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3 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino Maggio/giugno 2007 – Anno VIII C’è qualcuno che voglia riflettere sui recenti risultati elettorali nel Mez- zogiorno senza nascondersi dietro il facile slogan: “il centro sinistra regge al Sud e flette al Nord”? Io ci provo. Perchè, francamente, le tesi consolatorie sulla situazione politica del Mezzogiorno ci hanno stancato. Eludono i problemi. Non portano da nessuna parte. Tutti i dati e i commenti, di ogni par - te politica, riconoscono che nelle regioni del Mezzogiorno le cose continuano ad andare male: reddito pro capite, prodotto interno lordo, occupazione, sviluppo, sicurezza, legalità, qualità della vita. Il divario Nord Sud permane e anzi si aggrava. Insomma, la realtà non cambia. Ma il centro sinistra regge, qui più che altrove, anche se in modo non uniforme, nonostante il risultato dei ballottaggi che ridimensiona affrettati e facili ottimismi, dimostrando che nel secondo turno, quando il voto non è trattenuto dal fitto reticolo delle liste e della candidature, il vincolo delle coalizioni non regge. La circostanza, tuttavia, che il centro sinistra sostanzial- mente regga non può che farci piacere, ovviamente. Ma va spiegata. Gli elettori apprezzano gli sforzi e alcune prime realizzazioni del governo? Sarebbe possibile, perchè no?: se però l’opinione pubblica del Paese e del Mezzogiorno fosse sostenuta da una straordinaria tensione morale, civile e politica, capace di cogliere i segnali positivi in condizioni di disagio anche grave, e scommetterci sopra. Ma oggi questa tensione non c’è, semmai c’è scoramento e sfiducia nel cambiamen- to, nella politica, nelle istituzioni. A Roma come nelle grandi e piccole città. Eppure il centro sinistra regge. Perchè? Forse perchè il rapporto tra elettori e amministrazioni locali – Comuni, Province, Regioni – è più forte nel Mez- zogiorno che altrove? Difficile crederlo, col dramma dei rifiuti in Campania, della criminalità organizzata, dei Con- sigli comunali – 131 nel Mezzogior- no – sciolti per infiltrazioni di mafia e ca- morra. O forse perchè, con questo centro destra, non c’è partita: la prospettiva dell’alternanza non ha alcuna credibilità nell’opinione pubblica? Forse. O forse la spiegazione del fatto che “è saltato il nesso tra qualità del governo e quantità del consen- so – come scrive Marco Demarco nel recente volume L’altra metà della storia – e il favore crescente dei votanti può costituire un premio non per una buona amministrazione ma, al contrario, per una gestione estranea all’interesse generale” – va cercata altrove. Ma si tratta di un ‘luogo’ talmente aspro e doloroso per il comune sentire di sinistra, che si fa fatica persino ad accennarlo, sia pure come mera ipotesi di ricerca. Mi riferisco alla possibilità che il successo, o la ‘tenuta’, del centro sinistra sia non la negazione, ma l’altra faccia della stessa medaglia del degrado meridionale. Non un voto di fiducia nel cambiamento ma di accet- tazione dello status quo, della convivenza col governo locale e centrale comunque esso sia, al quale chiedere assistenza e accesso privilegiato ai meccanismi dell’inter- vento pubblico nelle sue molteplici, ramificate forme: economiche, sociali, finanziarie, politiche. Più di una volta, in momenti di forte contrasto politico, mi è capitato di sentir dire… segue a pag. 3 Le rimozioni non aiutano Andrea Geremicca UN VOTO DA CAPIRE Nel prossimo numero intervengono D’Antonio, Giustino, Musi, Tessitore INFO CAMORRA Intervista a Franco Roberti Elena Leonetti 5 MONDO Una Unione mediterranea? Gianni Pittella 9 Città d’Europa Maria Baroni 11 Le nuove sfide europee Caterina Nicolais 14 Il Trattato costituzionale Barbara Guastaferro 33 Europa, democrazia, libertà Eliana Capretti 38 Euronote Andrea Pierucci 42 MODERNIZZARE IL PAESE RIFORMARE LE ISTITUZIONI E LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Atti del Convegno promosso dalle Fondazioni “Mezzogiorno Europa” e “NENS” e dall’“Unione degli Industriali di Napoli Napoli 10 maggio 2007 A cura di Cetti Capuano a pag 19

Numero 3/2007

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Page 1: Numero 3/2007

3Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

Mag

gio/g

iugno

200

7 –

Anno

VIII

C’è qualcuno che voglia r i f le t tere sui recenti risultati elettorali nel Mez-zogiorno senza nascondersi dietro il facile slogan: “il centro sinistra regge

al Sud e flette al Nord”? Io ci provo. Perchè, francamente, le tesi consolatorie sulla situazione politica del Mezzogiorno ci hanno stancato. Eludono i problemi. Non portano da nessuna parte.

Tutti i dati e i commenti, di ogni par-te politica, riconoscono che nelle regioni del Mezzogiorno le cose continuano ad andare male: reddito pro capite, prodotto interno lordo, occupazione, sviluppo, sicurezza, legalità, qualità della vita. Il divario Nord Sud permane e anzi si aggrava. Insomma, la realtà non cambia. Ma il centro sinistra regge, qui più che altrove, anche se in modo non uniforme, nonostante il risultato dei ballottaggi che ridimensiona affrettati e facili ottimismi, dimostrando che nel secondo turno, quando il voto non è trattenuto dal fitto reticolo delle liste e della candidature, il vincolo delle coalizioni non regge. La circostanza, tuttavia, che il centro sinistra sostanzial-mente regga non può che farci piacere, ovviamente. Ma va spiegata. Gli elettori apprezzano gli sforzi e alcune prime realizzazioni del governo? Sarebbe possibile, perchè no?: se però l’opinione pubblica del Paese e del Mezzogiorno fosse sostenuta da una straordinaria tensione morale, civile e politica, capace di cogliere i segnali positivi in condizioni di disagio anche

grave, e scommetterci sopra. Ma oggi questa tensione non c’è, semmai c’è scoramento e sfiducia nel cambiamen-to, nella politica, nelle istituzioni. A Roma come nelle grandi e piccole città. Eppure il centro sinistra regge. Perchè? Forse perchè il rapporto tra elettori e amministrazioni locali – Comuni, Province, Regioni – è più forte nel Mez-zogiorno che altrove? Difficile crederlo, col dramma dei rifiuti in Campania, della criminalità organizzata, dei Con-sigli comunali – 131 nel Mezzogior-

no – sciolti per infiltrazioni di mafia e ca-morra. O forse perchè, con questo centro destra, non c’è partita: la prospettiva dell’alternanza non ha alcuna credibilità nell’opinione pubblica?

Forse. O forse la spiegazione del fatto che “è saltato il nesso tra qualità del governo e quantità del consen-so – come scrive Marco Demarco nel recente volume L’altra metà della storia – e il favore crescente dei votanti può costituire un premio non per una buona amministrazione ma, al contrario, per una gestione estranea all’interesse generale” – va cercata altrove.

Ma si tratta di un ‘luogo’ talmente aspro e doloroso per il comune

sentire di sinistra, che si fa fatica persino ad accennarlo, sia pure come mera ipotesi di ricerca. Mi riferisco alla possibilità che il successo, o la ‘tenuta’, del centro sinistra sia non la negazione, ma l’altra faccia della stessa medaglia del degrado meridionale. Non un voto di fiducia nel

cambiamento ma di accet-tazione dello status quo, della

convivenza col governo locale e centrale comunque esso sia, al

quale chiedere assistenza e accesso privilegiato ai meccanismi dell’inter-vento pubblico nelle sue molteplici, ramificate forme: economiche, sociali, finanziarie, politiche. Più di una volta, in momenti di forte contrasto politico, mi è capitato di sentir dire… segue a pag. 3

Le rimozioni non aiutano

Andrea Geremicca

UN VOTO DA CAPIRE

Nel prossimo numero intervengonoD’Antonio, Giustino, Musi, Tessitore

INFO

camOrra

Intervista a Franco RobertiElena Leonetti 5

mONDO

Una Unione mediterranea?Gianni Pittella 9Città d’EuropaMaria Baroni 11Le nuove sfide europeeCaterina Nicolais 14Il Trattato costituzionaleBarbara Guastaferro 33Europa, democrazia, libertàEliana Capretti 38

Euronote Andrea Pierucci 42

Modernizzare il paeseriforMare le istituzioni

e la pubblica aMMinistrazione

Atti del Convegno promosso dalle Fondazioni

“Mezzogiorno Europa” e “NENS” e dall’“Unione degli Industriali

di NapoliNapoli 10 maggio 2007

A cura di Cetti Capuano

a pag 19

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investiamo su di te

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�VOTO

segue da pag. 1

… da qualche amministratore che sono gli elettori, in

definitiva, a stabilire da che parte stia la ragione, a legittimare il potere. Attenzione. Diceva-no così anche i vari Gava e Pomicino (“il popolo ci vuole!”), nel ’92 ancora stravotati a Napoli e in Campania e arroccati nella loro presunzione di impunità, quando già in Italia la DC collassava sotto Mani pulite. Poi si sa come sono andate a finire le cose anche da noi.

Provo disagio e sofferenza a scrivere queste cose. Perchè so di ferire tantissimi elettori del centro sinistra che non si riconoscono in questa descrizione dello stato dei loro partiti e delle loro amministrazioni. Li comprendo e li apprezzo. Perchè il loro è un voto libero, un atto di auto-nomia, di iniziativa politica attiva in difesa dei propri diritti e a tutela delle proprie speranze. Li comprendo e li sento vicini. Ma ha un limite di fondo, questo voto: è poco esigente. Le cose non vanno?, dopo dieci anni il proble-ma dei rifiuti è al punto di partenza?, in città non c’è sicurezza?, la qualità della vita è francamente insopporta-bile? Verissimo: ma la responsabilità è sempre degli altri, degli avversari, del passato che non passa, degli eventi contrari, di fattori esterni. I nostri partiti, i nostri governi vorrebbero e saprebbero fare, ma non possono, e non per colpa loro. Conosco questi sentimenti. Sono presenti nella storia della sinistra. Ma la maggioranza è condizionata purtroppo da altri fattori, che nel secolo scorso fecero la fortuna di altri partiti e che oggi gio-cano a nostro vantaggio. Ci riferiamo al dramma prevalentemente meridio-nale di consensi e voti condizionati da un disperato bisogno di sicurezza e protezione, che sfuma il confine tra diritti e favori. E trasforma le pra-tiche di governo in discrezionalità, insindacabilità e arbitrio. E soffoca lo sdegno, perchè anche lo sdegno, di questi tempi, è diventato un lusso che pochi si possono permettere.

Giuseppe Galasso, in un edito-riale sul Corriere del Mezzogiorno, critico ma come sempre assai equi-librato, si pone, come noi, una serie

di interrogativi sul voto nelle nostre regioni, e osserva che “altre volte

la Campania, Napoli, il Sud ten-nero comportamenti elettorali vischiosi, allineandosi molto lentamente alle tendenze na-zionali. Da questa vischiosità e lentezza è sempre risultato un ritardo non giovevole al Sud”. Più ‘schierata’ appare la posizione, espressa sullo

stesso quotidiano da Paolo Macry, il quale sostiene: “Che

il centro-sinistra campano sia una rete di potere, la quale ha finito per monopolizzare il mercato elettorale, disseccando ogni alternativa (culturale prima ancora che politica), non è davvero una novità”. Naturalmente, si possono respingere interpretazioni consolatorie senza necessariamente autoflagellarsi. La realtà è più com-plessa di qualsiasi schema, per quanto rigoroso esso sia. Discutiamo allora senza pregiudizi. Ma discutiamo. Non voltiamo pagina ogni volta che le cose ci appaiono incomprensibili o troppo amare da dire. Le rimozioni non ser-vono, aggravano soltanto i problemi. Che sono già di per se gravi.

Le rimozioni non

AiutAnoAndrea Geremicca

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Napoli

12>15luglio2007

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Cittadini.Politica.Istituzioni

Il formatLa Fondazione Mezzogiorno Eu-ropa bandisce una selezione per titoli volta all’ammissione di 100 parteci-panti ai workshop della Summer School. Le scuole di formazione si rivolgono ad una specifica tipologia di destinatari, interessati a partecipa-re con maggiore consapevolezza alla vita politica: laureati e ricercatori in scienze sociali e umanistiche; policy makers; docenti; quadri di partito e del sindacato.

LocationCentro Congressi Stazione marit-tima - Molo Angioino, Piazza Muni-cipio - Napoli

Le sessioniQuattro giorni di seminari e di discus-sione con personalità della politica, del mondo dell’impresa e delle isti-tuzioni.- sessione di apertura (giovedì po-meriggio), sessione di chiusura (do-menica mattina)- 4 workshop tematici (venerdì e sa-bato 9.30 >12.30; 14.30>17.30)

Temi dei workshopPOLITICA E CULTURA:Come si ricostruisce un rapporto per-duto;

LA CRISI ITALIANA:Sistema elettorale, federalismo, mo-dello istituzionale;

EUROPA E DIRITTIDI CITTADINANZA:Bioetica, garanzie e tutele, coopera-zione, multiculturalismo, libertà di stampa;

NUOVI MODELLIDI PARTECIPAZIONE:Tavola rotonda con le Fondazioni.

IscrizioniIl numero dei partecipanti è limitato ad un massimo di 100.

La quota di iscrizione pari a 300 euro comprende:- iscrizione- materiale workshop- vitto- alloggio in camera singola presso

il Renaissance Naples Hotel Medi-terraneo per le notti di giovedì 12, venerdì 13 e sabato 14 luglio

- eventi di accompagnamento

La quota di iscrizione pari a 200 euro comprende:- iscrizione- materiale workshop- vitto- alloggio in camera doppia presso

per il Renaissance Naples Hotel Mediterraneo per le notti di giovedì 12, venerdì 13 e sabato 14 luglio

- eventi di accompagnamento

La quota di iscrizione pari a 100 euro comprende:- iscrizione- materiale workshop- pranzi e coffee break- cena/simposio di sabato 14 luglio- eventi di accompagnamento

Domanda e scadenza di iscrizione:la scheda di adesione, disponibile online sul sitowww.mezzogiornoeuropa.it(sezione attività – formazione), dovrà essere inviata entro e non oltre il 25 giugno 2007 e dovrà obbligatoria-mente indicare: nome, cognome, data e luogo di nascita, residenza e cittadinanza, titolo di studio, occupazione attuale, indirizzo, numero telefonico, e-mail.Alla domanda andrà allegato un cur-riculum vitae europeo e una lettera motivazionale che qualifichi l’inte-resse del candidato alla frequenza

della “scuola di politica”, più eventua-li esperienze di cittadinanza attiva, presenza pubblica e politica e simili.I candidati non devono aver compiu-to il 40° anno di età alla data di emis-sione del presente avviso.Il comitato tecnico-scientifico sele-zionerà i curricula e comunicherà al richiedente l’ammissione alla scuola d’estate per email e lettera.

Modalità di pagamento: La quota di iscrizione dovrà essere versata dopo la conferma dell’avve-nuta ammissione, entro e non oltre il 4 luglio 2007.

Coordinate per il versamento della quota:C.C.P. n. 34626689 o sul C.C. n. 27/972 ABI 1010 CAB 03477 del Banco di Napoli, Agenzia 77, via S. Lucia 5 - Napoli, intestato al Centro di Iniziativa FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA – ONLUS Causale “ISCRIZIONE ALLA SCUOLA D’ESTATE 2007”.

NOTEl I viaggi per conseguire la scuola sono a carico dei partecipanti.

l Si raccomanda ai partecipanti di portare con sé la ricevuta di versa-mento.

l In caso di annullamenti pervenuti dopo il 4 luglio 2007, le spese d’iscri-zione non saranno rimborsate e sarà addebitata la quota di partecipazio-ne intera.

l Sarà rilasciata fattura al parteci-pante.

l Verrà rilasciato un attestato di fre-quenza.

Sotto l’alto Patronato dellaPresidenza della Repubblica

RegioneCampania

Unione degli Industrialidi Napoli

Università degli Studi di NapoliL’Orientale

grafi

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Napoli

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Cittadini.Politica.Istituzioni

Il formatLa Fondazione Mezzogiorno Eu-ropa bandisce una selezione per titoli volta all’ammissione di 100 parteci-panti ai workshop della Summer School. Le scuole di formazione si rivolgono ad una specifica tipologia di destinatari, interessati a partecipa-re con maggiore consapevolezza alla vita politica: laureati e ricercatori in scienze sociali e umanistiche; policy makers; docenti; quadri di partito e del sindacato.

LocationCentro Congressi Stazione marit-tima - Molo Angioino, Piazza Muni-cipio - Napoli

Le sessioniQuattro giorni di seminari e di discus-sione con personalità della politica, del mondo dell’impresa e delle isti-tuzioni.- sessione di apertura (giovedì po-meriggio), sessione di chiusura (do-menica mattina)- 4 workshop tematici (venerdì e sa-bato 9.30 >12.30; 14.30>17.30)

Temi dei workshopPOLITICA E CULTURA:Come si ricostruisce un rapporto per-duto;

LA CRISI ITALIANA:Sistema elettorale, federalismo, mo-dello istituzionale;

EUROPA E DIRITTIDI CITTADINANZA:Bioetica, garanzie e tutele, coopera-zione, multiculturalismo, libertà di stampa;

NUOVI MODELLIDI PARTECIPAZIONE:Tavola rotonda con le Fondazioni.

IscrizioniIl numero dei partecipanti è limitato ad un massimo di 100.

La quota di iscrizione pari a 300 euro comprende:- iscrizione- materiale workshop- vitto- alloggio in camera singola presso

il Renaissance Naples Hotel Medi-terraneo per le notti di giovedì 12, venerdì 13 e sabato 14 luglio

- eventi di accompagnamento

La quota di iscrizione pari a 200 euro comprende:- iscrizione- materiale workshop- vitto- alloggio in camera doppia presso

per il Renaissance Naples Hotel Mediterraneo per le notti di giovedì 12, venerdì 13 e sabato 14 luglio

- eventi di accompagnamento

La quota di iscrizione pari a 100 euro comprende:- iscrizione- materiale workshop- pranzi e coffee break- cena/simposio di sabato 14 luglio- eventi di accompagnamento

Domanda e scadenza di iscrizione:la scheda di adesione, disponibile online sul sitowww.mezzogiornoeuropa.it(sezione attività – formazione), dovrà essere inviata entro e non oltre il 25 giugno 2007 e dovrà obbligatoria-mente indicare: nome, cognome, data e luogo di nascita, residenza e cittadinanza, titolo di studio, occupazione attuale, indirizzo, numero telefonico, e-mail.Alla domanda andrà allegato un cur-riculum vitae europeo e una lettera motivazionale che qualifichi l’inte-resse del candidato alla frequenza

della “scuola di politica”, più eventua-li esperienze di cittadinanza attiva, presenza pubblica e politica e simili.I candidati non devono aver compiu-to il 40° anno di età alla data di emis-sione del presente avviso.Il comitato tecnico-scientifico sele-zionerà i curricula e comunicherà al richiedente l’ammissione alla scuola d’estate per email e lettera.

Modalità di pagamento: La quota di iscrizione dovrà essere versata dopo la conferma dell’avve-nuta ammissione, entro e non oltre il 4 luglio 2007.

Coordinate per il versamento della quota:C.C.P. n. 34626689 o sul C.C. n. 27/972 ABI 1010 CAB 03477 del Banco di Napoli, Agenzia 77, via S. Lucia 5 - Napoli, intestato al Centro di Iniziativa FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA – ONLUS Causale “ISCRIZIONE ALLA SCUOLA D’ESTATE 2007”.

NOTEl I viaggi per conseguire la scuola sono a carico dei partecipanti.

l Si raccomanda ai partecipanti di portare con sé la ricevuta di versa-mento.

l In caso di annullamenti pervenuti dopo il 4 luglio 2007, le spese d’iscri-zione non saranno rimborsate e sarà addebitata la quota di partecipazio-ne intera.

l Sarà rilasciata fattura al parteci-pante.

l Verrà rilasciato un attestato di fre-quenza.

Sotto l’alto Patronato dellaPresidenza della Repubblica

RegioneCampania

Unione degli Industrialidi Napoli

Università degli Studi di NapoliL’Orientale

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�Parliamo di camorra, delle

camorre, del territorio su cui opera: 40 km2 in tutto tra lito-

rale Domizio (Napoli) e Battipaglia ( Salerno).

Parliamo del numero, oltre 100 clan tra Napoli e Provincia, migliaia di affiliati e decine di migliaia se si entra nella “zona grigia” quella occu-pata da chi la affianca, se ne serve, ne fa parte solo marginalmente.

Parliamo di luoghi comuni come l’equazione più sviluppo più oc-cupazione meno camorra, mentre invece meno camorra è uguale a più sviluppo e più occupazione.

Parliamo del “tavolino” impresa politica camorra, di un connubio perverso che consente alla camorra di proliferare perché porta voti, protegge chi impiega lavoro nero o evade il fi-sco e che in cambio ottiene subappalti dall’impresa, protezione nei processi e libertà di azione dai politici.

Parliamo delle estorsioni, o me-glio della tassa sulla sicurezza che commercianti e imprenditori pagano per essere protetti dal crimine, per sentirsi sicuri. E di uno Stato che destina ancora risorse esigue per il potenziamento del sistema giudizia-rio, di polizia e penitenziario.

Parliamo di uomini che sono impegnati, ogni giorno, in una lotta impari con mezzi sempre insufficien-ti contro un nemico agguerrito, do-tato di ingenti mezzi economici, che garantisce il sostegno ai suoi affiliati e che si alimenta del connubio con elementi della società civile.

Franco Roberti, Capo da oltre un anno della DDA di Napoli, membro negli anni passati della Direzio-ne Nazionale Antimafia, Pubblico Ministero negli anni 80 in indagini rilevanti che portarono allo smantel-lamento dei clan Nuvoletta, Alfieri, Casalesi e Pubblico Ministero poi nei principali processi di camorra, è uno di quegli uomini. Lo incontriamo nel primo pomeriggio di un giorno di aprile all’indomani dell’arresto di una banda che nel porto di Napoli traf-ficava merce contraffatta e alimenti avariati dalla Cina, con il sostegno della criminalità organizzata

Dott Roberti partiamo dal libro di Roberto Saviano: Gomorra. Èat-

tendibile nella sua ricostruzione del sistema camorristico?

R. Lo è, è ben documentato. Ma il libro di Saviano ha un pregio im-portante: aver portato all’attenzione di un pubblico più vasto il fenomeno camorra. Aver svelato il suo vero vol-to, di associazione criminale violenta e illegale.

Come diceva Leonardo Sciascia “la mafia odia i magistrati”, nel senso che la mafia, la camorra vivono del silenzio, della mancanza di memoria. Chiunque riveli la vera natura di queste organizzazioni le danneggia,

aiuta il processo di demolizione del sistema.

Anche se siamo molto lontani dall’aver determinato le condizioni politiche, economiche e sociali per il loro declino.

D. Perchè, quali sono le condi-zioni che dovrebbero avverarsi per determinare il declino delle organiz-zazioni criminali?

R. Le rispondo facendo alcune considerazioni. La camorra è un’as-sociazione di individui che ha come obiettivo l’arricchimento e il potere da perseguire con metodi violenti e illegali.

I pilastri su cui si fonda la nostra

attività di deterrenza del fenomeno camorristico sono tre: la polizia con l’attività investigativa; la magistratura con l’attività di coordinamento delle indagini, di processualizzazione del reato e con la condanna; il sistema penitenziario.

Oggi lo Stato Italiano, a differen-za degli altri Paesi Europei, destina risorse scarse per migliorare il sistema penitenziario e per dare alla magistra-tura gli uomini e i mezzi necessari per far fronte al fenomeno criminale.

Nel corso del recente incontro con il Ministro dell’Interno, Giuliano

Amato, abbiamo sottolineato che non basta inviare a Napoli più poliziotti, è indispensabile contemporaneamente dotare la magistratura di uomini e di mezzi più sofisticati. Il rischio è il collo di bottiglia. Che si proceda a nuovi arre-sti ma che poi non vi sia la possibilità di effettuare in tempi ragionevoli il fermo di polizia (va convalidato nelle 48 ore) e l’avvio della fase processuale. Bisogna invertire la tendenza. Ma ancora non sarebbe sufficiente.

Lo Stato deve investire in giustizia ma la vera piaga di

Napoli è il connubio tra camorra e società civile, tra camorra e impresa che paga perché non può denunziar-la. Il commerciante che evade il fisco, l’impresa che ricorre al lavoro nero si trova in una condizione di illegalità e dunque è omertoso. Nel senso che è interessato a non denunciare perché richiamerebbe l’attenzione delle forze dell’ordine e della magistratura sulla propria attività che, almeno in parte, è illegale. Allo stesso modo il politico che si serve della criminalità organizzata per essere eletto, dovrà poi ricambiare il favore fornendo ap-palti, garantendo impunità. È questo il sistema che – con riferimento al controllo degli appalti in Sicilia e in Campania – è stato definito dai col-laboratori di giustizia “il tavolino”, la cui esistenza è stata giudiziariamente accertata e che descrive in modo chiaro il legame di interesse che esi-ste oggi tra la criminalità organizzata e certi pezzi di società.

D. Dott. Roberti, quale strategia dovrebbe essere messa in campo per spezzare il connubio e per realizzare l’auspicio del Giudice Giovanni Fal-cone ”la mafia come tutti i fenomeni umani ha un inizio ma avrà anche una fine”?

R. Giovanni Falcone ha detto una cosa condivisibile, la domanda

Intervista al Capo della Direzione Distrettuale Antimafia

di Napoli, Franco RobertiClara Leonetti

Il “tavolino” tra camorra,

politica, impresa,

società civile

CAMORRA

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� MONDO

è quando? Il nostro impegno deve es-sere indirizzato verso l’accelerazione del declino. Ma per questo bisogna attuare una seria lotta all’evasione fiscale, al lavoro nero, bisogna al contempo assicurare ai cittadini che pagano le tasse servizi migliori e una maggiore sicurezza dal crimine di qualunque genere. Bisogna che le banche applichino una politica del credito meno onerosa, perché diversamente l’imprenditore (spe-cialmente se in difficioltà econo-mica) può essere spinto a rivolgersi alla camorra, in grado di assicurare finanziamenti a tassi ovviamente competitivi. Il clan Alfieri di Nola è in tal senso un esempio perché ha incentrato la sua attività criminale prevalentemente, se non esclusi-vamente, sull’esercizio abusivo del credito raggiungendo nella sua area di azione una popolarità enorme. Lo Stato deve, cioè, eliminare ogni alibi al proliferare del fenomeno camorri-stico, deve garantire a tutti i livelli il rispetto delle regole, del diritto.

E questo, purtroppo, oggi non avviene o avviene in maniera par-ziale.

D. La sua analisi sottolinea la complessità del fenomeno ma pen-sando alla complessità della condizio-ne meridionale, alla sua storia più o meno recente, sorge un interrogativo. C’è a suo parere una volontà del potere politico di utilizzare, entro certi limiti, la camorra come valvola di sfogo di un Meridione a basso tasso di occupazione?

R. Recentemente un gruppo di filosofi ha parlato di camorra come “dispositivo di governo”. Cosa significa? Vuol dire uso strategico della camorra nei rapporti di forza, per orientarli verso un certo obiet-tivo: per esempio, per tenere sotto controllo l’ordine pubblico o più genericamente per scopi di polizia. Si pensi al Prefetto Liborio Romano che per sedare la rivolta del popolo ai tempi di Garibaldi chiese l’aiuto della camorra. In tempi più recenti, in occasione del sequestro Cirillo, è dimostrato che elementi dello Stato si rivolsero al camorrista Raffaele Cutolo per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Lo stesso contrabban-

do fu tollerato (giustificandolo col fatto che dava da mangiare a tante famiglie di disoccupati) sino a che l’aggressività dei camorristi nei con-fronti delle forze di polizia divenne talmente elevata da non poter essere più accettata.

D. La camorra, affermava , è un’associazione di individui che ha come obiettivo l’arricchimento da perseguire con metodi illegali e violenti. Una volta la principale

fonte di guadagno per la camorra era il contrabbando, poi verso la fine degli anni 70’ il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti è divenuta una delle prime attività. In un anno avete sequestrato a Napoli 1 tonnellata e 165 kg. di cocaina e 6 ton. di hashish che rappresentano meno del 10% della droga circolante in Italia. Come si configura oggi l’organizzazione de-nominata camorra? Quali sono le sue attività e quali sono le azioni che la DDA di Napoli sta portando avanti?

R. È vero, il traffico e lo spaccio di sostanze di stupefacenti sono sicuramente le attività principali dell’organizzazione criminale. Ma l’attività si estende a tutta una serie di azioni illecite: dalle estorsioni al riciclaggio di denaro con l’acquisto di beni mobili e immobili, al traffico di rifiuti. Su altre attività, ritenute non primarie, l’organizzazione esercita il controllo senza impegnarsi diretta-mente. Mi riferisco alla prostituzione,

al traffico di essere umani dai Paesi extra comunitari in cui la camorra consente l’attività e da ciò ne trae degli utili.

L’attività investigativa e di contra-sto che noi portiamo avanti si svolge contestualmente in tutti i diversi settori nel tentativo di non lasciare spazi vuoti. È chiaro che nel caso della lotta al traffico di sostanze stu-pefacenti la nostra azione si sviluppa sul territorio nazionale ed internazio-nale e spesso in collaborazione con

la Procura Nazionale Antimafia, con le strutture investigative dei Paesi dell’Unione Europea e con l’Eurojust (Agenzia per il Coordinamento inve-stigativo tra i Paesi UE), al cui interno siede un rappresentante di ogni Paese con sede all’Aja.

Devo però insistere su alcuni aspetti del traffico di droga perché sono determinanti per la compren-sione del fenomeno.

La camorra o meglio le diverse famiglie camorristiche hanno trovato in questo tipo di attività illecita la svolta, nel senso che il traffico di droga con i suoi ingenti guadagni ha consentito loro il salto da organiz-zazione criminale locale a interna-zionale. Noi distinguiamo all’interno delle varie famiglie dedite a questo tipo di attività due tipologie diverse: i broker della droga e coloro che la commercializzano.

I broker trattano direttamente l’acquisto di intere partite di droga con le organizzazioni criminali dei paesi produttori. E precisamente Sud America per quanto riguarda la cocaina, Paesi asiatici e Balcani per hashish e eroina. Perché oggi la cocaina è così diffusa e costa anche 15-20 euro a dose? Perché i broker hanno, da un certo momento in poi, investito buona parte delle somme ricavate dallo spaccio della droga nell’acquisto di grosse partite di co-caina. Questo ne ha fatto scendere il prezzo e ha consentito ai broker e a coloro che la commercializzano di venderla sul territorio napoletano e nazionale a prezzi più bassi. E il prezzo più basso ha fatto crescere la domanda di cocaina e il cerchio si è chiuso…

D. Dott. Roberti ma questo signi-fica che l’affermazione “la camorra punta a diventare imprenditrice, investendo il denaro sporco in attività lecite” non è corretta.

R. Non lo è completamente. Come sostiene, correttamente, Isaia Sales, non esiste una camorra, ma tante diverse camorre.

La prima distinzione da com-piere è tra camorra di città e di provincia.

La camorra di città fonda la sua attività dal suo esordio, alla fine

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dell’800, su attività di tipo predatorio e parassitario.

La camorra di provincia, invece, ha da sempre svolto una funzione mediatrice legata prevalentemente all’agricoltura e alle attività ad essa connesse. Un’attività di mediazione attiva che, per esempio,ha portato allo scandalo, circa un anno fa, del latte. Noi scoprimmo un intensa attività di intermediazione da parte del clan dei Casalesi, nella provincia di Caserta, tra le case produttrici di latte e i distributori di prodotti ali-mentari. Il clan era riuscito a imporre ai distributori della zona certi tipi di latte, in cambio incassava una tassa dai produttori favoriti.

La camorra, comunque, è un’as-sociazione che ha come obiettivo l’accumulazione economica da perseguire con mezzi illeciti e vio-lenti. L’art. 416 bis del codice penale

definisce l’organizzazione sulla base dell’osservazione fenomenica e non viceversa. Qualunque attività ha a monte un’attività violenta e illegale e comunque l’organizzazione ricicla e reimpiega la maggior parte del denaro guadagnato illecitamente in altre attività illecite.

D. Soffermiamoci sui guadagni e su una considerazione. Una persona che è entrata nell’organizzazione e che percepisce ogni mese diverse mi-gliaia di euro per spacciare o sempli-cemente per fare da vedetta, per non parlare dei guadagni dei livelli più alti dell’organizzazione, perché dovrebbe abbandonare l’attività illegale?

R. L’attività illegale è soggetta a rischi: rischi fisici, la morte violenta da parte del clan avversario, o l’arre-sto ad opera delle forze dell’ordine; è precaria perché l’attività può essere interrotta dall’intervento della polizia a seguito di indagini.

È del tutto evidente che in una realtà in cui le opportunità di lavoro sono scarse la tendenza a delinquere è più forte, soprattutto è alta la possi-bilità di recidiva. Mi spiego, l’art. 27 della Costituzione recita che la pena deve tendere alla riabilitazione del condannato e al suo reinserimento nella società. Il sistema penitenziario italiano non può per le condizioni in cui versa attuare la norma costituzio-nale. È quindi del tutto evidente che una volta uscito dal carcere un delin-quente reitererà il reato primo perché dal carcere, spesso, si esce più aggres-sivi e secondo perché le possibilità di trovare un lavoro sono scarsissime. Con ciò non voglio giustificare chi commette reati, ma sottolineare che per ottenere una diminuzione dei crimini bisogna investire sul sistema penitenziario. Torniamo così ai tre pilastri di cui parlavo all’inizio della nostra conversazione.

D. Il ruolo delle donne. A diffe-renza della mafia la storia antica ma anche quella recente ha portato agli onori della cronaca nera delle donne. Capi clan alla stregua degli uomini. Perché?

R. La camorra, a differenza della mafia, è un’organizzazione familiare. Ogni famiglia ha i suoi affiliati, i suoi collaboratori. La mafia è divisa in co-

sche non legate necessariamente da legami familiari e che sono organiz-zate secondo un sistema gerarchico. Ciò è avvenuto anche perché la mafia affonda le sue radici nella borghesia terriera siciliana, la camorra nel sottoproletariato. Venendo, dunque, meno per la morte o per l’arresto il capo famiglia e essendo, spesso, i figli ancora piccoli, la donna subentra all’uomo alla guida del clan.

D. Dott. Roberti un ultima do-

manda. In una recente audizione alla Commissione d’inchiesta parla-mentare sull’antimafia, il Prefetto di Napoli, Alessandro Pansa ha fatto alcune osservazione che le sintetizzo in due punti: 1) la maggior parte dei beni sequestrati alle famiglie camor-ristiche non arrivano all’atto finale e cioè alla confisca, soprattutto a causa di procedure troppe lunghe. 2) una buona parte dei proventi delle attività illecite sono usati per mantenere l’or-ganizzazione. Cosa ne pensa?

R. È vero. Tanto che di recente il Presidente della Commissione Parlamentare antimafia, Francesco Forgiane, ha proposto di creare un’Agenzia ad hoc per tutta l’atti-vità legata al sequestro e poi alla confisca e alla destinazione a fini di pubblica utilità dei beni immo-bili delle organizzazioni criminali. La trovo una proposta giustissima perché diversamente c’è il rischio concreto, ed è accaduto, che nel-

l’attesa il gruppo criminale a cui è stato sequestrato il bene continui a lucrare sul bene sequestrato. Ri-sulta, infine, che l’organizzazione, oltre a remunerare i propri affiliati e collaboratori, in caso di arresto di uno dei membri sostenga l’intera famiglia dell’arrestato. Questo per due ordini di ragioni:

1) per evitare che l’arrestato passi al clan avversario

2) per evitare che diventi colla-boratore di giustizia.

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MONDO

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MONDO �L a vittoria netta di Nicolas

Sarkozy nelle elezioni presi-denziali francesi induce ad

almeno due importanti riflessioni: il futuro del processo costituzionale dell’Europa e le prospettive della sua collocazione nello scenario interna-zionale. Da entrambi i terreni non sembrano provenire segnali incorag-gianti. Sul Trattato il neo Presidente della Francia ha anticipato la sua sfiducia sul progetto di Costituzione per l’Europa, frutto del lavoro della Convenzione e già ratificato da 18 paesi su 27.

Nel corso della campagna elet-torale, e con ancora maggior enfasi durante il confronto con la candidata socialista Sègoléne Royal, Sarkozy ha affermato che il popolo francese si è già espresso con un referendum che ha respinto il Trattato. Tutto al più, per il neo presidente, si potrebbe pensare di dar vita ad una sorta di “mini trattato” che preveda il raffor-zamento delle funzioni e dell’auto-revolezza politica del Presidente del Consiglio Europeo e la rimozione del diritto di veto – sempre in seno al Consiglio – su materie di particolare interesse per il futuro economico e sociale del Vecchio Continente quali l’energia o l’occupazione.

Però, niente rafforzamento dei poteri del Parlamento, nessuna mo-difica nella politica estera e di sicu-rezza comune, no al ministro degli Esteri europeo, no all’aumento con-siderevole delle aree in cui si possa decidere a maggioranza. Non piace una Costituzione, intesa quale sintesi completa e definitiva di regole, valori, grandi obiettivi storici, vocazioni, riconoscimento di un demos europeo con una sua Carta fondamentale, una sua storia comune, un suo comune sentire.

Si vedrà cosa accadrà nelle pros-sime settimane, quali risultati potrà strappare l’iniziativa della presiden-za Merkel chiamata ad un difficile compito di sintesi entro il Consiglio europeo di metà giugno. Perchè, in verità, la situazione si presenta molto complessa. Certo, molto dipende anche dalla Francia. La Gran Bretagna di Blair (e tra poco di Gordon Brown) mantiene una posizione apertamente

ostile al trattato costituzionale, seb-bene la firma del suo primo ministro appaia in calce al testo della Conven-zione e firmato nella solenne cerimo-nia di Roma; in Olanda la discussione su come ripartire dopo la bocciatura referendaria non è mai realmente iniziata e la Polonia, in compagnia della Repubblica Ceca, con sempre maggiore insistenza prova a introdur-re una revisione dei risultati raggiunti, negli anni, in termini di integrazione e sovranazionalità.

Credo che, nonostante gli sforzi pur lodevoli di Angela Merkel, Prodi e Zapatero, le posizioni di Sarkozy rischino di divenire il manto falsa-mente innovatore dietro il quale si celi l’intenzione di proclamare con-clusa l’esperienza costituente. Serve, invece, come insiste con tenacia e forti argomentazioni il presidente Napolitano, una profonda riforma delle istituzioni e delle procedure de-cisionali, c’ è bisogno di nuove regole di coinvolgimento e partecipazione per i cittadini alle assunzioni delle scelte, urge una politica economica concertata su scala continentale, una politica estera comune, più trasparen-za e l’abolizione il più possibile del di-ritto di veto nel processo decisionale. Non va sottovalutata, ovviamente, la disponibilità manifestata da Sarkozy, di poter decidere a maggioranza in seno al Consiglio su temi strategici quali energia e immigrazione. Sa-rebbe, senz’altro, un passo avanti. Si darebbero, in tal modo, risposte concrete ai cittadi-ni su due dossier di primaria importanza per il nostro futuro e profon-damente trasversali. L economia e

la produzione, la sicurezza sociale e l’assistenza, le questioni ambientali sarebbero finalmente inseriti nel di-battito europeo. Al contempo, supe-rare il meccanismo della presidenza di turno semestrale del Consiglio, offrirebbe la possibilità all’UE di dotarsi di una guida stabile, solida, autorevole, in grado di garantire con-tinuità alle proprie politiche ed alle proprie azioni, in stretto raccordo con il Presidente della Commissione.

Essendo queste proposte già contenute nel Trattato ratificato da 18 stati membri (altri quattro Paesi sarebbero disposti a farlo), non occor-rerebbe ritornare sui procedimenti di ratifica. I Paesi che non hanno ancora ratificato la Costituzione dovrebbero farlo direttamente sul nuovo testo, e Francia e Olanda potrebbero riconvo-care i referendum popolari essendo il nuovo testo cosa ben diversa dalla vecchia Costituzione bocciata circa due anni fa. Si uscirebbe, anche così, da un’astratta e perniciosa disputa giuridica sul “come fare” per rilanciare il processo costituente in Europa, che tra protocolli aggiuntivi, stralci collegati, appendici validi solo per

alcuni paesi e astrusità varie rischia di rendere il rimedio ancora più indecifrabile del male.

Si tratta di correzioni che, detto a scanso di equivoci, non credo rap-presentino in pieno tutto ciò di cui l’Europa abbia oggi bisogno per uscire da un guado che la sta condannando ad una sempre maggiore marginalità sulla scena politica ed economica internazionale. Bisogna verificare nei prossimi giorni se le modifiche da concordare intacchino la sostanza del trattato costituzionale. Se il “danno” fosse minimo, si potrebbe anche dare il via libera. Ma soltanto in presenza di interventi correttivi “sostenibili”. Un nuovo accordo al ribasso sarebbe un tradimento rispetto allo stesso negoziato chiuso nella Convenzione. Non siamo per il “tanto peggio” ma, finalmente, sarebbe l’ora di mettere fine ai compromessi più mortificanti nel nome di un’unità fittizia.

Con la “nuova Francia” occorrerà discutere anche del dossier Turchia, degli eventuali nuovi allargamenti dell’UE all’area balcanica, del rap-porto complesso e tormentato con gli Stati Uniti. Le posizioni andranno dettagliandosi nel corso dei prossimi mesi e, tuttavia, un interrogativo già si pone: Parigi cambierà rotta, accantonando la vecchia politica filo araba chiracchiana a vantaggio di un approccio più attento alle relazioni con Washington e Israele? Il presidente Sarkozy ha evocato la creazione di un’Unione mediterranea. La proposta è affascinante e su questo tema l’Italia e altri Paesi seguiranno. Siamo ancora ai primi passi, è presto per dire quale sarà la fisionomia della presidenza Sarkozy. È sicuro che lo

scenario si presenta quanto mai avvincente.

SARKOZY PROPONEUNA UNIONE

MEDITERRANEA?PARLIAMONE

Gianni Pittella

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L a Carta di Lipsia e l’Agenda territoriale rap-presentano i documenti politici più interessanti apparsi in Europa negli ultimi anni in materia

di politiche urbane e di governo del territorio.

I due documenti non sono certo rivoluzionari, né presentano tesi in grado di determinare un nuovo modo di generare sviluppo economico e sociale. Essi contengono però novità interessanti nel metodo

utilizzato per la loro condivisione e adozione, e per il fatto che aprono prospettive incoraggianti per l’affer-mazione di una politica europea che sappia affrontare le grandi sfide al di là dei suoi limiti istituzionali.

L A C A R T A D I L I P S I AMaria Baroni

I due documenti sono stati adottati ufficialmente il 24 e 25 maggio scorsi a Lipsia

in occasione di un meeting infor-male dei Ministri con delega allo sviluppo urbano e alla gestione territoriale dei 27 Paesi UE, che ha riunito altresì una serie di altri Stati europei non aderenti come Svizzera, Norvegia, ma anche di Paesi in preadesione come la Croazia o la Turchia, dell’area del vicinato come la Russia e la Macedonia. Tutti insieme a parlare delle sfide per la gestione del territorio nell’Europa dei prossimi decenni.

All’inizio di un nuovo periodo di programmazione di Fondi strutturali, la presidenza tedesca ha incalzato la Commissaria eu-ropea responsabile per la politica regionale e gli altri intervenuti in un dibattito su temi critici quali: la competitività del sistema europeo e l’attrattività delle città; la coesione sociale e le aree urbane; i cambiamenti climatici e il consumo energetico; la sfida demografica e i flussi migratori; l’uso del territorio e le infrastrutture; la cooperazione di territori e imprese per lo sviluppo economico.

I testi intorno a cui discutere e le tesi proposte erano state oggetto di altri precedenti incontri aperti a funzionari ministeriali, centri studio, associazioni di ca-

tegorie interessate, e rappresentanti di varie istituzioni interpellati dalla presidenza tedesca un po’ in tutta Europa fin dall’autunno scorso. I due documenti sono stati accompagnati da studi e approfondite analisi sia di tipo economico che demografico, elaborate nel quadro di programmi europei di ricerca, allo scopo di orientare

le policy che l’Europa delinea oggi per le sfide da fronteggiare nei prossimi decenni.

Vediamo quali sono state le principali novità che la Carta di Lipsia e l’Agenda territoriale rappresentano. Innanzitutto la tempistica e la valenza del di-battito.

Un confronto politico sul cuore del problema della politica regionale, cioè lo sviluppo urbano e la gestione del territorio, viene aperto proprio all’avvio dei nuovi programmi che alimentano la programmazione comunitaria del prossimo settennio.

Non si tratta del solito dibat-tito, più tecnico e di informazione che di taglio politico, riguardante la strategia adottata dalla Com-missione europea e il contenuto dei regolamenti che serviran-no a declinare i programmi in azioni concrete, già ampiamente affrontato dalla Commissione europea negli ultimi due anni in varie circostanze. Si tratta di un dibattito puramente politico

questa volta, che ha l’ambizione di pesare – in termini di indicazioni di priorità d’azione, ma anche sul piano dei contenuti e delle modalità di attuazione – sui nuovi programmi regionali dei vari paesi, all’ultimo minuto utile. La Commissione europea è infatti in piena fase di valutazione dei programmi regionali e può ancora

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chiedere correzioni e modifiche, qualora li ritenga lacunosi (nel caso di strategie inadeguate) o incoerenti con gli obiettivi da raggiungere e le sfide in campo. Con il vertice di Lipsia, la presidenza di turno dell’UE ha voluto ridare alla politica l’ultima parola sulla nuova programmazione.

La seconda innovazione riguarda l’aver messo sul tappeto il tema dei ruoli da svolgere.

Sembra il solito tema delle competenze, ma invece è il vero nodo della governance. Il problema non è di dare il potere di decidere a chi ha la titolarità in materia di sviluppo urbano o a chi l’ha in materia di ambiente o di sviluppo economico. Nel mondo della globalizzazione tutti siamo responsabili, non esistono più soggetti attivi e soggetti passivi. I cittadini con-corrono in modo pieno ai traguardi da raggiungere, dal livello di scolarizzazione alla qualità di vita del proprio quartiere, alla competitività delle imprese, allo sviluppo del territorio, alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale, al ricorso a consumi energetici sostenibili, a mezzi di trasporto puliti, a consumi ridotti o al riuso di carta e plastica, ecc. Naturalmente le istituzioni hanno responsabilità istituzionali diverse e debbono esercitarle pienamente e secondo visioni di medio e lungo periodo, nel campo dell’istruzione e della ricerca, come in quello delle infrastrutture materiali e immateriali necessarie allo sviluppo armonioso dei territori, dello sviluppo urbano, ecc.

Alle istituzioni compete infatti l’onere di ammini-strare per progetti strategici, cioè supportati da una strategia che tenga conto non solo dei bisogni dei cittadini di oggi, ma anche delle dinamiche di sviluppo economico e demografico, cioè dei cittadini di domani. E in ambito europeo questo comporta che gli Stati membri assumano consapevolezza delle sfide che la società europea ha davanti a sè sul piano economico, in campo ambientale, e dal punto di vista demografico, e adottino strategie adeguate a quelle sfide. Pertanto la ricetta che prescrive la presidenza tedesca è che tutte le amministrazioni concorrano, a tutti i livelli, locale, regionale, statale e comunitario, e in modo coordinato, ad affrontare le sfide comuni. Sembra una posizione quasi scontata, ma noi sappiamo che tale modo di agire è ancora lontano dall’essere realizzato. Parliamo della governance multilivello incentrata sulla responsabilità piuttosto che scandita per competenza istituzionale. Nell’era della globalizzazione qual è lo spazio che si può dare ai conflitti di competenza?

Per tradurlo nel linguaggio di casa nostra, chi paga i costi – in termini di perdita di competitività del nostro sistema – dei ricorsi delle Regioni alla Corte costituzionale e al Tar in materia di politica urbana e contratti di quartiere ad esempio? Chi paga i costi della scarsa responsabilizzazione delle amministrazioni delle città in progetti di sviluppo urbani nel periodo 2000-2006, in termini di una mancata qualficazione delle capacità progettuali e gestionali, oltre che dei risultati in termini di investimenti privati, di crescita PIL o di attrattività?

Ogni istituzione deve svolgere il proprio ruolo da protagonista nell’era della globalizzazione, pena la marginalizzazione, il ritardo di sviluppo e la perdita di competitività economica e quindi di benessere sociale dei territori che non si cimentano con le nuove sfide, del paese nel suo complesso – qualora non faccia la sua parte – ma anche dell’intero sistema europeo.

La terza innovazione: i contenuti e l’attuazione.A Lipsia il dibattito tra i ministri è stato incentrato

sulla necessità di partire da un’analisi approfondita dei problemi, sull’opportunità di adottare strategie per il medio-lungo periodo, di definire gli obiettivi in grado di farci affrontare le sfide in essere e quelle in arrivo con lungimiranza, e di mettere in atto le azioni di sviluppo conseguenti. E questo attraverso una coralità di attori, di promotori, di protagonisti che sono amministrazioni centrali, regioni, città, imprenditori,

cittadini, istituti finanziari, università, in grado di interagire e reagire, di progettare, di sperimentare, di attuare. Per far questo non è pensabile che le decisioni in termini di attuazione della programmazione siano

considerate come un aspetto puramente tecnico su cui decidono uno o più funzionari regionali. Occorre che le modalità di attuazione siano decise dai policy maker (cioè dai soggetti istituzionali), come un fatto

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politico e attraverso un dibattito politico, tra quelle più opportune e idonee a determinare la qualità e le sinergie più utili.

È una modalità di attuazione dare alle am-

ministrazioni cittadine il ruolo di promotori di una progettazione di sviluppo a tutto campo che potenzi e riorienti le sue politiche settoriali per poter innescare il cambiamento nei settori della mobilità urbana, del

consumo energetico, dello sviluppo imprenditoriale, della rispondenza dei servizi ai bisogni dei cittadini. È un’altra modalità di attuazione – certamente molto meno efficace della prima per produrre sviluppo urbano – decidere, invece, di chiamare in campo le città solo in relazione a progetti settoriali che per sette anni scuoteranno periodicamente un’amministrazione senza farla sentire mai attore indispensabile dello sviluppo e del cambiamento del proprio territorio.

Da quanto esposto si evince che il tema della moda-lità di attuazione non è affatto banale o casuale, ma è un tema politico centrale e bene ha fatto la Commissaria europea a metterne in evidenza la problematicità.

La Commissaria ha sottolineato le incertezze allo stato attuale degli stati membri rispetto alle modalità di attuazione che intendono dare ai progetti che riguardano lo sviluppo urbano e ha denunciato la vaghezza circa le sinergie istituzionali che verranno poste in essere. In sintesi ha sottolinato che i Quadri Strategici Nazionali sono troppo aderenti al principio del rispetto delle competenze in fatto di procedure decisionali, e poco adeguati a dare concretezza al concetto di partenariato. Certo la Commissaria può solo rilevare e sottolineare tali lacune, può incoraggiare gli stati membri, può addirittura sferzarli, ma non ha il mandato istituzionale per esercitare un ruolo sanzionatorio attivo, visto il vincolo del principio di sussidiarietà che regola le relazioni tra Paesi membri e Unione Europea. Ma su questo l’incontro politico di Lipsia ha offerto la forza di un consenso che va oltre il mandato dei trattati europei.

A Lipsia l’UE ha mostrato di saper affrontare temi politici che vanno al di là delle sue strette competenze.

La presidenza tedesca ha voluto esercitare la sua leadership politica in modo pieno e autorevole. La Commissaria era un invitato tra gli altri, insieme ai centri di ricerca europei che elaborano proiezioni di sviluppo economico e demografico, che prospettano scenari dei quali i soggetti politici europei devono tener conto.

La Commissaria era a Lipsia come titolare dello strumento operativo che può sostenere e finanziare lo sviluppo urbano e territoriale, ma che può essere uno strumento tra altri, quali ad esempio la Banca Europei Investimenti. Il dibattito impegnava il livello politico ad un grado elevato: quello dei ministri responsabili dello sviluppo territoriale e urbano, che hanno conve-

nuto sull’opportunità di adottare politiche nazionali, e sull’esigenza di riorientare i loro programmi sostenuti dai Fondi Strutturali alla luce della discussione comune, dei documenti e degli impegni adottati. Dopo il vertice di Lipsia non ci si potrà più nascondere dietro il dito della mancanza di base giuridica dell’UE sulla politica urbana. I rappresentanti degli stati membri hanno convenuto che una politica urbana comunitaria e in ogni paese europeo serve per costruire un’Europa i cui territori siano in grado di sostenere la competitività dell’economia globale. La Commissaria si è spinta fino a dichiarare che sarebbe opportuno che il futuro Trattato europeo possa sancire un maggior ruolo delle città e dei territori, dando luogo così ad un futuro e deciso intervento comunitario in favore delle città.

Il vertice di Lipsia ha impegnato i successivi Paesi che eserciteranno la leadership europea nei prossimi semestri, a partire dal Portogallo, la Slovenia e poi la Francia ad andare aventi nella verifica semestrale della realizzazione degli impegni assunti dai rappresentanti degli Stati membri a Lipsia: ossia investire di più sullo sviluppo urbano – sia in ambito comunitario che a casa propria – con politiche appropriate, strumenti adeguati e coinvolgimento e gestione affidate alle amministrazioni cittadine.

L’approccio pragmatico della Germania a Lipsia ha segnato un importante risultato. Proprio sui temi che riguardano il governo del territorio, l’esecutivo di uno Stato federale come la Germania ha saputo imprimere una spinta decisiva verso una politica europea e dei singoli Paesi in favore delle città. Con un approccio che parte dal coinvolgimento dei singoli Stati – dell’UE ma anche non aderenti all’UE -, che ottiene la con-divisione di una strategia comune basata su scenari dello sviluppo europeo di medio e lungo periodo, per arrivare al coordinamento e alla responsabilizzazione di ogni Stato ad investire sulle città attraverso proprie politiche nazionali, fino a far passare il principio di un monitoraggio periodico degli impegni assunti. A Lipsia è nata davvero una politica urbana europea? Di politica comunitaria urbana a tutti gli effetti non si può ancora parlare, ma certo un grande passo in questa direzione è stato compiuto.

Nessuno potrà più mettere in dubbio che l’Europa ha bisogno di città leaders, capaci di incidere nel cambiamento e nel progresso.Segretario generale di Anci – Fondazione europea delle cittàDall’introduzione al volume “Città più forti per sviluppare l’Europa – Il Vertice di Lipsia: scenari e strumenti verso un nuovo sviluppo urbano”.

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14Nella recente lectio magistralis

del Presidente della Repub-blica Giorgio Napolitano

presentata a Madrid nel gennaio scorso sono state rievocate le radici antiche e le nuove ragioni dell’unità europea. Si è posto l’accento sul fatto che esiste indubbiamente, nonostan-te le difficoltà di definirlo, uno spazio culturale europeo comune: un insie-me di tradizioni, ideali e aspirazioni spesso intrecciate e al tempo stesso in tensione tra loro. Queste tradizioni, questi ideali e queste aspirazioni determinano un contesto europeo condiviso: cittadini e popoli capaci di unità politica e capaci di riconoscersi in un’unica costituzione. Si tratta di un patrimonio culturale che già co-stituisce una solida base di unione. Si fa riferimento poi a Jean Monnet come il principale ideatore e artefice dell’Europa unita del nostro tempo e a Churchill che non esitò a chiamare lo spazio europeo “gli Stati Uniti d’Europa”. In effetti fu proprio lo spettro della minaccia sovietica, l’av-vio della guerra fredda, che fecero da levatrici di una prima aggregazione tra Stati grandi e piccoli dell’Europa occidentale, che confluirono innanzitutto nella gestione concertata degli aiuti ame-ricani alla ricostruzione, cioè delle risorse del piano Marshall. E via via il pro-cesso d’integrazione prese corpo non senza difficoltà, prima dal punto di vista mercantile ed economico e poi propriamente politico-istituzionale. Ma è a partire dagli anni ‘90 che si è aperto un campo di responsabilità e un insieme di opportunità sen-za precedenti per un’Europa che non può rassegnarsi a un rapido deca-dimento del suo peso e del suo pre-stigio sulla scena mondiale ma sap-pia valorizzare i suoi punti di forza e tradurli in azioni

concrete, ricercando in se stessa la massima unità di posizioni e sinergia di sforzi senza mettere in forse la sua storica alleanza con gli Stati Uniti d’America e i suoi legami transatlan-tici, ma dandosi un più netto profilo e acquistando un suo distinto spazio di movimento.

Perché se forti sono le antiche radici dell’unità europea, non meno forti sono le sue nuove motivazioni.

In effetti, l’ampliamento dell’UE consiste nel riunire i popoli dell’Euro-pa in un quadro costituzionale che li incoraggi a collaborare in condizioni di pace e stabilità. Stiamo iniziando un processo volto a riunire popoli e società, paragonabile ad una fusione commerciale, che potrà considerarsi veramente riuscito solo quando farà parte della realtà quotidiana di tutti gli interessati.

L’ampliamento coincide per l’UE con notevoli sfide riguardanti la sua situazione econo-mica, la sua coe-sione interna e il suo ruolo esterno.

È un dato di fatto che l’eco-

nomia mondiale è in difficoltà. In Europa la crescita si è praticamente fermata, perlomeno negli Stati mem-bri attuali, e l’alto tasso di disoccupa-zione non accenna a diminuire. Nella strategia definita a Lisbona, i capi di Stato e di governo dell’UE, riuniti in Portogallo in occasione del Consiglio europeo del marzo 2000, si sono im-pegnati a creare “un’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo entro il 2010”, ma, secondo alcuni esperti, a que-

ste ambiziose dichiarazioni non hanno mai fatto se-guito le rifor-me strutturali ne ce s s a r i e per una cre-scita stabile a lungo ter-

mine e per una risposta dinamica alla globalizza-zione.

La con-venzione sul futuro del-l’Europa sarà

di capitale importanza a tale riguar-do. Abbiamo bisogno di una gover-nanza in grado di conciliare meglio efficienza e legittimità democratica. L’UE deve reinventarsi, ma il contesto attuale non favorisce di certo i grandi ideali ambiziosi, vista l’insicurezza in aumento tra i cittadini dell’Europa e la sempre maggiore apprensione di fronte all’ignoto.

L’UE non ha contribuito a ri-solvere il problema dell’Iraq, che rappresenta attualmente la questio-ne più grave in termini di politica internazionale. I suoi membri sono palesemente e profondamente divisi su questo argomento e, cosa ancora più grave, l’UE non ha minimamente utilizzato i suoi strumenti di politica estera per cercare di trovare una soluzione.

I singoli Stati membri hanno svol-to un ruolo determinante, ma l’Euro-

pa in quanto tale è stata quasi del tutto assente. A livello politico, l’UE deve esprimersi sulle questioni mondiali in modo commisurato al suo peso economico.

L’UE deve ridiven-tare dinamica e compe-titiva dal punto di vista economico, rispondere in modo efficace alle esigenze dei suoi cit-tadini e definire il suo ruolo politico nel mon-

do perché il principale vantaggio che comporta l’ampliamento dell’UE è la possibilità di far regnare pace e stabilità in tutta Europa.

L’ampliamento dell’UE sta riuni-ficando progressivamente il nostro continente, dopo le divisioni che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale, estendendo all’Eu-

LE NUOVE SfIDEDELL’UNIONE EUROPEA

Caterina Nicolais

MONDO

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1�ropa centrale e orientale la pace, la stabilità e la prosperità che carat-terizzano l’Europa occidentale da più di una generazione. Attraverso l’integrazione economica e politica dei suoi membri, l’ex Comunità euro-pea, ora Unione europea, è riuscita a scongiurare qualsiasi tipo di conflitto. L’estensione di questo risultato stori-co al resto dell’Europa sarà fonte di incommensurabili vantaggi.

Negli ultimi dieci anni, la pro-spettiva dell’adesione all’UE ha aiutato i paesi dell’Europa centrale e orientale a consolidare la demo-crazia pluralistica e l’economia di mercato, proseguendo le riforme e la transizione con l’aiuto dell’UE. La maggiore stabilità e prosperità che ne conseguono risultano vantaggiose sia per questi paesi che per i membri attuali.

La fine della guerra fredda ha eliminato le divisioni artificiali del-l’Europa, ridestando però conflitti potenziali tra gruppi e minoranze etnici e nazionali nell’Europa centrale e orientale. Molti di questi problemi sono spariti grazie alla prospettive di adesione all’UE.

Il principio di base dell’amplia-mento è questa visione di un’Europa libera e unita.

Il processo di espansione sta avendo ripercussioni positi-ve su molte delle politiche che interessano i cittadini europei. Per conseguire risultati ottima-li, tuttavia, occorre definire una strategia ben precisa di modo che i vantaggi econo-mici potrebbero aumentare e un mercato più vasto significa una maggiore prosperità per i membri vecchi e nuovi.

Negli ultimi anni, il com-mercio e gli investimenti tra l’UE e i suoi futuri membri sono aumentati a ritmo soste-nuto, con notevoli benefici in termini economici. L’abolizio-ne dei controlli delle merci alle frontiere integrerà pienamente i nuovi membri nel mercato. Risulterà vantaggiosa anche la liberalizzazione della circolazione di servizi, capitali e manodopera. Si tratta di effetti positivi analoghi a quelli che ha com-

portato l’introduzione del mercato unico senza frontiere nel 1993.

Tuttavia gli elementi da migliora-re sono: la parità delle condizioni di concorrenza nel mercato ampliato; l’accesso ad una forza lavoro qualifi-cata; la maggiore domanda derivante dalla crescita nei nuovi membri. Questi ultimi, avranno la possibilità di raggiungere il livello di prosperità dell’Europa Occidentale grazie ai seguenti fattori: gli investimenti che si aggiungeranno all’afflusso di capitali degli ultimi anni, migliorando ulte-riormente la produttività, le compe-tenze e i trasferimenti di tecnologia; il contesto legislativo ed economico stabile garantito dall’adesione all’UE; il sostegno erogato tramite i fondi dell’UE.

I tassi di crescita dei nuovi mem-bri sono superiori a quelli dell’UE. Se questa tendenza si mantiene, ne conseguiranno: una riduzione del divario sociale ed economico; un aumento del reddito e degli stan-dard sociali; una diminuzione degli incentivi all’emigrazione verso altri paesi dell’UE.

È evidente che l’ampliamento non costituisce una minaccia, ma un fattore di rinnovamento. Con

l’integrazione dei nuovi membri, l’UE avrà anche la possibilità di riformare le sue politiche economiche e sociali. L’ampliamento e i cambiamenti che ne conseguono possono procurare

vantaggi a lungo termine, ma com-porteranno anche determinati oneri, soprattutto per certe categorie. Si im-pone quindi una gestione efficiente del processo.

Le politiche europee e nazionali devono considerare prioritarie la cre-scita e la convergenza economica, il che significa un alto tasso di crescita globale per l’UE e forse tassi ancora più elevati per i nuovi membri. Cre-scita e convergenza devono essere i principi alla base dell’UE ampliata. Bisogna promuovere l’innovazione e le riforme per favorire la crescita, la competitività e la creazione di posti di lavoro nel mercato ampliato. Nella strategia di Lisbona si invitano l’UE e i suoi membri a passare all’azione privilegiando la creazione di posti di lavoro, gli investimenti per la ricerca e la liberalizzazione dell’energia, del-le telecomunicazioni e dei trasporti per migliorare il funzionamento del mercato comune. Le politiche occu-pazionali degli Stati membri attuali e futuri devono e possono contribuire all’efficienza della politica socioeco-nomica, e pertanto al successo del-l’ampliamento. Anche la migrazione della manodopera consentita dalla libera circolazione delle persone nel

mercato comune è da considerare un fattore di crescita.

Il processo di ampliamento sta già dando risultati positivi, con l’affermarsi di democrazie stabili, la

creazione di istituzioni democratiche e un maggior rispetto delle mino-ranze negli Stati membri dell’Europa centrale e orientale, dove le riforme economiche hanno accelerato la crescita (con tassi superiori a quelli dell’UE) e migliorato le prospettive occupazionali. Il processo è stato agevolato dalla prospettiva di ade-sione all’UE nonché dall’assistenza finanziaria dell’UE e delle altre istituzioni internazionali.

La necessità di soddisfare i cri-teri di adesione all’UE ha accelerato il ritmo delle riforme e le ha rese irreversibili, aumentando la stabilità e la prosperità.

Il nuovo ampliamento è stato paragonato all’accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA) concluso negli anni ‘90 tra Stati Uniti, Canada e Messico, poiché il reddito messicano era ed è tuttora di gran lunga inferiore a quello degli altri due paesi. Va sottolineato tuttavia che il NAFTA si è limitato a creare una zona di libero scambio, mentre l’adesione all’UE comporta un’unione doganale disciplinata da una vasta normativa comune, una moneta unica, la libera circolazione e l’integrazione politi-co/legislativa.

Per le loro modeste dimensioni, infatti, Cipro e Malta non incidono in misura rilevante sull’analisi economica globale, essendo caratterizzati da un’estensio-ne molto più ridotta e da un prodotto interno lordo netta-mente più modesto (rispetti-vamente 10 e 4 miliardi di euro). Oltretutto, questi due paesi non avevano un’econo-mia pianificata. Per quanto riguarda gli Stati membri già consolidati, l’impatto eco-nomico dell’ampliamento è stato maggiore nei paesi che, come la Germania e l’Austria, hanno una frontiera comune con i nuovi membri.

Il passaggio dell’UE a 25 Stati membri aggiunge 75 milioni di consumatori al mercato unico, intensificando gli scambi di beni e di servizi, le economie di scala, la concorrenza e i flussi di investimenti,

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1�e promuovendo quindi la crescita economica. A tale riguardo, l’am-pliamento presenta un’analogia con il completamento del mercato unico realizzato dall’UE negli anni ‘90.

Nei nuovi Stati membri, inoltre, i tassi di crescita potrebbero rag-giungere livelli relativamente elevati se si considerano le possibilità di allineamento, associate a un basso reddito pro capite di partenza.

Le prospettive di crescita per il futuro dipendono in larga misura da tre fattori: commercio, investimenti e emigrazione.

Considerata la notevole libe-ralizzazione del commercio con l’UE a cui si è arrivati negli anni ‘90, l’adesione comporta semplicemente il passaggio da una zona di libero scambio a un’unione doganale. In un primo momento, quindi, ci si aspetta un impatto sugli scambi di beni con i nuovi membri abbastanza limitato, ma i vantaggi si faranno sentire a medio-lungo termine con un aumen-to significativo degli investimenti e un’ulteriore specializzazione della produzione.

Il commercio, tuttavia, deve ancora essere totalmente liberaliz-zato in determinati settori, tra cui quello automobilistico, e gli scambi di servizi sono tuttora limitati, anche in ambito finanziario.

A detta degli specialisti, l’am-pliamento potrebbe intensificare gli scambi proprio tra i nuovi membri, segnatamente in Europa centrale e orientale.

Visto che il commercio è già stato liberalizzato in larga misura, e che dopo l’ampliamento la mobilità della manodopera potrebbe essere limitata per qualche anno, anche gli investimenti saranno fondamentali per la crescita economica dei nuovi Stati membri.

La prospettiva dell’adesione all’UE ha già fatto aumentare il flusso di investimenti esteri diretti (IED) nei paesi in questione, e non è facile prevedere se questa tendenza si accentuerà in futuro. A volte le nuove adesioni hanno provocato un’impennata degli IED, segnatamen-te nel caso di Portogallo e Spagna, ma non è detto che ciò si verifichi

anche questa volta, perché l’aumento degli IED è subordinato alla validità delle politiche di adeguamento e a un buon governo a livello nazionale. Gli esperti commerciali sostengono che molte imprese hanno preparato nuovi progetti da realizzare dopo l’ampliamento, il che fa presupporre un forte aumento degli investimenti. Dopo l’adesione, quindi, la dinamica “crescita-investimenti” potrebbe accelerare la crescita economica nei nuovi Stati membri. Gli ampliamenti precedenti dimostrano tuttavia che questo fenomeno non è automatico, ma dipende dall’adozione di valide politiche favorevoli alla crescita da parte dei nuovi Stati membri e del-l’UE considerata globalmente.

Anche nell’ipotesi più positiva, ci vorranno decenni per arrivare alla convergenza economica tra nuovi Stati membri e membri già consolidati nell’UE. Non è detto che i costi siano contemporanei ai bene-fici; l’onere legato all’aumento della concorrenza e all’adeguamento, ad

esempio, potrebbe farsi sentire già nei primi anni dopo l’adesione. Se si attueranno politiche appropriate, co-munque, i vantaggi a lungo termine potrebbero essere più che rilevanti.

Fra i principali effetti positivi dell’ampliamento potrebbe figurare l’emigrazione dei lavoratori, tradi-zionalmente fonte di vantaggi econo-mici per il paese di accoglienza. La maggior parte dei cittadini dei futuri Stati membri viaggia già liberamente nell’UE. Il notevole divario in termini di reddito preoccupa la pubblica opinione, che teme un afflusso mas-siccio di lavoratori dai nuovi Stati membri a seguito dell’ampliamento. È poco probabile, tuttavia, che ciò si verifichi.

Le precedenti adesioni di paesi a basso reddito sono fonte di utili insegnamenti in proposito. Dopo l’adesione della Spagna e del Porto-gallo, i flussi di emigrazione netti da questi paesi sono stati praticamente inesistenti nella seconda metà degli anni ‘80, una tendenza rimasta più o

meno invariata anche dopo l’aboli-zione delle restrizioni all’emigrazione imposte per un periodo transitorio di sette anni, che oltretutto è coincisa con la recessione dei primi anni ‘90.

Per il prossimo ampliamento si è concordato un regime transitorio analogo: gli Stati membri attuali potranno limitare l’afflusso di mano-dopera dell’Europa centrale e orien-tale per un periodo non superiore a sette anni. Tre Stati membri attuali hanno dichiarato che non intendono limitare l’ingresso dei lavoratori dei nuovi Stati membri dopo l’amplia-mento. Questa decisione procurerà loro vantaggi economici, poiché gli immigrati occupano in genere posti di lavoro qualificati o non qualificati che altrimenti rimarrebbero vacanti. Anche gli altri Stati membri dovreb-bero consentire appena possibile la libera circolazione della manodopera dall’Europa centrale e orientale, senza aspettare che scada il periodo transitorio.

Riguardo le relazioni economi-che internazionali, una popolazione di 375 milioni di abitanti e un PIL superiore a 8.000 miliardi di euro conferiscono all’UE un ruolo di primo piano a livello internazionale. Oltre a rappresentare un quinto del commercio mondiale, l’UE è il primo esportatore di beni e di servizi del pianeta e una delle principali fonti di investimenti esteri diretti, nonché il primo mercato di esportazione per oltre 130 paesi di tutto il mondo. Essa possiede inoltre il più vasto mercato integrato dell’economia globale e la seconda riserva monetaria del mon-do. Dato che le relazioni commerciali sono di competenza dell’UE, la Com-missione rappresenta gli Stati membri nei negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio sulla mag-gior parte delle questioni commercia-li nonché nei negoziati commerciali interregionali e bilaterali.

La politica commerciale dell’UE intende contribuire allo sviluppo armonioso del commercio mondiale, abolire progressivamente le restrizio-ni e ridurre le barriere doganali. L’UE apre il suo mercato alla maggior parte del commercio internazionale, a par-

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1�te alcuni settori tra cui l’agricoltura, come del resto fanno anche gli altri. L’UE ha inoltre creato una rete di re-lazioni commerciali istituzionalizzate a livello multilaterale, interregionale e bilaterale con quasi tutti i paesi del mondo.

La politica dell’UE in materia di sviluppo è imperniata sugli accordi commerciali e di assistenza e sugli accordi di cooperazione economica e di partenariato tra l’UE e settantu-no paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico. L’UE ha inoltre contribuito in misura considerevole al sostegno internazionale allo sviluppo sotto forma di aiuti alimentari, assistenza tecnica e assegnazioni finanziarie.

L’ampliamento porterà la popola-zione dell’UE a 450 milioni di abitanti e ne aumenterà il peso economico in termini di PIL e di scambi com-merciali, facendone il primo blocco economico del mondo, con il più vasto mercato unico, e permetten-dole quindi di superare gli Stati Uniti. Ciò dovrebbe conferire maggior peso all’UE nei nego-ziati economici di qualsiasi tipo (trat-tative commerciali, riforme monetarie e fi-nanziarie internazionali, vertici G8 e que-stioni economi-che regionali). La rapida tran-sizione dei fu-turi Stati membri verso l’economia di mercato e la loro esperienza in materia di integra-zione economica internazionale sa-ranno inoltre un aiuto prezioso nei contatti tra l’UE e i paesi in via di sviluppo.

Per quanto concerne la rifor-ma istituzionale dell’UE, questa si giustifica a p r e s c in d e r e dall’ampliamen-to, vista la neces-

sità di istituire una governanza più vicina ai cittadini. L’opinione pub-blica, infatti, vuole che le istituzioni europee siano più efficienti e aperte allo scrutinio democratico. La riforma istituzionale figura tra le principali questioni sollevate dall’ampliamento. Tale processo è iniziato nel 2001 con il trattato di Nizza. Secondo alcuni, le riforme istituzionali decise in tale occasione si limitavano al minimo indispensabile (una revisione “aritmetica” del numero dei voti e dei seggi nelle istituzioni dell’UE) anziché modificare radicalmente il sistema. In realtà, l’Unione ha invitato i nuovi membri a prepararsi all’ade-sione con il massimo impegno, ma non ha introdotto gli adeguamenti indispensabili per quanto riguarda le sue istituzioni e la sua costituzione. Questa constatazione ha indotto l’UE ad istituire nel 2002 la convenzione sul futuro dell’Europa, un tentativo inedito di rivedere il suo funziona-

mento mediante un processo che vada al di là del tradizionale iter intergovernativo e a cui siano associati rappresentanti dei paesi

candidati all’adesione. Par-tendo da quattro aspetti fondamentali (ruolo dei parlamenti nazionali, semplificazione dei trattati, Carta dei di-ritti fondamentali e separazione delle

competenze tra UE e Stati membri), i lavori

della convenzione si sono poi estesi alla redazione di una nuova costi-tuzione per l’UE al fine di fornir-si di strumenti

idonei per ottenere un potere decisionale più valido e una legittimità democratica più forte, affinché sia più efficiente e più a contatto con le esigenze dei suoi cittadi-

ni. È punto fermo che la pace e la stabilità sono indispensabili alla pro-sperità dell’economia,

e viceversa.

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modernizzare il Paeseriformare le Istituzioni

e la Pubblica amministrazioneStabilità dei Governi, nuova legge elettorale,federalismo solidale, governance multilivello.

Una Pubblica Amministrazione strumento della crescita.Semplificazione, reingegnerizzazione, valutazione, formazione.

Atti del Convegno promosso dalle Fondazioni “Mezzogiorno Europa” e “Nens”e dall’“Unione degli Industriali di Napoli“

Napoli 10 maggio 2007

A cura di Cetti Capuano

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20 Modernizzareil PaeseRiformarele Istituzionie la PubblicaAmministrazione

Andrea GeremiccaPresidente della Fondazione

Mezzogiorno Europa

In considerazione della fase cruciale che oggi sta attraversando il processo di transizione (i momenti della storia di una comunità non sono sempre gli stessi e tutti uguali), la questione della riforma e della modernizzazione dello Stato, delle istituzioni, della pubblica amministrazione si presenta come snodo centrale per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, forse anche prima delle singole pur importanti questioni economiche e sociali.

D’altronde abbiamo tutti l’esperienza, e non a caso la ricordo qui a Napoli, di una questione centrale per la modernizzazione e l’unificazione del paese – mi riferisco alla questione meridionale – sulla quale da sempre abbiamo dovuto condurre una battaglia ideale, politica e culturale per liberarla dall’angustia di una lettura mera-mente economicistica, convinti come siamo che si tratta in primo luogo di una grande questione statuale, politica e istituzionale che chiama in causa il modo in cui ieri si è costruita l’unità nazionale e il modo in cui oggi il paese affronta la competizione europea e globale.

Rimanendo in questo ambito di ragionamento vorrei accennare, solo accennare, ad un paio di questioni che riguardano l’assetto istituzionale, la governance multilivello del paese e del Mezzogiorno in modo particolare.

Mi riferisco da una parte all’esperienza del Comitato delle Regioni meridionali,, che sta dando risultati , credo nuovi e positivi proprio perchè ha resistito alla suggestione di farsi struttura, di darsi un apparato, di porsi come ennesimo livello organico di governo, scegliendo la strada – a mio avviso giusta – del coordinamento politico, della sintesi programmatica, della interlocuzione partecipata e condivisa con le popolazioni meridionali e le autonomie locali da un lato e con il governo nazionale dall’altro.

E mi riferisco ad una nuova forma di governo – quella dell’area metropolitana – che invece non decolla nono-stante che rappresenti un’esigenza reale (la questione urbana, dopo quella contadina e industriale è il cuore della questione meridionale) e vanti una precondizione strutturale assai favorevole: un sistema di mobilità e trasporti a livello metropolitano tra i più innovativi del paese. Dove sono le ragioni di questo stallo? Io penso che stiano nel mancato completamento della riforma amministrativa e delle autonomie locali avviata – positivamente – agli inizi negli anni Novanta con l’elezione diretta dei Sindaci e rimasta in qualche modo sospesa, a metà dal guado, con un duplice effetto negativo, tra i tanti esiti positivi, ovviamente.

Il primo si riferisce ad un confuso affastellamento

di livelli decisionali, ad una miscela paralizzante di municipalismi esasperati insieme ad un ginepraio di enti intermedi, di gestioni speciali, di poteri straordinari, di comitati di consulenza che non hanno nulla a che fare con una corretta filiera istituzionale e un efficace processo di decentramento e sussidiarietà. Si tratta di una vera e propria superfetazione istituzionale nella quale occorre porre ordine, come peraltro si è già cominciato a fare, con normative chiare e univoche.

Perchè anche per questa via si alimenta l’insopporta-bile fenomeno dei cosiddetti costi della politica, il più delle volte arbitrari, illegali, corruttori della vita pubblica.

Il secondo effetto – boomerang è dato dal fatto che la elezione diretta dei sindaci, in sè positiva, non è stata accompagnata da un insieme di norme che garantissero contemporaneamente: a) una guida sicura, diretta, re-sponsabile di fronte agli elettori e ai cittadini; b) una macchina amministrativa riformata ed efficiente; c) una governance chiara e trasparente; d) una classe dirigente preparata e diffusa.

Tutto questo ha prodotto un indebolimento, a dir poco, dell’autonomia dei poteri locali: il fatto che dall’entrata in vigore della Legge nel Mezzogiorno siano stati sciolti 131 Consigli comunali per condizionamenti e infiltrazioni della criminalità organizzata, di cui il 50 per cento il Campania e il 30 per cento nella provincia di Napoli, deve farci riflettere, senza il facile alibi di una legge imperfetta, che va in ogni caso ridefinita e migliorata.

Per questa strada si è giunti al logoramento del-l’esperienza e della figura stessa dei sindaci, costretti a cercare voti e consensi ‘pur che siano’, senza il sostegno e la mediazione di una sistema politico e amministrativo all’altezza dei suoi compiti.

Quello che sta succedendo nel campo della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani è un esempio clamoroso e insopportabile di questa situazione. Con Sindaci che da un lato chiedono l’intervento del governo per la rimozione dei rifiuti accumulati sulle strade delle loro città, e dall’altro capeggiano le paure e la protesta popolare quando si tratta di individuare anche sul loro territorio un sito o un impianto per lo sversamento e la trasformazione dei materiali.

Si dirà che non era il caso di sollevare in questo Convegno un problema del genere. Io invece penso che sarebbe se facessimo finta di nulla, se pensassimo di poter nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Perchè la questione della salute e della tutela ambientale è la madre di tutti i problemi, e in questi giorni, in queste ore, stiamo per superare ogni livello di guardia.

Tutti i siti sono ormai stracolmi. Occorrono enormi risorse finanziarie per un eventuale trasferimento all’estero

delle balle dei rifiuti, e queste risorse non ci sono: è stato raschiato il fondo del barile.

Intanto l’estate incombe, e il rischio di infezioni è reale. Siamo giunti ad un punto in cui ciascuno – a cominciare dagli enti locali – deve assumersi le proprie responsabilità senza delegare ad altri gli adempimenti di propria compe-tenza civile e politica, oltre che amministrativa

Il governo, da parte sua, oltre a quello che sta già facendo, potrebbe spostare fisicamente in città il “tavolo Napoli” – mi riferisco al Tavolo politico, quello con la Pre-sidenza del Consiglio, i Ministri competenti e i vertici della Regione, della Provincia e del Comune – e tenerlo riunito in sede permanente con questo unico punto all’ordine del giorno: l’emergenza rifiuti.

Ho concluso. Mi rendo conto che potevo, e forse dovevo, dare un ‘taglio’ diverso a questo intervento: più equilibrato e politicamente corretto. Porre in rilievo i lumi e le luci di questa grande città europea. Evidenziare le poten-zialità di una realtà contraddittoria ma comunque in forte movimento, ricordare le tante cose positive, realizzate o in corso d’opera: dai nuovi centri di ricerca, ai nuovi insedia-menti produttivi tecnologicamente avanzati, alle industrie multinazionali, non una o due ma alcune diecine, che in queste ultime settimane hanno deciso di scommettere su Napoli, sollecitate dal Capo dello Stato e dal Governo. E i programmi e i piani industriali sono già avviati, come quello della Microsoft, centrato sulla Campania insieme alla Lombardia e al Piemonte.

Ma ho preferito fare una scelta diversa. Perchè se non si sciolgono alcuni nodi che gravano come massicci sul percorso della città verso il suo futuro, la città non avrà futuro.

E perchè anche le tante corse già in essere, per farsi sistema e costruire sviluppo hanno bisogno di una vera e propria riforma morale e cultu-rale oltre che della macchina amministrativa.

Napoli deve recuperare fidu-cia in se stessa e nel suo avvenire, la sua classe dirigente deve andare oltre il proprio particolare, la politica e le istituzioni a tutti i livelli devono cambiare, innovarsi, modernizzarsi, aprirsi all’Europa e al mondo che cambia.

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Direttore della Fondazione NENS Nuova Economia

Come mai la transizione istituzionale nel nostro paese va avanti da tanto tempo, senza che riusciamo a chiuderla? È praticamente dal 1992 che insistiamo sulle regole, senza trovare un punto di approdo ad un processo che invece è così importante per ridare capacità decisionale a questo paese e vitalità alle sue istituzioni.

Per trovare risposta alla questione, non dobbiamo limitarci a discutere delle regole ma dobbiamo andare oltre, ed affrontare un aspetto complementare, che è quello dei soggetti politici, economici e sociali che poi devono praticare le regole. In questi anni si è discusso molto di regole e poco di soggetti, io invece credo che proprio questo aspetto sia decisivo, come emerge anche dalle discussioni che sono in corso proprio in questi giorni a Palazzo Chigi, sui tavoli del welfare, della competitività e della riforma del pubblico impiego, temi che a mio avviso chiamano in causa direttamente le leadership politiche, sindacali, dell’associazionismo d’impresa, della Pubblica Amministrazione e della cultura. In sintesi, a mio avviso il tema delle regole sta dentro al problema fondamentale di ciò che è stata la Costi-tuzione materiale del nostro paese negli ultimi anni. Per provare ad illustrare quali sono a mio avviso i vizi di fondo, vorrei brevemente gettare lo sguardo indietro, per capire come mai siamo invischiati in questo processo che non riusciamo a chiudere. Farò riferimento particolarmente alla finanza pubblica perché essa fornisce indicatori che tracciano un quadro abbastanza chiaro a proposito del tasso di riformismo e della capacità di innovazione di un sistema e delle sue classi dirigenti, ceti politici e forze organizzate.

Alla fine degli anni ’70 il nostro paese aveva un debito pubblico assolutamente allineato con quello degli altri paesi europei, la spesa corrente era in linea con le entrate, e il paese si indebitava essenzialmente per fare investimenti, sebbene in forma approssimativa e a livelli qualitativi discutibili. Poi qualcosa si è rotto, più o meno in coincidenza col fallimento del compromesso storico, e da quel momento il Paese è rimasto quasi paralizzato nella sua capacità di fare riforme. Ciononostante, vi è stata crescita. In Italia sono cresciuti i redditi e i consumi, ed è migliorata la qualità della vita. Questo

è avvenuto attraverso due meccanismi fondamentali, che a mio avviso spiegano i problemi che abbiamo di fronte oggi: il debito pubblico alimentato per finalità elettorali dalla stessa componente politica che da quel momento in poi cominciava a crescere; e l’evasione fiscale. A questi due meccanismi si è aggiunto un altro canale fondamentale, quello cioè delle svalutazioni competitive: il nostro paese accumulava più inflazione degli altri, e a scadenze regolari era costretto a svalutare la propria moneta per recuperare competitività. Questo meccanismo certamente era incardinato sul pentapartito; tuttavia esso aveva nella principale forza di opposizione, ovvero nel PCI, un tassello in qualche modo comple-mentare, ai margini ma partecipante al meccanismo di distribuzione delle risorse.

All’inizio degli anno ’90 questo meccanismo salta. Nel ’92 l’Italia attraversa una grave crisi finanziaria e la lira è costretta ad uscire fuori dallo SME. Il sistema è in ginocchio di fronte ai mercati finanziari. In quel momento la proprietà dell’econo-mia è per due terzi in mano pubblica, direttamente o indirettamente, e nel caso delle banche si arriva addirittura all’80%. Il debito pubblico, in meno di 15 anni, arriva al 120% del PIL, mentre gli altri paesi europei rimangono ai livelli dei primi anni ’80, soprattutto perchè nel frattempo hanno saputo fare le riforme. In quel momen-to, unico paese al mondo, spendevamo il 13% della ricchezza nazionale per pagare interessi: tre volte più di quanto non facessero gli altri paesi europei. Tutte risorse ne-gate alla scuola, alla sanità, alle impre-se, alla riduzione della pressione fiscale. L’aspetto più grave del-la situazione, però, era dato dal fat to che il processo in a t to f i n ì con i l s egna re i n maniera pesante la cultura politica dei soggetti politici, economici e sociali e la formazione delle nuove classi dirigenti, che sono tuttora

protagoniste delle vicende economiche e politiche del paese, e che proprio perché cresciute e selezio-nate in un quadro che non ha conosciuto la capacità di fare le riforme, hanno ora difficoltà a confrontarsi con una fase in cui c’è bisogno di un elevatissimo tasso di riformismo. Usciamo da un periodo in cui la nostra Costituzione materiale è stata costruita su un compromesso al ribasso, in cui ciascuno scambiava con lo Stato e con le Pubbliche Amministrazioni qualcosa, e riceveva in cambio qualcos’altro. E però, alla fine di questo processo si determinava un equilibrio complessivo che non portava molto lontano. Pilastri di questo compromesso al ribasso erano anzitutto i lavoratori dipendenti pubblici e privati, ai quali in cambio di posto fisso e pensioni di anzianità si davano salari bassi, scarsa qualità del lavoro e appiattimento retributivo. Quindi i lavorato-ri autonomi, i liberi professionisti e gli imprenditori. A questi la P.A. forniva servizi di scarsa qualità, carenze infrastrutturali e tutto sommato un sistema pieno di lacune rispetto agli altri partner europei; ma chiedeva in cambio poco, tollerando l’evasione fiscale dei lavoratori autonomi, garantendo ai professionisti un’organizzazione feudale delle loro attività, e assicurando la competitività internazio-

nale delle imprese attraverso svalutazioni della moneta praticate ogni cinque o sei

anni, oppure con il sostegno pubblico alle grandi imprese. Nel 1992 si è

cominciato a scardinare questo meccanismo, e sono stati com-

piuti passi importanti sulla via delle riforme. Va

però rilevato che per una parte degli

anni ’90 siamo stati spinti ed aiutati dal co-siddetto “vin-colo esterno”. Il risanamen-to finanziario del ’92 – ’93, e poi l’aggan-

cio dell’Euro da parte del primo

G ove rn o P r o d i sono s ta t i per i l

nostro Paese passaggi di grande riformismo che

difficilmente sarebbero stati

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22 Modernizzareil PaeseRiformarele Istituzionie la PubblicaAmministrazione

realizzati in assenza di un vincolo esterno stringente come quello rappresentato dalla crisi finanziaria e dalla disciplina richiesta dall’Europa. Nella fase at-tuale invece, nella quale l’ottenuto raggiungimento dell’euro allenta questi vincoli esterni, diventa fondamentale ritrovare una capacità riformista endogena. Questa dunque, la sfida: ribaltare il com-promesso al ribasso e trasformarlo in un patto per la modernizzazione del paese. Come fare? A mio avvi-so occorre anzitutto avere consapevolezza del fatto che un processo di modernizzazione riguarda tutte le categorie di soggetti che abbiamo richiamato prima. Bisogna chiamare a raccolta le energie che sono nel mondo del lavoro, nell’impresa, nelle professioni, nella P.A., nella cultura. Occorre interloquire e far convergere sul processo di modernizzazione quei lavoratori e lavoratrici che vogliono qualità del lavoro, formazione, e che sono disponibili anche alla sensibilità, nel momento in cui ci sono sostegni attivi al reddito per i momenti di disoccupazione; quei lavoratori autonomi che accettano un maggior rigore fiscale, nel momento in cui c’è una P.A. che dà servizi e aiuta l’impresa; quei professionisti che sono disponibili alle liberalizzazioni, a mettere il cit-tadino consumatore al centro della loro attività, nel momento in cui possono contare su un sistema che li aiuta a competere; e infine quegli imprenditori che capiscono che non si può sostituire la svalutazione della lira con la svalutazione del lavoro, e quindi scommettono sull’innovazione, sulla formazione dei loro lavoratori, sull’internazionalizzazione delle im-prese e sulla loro sulla crescita dimensionale. Questo significa riuscire a creare e a potenziare dei soggetti ed un insieme di forze che, all’interno di un quadro di regole rinnovate, può portare a compimento la nostra transizione. L’innovazione della cultura politica e dei soggetti politici; l’innovazione anche delle rappresentanze dell’impresa, dei sindacati e delle associazioni di categoria è fondamentale per fare funzionare le regole. Io credo che ci siano segnali importanti che partono dal mondo politico, e anche processi che si sono messi in atto, con particolare riferimento alla costituzione del Partito Democratico. Sarebbe auspicabile che un processo del genere si attivasse anche nel centrodestra.. Sono segnali che, unitamente all’innovazione delle regole potrebbero farci fare dei passi in avanti, chiudere democraticamente questa transizione e consegnare al paese soggetti e regole in grado di farlo stare a testa alta e attivamente nel contesto internazionale.

Ministro per i Rapporti col Parlamento e le Riforme Istituzionali

Il bipolarismo italiano è malato. Il fatto che il Governo debba porre la fiducia su un decreto legge che affronta, senza scontarli, i debiti sulla sanità, e che lo fa sulla scorta di una richiesta che viene dal paese intero, eliminando i ticket da tutta la diagnostica, pare assurdo ed altresì indicativo. Che da parte dell’opposizione si possa non essere d’accordo con l’impostazione del decreto è del tutto legittimo. Che sia lecito fare una battaglia di opposizione lo è altrettanto. Ma che si faccia ostruzionismo facendo ricorso al regolamento della Camera, mettendo in gioco la conversione del decreto, e alla fine la vita stessa del Governo, la dice lunga sullo stato e sul funzionamento del nostro bipolarismo, e sul come sia necessario un grande patto che coinvolga le forze in Parlamento, il sistema delle Regioni e delle autonomie, le forze economiche e sociali, e più in generale l’intera società, per trovare finalmente un approdo alla transizione italiana.

A partire dagli anni ’70 si è verificata nel nostro Paese una crescita senza ritorno, che ci ha consegnato una società troppo spesso egoistico-corporativa, in cui l’innovazione fa paura, e nella quale bisogna spingere molto per ottenere qualche risultato, come insegna la vicenda delle liberalizzazioni. Natu-ralmente chi si oppone alle liberalizzazioni lo fa perché ne vuole di più “larghe”. Sta di fatto però che volendo liberalizzazioni più profonde, si procede a votare contro quelle che vengono intanto proposte. Abbiamo poi una società chiusa, senza dinamismo sociale, nonostante la nostra Costituzione preveda che la società debba essere in grado di offrire a tutti i cittadini le pari opportunità dei punti di partenza. Questo tipo di società ha convissuto, fino agli anni ’90, anche con un sistema politico bloccato.

Negli anni ’90 il sistema politico si sblocca. Questo elemento positivo assume essenzialmente due tratti di novità. Il primo è costituito dall’elezione diretta di sindaci e presidenti di Province e Regioni, che assicura una stabilità del governo locale, ma non è accompagnato dalla necessaria deframmentazione del sistema politico. Il secondo, a livello nazionale, è dato dalla pratica della democrazia dell’alternanza, senza tuttavia che a guidare questo processo siano i partiti e le forze politiche che erano stati protagonisti della prima fase della vita della Repubblica. Di fronte

a queste due situazioni c’è il processo di innovazione per modernizzare il paese che ha bisogno di procede-re ed andare avanti con grande forza e capacità; c’è il processo politico ed istituzionale che deve completare la transizione; c’è la necessità di costruire i partiti nuovi di questa fase di vita della Repubblica. Fin qui la situazione fino alle ultime elezioni politiche, quando il completamento della transizione, dal punto di vista politico – istituzionale, viene reso addirittura più complicato dal nuovo sistema elettorale e dal risultato politico da esso prodotto. In Parlamento sono attualmente presenti 23 partiti, e questo è un dato indicativo di come stanno messe le cose. Occorrerebbe un patto alla luce del sole tra le forze politiche del paese, che dica con chiarezza che si può discutere delle modalità, ma che alcune cose, e tra queste anzitutto il risanamento, che vinca il centrosinistra o il centrodestra, vanno tenute ferme. Il centrosinistra al governo ha segnato alcuni punti importanti sulla via del risanamento, ma esso non è completato. E allora possono divergere gli strumenti, oppure gli obiettivi che ci si pone nell’ambito del risanamento, ma non è possibile prescindere da esso. Bisognerebbe altresì procedere alla realizzazione di alcune riforme nel sistema politico. La più importante, a mio avviso, dovrebbe riguardare il superamento del bicameralismo paritario. Siamo praticamente l’unico paese ad avere due Camere che hanno gli stessi compiti, e questo produce una distorsione nel funzionamento della vita democratica, perché è evidente che i processi decisionali sono più lenti. Tra l’altro, quale che sia la legge elettorale, nessuno con un sistema bicamerale paritario avrà la garanzia che esista la stessa maggioranza in entrambe le camere, come si è verificato nel ’94, quando si elesse per la prima volta il Parlamento con la legge Mattarella. Le conseguenze del mal funzionamento del bicamera-lismo perfetto riguardano anche la vita del sistema delle autonomie, perché non c’è una Camera in cui un regionalismo forte o un federalismo possa avere un riferimento, un luogo in cui le autonomie assumano una responsabilità nazionale sulle scelte, in modo da non lasciare prevalere il “principio di Arlecchino”, per cui una stessa materia viene regolata in maniera difforme nelle diverse regioni. È evidente però che noi non ce la faremo, almeno per questa legislatura, a riformare il nostro bicameralismo, a meno che non parta una forte campagna di opinione che coinvolga le forze sociali e culturali, e che sia caratterizzata anche e soprattutto da una forte spinta da parte del sistema regioni – autonomie locali, che già

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fu determinante nella riforma del titolo V della Costituzione. È prioritario trovare un accordo sulla creazione di una seconda Camera, che assuma la responsabilità piena delle nomine negli organi di garanzia e di controllo e affronti in modo primario le questioni che sono relative al rapporto tra Unione Europea, Stato centrale e sistema delle autonomie, senza avere il compito di dare la fiducia politica ai governi, dopodiché la questione del modo con cui si elegge è importante ma secondario. L’importante è riuscire a determinare un cambiamento.

L’attuale legge elettorale aumenta il rischio di avere maggioranze diverse nelle due camere, rende più difficile la stabilità, non premia la coesione delle coalizioni, sollecita e spinge la frammentazione politica. Difficilmente, a mio avviso, riusciremo ad evitare che alle prossime elezioni la scheda elettorale si presenti come una “lenzuolata” di partiti grandi e piccoli. Questa legge elettorale ha allontanato i cittadini dai candidati, e davvero il sistema non aveva bisogno di una cosa del genere. Essa inoltre non ha risolto il problema della rappresentanza femminile in Parlamento, tanto è vero che oggi le donne in parlamento rappresentano appena il 16% del totale. È necessario allora, dare delle risposte a tutte queste questioni. Anzitutto, senza dubbio, le alleanze vanno indicate prima del voto, come pure i candidati alla presidenza del Consiglio. Dopodiché secondo me c’è un solo modo se si vuole affrontare il problema del rapporto tra elettori e candidati, senza tornare alle preferenze: scegliere il collegio uninominale, a pre-scindere dal fatto che il sistema elettorale scelto sia il proporzionale o il maggioritario con lo sbarramento. Concludo su un punto: concordo con l’affermazione di Andrea Geremicca, per cui negli ultimi cinque anni non ha trovato applicazione la riforma del Titolo V della Costituzione. Il Governo attuale cerca di farlo. Recentemente è stato presentato in Parlamento il Nuovo Codice delle Autonomie Locali, che ridefinisce sulla base del Titolo V le competenze dei Comuni e delle Province, e contemporaneamente spinge i co-muni che per motivazioni diverse non siano capaci di gestire una certa competenza, ad associarsi con altri comuni. Infine, le Città Metropolitane: personalmente credo che esse non siano entrate in funzione per un duplice ordine di difetti, locali e nazionali, tuttavia resta il fatto che siamo l’unico paese europeo ad avere la stessa forma di istituzione per le aree metropolitane e per le altre città. Certamente si può discutere se le 12 aree metropolitane individuate nel nostro paese siano effettivamente tali; ma in

città come Napoli, Roma, Milano, va sicuramente superata la dimensione della Provincia. Il Governo sta lavorando con impegno anche sul fronte dell’attua-zione del federalismo fiscale, per far corrispondere alle competenze le risorse per gestirle, attraverso un sistema tributario che si assume in proprio e attraverso le compartecipazioni.

A monte di tutto questo però, secondo me, è necessario rinnovare il sistema politico. Nel cen-trosinistra come nel centrodestra, bisogna costruire grandi forze politiche che siano in grado di affrontare questa fase politica e le sfide del XXI secolo. La scelta di far nascere il Partito Democratico va sicuramente in questa direzione.

Presidente della Giunta Regionale della Campania

Concordo con il ministro Chiti, nell’affermare che è necessario trovare un approdo alla transi-zione attraverso il completamento delle riforme istituzionali alle quali abbiamo lavorato negli anni scorsi, e rispetto alle quali sono andati perduti gli ultimi cinque anni. È infatti evidente che avremmo dovuto già cinque anni fa completare il cammino delle riforme istituzionali, ed invece la lunga battaglia sulla devolution ne ha bloccato il completamento e ci ha obbligati ad andare ad un referendum che ha finito con l’abrogare anche alcune cose positive. Cinque anni perduti, dunque, rispetto ai quali ora ci tocca ripartire e completare, attraverso la crea-zione di un senato federale, rap-presentativo delle regioni e delle grandi realtà territoriali del paese, e direi anche ridu-cendo in maniera so s tanz ia le i l numero dei par-lamentari. Natu-ralmente ognuno di noi sa quanto sia difficile che un parlamento riduca se stesso. Anni fa sono stato un convinto sosteni-tore della creazione di una grande Assemblea Costituente

capace di mettere assieme parlamentari, rappre-sentanti degli enti locali, personalità del mondo produttivo e forze intellettuali. Solo in questo modo infatti poteva determinarsi una spinta tesa a mettere in discussione alcuni aspetti attuali relativi al Parla-mento. Completare le riforme dunque, distinguendo le funzioni e riducendo il numero dei parlamentari. La riforma elettorale, a questo proposito, mi sembra un nodo centrale. Personalmente condivido una serie di osservazioni già fatte da Vannino Chiti, ma mio avviso c’è un punto dal quale partire: noi abbiamo in questo momento la peggiore legge elettorale che si possa immaginare, e dobbiamo seriamente provvedere a cambiarla non solo attraverso piccoli aggiustamenti. È per questo motivo che ho firmato per il referen-dum, pur sapendo che esso lascia irrisolti molti dei problemi che sono di fronte a noi. Ad esempio non risolve la mancanza nel nostro ordinamento di una norma che impedisca di avere in parlamento gruppi parlamentari diversi dai partiti che si sono presentati davanti al corpo elettorale. In Spagna e in Francia ci sono norme che vanno in questa direzione, da noi no, ed è evidente che il referendum da solo non può ri-solvere la questione. Certamente la strada maestra è rappresentata da una buona legge elettorale fatta dal Parlamento, ma è altresì necessaria la modifica dei gruppi parlamentari e dei regolamenti delle Camere. Poi si dovrebbe intervenire sulla legge sul finanzia-

mento pubblico, perché quando un partito con l’uno per cento ha

diritto al finanziamento

pubblico, e poi col regolamento parlamen-

tare è possibile creare una miriade di gruppi, è evidente che non abbiamo una democrazia ricca, ma

una democrazia malata. E dunque è questa la strada maestra: contrastare la frammentazione e raffor-

zare il bipolarismo, cercando di produrre stabilità nelle

forze politiche. Questo il lavoro a cui tendere con impegno. In questo

contesto il referendum è anzitutto un elemento di spinta verso il parlamento, perché

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agisca. È uno strumento trasversale per superare, in ogni caso, quella che è la peggiore legge elettorale che questo paese abbia mai avuto. In questi giorni si è aperta una nuova riflessione. Si discute infatti se non sia il caso di tornare al mattarellum, cioè alla legge elettorale precedente a quella attuale, con la quale hanno vinto sia il centrodestra che il centrosinistra. A mio avviso, essendo la Calderoli la peggiore legge elettorale che ci possa essere, rispetto ad essa il “mattarellum” costituisce una frontiera molto più avanzata. Essa consente di salvaguardare il rapporto tra i candidati e i collegi e va nel senso del maggiori-tario. Con il “mattarellum” il candidato è espressione di una coalizione ed è sottoposto ad un confronto tra partiti. Il Parlamento non viene “nominato”, come è avvenuto con la Calderoli, ma è eletto dai cittadini e rappresenta il collegio e l’unità della coalizione. Aggiungo che un eventuale ritorno al “mattarellum” dovrebbe essere accompagnato ad un meccanismo di elezioni primarie nei collegi, sancito dai partiti della coalizione, in modo che i cittadini abbiano in mano una doppia arma, nella scelta del candidato e nella scelta dell’eletto. È evidente che questo sarebbe non un ritorno indietro, ma un importante passo in avanti rispetto alla situazione attuale.

Al “mattarellum” si può tornare in due modi, uno più sicuro ed uno più incerto. Il modo più sicuro è attraverso una legge parlamentare, di pochissime righe, che sancisca l’abrogazione della legge Calderoli e il ritorno al sistema elettorale ad essa precedente. Non dovrebbe essere molto difficile fare una legge che vada in questo senso, perché con quel sistema hanno vinto entrambe le coalizioni, e anche perché la legge tutela quei partiti che desiderano mantenere la loro identità, poiché prevede una quota proporzionale del 25%. In astratto dunque, una legge che riporti al “mattarellum” si potrebbe fare in pochissimi giorni. Ciononostante io dubito che si farà, per una questione molto semplice: perché in realtà la legge Calderoli piace ai partiti di centrodestra, che l’hanno approva-ta, ma anche a diverse forze interne al centrosinistra. Alcuni, come Pier Luigi Castagnetti, sostengono che al “mattarellum” si possa arrivare anche attraverso un referendum, ma non è certo che si possa abrogare un’intera legge attraverso il referendum, non c’è un precedente.

Assieme ad una nuova legge elettorale, che superi quella pessima attuale, sono altresì indispen-sabili riforme economico – sociali e riforme politiche. A mio avviso la nascita del Partito Democratico è un’importante riforma politica di sistema, perché

per la prima volta in un paese in cui la tendenza è a frantumare e a dividere, un gruppo di forze politiche decide di mettersi assieme. Personalmente non ho nessun problema o gelosia o preoccupazione se anche altri decidono di mettersi assieme, sia nel centrodestra che nel centrosinistra. Temo, per contro, che la tendenza italiana alla frantumazione sia destinata a continuare. È per questo che è tanto meglio per il paese se il Partito Democratico arriva rapidamente al suo compimento, perché esso ha in sé la capacità di produrre una riforma di struttura della politica e dei rapporti tra partiti e società. Riforma politica a mio avviso è anche il confronto e il reciproco rispetto tra schieramenti, la non demonizzazione dell’avversario, la consapevolezza che il confronto deve sempre e comunque tendere all’interesse generale del paese, e questo non c’è legge elettorale che possa garantirlo, ma va perseguito attraverso le riforme politiche del costume civile di noi italiani, che però sono indispensabili per uscire dalla lunghissima transizione italiana.

Professore Ordinario di Diritto Costituzionale italiano e comparato – Università “La Sapienza” di Roma

Il punto fondamentale del problema, rispetto alle cose di cui si è discusso, è a mio avviso quello di trovare il bandolo per fare le riforme, perché di per sé sui contenuti è stato già detto tutto. È stato detto che non è conveniente avere due Camere con le stesse competenze, e che non si possono continuare a mantenere norme sul finanziamento e regolamenti parlamentari che favoriscano la frammentazione. In Spagna i gruppi parlamentari si formano nei primi cinque giorni della legislatura, dopodiché chi esce va nel gruppo misto, e non sono ammessi gruppi non rispondenti al risultato elettorale. Ma, per l’appunto, il vero problema è trovare il punto di partenza, perché con la legge Calderoli si è innescato un meccanismo a ritroso nella transizione. I partiti sono veloci nell’apprendere un sistema, ma nell’apprendimento c’è una logica con effetti cumulativi. Prendiamo l’esempio del “mattarellum”: esso è stato adottato nel ’94, quando alle elezioni si presentarono tre schieramenti e ha dato luogo ad un governo che è durato otto mesi. Già alle seconde elezioni però,

si presentarono due schieramenti (o due e mezzo, perché Rifondazione era legata all’Ulivo da un patto di desistenza) e il governo che ne è uscito fuori è durato due anni e mezzo. Alle terze elezioni abbiamo avuto due schieramenti veri e propri, e un governo che è durato quattro anni e mezzo. Si è verificato, cioè, un apprendimento progressivo del sistema. La logica della legge Calderoli è esattamente inversa, per cui se alle prime elezioni un polo presenta 15 liste, c’è da aspettarsi una crescita esponenziale delle liste presentate nelle elezioni successive, una volta che si è scoperto che più liste si presentano, e maggiori sono le possibilità di vittoria. Come risolvere tutto ciò? A mio avviso, è vero che l’iniziativa referendaria non risolve tutti i problemi, tuttavia, senza di essa non avremmo neanche cominciato a discutere seriamente di cambiare il meccanismo elettorale, perché normal-mente un Parlamento eletto con un sistema, a meno che non vi sia costretto, tende a non cambiare il sistema stesso. Più in generale, nessun soggetto che è stato selezionato secondo certe regole, cambia le regole con cui è stato selezionato. Da questo punto di vista dunque, il quesito impone una riforma forte del sistema, perché con riforme deboli il quesito comun-que si riproporrebbe su una nuova legge votata; ed elimina le microsoglie di sbarramento, lasciando solo quelle più alte. Questo non è poco, perché indica una strada. Certo non risolve altri problemi, come quello delle liste bloccate lunghe o quello della discrasia tra soggetti elettorali e soggetti parlamentari. Per questi motivi, io non vedo altre possibilità al di fuori di un forte successo della raccolta di firme, per provocare una qualsiasi riforma. Recentemente si è aperta poi questa discussione su un eventuale secondo quesito che ripristini il “mattarellum”. Non c’è dubbio che il “mattarellum” sia un sistema migliore di quello che scaturisce dall’attuale quesito referendario. Tuttavia, io sarei per non abbandonare il certo per l’incerto, e caso mai per aggiungere l’incerto al certo. L’idea che un quesito referendario possa ripristinare il “mattarellum” è plausibile, ma non c’è a priori la certezza che la Corte Costituzionale accetti questa interpretazione, mentre invece il quesito di partenza per il quale si stanno raccogliendo le firme ha questo elemento perché è costruito sulla base della giuri-sprudenza precedente. Esiste, per così dire, un’arma, che è quella del referendum, ed è giusto che essa sia tenuta carica. In linea di principio però non sarei contrario ad una ulteriore raccolta di firme, nel mese di settembre, sull’altro quesito. In ogni caso, infatti, la Corte si troverà di fronte due quesiti, di cui uno

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Amministrazione

senz’altro ammissibile, e l’altro altro di ammissibilità incerta, ma passibile di produrre un risultato migliore. Se li ammette ambedue, e c’è l’eventuale vittoria del SI nei due quesiti, abbiamo il risultato più radicale, cioè prevale il quesito più lontano dalla legge e si ritorna al “mattarellum”. Se ne ammette invece uno solo, abbiamo comunque l’altro che incardina stabilmente le riforme. Io penso che questo debba essere l’orizzonte del dibattito in questo momento. Qualsiasi considerazione o dibattito su quale sia il sistema migliore, rappresenta in realtà una fuga in avanti che presuppone che la riforma sia inevitabile. In realtà la riforma non è inevitabile, diventa tale solo se lo impone l’esito del referendum. Non c’è una terza via. O c’è un quesito con le firme, e dunque la pos-sibilità di una riforma che deve essere completata in parlamento, o c’è lo status quo. Non c’è la possibilità di una riforma parlamentare significativa al di fuori dello scenario della raccolta di firme referendaria. Sulla raccolta di firme referendaria, invece, si possono innestare le riforme ulteriori: la coincidenza tra soggetti elettorali e soggetti parlamentari, e quelle riforme costituzionali che sono necessarie e non sono precluse dal voto del referendum. Per questo io credo che sia importante in questa fase concentrarsi soprat-tutto sul come dall’iniziativa referendaria si possa poi avere un quadro organico di riforme che però hanno come presupposto necessario il successo dell’iniziativa referendaria stessa. È da ricordare che anche dopo un voto referendario è possibile intervenire di nuovo

sulla legge elettorale, col solo limite che non si può

ripristinare la normativa abrogata, quindi non è vero che solo prima del referendum

si può intervenire, anche dopo è possibile farlo.

Credo che que-sto sia uno s c e n a r i o che è aiu-tato anche d a l l ’ i n -

novazione sui soggetti po-litici. Infatti, se

in parallelo a b b i a -

mo un’innovazione sui soggetti politici che riduce il tasso di frammentazione perché le forze si aggre-gano, spingono, e nascono nuovi partiti a vocazione maggioritaria, questo aiuta simultaneamente anche il varo di nuove regole. Sarebbe auspicabile che simultaneamente anche nel centrodestra si avviasse un processo parallelo a quello che si è avviato col Partito Democratico. Io penso che in questa fase la priorità sia quella di sbloccare il sistema con l’ini-ziativa referendaria. Una volta sbloccato il sistema, riapriamo il cantiere di tutte le migliori riforme possibili e tutti i relativi tavoli. Ma dobbiamo sapere che è il successo di questa iniziativa che determina la possibilità del resto.

Docente di Scienza dell’Amministrazione Coordinatore del Gruppo

di Lavoro su Infrastrutture e Mezzogiorno della Fondazione NENS

Nuova Economia

Come rilevava poco fa il ministro Chiti, gli anni ’80 hanno lasciato a questo paese un’eredità pesante, fatta di una crescita senza riforme e di una società chiusa nella propria sfera di interessi e incapace di pensare processi di cambiamento di ampio respiro. Questo sembra essere un qualche cosa che in diversa misura ha influito anche sugli esiti delle riforme amministrative che sono state avviate dagli inizi degli anni ’90 in poi. Si registra una manifesta incapacità della struttura di cambiare, e una difficoltà anche da parte della società di promuovere e di essere parte attiva di un processo di cambiamento forte. Attual-mente ci troviamo di fronte ad una sfida a mio avviso ineluttabile. Il problema della competitività e l’agenda di Lisbona a livello europeo, chiamano anche l’Italia, in misura particolarmente rilevante, alla necessità di un cambiamento di passo, che permetta di ridurre i costi della burocrazia e migliorare l’efficienza dei servizi. Abbiamo un problema di funzionamento delle amministrazioni e di modernizzazione, il quale si confronta con una situazione di relativa arretratezza su molti dei settori della Pubblica Amministrazione. Anche il sistema degli interessi sembra poco adatto

per portare avanti processi di cambiamento, in un contesto in cui gli paesi come Francia,

Gran Bretagna e altri di minore rilevanza economica, stanno portando avanti

processi molto avanzati di modernizzazione, rispetto ai quali obiettivamente abbiamo dei problemi di com-petizione. È ormai dal ’92 che si va avanti cercando di fare le riforme amministrative, ma abbiamo dei problemi seri a concluderle. C’è da chiedersi allora quali siano i problemi di fondo. Su questo credo ci sia una diagnosi condivisa, che si riallaccia a quanto detto poco fa nella prima sessione del convegno. C’è necessità di una politica che in qualche modo si confronti col problema della modernizzazione, per riscoprirlo sotto diversi profili. Dall’altro lato abbiamo necessità di un cambiamento di ruolo da parte della burocrazia; del un sindacato; di un pubblico impiego che riscopra l’orgoglio del funzionamento delle am-ministrazioni pubbliche e del loro ruolo; dei cittadini che partecipino effettivamente a questo processo di cambiamento e se ne facciano parte attiva. Queste condizioni sembrano esserci solo in parte. Nel corso degli ultimi quindici anni ci sono state a tratti e ciò ha influito sicuramente sul processo di cambiamento. Ma come si evolve rispetto a ciò? Quali sono passi del cambiamento? A me sembra che da un punto di vista generale ci siano due linee che si sono affacciate nel dibattito in questo inizio di legislatura, e che non siano completamente alternative tra loro, anzi, mi pare abbiano diversi punti in comune. La prima linea è quella che possiamo ricondurre alla posizione di Pietro Ichino e di diversi altri, e che cerca di pro-muovere disegni di legge volti a risolvere il problema della inefficienza attraverso un rafforzamento dei meccanismi di responsabilità, richiamando anche i famosi provvedimenti di licenziamento o altri tipi di provvedimento variamente declinati dal punto di vista tecnico, e introducendo in maniera più forte il sistema di valutazione oggettiva, dando forza ad una trasparenza dei processi valutativi, ma soprat-tutto istituendo una sorta di autorità di valutazione indipendente dalla politica e dall’amministrazione. Un organismo tecnico, dunque, che serva a cercare di confrontarsi col problema degli opportunismi all’interno dell’amministrazione, e che rompa parte delle collusioni che possono comunque insorgere tra i vertici politici, la burocrazia e i sindacati all’interno dell’Amministrazione. L’altra posizione è quella espressa dal Memorandum per il Lavoro Pubblico firmato dal Governo e dai sindacati, nel quale si cerca di aumentare la responsabilità dirigenziale. Il docu-mento prevede una quantità di possibili interventi di modernizzazione all’interno delle amministrazioni pubbliche, ma punta soprattutto sul rafforzamento e sulla responsabilizzazione del livello politico e

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del livello sindacale all’interno di queste scelte. A me sembra questo il tratto di differenziazione tra le due impostazioni. Ci sono anche degli aspetti comuni, ad esempio in ambedue c’è un rafforzamento della possibilità per il cittadino di essere in qualche maniera parte di questo processo. Ichino parla del-l’introduzione di meccanismi di “pubblic rewiew”, e anche nell’impostazione del Memorandum è prevista l’utilizzazione di sistemi di customer e misurazione della qualità attraverso delle indagini svolte presso l’utenza. Personalmente ritengo che alcune delle posizioni espresse in entrambe le impostazioni abbiano delle debolezze legate alla domanda che ci si pone, cioè quella di modernizzare il paese. Il problema dell’impostazione di Ichino, secondo me, è che essa propone un sistema, quello di un’autorità indipendente, difficilmente applicabile in un sistema multilivello come quello italiano, in cui abbiamo una molteplicità di enti locali. Pensare ad un soggetto staccato che possa controllare l’efficienza di tutto il sistema, ha delle difficoltà attuative molto forti. Il secondo elemento di debolezza è che l’esistenza di valutazioni oggettive indipendenti, esterne all’ammi-nistrazione pubblica, mi pare di difficile realizzazione anche dal punto di vista tecnico. Infine, quello di Ichino è un sistema che in qualche modo rappresenta un passo indietro rispetto all’introduzione di sistemi di responsabilizzazione delle singole strutture, all’istitu-zione di controlli interni, e al rafforzamento dell’au-tonomia decisionale delle singole strutture che si è faticosamente portato avanti negli anni precedenti, e tuttora si sta sostenendo. Questo potrebbe essere in qualche modo contraddittorio. Inoltre, a mio avviso, manca un’idea di trasformazione complessiva sociale, che deve esserci sotto una riforma amministrativa. Infatti la parte forte del Memorandum sul Pubblico Impiego è proprio nell’idea che per cambiare le amministrazioni occorra in qualche modo evitare di chiedere un passo indietro alla politica e alla buro-crazia, ma piuttosto chiedere loro un passo avanti nel senso di una direzione diversa da quello che c’era in precedenza. A mio avviso è impossibile, in questo contesto, pensare che la riforma dell’amministrazione possa essere fatta senza un convinto apporto della politica. Deve, anzi, esserci una leadership forte da parte del vertice politico. Sotto questo profilo però è importante anche capire come questo si può realizza-re. Abbiamo detto che entrambe le proposte, quella di Ichino e quella del Memorandum, contengono questa apertura rispetto all’esterno, quest’idea che occorra andare ad ascoltare l’utenza e sentire cosa

ne pensa. Io credo che questa impostazione debba essere portata avanti allo scopo di creare un blocco di consenso intorno alle riforme amministrative. Occorre rompere con un contesto in cui l’assetto degli interessi è preordinato a far sì che l’amministrazione funzioni in maniera incerta e faticosa. Occorre cambiare questo assetto degli interessi, e occorre che la politica sia in grado, all’interno del processo decisionale, di aprire ugualmente alle categorie sociali ed economi-che e raccogliere all’interno di esso quelle che sono le disponibilità che a mio avviso esistono e devono essere stimolate.

Ministro della Funzione Pubblica e Innovazione

Affrontare il problema della modernizzazione della Pubblica Amministrazione in un momento storico in cui questo settore maturo viene innestato in una tecnologia innovativa, significa affrontare il problema da diversi punti di vista: dal punto di vi-sta tecnologico; da quello dell’organizzazione del lavoro; da quello relativo in maniera specifica alla nostra organizzazione, che richiede una restituzio-ne di dignità alla sua funzione. Abbiamo bisogno che questi diversi ordini di problemi vengano messi assieme. Quando ci avviamo a governare un sistema complesso, dobbiamo tenere conto di tutti i pezzi del sistema; ma quello che poi deter-mina il funzionamento del sistema stesso nella sua globalità, è principalmente l’interazione tra i diversi elementi. Dobbiamo allora mettere insieme un piano di riforme e avviare un processo che sia globale, e riguardi tutti gli aspetti: la tecnologia, l’organizzazione del lavoro e la trasparenza, in modo tale da costruire un mosaico che doti il Paese di una nuova Pubblica Amministrazione.

Il nostro Paese ha la necessità di recuperare competitività, in un momento in cui l’economia è basata soprattutto sulla conoscenza. Anche l’organizzazione industriale ha necessità di cambiare nella sua sostanza. Le nostre imprese infatti non hanno più la possibilità di competere riducendo i costi, ma devono avviare un processo di profonda trasformazione nella loro produzione, smaterializzando i prodotti e arricchendoli di contenuti della conoscenza. In questo sistema la Pubblica Amministrazione non deve più costituire

un intralcio euna fonte di ritardo per lo sviluppo, ma deve sempre più trasformarsi in un motore che spinga al cambiamento. Il problema va affrontato con molta determinazione, avendo chiari una serie di obiettivi condivisi. Per questo motivo abbiamo dedicato molto del nostro tempo ad una concertazione che portasse tutti gli attori del cambiamento alla definizione di un medesi-mo obiettivo; dopodiché è chiaro che dobbiamo lavorare in varie direzioni. Occorre intervenire sul fronte legislativo, ma anche su quello della definizione di accordi, memorandum e intese, e sul fronte tecnologico, che ci permette di procedere praticamente.

Sotto il profilo tecnologico abbiamo affrontato il problema dell’informatizzazione della Pubblica Amministrazione secondo un approccio che gli inglesi chiamerebbero di part substituction, sostituendo attività che normalmente si svolge-vano utilizzando carta e penna, con procedure che utilizzano computer e informatica. Questo approccio ci ha portato alla sostituzione del protocollo cartaceo con il protocollo informatico. In qualche caso, come ad esempio nella Regione Campania, si è sostituito il flusso documentale cartaceo con quello informatico e si è dato avvio alla firma elettronica, ma queste cose sono state fatte utilizzando le stesse norme messe a punto quando esistevano solo la carta e la penna. Si è innestata una nuova tecnologia in una struttura nata per una tecnologia precedente, e questo ha impedito di ottenere grandi risultati. Molto spesso sono state assommate procedure su procedure, il che ha reso ancora più complesso il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Oggi, nel disegno di legge Nicolais, a cui farò riferimento anche più avanti, abbiamo introdotto per la prima volta il divieto del cartaceo per alcune attività. Lo abbiamo fatto perché è ora di sostituire sostan-zialmente la vecchia tecnologia con la nuova, e da questo occorre partire dobbiamo per reinventare il governo del paese e ridisegnare le procedure pensando in termini informatici, e non facendo più riferimento alla carta.

Occorre cambiare sostanzialmente il modo di operare della Pubblica Amministrazione. Una Pubblica Amministrazione efficiente in cui la tecnologia fosse completamente collegata in rete, sarebbe completamente diversa da quella che abbiamo oggi, per questo le prime operazioni che abbiamo applicato sono andate proprio nella

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Amministrazione

direzione della interoperabilità delle pubbliche amministrazioni. Questo non significa solo realiz-zare la possibilità del trasferimento dei dati, ma anche e soprattutto operare nel senso di un cam-biamento di mentalità. La prima cosa che succede in un sistema interoperabile è che le banche-dati non hanno più proprietari ma sono condivise, e dunque il sistema interoperabile centrale, che verrà completato dopo l’estate, è un sistema che permette ai vari ministeri di interrogare diretta-mente le banche dati di altri ministeri. Questo sistema verrà poi collegato con la periferia (la gara è stata recentemente assegnata), e quando tutto sarà operativo saranno superflue perfino le ottime leggi Bassanini.

Non ci sarà più bisogno di chiedere al cittadino di autocertificare alcunché, perché tutto quello che lui autocertifica è già presente nelle banche dati. Noi realizziamo un black box, cioè il nostro back office, che è un sistema connesso interoperabile che si interfaccia con i cittadini e le imprese at-traverso i sistemi più vari: computer, telefonino, televisione, sportello. Realizziamo quindi un sistema in cui il cittadino non ha bisogno di in-contrare fisicamente la Pubblica Amministrazione. Il cittadino, attraverso il sistema delle pubbliche amministrazioni, che è un sistema unico, potrà ricevere documenti, permessi, autorizzazioni, in maniera automatica e in tempo reale. È questo il cambiamento innovativo che vogliamo introdurre. Allora avremmo interpretato la nuova tecnologia reinventando il governo e reinventando il sistema generale della PA. Tuttavia questo obiettivo non può essere raggiunto immediatamente se prima non si avvia un processo forte di cambiamento del sistema del lavoro.

Per cambiare l’organizzazione del lavoro abbiamo bisogno delle intese tra le pubbliche amministrazioni e le parti sociali, come il Memo-randum cui accennava poco fa Alessandro Natalini, e che rappresenta il primo esempio nella storia d’Italia in cui un’intesa viene siglata da tutta la filiera della governance (Governo centrale, regioni, province, comuni, comunità montane e or-ganizzazioni sindacali). D’altro canto però parlare di mobilità, di premialità, di salari differenziati e di valutazione, resta un fatto vuoto di significati se non costruiamo un’attività legislativa e quindi una legge adeguata, che possa regolamentare quello che abbiamo scritto nel nostro Memorandum. Per fare questo abbiamo avviato una legge sui tempi

certi nella Pubblica Amministrazione, la quale non solo comincia ad individuare dei parametri oggettivi di valutazione, come ad esempio il tempo di consegna di un certificato, ma comincia ad introdurre la multa al dirigente che non rispetta i tempi, e ad intervenire con una forte valutazione, in questo caso temporale, della performance dell’ufficio della P.A.

Il provvedimento proposto da Ichino, pre-sentato da Turci e da altri parlamentari di maggioranza e di opposizione, è stato inglobato nel disegno di legge che verrà presentato il mese prossimo alla Camera, e che attualmente sta com-pletando l’iter in Commissione come emendamento della legge Nicolais. Essa da un lato prevede una serie di attività di semplificazione della P.A., con l’introduzione della multa per tempi cer-ti; e dall’altro prevede l’istituzione di una commissione nell’am-bito del CNEL che abbia un ruolo forte di individuazione e suggerimento di parametri oggettivi di valutazione e continuo monitoraggio delle singole pubbliche ammini-strazioni. Il privato valuta se stesso attraverso il mercato; la P.A. deve creare anch’essa un sistema analogo d i va lutaz ione “terza”, legata al mercato, cioè ai citta-dini utenti. Q u e s t o è i l cam-b iamento for te che i n t e n d i a -mo portare n e l l a P. A . , unitamente ad un processo che vi riporti dignità. Il mio primo lavoro è stato quello di avviare una serie di direttive che introducono meccanismi di trasparenza, perché non pos-siamo chiedere ai cittadini costi elevati dovuti ad una crisi economica gene-

rale, e poi aumentare a dismisura anche i costi della politica. I costi della politica vanno tagliati ancor prima di diminuire le tasse ai cittadini, ed è su questo che dobbiamo lavorare. Per fare questo dobbiamo aumentare la trasparenza. Domani presenterò al Consiglio dei Ministri una direttiva per le aziende che sono in mano agli enti pubblici. Non è ammissibile, infatti, che in un ente pubblico si venga ammessi per concorso e per trasparenza pubblica, e contemporaneamente lo stesso ente proceda ad assunzioni dirette di personale. Questo è contro la legge! Inoltre deve essere rispettato il taglio dei consigli, di amministrazione approvato in Finanziaria, che abbassa da cinque a tre la quota minima di membri.

Questa è la direzione verso la quale ci muo-viamo. Abbiamo nominato una Commissione,

insieme alla Guardia di Finanza, per controllare il rispetto di queste direttive così importanti per il cambiamento della P.A..

Esse costituiscono una tutela per coloro che lavorano nelle pubbliche amministrazioni

secondo canoni di efficienza, e nulla hanno a che vedere con le realtà descritte da Report

o con i fannulloni di cui parla Ichino. Ci sono funzionari di grande valore nella P.A., che

in qualche modo hanno bisogno di una valutazione rigida e at-

tenta per emergere nella loro qualità, e questa

è l’altra faccia del grande program-

ma di cambia-m e n t o d e l l a P. A . . I n f i n e , vorrei ricordare la banda larga, che f a pa r te del grande del lavoro tecnolo-

gico che portando avanti, per evitare

il digital divide.Avviare questo gran-

de processo di copertura di servizi informatici significa anche

approntare le “autostrade”, e questo è un lavoro che stiamo facendo con i ministri

Gentiloni e Lanzillotta, perché riteniamo che è impor-tante infrastrutturare il

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28 Modernizzareil PaeseRiformarele Istituzionie la PubblicaAmministrazione

sistema generale della larga banda, coprendo al 100% il territorio. Ieri sera è stata approvata in Senato la legge sulla licenziabilità dei dipendenti pubblici che siano stati riconosciuti colpevoli di cor-ruzione, perché per noi la questione morale deve diventare la questione centrale del problema del governo. Un governo che voglia chiedere sacrifici ai cittadini, deve poi dimostrare la sua assoluta irreprensibilità e la sua discontinuità coi governi del passato. Deve dimostrare di avere una visione chiara dei propri obiettivi, che devono tendere alla realizzazione di un sistema funzionante, efficace, efficiente, a servizio del cittadino. La Pubblica Amministrazione esiste perché esistono i cittadini, e non viceversa, e ciò vale in tutti i settori, incluso quello dei rifiuti. Quello dei rifiuti certamente è un problema che scoraggia le imprese ad investire in Campania, oltre che essere una difficoltà inerente al quotidiano dei cittadini.

Ma è anche e soprattutto una questione morale. C’è bisogno di trasparenza per com-prendere questo problema enorme, che ormai caratterizza la Campania. In tutto il resto del mondo la Campania è associata solo al problema dei rifiuti, e non è così. Tutti dobbiamo lavorare perché la Campania emerga per le sue eccellenze, e non solo per i rifiuti. Domani in Consiglio dei Ministri porteremo un DPCM che supporta l’attuale Commissario nell’avviare un grande processo che porti a soluzione questo problema. Un problema che è contemporaneamente di emergenza e di “regime”. L’emergenza la dobbiamo affrontare come Governo, perché non ci sono le condizioni affinché il commissario proceda da solo. Dopodi-ché, risolta l’emergenza, potremo con serenità pensare a risolvere il problema “a regime” dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani. E questo a mio avviso va fatto trasferendo ai cittadini la conoscenza dell’intero processo e cercando di concertare le decisioni.

La concertazione come metodo serve a cam-biare la mentalità rispetto ai problemi, e questo vale in tutti i settori, non solo nella Pubblica Amministrazione.

Io credo che il problema della modernizzazio-ne e della riforma della P.A. vada affrontato da tutti i punti di vista, tecnologico, organizzativo, legale, politico. In una grande riforma non esiste un aspetto che è più importante dell’altro. Il suc-cesso verrà se ciascun aspetto sarà stato oggetto di una analisi attenta e una soluzione corretta.

Docente ordinario di Sociologia Politica, Università degli Studi di Palermo

Lo sforzo di modernizzare il paese non può che passare attraverso la sforzo di modernizzare le istituzioni, e in particolare la P.A.. Questa non è un’esigenza che nasce oggi. In Italia per molto tempo le riforme amministrative sono state ferme o dormienti. Successivamente, tutti gli anni ’90 sono stati caratterizzati da una sorta di impetuoso processo di riforma amministrativa. Come ha sottolineato il ministro Nicolais, tuttavia, oggi le frontiere della tecnologia sono in condizione di superare e rendere obsolete anche riforme relativamente recenti, e che non sono state neanche applicate appieno. In questo senso la tecnologia può darci un doppio aiuto: migliorare la situazione ed intervenire anche laddove ci sono state e continuano ad esserci, soprattutto in alcune zone del paese, forti resistenze. L’autocertifi-cazione è un esempio: tuttora ci sono parti del paese in cui essa non viene accettata, e tutto sommato vi è anche una ratio in questo, perché in alcune zone non ci si fida facilmente.

Invece proprio attraverso i sistemi informatici, resi naturalmente invulnerabili all’hackeraggio, si potrebbe compiere un ulteriore passo in avanti superando certi problemi che invece appaiono insu-perabili. Per certi versi l’aspetto tecnologico è quello che maggiormente ci lascia sperare, perché gli altri due ordini di problemi delineati dal ministro sono in realtà più difficili da aggredire. Le tecnologie, che un tempo sembravano essere scarsamente alla portata delle amministrazioni, con difficoltà, tempi diversi, e non dovunque alla stessa maniera, stanno invece penetrando nel sistema amministrativo, accompa-gnandone la modernizzazione. Dalle tecnologie, pertanto, arriva un messaggio di speranza plausibile, perché purtroppo molto spesso nel nostro paese gli slogan sulla riforma amministrativa, pur giusti e corretti nel loro messaggio, si sono poi scontrati con lo scoglio dell’inerzia, della resistenza, oppure del fatalismo. Vorrei aggiungere un altro elemento di riflessione. Modernizzare il paese vuol dire, natu-ralmente modernizzarlo nella sua totalità, incluso il Mezzogiorno, che è la parte che maggiormente ne ha bisogno. Oggi purtroppo continua ad esserci una questione meridionale, sebbene alcuni colleghi economisti sostengano il contrario. In maniera più sfumata, oppure secondo la metafora ormai abusata

della pelle di leopardo, sicuramente sussiste ancora un divario di sviluppo economico tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. Ma c’è anche un divario di rendi-mento amministrativo. La differenza tra le due italie è anche un divario di rendimento amministrativo ed istituzionale. Anche in questo caso non dico nulla di particolarmente nuovo, ce l’ha insegnato un famoso studio dell’americano Patnam, che studiava le regioni italiane sotto il profilo del rendimento istituzionale ed evidenziava quello che in fondo sapevamo e sappiamo tutti. Il messaggio di Patnam era relativo al “cosa fare”, ma purtroppo è stato interpretato male. Egli infatti sosteneva che il senso civico si è sviluppato in Italia nelle zone dove c’erano i Comuni, e non si è sviluppato nelle zone sotto il dominio dei Normanni. Egli attribuiva dunque un ruolo fonda-mentale alla presenza di senso civico, e secondo me diceva una cosa assolutamente giusta. Ma sostenere che il senso civico e il rendimento istituzionale siano immodificabilmente connessi alla storia mi pare eccessivo, e in realtà la storia recente ci insegna che non è così. Altre parti d’Europa, della stessa Europa mediterranea, come la Spagna e la Grecia, che fino a poco fa venivano considerate realtà inferiori dal punto di vista economico, ma anche sotto il profilo del rendimento amministrativo, in relativamente poco tempo, hanno agganciato la modernizzazione. Esse non soltanto hanno raggiunto traguardi di sviluppo importanti, ma hanno modernizzato le loro pubbliche amministrazioni, pertanto non solo è possibile farlo, ma è altresì possibile farlo in tempi relativamente brevi.

E in effetti è già accaduto che alcuni traguardi siano stati raggiunti. Ad esempio so che nella regione Campania sono stati ottenuti brillanti risultati sul fronte dell’innovazione tecnologica, e questo risulta-to, se non sbaglio, è legato al nome del ministro Luigi Nicolais, in una sua precedente veste di assessore. Su questo fronte alcune esperienze fatte in Campania vengono citate come riferimento in altre regioni. Probabilmente però in quel settore è stato fatto di più che in altre branche dell’amministrazione. Chiaramente l’esperienza che conosco meglio è quella siciliana, ulteriormente aggravata dalla presenza del-la specialità della Regione. La specialità per la Sicilia è stata a mio avviso una catastrofe, e personalmente ritengo che dovrebbe essere abolita, visto che ormai, con la riforma del Titolo V ha perso praticamente tutto il suo significato. La specialità è stata, per la Sicilia, un formidabile freno all’innovazione amministrativa. In realtà è servita a frapporre ulteriori ostacoli alle

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2�Modernizzareil Paese

Riformarele Istituzionie la Pubblica

Amministrazione

riforme. È vero che nella P.A. si segnalano punte di qualità ed eccellenze, che per emergere hanno bisogno di essere valutate. Un sistema di valutazione oggettiva non esiste, ma sicuramente esistono sistemi migliori di altri. La valutazione delle prestazioni amministrative non è una scienza esatta, tuttavia può essere condotta in modo scientifico, con il rigore della metodologia applicata a questo campo. Il meridione è la zona di Italia che più ha bisogno di una riforma amministrativa che sia ulteriore rispetto a quella cartacea.

Infine vorrei aggiungere una cosa. La sem-plificazione amministrativa ha caratterizzato la seconda metà degli anni ’90 ed molto presente oggi nell’azione di governo e del ministero per la Funzione Pubblica. Ma il problema, emerso anche da alcune ricerche da me condotte per l’Assoindustria siciliana e palermitana, è che nella seconda metà degli anni novanta sono stati raggiunti in Italia traguardi che erano anche abbastanza avanzati rispetto al resto d’Europa., come l’analisi d’impatto alla regolazione che è uno strumento molto importante, praticata in pochissimi paesi europei al momento della sua introduzione. Poi però essa, come tanti altri provve-dimenti, è rimasta lettera morta. Sono stati introdotti strumenti importanti, come lo sportello unico per le attività produttive, la dichiarazione di inizio attività e tutte le forme di comunicazione pubblica (ufficio relazioni con il pubblico, la gestione dei siti delle pubbliche amministrazioni, la conferenza dei servizi); tutti istituti importantissimi che di per sé avrebbero dovuto far fare passi in avanti a tutte le pubbliche amministrazioni, tuttavia nella loro applicazione concreta tutti questi istituti hanno incontrato delle forti resistenze. Ad esempio, in Sicilia le Conferenze dei servizi non vengono convocate, oppure vengono paralizzate nella loro attività dal fatto che nessuno vuole assumersi la responsabilità delle decisioni, per cui le sedute vengono convocate e riconvocate senza che si decida nulla. La dichiarazione di inizio attività è paralizzata dal rifiuto di alcuni professionisti a sottoscriverla. Gli sportelli unici per le attività produttive esistono e talora funzionano anche bene, ma in alcune realtà ancora esistono solo sulla carta. La semplificazione prevista da alcune importan-tissime riforme introdotte negli anni ’90 non ha avuto come suo seguito, almeno in alcune realtà del Mezzogiorno, un’applicazione concreta. A ciò si è cercato di dare una soluzione, almeno nelle regioni che erano nell’obiettivo 1, proprio perché si è colto il nesso importantissimo esistente tra modernizzazione

del paese e sviluppo dell’economia, prevedendo degli incentivi di premialità per quelle pubbliche amministrazioni meridionali che adottassero delle innovazioni (sportelli unici, nuclei di valutazione, ecc.). Questi adempimenti sono stati realizzati, e in questo modo è stato possibile presentare a Roma e a Bruxelles la documentazione ad essi relativa, ma purtroppo poi gli uffici non funzionano come dovrebbero. Anche in questo caso dunque, l’effetto è stato negativo.

Purtroppo per le pubbliche amministrazioni vale quello che diceva poco fa Stefano Ceccanti: un sistema difficilmente modificherà se stesso e le regole che lo mantengono in vita. Difficilmente funzionari e dirigenti che abbiano sempre operato in un certo modo troveranno in se stessi e nella loro capacità di autovalutarsi, la forza e le indicazioni per cambiare completamente. Il cambiamento deve in qualche modo venire dall’esterno.

Presidente Unione Industriali della Provincia di Napoli

Io credo che il nostro Paese, almeno per quanto ci riguarda, potrà definirsi veramente moderno solo allorquando avrà prestato la necessaria attenzione alle imprese. Molti degli altri paesi europei, e certamente gli USA, sono più moderni ed avanzati e prestano alle imprese un’ attenzione maggiore che in Italia. Le imprese costituiscono la variabile attraverso la quale, più che mai, si misura il grado di sviluppo di un paese. Credo pertanto che sia necessario indirizzare verso le imprese la dovuta attenzione, e consentire loro di nascere, crescere, lavorare efficientemente e fare il loro dovere, che è quello di produrre la migliore qualità al miglior prezzo e nel miglior modo possibile, senza dover disperdere tempo e risorse in pratiche burocratiche. Una misura che andava in questa direzione era l’istituzione dello Sportello Unico. Personalmente credo che sia stata una buona intuizione, tuttavia esso non ha funzionato, perché se da un lato l’imprenditore viene sollevato dall’adempimento di una serie di passaggi burocratici, dall’altro è lo stesso Sportello Unico che deve avere a che fare con una serie infinita di altri interlocutori, per svolgere la sua funzione. Questo, naturalmente, ne inficia la funzionalità. Molto spesso poi, capita che determinati provvedimenti in corso

d’opera vengano abbandonati dalle diverse coalizioni di governi che si avvicendano nel tempo. Un esempio in questo senso è costituito dalle ASI, a suo tempo concepite per prendere determinati terreni agricoli, infrastrutturarli, industrializzarli e affidarli alle imprese. Personalmente non conosco, nella nostra realtà territoriale, terreni che abbiano ancora questa necessità. La funzione di questa struttura è superata, ed essa deve essere modificata nella struttura e nella funzione, oppure semplicemente deve essere eliminata, in modo da abbattere dei costi. Invece per mantenere presidenti e consigli di amministrazione, certi enti seppur inutili rimangono in vita, e questo è solo un esempio della difficoltà del nostro paese ad uscire dalla sua pesantezza burocratica. Il governo attuale ha dato segnali significativi, ma è doveroso chiederci quanta parte dei provvedimenti varati dal ministro Bersani abbiano poi trovato una effettiva attuazione. Il provvedimento di maggior interesse per noi imprenditori, quello cioè che tendeva a ridurre il numero dei consiglieri di amministrazione delle aziende municipalizzate, non ci sembra che abbia trovato attuazione, per lo meno nella nostra città. Esiste un problema tra il governo centrale, che dispone misure per modernizzare il paese, e chi deve poi provvedere all’attuazione, e questo meccanismo necessita probabilmente di un aggiustamento. Bisogna in qualche modo obbligare all’attuazione. Il progetto del ministro Nicolais e il grande rilievo che vi assume la meritocrazia, dovrebbe a mio avviso essere applicato anche a livello di consigli comunali e regionali. Troppe volte abbiamo sentito le opportune lamentele del sindaco, a proposito delle troppe assenze in consiglio comunale. Un sistema di meccanismo premiante e penalizzante, secondo me, dovrebbe riguardare anche i consiglieri eletti. Come diciamo spesso in Confindustria, la politica rappre-senta oggi la prima industria del paese, per spesa e numero di addetti, ci sembra giusto perseguirne un miglioramento dell’ efficienza. Poco fa Stefano Fassina ha ricordato alcuni investimenti e modifiche strutturali realizzate negli anni ’70. Quello che però ha tralasciato di dire è che negli anni ’70 l’Italia ave-va un avanzo primario di bilancio che gli consentiva anche di sbagliare. Oggi purtroppo questo avanzo non c’è, anzi c’è un disavanzo cronico del 7-8%, e non ci è più concesso fare errori. Negli ultimi anni poi si è registrato un aumento della spesa corrente per la Pubblica Amministrazione, e dunque questo meccanismo è ben lontano dall’essere stato corretto. La spesa pubblica è arrivata al 48,5% del PIL, e il

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�0 Modernizzareil PaeseRiformarele Istituzionie la PubblicaAmministrazione

40% di questa è rappresentato da spesa corrente. Il problema tuttavia, a mio avviso, non è tanto quello della spesa, ma quello della resa. Se la spesa pubblica aumenta ma la macchina pubblica funziona, tutto sommato la cosa è tollerabile. Ma se all’aumento dei costi non corrisponde un miglioramento della macchina amministrativa, allora occorre cambiare qualcosa. Stesso discorso vale per le imposte: potrem-mo anche essere contenti di pagarne di più, a patto però di ricevere in cambio servizi efficienti. È chiaro poi che l’elevata spesa per la Pubblica Amministra-zione toglie risorse agli investimenti, soprattutto in ricerca ed infrastrutture, pur necessari alla crescita del paese. Parlando in termini reali, io credo che noi abbiamo perso una grande occasione: il precedente governo, che ha governato per cinque anni, aveva tutti i numeri in Parlamento per poter modernizzare il paese. La maggioranza era la più forte da trent’anni a questa parte, ma ben poco è stato fatto. Poco si è fatto anche per l’Università, e a questo proposito va aggiunto che in Italia ne stanno nascendo troppe, e che non creano poi tra loro una concorrenza reale. È vero che in Italia l’università è poco sostenuta, ma è altrettanto vero che negli Stati Uniti le università si mantengono coi proventi di quello che viene prodotto dal lavoro e dalla ricerca di insegnanti, ricercatori e studenti. Basta pensare all’università di Stanford, dalla quale sono nate 2400 imprese, tra le quali colossi come HP, e più recentemente Google. Tornando al discorso della P.A., le cifre parlano chiaro: il costo degli adempimenti burocratici per le piccole e medie imprese sta avvicinandosi alla soglia dei 15 miliardi di euro l’anno, oltre un punto di PIL, e sono tutte risorse sottratte agli investimenti; per avviare un’impresa occorrono più di 80 autorizzazioni, neanche in India, paese notoriamente molto burocratizzato, è così; i costi per avviare un’impresa, secondo stime della Banca Mondiale in Italia sono superiori ai 4000 dollari, contro i 350 dollari della Francia e 200 dollari degli Usa. Danimarca e Svezia hanno costi ancora più bassi. La differenza è altrettanto abissale riguardo ai tempi, in Italia occorrono 62 giorni lavorativi, contro i 4 della G.B. per aprire un’impresa. Vorrei concludere sull’esasperazione locale. È vero che a Napoli dilaga l’abusivismo, ma è altrettanto vero che procedere per le regolari vie amministrative, anche solo per fare una ristrutturazione in un appartamento, richiede almeno due anni di pratiche burocratiche. Questo naturalmente aumenta i costi per i vigili urbani, per le procure della Repubblica e per tutta la macchina amministrativa.

Infine, tornando sulla questione della meritocra-zia, credo che un altro punto su cui deve essere posta l’attenzione debba riguardare gli operativi, ossia quei dirigenti che gli assessori si portano con sé all’interno delle strutture. A mio avviso occorrerebbe verificare

che il loro livello di preparazione sia adeguato alla funzione. Troppo spesso, invece, si portano con sé persone nelle quali si ripone fiducia per motivi personali, ma che non sono adeguate agli incarichi che vanno a rivestire.

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��MONDO

La Dichiarazione di Berlino, redatta in occasione del cinquantesimo anniver-

sario della firma dei Trattati di Roma, si è posta l’obiettivo di “dare all’Unione europea entro le elezioni del Parlamento euro-peo del 2009 una base comune rinnovata”�. Fortemente orien-tata al perseguimento di tale obiettivo, il cancelliere Angela Merkel, in una lettera inviata ai leader dell’Unione Europea, ha elencato dodici punti di discussione per un nuovo Trattato, che contengono modifiche formali al “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” finalizzate al raggiungimento di un compromesso dignitoso sulle riforme istituzionali e ad un ammorbidimento delle posizioni degli euroscettici intransigenti. L’infittirsi delle con-sultazioni bilaterali tra la presidenza tedesca e i leader europei, dovrebbe consentire di presentare un progetto di Trattato più o meno condiviso al Consiglio europeo di giugno, che a sua volta dovrebbe indire una Confe-renza Intergovernativa che completi i lavori entro la fine del 2007, per poi lasciare più di un anno di tempo agli Stati membri per il processo di ratifica prima delle prossime elezioni europee.

Senza entrare nel merito dei potenziali esiti di questo program-ma, ritengo che la ricostruzione del dibattito sul futuro dell’Europa presenti diverse sfumature a seconda dell’angolatura visuale adottata. Se dal punto di vista politico l’intesa a ventisette non sembra impresa facile, e si prospetta un intenso e faticoso lavorio diplomatico finalizzato al buon esito del negoziato, dal punto di vista istituzionale il lavoro della Merkel potrebbe esser facilitato dalle innumerevoli proposte concrete di riforma scaturite da esponenti del mondo politico, accademico e istituzionale.

Sul panorama politico, dun-que, sembrano trapelare minacce di veti incrociati e arroccamenti intransigenti sulle singole posizioni

1 Per un’analisi sulla dichiarazione di Berlino si veda A. Pierucci, Davvero l’Unione è di nuovo in scena, “Mezzogiorno Eruopa”, Marzo/aprile 2007.

nazionali. La Gran Bretagna, che già nei precedenti negoziati aveva predisposto una serie di red lines che non era disposta ad oltrepassare, ha recente-mente presentato, “nel corso delle riunioni dei cosiddetti “focal points” organizzati dalla presidenza Merkel, ben dodici punti irrinunciabili, tra cui l’op-posizione alla Carta dei diritti,

l’allargamento del diritto di veto, il no alla personalità giuridica e così via boicottando”�. Ancora più aspra la posizione del leader dei conservatori britannici David Cameron, convinto che il Trattato costituzionale è ormai “defunto” e che l’Unione europea, piuttosto che su logiche di ingegneria istituzionale, farebbe meglio a con-centrarsi sull’attuazione di politiche concrete per affrontare tre grandi problematiche, il riscaldamento climatico, la mondializzazione e la povertà nel mondo�. Al coro di eu-roscettici si aggiunge l’Olanda, che, affiancata dalla Repubblica Ceca, ha esplicitamente chiesto che l’Ue rinunci a tutti gli elementi simbolici, termine “Costituzione” compreso, che evochino derive statualistiche dell’Unione e ha precisato che un testo senza modifiche di sostanza non potrà essere presentato ai cit-tadini per un nuovo referendum. La Polonia è ancora decisa a difendere, pur con qualche correttivo, il sistema di ponderazione dei voti previsto a Nizza, che rispetto al principio della doppia maggioranza previsto dal Trattato costituzionale, la pone in una situazione di vantaggio all’interno del Consiglio.

Per fronteggiare tali posizioni, il Presidente Romano Prodi ha criticato “certi appelli al realismo, tipici della vigilia di un Consiglio europeo importante, immancabil-mente orientati verso compromessi al ribasso”, sostenendo che, nel caso in cui il compromesso cercato fatico-samente da Angela Merkel dovesse

2 S. Sergi, Costituzione Ue: un gruppo di saggi tenta il compromesso, “L’Unità”, 5 giugno, p. 13.

3 Da lui denominate 3G Europe (Glo-balisation, Global warming, Global Poverty), in D. Cameron, The EU: A New Agenda for the 21st Century, Discorso tenuto a Bruxelles il 7 marzo 2007.

Costituzione europea

Proposte a confrontoBarbara Guastaferro

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�4essere “tanto minimalista da risultare inaccettabile… un’avanguardia di Paesi potrebbe a quel punto rivelarsi il modo migliore per proseguire il percorso verso un’Unione sempre più stretta”. Il Presidente del Consi-glio ha inoltre dichiarato che l’Italia è pronta a mettere il veto contro qualsiasi Costituzione che non pre-servi cinque riforme giudicate essen-ziali: “il rafforzamento della politica estera attraverso la creazione di un Ministro degli Esteri europeo, una presidenza stabile del Consiglio, l’estensione del voto a maggioranza qualificata, il superamento della struttura decisionale su tre pilastri e l’acquisizione della personalità giuridica dell’Unione”�.

Passando ad analizzare il quadro delle riforme istituzionali, va ricor-dato che in occasione del Consiglio europeo del giugno 2005 i Capi di Stato e di Governo avevano invi-tato ad un “periodo di riflessione”, durante il quale istituzioni europee, parlamenti nazionali, società civile e cittadini avrebbero dovuto dibat-tere sul futuro politico-istituzionale dell’Europa, al fine di superare l’im-passe generata dall’inaspettato esito negativo dei referendum francese e olandese preposti alla ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 28 ot-tobre del 2004. Bisogna riconoscere che questa pausa è stata foriera di spunti riflessivi e di proposte opera-tive concrete, che proverò a passare brevemente in rassegna senza alcuna pretesa di esaustività.

La proposta di Nicolas Sarkozy, non scaturita tuttavia in alcuna proposta di riforma organica, è stata quella del “mini-trattato”, ovvero di un testo molto ridotto rispetto al

4 A. Bonanni, Prodi rilancia la Ue a 2 velocità”, “La Repubblica”, 23 maggio 2007. Le suddette riforme, insieme all’adozione della Carta europea dei diritti fondamentali, erano già state considerate prioritarie dal Ministro degli Esteri Massimo D’Alema che, auspicando un accordo entro la primavera del 2009, si era soffermato anche sulla necessità di una revisione più rapida delle politiche dell’Unione e una decisione limpida ed esplicita sui confini esterni dell’Ue, in M. D’Alema, Relancer l’Eu-rope. Les responsabilités des governments, les enjeux puor la gauche, discorso pronunciato presso l’Istituto di Studi Europei dell’Università Libera di Brussels, 12 Febbraio 2007.

Trattato costituzionale, che espun-gesse da esso le riforme principali, necessarie al buon funzionamento dell’Unione, tra cui l’estensione del voto a maggioranza qualificata e l’introduzione di una maggioranza super-qualificata in settori delicati,

quali la politica fiscale, in cui non è possibile introdurre una maggioranza semplice, ma non è auspicabile che continui a sussistere l’unanimità�.

5 H. Mahony, All eyes on Sarkozy during first Brussels visit, 23/05/2007, http//:euobserver.com

Il Presidente della delegazione dell’Assemblea Nazionale france-se per l’Unione europea, Pierre Lequiller, ha invece suggerito di non discostarsi eccessivamente dal difficile compromesso raggiunto nel 2004, anche sulla base del fatto che i 18 stati che hanno ratificato rappre-sentano il 56 per cento dell’Unione a 27�. Lequiller ha inoltre elaborato un’articolata proposta che invita ad affrontare in maniera distinta il dibattito sulle riforme istituzionali e quello sulle politiche dell’Ue�. Mentre la discussione sulle politiche dovrà coinvolgere attori istituzionali e società civile in un ampio dibattito democratico sul lungo periodo, è ne-cessaria a breve termine una riforma istituzionale, da concretizzarsi in un nuovo testo più snello che riprenda per intero la parte I del Trattato costituzionale, arrichendola di tutte le singole disposizioni della parte III che sono funzionali all’attuazione della parte I�.

Il 4 giugno a Bruxelles, è stata invece presentata la strategia di rilancio del Trattato costituzionale voluta dal Ministro Giuliano Amato, che propone un Trattato semplificato messo a punto da un gruppo di 16 “saggi” denominato “Comitato di azione per la democrazia europea”, con il sostegno dell’Istituto Europeo di Fiesole�. Il testo si compone di soli 70 articoli (contro i 448 del testo firmato nel 2004) e fa salvi del precedente compromesso la personalità giuridica dell’Unione, l’estensione del voto a maggioranza, il cui computo tenga co-

6 Germania, Austria, Belgio, Cipro, Spagna, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Slovenia, Slovacchia, Romania, Bulgaria.

7 P. Lequiller, Comment sortir de l’im-passe. Un traité institutionnel pour l’Europe, Pubblicazione della Fondazione Robert Schu-man, n. 39, Gennaio 2007.

8 Ad esempio, l’estensione del voto a maggioranza qualificata nell’ambito della Pesc (attuale articolo III-300), andrebbe inserito nell’articolo I-40, che contiene Disposizioni particolari relative alla politica estera e di sicurezza comune; la cooperazione strutturata in materia di difesa (attuale articolo III-312), an-drebbe inserito nell’articolo I-41 che contiene le Disposizioni particolari relative alla politica di sicurezza e di difesa comune.

9 Il testo integrale e le note esplicative sono completamente disponibili sul sito http://www.eui.eu/RSCAS/Research/ACED/

MONDO

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��munque in considerazione il diverso peso demografico degli stati membri, la creazione di una presidenza stabile dell’Unione e di un rappresentane unico per la politica estera. La Carta dei diritti verrà stralciata dal testo del trattato che tuttavia rinvia ad essa e ne riconosce il valore giuridicamente vin-colante, e tutte le ulteriori e necessarie modifiche ai trattati esistenti saranno raccolte in due distinti protocolli, uno relativo alle politiche e l’altro alle istituzioni dell’Unione�0.

Meritevole di attenzione anche l’iniziativa dell’Istituto Affari Inter-nazionali per il rilancio del Trattato costituzionale europeo promossa dal suo Presidente d’Onore, Carlo Azelio Ciampi��, che propone un Trattato “a due livelli”, distinto in due blocchi normativi: un “Trattato Base” (o “Legge Fondamentale”), che raccoglie in modo conciso e visibile i tratti distintivi ed i principi costitutivi dell’Unione, ed un “Accordo” (o Con-venzione o Protocollo) contenente una “Legge Organica”, concepita quale mera risistemazione e sempli-ficazione di norme già esistenti. A differenza della “legge fondamenta-le”, che in qualche modo riproduce la parte I del Trattato che adotta una Costituzione dell’Europa, per la quale è contemplata una procedura di revisione all’unanimità, la “legge organica”, che sostanzialmente ri-produce la parte III del Trattato che adotta una Costituzione dell’Europa, verrebbe “decostituzionalizzata”. La revisione delle disposizioni relative alle politiche dell’Unione sarebbe quindi suscettibile di esser effettuata attraverso procedure più snelle.

Le suddette riforme, per quanto dissimili, hanno in comune l’intento di semplificare il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa e quindi in un certo senso di enucleare dal precedente testo alcuni utili ingra-naggi istituzionali. Tale orientamento si pone quindi in distonia con un altro approccio affermatosi nel corso del

10 A. Bonanni, Amato rilancia la Co-stituzione Ue, “La Repubblica”, 5 giugno 2007, p. 25.

11 G. L. Tosato e G. Bovincini (a cura di), Una strategia italiana per il rilancio del Trattato costituzionale europeo, Roma, IAI, maggio 2007.

dibattito sul futuro dell’Europa, che reputa invece più opportuno partire dal Trattato costituzionale per poi “aggiungere” le riforme necessarie ad un futuro compromesso, ed è pertan-to stato etichettato quale “Costitution plus”. Infatti, Andrew Duff, membro

della Commissione Affari Costitu-zionali del Pe ed ex membro della Convenzione europea, ha presentato un nuovo pamphlet, intitolato “Con-stitution-plus”��, che riprende quanto

12 A. Duff, Constitution Plus: renegotiating the treaty, TEPSA, Febbraio 2007.

espresso in una precedente pubblica-zione che proponeva un “Piano B” per salvare il Trattato Costituzionale�� che tenesse conto delle principali cri-tiche espresse dall’opinione pubblica e causa scatenante dell’esito negativo nei referendum del 2005. La proposta intende preservare parte I del Trattato Costituzionale e allegare ad essa la Carta dei diritti, immutata nella so-stanza e nella forma giuridicamente vincolante. Per quanto riguarda le modifiche da apportare alla parte III, annovererei la semplificazione della procedura di revisione della parte III, le cui disposizioni dovrebbero poter entrare in vigore con la ratifica dei 4/5 degli Stati membri; la ridefinizione degli obiettivi economici dell’Ue, comprensivi sia delle priorità della Strategia di Lisbona che del richiamo alla dimensione sociale dell’integra-zione europea, la creazione di un nuovo capitolo dedicato alla politica di allargamento, alle procedure di adesione e alla politica di vicinato; la revisione della politica comune dell’energia; il rafforzamento della governance economica attraverso l’istituzionalizzazione dell’Euro-gruppo. Duff auspica infine che la CIG responsabile delle riforme istituzionali dovrà coinvolgere il Pe secondo una procedura di codeci-sione costituzionale.

Un orientamento non dissimile è stato riscontrato nella riunione ministeriale degli “Amici della Co-stituzione”, svoltasi a Madrid il 26 gennaio 2007 su iniziativa di Spagna e Lussemburgo��, che ha raccolto i 20 paesi (i 18 paesi membri dell’Ue che hanno già ratificato il Trattato costi-tuzionale più Irlanda e Portogallo) desiderosi di preservare in buona parte sia il contenuto politico che gli equilibri istituzionali presenti nel testo firmato a Roma nel 2004. Un segnale di apertura è stato tuttavia lanciato ai paesi che non hanno ratificato il trattato, manifestando sia la disponibilità ad apportare mo-difiche al testo (sotto forma tuttavia

13 A. Duff, Plan B: How to Rescue the European Constitution, Notre Europe, Studies and Research n. 52, Ottobre 2006.

14 Per i dettagli si veda A. Navarro e N. Schmit, Pour une Europe meilleure, Madrid 26 gennaio 2007.

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��di protocolli aggiuntivi piuttosto che di emendamenti demolitori della sostanza del Trattato costituzionale), che invitando gli stessi ad avanzare critiche puntuali al testo attuale e concrete proposte alternative.

Qualunque sia l’esito del nego-ziato, occorre ricordare le parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per cui “lavorare alla Costituzione per l’Europa non ha rap-presentato un esercizio formalistico, non ha rappresentato un capriccio o un lusso: ha corrisposto a una profonda necessità dell’Europa nell’attuale mo-mento storico. Né si può proporre oggi come visione e strategia alternativa quella dell’Europa dei progetti o dei risultati”��. Senza una solida e corag-giosa riforma istituzionale, l’Unione europea resterà un corpo asfittico incapace di agire. Tuttavia, se c’è un dato che a mio avviso emerge dalla pur sommaria ricostruzione del dibattito sul futuro dell’Unione europea, quello è la ritrosia dell’Europa a discostarsi dall’affascinante processualità del divenire e a rinunciare alla logica della modifica per incrementi. L’opposizione forte di alcuni paesi al termine “Costitu-zione” e con esso a tutta la complessa simbologia della statualità (molte delle proposte cassano inno, preambolo e bandiera) dimostra che la “scorciatoia politica” in un percorso geneticamente connotato dal gradualismo risulta quasi sempre fallimentare��.

Nonostante la “Costituzione per l’Europa” può esser distinta dalle costituzioni classiche, non si presenta come giacobina fonte di cesura con il passato ma riesce a rastrellare e sussumere in sé trascorsi politico-isti-tuzionali sedimentati prima di proiet-tarsi al futuro, bisogna ammettere che “non sempre…i tentativi di dare all’Europa una Costituzione, hanno avuto presente la dimensione della

15 G. Napolitano, Discorso del Presi-dente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della visita al Parlamento Europeo, Strasburgo, 14 febbraio 2007.

16 Analogie sono ravvisabili nella sto-ria comunitaria. Si pensi al fallimento della “Comunità Europea di Difesa” nel 1954, cui seguirono i Trattati di Roma del 1957, dall’im-pronta meramente economica, ed il “Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea”, presentato da Altiero Spinelli nel 1984, cui seguì la proposta più modesta dell’Atto Unico Europeo nel 1986.

continuità...Non stupisce quindi che tale movimento abbia incontrato più opposizione che consenso e destato più sospetti che simpatie. Se infatti il concetto di Costituzione resta legato ad una dimensione rivoluzionaria, di cambiamento radicale, di transu-stanziazione istituzionale, tale per cui—ad esempio—il processo di in-tegrazione diventa altro da sé e dalla sua storia, è naturale che esso desti non solo forti antagonismi di stampo ideologico, ma anche le ansie e le paure di chi teme nel lasciare il porto sicuro della sovranità nazionale”��.

È per questo che i leader e gli studiosi cimentati nella riforma istitu-zionale, pur di salvare la sostanza del Trattato Costituzionale, e raggiungere un’intesa tra i ventisette, hanno pre-ferito rinunciare alla forma, eviden-ziando che si era di fronte ad un caso in cui nomina non sunt substantia rerum, non essendo il testo firmato a Roma una Costituzione a pieno titolo. È singolare notare che durante i precedenti negoziati, fu avallato il ragionamento opposto. Non essendo-vi nel contesto europeo alcun demos, né, per dirla con Haberamas, alcun “contrassegno ascrittivo dell’origine” a fungere da ancoraggio identitario, la Convenzione aveva espunto dalle ca-tegorie della scienza giuridica classica un termine, “costituzione”, dotato di un indiscutibile plusvalore simbolico e pertanto potenzialmente in grado di avvicinare il cittadino al percorso comunitario. Va infatti ricordato che la Dichiarazione di Laeken del 15 dicembre 2001, mandato formale della Convenzione, parlava semplice-mente di un “documento finale” che avrebbe dovuto “costituire il punto di partenza per i lavori della Conferenza intergovernativa”��, mentre è stata la Convenzione a voler introdurre il termine Costituzione accompagnan-do così semanticamente lo sforzo dell’Unione di darsi un’esistenza politica democratica e allo stesso tempo legittima. Anche se “da vici-no” il corpo normativo frutto di una

17 L. Violini, La Costituzione europea tra passato e presente, in U. De Siervo (a cura di), “Costituzionalizzare l’Europa ieri ed oggi”, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 78-79.

18 J. Ziller, La nuova Costituzione euro-pea, Bologna, il Mulino, 2003, p.48.

riuscita razionalizzazione e sempli-ficazione dei trattati si configurava quale trattato, la Convenzione aveva guardato “lontano” utilizzando un termine dotato di straordinaria forza evocativa nell’intento di fornire valore aggiunto alla costruzione europea. Ex post facto, possiamo concludere che quella che definirei la “presbiopia” dei membri della Convenzione non ha sortito gli effetti sperati, finendo

per risvegliare sopiti animi sciovini-sti. E che pertanto la genialità del processo comunitario resta quella di costituirsi quale “immenso processo orizzontale tenuto insieme proprio dalla sua permanente qualità costi-tuente, che però non sembra poter diventare condizione per un potere costituente”��.

19 B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002, p. 203.

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Europa, democrazia, libertà. E ingresso della Turchia nell’Unione. Di questo e di altro parliamo con Khaled Fouad Allam. Docente di Sociologia del mondo musulmano e di Storia e istituzioni dei paesi islamici all’Università di Trieste e di “Islamistica” all’università di Urbino, Fuad Allam si occupa da anni di Islam contemporaneo, di questioni relative all’immigrazione e di nuovi diritti di cittadinanza.

Il grande cambiamento che sta avvenendo in Europa – ci dice il nostro illustre interlocutore – è rappresentato dal pluralismo che si sta facendo strada all’interno di un sistema democratico, e a mio avviso non si può discuterne: o si accetta o si rifiuta. Nel caso della Turchia bisogna assicurare la libertà religiosa, la non discriminazione fra uomini e donne, e tutto ciò che ha a che fare con le libertà. Ecco: lo standard, il punto di incontro deve essere quello delle libertà e su questo non bisogna as-solutamente cambiare rotta. Perché è da lì che nasce tutto il resto. È dal paradigma delle libertà democratiche che può veramente essere costruito uno spazio democratico e uno spazio di modernizzazione della Turchia.

“La libertà – prosegue Fouad Allam – è fondamentale. Uno scritto-re deve poter scrivere senza temere di essere incarcerato, le minoranze devono essere rispettate. L’Europa oggi è questo ed ha im-piegato secoli per arriva-re a un traguardo tanto importante.

“È fondamentale, poi, capire che non c’è alternativa all’Europa. Quale potrebbe essere, oggi, l’alternativa? Lo stato nazione? Non cre-do: la globalizzazione obbliga a definire delle architetture regionali, si vede benissimo, ciò sta avvenendo anche altrove…”.

Da chi, come lei, nato in Algeria ma resi-dente in Italia dal 1982, dopo aver vissuto in

Marocco e Francia, è strano sentir parlare dell’esistenza di marcate “frontiere simboliche”. La questione è molto complessa, perché interroga la cultura ma anche la politica…

Ho iniziato a parlarne qualche anno fa, quando, in seguito alla ca-duta del muro di Berlino, mi interro-gavo sul perché scoppiassero sempre nuovi focolai di guerra. All’epoca abitavo a Trieste, ai confini con la ex Jugoslavia, e cercavo di capire il perché di continue violenze tra sloveni, bosniaci, musulmani, serbi ... Volevo definire una griglia di lettura e capii così che eravamo in realtà al tramonto di quel paradigma politico che aveva dominato il periodo prece-dente gli eventi del 1989. Si trattava di un paradigma di matrice essenzial-mente illuministica e profondamente legato all’universalismo, che vedeva

nell’idea di “eguaglianza” l’elemento che attraversava tutta la geografia mondiale. La caduta del muro di Berlino mette però fine a questo schema universalistico: entriamo in un altro paradigma della politica, che ha a che fare invece con le religioni, le lingue, le culture. Non a caso c’è una parola che nei giornali degli anni Novanta è utilizzata con frequenza quasi ossessiva: “etnia”. Una volta era conosciuta soltanto da noi esperti di scienze sociali: entra ora con prepo-tenza nel dibattito pubblico.

Si vede benissimo come politica-mente la griglia di lettura per spiegare la violenza si sia allora basata sulle diversità, l’appartenenza ad “etnie”, appunto, diverse. “Etnia” vuol dire tutto e il contrario di tutto: vuol dire lingua, religione ma anche in senso più lato parliamo spesso di etnie, nel riferirci ai musulmani in Bosnia si

parla spesso di “etnia musulmana” ad esempio, e questo la dice lunga sul fatto che dopo il 1989 assistiamo al buio totale. Questo buio lo riscontro ancora oggi: è per questo motivo che parlo, in riferimento allo stato attuale delle relazioni internazionali, di as-senza di una “grammatica delle rela-zioni internazionali”. Un tentativo di comporre una grammatica in questo campo fu operato quando si fondò la Società delle Nazioni o dopo, con le Nazioni Unite, e la si basò, appunto, sull’universalismo. Poi vediamo che questo paradigma scompare. Il para-digma di riferimento, che dovrebbe servire oggi come base per una nuova grammatica delle relazioni in-ternazionali, dovrebbe essere basato invece sulla democrazia. Ma non una democrazia da “esportazione”, este-sa cedendo la parola ai carri armati, come hanno fatto e continuano a fare gli americani. Una democrazia deve necessariamente legarsi e fondersi con le culture locali: posso essere scintoista ed avere comportamenti democratici! Perché, fra la tirannia e la libertà, l’uomo preferirà sempre la libertà. Ma questa va costruita, combattendo l’imperante visione “etnica”, che rischia inevitabilmente di diventare una visione fondamenta-lista, soprattutto se riferita all’islam.

Ma c’è anche un “islam mo-derato”…

La definizione di “islam moderato”, l’idea stessa di un islam “mo-derato” non mi piace, la trovo pericolosa. Islam moderato significherebbe che simmetricamente è altrettanto legittima l’esistenza di un islam “ra-dicale”, violento. Poi mi chiedo: chi decide dove inizia l’islam moderato? In nome di chi? Di che cosa? Quando un musul-mano può essere definito “moderato”? Io ritorne-rei al mio paradigma: la democrazia! C’è chi è democratico e chi non lo è. Se si è democratici è

Colloquio con Khaled Fouad Allam

Europa, democrazia,

libertàEliana Capretti

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evidente che a livello religioso, anche in una comunità musulmana, si avran-no comportamenti democratici.

Come per la Turchia in Europa: è necessaria un’autentica democra-tizzazione del paese…

Si, ed è indispensabile che si comprenda che è meglio averla in Europa che il contrario! Certo, non è facile perchè pone dei problemi di ordine identitario ma non solo. Dipende da come misuriamo l’archi-tettura dell’Europa: se ci basiamo su delle frontiere territoriali, geografiche e culturali oppure andiamo oltre tutto questo. Ma non mi pare che l’Euro-pa debba basarsi su delle frontiere territoriali e culturali, perché allora i

musulmani dove li mettiamo? Dob-biamo fare le valigie? È pericoloso! Bisogna fondarsi sui valori, i valori fondanti della storia europea, che per me rappresenta la lunga e lenta crescita verso la democrazia.

Ma la prospettiva dell’ingresso della Turchia nell’Unione suscita ansie molto forti, come spiegare che la Turchia non rappresenterebbe una minaccia?

Il cambiamento è sempre una svol-ta radicale, ha in sé un qualcosa di vio-lento, come la nascita di un bambino: l’espulsione dal corpo della mamma è un momento drastico e violento. È così: se si vuole un cambiamento, non bisogna temere il trauma iniziale. Ogni

cambiamento è un trauma! Lo insegna l’antropologia: sono riti di passaggio.

Libertà, diritti, tutela delle minoranze. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto come mai, secondo lei, la Turchia ha così tante difficoltà a riconoscere il genocidio degli Armeni ad esempio?

Perché il nazionalismo turco che ha dato vita allo Stato Turco negli anni Venti si è basato su una posizione antitetica rispetto all’Ar-menia. Era un nazionalismo di tipo etnico ed è necessario che la Turchia oggi lo superi incanalandolo in una prospettiva più inclusiva. È una questione molto delicata. Credo però che le cose debbano venire da

loro, dal profondo loro, perché se li obblighiamo funzionerà solo a metà. Come per noi algerini, ad esempio: abbiamo un problema simile con la Francia. Ci sono stati crimini coloniali per più di un secolo ed è giusto che la Francia ci chieda perdono, devono farlo perché non c’è un algerino che non abbia perso un padre, un fratel-lo, un parente. Questo gesto, pero, non può venire dal Presidente della Repubblica Francese, deve venire dal profondo della società francese stessa. Ciò conduce al problema filosofico del perdono nella storia, ed alla sua incidenza nella politica: nei periodi di grande crisi ci si pone dei problemi enormemente culturali e filosofici, che sono fondamentali per affrontare questioni identitarie.

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42Exit la costituzionE: sogniamo un buon trattato

Far di necessità virtù: il progetto costituzionale, che ha infiammato l’Eu-ropa è rinviato a “data da destinarsi”. Ferito dai referendum del maggio 2005, è stato ucciso dai “nemici occulti”, palesatisi subito dopo e contentissimi di rinnegare la propria firma sotto il progetto di costituzione. Bisogna però anche essere realisti, oltre che, giusta-mente, polemici. Infatti, dopo tre anni il progetto presenta degli aspetti un po’ obsoleti e, soprattutto, non si fa carico delle novità politiche, quali quella della rinnovata attenzione al cambio climatico ed all’energia o, ancora, quella di una politica estera dell’Unione che sembra ormai pervadere la scena interna-zionale. Con questo, non dobbiamo pensare che sia un bene che la costituzione non sia passata (sarebbe stata una pietra miliare im-portantissima della costruzione europea), ma dobbiamo inchinarci alla concretezza del dibattito politico.

Perciò ha fatto bene Prodi a annunciare davanti al Parla-mento europeo che l’Italia avrebbe combattuto a fondo la battaglia di un nuovo Trattato, fondato, tuttavia sui principali risultati del negoziato costituzionale. Il Parlamento europeo ha applaudito chia-ramente Prodi (non so chi abbia inventato la balla del Parlamento freddino e del boicottaggio dei deputati della Casa delle Libertà) e la sua strategia di negoziare a partire, appunto da questi risultati, pronto, se non ci sarà un accordo decente a riproporre l’Europa a due velocità. Su questo torneremo. Per ora, mi preme segnalare che lo stesso Parlamento europeo ha applaudito il giorno dopo il “terri-bile” Balkenende, primo ministro olandese, considerato un grande avversario della costituzione dopo il referendum negativo nel suo paese, perché ha fatto una convinta professione di fede europeista, ponendo un “veto” solo sul termine costituzione, sui simboli europei quali bandiera e inno, che, a suo parere non dovrebbero essere iscritti nel nuovo Trattato. Il Parlamento europeo (un Trattato più, contrap-posto al minitrattato), il Comitato economico e sociale europeo ed il Comitato delle Regioni hanno approvato (rispettivamente il 6 giugno, il 24 maggio e ancora il 6 giugno) delle risoluzioni abbastanza decise circa la natura del negoziato da farsi. In sostanza, la posizione dei tre organi, con sfumature diverse, è analoga. Il nuovo Trattato dovrebbe comprendere il primo titolo della costituzione (in sostanza le riforme istituzionali, compreso nel settore della politica estera), il secondo,

cioè la Carta dei diritti fondamentali ed il quarto, le disposizioni finali. Inoltre, il Trattato dovrebbe ri-prendere alcune modifiche del titolo III (le politiche) e includere fra le competenze comunitarie le nuove politiche, in particolare in materia ambientale e di energia. Il

dibattito, naturalmente ha ripreso i temi ormai tradizionali: rispettare i

risultati dei referendum, ma anche i diritti dei 18 Stati che hanno ratificato

già il progetto di costituzione, evitare ritorni indietro. Su questo, la Commissione

europea è stata nettissima. Il Presidente Bar-roso ha dichiarato che la Commissione non ha

potere decisionale in materia di riforma dei Trattati, ma ha assicurato che non darà un’opinione favorevole

ad un Trattato che torni indietro sull’acquis comunitario o che sia inadeguato; M. Wallström ha insistito a spada tratta sul rispetto

del “metodo comunitario”. Ma se le istituzioni e diversi governi hanno espresso opinioni rassicuranti, vi sono due tipi di pericoli, rappresentati, rispettivamente, dalla Gran Bretagna, da un lato, e dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca, dall’altro. Delle ultime due, bisogna dire che hanno governi, l’una antieuropeo e l’altra almeno euroscettico. La difficoltà polacca mi sembra risiedere nel fatto che il governo non condivide i valori europei, tanto che, in un impeto d’ira, uno dei “due gemelli” ha classificato l’UE fra i nemici della Polonia. Quanto ai diritti fondamentali, l’ideologia della discriminazione do-mina, nei confronti, tanto per cominciare, degli omosessuali e degli ebrei – questi ultimi, secondo un influente europarlamentare vicino al governo, non sarebbero diversi per ragioni razziali, ma, piuttosto, biologiche! Secondo me non ci avevano pensato nemmeno i più accesi antisemiti dei tempi passati. Quanto agli omosessuali, siamo a livelli drammatici.

Infine, c’è l’anticomunismo o, più precisamente, una sua vivace caricatura, se si pensa che hanno chiesto a Geremek, l’ideo-logo di Solidarnosc, di dichiarare che non era un agente dei servizi segreti comunisti. Fortunatamente, la Corte Costituzionale polacca ha bloccato in gran parte la legge sulla “trasparenza” che chiedeva a 750.000 polacchi di dichiarare che non erano agenti dei suddetti servizi. Quanto alla repubblica Ceca, non sembra vis siano atteg-giamenti di questa natura, anche se l’euroscetticismo è piuttosto evidente. Bisogna considerare che, tuttavia, la Polonia si trova ad avere bisogno dell’Unione, specie nelle sue turbolente relazioni con la Russia. Forse il recente vertice con la Russia del mese di maggio, nel quale l’Unione ha difeso efficacemente le ragioni dei paesi mem-bri dell’Europa orientale – il Parlamento europeo ha salutato nella sua sessione di maggio l’atteggiamento fermo dell’Unione – dovrebbero dar da pensare alle autorità polacche.

Euronotedi Andrea Pierucci

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4�La posizione britannica è complessa, non foss’altro che per il cambio della guardia. Su una cosa sembra che ci sia accordo: no alla maggioranza qualificata per diritto del lavoro, politica estera e legge penale. Quest’atteggiamento, tuttavia, può essere interessante, poiché corrobora la posizione italiana dell’Europa a due velocità, per altri versi di difficile realizzazione. Certo, è concepibile, sulla falsariga di Schengen (la cooperazione in materia penale e di polizia) e dell’euRo, che degli Stati non partecipino all’azione comune in questi tre settori.

In sostanza, la Gran Bretagna e, immagino, qualche altro Stato, non parteciperebbero ad azioni in questi settori senza il pro-prio accordo. In questo modo, vo sarebbe una politica del lavoro a venti-venticinque Stati, una politica anticrimine sempre a venti o venticinque Stati ed una politica estera dell’Unione alla quale la Gran Bretagna non sarebbe associata, salvo accordo specifico. Tecnicamente, questa prospettiva rafforza l’idea italiana di un’Europa a due velocità nel caso non si possa raggiungere un Trattato accet-tabile con la partecipazione di tutti. È però difficile immaginare che la Gran Bretagna accetti di dare il suo beneplacito ad una politica comune, dalla quale sarebbe parzialmente esclusa, se s non altro perché perderebbe la sua funzione di ponte (quinta colonna è, invece, un’affermazione estrema) con gli Stati Uniti. Il vertice del 21 e 22 giugno ci dirà qualcosa di più. La presidenza tedesca è ottimista e pensa che ognuno dei problemi posti – compresa la Carta dei diritti fondamentali, voluta dalla stragrande maggioranza degli Stati ed i problemi tecnici di voto in seno al Consiglio, per la soluzione dei quali il primo ministro polacco si dichiara “pronto a morire” – possa essere risolto. Si vedrà se il Consiglio europeo riuscirà a dare un mandato stretto e preciso alla conferenza intergovernativa e se riuscirà a fissare tempi certi.

il g8: chi vincE? Certo, l’Unione europea ha marcato

un punto perché, come al vertice con la Russia, si è presentata piuttosto unita a questo difficile vertice. Non bisogna sottovalutare quest’aspet-to formale, poiché apre prospettive interessanti per l’insieme della politica internazionale. Da qui a dire che l’Unione esce trionfante dal vertice, ce ne passa. La questione dell’energia sembra un successo: si è fatto un accordo planetario. Ma, forse, si tratta anche di una vittoria di Bush, perché c’è l’accordo a rinviare l’accordo (quello vero) a dopo la fine della sua presidenza; per di più, Cina e India hanno sposato questa posizione.

È un bel guaio, perché la dichiarazione di ridurre entro il 2050 (ma le decisioni concrete non si prenderanno che nel 2009) della metà le emissioni inquinanti potrebbe mettere fuori gioco il protocollo di Kioto, che era diventato una bandiera europea. Bisogna dire, però, che i commenti europei, in particolare della Commissione, della presidenza tedesca e del governo italiano, sono entusiastici: c’è un impegno internazionale a ridurre le emissioni ad effetto serra. Meno lusinghieri sono i commenti di Greenpeace e di ambienti delle Nazioni Unite. Sarebbe bene, tuttavia, che l’Unione continuasse a sforzarsi di mettere in pratica le sue decisioni circa l’accordo di Kioto e la politica energetica.Le basi missilistiche americane potrebbero essere dirottate dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca verso l’Azerbaigian, con l’accordo (e sotto il controllo?) della Russia.

Questo leverebbe le castagne dal fuoco all’Unione, piuttosto reticente sul piazzamento sul suo territorio dei missili dello “scudo spaziale”, sia per ragioni interne, sia per evitare un contenzioso ulteriore con la Russia, ma apre uno spazio d’intesa fra la Russia e gli Stati Uniti che dev’essere controllato in futuro dall’Unione. La questione, inoltre, non è affatto conclusa. Tanto per la presidenza tedesca che per la futura presidenza portoghese dell’Unione europea si tratta di una bella sfida; naturalmente, non c’è in gioco solo la relazione UE/USA e Russia, ma anche la coesione interna dell’Unio-ne. Non credo sia un caso che i due paesi dell’Unione individuati

dagli USA siano quelli con governi più fortemente euroscettici; tutt’altro, si tratta proprio di un gioco d’influenze. Questo spiega la severità con cui Angela Merkel, pure non sospet-ta di antiamericanismo, trattò la rapida reazione positiva di questi due paesi alla domanda americana, rivendicando un ruolo del-l’Europa nella decisione. Il G 8 si è poi occupato di Africa, prevedendo impor-tanti stanziamenti. L’Africa è sempre stata, almeno formalmente, una prio-rità europea; tuttavia le promesse non hanno mai dato i frutti sperati. D’altra parte, non vi è una piena concordanza di vedute fra Europa e USA. Non ci resta che sperare bene!

INFO

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4�La rIVISTa SI PUÒ TrOVarE PrESSO:

Le librerie:

Feltrinelli ViaS.TommasoD’Aquino,70NAPOLI–Tf.0815521436 PiazzadeiMartiri–ViaS.CaterinaaChiaia,33NAPOLI–Tf.0812405411 PiazzettaBarracano,3/5SALERNO–Tf.089253631 LargoArgentina,5a/6aROMA–Tf.0668803248 ViaDante,91/95BARI–Tf.0805219677 ViaMaqueda,395/399PALERMO–Tf.091587785

Librerie Guida ViaPort’Alba,20–23NAPOLI–Tf.081446377 ViaMerliani,118–NAPOLI–Tf.0815560170 ViaCadutisulLavoro,41‑43CASERTA–Tf.0823351288 CorsoVittorioEmanuele,Galleria“LaMagnolia”AVELLINO–Tf.082526274 CorsoGaribaldi,142b/cSALERNO–Tf.089254218 ViaF.Flora,13/15BENEVENTO–Tf.0824315764

Loffredo ViaKerbaker,18–21NAPOLI–Tf.0815783534;0815781521Marotta ViadeiMille,78–82NAPOLI–Tf.081418881Tullio Pironti PiazzaDante,30NAPOLI–Tf.0815499748;0815499693Pisanti CorsoUmbertoI,34–40NAPOLI–Tf.0815527105Alfabeta CorsoVittorioEmanuele,331TORREDELGRECO–Tf.0818821488Petrozziello CorsoVittorioEmanuele,214AVELLINO–Tf.082536027Diffusione Editoriale Ermes ViaAngillaVecchia,141POTENZA–Tf.0971443012Masone VialedeiRettori,73BENEVENTO–Tf.0824317109Centro librario Molisano VialeManzoni,81–83CAMPOBASSO–Tf.087498787Isola del Tesoro ViaCrispi,7–11CATANZARO–Tf.0961725118Tavella CorsoG.Nicotera,150LAMEZIATERMEDomus Luce CorsoItalia,74COSENZAGodel ViaPoli,45ROMA–Tf.066798716;066790331Libreria Rinascita ViadelleBottegheOscure,1‑2ROMA–Tf.066797460Edicola c/o Parlamento Europeo RueWiertz–Bruxelles

Le associazioni e gli Istituti:Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ViaMontediDio,14NAPOLI–Tf.0817642652Associazione N:EA ViaM.Schipa,105–115NAPOLI–Tf.081660606Intra Moenia PiazzaBellini,70NAPOLI–Tf.081290720Centro Mezzogiorno Europa ViaS.Lucia,76NAPOLI–Tf.0812471196

Mezzogiorno EuropaPeriodico della Fondazione

Mezzogiorno EuropaN. 3 – Anno VIII – Maggio/giugno 2007

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

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Direttore responsabile:Andrea Geremicca

Redazione:Osvaldo Cammarota,

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Claudio Pomella, Ivano Russo,

Eirene Sbriziolo

Consulenti scientifici:S e r g i o B e r t o l i s s i , Wa n d a D’Alessio, Mariano D’Antonio, Vi t t o r i o D e C e s a r e , B i a g i o de Giovanni, Enzo Giust ino, Gilberto A. Marselli, Gustavo Minervini, Massimo Rosi, Adriano Rossi, Fulvio Tessitore, Sergio Vellante

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LA RIVISTA

Le opere che illustrano questo numero della rivista sono di Antonio Nocera

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È iniziato il terzo ciclo di incontri formati‑vo‑culturali promossi da Napoletanagas e coordinati dal giornalista e scrittore Piero Antonio Toma. Anche questa edizione, come le due precedenti, ruota intorno a un tema principale, trait‑d’union tra i diversi argomenti trattati durante i cinque incontri in cui si articola ogni ciclo.

Il tema di questa edizione è «Il volto e l’anima. I percorsi della conoscenza», mentre gli argomenti dei singoli incontri sono «Convivenza fra tradizione e innova‑zione», «Rapporto fra potere, democrazia e media», «I libri fra cultura e società», «Saperi tradizionale e saperi della nuova creatività» e «Emigrazioni e migrazioni».

I precedenti due cicli, dedicati rispetti‑vamente a «Quale impresa a Napoli tra società e cultura» e «Il teatro della città e dell’impresa», hanno visto la parteci‑

pazione di teologi, filosofi, bibliofili, costi‑tuzionalisti, scrittori, scienziati, urbanisti, musicologi e altre personalità del panora‑ma culturale partenopeo. Argomenti come creato e creatività, spazio astrofisico e urbano, bellezza, musica, cinema, teatro, musica, letteratura, artigianato, scuola, etica hanno trovato spazio per il confronto dialettico con personalità di rilievo quali Gennaro Matino, Mauro Giancaspro, Li‑via Marrone, Massimo Capaccioli, Nicola Pagliara, Francesco Paolo Casavola, Aldo Masullo, Romolo Runcini, Roberto Savia‑no, Valeria Parrella, Giuseppe Antonello Leone, Riccardo Dalisi, Pasquale Scialò e Pietro Gargano, per citarne alcuni sol‑tanto.

L’inconsueta iniziativa, nata nel 2003 da un’intuizione dell’amministratore delegato della Società, Vittorio Brun, ha l’obiettivo di sperimentare nuove forme di comuni‑

cazione all’interno e verso l’esterno del‑l’azienda, a metà strada tra la formazione professionale e l’informazione sociale. In‑soliti anche gli spazi scelti per gli incontri: chiese, scuole e palazzi storici estranei ai tradizionali circuiti culturali e nei quali gli abitanti si incontrano o vi si recano per al‑tri motivi e per svolgere altre attività.

Ed è un’idea che testimonia anche del “modo di essere” di Napoletanagas e dello spirito con il quale si rivolge alla collettività connet‑tendo le istanze di crescita economica con la responsabilità ambientale e sociale.

Napoletanagas è una società fortemente legata alla città di Napoli. Qui è nata nel 1862 e qui mantiene tuttora la sua struttu‑ra direttiva ancorché il suo ruolo impren‑ditoriale sia cresciuto considerevolmente trasformandosi da azienda metropolitana in società di servizi a livello regionale.

Napoletanagas rinnova gli appuntamenti con la cultura Al via il terzo ciclo di incontri culturali “Il volto e l’anima. I percorsi della conoscenza”

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