamo ditutto per farci del male. Per questo Frà Beppe èlì, pronto ad aiutare, a dare un appoggio.

Comunque, senza cambiare discorso: fràBeppe bisognerà farlo santo?

Perché lui dà una mano a chi ha bisogno, sianelle carceri che fuori e oggi è difficile trovarequalcuno che ti aiuta a inserirti nella vita quoti-diana e a farti uscire da qui.

È facile rinchiudere una persona, ma come si fapoi a recuperarla?

Lui è uno dei pochi a far vivere le persone a cuihanno tolto la vita, cioè la libertà perché in car-cere, si sa, la vita si ferma, non cammini paralle-lamente con il resto del mondo.

È per questo che ho scritto la parola “santo”;santi da vivi non ce ne sono ma frà Beppe meri-ta di essere riconosciuto per il bene che fa.Complimenti frà Beppe.

Nest Paci

Frà Beppe, un frate che veste i panni dei detenuti.Uno che non si limita a guardare le apparenze.

Il nostro incontro per me è stato molto significa-tivo; parlare con lui è stato un tuffo nel passato,un passato che per molte ragioni vive nel miopresente. Ma la cosa che più mi ha colpito di FràBeppe è stata la sua semplicità nel porsi; davve-ro sembrava uno di noi.

La maggior parte delle persone o degli altriuomini di Chiesa vede noi detenuti come pecca-tori, o peggio ancora come “criminali”. Invecenegli occhi di Frà Beppe io ci ho visto tanta soli-darietà.

Per me è una forza della natura e spero contutto il cuore che ne nascano altri come lui.

Daniele

Con tutta sincerità sono del parere che questoè stato l’appuntamento che ho sentito di più e che– sicuramente – non dimentico.

Non metto in dubbio la sua fede e la tunica cheindossa ma penso che sia il primo rappresentan-te della Chiesa che mi è parso senza ipocrisie efalsi perbenismi.

L’ho sentito uno dinoi.

La Bibbia, se nonerro, dice, per chi è cre-

dente come me, di ascoltaree credere ma con Frà Beppe, per

una volta, si sono gira-te le carte in tavola: èlui che crede in noi enel nostro futuro esono le cose che fa pernoi che mi portano apensare a questo.

Nando

A un uomo che,con la sua semplicità,arriva al cuore di tantie, con il coraggio diun guerriero, oltrepas-sa il muro dell’indiffe-renza e il pregiudizio.

A una persona spe-ciale con affetto esimpatia

Luigi

ono due storie di migra-zione, appena abbozzate,molto spoglie. Le abbiamocostruite tutti insieme,con i due protagonisti. Èstato un esercizio, una

prova di intervista; c’è stata unainattesa concentrazione ma restaancora tanto da scoprire. Nest eRoberto sono due belle persone,molto riservate; per la prima voltaci hanno regalato piccoli fram-menti di vita. Li abbiamo sentitisinceri.

Forse su questa traccia un po’scarna potranno costruire il rac-conto da cui ripartire.

Nest 31 anni ha un fratello piùgrande e viene da Lac una piccolacittà vicina a Tirana dove vive anco-ra la sua famiglia. Ha studiato fino a12 anni e poi ha fatto tanti lavori:imbianchino, camionista, informati-co. Ha aperto anche un negozio. Glipiaceva fare il camionista ma ora,finita la pena, ha in mente l’infor-matica.

È appassionato di calcio e, in par-ticolare dell’Inter, non è tipo dadiscoteca ma ama mangiare bene esoprattutto viaggiare. Pur essendoancora molto giovane, ha conosciu-to tanti paesi; la terra preferita èl’Olanda “perché è tranquilla e lepersone sono tolleranti”, ha visitatopiù volte Parigi e Monaco. In Italiala città che conosce meglio èMilano. Cucina volentieri, “ma soloqui in carcere”.

Roberto 39 anni, aveva due fra-telli e una sorella; “ero il quarto maora che mio fratello è morto, siamorimasti in tre”. I genitori vivono aTorino, ha studiato fino alla licenzamedia e faceva l’installatore elettri-co. Non ama la discoteca, ha viag-giato poco; il Gargano è il luogo delcuore e il film preferito è “IlGladiatore”. “Per scelta consapevo-le e responsabile” non si è mai spo-sato e non ha figli.

IL VIAGGIONestLa prima volta che sono scappato

da casa avevo 14 anni e sono arriva-

to fino in Grecia; ero andatovia per ripicca perché avevolitigato con mio padre. Sonopartito a piedi, fino al confi-ne ho trovato dei passaggisu vari mezzi; poi al confi-ne ci siamo uniti in gruppi eabbiamo cominciato a cam-minare. Dopo quasi ventiore di cammino, uno di noiaveva il mal di stomaco e cisiamo fermati; i militari cihanno preso, ci hanno ripor-tati in Albania. Dopo pocotempo sono scappato dinuovo e sono stato in Greciaper 4 mesi a lavorare. Sifaceva così: ci si metteva inpiazza finché veniva qual-cuno a offrirci il lavoro; perdormire ci arrangiavamo, spesso cidavano un posto gli stessi per cuilavoravamo. È stato brutto: il popo-lo greco non ama se stesso e nem-meno gli altri!

Non ho avuto paura, almeno noncredo. Il mio paese, certo sì che mimancava e mi manca sempre. Madai 14 ai 31 anni sono sempre statofuori casa; mi piace spostarmi, mipiace cambiare. Credo che questeesperienze siano state fondamentaliper formare il mio carattere; primaero un ragazzo timido che arrossivamolto.

[ndr a dire il vero Nest avolte arrossisce ancora].

In Italia sono arrivato conil gommone. Siamo partiti amezzanotte e all’una e venticirca ero già vicino a Brindisi;eravamo 36 persone in unabarca di 12 metri, il mare eraliscio, era il mese di giugno.Ma sul molo di Bari c’eranocirca 50 persone tra militari ecarabinieri che ci aspettavanoper arrestarci. Sono scappato esono stato l’unico a non esserepreso. Ho camminato lungo ibinari del treno per sei – setteore, poi ho preso un treno perBologna e poi uno per Milano.

RobertoI miei sono partiti senza una

lira con quattro figli; io ero

molto piccolo. Prima siamo andati aMilano e poi a Torino dove c’eranoi fratelli e le sorelle di mia mamma.Mio padre ha cominciato a lavorarenell’edilizia, a Torino è stato in Fiate poi di nuovo nell’edilizia perconto suo; è sempre stato un grandelavoratore. La mia mamma è casa-linga e stava in casa con noi quattro.Quando siamo venuti su erano circagli anni ’70; i miei sono partiti pertrovare lavoro e mia mamma di quelviaggio ha anche bei ricordi, di noitutti insieme in macchina.

Io ero davvero piccolo ma, daquando ho avuto 5/6 anni, ho

cominciato a stare sempre in mezzoalla strada, mi piaceva giocare a cal-cio con gli altri bambini, “metteva-mo il pallone sui piedi la mattina etiravamo sera”.

Non mi sono mai sentito discrimi-nato perché venivo dal sud. A quat-tordici anni, appena ho potuto, hopreso la moto; eravamo un gruppodi ragazzi con le moto e stavamosempre insieme…

LA MIA TERRA, LA NOSTALGIANestCosa mi manca del mio paese? Mi

mancano i miei genitori, mi mancail mare, e il mio piatto preferito il“lakra me mish” che è una carne conle verze che assomiglia alla “chiso-la” perché noi siamo gente di mon-tagna. Lì, nella mia terra, ero unragazzo; sono maturato qui. Tra noie voi ci sono forti differenze cultu-rali; nel mio paese c’è un granderispetto per i genitori, io farei ditutto per loro; pensa che negli anni’94-’95 ho speso tanti soldi percomprare una casa per mia madre emio padre.

RobertoIo ho i parenti che lavorano la

terra e da piccolo mi fermavo giù inPuglia tutti i tre mesi dell’estate;raccoglievamo i pomodori, stavamosempre a piedi scalzi. Mi mancanola pasta fatta in casa e i miei cugini.

NestAmavo molto la mia nonna, la

mamma di mio padre perché eraaffettuosa e brava, vedevo in lei miopadre, ogni tanto fumava e per lei,qualche volta, rubavo sigarette ecaramelle nel negozio di papà. Eraalta, con gli occhi scuri e vestiva coni nostri abiti tradizionali. In Albaniaci si sposa, non esiste la convivenza.È un paese un po’ maschilista. Se siesce a cena, non esiste che ognunopaghi per sé, c’è sempre qualcunoche invita e offre per tutti.

Ma qui mi piace perché la gente èpiù aperta, più libera.

Roberto

SostaForzata

S

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LE VITE DEGLIOgnuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita.

Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un racconto, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi, possedere se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto.Dobbiamo ripetere noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi.L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé

Oliver Sacks

Nest e Roberto: storie di migrazioneDa est a ovest da sud a nord

22 MAGGIO 2000: la prima volta che ho presouna pasticca di extasy. Era il mio compleanno.

Presa la prima, non ho saputo più fermarmi,nel contesto in cui mi trovavo, era difficile dire dino; era il mio modo di vivere, mi piaceva!

Lavoravo a Riccione, prima come “fotomodel-lo”, poi come “ragazzo immagine” in discote-ca…chi meglio di me riuscirebbe a spiegare cosasi prova!

Una volta entrato in questi giri, ti è difficile nonprovare; sono due mondi – la moda e la discoteca– dove la droga la trovi liberamente e, dopo un po’,diventa essenziale farne uso.

Soprattutto nel mondo delle discoteche ci sonole pasticche che ti rovinano e, nonostante tutto,non facevo altro che “calarmene” minimo unadecina tutte le sere, cercando di capire lo sballoche, ognuna, distintamente, mi dava.

Pasticche di anfetamina, morfina,mescalina…in ogni caso mi alteravano fortemen-te i sensi; con la differenza che le prime mi face-vano sentire il più forte di tutti e non accusavo nes-sun tipo di stanchezza né mentale, né fisica. Leseconde mi abbassavano fortemente la pressione,alterandomi la vista e facendomi perdere il con-trollo dei muscoli facciali: giravo gli occhi, perde-vo il controllo della mascella. Le terze mi teneva-no sveglio, mi facevano ridere, facendomi sentireamico di tutto e di tutti, diventavo consenziente aqualsiasi tipo di richiesta. Questo è lo sballo da

discoteca; nessuno miha mai costretto, anzisono sempre stato io adire di sì.

Prendendole hoavuto dei risultati che,per l’età che avevo,sembravano buoni:soldi, ragazze, diverti-mento, tutto quello cheun ragazzo esuberanteed eccentrico può desi-derare; ma, per quantoriguarda il finale, ho ottenuto soltanto quattromura e una forte mancanza di salute per un lungoperiodo della mia vita.

Oggi penso a questo mio mondo e sentire checi sono ragazzini che si sentono male per unapasticca, “mi prende male”. Alla tv dicono che ètutta roba fatta male, ma è il contrario. Le “paste”ti prendono soprattutto mentalmente; le personeche si sentono male sono quelle persone che leprovano per farsi grandi davanti agli occhi deglialtri. Se le calano senza sapere a cosa vanno incon-tro; inizia a salire lo sballo, non lo capiscono edecco che sbattono a terra presi dal panico; è suc-cesso anche a me, devi essere forte di mente, nonbasta il fisico.

Da poco hanno fatto anche le pasticche diketamina, la “ketch” è classificata come drogapesante ma non lo è; infatti è un anestetico cheviene usato per cavalli ed elefanti. È pericolosa.

L’ ho provata solo due volte, sniffandolain polvere e devo dire che è l’unica cheriesce ad annullarti i sensi, diventi digomma, non sai più chi sei. Ma la veraextasy è quella che si ricava dal MDMA,un derivato dell’LSD, un acido allucino-geno; ne ho provate di tutti i tipi e que-st’ultima è la vera pasticca di extasy; è dif-ficile trovarne in giro, anzi quasi impossi-bile ed è meglio così per i giovani dellanuova generazione, ma non tanto per iragazzi della “vecchia”.

Oggi come oggi posso solo dare un con-siglio: fare attenzione prima di prenderequalcosa, informarsi su quello che puòaccadere. Non posso dire altro perché

sono uno di questi e, un domani, se avrò l’occa-sione, di sicuro non si ripeterà.

Delon ‘83

Post scriptumConfesso che ho letto e riletto infinite volte que-

sto articolo. E mi ha fatto quasi sempre arrabbia-re. È quanto di più lontano da me si possa imma-ginare; l’alienazione, lo sballo fine a se stesso,tanti soldi spesi per “girare gli occhi” e “perdereil controllo della mascella”. È pura follia. Nonriesco a capire, non trovo il senso.

In redazione abbiamo discusso; i ragazzi hannocontinuato a discuterne in sezione.

Lo pubblichiamo? No, sì, siamo divisi. Alla finedecido per il sì; è uno spaccato di realtà.

Non c’è redenzione a tutti i costi. C’è la vita. In carcere di queste storie se ne incontrano

parecchie.ca. ch.

Vivo da tanto tempo in Piemontema ogni anno cerco di tornare a SanSevero. Mi manca il mio paese e ladifferenza più grande che vedo è iltempo della vita, la tranquillità. Perme hanno ragione loro, la grandecittà è sempre troppo tesa. Dentro ilpaese si sentono gli odori, il gustodel pane e ti viene voglia di assag-giarlo.

MIGRAZIONE E IDENTITÀNestLa migrazione ha arricchito la mia

vita; ho avuto quello che volevo,esperienza, maturità.

Ma la mia terra è l’Albania.Quando avrò finito col carcere,

andrò via dall’Italia, il mio punto diriferimento sarà sempre il mio paese.Qui sono stato 14 anni: qui ho ilricordo più bello e quello più brutto.

Qui ho trovato anche belle amici-zie con gli italiani; non dimenticoche il mio ex datore di lavoro mi hafatto un prestito sulla fiducia doposoli sei mesi che mi conosceva e iogli ho restituito l’intera somma. Unamico italiano mi è venuto a trovare

anche qui.

RobertoNella storia della mia

famiglia in generaledirei che l’immigrazio-ne è stata positiva; quel-lo che mi potevano dare,i miei genitori me lohanno dato; ma forseper loro, per la miamamma e il mio papà ilbilancio non è stato cosìbuono: hanno perso unfiglio e io sono chiusoqui dentro.

Quanto a me, non mi sento némeridionale né piemontese.

IL CARCERENestFino al ’99 il carcere nella mia vita

il carcere non era prevedibile; poisapevo che, facendo certe scelte,rischiavo. I miei genitori in Albaniaerano preoccupati perché vedevanoarrivare troppi soldi e mi raccoman-davano di fare il bravo ma è andatacosì. Con l’Italia ho finito ma voglioandare via pulito, libero. Il mio

sogno è quello di far lavorare un po’di gente nel mio paese.

RobertoAnche per me il carcere non era

prevedibile ma poi di fatto hainfluenzato tutta la mia vita. Sonoentrato la prima volta a 18 anni alle“Nuove” di Torino con una condan-na di sei mesi ed era un carcerecompletamente diverso; non c’eraancora la legge Gozzini, si stava incameroni di otto persone e uno deiprimi ricordi che ho è una coltellatasulle scale per andare all’aria. Ma

dopo tanti anni di galera, dimenticotutto, perdo tutto.

NestRicordo che, nei miei primi giorni,

ero rimasto impressionato dalle per-sone che giravano all’aria senza unsenso.

Oggi sono uno che non soffre trop-po il carcere, so quando finisco epenso a quello. In cella non sto maisdraiato, mi corico solo per dormire.Ho un carattere forte, riesco ad auto-gestirmi e questa è la mia sfida alsistema.

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ALTRI

extasy

Chiusura serale dei blindi !Non c’è un rumore al

mondo che riesce a farmiinnervosire così tanto, a crea-re dentro di me un fastidioinsopportabile. È un rumoresecco e molto pesante.Sembra che parlino uno die-tro l’altro, questi blindi edicano con certezza: -Separato dal mondo! - o –Chiuso al sicuro! – ma nonper questo al mondo le cosefilano per la direzione giusta, ancheperché il mondo dal principio non èmai stato al sicuro!

Questi blindi che si chiudonol’uno dopo l’altro mi fanno venirein mente il mare forza cinque chesfoga tutta la sua rabbia sulla roccia!Il blindo è l’ultimo muro che si creaogni sera tra me e il mondo ma lamattina dopo questo muro crolla e,appena sento la parola “aria” mipreparo ad uscire fuori!

Qualcuno può domandare incu-riosito: - Fuori dove? - . vado all’a-ria e, di nuovo chiuso, mi ritrovoquesta volta chiuso fuori ma dentroquattro mura grigie e, se capitaanche il cielo di colore grigio, quel-la può diventare una giornata ditanto malumore!

Cammino intrappolato dentroqueste quattro mura e faccio avan-ti – indietro, passeggio come unvagabondo con le mani in tasca

anche d’estate!Dopo un po’mi sforzo dilavorare di fan-tasia; creo lestrade, i sema-fori, i palazzinegozi ecc. l’e-state scorsa,fantasticando,sono arrivato alpunto di imma-ginare me stes-so in ferie e,

ovviamente, non perché avevo lavo-rato durante l’anno ma per il sempli-ce motivo che per l’ennesima gior-nata mi ritrovavo allo stesso posto,facendo niente!

Camminando dentro questa trap-pola che chiamano “aria” , dopo unpo’ mi stufo e me la prendo con mestesso, pensando bene, arrivo allaconclusione che assomiglio a uncane randagio in cerca di chissà checosa! In verità io ho perso qualcosa,qualcosa che a ognuno di noi ècostato caro.

Ma fare i cani randagi dentroqueste quattro mura a cosa serve?

E così, arrivano tante domande araffica al mio cervello: - Ma cosahai perso? Quando lo hai perso?Per quanto la devi cercare e sogna-re ancora? Qualcuno ti aiuta a tro-vare quella “cosa” cara che haiperso e ti aiuta a capire il perché diquesta perdita? –

Ed ecco che mi siedo; non esisteuna panchina qui fuori, dentro lequattro mura famose chiamate“aria” e così sono costretto a seder-mi per terra da barbone! Mi sonoauto-convinto che da solo camminan-do in mezzo a questo infinito grigionon riuscirò mai ad avere le rispostegiuste ai tanti “perché?”.

Ed è così che all’improvviso mi èvenuta l’idea di scrivere qualcosasull’importanza del lavoro in rap-porto con il detenuto, cioè con me.

L’affermazione che il lavoro è ilfondamento su cui si basa l’interasocietà è più che vero e, per di più, iocredo che anche per noi “reclusi” illavoro è fondamentale. A mio parereognuno di noi si può rieducare adessere pronto per il reinserimento insocietà solo tramite la possibilità diun lavoro qui dentro questa infinità dimura.

Lavorando un detenuto imparaad essere corretto e preciso. Il lavo-ro invita ognuno di noi a pensare inpositivo, il lavoro può risvegliare lenostre capacità e metterle al serviziol’uno dell’altro e, perché no, anchedella società.

È ben vero che, lavorando, ilnostro comportamento socialemigliora; è ben vero che il lavoro puòservire a ognuno di noi a dimenticareun passato buio e senza prospettiveper pensare e credere a un futuromigliore, creativo e pulito.Lavorando e solo lavorando noi pos-siamo cambiare l’atteggiamento nei

confronti di noi stessi e della società.

Lavoro vuol dire cultura e vive-re intensamente la vita in armoniacon il prossimo; lavorando noi pos-siamo prendere la vita per il versogiusto, possiamo capirci meglio l’unl’altro. piuttosto che scambiareparole inutili e passeggiate che nonportano da nessuna parte.Lavorando possiamo scambiare lenostre idee, quelle giuste a creare eservire l’uno l’altro.

Forse oggi sono troppo entusia-sta, ma penso davvero che solo lavo-rando possiamo scordare il nostromodello sbagliato di vita e chiudereuna volta per tutte con il nostro pas-sato.

Eduart Kastrati

Eduart è alto biondo, occhiazzurri. Camicia azzurra egiacca, ama la musica classi-ca. Tono pacato, linguaggiomolto corretto. Lo scorsoanno uno degli ospiti cheabbiamo avuto in redazioneera palesemente confuso. Misono divertita a osservare ilsuo sconcerto.Che imprevisto: un detenutoche sembra uno studente!

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SFINIRSI DI OZIOI NUMERI DEL NULLAAbbiamo provato a chiedere ai nostri redattori di calcolare lasomma delle ore vuote dall’inizio della detenzione ad oggi; abbia-mo appurato che nessuno di noi ha una limpida vocazione mate-matica ma siamo arrivati a poter conteggiare, con una certa ragio-nevole approssimazione, i tempi totali delle attività e dell’ozio,almeno per alcuni di loro.

Uomo italiano detenuto di 25 anni: su 21.600 ore di detenzione,20.880 ore morte – come le ha definite lui stesso.Uomo italiano detenuto di 24 anni: su 7578 ore di carcere, 1320ore di lavoro, 88 di attività culturali e 6346 ore di ozioUomo italiano detenuto di 39 anni: su 7920 ore di carcere, 1320ore di lavoro, 660 ore d’aria, 72 di giornalismo e 5868 ore di ozioUomo italiano detenuto di 48 anni: su 5760 ore di carcere, 1376di scuola, aria, giornalismo e 4384 ore di ozioUomo albanese detenuto di 34 anni: su 8760 ore di carcere, 6354ore di ozio

Quanto a noi, davvero non se ne possiamo più nell’ordine:Dei politici che da anni promettono un Garante che non arrivamaiDi chi domanda: - Ma perché questi in carcere non fanno qualco-sa di utile?Di chi dice: - Vorrei anch’io riposarmi un po’ in galera

Di chi chiede se davvero hanno la televisione, magari a colori. Maha mai provato a passare il tempo dell’estate e della primavera, del-l’autunno e dell’inverno davanti a una scatola che parla, parla,parla…Di chi crede che in carcere ci siano i self-service stile film ameri-cano mentre le persone mangiano in cella su un piccolo tavolo, difronte a un muroDi chi pontifica sui massimi diritti e non si rende conto che quidentro i diritti molto spesso sono: acqua calda per le docce in inver-no, pulizia, visite mediche tempestive, cibo sano, incontri decenticon i propri familiari, spazi fisicamente vivibili…

BackstageSiamo in trasferta nel “Giardino degli Incontri” del carcere diSolliciano a Firenze; un’oasi bellissima progettata dal talentodi un grande architetto. Si parla di Costituzione e Diritti.Ci sono relatori straordinari come Alessandro Margara eValerio Onida, introduce Franco Corleone. Tutte persone chehanno titolo per parlare ed è bello ascoltare. Poi intervengono alcuni detenuti e la realtà si impone con paro-le tese e vere: - Nella mia cella entra l’acqua, come posso vive-re decentemente? - ; - Mia madre viene dalla Sicilia e puòvedermi per un’ora e mezza! - …Usciamo sotto una pioggia torrenziale, aspettiamo un taxi percirca trenta minuti. E ci chiediamo a cosa servono dei dirittiche scivolano via dal cuore e dall’impegno delle persone.

IL CARCERE CHE NON

Backstage

ono parole estranee, parole dacarcere. Fuori hanno altrisignificati.

Le scriviamo sulla lavagna elasciamo che siano loro, le

parole, a evocare pensieri o emozioniche raccontino il carcere a chi nonriesce nemmeno immaginarlo e, magari,ne parla con supponenza senza il bene-ficio di un pur piccolo dubbio.

DOMANDINAIn questo contesto la “domandina”

conta tantissimo. Io vivo la domandinacome una rieducazione perché mi sonosempre auto-gestito e ho sempre infran-to le regole

Nando 24 anni Italia

La parola domandina mi evoca sem-pre il carcere anche perché non riescoad associare questa parola a nessun altrotipo di cosa

Roberto 35 anni Italia

Domandina; una parola per deciderela tua vita all’interno di queste mura.Qui dentro non si ha libero pensiero elibera parola ma per tutto ci vuolela”bolla papale”, una domanda scrittaper decidere se sia giusto farti fare qualcosa ofarti avere qualcosa.

Penso che siamo esseri umani capaci di ottene-re qualcosa anche con la cortesia e la gentilezzasenza avere bisogno di chiederlo tramite “doman-da” scritta.

Alan 26 anni Italia

La domandina è una parte del carcere perchéogni volta che devi telefonare, tagliare i capelli,andare dal dentista o per qualsiasi altra cosa servela domandina. È una parte della vita delle perso-ne che stanno in carcere. Non se ne può fare ameno

Armando 28 anni Albania

Tra le tante domandine che ho letto la più bellaera quella di uno che scriveva di poter acquistareuna bambola per sua figlia. Non era la bambola,poi, che mancava a sua figlia ma il semplice gestodi potergliela regalare di persona. A un certopunto della domandina specificava che è l’affettoche mancava alla sua bimba, non l’oggetto

Eduart 34 anni Albania

Tutto si chiede trami-te domandina anche sedelle volte ci voglionodiverse domandine inquanto non ricevi mairisposta. Spiegazioni? Èstata smarrita.

Pino 49 anni Italia

La domandina è lachiave di tutto qui incarcere; qualsiasi cosaviene richiesta alla dire-zione con una domandina. Questa parola è tal-mente necessaria che è impossibile non nominar-la per un giorno intero. Però ce n’è una che pro-prio la venero ed è quella che mi permette di tele-fonare ai miei genitori e di sentire il mio meravi-glioso Mattia.

Daniele 25 anni Italia

La domandina per noi è come una chiave. Gliagenti hanno la chiave che apre le porte,

invece noi abbiamo la domandina che ci apre lesperanze per il futuro e anche per la vita di tutti igiorni.

Noi qui dentro, credo che non ci siamo maichiesti se esiste un altro posto dove per ottenerequalsiasi cosa bisogna compilare la domandina.Per noi è una specie di punizione per farci capireche se ti serve qualcosa, devi chiedere e non pren-dere senza domandare.

Nest 33 anni Albania

BRANDALa branda per me è l’unico posto dove riesco

ad evadere dalla routine del carcere, diciamo che,ormai è il mio mondo e lì mi sento al sicuro, so

che è qualcosa di personale ed èmolto piacevole per me avere que-sto piccolo spazio di riflessione.Purtroppo ha pure i suoi lati negati-vi perché non sempre i miei pen-sieri sono limpidi e piacevoli. Perònei momenti di confusione mi aiutaa fare chiarezza nellamenteDaniele

La cosa che odio di più. Ognivolto che mi sdraio sembra che miingoia, mi perdo in pensieri diversi

ed è per questo che, solo all’ora di dormire, salgosu quella branda

Eduart K.

Branda, mi viene da annoiarmi solo a sentire laparola. È un termine poco usato fuori dal carcerequi branda è sinnonimo di dormire. Io caratterial-mente sono iperattivo e l’obbligo di stare su unabranda è Credo di essere uno dei pochi in carcereche non si sdraia in branda durante la giornata.Solo a sentire la parola “branda” mi viene vogliadi prendere il materasso e dormire per terra, giu-sto per cambiare. La branda per me vuole dire“pensieri” e, per questo, ci vado solo per dormiree dimenticare tutto. Spero di salutarla presto.

Nest Paci

Branda, galera, servizio militare, obbligo,oppressione, va d’accordo solo con il sonno.

Luigi

Sono dieci anni che ci vivo; per me è diventataun posto dove leggo, scrivo, ascolto la musicaecc. ma desidero dormire in un letto dove nontocco e sento solo ferro freddo.

Pino

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Una frase in tutto questo resta certa perme e per chiunque. Una frase del direttoredi Nitida, la sua risposta quando gli chiesise non lo schiantasse lavorare su ragazziniche hanno il futuro già apparentementecosì scritto: - Perché, tu sei in grado discommettere con certezza sul futuro di unuomo, chiunque esso sia? –

Don Luigi Ciotti nella prefazione del libro “Direttò,io andrò in Paradiso” – storie dal carcere minorile di

Nisida

VOGLIAMO VEDEREIN DUE PAROLE

S

oi, volontari dellaAssociazione peniten-ziaria “Oltre il muro”,festeggiamo con gioiai 5 anni di vita del

giornale “Sosta Forzata”; e lanostra gioia è ancora più grandeperché, insieme a questo anniversa-rio, abbiamo la soddisfazione difesteggiare anche i nostri primi 2anni come editori del giornale. Il 22novembre 2006, infatti, è per noiuna data importante perché ha uffi-cializzato il nostro ingresso in“Sosta Forzata”. Ne siamo conten-ti, ed anche orgogliosi. Sì, orgoglio-si. Perché così possiamo essere,magari non visivamente, macomunque attivamente presentinella realizzazione di un giornaleche può dare voce a chi ha pochepossibilità di far sentire la propria

voce. E siamo orgogliosi ancheperché questa voce si alza e sidiffonde pacata, senza strilli esenza lamenti, ma con dignità eschiettezza.

Bravi ragazzi della redazione!Brava Carla! E brava anche laDirezione della Casa Circondarialeper la sua disponibilità!

Camminiamo ancora insiemecosì. Abbiamo davanti a noi ancoratante cose da fare, ma la voglia diandare avanti è grande.

Buon anniversario a tutti noi.Valeria Vigano Parietti

I cinque anni di Sosta Forzata, perme, sono comunque cinque anni digalera. Di cancelli aperti e chiusi, dipersone incontrate dentro e poi qual-che volta fuori; di tanti riaccompa-gnati dentro la sera.

Ho iniziato ad occuparmi delle per-sone in carcere quando il carcere eraancora nel centro della città, quando cisi passava davanti il sabato pomerig-gio, andando in centro. Già allora conaltri operatori si discuteva del proget-to di un giornale fatto dai detenuti.

Alcuni esempi già esistevano, maerano prodotti pessimi, illeggibili. Avolte venivano pubblicate delle poe-sie veramente brutte e patetiche.

Sosta Forzata fin dall’inizio è statoun giornale molto esigente, non unbollettino, non una raccolta di pensie-rini. Ogni volta che sono andato a tro-vare Carla e le sue redazioni ho soste-nuto degli incontri di lavoro, delleriunioni operative in cui non era per-messo barare o ripetere cose già dette.Per questo devo assolutamente mante-nere le promesse fatte: dobbiamo nonguardare, ma esaminare e commenta-

re insieme il filmGomorra, devo riac-compagnare alcunitestimoni esterni chealla fine di un incontroha fatto presente cheavevano intenzione diritornare, di non inter-rompere la comunica-zione che si era instau-rata; devo trovare iltempo anche se a voltecredo di averne poco,mentre i giornalisti diSosta Forzata, puravendone tanto, nonvogliono assolutamen-te sprecarne nemmenouna briciola.

BrunelloBuonocore

8

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE

DI VOLONTARIATO “OLTRE IL MURO”

n. 3 - DICEMBRE 2008Sped. in abb. post. 5% - art. 2

comma 20/b legge 662/96 - Filiale diPiacenza Aut. Trib. di Piacenza numero

636 in data 22/11/2006.Direttore ResponsabileCARLA CHIAPPINI

Direzione:Via Capra, 14

29100 Piacenzatel. 0523.306120

e-mail: [email protected]

LA REDAZIONE: Carla, Daniele, Luigi, Nest, Pino,Alan, Nando, Vladan, Samir, Eduart,Roberto, Arion e Ivana

Sosta Forzata

AANNNNII

iovedì 4 dicembre in redazione abbiamo festeggiato il compleanno del nostro giornale con alcuniospiti molto significativi: il direttore dell’istituto Caterina Zurlo, Don Davide Maloberti direttorede “Il Nuovo Giornale” con cui esce “Sosta Forzata” fin dal suo primo numero, BrunelloBuonocore che ha voluto e promosso, insieme al Comune di Piacenza e all’associazione “LaRicerca” questa attività e Valeria Vigano Parietti che, in qualità di presidente di “Oltre il Muro” èeditore del giornale.

È stata una buona occasione per dialogare con serenità anche su temi non proprio facili come l’incredibilesovraffollamento del carcere piacentino con le relative difficoltà e implicazioni pesanti per tutti ma per i dete-nuti un po’ di più, il senso di lontananza dalla città e dalla Chiesa locale, il bisogno di una maggiore presenzadel volontariato.

La dottoressa Zurlo non hanascosto la sua forte preoccupa-zione di fronte all’impossibilitàdi rifiutare i nuovi ingressi,quando siano di competenzaterritoriale dell’istituto piacenti-no.

La foto è stata scattata nel-l’ufficio del direttore. Da sini-stra: Don Davide Maloberti,Carla Chiappini, ValeriaViganò, Caterina Zurlo eBrunello Buonocore

CCIINNQQUUEESostaForzata

ospiti in redazione

UN GIORNALE CHE ARRIVA AL CUORE DEI LETTORI PIÙ DISTRATTIIl “mio” giornale dal carcere è Ristretti Orizzonti, nato e cresciuto in una Casa di reclusione, con redattori-detenuti

con pene definitive e mediamente lunghe. Perché è indiscutibile che fare un giornale con persone che non hanno nes-suna esperienza di giornalismo non è semplice, ma se si riesce a creare un gruppo stabile, che discuta, legga, studi,“investa” sul suo futuro anche puntando a una crescita culturale, allora “è fatta”.

Tutto questo non può succedere in una Casa Circondariale, dove le persone sono in attesa di giudizio o hanno penebrevi, e allora “Sosta Forzata” rappresenta un piccolo miracolo, il meglio che si possa fare in una situazione così incer-ta e in perenne movimento: un giornale che sceglie con intelligenza i temi da trattare, che aiuta le persone a crescere ead “attrezzarsi” per tornare in libertà o per affrontare carcerazioni più lunghe, ma soprattutto un giornale che porta testi-monianze significative che possono arrivare anche al cuore dei lettori più distratti e che nulla sanno di galera.

Buon compleanno quindi a quello che consideriamo “un figlio” che ci dà grandi soddisfazioni fra quanti si occu-pano di informazione dal carcere e sul carcere.

La redazione di Ristretti Orizzonti

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