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Come sviluppare una relazione felice con i nostri animali Alessandro Paronuzzi

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Come sviluppare una relazione felicecon i nostri animali

Alessandro Paronuzzi

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons “At-tribution-NonCommercial-NoDerivs 2.5”, consultabile all’indi-rizzo http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libe-

ro, e può essere riprodotto e distribuito, con ogni mezzo fisico, meccanico o elettroni-co, a condizione che la riproduzione del testo avvenga integralmente e senza modifi-che, a fini non commerciali e con attribuzione della paternità dell’opera.

EcoalfabetoCollana diretta da Marcello Baraghini e Stefano CarnazziCoordinatore della collana Edgar Meyer

© 2009 Alessandro Paronuzzi

© 2009 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

ISBN 978-88-6222-119-1

www.stampalternativa.it

email: [email protected]

Finito di stampare nel mese di febbraio 2010

presso la tipografia Iacobelli srl – Roma

Disegni e copertina di Liliana Paronuzzi

Ecoalfabeto – i libri di GaiaPer leggere la natura, diffondere nuove idee, spunti inediti eoriginali. Spiegare in modo accattivante, convincente. Offri-re stimoli per la crescita personale. Trattare i temi della con-sapevolezza, dell’educazione, della tutela della salute, delnuovo rapporto con gli animali e l’ambiente.

I LIBRI DI

GAIA ANIMALI & AMBIENTE

CON IL CONTRIBUTO DI

Le emissioni di CO2 conseguenti alla produzione di questo libro

sono state compensate dal processo di riforestazione certificato

Impatto Zero®

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Il colore del grano

Il sottotitolo “Come sviluppare una relazione felice con

i nostri animali” preannuncia già il contenuto del li-

bro: in queste pagine si parlerà di una relazione con

gli animali, di quel millenario legame di solidarietà

improntato allo scambio reciproco di aiuto; si parlerà

di felicità, cioè di quell’intesa e di quell’armonia con le

creature del mondo che è prima di tutto conoscenza,

rispetto per la loro condizione e comprensione dei loro

bisogni; si parlerà infine di amicizia, di quell’affinità,

cioè, che porta a condividere con questi esseri senzien-

ti tratti di vita e di storia.

Vogliono stare con noi, gli animali, fin dall’inizio del

mondo e, come afferma Manganelli: “Non hanno prete-

so la parola, sono magari disposti a transigere sul-

l’anima immortale, hanno rinunciato alla patente ed a

un preciso inquadramento sindacale, ma soli nell’uni-

verso, vogliono stare accanto a quei tali che vennero

scacciati dal Paradiso terrestre, vogliono giocarci,

starci in grembo, dormire ai piedi del letto. Dobbiamo

credere che l’angelo sulla soglia non se ne sia proprio

accorto? O forse l’invenzione del cane e del gatto ac-

cadde nel momento in cui al Creatore stava ormai sva-

porando l’ira per la famosa mela? Qualcuno ha deciso

o permesso che due angeli di seconda classe restassero

con noi e noi con loro”.

All’incontro con la loro identità e dignità ci guida, zig-

zagando tra osservazioni di zooantropologia e argo-

menti di didattica, Paronuzzi, che si fa non solo “cac-

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ciatore di immagini”, ma anche e soprattutto premu-

roso interprete di linguaggi, e sensibile affabulatore.

Con una prosa ora scanzonata e lieve, ora professiona-

le e rigorosa, l’autore snoda qui una serie di conoscen-

ze e riflessioni, sempre attraversate dallo sguardo fi-

ducioso in una nuova pedagogia animalista che con-

sideri l’alterità animale una preziosa e significativa

opportunità di arricchimento culturale e affettivo.

“Siamo cambiati anche noi” afferma “da quando Re-

nard scriveva le sue Storie naturali”. Non è cambiato il

mondo animale, invece, che ci interroga ora più che

mai sul suo e sul nostro destino nell’universo, e il cui

“linguaggio – a detta di Ruozzi – va raccolto e custodi-

to come la preziosissima e sacrale eredità di un univer-

so fisico, etico ed estetico in procinto di scomparire”.

Percorriamo allora la scansione dei capitoli.

“In principio c’era il cane” esordisce Paronuzzi, dedi-

cando a questa insostituibile e ammirata figura – cui

la letteratura ha riservato i ritratti più ardenti – pagi-

ne di distesa rappresentazione. La creatura più pla-

smata dalla frequentazione con l’uomo, è in realtà

quella che ha contribuito più di altre al suo sviluppo

culturale e forse per questo quella che più di altre be-

stie lo “riflette, lo sdoppia, lo relativizza, lo rinsalda.

Compagno di specie” che, come riferisce Asor Rosa

“porta all’uomo la zona d’ombra in cui non c’è né

umano né animale, bensì le due cose insieme”.

Di diversa modulazione appare lo spazio riservato al

gatto, creatura da sempre intrigante e misteriosa, in

grado di sedurre perfino lo stesso scrittore. Veri e pro-

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pri ispiratori di questa parte sono, in realtà, i suoi

coinquilini: marmorei e monumentali felini che sta-

zionano enigmatici agli angoli del soggiorno, e curio-

si e impavidi predatori che adunghiano divani, scato-

lette, palline, passeri veri e immaginari.

Nel capitolo dedicato alla bioetica, non a caso capitolo

cerniera tra le due parti, questo veterinario narratore

entra nel nucleo dell’argomentazione fin dall’inizio

sottesa, quella di una rivoluzione animalista. Sono que-

ste, infatti, le righe con i più dolenti interrogativi, lad-

dove si intravvede e si sottolinea la responsabilità del-

la nostra cultura nei confronti del benessere animale.

E quasi a tacitare emblematicamente il senso di colpa

e il debito di sopraffazione che pesa sull’uomo, l’auto-

re sceglie subito dopo, tra i ritratti animali che la nar-

rativa ci ha regalato, l’immagine amichevole della pic-

cola volpe in Il piccolo principe. Nel dialogo tra questi

due viventi Paronuzzi ripercorre, come in un esame

di coscienza, il processo di domesticazione degli ani-

mali da parte dell’uomo, la sofferenza causata a questi

esseri che ora più che mai hanno bisogno della nostra

protezione perché, come dice Giardina “il percorso che

conduce l’uomo all’animale non è a senso unico. Ciò

che diamo, in qualche modo ritorna indietro. È come

se l’animale aggiungesse qualcosa di sé all’uomo”.

A chiudere infine questo percorso c’è la parte dedicata

ai bambini con le loro storie, con la speranza che sia-

no le future generazioni a cambiare prospettiva e at-

teggiamento verso tutte le creature più deboli e indife-

se, e in particolare verso il mondo animale.

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Libro di narrativa? Testo di divulgazione scientifica?

Saggio di zooantropologia didattica, questa scrittura

di A. Paronuzzi? Mi sembra soprattutto il libro di un

cuore ‘puro’ ed entusiasta, che vede ancora “il colore

del grano” e invita tutti a scorgerlo tra le erbacce.

Enrica Ricciardi

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Parte Prima

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Nuove “Storie naturali”

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Il “Contratto animale”

Balza dal letto di buon mattino e parte soltanto se

ha la mente lucida, il cuore puro e il corpo legge-

ro come un abito estivo. Non porta provviste con

sé. Berrà l’aria fresca, in cammino, e aspirerà i

salubri odori della campagna. Lascia a casa le ar-

mi e si accontenta di aprir bene gli occhi. Gli oc-

chi servono da reticelle dove le immagini si im-

prigionano da sole.

(Jules Renard, Storie naturali)

Chi più legge le Histories naturelles composte da JulesRenard nella campagna francese (era sindaco di un picco-lo paese, Chitry) verso la fine dell’Ottocento? Soprattuttochi è ancora in grado di viverle? Per poterle quotidiana-mente sperimentare lo scrittore francese postula tre requi-siti: una mente lucida, un cuore puro e un corpo “leggerocome un abito estivo”. Le nostre menti invece sono troppospesso confuse, perché sottoposte a un vero e proprio quo-tidiano bombardamento da parte di stimoli visivi, acustici eolfattivi che ci stordiscono e ci indirizzano verso facili pa-radisi artificiali, invogliandoci a ottenere il più possibile nelminor tempo: tutto e subito è il motto della società consu-mistica, che seduce soprattutto il giovane suggerendogliaffascinanti ma pericolose scorciatoie, e impedendogli dimaturare nel tempo, passando attraverso quelle tappe diformazione a volte anche dolorose ma ineludibili e senza lequali non è possibile diventare un adulto responsabile e ca-pace di reagire agli intoppi che ogni vita propone.

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In queste condizioni diventa difficile anche conservarequel cuore puro “come ghiaccio in vaso di giada” – cosìscriveva il poeta cinese Bao Zhao – capace di individuarequalche valore non effimero sul quale costruire una mo-rale dove il bene e il male siano valori autentici e non con-tingenti, e per i quali valga la pena impegnarsi, lottare eall’occorrenza sacrificarsi. Per quanto riguarda, infine, il“corpo leggero come un abito estivo”, l’espressione puòessere intesa come una variazione dell’antico motto lati-no mens sana in corpore sano1: un’affermazione che ri-vela come fin dall’antichità fosse nota la stretta relazioneesistente tra mente e corpo, e della cui validità ogni gior-no le più varie ricerche in campo scientifico continuano aprodurre prova.Da quando Renard scriveva le sue Storie naturali è pas-sato poco più di un secolo – un arco temporale insignifi-cante in termini geologici – eppure molte cose sembranocambiate sul nostro pianeta. Siamo cambiati anche noi, eprobabilmente non nel verso giusto. Abbiamo smarrito lacapacità di stupire davanti agli spettacoli che quotidiana-mente e a ogni latitudine la natura si ostina a proporre;abbiamo scelto (sempre che questo verbo conservi il suosignificato) di attraversare le giornate – e dunque la vita– con un passo troppo sostenuto e che non ci consentepiù di sviluppare quella “sospensione dell’incredulità”che Coleridge ha propugnato come requisito fondamenta-le dell’autocoscienza e di qualsivoglia fede poetica. Annota Desmond Morris: “L’inventiva umana è stata come

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1 Giovenale, Satire, X, 256.

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una droga di cui non abbiamo verificato gli effetti collaterali.Abbiamo trascinato i nostri corpi primordiali in un meravi-glioso campo giochi futuristico, pieno di occasioni di svagoe di divertimento. Ci siamo lasciati abbagliare da noi stessie siamo arrivati, in qualche occasione, a contemplare lapossibilità di non essere animali, dopo tutto, ma dèi. Cometali, ovviamente, saremmo immuni dai rischi delle leggi na-turali, protetti dal nostro stato divino. (…) Come mai sia-mo arrivati a questo punto? La risposta, a parere mio, è chetutto questo è incominciato quando abbiamo rotto il Con-tratto animale: non appena abbiamo cominciato a sopraffa-re i nostri compagni animali, ci siamo trovati nei guai. Ab-biamo creato un mondo sempre più unilaterale, minato al-la base da infiniti fattori di instabilità che neppure la nostragrande ingegnosità è riuscita a controllare. In diecimila an-ni abbiamo sconvolto l’equilibrio della natura a un puntotale che ora ci vorrà un mutamento radicale di mentalitàper rimediare al danno”. 2

L’osservazione mi pare particolarmente significativa perl’argomento sviluppato in questo libro, che mira a sottoli-neare l’importanza e l’insostituibilità della relazione uomo-animale, fornendo anche alcune indicazioni pratiche perstrutturarla sin dall’inizio in maniera da prevenire quelleincomprensioni che continuano a verificarsi troppo spessoe che la rendono problematica.È tempo dunque di stabilire un nuovo contratto animale.Un contratto che deve partire dai contenuti di CartaMode-na2002, un importante documento sottoscritto da numero-

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2 Desmond Morris, Noi e gli animali, Mondadori 1996.

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si enti e associazioni, tra i quali in particolare la SISCA (So-cietà Italiana di Scienze Comportamentali Applicate), laSIUA (Scuola di Interazione Uomo Animale) e la FNOVI(Federazione Nazionale degli Ordini Veterinari Italiani).Dei diciassette articoli che lo compongono, il secondo èprobabilmente quello più significativo:“L’interazione uomo-animale presenta importanti valenzeemozionali, cognitive, formative, assistenziali e terapeuti-che che vanno promosse, tutelate e valorizzate all’internodella società. Per portare a eccellenza tali valenze si ritie-ne indispensabile promuovere un rapporto uomo-animaleche sia equilibrato e consapevole, caratterizzato da reci-procità e corretta espressione etologica nel rispetto dellespecifiche individualità. La relazione deve essere costrui-ta sulla piena conoscenza delle caratteristiche di specie edi individualità dei soggetti e deve tradursi in un atto diassunzione di piena responsabilità da parte di chi la pro-muove”.Per rendere operante il nuovo contratto animale è tuttavianecessario, come ha sottolineato Desmond Morris, un mu-

tamento radicale di mentalità; e perché questo possa av-venire viene richiesto di penetrare nella diversità, di deci-frare finestre sensoriali che non sono le nostre, di frequen-tare mondi abitati da creature avvertite come aliene per-ché non appartengono alla specie umana ma che come noisono in grado di provare emozioni, sentimenti, gioie e do-lori. Non è fantascienza: è piuttosto quella che mi piacechiamare dimensione empatica.

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La dimensione empatica

Non è bello, il mio cavallo. Ha troppi nodi e troppi

incavi, ha le costole piatte, una coda da topo, e gli

incisivi da signora inglese. Ma mi fa tenerezza. Mi

stupisco che rimanga al mio servizio e si lasci,

senza ribellarsi, girare per dritto e per traverso.

Ogni volta che lo attacco, mi aspetto che mi dica

bruscamente: “No”, e se ne vada. Invece, niente.

Abbassa e alza la sua grossa testa come per rad-

drizzarsi il cappello, e rincula docile fra le stan-

ghe. Del resto non gli misuro né avena né grano.

Lo striglio fin che il pelo luccica come una ciliegia.

Pettino la sua criniera e intreccio la sua coda sot-

tile. Lo accarezzo con la mano e con la voce. Gli la-

vo gli occhi con la spugna; gli lucido gli zoccoli.

Lo commuovono le mie cure? Non si sa.

(Jules Renard, Storie naturali)

“Non si sa” conclude sconsolato Renard, che dopo averprestato le cure quotidiane al suo cavallo pare non esserein grado di capire o di quantificare il possibile piacere per-cepito dall’animale: il suo sforzo empatico risulta però evi-dente.Renard era cresciuto nella campagna francese insieme congli animali: non solo cani e gatti, anche pecore, capre, gal-line, asini e cavalli, che facevano parte del mondo agricolo;leggere le sue pagine ci aiuta a comprendere quanto possaessere importante per un giovane crescere coltivando larelazione animale; proprio questa convinzione sta alla base

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degli interventi che da diversi anni faccio nelle scuole, eche suscitano puntualmente l’entusiasmo nelle classi. In realtà crescere con gli animali aiuta il giovane a coltiva-re e sviluppare sensi spesso sottovalutati o ignorati (olfat-to e tatto) e ad aumentare l’autostima e l’autocontrollo; lofacilita nella comunicazione con il prossimo e a inserirsinella socialità. L’animale inoltre si rivela un fenomenalestrumento cognitivo che può essere utilizzato con profitto‘trasversalmente’ nelle più diverse discipline scolastiche:oltre alle scienze, anche nell’apprendimento della gramma-tica e nella letteratura, nella storia e nella geografia, nel di-segno e nella musica.3 Ma forse l’aspetto più interessante èproprio quello rappresentato dal fatto che l’animale ci aiu-ta a crescere nella relazione con il prossimo, impegnando-ci in uno sforzo empatico che ogni specie, ogni razza, ognisingolo individuo esige per poter strutturare un rapportocongruo e reciprocamente soddisfacente. La dimensione empatica è fondamentale per sviluppareuna relazione felice: ma cosa significa precisamente? Il ter-mine ‘empatia’ proviene dal greco empateia, che origina-riamente indicava il rapporto emozionale e di partecipazio-ne che poteva instaurarsi tra l’autore-cantore che recitavao cantava sul palco e il suo pubblico. Più di due secoli fa l’economista Adam Smith la definiva co-me “uno scambio di posto, nella fantasia, con chi soffre”: misembra una definizione particolarmente convincente, cheesprime il tentativo sincero di comprendere e di condivide-re ciò che un essere vivente diverso da noi (uomo o anima-

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3 Per un approfondimento: Animali tra le righe – Percorsi di zooantropologia

didattica di A. Paronuzzi – E. Ricciardi, Carocci 2009.

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le che sia) pensa, percepisce, prova, desidera o teme. Questacapacità di immedesimazione nel diverso non è peraltro unaprerogativa dell’essere umano. Già mezzo secolo fa, nel 1959,Russell Churchill pubblicava sul “Phisiological Psicology” unarticolo dal titolo volutamente provocatorio, Reazioni emo-

tive dei ratti al dolore altrui, nel quale comunicava i sor-prendenti risultati di un esperimento (crudele come sannoessere molti degli esperimenti effettuati sugli animali): i rat-ti rinunciavano a cibarsi, se per ottenere il cibo veniva richie-sto loro di premere un tasto che visibilmente provocava unascarica elettrica nella celletta attigua, dove si trovava un al-tro ratto. Più recentemente, il primatologo Frans de Waal de-scrive il caso eclatante di uno scimpanzé, ospite di uno zoo,che aveva raccolto con delicatezza dal terreno un uccellinoferito e – salendo sopra un albero – lo aveva lanciato nel cie-lo, con l’evidente intenzione di fargli riprendere il volo. Inquesto caso l’empatia possiede un significato maggiore, per-ché riguarda una specie diversa (molto diversa: un mammi-fero si sforza di penetrare nelle necessità di un uccello). Crescere con un animale ci impegna nello sforzo empatico,ci impone la necessità di recuperare il significato e l’impor-tanza della comunicazione non-verbale, che lo sviluppo dellinguaggio nella specie umana ha drasticamente soffocatonegli ultimi millenni. “Buffon ha descritto gli animali per far piacere agli uomini”annotava Renard, a proposito di un altro scrittore natura-lista molto conosciuto ai suoi tempi. “Io vorrei piuttosto es-sere gradito agli animali. Vorrei, se essi potessero leggerele mie piccole Storie naturali, che ciò che ho scritto li fa-cesse un poco sorridere”. Ma gli animali non sanno legge-

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re... “Buck non sapeva leggere” è proprio l’incipit de Il ri-

chiamo della foresta, il celebre romanzo di Jack London,che ha per protagonista un cane. Gli animali non sanno leg-gere, non sanno parlare. Se davvero vogliamo essere a lorograditi dobbiamo dunque saper rinunciare alla parola e re-cuperare un mondo perduto, fatto di sfumature, di sguar-di, di odori e apparenti silenzi. “Per relazionarsi in modo corretto con il proprio cane oc-corre conoscere alcuni dei suoi più importanti segnali co-municativi; essi ci forniscono in modo ineguagliabile infor-mazioni precise circa le sue disposizioni e intenzioni” os-serva Roberto Marchesini.4 “Siamo così attenti alla comu-nicazione verbale che nella vita quotidiana ci sfugge che lanostra fisicità è un vero e proprio racconto per il cane e luistesso sta parlando con noi attraverso il suo corpo. Perciòinconsapevolmente stiamo dialogando ma, proprio perquesta negligenza, difficilmente comunichiamo le cose chevorremmo e nel modo giusto. Allo stesso tempo, il cane cista trasmettendo un’infinità di informazioni, ma queste pa-role dette con il corpo ci sfuggono. Tra noi e il cane c’è unproblema di comunicazione e questo è il motivo di granparte delle incomprensioni che gravano nella quotidianità”. Per riscoprire tutta la ricchezza di questo mondo perduto,per sviluppare la dimensione empatica e sottoscrivere uncontratto animale diverso dai precedenti, per dare – vo-gliamo dirlo? – un significato più autentico alla parola‘amore’, il cane ci offre un’occasione di crescita unica, chesarebbe criminale perdere.

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4 R. Marchesini, Bastardo a chi?, Fabbri.

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In principio c‘era il cane

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Perche’é il cane

Oggigiorno i programmi delle scuole, oltre alla

grammatica, l’aritmetica, la geografia e la storia,

tendono a includere anche l’insegnamento di no-

zioni per la vita quotidiana, come l’educazione

civica, le norme nutrizionali, l’igiene personale,

il comportamento in società e via dicendo. Ma du-

rante le lezioni di scienze naturali gli alunni

hanno maggiori probabilità d’imparare qualcosa

sulle balene, i gufi o le rane che sui cani… Anche

se il giovane cittadino medio non avrà mai occa-

sione di vedere una balena dal vivo, e gufi e rane

li incontrerà solo durante le rare visite allo zoo o

all’acquario. Si presume, insomma, che tutti sap-

piano già tutto ciò che c’è da sapere sui cani gra-

zie al loro rapporto con uno di questi animali,

proprio o altrui, e che quindi non siano necessa-

ri ulteriori insegnamenti. Eppure nella stragran-

de maggioranza dei casi, le nostre effettive cono-

scenze sono assai limitate.

(Stanley Coren, L’intelligenza dei cani)

Entrate in una classe e chiedete agli alunni che cos’è un ca-ne: si scatena il putiferio, ognuno vuole dire la sua, e nonrimane che mettersi alla lavagna per raccogliere le defini-zioni offerte; dal diffuso desiderio d’intervenire e di forniredelle risposte, sembra che tutti conoscano piuttosto benequesto animale. È una domanda trabocchetto, una mentepiù arguta lo fa notare: “Un cane non è una cosa!”. La do-

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manda da porre è dunque un’altra: “Chi è un cane?”. Pari-menti, per estensione: chi è un gatto? Chi è una balena?Chi è un ciliegio? Bisogna sin da subito evidenziare la pe-culiarità dell’essere vivente, e da questa considerazione dipartenza intraprendere un sentiero di conoscenza che puòessere portatore di grandi soddisfazioni. Per quale ragioneil cane si distingue da tutti gli altri animali? Per quale ra-gione il cane – come nessun altro animale domestico – èriuscito a ritagliarsi un ruolo nella storia dell’umanità chenon può essere in alcun modo sostituito? Nessun altro mammifero – con l’eccezione dell’homo sa-

piens – risulta ubiquitario sulla Terra come il cane. Daighiacci artici (i cani ‘primitivi’ del grande Nord, che JackLondon ci ha fatto conoscere e amare con Il richiamo del-

la foresta e Zanna Bianca) ai deserti orientali (i veloci le-vrieri afghani); dalle Alpi (san Bernardo) alle Ande (gli in-dispensabili cani da pastore che lo scrittore peruviano Ci-ro Alègria ha celebrato in un’opera memorabile, ancorchéin Italia poco conosciuta, I cani affamati), i cani hanno sa-puto conquistare il nostro pianeta; lo hanno fatto seguen-do da vicino le impronte lasciate dalla specie umana nelcorso delle sue migrazioni a partire dal continente asiatico– nel quale è avvenuta la sua domesticazione, circa 15.000anni fa – e si sono distribuiti nei cinque continenti, condi-videndo con l’uomo le stesse nicchie ecologiche, così rati-ficando una vicenda di straordinaria intelligenza evolutiva.Per poter conseguire questo eccezionale risultato il caneha dovuto sapersi adattare a climi e situazioni ambientaliestremamente diversificati; il risultato è che nessun altromammifero si propone con una costellazione morfologica

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così ampia: un chihuahua pesa meno di un chilo, mentreun alano o un san Bernardo possono sfiorare il quintale;inoltre ogni cane può teoricamente accoppiarsi con un ca-ne di razza diversa, e l’accoppiamento è fertile. L’uomo hacontribuito in maniera determinante a questo processo didiversificazione, selezionando le razze secondo le proprieconvenienze. Già Plinio in epoca romana suddivideva i ca-ni in sei categorie: i villatici (cani da guardia), i pastora-

les pecuarii (da pastore), i venatici (da caccia), i pugna-

ces (da combattimento); i nares sagaces (da fiuto) e i pe-

dibus celeres (da punta o da ferma).Le razze ufficialmente riconosciute sono oltre trecento, concaratteristiche e attitudini che le indirizzano a specifici utiliz-zi; nel 1987 la Federazione Cinologica Internazionale ha deci-so di raggruppare tutte le razze in dieci diverse categorie, al-le quali vengono iscritti i cani forniti di un regolare pedigree.Il secondo fattore che spiega l’indiscutibile popolarità con-seguita dalla specie canina è ancora più importante. Nes-sun altro mammifero che sia stato abituato a convivere conl’uomo, posto davanti a una scelta (perché i cani possonooperare delle scelte, e questa realtà impone delle impor-tanti conseguenze, soprattutto di ordine etico) preferiscestabilirsi a fianco dell’essere umano piuttosto che convive-re con un suo simile. Si verifica un vero e proprio ‘tropi-smo’ verso l’uomo in virtù del quale – non a torto – Miche-let ha definito il cane “un candidato per l’umanità”. Nessunaltro mammifero manifesta una simile predisposizione al-l’ascolto, un’attenzione verso l’uomo come il cane; l’intelli-genza delle scimmie antropomorfe (attenzione, quando siparla di intelligenza ci si avventura sempre in un terreno

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minato: perché in realtà le intelligenze sono diverse, esquisitamente specie-specifiche) può essere considerataper certi versi superiore a quella del cane: ma le scimmieantropomorfe non sono così attente verso il comportamen-to umano, diversamente ci saremmo preoccupati di colti-vare una domesticazione che invece non ha avuto luogo.Il cane è costantemente proteso verso l’uomo: lo guarda,l’osserva, lo decifra, l’intuisce, a volte addirittura è in gra-do di prevedere il suo comportamento e dunque di antici-parlo. La punizione più grande e più efficace che si possamettere in atto verso un cane, qualsiasi sia stato il compor-tamento che intendiamo correggere, è ignorarlo. Il cane èl’animale antropotropico per eccellenza: un neologismoche sta a evidenziare una vera e propria propensione perl’umano che non ha eguali nel mondo animale; in questa di-sposizione è facile individuare la più autentica chiave delsuo successo e della sua insostituibilità. Per vivere al me-glio questa biologica disponibilità è tuttavia necessario co-noscere le regole più elementari che governano la ‘società’canina, riuscire quanto meno a percepire il loro mondo, pe-netrare nelle loro motivazioni e sintonizzarle sulle nostrefrequenze, operando un reciproco avvicinamento. Perchéla felicità di un cane è anche la nostra. E viceversa.

Un batuffolo morbido e tondo

Probabilmente il cane era già domestico quando

gli uomini cominciarono a vivere sulle palafitte,

oppure lo è diventato nel corso di quel periodo. Si

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può immaginare che un giorno una donna, o una

bambina che voleva ‘giocare alla bambola’, abbia

raccolto un cucciolo abbandonato e lo abbia alle-

vato in seno alla famiglia umana. Forse quel ca-

gnolino era l’unico sopravvissuto di una cucciola-

ta caduta vittima di una tigre. Il cucciolo piange-

va, ma nessuno si occupava di lui, poiché eviden-

temente la gente a quel tempo aveva ancora i ner-

vi d’acciaio. Ma, mentre gli uomini erano occupa-

ti a cacciare nelle foreste e le donne erano intente

alla pesca, una bimbetta seguì quel lamento e tro-

vò in una grotta il cucciolo, che le venne incontro

senza timore sulle zampette ancora incerte e co-

minciò a leccarle e a succhiarle le mani protese.

Quel batuffolo morbido e tondo ha certamente ri-

svegliato, già nella figlia dell’uomo della prima

età della pietra, l’impulso a prenderlo in braccio,

a coccolarlo e a trascinarlo continuamente in gi-

ro con sé, non altrimenti di quanto accade alla

bimba dei giorni nostri. Gli impulsi materni da

cui nascono tali gesti sono infatti antichi come il

mondo. E così la bimba dell’età della pietra, imi-

tando all’inizio come per gioco ciò che ha visto fa-

re alle donne adulte, gli ha dato da mangiare,

l’avidità con cui la bestiola si è gettata sul cibo che

le veniva offerto l’ha resa felice, come sono felici le

nostre mogli e madri quando gli ospiti mostrano

di gradire il loro cibo.

(Konrad Lorenz, E l’uomo incontrò il cane)

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Konrad Lorenz ha ricevuto nel 1973 il premio Nobel perl’etologia e deve essere considerato il precursore di una di-sciplina – l’etologia, vale a dire lo studio del comportamen-to animale – che con il passare degli anni va rivelando sem-pre più la sua enorme portata. Tra le numerose opere diLorenz, E l’uomo incontrò il cane rimane una delle piùsignificative, indipendentemente dal fatto che l’ipotesi dipartenza – l’origine del cane domestico dallo sciacallo – siastata successivamente smentita, e ripudiata anche dallostesso autore. L’episodio citato in epigrafe è suggestivo, eha il merito di porre una domanda che – per l’importanzadelle conseguenze derivate nella storia della civiltà – nonpuò essere elusa: com’è avvenuta la domesticazione del ca-ne? E, non meno rilevante, a quando risale?Per parlare dell’origine del cane è necessario agganciarsi, siapur brevemente, a quella dell’uomo. Oggi si ritiene che l’ho-

mo sapiens sia fondamentalmente il risultato di un fenome-no biologico particolare che prende il nome di ‘neotenia’, untermine che per la sua importanza anche riguardo la dome-sticazione deve essere compreso nella pienezza del signifi-cato, e che etimologicamente sta a intendere un ‘prolunga-mento della gioventù’, o tendenza a conservare anche nel-l’età adulta alcune caratteristiche fisiche proprie dell’em-brione o del neonato. Tra tutti gli animali presenti sulla fac-cia della Terra l’uomo è quello più spiccatamente neotenico;nel feto di un qualsiasi mammifero la testa è sempre moltosviluppata rispetto al resto del corpo, una sproporzione evi-dente che è destinata a ridimensionarsi drasticamente nelcorso dello sviluppo. Tuttavia nel caso dell’uomo la riduzio-ne di questo rapporto è minore: anche da adulti la nostra te-

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sta conserva dimensioni piuttosto ragguardevoli (consen-tendo così, tra l’altro, la presenza di un cervello particolar-mente sviluppato). Altre caratteristiche neoteniche propriedell’essere umano sono il corpo glabro (perdita dei peli), lapelle sottile, denti di piccole dimensioni. In altre parole an-che da adulti rimaniamo sempre un po’ bambini; questo fe-nomeno sottintende da parte nostra una sensibilità del tut-to particolare ai ‘richiami neotenici’ così scopertamente pre-senti in tutti i cuccioli. Per queste ragioni un cucciolo si tra-sforma in un richiamo ‘irresistibile’. Nella stragrande mag-gioranza delle persone questo “batuffolo morbido e tondo”scatena una vera e propria necessità a prendersene cura (èla ‘motivazione epimeletica’, che sta alla base dell’adozioneintraspecifica e soprattutto interspecifica) almeno sino aquando le sue forme neoteniche esercitano quell’effetto‘emozionale’ che madre natura ha stabilito come meccani-smo utile alla sopravvivenza della specie e dell’individuo. “Felicità è un cucciolo caldo” esclama Charlie Brown,stringendo tra le sue braccia Snoopy. Adottare un cane –soprattutto se ancora giovane, in crescita, più che mai bi-sognoso delle nostre attenzioni – è in effetti una tentazio-ne costante; e quando l’occasione si presenta, nella mag-gior parte dei casi il cucciolo arriva nelle nostre case. Si in-staura allora una vera e propria ‘relazione di cura’ nellaquale vengono coinvolti tutti i componenti del nucleo fami-liare: relazione che può essere motivo di arricchimento suvari fronti (emozionale, cognitivo, sociale) ma che nellostesso tempo non è scevra di pericoli. “Certamente i caniamano la nostra compagnia; certo si sentono rassicuratiquando riescono a conquistare una posizione ben definita

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nella gerarchia sociale umana; senza dubbio hanno mododi rendere servizio all’uomo in virtù della loro prestanza fisi-ca e delle loro abitudini o manie” osserva criticamente Ste-phen Budiansky. “Ma noi umani abbiamo il pessimo difetto –un egocentrismo sconfinato – di credere che tutte le coseutili i cani le facciano soltanto per noi”. Vogliamo provare adaiutare il nostro amico a realizzarsi soprattutto come cane?La sola strada percorribile è quella dell’empatia.

Senza cane niente uomo

Il cane è per l’uomo l’animale utile per eccellenza.

Grazie al cane siamo usciti dallo stato selvatico, ci

siamo affacciati agli albori della civiltà.

Il cacciatore dei primordi, affamato e ignudo, eb-

be accanto a sé il cane, le sue cacce divennero fa-

cili e abbondanti. Grazie al cane trovò il tempo di

pensare.

Grazie al cane divenimmo pastori. Un uomo con

tre cani cura cento pecore, senza non ne cura tre.

Pastore, uomo placido, certo di potersi ogni gior-

no nutrire di latte e di formaggi. Il pastore ha fa-

miglia, conosce la paternità: canis familiaris.

Senza pastorizia, niente vestiti. Solo il pastore si

veste di lana e ai piedi lega le ciocie. Senza abiti,

niente pudori, niente virtù. Senza abiti, nemme-

no il piacere di mettersi nudi.

Mentre il cane cura il gregge, il pastore fissa il cie-

lo: astrologia, sorella maggiore dell’astronomia.

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L’ozio del pastore gli consente di guardare, riflet-

tere, intuire. Il pastore disegna. Giotto fu pastore.

Disegnare è scrivere. L’ozio consente la preghiera,

la contemplazione, la santità, la saggezza.

Grazie al cane diventammo agricoltori. Il cane ve-

glia fuori dalla capanna, sorveglia il terreno col-

tivo. Senza cane perpetuo allarme, perpetua lotta

con le belve, coi nemici. Il cane abbaia, il cane av-

verte, l’agricoltore dorme. Senza cane niente son-

no e solo chi dorme placidamente può nel sogno

conoscere mondi ultraterreni donde, al mattino,

portare in terra intuizioni celesti.

Senza cane, niente granai pieni, e niente scambi.

Chi vive giorno per giorno non ha nulla da barat-

tare. Il cane difende la proprietà, apre i mercati,

salva il gruzzolo, consente l’eredità di padre in fi-

glio, induce ai viaggi e alle navigazioni per barat-

tare sempre più lontano.

Senza cane niente casa, senza casa niente archi-

tettura e niente amore. La casa, luogo d’amore,

consente di chiudere la porta. Senza amore nien-

te poesia, niente arti, musica, niente uva: senza

vino niente danza.

Grazie al cane diventammo artisti, diventammo av-

venturieri: ogni nostra avventura di pace o di guer-

ra ebbe accanto il cane. Fra i primi astronauti v’è

anche un cagnolino. E anche fra gli entronauti: il

mistico san Rocco è protetto dal suo cane.

Senza cane niente uomo.

(Piero Scanziani, Il cane utile)

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Questo brano di Piero Scanziani esprime tutto il debito chel’uomo mantiene nei confronti del cane, il primo animale aessere stato addomesticato. Sino a poco tempo fa si facevarisalire l’evento a 12.000-15.000 anni avanti Cristo; ma lepiù recenti indagini condotte sul DNA mitocondriale han-no chiarito come il fenomeno della domesticazione del ca-ne con ogni probabilità sia molto più remoto. Un ipoteticoalbero genealogico canino basato sulle similitudini delDNA lascia ritenere che i cani si siano separati da un co-mune progenitore dell’attuale lupo più di 100.000 anni fa.La suggestiva visione di Scanziani tuttavia non è ancorauna visione zoo-antropologica; il primo aggettivo che egliabbina al cane è infatti utile e sottintende un rapportod’impiego: cane da guardia, cane da caccia, cane da com-pagnia; è un animale che fornisce una prestazione, né piùné meno come gli altri animali da reddito. Una relazione autentica ed equilibrata attribuisce invece aentrambi i protagonisti i predicati della soggettività, dellaalterità e della specificità che stanno alla base di una visio-ne zooantropologica; ognuno – uomo e animale – portato-re di diritti, di requisiti filologici (vale a dire: propri dellaspecie) e ontologici (propri del singolo individuo). Ma è stato davvero l’uomo ad addomesticare il cane, o piut-tosto non rischia di essere più vicina alla realtà l’afferma-zione contraria: che cioè sia stato il cane ad addomestica-re l’uomo? Che sia stato proprio lui ad avvicinarsi alla no-stra specie, con l’intento di condividere uno stile di vitache si sarebbe rivelato vantaggioso per entrambi? La do-manda è meno provocatoria di quanto a prima vista po-trebbe sembrare. Ancora ai giorni nostri in molti villaggi

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dell’America del Sud, dell’Africa e dell’Asia esistono consi-stenti gruppi di cani randagi ‘spazzini’ che si intrufolano ar-ditamente nelle abitazioni, riuscendo a nutrirsi degli avan-zi di cibo, e a farsi generalmente accettare dalla popolazio-ne locale, senza tuttavia stabilire un rapporto di autenticadomesticazione. I soggetti più socievoli finiscono con l’ave-re un trattamento privilegiato e a farsi accogliere nel grup-po familiare, in un rapporto simbiotico. Comunque sianoandati i fatti, il cane deve essere considerato l’animale do-mestico per antonomasia; c’è lui, e poi – a debita distanza– seguono, sono seguiti tutti gli altri animali.Sotto la pelle del cane vive ancora il lupo, così come sottoquella dell’uomo respira la scimmia (Desmond Morris s’è di-vertito a definire in maniera provocatoria l’homo sapiens

come la scimmia nuda) anche se è inesatto affermare chel’uomo discende dalla scimmia, e che il cane discende dal-l’attuale lupo; piuttosto, l’uomo e lo scimpanzé (la scimmiapiù ‘vicina’ alla nostra specie) hanno un progenitore comu-ne, così come un progenitore comune esiste sicuramenteper il cane e il lupo: sono prossimità filogenetiche che de-vono essere tenute presenti in entrambi i casi, per megliocomprendere sia le differenze che alcuni meccanismi com-portamentali tuttora condivisi tra queste specie animali.

Scegliere un cucciolo

No, non potevamo prendere un levriero, aveva bi-

sogno di fare troppo esercizio. Il carlino fiutava

troppo rumorosamente e anche i boxer e i pechi-

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nesi. Il bassotto soffriva di problemi di schiena.

Come Bert il san Bernardo, anche il cane da cac-

cia irlandese era troppo grande per il nostro ap-

partamento, mentre il volpino, per quanto allegro

e grazioso, era così piccolo che l’avremmo pestato.

No, non era davvero giusto tenere un terranova

palmato in città, visto che era nato per nuotare e

da noi non sarebbe nemmeno entrato nella vasca.

E certo, questo piccolo cucciolo di rottweiler ora

sembrava adorabile, ma non lo sarebbe stato più

tanto una volta che fosse cresciuto fino a un metro

e avesse preso a sbavare su una catena, con i den-

ti stretti sulla mia gola.

(Judith Summers, La mia vita con George)

Si decide dunque di vivere con un cane. Attenzione: vive-re con un cane, non ‘avere un cane’: la scelta del verbo èimportante, se intendiamo stabilire con l’animale una rela-zione che sia collaborativa e non di possesso. Un cane, siamo d’accordo: ma quale cane? E prima anco-ra: è proprio assodato che siamo tutti d’accordo – che l’in-tero nucleo familiare è stato consultato sull’argomento, eche non vi sono sacche di resistenza che potrebbero inqualche misura intervenire ostacolando il nostro progettodi convivenza? Un cane deve essere accolto e inserito nelnucleo familiare con un entusiasmo condiviso non solo damadre, padre e figli: ma anche dai nonni, se ci sono, daglizii – da tutte le persone che sono destinate ad avere unrapporto continuativo e comunque non occasionale con ilnuovo arrivato. Entrambi i coniugi (i genitori, se ci sono

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dei figli) in particolare devono essere persuasi che il canein arrivo sarà fonte di arricchimento del loro rapporto, enon piuttosto motivo di conflittualità, causa di dissapori. Ilpresupposto in realtà è meno scontato di quanto potrebbeapparire, e troppe volte questo fattore viene sottovalutato:non è infrequente, purtroppo, che un animale dopo pochimesi venga portato in un canile o peggio ancora abbando-nato perché la sua gestione si è rivelata fonte di quotidianidisaccordi; anche i figli, di qualsiasi età, dovrebbero esserefavorevolmente attratti dalla prospettiva di una conviven-za con l’animale; un cane non deve essere imposto a unbambino che ne abbia timore, e soprattutto non deve esse-re introdotto per risolvere problematiche in atto, senza unpreliminare percorso di preparazione all’evento.È necessario ripetere la domanda: quale cane? Un cuccio-lo o un adulto? Maschio o femmina? Un cane d’allevamen-to, di razza? Quale razza, tra le oltre trecento che popola-no la terra? Di taglia piccola o grande? A pelo corto o a pe-lo lungo? O forse è preferibile adottarlo in un canile? Uncane adulto, con il carattere già formato, potrebbe adattar-si con difficoltà al nuovo ambiente… Sicuramente, un ca-ne sano: ma quali garanzie possono essere fornite?Alla domanda posta nella classe: “Qualcuno di voi desideraun cane?” si sollevano sempre diverse braccia, e l’entusia-smo è palpabile. “D’accordo!” si prosegue approfondendol’argomento: “Ma quale cane vi piacerebbe accogliere in ca-sa?”. Le risposte molte volte sono fonte di preoccupazione:perché, se venissero realizzati i desideri manifestati, l’aularapidamente si popolerebbe di pit bull, dobermann, rott-weiler, labrador (Io e Marley), san Bernardo (Beethoven),

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dalmata (La carica dei 101), border collie (Infostrada),cocker spaniel (Lilli e il vagabondo) e naturalmente pa-stori tedeschi (Rex, il cane poliziotto). I risultati sono per certi versi scoraggianti, perché le scel-te sono troppo spesso frutto di condizionamenti subiti daimedia, mentre la conoscenza delle specificità proprie diogni singola razza è praticamente nulla. A prevalere è chia-ramente l’immagine di un cane-icona, scolpito in manierasempre molto suggestiva e prepotentemente suggerito invirtù della sua bellezza (criterio estetico). Nessuno o qua-si, nella classe, che inizialmente opti per un meticcio (ba-stardo è solo una parolaccia che provvederemo a rivaluta-re): a questo punto la mission del docente e del veterina-rio risulta focalizzata a dovere. Il compito è quello di for-mare il giovane, impartendo le conoscenze fondamentalirelative ai fattori più importanti che possono condizionareil rapporto con l’animale e che dovrebbero essere tenuti inconsiderazione nel momento della scelta del cucciolo.Il fattore ambientale, per esempio: la famiglia nella qualeentrerà il nuovo componente è inserita in un contestometropolitano, o comunque cittadino – o piuttosto ci tro-viamo a confrontarci con una realtà di campagna? Sonodue situazioni di partenza radicalmente diverse, soprat-tutto per quanto riguarda la possibilità di offrire al canela soddisfazione quotidiana delle sue esigenze, effettuan-do quelle passeggiate in nostra compagnia che sole pos-sono dare una risposta ai più elementari appetiti fisiologi-ci e cognitivi. Anche in una grande città è possibile garan-tire uno stile di vita soddisfacente per un cane; tuttavia èindubbio che l’impegno richiesto sarà maggiore, e mag-

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giori saranno le difficoltà che potremo incontrare, perchépurtroppo i regolamenti comunali con i loro frequenti di-vieti il più delle volte non facilitano questa convivenza.Un altro fattore da tenere presente è quello economico: si-gnifica acquisire la consapevolezza che mantenere un canecomporta un impegno di spesa che non deve essere sotto-valutato; e che – per esempio – i fabbisogni alimentari di uncane di taglia grande sono di gran lunga superiori a quellidi un cane di taglia piccola: esigenze che possono inciderein maniera sensibile sui costi di mantenimento. Realizzareanche che un cane deve essere iscritto all’anagrafe canina,preferibilmente coperto da un’assicurazione per i danniverso terzi che potrebbe procurare, essere vaccinato ognianno e portato regolarmente dal veterinario di fiducia peri trattamenti sanitari necessari.Un altro da prendere in debita considerazione è il fattoresociale: significa valutare lo specifico contesto nel quale ilcane verrà inserito, prestando attenzione sia alla compo-sizione del nucleo familiare (presenza di bambini moltopiccoli, di persone anziane o di disabili, di soggetti aller-gici o fobici) che ai rapporti di vicinato, e facendo atten-zione alle disposizioni previste da eventuali regolamenticondominiali; rispettare infine le regole del ‘vivere comu-ne’ in città, che prevedono tra l’altro l’obbligo di custodia,quello di circolare nelle strade tenendo il cane al guinza-glio (e in alcuni casi anche con la museruola), e quellomolte volte disatteso di raccogliere le deiezioni dal suolopubblico.Il fattore culturale, infine, è probabilmente il più importan-te tra tutti: comporta l’attribuzione al cane di un ruolo e di

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uno statuto specifici; e la consapevolezza che l’animale en-tra definitivamente nelle nostre vite con un’autonomia og-gettiva che gli riconosce dei diritti e che di riflesso ci impo-ne dei doveri. Scegliere un cane dunque essendo a cono-scenza delle sue motivazioni principali, alcune delle qualisono comuni alla specie, altre proprie della razza, altre in-fine specifiche dell’individuo.

Una parola magica: socializzazione

Malgrado Howdy non potesse calpestare le strade

di New York, secondo i libri e gli articoli scaricati

da Internet avrebbe dovuto conoscere la gente in

strada, udire i rumori, vedere le auto, le biciclet-

te, i passeggini, gli ombrelli, i rollerblade e le au-

topompe dei vigili del fuoco. Tale socializzazione

veniva ottenuta infilando il cucciolo in un’imbra-

catura simile a un marsupio, fatta apposta per i

cani, e poi passeggiando su e giù per Columbus

Avenue con la testa di Howdy sotto il mento e le

sue zampe grosse e pelose ciondolanti in ogni di-

rezione. Tale compito spettava spesso a George.

Lui durante il giorno stava a casa, pertanto era la

soluzione più sensata, ma Polly gli era comunque

grata perché suo fratello lo faceva sempre volen-

tieri e con grande diligenza. Howdy, di conse-

guenza, era un cane estremamente amichevole ed

equilibrato, non si lasciava intimorire da nessu-

no, persona o animale che fosse, di qualsiasi ta-

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glia, forma, età o temperamento; e non perdeva la

calma all’avvicinarsi di sirene urlanti, marmitte

rombanti, radio, elicotteri, bande musicali, mani-

festazioni politiche, gemelli strillanti o assordanti

martelli pneumatici. Polly era fiera del suo cuc-

ciolo, e nel modo protettivo e adorante che aveva

assunto fin dall’infanzia era fiera di suo fratello

quasi fosse un cucciolo anche lui.

(Cathleen Stine, Cani a New York)

Nel brano compare una parola ‘magica’: socializzazione.Quanti hanno a cuore i cani e desiderano passare la vita inloro compagnia non hanno alternative: devono farla pro-pria, comprenderne il significato, metabolizzarlo sino a ca-pire che la sola chiave capace di penetrare nell’animo delcane è proprio questa. “Un cane solo è un cane morto”, no-ta laconicamente Paul Auster in Timbuctù, e la sua socia-lità è un bisogno primario che va coltivato e soddisfatto.Innanzitutto il cucciolo dovrebbe rimanere con la madrealmeno fino al sessantesimo giorno di età, perché solo lamadre è in grado di insegnargli a essere un cane e a convi-vere felicemente con i suoi simili. Nei primi mesi di vita –è il periodo della socializzazione primaria intraspecifi-

ca, che va dalla terza all’ottava settimana – mamma cagnagli trasmette l’insegnamento fondamentale dell’inibizionedel morso (padroneggiare la stretta mandibolare nel giococon i fratelli) e quella ‘gerarchizzazione alimentare’ in basealla quale si instaura nel gruppo una precisa gerarchia darispettare quando ci si avvicina al cibo: insegnamento cherappresenta la forma basilare di sottomissione e che ci per-

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metterà di instaurare con lui un rapporto sereno. Più tar-di, tra la quinta e la settima settimana la mamma imparti-sce ai suoi cuccioli delle lezioni pratiche su minaccia, con-ciliazione e sottomissione; durante questo periodo è peral-tro molto importante manipolare il cucciolo dolcemente al-cuni minuti al giorno, in maniera che si abitui al contatto conl’essere umano, sì da divenire consapevole che l’uomo puòessere un compagno con il quale giocare e collaborare, sen-za tuttavia ancora separarlo dai fratelli, suoi simili.Dall’ottava settimana e fino alla dodicesima il cucciolo entranel fondamentale periodo della socializzazione secondaria

interspecifica. Può essere allontanato dalla madre per ap-prendere a convivere con il mondo esterno, sviluppando unasua mappa cognitiva (nello spazio) e costruendosi specificiriferimenti cognitivi, per qualsiasi situazione nuova nella qua-le si viene a trovare. Gli stimoli che il cucciolo deve riceverein questo periodo dovrebbero essere i più diversi possibili, inconsiderazione dell’oggettiva difficoltà che hanno i cani aoperare delle generalizzazioni. Perché da adulto il cane sap-pia comportarsi in maniera per noi soddisfacente è fonda-mentale che in questo periodo egli scopra quanto complessaè in realtà la società degli uomini. Bisogna dargli dunque lapossibilità di interagire con esseri umani sia maschi che fem-mine; con bambini, adulti e anziani; con uomini dal volto ma-scherato e indecifrabile, perché scendono dalle loro romban-ti moto con il casco, e altri che nelle giornate nuvolose han-no la bizzarra abitudine di muoversi stringendo un minaccio-so bastone, capace improvvisamente di aprirsi; con il postinoche lancia il giornale nel nostro giardino, con il vicino di casache tiene sempre ad alto volume il suo hi-fi dal quale fuorie-

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scono rumori poco gradevoli; con i gatti, che si avvicinano al-lo stesso tempo curiosi e diffidenti, lanciando segnali appa-rentemente contraddittori e che devono essere decodificati(il linguaggio del gatto è diverso da quello del cane: è comeimparare una lingua straniera); con cani di altre razze edetà, che intendono entrare in relazione con il cucciolo, e ma-gari possono trasmettergli qualche pericolosa malattia: già,perché a complicare la situazione bisogna tenere presenteche in questo periodo vengono meno gli anticorpi materni, eil cucciolo non è ancora efficacemente protetto dalle vacci-nazioni alle quali si sta sottoponendo. Sarebbe tuttavia ungrave errore impedire o limitare la socializzazione per unaancorché comprensibile preoccupazione sanitaria; sono pur-troppo molti i cani che da adulti manifestano problemi com-portamentali (soprattutto ansie e fobie) proprio perché dacuccioli non sono stati adeguatamente socializzati.

Comunicazione verbale e non verbale

Montmorency non manca di coraggio; tuttavia

c’era nell’aspetto di quel gatto qualcosa che avreb-

be potuto rendere titubante il cane più temerario.

Si fermò di botto e guardò a sua volta il gattone.

Nessuno dei due parlò; ma è facile capire che il lo-

ro muto linguaggio si svolse come segue:

IL GATTO: Posso fare qualcosa per lei?

MONTMORENCY: No, grazie.

IL GATTO: Non faccia complimenti, sa, se le occor-

re qualcosa.

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MONTMORENCY (cominciando a retrocedere): Oh,

no... proprio davvero... non si disturbi. Io... temo

d’aver commesso un errore... credevo di conoscer-

la. Mi dispiace d’averla incomodata.

IL GATTO: Non c’è di che... il piacere è tutto mio.

È proprio sicuro che io non possa esserle utile in

qualcosa?

MONTMORENCY (continuando a retrocedere): Si-

curissimo, grazie... troppo gentile... Buon giorno.

IL GATTO: Arrivederla.

Dopo di che, il gatto si alzò e riprese a trotterella-

re, mentre Montmorency, incastrando nell’apposi-

ta scanalatura quella che persiste a considerare la

propria coda, ritornava verso di noi, si metteva

nella retroguardia e cercava di non dare nell’oc-

chio.

(Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca per non parlar del cane)

Cani e gatti non parlano, perlomeno nel senso più strettoche siamo soliti attribuire al verbo parlare; la parola pareessere una prerogativa dell’essere umano e in effetti l’uo-mo potrebbe essere definito come l’animale parlante perantonomasia. Anche il cane in realtà comunica attraversovocalizzi che riesce a modulare in maniera raffinata peresprimere stati d’animo diversi; e a nessun altro animalel’uomo ha assegnato così tanti verbi per contrassegnarequeste distinte espressioni vocali. Il cane abbaia per co-municare semplicemente la sua presenza e attirare la no-stra attenzione; nelle situazioni di possibile pericolo rin-

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ghia preannunciando una possibile aggressione; uggiola

invece festoso e scodinzolante per invitare al gioco; latra

per lamentare un disagio sia dello spirito (la solitudine e lanoia, per esempio) che del corpo (un cane tenuto alla ca-tena) e infine, nelle notti di luna piena, ulula in memoriadelle sue più ancestrali origini, invocando i perduti compa-gni di branco. Tuttavia oltre alla comunicazione verbale esiste un universorelazionale parallelo e troppe volte sottovalutato o ignorato,che è rappresentato dalla comunicazione non-verbale, dellaquale gli animali in genere – e quelli domestici in modo par-ticolare – sono abituali fruitori. Convivere con il cane e ilgatto significa anche avere la possibilità di praticare nelquotidiano l’etologia domestica, riguadagnando almeno inparte il possesso di potenzialità comunicative ancora laten-ti e altrimenti destinate a essere irrimediabilmente perdute.Il cane (anche il gatto) comunica per esempio con losguardo; il modo di guardare di un cane è sempre ricco disignificati. Se evita di guardarci, significa che non siamoriusciti a stabilire con lui un rapporto di collaborazione;ugualmente, bisogna evitare di fissare direttamente e alungo un cane sconosciuto negli occhi, perché questo at-teggiamento potrebbe essere interpretato come una pro-vocazione. I canali della comunicazione non-verbale sonoveramente numerosi. Le orecchie e la coda costituisconomodalità espressive fondamentali: è noto come lo scodin-zolìo esprima felicità, mentre una coda tra le zampe è sin-tomo di preoccupazione o di paura. Le orecchie ben erettedepongono per una condizione di attenzione; se sono re-tratte, per una di ansia o di aggressività. Con queste pre-

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messe diventa evidente come l’amputazione della coda edelle orecchie, per inveterata tradizione praticata in nume-rose razze, sia una pratica barbara e ingiustificabile, che li-mita in maniera drastica le abituali e più elementari moda-lità espressive del cane. Anche il senso del tatto ha moltaimportanza. La sensibilità tattile è rappresentata dalle sen-sazioni di contatto (o di pressione) che nascono sul tartufo,sul pelo, sulla cute, sulle mucose dei polpastrelli. I cani vivo-no costantemente sul suolo, e con il suolo hanno un contat-to diretto, che può influire sul loro stato d’animo. Ogni gior-no, in ogni occasione, il cane utilizza la comunicazione tatti-le per trasmettere emozioni, sentimenti. Con il muso puòesprimere dominanza o sottomissione, può intraprendere ilcorteggiamento o manifestare un’intenzione di gioco; il gio-vane che si relaziona con il suo cane impara a decifrare cor-rettamente queste modalità comportamentali, ricevendo dalsuo animale una vera e propria educazione sensoriale. La ca-rezza rientra a pieno titolo nell’universo della comunicazio-ne tattile del cane: per il reciproco beneficio che se ne rica-va, va appresa, sviluppata e realizzata nella maniera più fun-zionale; questo significa che ‘imparare’ ad accarezzare l’ani-male può rappresentare un momento di crescita emoziona-le da non sottovalutare, un vero e proprio percorso formati-vo di ‘conoscenza somestesica’, che ci permette di individua-re le zone del corpo dove la carezza è particolarmente gra-dita (dietro le orecchie, per esempio) e altre invece che èmeglio evitare, perché in quella zona del corpo ci sono trop-pe terminazioni nervose sensibili. Abbracciare un cane permanifestargli il nostro affetto è peraltro un comportamentosempre sbagliato; l’animale può tollerare questo nostro slan-

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cio, ma non arriva a comprenderlo per quello che vorrebbeessere. I cani non hanno braccia e l’abbraccio non è contem-plato nel loro etogramma.La comunicazione olfattiva, infine, è forse quella predomi-nante. Tra tutti i sensi l’olfatto nel cane è quello maggior-mente sviluppato, se si pensa che i recettori olfattivi nel-l’uomo sono ‘solo’ cinque milioni, mentre nel cane sono piùdi 220 milioni. Quando si conduce il cane a fare la sua pas-seggiata, non dovremmo mai dimenticare che il suo mondoè sensibilmente diverso dal nostro; e imparare a rispettarela sua esigenza di esplorare e ‘conoscere’ il quartiere attra-verso gli odori con i tempi che gli sono propri (“Odora gliescrementi, e ti sentirai un dio”, annota Bruce Fogle).

Cani buoni e cattivi

– Non è un pit bull.

– Però lo sembra...

– Non è un pit bull, è un american stafford. Sem-

bra un pit bull ma non lo è. È buonissimo, è il ca-

ne più buono del mondo.

– Sarà... a me però sembra un pit bull. Tienilo le-

gato, per favore.

Tutte le volte è così. Quando lo porto fuori, per la

strada, la gente tira via i bambini e prende in

braccio i cani. Mi guardano male mentre passo,

tipo “ecco questo con il cane cattivo”, ma non di-

cono niente, perché se lo dicessero, se mi insultas-

sero per esempio, potrei spiegarglielo che più che

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un cane questo è una salsiccia con le gambe, che

con quella bocca non ha mai fatto nient’altro che

ingoiare con una voracità disgustosa due scatolet-

te di Dog al giorno, di quelle da offerta speciale

mille lire. E che quel ghigno feroce che gli vedono

sul muso è soltanto un sorriso beota, come lo può

avere solo chi dorme ventitré ore su ventiquattro

e per il resto o mangia, o caga, o piscia.

(Carlo Lucarelli, Un giorno dopo l’altro)

Diciamolo subito: non esistono cani cattivi. Un pit bull, sepotesse parlare, con ogni probabilità si esprimerebbe conle parole di Jessica Rabbit: “Non sono cattivo – è che mi di-pingono così!”. Né esistono “razze potenzialmente perico-lose”, secondo una formula diffusa da recenti normative; seproprio vogliamo raccontarla giusta, tutti i cani sono po-tenzialmente pericolosi. Potenzialmente è un avverbioche basta da solo a ridicolizzare una formulazione che inrealtà non ha mai convinto l’etologo. Esistono invece caniche mordono: il morso si configura sicuramente in un mo-dulo comportamentale innato, che appartiene all’etogram-ma del cane. Migliaia di anni dopo un processo di domesti-cazione che forse non è ancora ultimato, il cane rimane unpredatore; e un predatore deve soddisfare l’esigenza pri-maria di inseguire delle prede, raggiungerle, abbatterle,mangiarsele. È un istinto che deve in qualche maniera es-sere soddisfatto; l’attività ludica – il gioco – è il più dellevolte l’unica maniera con la quale siamo in grado di calmie-rare la sua tendenza predatoria. Un cane che da cuccioloha potuto vivere assieme alla madre per almeno sessanta

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giorni, di regola è stato da questa educato e ha appresol’inibizione del morso: quanto cioè può stringere morden-do senza produrre ferite e dolore. La famigerata black list che in Italia è rimasta in vigore peralcuni anni e che metteva all’indice diverse razze di cani, èstata finalmente abolita dall’ultima ordinanza “concernen-te la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei ca-ni”, in vigore dal 3 marzo 2009. Questa nuova ordinanza, ri-voluzionaria rispetto alla visione precedente, responsabi-lizza in maniera definitiva i proprietari degli animali e con-sidera un cane pericoloso solo ‘a posteriori’ – dopo cioèun’aggressione – e comunque sempre in base alla gravitàdelle lesioni riportate. In questi casi sono previsti specificiinterventi terapeutici comportamentali, effettuati da vete-rinari esperti nella materia, indirizzati tanto all’animale che– soprattutto – al contesto familiare coinvolto. È altrettanto vero che c’è morso e morso, e che la tagliadell’animale è un fattore (non l’unico) che incide notevol-mente sulle conseguenze del morso. Se un pastore tede-sco ha una presa pari a novanta chili, quella di un rottwei-ler vale centocinquanta, e il famigerato pit bull può strin-gere per trecento. Uno yorkshire può essere il più aggres-sivo dei cani, ma il suo morso – a meno che non raggiun-ga una carotide o un’arteria femorale – difficilmente puòrivelarsi letale. In realtà il morso è quasi sempre una rea-zione appropriata nei confronti di un errato comporta-mento umano; ma poiché la tendenza a mordere che uncane può manifestare è da considerare la causa principa-le degli abbandoni e delle rinunce, diventa fondamentaleinstaurare sin dall’inizio una relazione osservando alcune

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regole elementari utili a prevenire questo comportamen-to indesiderato. È necessario innanzitutto che il cane nel nucleo familiareabbia ben definita la sua posizione, vale a dire che sia sta-ta instaurata una chiara gerarchia e individuata con chia-rezza la figura del capo-branco. In mancanza di questadefinizione il cane si sentirà investito di un ruolo – quel-lo appunto di capo-branco – che lo responsabilizza nellagestione delle più elementari situazioni quotidiane(quando mangiare, dove riposare, quando uscire ecc…) elo autorizza a intervenire anche mordendo per dirimereogni conflittualità. La figura del capo-branco deve essereper il cane autorevole e ‘interessante’ – vale a dire propo-sitiva – mentre purtroppo il più delle volte l’educazionedel cane viene impostata solo con divieti e proibizioni.Ogni cane ha bisogno di affetto, indubbiamente, ma piùancora forse di esercizio (fisico e mentale) e di disciplina,vale a dire di ricevere istruzioni impartite con coerenza enon soggette ai nostri sbalzi umorali; solo in questa ma-niera potremo essere accreditati e riconosciuti come lea-der attendibili.Per prevenire i fenomeni di aggressività sociale chi vivecon un cane deve anche conoscere le principali motivazio-ni del suo animale, intendendo con questo termine una na-turale disposizione di orientamento comportamentale, vol-to a selezionare nel mondo che ci circonda stimoli che ri-sultano essere più interessanti di altri. Ogni cane possiedeper esempio una motivazione esplorativa piuttosto ele-vata, che può essere soddisfatta durante la passeggiataquotidiana, prevalentemente incentrata nel suo senso ol-

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fattivo. Anche la motivazione ludica (inclinazione al gio-co) fa parte del suo etogramma, sempre spiccata in tutti icuccioli e persistente in molti soggetti adulti di alcune raz-ze; bisogna imparare a giocare con il cane nella manierapiù corretta, proponendo giochi diversificati e facendo at-tenzione a conservare nel gioco il nostro ruolo di capo-branco. La motivazione territoriale intesa come ten-denza alla difesa del proprio territorio può variare da sog-getto a soggetto e in alcune razze può essere più marca-ta; va tenuto presente che un cane con una elevata moti-vazione territoriale sarà naturalmente incline ad aggredi-re estranei che possono invadere il ‘suo’ territorio. In mol-ti cani è importante la motivazione epimeletica, vale adire l’inclinazione a prendersi cura di un altro soggetto,anche di specie diversa dalla propria, che si manifestacon la necessità di aiutare e accudire chi ci sta vicino; al-cune razze – labrador, golden retriever – vengono selezio-nate e preferite proprio in virtù di questa particolare pre-disposizione collaborativa. Da considerare infine anche lamotivazione sillegica, che fa riferimento alla tendenzaalla raccolta (nel senso di ‘mettere insieme’) di oggetti edi animali, e che è particolarmente presente in razze ori-ginariamente utilizzate nella pastorizia; il border collie èin assoluto la razza di cani nella quale tale motivazione èpiù forte.Lavorare quotidianamente sulle naturali motivazioni delnostro cane, avendo cura di disciplinarle in maniera ade-guata e sempre collegandole allo specifico contesto emo-zionale del quale ogni cane è munito (gioia, stupore, paurao sicurezza sono stati d’animo diversi che concorrono a

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strutturare ogni forma di educazione) è il solo modo perconfigurare una relazione soddisfacente e duratura. Ancheperché, come dice Daniel Pennac nelle parole conclusivedel suo romanzo Abbaiare stanca – la cui lettura pare par-ticolarmente indicata per essere discussa e commentata ascuola – “un cane è per sempre”. O almeno così dovrebbeessere.

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Per ultimo venne il gatto

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Il piu’ selvaggio di tutti gli animali

Il Cane era selvaggio, il Cavallo era selvaggio, la

Mucca era selvaggia e la Pecora era selvaggia, e il

Maiale era selvaggio – più selvaggi di quanto si

possa immaginare – ed essi se ne andavano negli

Umidi Boschi Selvaggi, tutti soli. Ma il più selvag-

gio di tutti gli animali era il Gatto. Egli se ne an-

dava da solo, e tutti i luoghi erano uguali per lui.

(Rudyard Kipling, Storie proprio così)

L’amicizia con il gatto è più recente rispetto a quella chel’uomo ha stipulato con il cane. Nella complessa storia del-la domesticazione il gatto risulta tra le ultime specie ani-mali addomesticate e la divertente novella di Rudyard Ki-pling “Il gatto che se ne andava da solo” riesce a metterebene in evidenza questo aspetto. Lo scrittore immaginache il gatto sia stato l’ultimo degli animali domestici a es-sersi accostato all’uomo, conservando comunque una suaspiccata autonomia. Probabilmente questa è proprio la ve-rità, poiché la fortuna di questo animale – e anche quelladell’uomo – deve avere avuto inizio con la cosiddetta rivo-luzione agricola (periodo Neolitico: circa 8000-5000 a.C.).Una fantasiosa leggenda ipotizza che il gatto sia originatoda una carezza che Noè aveva fatto alla leonessa addor-mentatasi sull’arca, in occasione del diluvio universale; inrealtà, il progenitore del felino che tutti conosciamo vaconsiderato il gatto libico (Felis lybica), un animale untempo molto diffuso nel continente asiatico e africano, dipelame giallo-fulvo e di dimensioni ragguardevoli. Diventa-

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to da poco agricoltore, lungo la fertile pianura del fiumeNilo, l’uomo aveva imparato a fare provviste per il futuro,accumulando i cereali coltivati in solidi granai, che tutta-via risultavano esposti ai quotidiani saccheggi dei roditori,che con le loro incursioni notturne provocavano perditeingenti. Un’autentica ‘macchina da guerra’ come il gatto –fenomenale cacciatore – deve essere stata prontamenteapprezzata dall’uomo dell’antico Egitto; e il gatto conside-rato come l’efficace soluzione di un problema altrimenti ir-risolvibile. Diventato in breve un animale sacro (lo rappre-sentava la dea Bastet), la sua uccisione era punita con lapena di morte a mezzo lapidazione; e la sua perdita eraconsiderata un vero e proprio lutto familiare. Il corpo del-l’animale veniva imbalsamato, avvolto in bende di tela in-trecciate di diversi colori, il musetto ricoperto da una ma-schera di legno scolpito. A Beni Hasan e a Bubastis gli ar-cheologi hanno individuato dei cimiteri felini con migliaiadi esemplari imbalsamati; in alcuni casi venivano imbalsa-mati anche dei topi, che dovevano servire come promessadi cibo per l’aldilà! La fortuna del gatto si è però bruscamente eclissata conl’avvento dei nuovi padroni del Mediterraneo, i Romani,che nelle abitazioni gli hanno preferito il cane (e il furetto,come cacciatore di topi). Con il Cristianesimo impostosinel IV secolo d.C. come nuova religione, il gatto da semidioviene degradato a misero proscritto, se non addiritturaconsiderato un sinistro emissario del Diavolo. I cosiddettisecoli bui del Medioevo sono costellati di roghi che assie-me alle streghe fanno ardere i gatti; in occasione della fe-sta di san Giovanni (il 24 giugno) trionfano le superstizio-

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ni, e i poveri felini – soprattutto se neri – sono spesso le vit-time designate.Per la riabilitazione del gatto bisognerà attendere l’avven-to del Rinascimento, quando Leonardo da Vinci giungeràad affermare che “il più piccolo felino è un capolavoro”. Ilgatto può riconquistare il perduto ruolo di compagno dellenostre vite; e con il suo fascino entrare in modo particola-re nelle grazie degli artisti. Numerosi sono i poeti che, se-dotti dai misteri felini, gli hanno dedicato versi suggestivi:Pablo Neruda, Umberto Saba, Charles Baudelaire e Tho-mas Eliot sono solo alcuni tra i più celebrati autori, e laproposta delle loro poesie può essere una maniera accatti-vante per introdurre l’argomento nella classe.

Gatto, mistero senza fine

I misteri non mancano. I gatti, con i loro occhi lu-

centi e il passo felpato, si sono sempre sottratti a

spiegazioni definitive. Nel corso di migliaia di

anni di storia comune, il gatto è stato per gli esse-

ri umani fonte di stupore e turbamento, di vene-

razione e superstizione.

(Stephen Budiansky, Il carattere del gatto)

Ma quali origini ha questo così celebrato potere seduttivo?Per tentare di decifrarlo dobbiamo avvicinarci – in punta dipiedi – al mondo dei sensi del gatto, così diverso dal nostro.Cominciamo dall’occhio, nel quale i cinesi – secondo un no-to proverbio – sanno leggere l’ora. Da sempre le pupille del

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felino sono state oggetto di dotti commentari; a colpire è illoro insolito colore ambrato e la forma – così perfettamen-te rotonda – che richiama l’immagine del sole. Pur non di-stinguendo i colori come noi (i gatti hanno essenzialmenteuna visione bicromatica) gli occhi contengono uno specia-le meccanismo di conservazione delle stimolazioni lumino-se, chiamato tapetum lucidum, che riflette la luce non as-sorbita dalla retina e che aiuta migliorandola di molto la vi-sione notturna. Il campo visivo binoculare da 90 a 130 gra-di è superiore a quello dei cani (circa 60 gradi) e consentedi svolgere al meglio l’attività di appostamento e balzo sul-la ignara preda. Il grado di dilatazione delle pupille dipen-de non solo dall’intensità della luce, ma anche dall’umore;durante il giorno la dilatazione pupillare esprime infattipaura o ansietà (non dobbiamo pertanto avvicinarci peraccarezzarlo), mentre durante la notte permette al felinodi muoversi con destrezza, utilizzando al meglio la condi-zione di penombra. Dopo l’occhio, un altro ‘mistero’: quello delle fusa, tuttora alcentro di diverse speculazioni, mai del tutto convincenti.Nel regno animale solo i felini hanno a disposizione questoparticolare strumento di comunicazione, così gradito allenostre orecchie; originano da impulsi nervosi particolar-mente regolari, che dal sistema nervoso centrale pervengo-no al diaframma e alle corde vocali. Il micio comincia a farele fusa sin dalla nascita, al momento della suzione, e mam-ma gatta gli fa pronta eco, tranquillizzandolo immediata-mente. In seguito, da adulto, il gatto ricorrerà alle fusa an-che durante il corteggiamento, per i saluti amichevoli o co-me segno di conciliazione per farsi accettare da un esem-

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plare dominante; anche in punto di morte alcuni gatti fan-no le fusa: un’uscita di scena decisamente commovente,forse il loro modo di esprimere un ultimo ‘grazie’ alla vita!Un altro mistero può essere ricondotto alla presunta su-periore capacità di sopravvivenza di questa specie anima-le; un noto proverbio sostiene che i gatti posseggono no-ve vite (quanti saranno mai i proverbi che hanno comeprotagonista il gatto? Una possibile consegna per la clas-se che unisce il divertimento all’apprendimento, quella diricercarli e commentarli) e in un certo senso è vero. No-nostante uno “stile di vita” tendenzialmente spericolato,il nostro felino domestico supera le prove che s’ingegnaad affrontare con invidiabile disinvoltura; e la sua agilitànon può essere messa in discussione. Esemplare a riguar-do è la capacità di atterraggio. La colonna vertebrale delgatto è particolarmente elastica; i cuscinetti carnosi pre-senti sotto le zampe al momento dell’urto con il terrenofunzionano da veri e propri airbag. Durante la caduta so-no sufficienti sessanta centimetri per poter effettuareuna completa rotazione del corpo, arcuare la schiena perassorbire l’urto, e atterrare al suolo generalmente senzaconseguenze. Un gatto siamese di nome Cognac, a LongIsland (Stati Uniti) è precipitato da un aeroplano leggeroda un’altezza di 335 metri dal suolo, sopravvivendo mira-colosamente!Ancora una domanda per la classe: come si chiamano i baf-fi del gatto? Vibrisse, naturalmente… Utilizzati come inte-grazione delle capacità visive, i baffi del gatto sono in gra-do di percepire gli ostacoli che si trovano nelle immediatevicinanze con grande precisione, e di ricreare una ‘mappa’

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cerebrale capace di riprodurre perfettamente la collocazio-ne del corpo. Qualche volta il gatto si diverte a camuffarsida sommergibile ed esplorare il territorio con la presunzio-ne di passare inosservato: in occasioni come queste le vi-brisse diventano il suo curioso periscopio.Misteriosa per noi può anche apparire la comunicazione fe-romonale, così importante nel gatto. I feromoni sono dellesostanze chimiche prodotte da alcune ghiandole capaci diindurre delle reazioni particolari nel comportamento ani-male. Esistono dei feromoni ‘di appagamento’ che vengonorilasciati quando il gatto è soddisfatto, a suo agio (spessoassieme alle fusa) e dei feromoni di timore o di allarme,prodotti in situazioni di disagio o di avvertito pericolo (nel-l’ambulatorio del veterinario, per esempio!). Il gatto che simuove nell’appartamento ama strusciarsi contro i mobili,proprio per rilasciare questi odori familiari su ciò che locirconda, ricavandone una sensazione di maggiore sicurez-za e tranquillità. Quando il gatto annusa i feromoni utilizzaun organo particolare, l’organo vomero-nasale che si trovasul palato, sollevando in maniera evidente il labbro supe-riore e aprendo leggermente la bocca: le sue reazioni com-portamentali saranno diverse, a seconda degli odori perce-piti. Da qualche anno sono disponibili nei negozi per ani-mali dei feromoni sintetici in forma di diffusori o di sprayper ambienti che possono essere utilizzati nella prevenzio-ne di alcuni disturbi del comportamento o per favorire l’in-serimento dell’animale in ambienti sconosciuti (il gatto èun animale molto abitudinario!). I misteri dell’universo felino si concludono felicemente nel-la coda, la parte del corpo che forse meglio di ogni altra rie-

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sce a esprimere l’umore del felino, e che può essere consi-derata emblematica della comunicazione non verbale. Perandare d’accordo con il gatto di casa, diventa fondamenta-le intenderne il linguaggio corporale: “Sono proprio felice!”proclama una coda ben diritta, slanciata a candela. “C’èforse qualcosa di interessante da guardare?”, chiede invecela coda leggermente piegata, a punto interrogativo. “Fuoridal mio territorio!” esclama quella incurvata, davanti a unintruso; e “Ho paura!”, si lamenta la coda bassa, con il pelodiritto, quasi nascosta sotto il corpo rannicchiato.Gatto, mistero senza fine!

I verbi del gatto

Appostarsi e balzare (cioè cacciare)

Dormire, evacuare, fare le fusa.

Graffiare (ahinoi), inventare giochi.

Lappare, miagolare, nascondersi.

Oziare, prendere qualche mosca.

Rubare e squagliarsela.

Toelettarsi (molto, molto importante!).

Usmare, vagabondare e zampare.

(Alessandro Paronuzzi, Afusorismi)

“Chi di voi vive con un gatto in casa?”. La domanda nellaclasse provoca il sollevamento di un numero di braccia chesi fatica a contare e tra queste il più delle volte si inserisceanche quella dell’insegnante. L’impressione che si ricava daquesta entusiastica reazione è che il gatto almeno per

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quanto riguarda i grandi numeri sia riuscito a scalzare il ca-ne; la spiegazione di questo sorpasso è in realtà abbastan-za semplice. Il gatto rispetto al cane è un animale meno im-pegnativo; non vi è infatti l’obbligo della passeggiata quoti-diana, è molto più ‘maneggevole’ quando si viaggia, e puòessere lasciato solo nell’appartamento durante la giornatasenza avvertire un fastidioso senso di colpa. In un’ottica etologica il gatto è anche un animale che sipresta molto bene a essere osservato, nel tentativo di car-pire la sua filosofia di vita. L’osservazione di un animale èuno strumento fondamentale per decodificare il linguaggionon verbale e penetrare l’alterità, cominciando così a im-medesimarsi in chi è diverso da noi e strutturare quel sen-timento di empatia che ci consentirà di condividere il do-lore del prossimo. Un gioco produttivo che può essere sti-molato nella classe per verificare le capacità di osservazio-ne del comportamento animale è quello di chiedere aglistudenti di elencare i ‘verbi’ del gatto; i risultati dell’inda-gine sono spesso sorprendenti (e divertenti). Il primo verbo di competenza felina è sicuramente dor-

mire. Se il cane consuma – similmente all’uomo – circaun terzo della sua vita nel sonno (otto ore al giorno inmedia) il gatto dedica a questa impegnativa attività qua-si il doppio del tempo, raggiungendo anche le quattordi-ci ore di quotidiana pennichella; è un sonno diverso dalnostro, più superficiale, pronto a essere interrotto al mi-nimo rumore sospetto, e comunque capace di compiereuna selezione tra un enorme numero di rumori trascura-bili, per individuare quelli più significativi. “I gatti posso-no sembrare profondamente addormentati quando è in

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funzione l’aspirapolvere o la lavatrice” ha osservato acu-tamente Joan Hendricks “ma si rianimano immediata-mente al rumore di una scatoletta che viene aperta in cu-cina!”.Il secondo verbo del gatto è riflessivo: leccarsi, a confer-ma che è veritiera la fama di essere un animale partico-larmente pulito e sempre attento alla propria igiene. Si ri-tiene che un gatto trascorra circa un terzo della sua gior-nata a leccarsi e a lisciarsi il pelo, ispezionando accurata-mente ogni centimetro del suo mantello. Questa toelettaquotidiana mantiene il mantello soffice e pulito; se si os-serva con attenzione il gatto, si scopre che questa attivi-tà possiede i requisiti di un vero rito, vale a dire che ri-spetta rigorosamente sequenze obbligate. Ogni volta in-fatti il gatto provvede a pulire prima le zampe anteriori,poi la testa, le spalle, i fianchi, le zampe posteriori e perultima la coda: non solo una forma di quotidiana ginnasti-ca, ma anche una maniera per assumere la vitamina D,che viene prodotta sul pelo grazie all’attività promossadai raggi del sole. Un gatto che non si lecca induce il so-spetto che possa essere ammalato, consigliando l’oppor-tunità di una visita veterinaria. Il terzo verbo individuato tra le quotidiane attività felinesuscita immancabilmente nella classe qualche ilarità, ciònon di meno non può essere taciuto: fare i bisogni.L’americano Edward Lowe nel 1947 ha pensato di utiliz-zare dell’argilla granulata per assorbire le deiezioni deigatti, che negli anni del dopoguerra avevano cominciato apopolare gli appartamenti delle nostre città; un’invenzio-ne semplice ma quanto mai utile, che ha permesso al suo

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inventore di morire multimiliardario nel 1995! La gestio-ne corretta della lettiera igienica è fondamentale, e trop-pe volte la sua importanza viene sottovalutata. La lettierava collocata in una zona tranquilla, riservata, dove il no-stro gatto possa ritirarsi in solitudine, e comunque suffi-cientemente distante dalla ciotola del cibo. Soprattuttova cambiata con frequenza, perché se il gatto non la tro-va di suo gradimento può decidere di sporcare da qualchealtra parte. Un gatto è felice quando la lettiera corrispon-de alle sue esigenze; e trascurare questo aspetto può pro-vocare problemi di convivenza dalle conseguenze anchefatali. Il quarto verbo quale potrebbe essere? Sicuramente ar-

rampicarsi. A differenza del cane, il gatto predilige la di-mensione verticale e ha bisogno di un ambiente domesticomultiforme, dove poter dare sfogo alla sua motivazioneesplorativa e predatoria. Quando non dorme o non si lecca,il gatto diventa una specie di Indiana Jones domestico, chesi inventa nascondigli, trabocchetti e situazioni di scaccocapaci di impegnare la sua spiccata intelligenza euristica,che lo fa apprendere per tentativi ed errori. Il quinto verbo… ma quanti mai possono essere i verbi delgatto? A ben vedere l’elencazione può continuare presso-ché all’infinito; il gatto si allunga, si apposta, gioca (soprat-tutto a nascondino); caccia, soffia. Dimena la coda, mangia(come e cosa mangia il gatto?), beve (quando e come?), sistruscia, sbadiglia, sogna, insegue. E poi ancora: precipita,cattura, ruba, si annoia, si accoppia, morde (ahinoi), annu-sa (cosa sarà mai il flehmen?), scruta nel buio, miagola. Einfine nuovamente e soprattutto dorme.

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Cane e gatto: due mondi complementari

Il gatto è più vicino all’uomo poiché può dormire

sul letto del suo padrone, cosa che il cane può fa-

re raramente. Inoltre, il primo serve a proteggere

l’interno della dimora del signore e ha maggiore

libertà rispetto al cane, potendosi spostare in essa

ai vari piani, mentre quest’ultimo deve restare

fuori della porta, oppure nei campi se ce n’è biso-

gno. Pertanto il gatto è più nobile del cane.

(da La fonte di tutte le scienze del filosofo

Sydrach, citato da Lawrence Bobis in L’elogio del gatto)

“È più intelligente il cane o il gatto?”. La domanda, inten-zionalmente provocatoria, suscita nella classe le rispostepiù contrastanti: “Il cane perché obbedisce, mentre il gat-to fa sempre quello che vuole”. “Il gatto, perché fa quelloche vuole, mentre il cane deve obbedire”. “Il cane, perchéè il migliore amico dell’uomo”. “Il gatto, perché è più furbo

del cane”. Qualcuno, prudentemente non si sbilancia: “So-no intelligenti in maniera uguale…”.Innanzitutto bisognerebbe intendersi sul concetto di intel-ligenza, tentando di darne una definizione. Un gioco ‘intel-ligente’ per la classe è proprio quello di stimolare gli alun-ni a ‘costruire’ delle definizioni intorno a concetti che nonsono facilmente inquadrabili neppure per il mondo degliadulti; e gli animali costituiscono un focus motivazionale dirara efficacia, e possono essere utilizzati anche nella strut-turazione del pensiero logico. In realtà, l’intelligenza è unconcetto astratto difficile da definire, ancor di più nel mon-

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do animale, anche perché esistono diversi tipi di intelligen-za. Operare delle generalizzazioni significa banalizzare deiprocessi mentali che tra le specie animali sono altamentediversificati. Howard Gardner ha individuato ben sette tipidiversi di intelligenza: linguistica, logico-matematica, mu-sicale, spaziale, corporeo-cinestesica, sociale o interperso-nale e quella intrapersonale. Ogni singola specie animaleha sviluppato un particolare tipo di intelligenza, in funzio-ne di specifici adattamenti all’ambiente; se l’homo sapiens

eccelle nell’intelligenza linguistica, i piccioni viaggiatori glisono nettamente superiori in quella spaziale…Per quanto riguarda il gatto, sono stati effettuati dei test disettore, individuando quattro campi generali: la capacitàvisiva, l’abilità uditiva, il comportamento sociale e il com-portamento tra le mura domestiche. La conclusione allaquale si è pervenuti è che l’intelligenza del gatto è di tiposomestesico-euristico, a differenza di quella del cane che èpiuttosto di tipo sociale-collaborativo. In altre parole, il ca-ne ha bisogno di relazionarsi con qualcuno per collaborarenella soluzione delle problematiche che si possono presen-tare, in un gioco di squadra dove i ruoli devono essere bendefiniti: è il remoto retaggio dello ‘spirito del branco’ pro-prio del lupo, che agisce sempre in un team dove ciascunoè chiamato a interpretare compiti specifici, nel rispetto diuna gerarchia stabilita. Il gatto invece ragiona e opera dasolo, impegnandosi in ‘giochi’ di tipo per così dire enigmi-stico (problem solving), e ricorrendo a scorciatoie di pen-siero che la nostra mente solitamente non riesce a imma-ginare. Risponde al vero che il gatto tra le mura domesti-che – a differenza del cane – sa per così dire ‘sbrigarsela da

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solo’; tuttavia è importante, proprio per soddisfare le sueesigenze cognitive, mettergli a disposizione degli ambientisufficientemente interessanti, e che possano stimolare lasua innata curiosità e la sua natura di predatore. Se non cisono dei topi da catturare (la cattura è solo l’evento con-clusivo di un’attività complessa, che prevede l’osservazio-ne, l’attesa, il rapido inseguimento e il balzo) bisognerà for-nire alla nostra tigre d’appartamento delle valide soluzionialternative: dal classico ma sempre apprezzato gomitolo dilana, al surrogato offerto da un topolino meccanico o di pe-luche; e poi mettergli a disposizione complicate prospetti-ve labirintiche da perlustrare e ‘risolvere’ (i gatti amanoterribilmente giocare a nascondino) e almeno un graffiato-io verticale sul quale poter impunemente sfoderare e con-sumare gli artigli; lasciare sempre aperto e disponibile iltrasportino, con il quale entrare in un rapporto di affettuo-sa confidenza; e rendere infine gradevole la lettiera igieni-ca, quotidiano e imprescindibile punto di riferimento. Do-po averlo inserito in un ambiente arricchito di un numeroadeguato di stimoli, potremmo metterci in discreta osser-vazione, per scoprire che il gatto è – tra i dormiglioni pro-fessionisti – sicuramente il più indaffarato!

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Elementi di bioetica animale

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La promessa dell’umanita’à

Tra le creature della sua razza, Guarda-La-Luna

era quasi un gigante, alto forse un metro e mezzo,

e, sebbene assai denutrito, pesava più di cinquan-

ta chili. Il suo corpo peloso e muscoloso era una

via di mezzo tra la scimmia e l’uomo, ma la testa

si avvicinava molto di più a quella dell’uomo che

a quella della scimmia. La fronte era bassa, con

sporgenze ossee sopra le orbite, eppure egli posse-

deva inequivocabilmente nei propri geni la pro-

messa dell’umanità. Mentre contemplava, fuori

della caverna, il mondo ostile del pleistocene,

v’era già qualcosa nel suo sguardo che trascende-

va le capacità di qualsiasi scimmia. In quegli oc-

chi scuri, profondamente infossati, si celava una

nascente consapevolezza... i primi barlumi di

un’intelligenza cui ancora per poco non sarebbe

stato possibile estrinsecarsi, e che presto si sareb-

be potuta estinguere per sempre.

(Arthur C. Clarke, 2001 Odissea nello spazio)

2001 Odissea nello spazio, il capolavoro di Stanley Kubricktratto dall’omonimo libro di Arthur C. Clarke, risale al 1968;quarant’anni dopo la pellicola conserva tutta la spettacolari-tà e la provocatoria capacità di suscitare interrogativi cheavevano attratto e sconcertato gli spettatori al momento del-la sua distribuzione nelle sale cinematografiche. Nella lunga, indimenticabile sequenza iniziale, un gruppo diuomini-scimmia viene a contatto con un misterioso monoli-

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te nero. È un momento/evento archetipale, che la scienzaconsidera possibile. “Mi piace pensare che il corso dellastoria dipenda da qualche piccolo avvenimento che si veri-fica di tanto in tanto” scrive Jean Luis Arsuaga (A cena

con Neanderthal). “Esistono nella storia, a mio avviso, deicrocevia in grado di determinare il futuro. Se si sceglie unastrada, si arriverà a una destinazione molto diversa daquella che si sarebbe raggiunta imboccando in quel puntopreciso l’altro cammino. Il sentiero che non si percorre sitrasforma automaticamente in qualcosa di futuribile, ossiaun ex futuro, su cui si potrà soltanto fantasticare, perchénon si sa mai con certezza dove avrebbe portato”. Gli uo-mini-scimmia in effetti esitano lungamente, prima di avvi-cinarsi al gigantesco monolite comparso nella notte; di de-cidere infine di toccarlo, e poco dopo di scoprire la possi-bilità di utilizzare un osso come strumento di difesa e di at-tacco nei confronti degli altri animali. È l’inizio della storiadell’umanità, il passaggio dall’australopiteco all’homo abi-

lis (circa 2.700.000 anni fa). La sequenza offre al docente la possibilità di intraprende-re con gli studenti un discorso complesso ma particolar-mente fecondo intorno al rapporto uomo-animale. Le do-mande che possono essere proposte alla classe, terminatala visione del prologo del film, sono infatti molteplici:I protagonisti della sequenza sono uomini o sono scimmie? Quale o quali sono le differenze qualitative che distinguo-no l’uomo dalla scimmia?Quando e in quali circostanze può essere avvenuta questaseparazione?Cosa rappresenta il monolite nero?

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Qual è il significato attribuito all’osso impugnato dall’uo-mo-scimmia?L’uomo del terzo millennio è sostanzialmente diverso dalsuo più lontano progenitore?Che rapporto ci può essere tra la teoria evoluzionistica diDarwin e l’ipotesi creazionistica della Bibbia?L’uomo è un animale? In caso di risposta negativa: cosa distingue l’uomo daglianimali? In caso di risposta affermativa: cosa distingue l’uomo daglialtri animali?Esiste una morale in tutta questa storia? Infine e soprattutto, cos’è la morale?

Le orme dell’amore

Al mattino, quando ci accingiamo a intraprende-

re una giornata ricca di impegni e non ne abbia-

mo voglia, ricordiamo che è nostro preciso dovere

concorrere al benessere generale. Osserviamo le

piante, i passerotti, le formiche, i ragni, le api:

tutti hanno un compito, tutti danno forma alla

natura con il loro lavoro.

(Marco Aurelio, Ricordi)

Può essere interessante un rapido excursus storico fina-lizzato a evidenziare come nel passato sia stato considera-to il rapporto dell’uomo con gli animali, caratterizzato neisecoli da una sostanziale discontinuità, e dunque permea-to da luci e ombre.

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La millenaria civiltà egiziana ebbe un grande rispetto pergli animali, spesso deificati (si pensi a Bastet, la dea-gatto):“Non ho commesso iniquità contro gli uomini, non ho mal-trattato le bestie, non ho privato il bestiame minuto dellasua erba”, troviamo significativamente scritto nella formu-la funeraria del Libro dei morti. Successivamente anche ifilosofi greci (VI sec. a.C.) – soprattutto i presocratici – ri-conoscendo una comune origine a tutti gli organismi viven-ti hanno raccomandato un comportamento mirato a evita-re qualsiasi forma di iniqua sopraffazione. Teofrasto – con-siderato per certi versi il padre della moderna ecologia perl’attenzione riservata all’ambiente e alla natura – dedicòagli animali un’opera, purtroppo andata perduta, intitolatamolto significativamente Della pietà; Platone ripudiava isacrifici di sangue e propugnava un’alimentazione vegeta-riana; Democrito, osservando l’abilità degli uccelli nel co-struire i loro nidi, attribuiva agli animali facoltà intellettive.Alla visione presocratica, peraltro, si contrapponeva quel-la della scuola stoica – della quale Crisippo fu uno dei prin-cipali esponenti –, che inquadrava gli animali domestici inun’ottica decisamente utilitaristica. Visione che è stata inbuona parte ereditata dalla cultura latina: “Il maiale checosa ha di per sé, se non il godimento che può offrire?” halasciato scritto Cicerone nel De natura deorum. “La natu-ra in realtà non ha prodotto nulla di più fecondo di questoanimale, in vista del nutrimento degli uomini”. Con il crollo dell’Impero romano e l’avvento del Medioevoin Europa per lunghi secoli s’impone una concezione del-l’universo spiccatamente antropocentrica, che solamenteCopernico e Galileo arriveranno a infrangere, sostenendo

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la centralità del Sole nella circolazione planetaria. Durantequesti lunghi secoli solo all’uomo viene riconosciuta unanatura divina, mentre l’animale è pura bestialità, nei con-fronti del quale tutto diventa lecito: il concilio di Braga del567 giunge a minacciare d’anatema chi si fosse astenutodal mangiare le carni, donate all’uomo da Dio per nutrirsi;e alle presunte streghe bruciate sui roghi spesso farannocompagnia i gatti neri, considerati perversi emissari del de-monio. Bisognerà attendere il Rinascimento, per ritrovarenuovi appassionati sostenitori della causa animale: Erasmoda Rotterdam, Tommaso Moro e il grande Leonardo da Vin-ci sono alcune delle più autorevoli voci che interromponoun silenzio durato troppi secoli, e che intervengono condecisione a sostegno della causa animalista. Nel Seicentoecco però imporsi sulla scena il razionalista Cartesio (Re-né Descartes) che elaborerà la sua teoria degli animali-au-tomi: una visione rigorosamente meccanicistica che giungea negare ogni sensibilità nelle specie viventi diverse dal-l’uomo, che priva gli animali di qualsiasi autonomia e dun-que di ogni pur minimo diritto. Nonostante gli accaloratiinterventi successivi di studiosi e letterati autorevoli qualiJean Jacques Rousseau e Voltaire, che contrastavano la ne-fasta tesi cartesiana, bisognerà in realtà attendere l’Otto-cento, per vedere enunciate con Jeremy Bentham (1748-1832) le prime illuminate posizioni a favore degli animali,secondo l’ottica della sofferenza: “Il problema non è: pos-sono ragionare. E neppure: possono parlare. Ma: possonosoffrire?”.È nell’Ottocento che cominciano a diffondersi in Europa leprime associazioni protezionistiche (in Italia, la benemeri-

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ta ENPA è stata costituita da Giuseppe Garibaldi!); a esse-re pubblicamente denunciati i maltrattamenti e le crudel-tà; a punire chi commette atti di brutalità sulle bestie – an-che se il criterio antropocentrico è quello che complessiva-mente continua a prevalere, ritenendo che l’animale possaessere tranquillamente utilizzato nella medicina sperimen-tale per conseguire opinabili progressi.Solo nella seconda metà del Novecento si fa strada un ve-ro e proprio “pensiero animalista”, a opera soprattutto deifilosofi Tom Regan (statunitense, 1938) e di Peter Singer(australiano, 1946), che con tesi diverse argomentanol’esigenza di riconoscere dei diritti anche al mondo anima-le. I tempi sono maturi per cominciare a parlare di bioeti-ca, e perché anche i vari Paesi comincino finalmente a le-giferare sulla materia.

La vera bonta’ dell’uomo

La vera bontà dell’uomo si può manifestare in tut-

ta purezza e libertà solo nei confronti di chi non

rappresenta alcuna forza. Il vero esame morale

dell’umanità, l’esame fondamentale (posto così in

profondità da sfuggire al nostro sguardo) è il suo

rapporto con coloro che sono alla sua mercé: gli

animali. E qui sta il fondamentale fallimento del-

l’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano

tutti gli altri.

(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

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Risulta ancora valida la classica definizione di bioetica pro-posta da K. Danner Clouser, secondo il quale va intesa co-me “lo studio sistematico della condotta umana nell’areadelle scienze della vita e della salute, in quanto la condot-ta umana sia esaminata alla luce di valori e di princìpi mo-rali”. Anche se alcune problematiche tipiche della bioeticapreesistevano alla sua definizione, indubbiamente questadisciplina si è imposta ultimamente all’attenzione dei me-dia, a seguito dello sviluppo accelerato delle scienze edelle tecnologie biomediche, che negli ultimi decennihanno sollevato problematiche complesse che oltrepassa-no l’ambito del mero sapere scientifico per investire quel-lo della responsabilità morale. Si pensi, per esempio, agliinterrogativi di legittimità che possono conseguire ai tra-pianti d’organo, al prolungamento artificiale delle funzio-ni vitali, al concepimento in vitro e più recentemente allaclonazione. Accanto alla bioetica medica, che si occupain maniera privilegiata di problematiche specificatamen-te umane, emerge la necessità di prendere in uguale con-siderazione quei valori connessi alla ‘manipolazione’ dellaterra – inquinamento ed effetto serra, in primo luogo –che sono il baricentro della bioetica ambientale; infine,di definire i confini etici correlati ai rapporti dell’uomocon le altre specie viventi, inseriti in un orizzonte che siail più ampio possibile: e questo è il campo d’azione dellabioetica animale.“Si avvertono nuove esigenze: informare i giovani affinchépossano comprendere il mondo naturale e il proprio rap-porto con esso; insegnare ai bambini nelle scuole il modoin cui la società alla quale appartengono tratta gli animali;

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fornire alla nostra gioventù le opportunità che promuova-no il rispetto per ogni singola vita e l’empatia verso gli ani-mali con i quali dividiamo il pianeta” annota la primatologaJane Goodall, fondatrice del programma “Root & Schoots”,che richiede a gruppi di giovani di partecipare a progettiche giovino all’ambiente, agli animali e alle comunità di es-seri umani che vivono nelle stesse aree. E prosegue: “Se ibambini verranno a conoscenza della terribile crudeltà in-sita nel commercio degli animali da compagnia, capirannoperché è un errore comprare un animale esotico. Se entre-ranno in contatto con ciò che spesso accade dietro le quin-te di zoo che all’apparenza sembrano di buona qualità,guarderanno questi animali con occhi diversi, faranno do-mande su problemi di cui prima non erano consapevoli. Sela conoscenza degli animali porta al rispetto e all’interesseper il loro benessere, può essere vero anche il contrario.Un bambino che venga obbligato a dissezionare una crea-tura che prima era viva, la volta successiva lo farà moltopiù facilmente. Esistono altri modi di apprendere il rispet-to per le diverse forme viventi, di osservare con stupore illoro funzionamento e la loro diversità: modi che non di-struggono la vita”.La scuola ha il compito fondamentale di incoraggiare i gio-vani a pensare in maniera autonoma, evitando le facili sug-gestioni delle mode imperanti, e a mettere in discussionelo status quo. Il mondo animale è un mondo che suscita in-numerevoli domande, destando stupore, meraviglia, emo-zione e più in generale sentimenti di partecipazione: è fon-damentale incoraggiare i giovani a scoprire come vivono glianimali – soprattutto quelle specie che condividono il no-

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stro habitat – suscitando in continuazione quegli interroga-tivi di legittimità che emergono quotidianamente dai nostrirapporti con loro.

Le cinque liberta’

Purtroppo, non ci insegnavano queste cose a scuo-

la, ai miei tempi; allora si scambiavano uova di

uccelli con francobolli vecchi; allora si uccideva-

no gli uccellini con fucili grossi come noi; ed ora

chi se ne sente il coraggio si faccia avanti a nega-

re la dottrina del peccato originale. Eravamo cru-

deli con gli animali, come sono tutti i selvaggi. E

tento ora come meglio posso di espiare i delitti di

cui allora mi resi colpevole. Ma una cattiva azio-

ne non perisce mai; e ricordo macchie di sangue

su dita infantili, che arrugginirono in macchie di

vergogna nei ricordi d’infanzia dell’uomo. A mia

vergogna debbo confessare che ho ucciso tanti uc-

cellini, e tanti altri ne ho tenuti in prigione: sono

dolente di dover anche confessare di aver ucciso

uno scoiattolo, di averne perfidamente saccheg-

giato la casa, e di aver imprigionato i suoi picco-

li in una gabbia come quella che ci sta dinanzi.

(Axel Munthe, Vagabondaggio)

Tutti gli animali protagonisti di una qualsivoglia relazionecon l’uomo in effetti dovrebbero essere considerati sottol’aspetto etico. Rileva Barbara De Mori:

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“Di fatto, quale che sia la posizione che decidiamo di assu-mere in merito alla questione della liceità dell’impiego ani-male, sembra importante far riferimento a quella che è lacondizione reale e attuale, in particolare nei Paesi indu-strializzati, in cui diverse categorie di animali impiegatidall’uomo conducono la propria esistenza, ed esaminare laquestione del benessere dalla prospettiva di un impegno invista del miglioramento delle loro condizioni di vita. Inquesta direzione, la questione del benessere si pone pertutti gli animali coinvolti nel rapporto con l’uomo, secondomodalità specifiche che, tuttavia, non riguardano solo glianimali da reddito o da sperimentazione. Se, ad esempio,in prima battuta, pare che l’animale da compagnia, o d’af-fezione, sia escluso da considerazioni relative al benessere,in quanto viene percepito al centro delle nostre attenzionie del nostro affetto, basta pensare al problema del randa-gismo e degli abbandoni, o al diffondersi di mode relativeall’incerto accadimento di animali esotici, o allo sfrutta-mento degli animali destinati alla ‘produzione’ di pets dacompagnia, per comprendere come un impegno per il mi-glioramento del benessere si ponga anche per questa cate-goria di animali” (Che cos’è la bioetica animale).Solo da alcuni anni a questa parte il benessere degli anima-li viene posto nella giusta considerazione, e un buon puntodi partenza per la sua valutazione è tuttora costituito dallaverifica delle cinque fondamentali libertà individuate nel“Brambell Report” (1965) in Inghilterra, vale a dire:libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione;libertà di avere un ambiente fisico adeguato;libertà dalle ingiurie e dalle malattie;

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libertà di manifestare le caratteristiche comportamentalispecie-specifiche normali;libertà dallo stress e dalla paura.È difficile richiedere che queste libertà vengano soddisfat-te nell’animale, se non riescono prima a trovare il loroadempimento nella crescita dell’individuo. Un lavoro chepuò essere intrapreso nella classe è quello di operare unconfronto tra una situazione di crescita dell’adolescente equella di un animale domestico (cane o gatto), per verifi-care in quale misura le cinque libertà vengono soddisfatte.Naturalmente, questo genere di verifica sottintende la ne-cessità di un approfondimento delle esigenze individuali, euna disamina delle priorità. In una società opulenta qualela nostra, il soddisfacimento dei bisogni primari (mangiare,bere, dormire) troppo spesso viene dato per scontato, di-menticando che nel terzo mondo la fame e la sete costitui-scono la prima causa d’insorgenza di gravi malattie e di de-cesso. L’animale domestico, nella sua quotidiana richiestadi cura, costringe il giovane a porre la debita attenzione suqueste esigenze, invitandolo a riflettere in maniera non su-perficiale, e le numerose problematiche che ne derivanopossono essere proficuamente dibattute, sempre tenendopresente che in questi casi è più che mai fondamentale sol-levare la questione senza farsi portatori di soluzioni preco-stituite. Una carrellata degli interrogativi di ordine etico che susci-ta la presenza animale ci fornisce l’ampiezza e la ricchezzadelle tematiche che possono essere evocate:Nel terzo millennio è ancora giustificata la caccia?Quale valore bisogna dare alla scelta vegetariana?

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È giustificato il ricorso alla sperimentazione animale perottenere progressi nella medicina?Gli allevamenti intensivi sono inevitabili, per riuscire a sod-disfare i fabbisogni alimentari di un pianeta sempre più so-vraffollato?Per salvaguardare le specie in via di estinzione, è necessa-rio rinchiudere gli animali negli zoo? Gli animali possono essere utilizzati nei circhi?Si può sterilizzare un animale domestico per facilitare laconvivenza con l’essere umano? O mutilarlo della coda edelle orecchie, per ragioni estetiche? Manifestazioni tradizionali che ricorrono all’utilizzo an-che cruento dell’animale quali ad esempio la corrida(Spagna), il palio di Siena (Italia) e la caccia alla volpe(Inghilterra), possono essere ancora considerate legitti-me espressioni di culture? È consentito sopprimere uncavallo o un levriero, perché non sono più in grado di vin-cere una gara di corsa?Perché è importante preservare la biodiversità animale?Quali possono essere le motivazioni che giustificano la ri-nuncia di un cane di proprietà? E quando si può ricorre-re all’eutanasia?Ognuna di queste domande può essere proposta alla clas-se per venire proficuamente dibattuta: più punti di vista di-versi emergeranno, maggiori saranno le opportunità di cre-scita e di maturazione.

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Della caccia e del mangiare la carne

Sentivamo sulle nostre facce soffiare un vento

d’uragano. Mi venne l’idea di prendere la Maser

per abbattere qualcuno degli animali e portarlo

trionfalmente ad Urga legato sul bagagliaio, ma

non potei tradurre la mia idea in atto. La man-

dria era raggiunta. Con una rapidità sorpren-

dente le antilopi avevano cambiato direzione e

fuggivano ai nostri fianchi divise in due gruppi.

Per qualche momento ci trovammo in mezzo allo

strano gregge, fra la polvere sollevata dallo scalpi-

tare minuto delle zampe sottili, nervose e veloci.

Di tanto in tanto qualcuna delle timide bestie, fol-

li di spavento, rotolava, era calpestata o saltata

dalle altre, si risollevava in un baleno e si rimet-

teva a fuggire. Gridavamo, nell’eccitazione della

caccia; gridavamo perché si diventa feroci in cer-

ti momenti che risvegliano tutto ciò che abbiamo

di selvaggio e ardente, e non possedevamo altra

arma che la voce. Non potendo uccidere ci diver-

tivamo ad atterrire, e i nostri gridi portavano al

parossismo lo spavento delle vittime. Presto quel-

la confusione tumultuosa di groppe da cerbiatto,

fulve e snelle, si allontanò lateralmente con una

brusca evoluzione, e si disperse lontano nella pra-

teria.

(Luigi Barbini, La metà del mondo vista da un’automobile)

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Che l’uomo sia ‘nato’ come cacciatore è un luogo comuneda sfatare, piuttosto è vero il contrario: i primi ominidicomparsi sul pianeta (in Africa, nella Rift Valley, come han-no dimostrato i numerosi reperti fossili rinvenuti) erano inrealtà prede vegetariane, oggetto di caccia di mammifericarnivori più grandi di loro; questi primi ominidi dovevanoriunirsi in tribù, per aumentare le possibilità di sopravvi-venza agli improvvisi attacchi notturni degli animali, e tra-sformare i legami sociali in un’arma vincente. È pur vero,tuttavia, che successivamente si è verificata una trasfor-mazione importante dell’apparato masticatorio e che l’ho-

mo abilis ha appreso la lavorazione della pietra, riuscendocon i primi utensili a scorticare le carcasse degli animalirinvenuti morti, per poi cibarsene. L’homo erectus, piùtardi, imparando a camminare speditamente sulle gambe eutilizzando le mani libere è diventato un cacciatore provet-to, in grado spesso di avere la meglio su animali fisicamen-te più dotati di lui; la caccia è probabilmente l’attività chemeglio ha caratterizzato l’alba dell’umanità. Da allora tuttavia diverse migliaia di anni sono trascorsie la storia dell’uomo si è evoluta in una precisa direzio-ne; diventato agricoltore e sviluppando la zootecnia,l’uomo ha potuto trarre dagli allevamenti animali la fon-te principale per soddisfare le sue esigenze alimentari.La caccia ha ancora qualche giustificazione quando glianimali cacciati possono essere responsabili di alterazio-ni ecologiche o veicoli di malattie infettive pericolose an-che per l’uomo (come, per esempio, la rabbia), ma ridot-ta a mera attività sportiva ha perduto il suo originariomotivo di essere.

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L’aumento della sensibilità verso il mondo animale – l’esten-sione del cosiddetto “cerchio di compassione” – va però benoltre il quesito sulla legittimità della caccia; sempre piùspesso ci si interroga su quali potrebbero essere le conse-guenze etiche dei nostri quotidiani comportamenti alimen-tari. “Chi ama gli animali non li mangia” in realtà è molto dipiù di un semplice slogan a sostegno della causa vegetaria-na: è un invito ad aumentare la consapevolezza che un con-sumo alimentare critico può influenzare i sistemi di alleva-mento degli animali, provocando modifiche radicali sull’in-tero pianeta.Il primo passo da fare, anche nella scuola dell’obbligo, è na-turalmente quello di evitare ogni forma di fanatismo. Lascelta vegetariana è un punto d’arrivo al quale può auspi-cabilmente arrivare un soggetto adulto, ma che è più diffi-cilmente proponibile a giovani in crescita, che molte voltetra l’altro praticano attività sportive, e che hanno fabbiso-gni nutrizionali particolari. C’è tuttavia un’etica possibile anche nella scelta di mangia-re la carne, e la scuola ha il compito importante di forma-re degli “onnivori coscienziosi”, secondo la felice definizio-ne di Peter Singer. L’onnivoro coscienzioso si preoccupa dievitare carni provenienti dagli allevamenti intensivi, nel su-permercato fa attenzione a scegliere le uova di galline fat-te crescere ‘a terra’ e non in batteria, non considera le car-ni di animali appartenenti alla fauna selvatica, abbattuti daicacciatori, e predilige i prodotti locali o provenienti da al-levamenti biologici. A proposito degli allevamenti biologici,vale la pena rilevare come lo sviluppo di questo tipo di zoo-tecnia non è solamente rispettoso delle più elementari esi-

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genze etologiche degli animali allevati, ma induce tutta unaserie di vantaggi ambientali determinanti per il migliora-mento del nostro sofferente pianeta, quali in particolare laconservazione della qualità del terreno, la promozione del-la biodiversità animale, la riduzione dell’inquinamento pro-vocato dalle infiltrazioni di azoto e l’eliminazione del ricor-so ai pesticidi e ai diserbanti, caratteristico dell’agricolturaconvenzionale. Tra i compiti affidati alla classe insegnante, la formazionedi onnivori coscienziosi – rimandando la possibilità di unascelta vegetariana a tempi successivi – deve rientrare neiprogrammi formativi in virtù dell’indiscutibile importanzache il comportamento alimentare riveste, sia in termini diindividuale stile di vita che di benessere animale. “La di-stanza morale tra le scelte alimentari degli onnivori co-scienziosi e quelle della maggioranza della popolazione”riconosce Peter Singer, vegetariano e fervente sostenito-re dei diritti degli animali “è talmente grande, che sembragiusto lodare gli onnivori coscienziosi per il cammino daloro compiuto, piuttosto che criticarli per non essere an-dati oltre”. Il cerchio di compassione va estendendosi apiccoli passi. Piccoli, certamente, ma quanto mai signifi-cativi.

Riprendersi la natura

Nel lago vive anche una bella razza di tartarughe e

ranocchi, e pochi mitili; i topi muschiati e i visoni

lasciano le loro tracce là attorno; e ogni tanto lo vi-

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sita una viaggiatrice tartaruga di palude. Talvolta,

quando, al mattino, spingevo in acqua la mia bar-

ca, disturbavo una grande tartaruga di palude che

vi s’era nascosta sotto, durante la notte. In prima-

vera e in autunno Walden è frequentato da anatre

e oche, le rondini biancoventrute e per tutta l’esta-

te i piovanelli pio-pìano sulle rive pietrose. Talvol-

ta disturbavo anche un falco pescatore, immobile

su un pino bianco sopra l’acqua; non credo però

che il lago non sia mai stato profanato dal volo di

un gabbiano, come invece Fair Haven. Al massimo

tollera un tuffolo all’anno. Questi sono tutti gli ani-

mali importanti che ora io frequento.

(Henry D. Thoreau, Walden ovvero la vita dei boschi)

La relazione con l’animale (non necessariamente e nonesclusivamente il pet) diventa anche un modo per ripren-dere lo smarrito contatto con la natura. Paradossalmente,l’attuale società insegna ai giovani a evitare l’esperienza di-retta con la natura: questo approccio ostativo viene impar-tito non solo a scuola e nella famiglia, ma anche nelle so-cietà pubbliche, nelle istituzioni comunali, nelle norme cheregolano il vivere civile.L’animale in realtà incontra molti ostacoli, prima di poteressere accettato. Nelle città molte volte non esistono o so-no insufficienti parchi o spazi dove lasciar liberi di correrei nostri cani; uffici e negozi sono interdetti – le spiagge e lecoste sono parimenti vietate – e molti alberghi non accet-tano animali.

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Nei programmi scolastici, la storia naturale e la zoologia so-no sempre più spesso sacrificate a favore di altre discipli-ne tecnologiche quali la microbiologia o l’ingegneria gene-tica, probabilmente più remunerative nel futuro del giova-ne, ma certo più teoriche e più lontane dall’immediato quo-tidiano. Osserva criticamente Richard Louv: “Il rapido sviluppo del-le tecnologie sta rendendo sempre più indistinta la lineatra gli esseri umani, gli altri animali e le macchine. Il con-cetto postmoderno secondo cui la realtà è solo un’inven-zione (siamo quello che programmiamo) suggerisce possi-bilità umane illimitate. Tuttavia il minor tempo trascorsodai giovani nell’ambiente naturale comporta un’atrofizza-zione delle capacità sensoriali (dal punto di vista sia fisio-logico che psicologico). E ciò riduce la ricchezza dell’espe-rienza umana” (L’ultimo bambino nei boschi). Abitare in una città, peggio ancora in una metropoli, fa av-vertire l’urbano e il naturale come ambienti di vita postitra loro in un rapporto di contrasto apparentemente insu-perabile; i giovani che desiderano giocare all’aria aperta,nelle strade dei quartieri, vengono criminalizzati. La faunaurbana che si inserisce nelle nostre giornate (gatti di stra-da, colombi, cornacchie, gabbiani – ma anche volpi, ricci,scoiattoli, caprioli e cinghiali) viene considerata con diffi-denza, raramente vista per quello che realmente è (un ar-ricchimento ambientale), ma piuttosto come fonte di pro-blemi, di preoccupazioni igienico-sanitarie, di discussioni,di reazioni scomposte. Nel giovane che si sviluppa in am-bienti urbanizzati può manifestarsi un vero e proprio di-sturbo da “deficit di natura” che può arrivare a modificare

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in senso negativo il comportamento umano nelle grandicittà. È necessario più che mai correggere il tiro, allonta-narsi dal fascino perverso di internet, dalle realtà virtualiche si insinuano nelle nostre vite quotidiane per sostituirsiai rapporti reali, alterando le nostre più elementari sensibi-lità. In poche parole è necessario ritornare alla natura.“Le scuole sono sistemi non lineari, e piccole variabili pos-sono causare enormi conseguenze” annota Jackie Groba-rek, maestra elementare americana particolarmente crea-tiva. “I nostri alunni quest’estate hanno raccolto lombrichi,piante e bruchi, poi hanno liberato le farfalle. Poiché i ‘pic-coli’ degli scolari avevano bisogno di cibo, hanno anche im-parato che i lombrichi mangiavano i rifiuti, che le piantecrescevano rigogliose sugli escrementi dei lombrichi e chele farfalle necessitavano di alcune piante specifiche per nu-trirsi, e di altre piante su cui deporre uova. Molte di questecose sono state scoperte nel terreno della scuola, e nel no-stro canyon. Si sono resi conto che il canyon, che per la no-stra comunità era diventato una seccatura e una discarica,in realtà era un meraviglioso habitat. È pieno di finocchioselvatico, che ospita e dà da mangiare al macaone. Adessostiamo lavorando divisi in squadre, e soltanto questa setti-mana abbiamo portato via quasi quattro cassonetti d’im-mondizia dalla zona. Questo migliorerà i loro punteggi inlettura e matematica? Può darsi, ma ho l’impressione chequesta esperienza li cambierà in modi che i test non saran-no in grado di misurare”.I programmi scolastici autenticamente proiettati verso ilfuturo devono includere tra gli obiettivi da raggiungere l’al-fabetizzazione ecologica ed etologica degli studenti, e ave-

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re delle scienze una visione olistica, la più trasversale pos-sibile. In Europa (specialmente nei Paesi Bassi e in Svizze-ra) da alcuni anni vanno sviluppandosi con sempre mag-giore frequenza i progetti di bio-urbanistica, che hanno alloro centro la “città verde”, reimmaginata per operare efunzionare in modo naturale. È un’inversione di tendenzaimportante, che la scuola ha il dovere di sostenere. È sicu-ramente un compito immane, quello di ricucire il legamespezzato tra il giovane e il mondo della natura: ma proba-bilmente è l’unico che ci rimane per conservare la possibi-lità di un futuro.

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L’essenziale e’invisibile agli occhi

una lettura zooantropologica de “Il piccolo principe”

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Scritto nel 1944, Il piccolo principe è sicuramente il libropiù famoso di Antoine de Saint-Exupery, forse il più lettonel mondo dopo la Bibbia. Una fiaba breve e bellissima condue possibili livelli di lettura: uno più semplice, destinatoai bambini; l’altro, più profondo, riservato agli adulti. È lacaratteristica del resto di tutti i grandi classici, come Pi-

nocchio, Alice nel paese delle meraviglie, Peter Pan. E– appunto – Il piccolo principe.La storia può sembrare quasi banale. Un aviatore solitarioè costretto a un atterraggio di fortuna nel deserto; mentretenta di riparare l’aereo avverte una vocina alle spalle: è ilpiccolo principe, che proviene dall’asteroide B612 e che sitrova in visita sul nostro pianeta. Nei giorni necessari perriparare l’aereo l’aviatore e il piccolo principe diventanoamici; la fiaba vive degli incontri che il piccolo principe fae soprattutto delle sue insistenti domande, che mirano achiarire alcuni comportamenti umani. È un racconto fanta-stico che per la sua ricchezza di contenuti può assurgere avero e proprio ‘breviario’, uno di quei racconti destinati aessere riletti nei vari periodi delle nostre vite, e che ci aiu-tano a riflettere sul significato delle cose. Uno dei capitoli più significativi è il ventunesimo, nel qua-le il piccolo principe incontra la volpe; questo capitolo sipresta in modo particolare a essere letto e discusso nellescuole per sviluppare le numerose tematiche che ruotanointorno al nostro rapporto con gli animali: ne proponiamouna lettura in chiave zooantropologica, che possa metterein evidenza le possibili referenze connesse alla presenzaanimale.

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In quel momento apparve la volpe.

– Buon giorno – disse la volpe.

– Buon giorno – rispose gentilmente il piccolo

principe, voltandosi: ma non vide nessuno.

– Sono qui, – disse la voce – sotto il melo…

– Chi sei? – domandò il piccolo principe. – Sei

molto carino…

– Sono una volpe – disse la volpe.

– Vieni a giocare con me, – le propose il piccolo

principe – sono così triste…

– Non posso giocare con te, – disse la volpe – non

sono addomesticata.

– Ah! scusa – fece il piccolo principe.

“In quel momento”: con queste parole ha inizio il capitolo.Parole che stabiliscono una precisa scansione temporale,un prima e un dopo; un tempo (e un luogo) in cui, primadell’incontro con la volpe, il piccolo principe esplorava ununiverso ancora privo della sua componente animale, e undopo, in cui l’animale compare, e con la sua comparsa po-ne degli interrogativi che non potranno essere elusi (delresto, la caratteristica fondamentale del piccolo principe èproprio quella di porre, con insistenza, domande che esigo-no puntuali risposte).Spartiacque di questo passaggio è il perfetto apparve:tempo verbale che come dice il nome, indica l’aspetto com-piuto (perfettivo, appunto) in grado di imprimere alla nar-razione un momento di svolta, il movimento in avanti degliavvenimenti.“Buon giorno”, si presenta la volpe, nella maniera più pia-

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na e suadente. È un buon giorno: è davvero una buonagiornata quella in cui l’animale si affaccia all’orizzonte delpiccolo principe. Non si può fare a meno di ricordare lapoesia contenuta nei versi della Genesi, allorché il Diocreatore (Elohim è in realtà un plurale, sta per Tutta la

divinità) conclude la sua opera:

Dio disse:

“Produca la terra varie specie di animali

domestici, selvatici e quelli che strisciano”.

E così avvenne.

Dio fece questi animali secondo la loro specie

Quelli selvatici, quelli domestici

E quelli che strisciano al suolo”.

E Dio vide che era bello.

“E Dio vide che era bello” si collega direttamente all’augu-rio di buona giornata che la volpe fa al piccolo principe. Aquesto punto dobbiamo chiederci: perché proprio una vol-pe? Perché non un cane, o un gatto? O un lupo? Perché lavolpe più di ogni altra specie animale si presenta come unanimale-soglia: che si colloca cioè esattamente a metà stra-da tra gli animali addomesticati e quelli selvatici. Esisteun’etologia della domesticazione che si propone di indaga-re un processo biologico in evoluzione con la progressioneculturale della specie umana. Ai tempi del Neolitico, la vol-pe – che è un canide, non dobbiamo dimenticarlo – è en-trata per un certo periodo di tempo in questo complessopercorso, tant’è che in alcuni villaggi della Svizzera sonostate scoperte ossa di volpe domestica. “Nella storia del-

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l’uomo la volpe fu battuta non tanto dal cane, che ben pri-ma aveva conquistato il suo spazio al fianco del bipede conl’anima, ma probabilmente dal gatto” osserva Caterina Gro-mis di Trana a proposito della volpe. “Il felino sacro agliEgizi ha conquistato le case di tutto il mondo. E la volpe èrimasta fuori, attenta e vicina alle umane vicende, ma do-mestica soltanto nel senso poco etologico e poco ecologicodi animale da pelliccia”.5

Ma cos’è (più correttamente: chi è, gli animali non sonocose) un animale-soglia nella sua accezione più estesa?(Anche se tutti gli animali, in diversa misura, sono anima-

li-soglia). È quello che, secondo Roberto Marchesini, “av-via il processo di decentramento, ossia la capacità del sin-golo di interrompere la narcosi narcisistica dell’autorefe-renzialità, e accettare il rischio della dialettica, del metter-si in gioco sotto i diversi profili di contenuto e di ruolo”.6 Ilpiccolo principe, con la sua disponibilità a interrogarsi e ainterrogare continuamente non può certo essere accusatodi narcosi narcisistica e avremo modo di vedere, successi-vamente, in quale maniera saprà far sfruttare dialettica-mente l’occasione di crescita offerta dall’incontro con lavolpe.“Sei molto carino” dice il piccolo principe, quando sotto ilmelo riesce a scorgere la volpe. Carino: l’affettuosità conte-nuta nell’aggettivo esprime al meglio l’atteggiamento di be-nevola disposizione verso l’animale, ancorché sconosciuto.

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5 Caterina Gromis di Trana, “La volpe domestica? Un incontro mancato”, “LaStampa”, 04/12/2002.6 Roberto Marchesini, Canone di zooantropologia didattica, pag. 25 – PerdisaEd., Bologna 2004.

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È la volpe che incontra il piccolo principe – o è il piccoloprincipe a incontrare la volpe? Tutti gli incontri più auten-tici sono all’insegna della reciprocità, e la volpe possiede irequisiti più utili a scatenare quel meccanismo dell’adozio-ne interspecifica, che con ogni probabilità sta alla base del-l’intero processo di domesticazione.“Vieni a giocare con me”, propone subito il piccolo principe.Giocare è dunque il primo verbo che il ragazzo, senzatroppo pensarci su, utilizza nel tentativo di stabilire un rap-porto con l’animale: appare quella dimensione ludica chenella costituzione di una relazione rappresenta una delleopportunità più conosciute, anche se raramente sfruttataal meglio delle sue potenzialità.Ma “non posso giocare con te”, risponde la volpe – ed è fa-cile percepire il rammarico contenuto nel diniego – perché“non sono addomesticata”…“Sono una volpe” ha infatti appena precisato, intendendocon ciò “per essere la volpe, quella inconfondibile che turiconosci nella sua unicità, dovrò essere avvicinata e cono-sciuta”.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

– Cosa vuol dire ‘addomesticare’?

– Non sei di queste parti, tu – disse la volpe. – Che

cosa cerchi?

– Cerco gli uomini – disse il piccolo principe. –

Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?

– Gli uomini – disse la volpe – hanno dei fucili e

cacciano. È molto noioso! Allevano anche galline.

È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?

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– No – disse il piccolo principe. – Cerco degli ami-

ci. Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?

“Cosa vuol dire ‘addomesticare’?” chiede alla volpe il piccoloprincipe. La volpe non risponde subito alla domanda che leviene posta: prende tempo, replica con un’altra domanda; ca-pisce che il piccolo principe è sul pianeta uno straniero: unapersona che ignora gli usi e le tradizioni locali. Lo interroga asua volta: “Che cosa cerchi?”. Quando viene a sapere che ilpiccolo principe cerca gli uomini, l’animale non nasconde lapropria delusione, perché gli uomini del posto hanno dei fu-

cili e cacciano: il primo rapporto che storicamente l’uomoha instaurato con l’animale è quello tra cacciatore e preda: unrapporto che la volpe considera (ed è un eufemismo) molto

noioso. Non è decisamente molto gratificante per un anima-le essere cacciato… “Allevano anche galline – è il loro solo in-teresse”, aggiunge, rilevando il secondo tipo di rapporto chel’uomo ha instaurato con il mondo animale, frutto della do-mesticazione, ancora una volta un rapporto antropocentrico,unidirezionale, nel quale non si instaura un’autentica relazio-ne, non si presta attenzione alla voce dell’altro. Non può cre-arsi un legame, dove a prevalere è la finalità zootecnica. “Cer-chi delle galline?” chiede al piccolo principe, e la domanda èfacilmente decodificabile: anche tu intendi instaurare con glianimali una relazione d’interesse? “No”, il piccolo principe risponde senza alcuna esitazione,“cerco degli amici”. E torna all’assalto per la terza volta,perché alla domanda iniziale la volpe ancora non ha volutodare una risposta: “Che cosa vuol dire addomesticare?”.

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– È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire

“creare dei legami”…

– Creare dei legami?

– Certo – disse la volpe. – Tu, fino a ora, per me,

non sei che un ragazzino uguale a centomila ra-

gazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai

bisogno di me. Io non sono per te che una volpe

uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomesti-

chi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro: tu sarai

per me unico al mondo, e io sarò per te unica al

mondo.

– Comincio a capire – disse il piccolo principe. –

C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato.

– È possibile – disse la volpe. – Capita di tutto sul-

la Terra…

– Oh! non è sulla Terra – disse il piccolo principe.

La volpe sembrò perplessa:

– Su un altro pianeta? Ci sono dei cacciatori su

questo pianeta?

– No.

– Questo mi interessa. E delle galline?

– No.

– Non c’è niente di perfetto – sospirò la volpe.

Al terzo tentativo (bisogna sempre insistere, se si vuole ot-tenere qualcosa), la volpe fornisce la sua definizione: addo-mesticare vuol dire creare dei legami. Il concetto di reci-procità del legame è fondamentale nella instaurazione di unrapporto autenticamente produttivo. Aggiunge: “...se tu miaddomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro: tu sarai

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per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. Èsempre la reciprocità a stabilire l’unicità del rapporto: senon c’è reciprocità non si può parlare di legame (o relazio-ne), ma piuttosto e semplicemente di interazione. Nell’inte-razione con l’animale vengono tradizionalmente commessidue errori, consequenziali a un punto di vista inappropriato:vale a dire la reificazione (dal latino res, cosa) dell’animaleo, al suo opposto, l’antropomorfizzazione. La reificazione procede dalla visione cartesiana, meccani-cistica, dell’animale. Per Cartesio (filosofo e matematicofrancese, 1596-1650) gli animali sono semplicemente degliautomi, ‘macchine’ che non provano sensazioni e che rea-giscono agli stimoli sempre e solamente con riflessi condi-zionati. Sono res extensa, mera materia contrapposta allares cogitans propria dell’uomo, priva di qualsiasi diritto, etotalmente soggetta al dominio dell’uomo.L’antropomorfizzazione commette un errore in certo sensoopposto: attribuisce all’animale una percezione psichica esensoriale sovrapponibile a quella umana; non riesce a com-prendere che le sue finestre sensoriali e le logiche deduttiveche ne derivano sono radicalmente diverse da quelle umane.È esemplare nella tipizzazione degli animali delle favole, cosìspesso utilizzati come rappresentanti di una determinataqualità o di un particolare difetto (l’astuzia della volpe, il co-raggio del leone, la pavidità della pecora, ecc…). Antropo-morfizzati sono pure gli animali dei cartoni animati, da Topo-lino a Tom & Jerry, da Paperino a Snoopy: così spudorata-mente ripresi in comportamenti propri del genere umano.Ma non è certo quello che la volpe intende, quando vuole“creare dei legami”. Creare dei legami è in realtà un’ardua

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impresa, significa restituire all’animale la soggettività chegli è stata sin qui negata. Vengono allora alla mente le parole di John Bowlby: “Tuttinoi, dalla nascita alla morte, siamo al massimo della felici-tà quando la nostra vita è organizzata come una serie diescursioni, lunghe o brevi, dalla base sicura fornita dallenostre figure di attaccamento”. Ecco dunque un primoruolo che l’animale domestico pare destinato a interpreta-re quando viene creato un legame autentico: diventarecioè ‘base sicura’, che ci aiuterà a maturare in individui af-

fidabili, e capaci di prendersi cura di chi ha bisogno di noi.

Ma la volpe ritornò alla sua idea:

– La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galli-

ne, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le gal-

line si assomigliano, e tutti gli uomini si assomi-

gliano. E io mi annoio, perciò. Ma se tu mi addome-

stichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò

un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli al-

tri. Gli altri passi mi fanno nascondere sottoterra. Il

tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E

poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di gra-

no? Io non mangio il pane e il grano per me è inu-

tile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E

questo è triste! Ma tu hai dei capelli colore dell’oro.

Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addome-

sticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te.

E amerò il rumore del vento nel grano…

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe.

– Per favore… addomesticami – disse.

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“Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si asso-migliano…”. Prima della domesticazione, quello con glianimali è un rapporto indeterminato. La volpe non è anco-ra la volpe, come abbiamo già avuto modo di notare, masolo e semplicemente una volpe: lo stesso vale per l’esse-re umano: il piccolo principe per la volpe non è ancora l’uo-mo, ma solamente un uomo. Il salto qualitativo che consegue alla domesticazione (strin-gere dei legami in senso zooantropologico) è enorme: la vi-ta, la visione della vita, cambia totalmente, riceve una luce(è una vera e propria ‘illuminazione’) che prima mancava. Icapelli colore dell’oro del piccolo principe diventano comeun sole che porta luce e calore all’universo che lo circonda:per la prima volta il colore del grano viene notato, acquisi-sce un valore che prima non aveva. Alla noia di vivere su-bentra lo stupore, la meraviglia, l’amore… Scrive MaryMidgley: “È una particolare capacità, e un privilegio dellanostra specie, quella di non ignorare le altre, ma attrarre,addomesticare e vivere insieme a una grande varietà dicreature. Nessun altro animale fa qualcosa del genere suuna scala tanto vasta. Dovremmo forse prendere più sulserio questo talento peculiarmente umano, e cercare dicomprenderlo”.7

– Volentieri, – rispose il piccolo principe – ma non

ho molto tempo. Devo scoprire degli amici, e devo

conoscere molte cose.

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7 Mary Midgley, Perché gli animali, pagg. 120-121, Feltrinelli 1985.

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– Non si conoscono che le cose che si addomestica-

no – disse la volpe. – Gli uomini non hanno più

tempo per conoscere nulla. Comprano dai mer-

canti le cose già fatte. Ma siccome non esistono

mercanti di amici, gli uomini non hanno più

amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!

– Che bisogna fare? – domandò il piccolo princi-

pe.

– Bisogna essere molto pazienti – rispose la volpe.

– In principio tu ti siederai un po’ lontano da me,

così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’oc-

chio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fon-

te di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti

un po’ più vicino…

“Bisogna essere molto pazienti”, risponde la volpe. Ci vuo-le tempo per stringere dei legami all’insegna della recipro-cità, per tessere (‘configurare’) una relazione soddisfacen-te dal punto di vista zooantropologico. Una relazione nonpuò essere improvvisata, vissuta all’insegna dell’estempo-raneità o semplicemente della buona volontà. I parametriche la disegnano e consentono una valutazione pertinentesono secondo Marchesini sostanzialmente quattro: la con-gruità, la consapevolezza, l’equilibrio e la responsabilità.8

Il primo parametro, la congruità, è basato soprattutto sul-la conoscenza dei bisogni e delle caratteristiche etologichedell’animale – e, più generalmente, del prossimo – con ilquale ci stiamo confrontando. Il piccolo principe, nel no-

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8 Roberto Marchesini, Pedagogia cinofila - Introduzione all’approccio

cognitivo zooantropologico, Perdisa Ed., Bologna 2007.

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stro caso, cosa sa effettivamente della volpe? Del suo uni-verso? Dei canali percettivi e delle finestre sensoriali coni quali si approccia al mondo? Per penetrare nel territorioaltrui con l’intendimento di decifrarlo, il metodo miglioreè soprattutto l’osservazione – certo più l’osservazione,che il dialogo: anche perché “le parole sono una fonte dimalintesi…”.Il secondo parametro, la consapevolezza, è un’attribuzionedi valore. So – sono consapevole – che il prossimo, questo

prossimo, precisamente questo animale, non un altro, havalore per me. Non è una merce scambiabile, non può es-sere oggetto di trattativa. È unico, come essere: e dunqueinestimabile. Il terzo parametro, l’equilibrio, dà stabilità alla relazione.Una relazione ben configurata non può essere strutturatasu un’unica dimensione: sarebbe una relazione instabile, ocomunque fragile. Un tavolo per essere stabile ha bisognodi quattro gambe: se sono tre, traballa; se sono due, cade –se la gamba è una sola, non può neppure essere definitocome tavolo. Analogamente, le relazioni tra viventi per po-ter durare nel tempo hanno bisogno di essere equilibrate,e l’equilibrio viene raggiunto sviluppando le diverse, nume-rose attitudini (‘motivazioni’ in chiave zooantropologica) dicui le specie animali più evolute sono dotate. Il quarto e ultimo parametro è la responsabilità. Quandouna relazione può essere considerata ‘responsabile’? Quan-do vi è una preventiva assunzione dei carichi di lavoro (de-gli ‘impegni’) che comporta lo stabilire dei legami. E qui ilcerchio si chiude con le parole della volpe: “Bisogna esse-re molto pazienti…”. Bisogna avvertire la necessità – una

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necessità che auspicabilmente odora di desiderio – di de-dicare il proprio tempo alla costruzione di una relazioneche per avere valore non può che essere complessa. Com-plessa, ma non complicata: una complessità che racchiudela sua ricchezza.

Il piccolo principe ritornò l’indomani.

– Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora –

disse la volpe. – Se tu vieni, per esempio, tutti i

pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a es-

sere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia

felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò

ad agitarmi e a inquietarmi; scoprirò il prezzo

della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io

non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci

vogliono i riti.

– Che cos’è un rito? – disse il piccolo principe.

– Anche questa è una cosa da tempo dimenticata

– disse la volpe. – È quello che fa un giorno diver-

so dagli altri giorni, un’ora diversa dalle altre

ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei caccia-

tori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio.

Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi

spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero

in un giorno qualsiasi, i giorni si assomigliereb-

bero tutti, e non avrei mai vacanza.

Stabilire dei riti nella costruzione di un legame è di fonda-mentale importanza. Probabilmente non c’è nulla che uniscamaggiormente, dando il senso di appartenenza a un gruppo,

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come la partecipazione a un rituale. Il rito è, in realtà, unaspecie di porta che ci consente di entrare in un mondo pre-cluso agli altri: per costruire dei riti con gli animali domesti-ci, bisogna essere naturalmente propositivi e in grado di rea-lizzare un ponte condiviso e percorribile in entrambe le di-rezioni. Poiché le parole sono così spesso fonte di malintesi,per intendersi reciprocamente bisogna conoscere almeno lepiù elementari nozioni di prossemica, termine coniato nel1963 dall’antropologo Edward T. Hall, e che individua la di-sciplina che studia cosa siano lo spazio personale e sociale,e come questi vengano percepiti dagli esseri viventi. Per ‘ca-pire’ la prossemica, possiamo provare a immaginare come sisvolge il colloquio tra il piccolo principe e la volpe – indipen-dentemente dal contenuto delle parole che i due protagoni-sti si vanno scambiando. La prossemica sta in effetti alla ba-se della comunicazione-non verbale; conoscerne gli elemen-ti, significa sapere qual è la distanza migliore che dobbiamointerporre tra noi e il prossimo per instaurare un rapporto difiducia. Hall distingue una distanza intima da una distanzapersonale; una distanza sociale da una distanza pubblica…Tutti gli animali vivono in una specie di “bolla virtuale”, checorrisponde al raggio della distanza di sicurezza, quella cioèche consente di difendersi da un attacco o di poter iniziareuna fuga. Il piccolo principe, per instaurare un dialogo cosìfecondo con la volpe, non può che rispettare le regole che laprossemica suggerisce: non superare, al primo incontro, ladistanza sociale, mantenersi, cioè, ad almeno tre metri; nontenere lo sguardo fisso negli occhi dell’interlocutore troppoa lungo; parlare con un tono di voce basso e costante, appe-na modulato; evitare gesticolazioni improvvise o inconsulte.

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Ogni infrazione alle regole della prossemica non può che ri-sultare penalizzante, e ostacolare, inficiandola, la costruzio-ne di un rito basato sulla fiducia reciproca.

Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E

quando l’ora della partenza fu vicina:

– Ah! – disse la volpe – …piangerò.

– La colpa è tua, – disse il piccolo principe – io

non volevo farti del male, ma tu hai voluto che ti

addomesticassi…

– È vero – disse la volpe.

– Ma piangerai! – disse il piccolo principe. – Ma

allora che ci guadagni?

– Ci guadagno – disse la volpe – il colore del gra-

no.

Poi soggiunse:

– Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è uni-

ca al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti

regalerò un segreto.

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.

“Ma allora cosa ci guadagni? – Ci guadagno – disse la volpe– il colore del grano”.Si può provare a rivedere l’intera storia della domesticazio-ne – un evento che viene generalmente sottovalutato: re-sponsabile invece dell’avvio della storia della civiltà umana,e senza il quale non avrebbe avuto luogo la ‘rivoluzione’ delNeolitico – alla luce della (per certi versi sorprendente) af-fermazione della volpe. In effetti, se l’uomo ha addomesti-cato l’animale, non è meno vero il contrario: che l’animale

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ha addomesticato l’uomo. Con un ‘guadagno’ reciproco, inun rapporto sostanzialmente simbiotico, paradossalmenteanche nei casi in cui l’aspetto performativo pare dominan-te. Quale significato dovremmo dare al colore del grano,la cui scoperta è così determinante, dopo che la volpe – susua richiesta, non dietro iniziativa del piccolo principe – èstata addomesticata? “Ma piangerai!”, non può fare a meno di sottolineare il pic-colo principe, quasi intuendo tutto il dolore animale sottin-teso al complesso processo di domesticazione. “Piangerai!”,esclama il piccolo principe: e dietro questo verbo coniuga-to al futuro, possiamo intravedere una profezia di cavalli ab-battuti sui campi di battaglia, sacrificati in guerre cheavrebbero certo preferito evitare; di grassi vitelli abbattutiper festeggiare il ritorno di prodighi figlioli; di oche ingras-sate a forza; di cuccioli di foca bastonati a sangue, fino allamorte – e via di seguito, gli esempi purtroppo possono es-sere infiniti, disseminati lungo i secoli della contraddittoriastoria dell’homo sapiens.Eppure, tutto ciò non ha importanza: o, meglio, ha la suaimportanza – ma il timore della deviazione non è sufficien-te per inficiare, per inibire le molteplici potenzialità chepossono sprigionarsi dal rapporto uomo-animale. La volperimane convinta che il rapporto con l’essere umano possarisolversi positivamente, e che alla fine quello che conta èil colore del grano: quel colore dorato che risplende suicampi al tramonto, nei caldi mesi estivi, come felice esitodi una combinazione d’eventi. La conoscenza del colore delgrano equivale allo sviluppo di quel principio di consapevo-lezza che sta alla base di ogni relazione.

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– Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi

non siete ancora niente – disse. – Nessuno vi ha

addomesticato, e voi non avete addomesticato nes-

suno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che

una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fat-

to il mio amico e ora per me è unica al mondo.

E le rose erano a disagio.

– Voi siete belle, ma siete vuote – disse ancora. –

Non si può morire per voi. Certamente, un qualsia-

si passante crederebbe che la mia rosa vi assomigli,

ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, per-

ché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho mes-

sa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho ri-

parata con il paravento. Perché su di lei ho ucciso

i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è

lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche

qualche volta tacere. Perché è lei la mia rosa.

E ritornò dalla volpe.

Il piccolo principe si rivolge alle rose: proviamo a immagi-nare la scena. Un campo sterminato di rose profumate, dicolori diversi; ve ne sono oltre 150 specie, con infiniti ibri-di: cespugliose, rampicanti, sarmentose, striscianti – confiori a mazzetti, a pannocchia, solitarie. In un certo senso,la rosa è nel mondo vegetale quello che il cane è nel mon-do animale: più di trecento razze, di ogni tipo di taglia, conmantelli diversi, con diverse attitudini. Il paragone tra ilfiore e l’animale può aiutarci a intendere la frase successi-va: “Voi siete belle, ma siete vuote” dice loro il piccolo prin-cipe. “Non si può morire per voi”.

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Questa frase dovrebbe invitarci a riflettere: perché è un da-to di fatto che molte volte – troppe volte – la scelta di unanimale domestico, cane o gatto che sia, viene guidata pre-valentemente se non esclusivamente da un criterio esteti-co. Naturalmente, non è la rosa, non è l’animale – a esserevuoti: vuoti sono piuttosto l’occhio, la mente, il cuore di chinon si preoccupa di conoscere l’essere in sé, di chi si limitaa soffermarsi sulle forme del mondo vegetale, o di quelloanimale, per avventurarsi in un’esperienza dall’esito spessocatastrofico. “Non si può morire per voi”, osserva sconsola-to il piccolo principe. Se non viene attribuito il valore che lecompete, la rosa (l’animale) che abbiamo voluto addomesti-care potrà solo essere fonte di delusione: e alla prima im-mancabile difficoltà, che inevitabilmente si presenta inqualsiasi processo di crescita e di reciproca conoscenza, lalasceremo – l’abbandoneremo – al suo destino, attribuendo-le colpe e limiti che in realtà ci appartengono. Il piccoloprincipe sottolinea come un autentico rapporto di domesti-cazione non può che essere unico, individuale, irripetibile.

– Addio – disse.

– Addio – disse la volpe. – Ecco il mio segreto. È

molto semplice: non si vede bene che con il cuore.

L’essenziale è invisibile agli occhi.

– L’essenziale è invisibile agli occhi – ripeté il pic-

colo principe, per ricordarselo.

– È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che

ha fatto la tua rosa così importante.

– È il tempo che ho perduto con la mia rosa… –

sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

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E, riverso sull’erba, pianse.

– Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma

tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsa-

bile per sempre di quello che hai addomesticato.

Tu sei responsabile della tua rosa…

– Io sono responsabile della mia rosa… – ripeté il

piccolo principe per ricordarselo.

“Addio”. È giunto il momento del congedo tra la volpe e ilpiccolo principe. I congedi sono sempre momenti in cui èpiù facile tacere, che parlare: L’emozione non ha voce, ri-corda una struggente canzone di Adriano Celentano. Tut-tavia la volpe ritiene di dover rompere il silenzio con unbreve messaggio conclusivo, una specie di riassunto spiri-tuale di tutte le parole che si sono scambiati i due protago-nisti nei precedenti incontri. “L’essenziale è invisibile agliocchi”, ammonisce la volpe “l’essenziale è invisibile agli oc-chi”, ripete subito dopo il piccolo principe, impegnato inuno sforzo mnemonico. Questo significa che – se siamo in-teressati a instaurare una relazione consapevole con ilprossimo – dobbiamo sforzarci di aprire veramente gli oc-chi e guardare al di là dell’apparenza, al di là della forma,al di là delle differenze, al di là dei nostri contingenti umo-ri, al di là delle nostre egoistiche esigenze, dei limiti impo-sti da quella comunicazione verbale che in noi ha così pa-lesemente preso il sopravvento a scapito di altre soffocatepotenzialità. “L’essenziale è invisibile agli occhi” significache dobbiamo almeno in parte rinunciare alla nostra pre-sunta supremazia da homo sapiens, e vivificare piuttostoil complesso percorso filologico che ci ha portato in questo

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luogo e in questo tempo, e che ancora respira e chiede diessere nutrito, sotto le nostre pelli da così poco nude. “Ecco da dove deriva la problematicità crescente dellacondizione moderna: dal progressivo espandersi del cer-chio di compassione morale”9, scrive Ian McEwan; e questariflessione – che possiede indubbi connotati zooantropolo-gici – può essere un buon punto d’arrivo al quale ci ha fat-to pervenire il dialogo tra la volpe e il piccolo principe, eche bene si aggancia alle parole di congedo della volpe: “Tudiventi responsabile per sempre di quello che hai addome-sticato”. Sono parole destinate a rimanere nel cuore, piùche nella mente, del piccolo principe: e dove viene evoca-to quel principio di responsabilità, che è il quarto e forsepiù importante ingrediente di una relazione matura e con-sapevole – relazione nella quale ogni scambio è reciproco:noi interveniamo sull’animale, e l’animale interviene su dinoi. Per sempre. Irrevocabilmente.

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9 Ian McEwan, Sabato, Einaudi 2005.

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Parte Seconda

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Gli animali per mesono come

i miei parentinuove “Storie naturali”raccontate dai bambini

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Il più delle volte gli adulti

non sono che dei bambini andati a male.

Jules Renard

Gli animali per me sono come i miei parenti,

sono buoni, simpatici

e certe volte non è colpa loro se sono feroci.

Sara Mitrovic

Sono ormai molti anni che vado nelle scuole come veteri-nario, a parlare di animali con i bambini e gli studenti. Rac-conto delle mie agrodolci esperienze con il mondo anima-le, e loro mi raccontano le loro: l’arricchimento risulta sem-pre reciproco. L’incontro conclusivo con le classi è general-mente la discussione delle storie che hanno scritto e mipiace premiare le più belle o significative: una scelta chemolte volte si rivela particolarmente difficile. Quando si parla di animali, l’entusiasmo nella classe è sem-pre elevato e la partecipazione è massima. Tutti hannoqualcosa da dire, da raccontare… le storie inventate sonouna minoranza; si preferisce il vissuto. L’elemento biografi-co è preponderante, con la descrizione delle esperienzeche il mondo animale ha inciso (per sempre?) nella memo-ria del giovane. Qui sono raccolte le storie scritte dagli scolari di due clas-si quinte della scuola elementare “Anita Pittoni” di Triestee della quarta elementare della scuola “Dante Alighieri” delComune di Duino Aurisina (Trieste).

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Nella scuola “Anita Pittoni” di Trieste colpisce in particola-re l’elevata percentuale di bambini di origine extracomuni-taria, quasi il 50%, i cui genitori provengono dalla Serbia,dall’Albania, dalla Cina; ma anche dal Brasile, dal Marocco,dal Montenegro, dalla Romania. Li accomuna l’acquisitapadronanza di linguaggio e la passione verso il mondo ani-male; l’impressione che ho ricavato dagli incontri è di unafelice integrazione scolastica, nella quale gli animali si so-no rivelati un eccezionale collante. Sono “Storie naturali”che hanno ben poco da invidiare a quelle scritte a suo tem-po da Jules Renard: la loro genuinità colpisce, e tocca tut-te le corde del sentimento. Dopo aver letto queste storie, noi adulti disincantati ci ri-troviamo a essere un po’ più ottimisti di prima verso il fu-turo e verso questi giovani, che devono crescere e cono-scere (conquistare?) il mondo. E una boccata d’ottimismoè ciò di cui, in questi tempi difficili, abbiamo maggiormen-te bisogno.

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Scuola elementare “Anita Pittoni”CLASSE V A

La sparizione del mio gatto MikiDa quando sono nata il primo animale che ho visto è statoMiki, il mio cane.Io giocavo molto con lui, noi due combinavamo molti disa-stri. Mi ricordo di quella volta che avevo 3 anni e che Mikistava rincorrendo una gallina. Allora mia nonna ha inco-minciato a picchiarlo con un bastone fino fino, e io ho in-cominciato a dare dei piccoli schiaffi a mia nonna e le ripe-tevo di smetterla di picchiarlo.Allora l’ho preso e l’ho portato in camera mia, ho visto cheaveva una zampa che gli sanguinava e ho dovuto curarlo.Mio nonno mi ha detto che in giardino abbiamo una fogliache potrà curargli la zampa, allora l’ho presa e gliel’ho mes-sa sulla zampa che sanguinava sopra una fascia.Ma quando compii 6 anni lui se ne andò. Non si sa se è vi-vo o morto o se è con un’altra famiglia, ma dovunque luisia, io gli vorrò x sempre bene.

Nevena Brankovic

La storia del mio cane ArzelTanti anni fa, i miei nonni presero una cagna giovane, unSan Bernardo, dal canile, la chiamarono Lessy. Qualche an-no dopo nacquero 8 cuccioli e i miei genitori diedero a tan-ti parenti 7 cuccioli e a noi restò solo uno. La mia mammae il mio papà diedero a questo cane un nome, il suo nomeera Arzel. Quando diventò grande, era molto grosso, lui

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odiava molto due persone: il fratello della mia bisnonna eun nostro vicino.Io ero nata quando lui era molto giovane.Però qualche anno dopo i miei genitori mi portarono aTrieste e lui restò in Serbia dai nonni.Ogni volta quando andavo da lui in Serbia, si sedeva e ini-ziava a calmarsi e a non abbaiare. Quando mi avvicinavo,lui si distendeva e io lo accarezzavo un po’.Dopo tanti anni, io avevo compiuto circa 8-9 anni, lui in-vecchiò e non si muoveva, mangiava poco… Io, quandoandavo da lui, mi sedevo su un banco vicino a lui e gliparlavo; avevo la sensazione che riuscisse a capire quel-lo che gli dicevo. Certe volte, quando mi alzavo per an-dare via lui iniziava ad abbaiare. Quando venivo qua, iopiangevo perché volevo che anche lui venisse via con me.Nei sogni lo vedevo che rompeva la catena e mi morde-va. Quest’anno, il 7/02/09, alle 11.50 circa di sera, miononno è arrivato dalla Serbia io gli stavo a chiedere comestava il mio cane, lui mi ha interrotto, dicendomi che eramorto. Io scappai come una furia in bagno per sciacquar-mi la faccia.Questa è la storia del mio cane Arzel.

Maja Zdravkovic

Sam un cagnolino giocherellone e Tarty e Rosi le mangioneCirca 14 anni fa i miei genitori sono andati in un canile ehanno preso Sam, il cagnolino di mia sorella Sara, che unanno dopo è nata. Sara era molto felice di avere un cagno-

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lino di circa 14 mesi, lei gli voleva tanto bene che ci gioca-va dalla mattina alla sera.Mio papà portava mia mamma, Sara e Sam in porto; men-tre Sam si faceva il bagno in acqua, papà, mamma e Sara simettevano a pescare.Quando sono nata io, hanno dovuto dare via Sam, lo ab-biamo dato a mia nonna quando aveva circa tre anni, per-ché io mi mangiavo i suoi peli. Dopo circa cinque anni ènata Stella la mia sorellina e dopo altri due Gioia la miasorellina.E poi Sara, Gaia, Stella e Gioia le quattro sorelline sono an-date a prendere Rosi la nostra prima tartarughina poi vistoche aveva un graffio sull’occhio siamo andati a cambiarla eabbiamo preso Tarty la seconda tartaruga e adesso stanuotando nel suo acquario.

Il pesciolino di SarahCirca un mese fa Sarah ha preso un pesciolino che ha chia-mato Cometa. Cometa è un pesciolino rosso che però perpulirlo si sta tanto perché devo farlo da sola!Lei è molto simpatica perché nuota sempre felice come unpettirosso che canta.

Gaia Volturno

Il mio cane SindiIo ho un cane di nome Sindi ed era stato maltrattato perdue anni. Era in un canile, il mio patrigno era andato nelcanile, ha visto questa cagnolina maltrattata e l’ha portata

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a casa mia. Ero felicissimo perché era il mio primo cane emio padre l’ha chiamato Sindi.Io lo portavo fuori per fare i suoi bisogni, e dopo due setti-mane Sindi mi saltava addosso. Qualche volta faceva i biso-gni a casa nostra e la mia mamma ha dato Sindi a una suaamica Andrea. Non vedo l’ora che torni il mio cane Sindi,così sarò ancora più felice!

Matteo de Palma

Le mie cagnoline e il criceto e lo scoiattoloUn giorno sono andata dal mio papà e non trovavo più lamia cagnolina Camilla. Mio papà era triste, mi disse che Ca-milla era scappata e io ho pianto tanto. Mia mamma, dopodue giorni, andò a cercare un altro cane e trovò una bar-boncina di nome Maya di 1 mese e mezzo. Me la coccolavotanto, mia madre mi prese anche un criceto che era unmangione! Mangiava il panino e lui correva e saltava perprenderlo, ma non riusciva. Un giorno io, mia mamma, e mio papà stavamo camminan-do e trovammo uno scoiattolo ferito. Allora mio papà loprese, lo portò a casa con lui e lo curò. Dopo lo liberò nelbosco e lo fece ritornare di nuovo con i suoi amici. Mi pia-ce stare con gli animali e da grande farò la veterinaria.

Carol Zennaro

La mia cagna AzraAzra è una cagna molto dolce, quando gioco con lei con lapallina, lei me la riporta, è molto carina. Quando la acca-

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rezzo, lei mi salta addosso dopo, quando me ne vado, leiabbaia, poi io ritorno e lei se ne sta seduta.Quando ero piccola, lei mi seguiva, era veloce e sapeva giàscendere le scale, anche se era piccola.Io le davo un po’ di latte e lei lo beveva. Le mie amiche veni-vano sempre a casa mia per giuocare con lei. Ma poi me ne so-no andata dalla Serbia e ora è tanto tempo che non la vedo.Quando sono tornata in Serbia a Natale e l’ho vista, era giàcresciuta!

Ivana Marinkovic

Il gallo del boscoC’era una volta un gallo che viveva nella città degli animali,che andava nelle locande e ubriaco tutti picchiava. Un gior-no lo buttarono fuori dalla città. Lui senza acqua né cibo sitrovò in un bosco dove trovò cibo e acqua. Così iniziò anchea cacciare e si trovò un passatempo e da mangiare. Visse lìper tanto tempo e si annoiò proprio molto così decise di an-dare in città ma prima doveva avere qualcosa di importan-te da scambiare quindi vinse una gara e tornò in città.

Alexandru Mititelu

Il pinguino RamboUn giorno, al Polo Sud, una famiglia di pinguini avevano unfiglio e lo avevano chiamato Rambo.Questo pinguino fin da piccolo aveva tanti muscoli; quan-do diventò grande il pinguino andò ad esplorare altre terree andò a comprarsi un mitra.

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Il pinguino tornò al Polo Sud, era tornato come un milita-re. Lui voleva che nel suo popolo si rispettasse la legge. Ilsuo popolo lo adorava, tutti gli volevano bene. Lui aveva ilcompito di far rispettare la legge, lui era il pinguino più im-portante di tutto il popolo. Rambo entrava in azione soloquando c’era un pericolo, per esempio quando qualcunorapinava una banca. Ogni giorno lui entrava in azione. Luirestò là a fare il poliziotto, e tutti rispettarono la legge.

Jack Zugna

Una vera amiciziaC’era una volta un cane abbandonato, si sentiva molto tri-ste. Un giorno, passeggiando per la città, vide un gatto, an-che lui era stato abbandonato, i due fecero subito amicizia,si sentivano bene insieme perché erano tutti e due soli.Chiacchieravano e si aiutavano a vicenda, ma non era sem-pre così, perché un giorno venne un’auto, era di un canile,presero il cane e lo portarono via. Il gatto vide la scena, eseguì l’auto, quando furono arrivati al canile, il gatto erasfinito. Ma per salvare il suo amico, radunò tutte le forzenel suo corpo, corse fino alla fine e in una disperata azioneci riuscì. Il cane gli fu eterno debitore. In quel momento laloro amicizia era così bella che una signora vedendoli sicommosse, allora la signora decise di prenderli con sé. Fucosì che il cane e il gatto vissero per sempre felici e con-tenti tra mille coccole e nessuno li abbandonò mai più.

Angelica Jie Zhang

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Cani e gattiUna volta avevo un cane, che è morto.Adesso ho 20 pesci, in Serbia ho tanti conigli, tante galline,maiali, 2 gatti e un cane grande.C’era una volta un gatto che era re e voleva che i cani di-ventassero schiavi dei gatti, i cani non lo accettarono.Così scoppiò la guerra, il cane più intelligente li fermò, co-sì diventarono amici tutti gli animali del mondo, i piccoli ei grandi.

Mihajlo Djuric

Pesci per due volteQuando ero più piccolo avevo dei pesci, non mi ricordoesattamente cosa facevo con loro, ma mi ricordo che sonomorti per una cosa che ha fatto mio padre.Abbiamo comprato altri pesci, non mi ricordo più chi davaloro da mangiare, ma forse io, li guardavo sempre, ognigiorno, perché mi piacevano tanto gli animali.Una volta in casa era entrata una mosca molto fastidiosa,mio padre prese lo sprai per ammazzare le mosche; la mo-sca andò sopra l’acquario, mio padre spruzzò lo sprai, losprai cadde nell’acquario, i pesci morirono, e io mi arrab-biai molto con mio padre.

Hasan Nderjaku

Il leoneTanti anni fa, nella Giungla Nerac’era un leone che odiava la guerra.Il leone era fifone

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aveva paura perfino del tritone,quando vedeva gli scarafaggierano scintille e raggi.Però era intelligente,faceva i calcoli a mente.I leoni questa caratteristica non apprezzaronocosì in viaggio lo mandarono,l’animale da vagabondogirò tutto il mondo.Finché non trovò un posto…Proprio tosto.Là lo apprezzarono moltoe fu con le braccia aperte accolto.Davanti alla guerra lui non tace, così vinse il premio Nobel per la pace.Ritrovò il coraggioe non aveva più paura di nessun scarafaggio.Anzi se ne trovava uno vicinose lo sbranava come un pulcino.Questa è la storia di un leoneche prima era fifone,che però poi divenne coraggiosoe per la pace un guerriero valoroso.

Lazar Jovanovic

Perla, una cagna amichevolePerla è una cagna che aveva mio zio Marco che si sente solo.Quando andavo a casa sua, a Trento, Perla mi arrivavasempre incontro e mi abbaiava.

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Perla tuttora mi manca, e mio zio, se glielo ricordiamo, simette a piangere, poveretto.Anche se io non ho mai avuto un animale, mi manca moltis-simo, perché giocavo con lei, correvo con lei, ci seguiva peril bosco innevato o d’estate, ci seguiva anche in bicicletta.Mio zio in carrozzella non è più felice come era una volta,però quando siamo tutti a festeggiare il suo compleanno,lui è contento perché si sente amato.Lei l’ultimo anno che l’ho vista era triste, gli occhi bassi,la coda alta, zoppicava perché in passato era stata inve-stita e si era ferita la zampa sinistra, quindi zoppicava.Era molto stanca quella settimana, raramente ci seguiva,la cosa che faceva di più era mangiare e dormire. Un gior-no siamo andati con la bici al fiume a farci il bagno, insie-me a mio cugino Michele e alle mie sorelle Emilia e Ilaria,ci ha seguito anche Perla, messa in un cestino sul porta-pacchi.Ilaria, che ha 12 anni, si era accorta che aveva messo Per-la nel suo cestino per i funghi, perché la nonna ci avevadetto di andare a prendere i funghi per i boschi. Perla è morta il giorno del mio compleanno, cioè il 23 set-tembre, quando ho compiuto 10 anni, lasciò noi a 17 anni.La ricorderò per sempre, la mia amicona!

Mario Busetto

Un bassotto ritrovatoMi chiamo Giancarlo, mi trovavo in strada, ho visto un bas-sotto e io lo volevo. Subito sono andato a casa mia per chie-dere a mia mamma se potevo prendere un cane. Il giorno

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dopo mia mamma ci pensò e mi disse che non potevo pren-derlo, perché lascia i peli per la casa e fa la pipì. Io lo volevo lo volevo a tutti i costi!Un certo punto sentii bussare alla porta, era il bassotto e ioero sbalordito.Dopo due minuti mia mamma lo vide e chiuse in faccia albassotto la porta.Io dissi a mia mamma tutto triste: “Io volevo quel cane, iosono distrutto, sono distrutto, vado in camera”. Il giorno dopo mi svegliai e in soggiorno vidi il bassotto, lopresi in braccio e lo chiamai Babo.Ero contentissimo! Poi sono andato a scuola.Tornato a casa, Babo non lo vidi più ed ero triste, lo andaia cercare per tutta la settimana e non lo vidi, però lo vidinel canile, perché si era innamorato di una cagna. Allora liportai a casa e mia mamma era contenta, perché avevo fat-to fidanzare Babo.

Giancarlo Napolano

Il cane gelosoFino a 11 anni avevo solo una cagna di nome Geni. Geni erauna cagna stupenda, bellissima, insieme giocavamo tantis-simo, lei mi voleva tanto bene e anche io a lei.Poi un bel giorno arrivò un altro cane, lui era un maschio, pe-rò era molto più piccolo, anche lui era molto bello. Prima sta-va da solo, ma dopo qualche ora si abituò a noi. L’indomaniprendemmo un gatto maschio, anche lui molto bello e piccolo.Io giocavo con Geni ma anche con loro e lei si sentiva tra-scurata e gelosa.

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Un giorno stavo giocando, andai vicino a Geni e per sbagliosbattei la gamba per terra. Lei, pensando che volessi col-pirla, mi morsicò il piede. Niente di grave, ma quel giornocapii che avevo perso un’amica.Io mi sentivo molto triste, ma dopo qualche giorno andai daGeni per accarezzarla, allora lei capì che volevo bene a leiquanto gliene volevo al gatto e al cane piccoli. Allora nonfeci più lo sbaglio di giocare solo con i piccoli, ma giocava-mo tutti e quattro insieme. Allora capii subito che avevo ri-trovato la mia amica Geni.Storia vera.

Beneto Abazi

I miei conigli e l’uccellinoTanto tempo fa, quando ero piccola, ho avuto la mia primaconiglia.Era tutta bianca con delle macchioline nere e l’avevamochiamata Tipete. Siccome io ero piccola e non riuscivo a di-re quel nome, ma dicevo Petè, allora l’abbiamo chiamatacosì. Io ci giocavo tanto con lei, era talmente buona, che silasciava prendere in braccio da tutti. Ma quando aveva cin-que anni, è morta di vecchiaia.Prima che morisse Petè, trovammo un uccellino piccolo,che era caduto dall’albero o che si era perso. Allora noi locurammo alla zampetta. L’avevamo solamente da cinquegiorni, quando è volato via dalla finestra con i suoi amichet-ti, è come che ci avesse salutato con la sua zampetta quan-do era volato via.Quando è morta Petè, avevamo trovato una coniglietta

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molto carina, che intorno alla testolina aveva come una cri-niera. Qualcuno ci suonò alla porta e la trovammo dentro auna nuova gabbietta con una casetta. C’erano anche le co-se da mangiare, le cose per pulire la gabbietta, una speciedi sabbia per la gabbietta…Era molto piccola, l’avevamo chiamata Perla e avevamoscoperto chi aveva comprato la coniglietta. La coniglietta etutte le altre cose le aveva comprate il mio papà. Quandol’avevamo vista, per la felicità, io e mia mamma stavamoquasi per piangere.Non mi ricordavo tanto com’era, perché è morta di malat-tia quando aveva cinque mesi. Dopo un po’, quando sonotornata da scuola, ero in terra, ho trovato un’altra coni-glietta grigia e un poco nera e l’abbiamo chiamata Toppa. Èmolto curiosa, ha compiuto tre anni il venti febbraio diquest’anno, ha anche molta paura e mangia un po’ troppo.Ecco la storia dei miei coniglietti!Sono molto felice di avere Toppa!

Linda Ordinanovich

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Scuola elementare “Anita Pittoni”CLASSE V B

Il cane-gatto MaryMi chiamo Davide e ho una gatta strana di nome Mary. Haquattro anni, l’abbiamo presa da mia cugina Serenella, incampagna.È tigrata, dai colori sfumati dal nero al nocciola, constriature ben definite sul muso e sulle zampe anteriori,con una macchia bianca sul petto e su tre zampe ad ec-cezione di una che è tutta tigrata. Il suo pelo è lungo,particolarmente durante l’inverno; quando sta sedutanon si vedono le zampe posteriori. Ha una coda folta emorbida, mentre cammina la tiene “come un punto di do-manda”.I suoi occhi sono verdi, sempre attenti, non le sfugge nean-che un moscerino.La prima volta che l’abbiamo portata dal veterinario, quan-do è arrivato il momento di tagliarle le unghie, graffiavamolto, si arrabbiò tantissimo e graffiò la veterinaria. Ed eraimpossibile continuare, così la veterinaria ci disse che cidovevamo tenere la belva con le unghie.Adesso Mary quando gioca non tira fuori le unghie, è di-ventata ubbidiente, però quando si stanca dà dei piccolimorsi di avvertimento.Mangia di tutto, se le daresti il cioccolato, lei lo mangerebbe.Il cibo è la sua ossessione, appena apriamo il cassetto do-ve ci sono i croccantini, lei viene correndo come un fulmi-ne. Una volta abbiamo preso le pannocchie, e l’abbiamo fil-mata mentre le mangiava.

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Un giorno, con la zampa prese un pezzo di pane dal tavoloe ci giocò in bagno e fece canestro nel water.Alla sera Mary va a dormire solamente quando noi bambi-ni andiamo a letto.Il suo gioco preferito è dare la caccia ai pesci dell’acquario.Quando io e mia sorella bisticciamo, lei viene lì e ci soffia,come se volesse metterci in riga.Quando vuole giocare con la mamma, prende la pallina inbocca e gliela porta come un cane.La mamma si occupa di Mary ma a volte gli do anch’io lapappa.Io voglio bene a Mary ma lei sta sempre in guardia con me.Quando sarò grande vorrei un Aschi o un Pastore Tedesco.

Davide Cettina

Il gatto Rocky giocherellone e birichinoSono una ragazzina di dieci anni e mi chiamo Ketty e mipiacciono molto gli animali. Quando ero piccola la mammaha ricevuto in regalo un piccolo gatto e gli abbiamo dato ilnome di Rocky. L’abbiamo tenuto per poco tempo aveva 22anni poi la mamma dopo un po’ l’abbiamo dato via. Il mio era un gatto persiano di colore grigio e bianco, ave-va il carattere buono e giocherellone, e graffiava con le un-ghie su un palo di legno. La mamma si occupava di lui: lolavava, gli dava da mangiare, gli puliva la cassetta. Purtrop-po la mamma ha dovuto darlo via prima che io ci potessigiocare. Abbiamo vinto al Luna Park dei pesci rossi, ogni giornogli puliva l’acqua, gli dava da mangiare: si chiamavano

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Cip e Ciop. L’aspetto fisico era magro, nuotavano nellavaschetta.A me dava tanta gioia e felicità.Mia zia ha due cani e quando vado da lei li coccolo e giococon loro. Il maschio si chiama Stic e la femmina Lilo.I loro bisogni li fanno in giardino, li hanno comprati fuoriTrieste. Le pappe li danno a tutti e due, i cani sono uno sulgiallino marroncino e l’altra marrone scuro.Io con i cani di mia zia provo felicità e gioia.Io da grande vorrei avere un cane.

Ketty Rigo

Due gatte adorabiliSono Enrico, un ragazzino che adora gli animali.Da piccolo ho avuto un pesciolino rosso, ma di lui non miricordo niente. A sei anni ho avuto due pesci, uno si chia-mava Arlecchino e l’altro Pagliaccio. Poi Arlecchino è mor-to, ma non si sa come. Allora io ho pianto così tanto, che imiei nonni mi dissero di andare con loro a cercare un nuo-vo pesciolino.Dopo tanto tempo trovarono il negozio e comprammo il pe-sciolino. Io lo chiamai Cleo, ma dopo qualche giorno Pa-gliaccio morì.Invece Cleo era un pesce con la forza di volontà di vinceree visse un anno.Poi andammo all’Enpa e lì trovammo Zarina. Zarina è unagattina affettuosa e docile. I momenti più belli passati in-sieme a lei sono stati quando io avevo la febbre: lei si ac-cucciava vicino a me per darmi forza.

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Dopo qualche anno è arrivata Isidora, un blu di Prussia mol-to vivace e birichina. Un giorno tornando a casa con mia non-na abbiamo visto delle zampine che spuntavano fuori dallasedia. I momenti più belli passati insieme a lei sono quandogioco con lei. Lei mi dà un sacco di gioia, ma anche Zarina.

Enrico de Carli

Il gatto Colombo e i 2 pesci Gigetto e TrilliIo sono un amante di animali come gatti e pesciolini.A Cordenons mia zia ha un gatto di nome Colombo, ha il pelofolto, non si sa quanti anni ha perché lo hanno trovato per stra-da. La zia gli dà da mangiare cose da gatti, gli fa il bagno, lo ziolo va ad accompagnare a fare la pipì e la popò nel suo giardi-netto, che poi raccoglie e la butta nelle immondizie. A me pia-ce Colombo perché è un giocherellone ed è molto coccolo.In Olanda a Volen Kof mio cugino ha 2 pesci di nome Giget-to e Trilli, abbiamo chiamato Gigetto così perché io lo volevochiamare Etto e mio fratello Gigi e così li abbiamo messi in-sieme e lo abbiamo chiamato Gigetto, facendo senza baruffa.Certe volte io e mio cugino gli davamo da mangiare.Per questo mi piacciono molto i pesciolini e i gatti.Da grande vorrei avere un gatto e un pesce.

Awes Faghi Elmi

Il cricetoMi ricordo quando avevo il mio primo animale, il criceto.Era in un negozio con i suoi fratelli, era il più agitato, sal-tava sulla gabbietta come un pazzo.

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È grigetto con le zampe bianche, le orecchie piccolissime eil musetto rosa piccolino.Giocava con me, ad esempio gli mettevo un giocattolo e lobuttava giù.I guai che fa sono di nascondersi sotto il letto e di notteesce mettendoti i piedi sulla faccia.Mangia semini e poca insalata, il bagno lo fa da solo “lec-candosi”.Per lui provo amicizia e felicità, perché è un animale mol-to “intelligente, furbo, e soprattutto veloce”.

Milos Maras

I pesci e il caneCaro Alessandro e cara Giulia, oggi vi racconterò dei miei19 pesci e del cane di mia zia.I miei 19 pesci vivono in Serbia in un grande acquario conin mezzo un castello.Ho 5 pesci rossi e piccoli, 2 grigi, 8 neri con strisce bianchee pinne molto grandi, e 4 neri.Il cibo lo dà sempre mia nonna quando io non ci sono.Tanti pesci sono morti normalmente, ma certi stranamen-te: si sono infilati nel tubetto dove si cambia l’ossigeno, 1è stato mangiato da un altro e 4 si sono incastrati nel ca-stello.Io però con questi pesci non faccio niente, per fortuna hoil cane di mia zia che è un Golden Retriever. Si chiamaAmor ed è un cane affettuosissimo e certe volte pasticcio-ne.I peggiori disastri che ha fatto sono questi: fare buche do-

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ve ci sono i fiori e anche nelle aiuole, vuotare il sacchettodell’immondizia, sporcarsi nel fango e poi entrare in casa.Un giorno la zia mi aveva chiesto se volevo dormire da leie anche il cane e io ho accettato.Quella notte sono andata a dormire da lei e quando mi so-no svegliata per andare a fare colazione ho visto il cane chedormiva a pancia in su. Uscita dalla stanza per andare incucina, dopo 5 minuti ho sentito dei passi, sono andata avedere cos’era e ho visto il cane che si era svegliato.Visto che mia cugina Anastasia era subito attaccata alla ca-sa di mia zia le ho chiesto se voleva venire a fare una pas-seggiata con me e il cane e lei era contentissima. Siamo an-dati al parco e abbiamo giocato con la palla, tornate a casail cane era tutto sporco e toccava proprio l’ora del bagnet-to, ma il cane non era tanto felice perché lui odiava fare ilbagno. È stata una fatica terribile e il cane schizzava ognisecondo me e Anastasia mia cugina; alla fine tutte eravamobagnate.Il giorno più triste che ho trascorso con lui è stato quandoha ricevuto un’infezione nelle zampe per colpa delle pulci,non potevamo accarezzarlo per 3 settimane, per fortuna gliè passato tutto.Gli animali per me sono come i miei parenti, sono buoni,simpatici e certe volte non è colpa loro se sono feroci.

Sara Mitrovic

Storie di animaliIo sono Katarina, ho dieci anni e mi piacciono molto gli ani-mali, soprattutto i cani e i gatti.

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Sono fortunata ad avere in Serbia una casa grande con ungrandissimo giardino dove posso giocare con gli animali.Un giorno in Serbia mia sorella mentre stava aiutando lanonna a dare da bere ai maiali, ha visto sopra la casa, nellasoffitta, sei piccoli occhi illuminati. Lei chiamò la mamma eme per andare a vedere che cosa fossero. Quando miamamma è salita ha visto che erano dei piccoli gattini. Miasorella e io eravamo molto contente e siamo salite anche noia vederli e a coccolarli. La mamma gatta non c’era e quindipensavamo di prenderci noi cura di loro. Abbiamo deciso inomi: Stella, Flora e Laza. Abbiamo provato a dar loro il lat-te, ma erano troppo piccoli, e all’inizio non lo gradivano madopo si sono abituati. Dopo qualche giorno Stella è scom-parsa, e noi eravamo molto tristi. Poi purtroppo è mortaFlora. Per fortuna Laza è riuscita a sopravvivere. Visto chenoi eravamo molto tristi per queste perdite i miei genitori cihanno portato da una signora che aveva tanti gatti. Lei ci haregalato tre gattini, due tigrati e uno giallo. Noi abbiamopassato tutta l’estate a coccolarli e prenderci cura di loro.Adesso ci sono rimasti solo due gatti, uno tigrato a cui pia-ce giocare e uno giallo a cui piace tanto dormire.Adesso vi parlerò dei miei cani. Il primo cane me l’hannodato dei parenti e si chiama Sima. È un maschio, è un ca-ne da caccia, ha il pelo bianco e rosso e non è molto gran-de. Gli piace tanto giocare con mia sorella e me. Il suo uni-co difetto è che odia tanto i gatti.Dopo abbiamo deciso di prendere altri due cagnolini, era-no dalmata ed erano molto carini. Il mio da piccolo si è am-malato ed è morto ma quello di mia sorella è sopravvissu-to. Già da piccolo era molto vivace ma quando è cresciuto

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è diventato scatenatissimo. Rompeva tutto quello che tro-vava in giro, ma quello che preferiva di più erano le scarpe.A mia sorella e a me sembrava molto divertente, ma ai mieigenitori no. Così hanno deciso di regalarlo alla nostra cugi-na e di prendere un altro cane che abbiamo a casa ancoraoggi. Si chiama Meda. Quando lo abbiamo comprato sem-brava una piccola palla di pelo e invece adesso è diventatogrande e grosso che non possiamo quasi più giocare conlui, ma lo adoriamo lo stesso.Qui a Trieste invece ho venti pesciolini. Alcuni sono nati dapoco e per questo devono stare nella piccola rete per i pe-sciolini piccoli perché sennò i pesci grandi li mangerebbe-ro. Io gli dò da mangiare tutte le sere e mi piace guardarlinuotare. Da grande mi piacerebbe avere due gatti e un ca-ne per avere compagnia e giocare con loro.

Katarina Simic

La mia supercagnolinaLa mia supercagnolina si chiama Tina, e ce l’ho ormai dacinque anni. È abbastanza piccola, magra, nera, con gli oc-chi brillanti e le orecchie, il muso e metà delle zampe aran-cioni. L’ha trovata mio nonno quando aveva appena apertogli occhi, l’ha curata e fatta crescere.Fin da piccola era giocherellona, non solo con me ma an-che con le altre persone, come mio zio, anche se non lo co-nosce molto bene. Le piace cacciare i topi, che io e miononno troviamo nella stalla e negli angoli della casa di miononno. E quando ne cattura uno, lo porta come premio amio nonno, perché in cambio ha un osso.

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La mia cagnolina Tina vive nella stalla, e dorme sul fienogiallo, perché le piace stare al caldo; nella stalla ci sono duemucche, con cui Tina va d’accordo e gioca. Quando io vo-glio vestirla, con i vestiti tagliati e rotti, lei scappa perchénon le piace proprio. La mia cagnolina litiga con i maiali,perché dove i maiali dovrebbero bere, lei fa il bagno, solod’estate perché le altre stagioni fa freddo.Quando Tina deve fare i bisogni, apre la porta della stalla eva a farli nelle spazzature.Una notte, quando sono uscito a fare i servizi fuori di casa,perché gli altri erano occupati, mi ha spaventato con la suaombra. La sua pappa preferita sono le ossa, che le diamoquando mangiamo la carne, cioè quasi ogni giorno. Leiprende sempre l’osso, che nasconde o mangia. Quando io emio nonno andiamo a coltivare i campi, lei ci segue, e tor-na a casa più tardi. Sono contento di avere una cagnolinacosì, e non vorrei cambiarla.

Boban Jankovis

Chicco il mio cane birichinoIo sono una ragazzina di 10 anni, mi chiamo Sihem e sonocontenta di aver avuto degli animali. Due cani e un cricetoed erano bellissimi.Il mio primo cane era un po’ vecchiotto, aveva diciannoveanni e si chiamava Chicco. Era basso, aveva il pelo lungo edil colore era marrone chiaro e scuro. Il suo carattere era unpo’ “birichino” e aveva l’abitudine di andare in giro nei pra-ti di altre persone. Ogni volta che veniva a casa era sempresporco pieno di foglie e chissà cos’altro. Ogni sera abbaia-

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va ai gatti di una casa vecchia e abbandonata. Chi si occu-pava di lui era la nonna; gli dava la pappa, biscotti, croc-chette, ossa di pollo avanzate. Era curioso e giocava quasisempre con me.Io provavo e provo ancora serenità e gioia quando parlo dilui e mi viene da piangere, perché la mamma invece di dir-mi che era morto, mi diceva che l’aveva portato nella casadi un suo amico dove aveva altri cani.Io vorrei che mia mamma mi comprasse un altro cane, mami dice sempre di no, solo perché non abbiamo una casatutta nostra con un giardino, perché gli animali soffronostando chiusi. Loro hanno bisogno di spazio per correre estare all’aria aperta e comunque dice che si soffre troppoquando muoiono.Però a me piacciono gli animali e quando sarò adulta spe-ro di comprarmene uno qualsiasi, basta che mi colpisca ilcuore. Lo chiamerò Chicco come il mio primo cane e miprenderò cura di lui.

Sihem Bizai

MamboIo sono Alessandro e come tutti i bambini amo molto glianimali, soprattutto i pesci e i cani di razza Rottweiler.Due anni fa mia zia e la mamma hanno comprato un pe-sciolino rosso. Io l’ho chiamato Mambo. Era un pesce lun-go 3 cm. E aveva un caratterino dispettoso. Prima lo tene-va mia zia ma siccome lei andava spesso fuori Italia, abbia-mo deciso di prenderlo a casa mia e di occuparci di lui.La mamma si prendeva cura di lui; cambiava l’acqua e gli

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dava da mangiare. A me e a mio fratello ci dava molta gio-ia. Purtroppo, un giorno, quando ci siamo svegliati la mam-ma ci ha detto che non c’era più e che era morto. A me èdispiaciuto molto.Come ho detto a me piacciono molto anche i cani. Una miazia a Treviso ha un cane che si chiama Rocky. È di tagliapiccola ed è un cane molto vivace. Quando vado a Trevisogioco molto con lui. Quando ero piccolo giocavo con il ca-ne di mio cugino che si chiamava Tommy, ma non mi ricor-do niente di lui.Così io sono uno che ama gli animali e quando sarò grandee avrò una casa grande voglio avere un cane e prendermicura di lui perché il cane è il miglior amico dell’uomo.

Alessandro Hoxha

I miei tre cani vivi e mortiIo sono un ragazzino di nome Nikola e amo tantissimo glianimali, soprattutto i cani. Adesso vi racconterò la miaesperienza.Il primo cane aveva il pelo nero e non mangiava niente,ma mordeva le cose per affilare i denti. Questo cane nonmi stava tanto simpatico però mi dispiaceva anche chenon mangiasse. Una notte scappò da casa. Di mattinaquando mio bisnonno era andato a prendere la posta, havisto Rocky investito da una macchina. Quando ho sapu-to questa brutta notizia mi sono commosso e mi dispiace-va tanto.Il mio secondo cane si chiamava Rock, era un cane moltorobusto, adatto per la caccia. Quando io e la mia famiglia fi-

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nivamo di pranzare, la maggioranza del cibo la davamo a luiperché gli piaceva tutto quello che noi gli davamo. Ma ungiorno, visto che gli abbiamo dato troppo da mangiare edera diventato robusto e forte, ha spezzato la catena ed hascavalcato il cancello ed è passato tra le sbarre.Oltre a questi 2 cani avevo un acquario con due pesciolinirossi. Siccome io dovevo andare per due settimane via perle vacanze assieme a mio papà, sono andato a comprare ilcibo per i pesci. Dopo aver messo il cibo siamo partiti.Quando siamo tornati i pesci erano morti. Io e mia sorellaeravamo molto sorpresi e dispiaciuti. Questa era la miabrutta esperienza con gli animali, e adesso vi racconteròquella bella.Il mio cane di nome Bozz è piccolo ed è molto carino e sim-patico, giocherellone e mangione. Ogni volta che mi svegliodi mattina mi vesto e vado subito da lui a vedere come stae come va. Il mio secondo cane si chiama Rocky ed ha il pe-lo giallino, mangia abbastanza e vuole giocare sempre conme ed è simpatico. Il mio terzo cane è il mio preferito per-ché è di razza pastore-tedesco. È bellissimo, mangia tuttoin un secondo ed è molto robusto e veloce.Io da grande vorrei avere un Husky e un pastore-tedesco per-ché mi piacciono il pelo e anche l’espressione del musetto.

Nikola Simic

La storia dei miei tre cricetiIo ho avuto tre criceti e il terzo è ancora vivo.Il primo l’abbiamo comprato da Natura Viva. Si chiamava Sa-nicher. Durante il giorno non faceva niente, ma riusciva a fa-

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re una cosa che mi stupiva sempre. Dato che la gabbia erasbarrata, si arrampicava e io lo chiamavo “il criceto-ragno”.Era marroncino, di lui si occupava mia madre e un po’ miasorella. Quando lo vedevo ero molto felice. Quando eravamovia veniva accudito dai nostri amici. Purtroppo è morto unanno fa a otto mesi perché non riusciva più a fare la cacca.Poi ho avuto Tina, l’abbiamo comprata anche lei da NaturaViva. Era grigetta e molto aggressiva e non si faceva pren-dere in mano da nessuno, era molto attiva. Di lei se ne oc-cupava mia madre, quando vedevo Tina mi faceva moltapena rinchiusa nella gabbia. Una volta mia madre ha pro-vato a prenderla e allora Tina si agitava e le ha fatto la pipìin mano. Quando andavamo via la accudiva il negozio Na-tura Viva. È morta a due anni, di vecchiaia.Adesso ho Tigi-Pigi, ce l’hanno dato degli amici, è molto“scatenato/a”. Ha il pelo grigetto, non capiamo se è ma-schio o femmina. Di lei o lui ci occupiamo tutti, tranne pa-pà perché non riesce a toccare le cose che tocca il criceto.Quando lo vedo sono un po’ in pensiero perché la bacinellacon l’acqua la rovescia e allora rimane senza poter bere. Ab-biamo provato con il beverino, solo che aveva la ventosa e luise la mangiava, allora siamo tornati a usare la bacinella.Tigi-Pigi è riuscito ad uscire due volte dalla gabbia, perchéaveva una parte della gabbietta rotta e l’abbiamo dovuta ri-parare con lo schoc. Quando siamo via, di lui si occupanodegli amici. Per fortuna è ancora vivo e ci darà ancora tan-te sorprese.Da grande vorrei avere un cane boxer come aveva mia ma-dre.

Fabio Sebastiani

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I miei animaliMi chiamo Filippo, amo molto gli animali. Fino a oggi hoavuto in tutto quattro animali. Il primo è stato un coniglio che mangiava sempre tutti i filidella corrente e tutte le cose che gli capitavano sotto il naso.Il secondo animale è stato un pesce rosso di nome Frack,che avevo vinto al luna park. Mi ricordo quando lo por-tammo a casa, ero molto felice. Era rosso e bianco, abba-stanza lungo, e quando arrivavo in cameretta venivasempre a pelo d’acqua e io lo accarezzavo. Il cibo glielodavo io, ma mia mamma gli cambiava l’acqua. Purtroppoè morto di vecchiaia.Il terzo animale era Gigi, il mio criceto nano. Siamo andatia prenderlo a casa di un’amica di Giovanna. Era bianco egrigio e ogni sera correva tantissimo sulla ruota, facendoun rumore pazzesco. Quando eri triste riusciva a tirarti suil morale. Purtroppo è morto dopo soli 2 anni.Per il compleanno dei miei dieci anni, i compagni di classemi hanno regalato un criceto di nome Poch, che fra pococompirà un anno. È tutto bianco e una sua caratteristica èche mangia seduto con la pancia per aria. Come Gigi, es-sendo animali notturni, corre sulla ruota.Io sono un amante degli animali, e da grande mi piacereb-be avere un boa.

Filippo de Palma

Mi piacciono gli animaliA tre anni, ho avuto un pesce piccolo, ma dopo qualchemese mi era morto.

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I miei secondi animali erano due teneri conigli grigi, papàtoglieva sempre i bisogni, metteva il cibo e l’acqua.Ogni giorno li salutavo dopo scuola, perché dovevo aiutaremio papà al negozio.Dopo, quando erano cresciuti, li lasciammo in un bosco do-ve non si poteva cacciare.Il mio terzo animale è stato un gatto di nome Stellina.Era entrato dalla porta per andare al cortile, al negozio diLignano, perché cercava cibo.Dopo aver mangiato, Stellina “il gatto” era andato nel lettodove dormiva mio papà.Mio papà portò subito Stellina a Trieste. Le facemmo ladoccia ogni mese.Certe volte mettevo io il cibo perché i miei erano impegnati.Quando è finita la scuola sono andato a Lignano a lavorare.Alla fine d’estate il gatto ritrovò il padrone.Ah, quasi mi dimenticavo, prima del coniglio avevo un pe-sce di colore arcobaleno, un pesce di colore giallastro, duepesci di colore grigio e un pesce cattivo. Ogni pomeriggiomia mamma e mio papà mettevano il cibo nell’acquario.Le cose che mi fanno ridere sono: il mio papà che mette ilpesce cattivo nella bottiglia; un’altra, mia mamma che spo-sta la cassetta dei bisogni in bagno e il gatto che fa i biso-gni per terra.Da grande voglio avere un criceto.

Marco Zheng

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I miei animali defuntiCaro dottor Paronuzzi, ti racconterò la storia dei miei ani-mali. A 1 anno mio padre andò a comprare un uccellino chechiamò Pippo e quattro pesciolini rossi. Anche se ero pic-cola provavo dei piccoli sentimenti per i miei animali.Crescendo i miei due pesciolini Tappo e Tappa litigavano“coda a coda”, alla fine Tappo voleva Tappa, ma lei non lovoleva, allora stavano lontani. Il giorno dopo mi sono sve-gliata e li ho trovati vicini ma morti. Ho pensato che alme-no “da morti” hanno sentito il bisogno di stare insieme.Pippo avendo tanti anni gli piaceva fare il bagnetto d’esta-te. Un brutto giorno però ha avuto un collasso ed è morto.Tornata dalla scuola sono andata a vedere Pippo. Vidi miamamma portare Pippo dalla mia vicina per fargli un fune-rale con una scatola di caramelle e una crocetta. Gli ha fat-to anche la lapide scrivendo: Qui giace il corpo di Pippo. Iodiventai molto triste.Facendo un giro con mio padre trovai un uccellino arancio-ne. Lo presi in una scatola. Girai per i bar per vedere sequalcuno fosse il proprietario e infatti era di una signorache disse: Questa è l’unica cosa che mi rimane di mio ma-rito.Volendo un altro animale mia zia mi regalò un uccellino,mentre mio papà a Natale mi regalò una cricetina che chia-mai Nina. Ma non era finita: mi arrivò un altro regalo mera-viglioso, un uccellino. Ogni mattina cantava e non occorre-va nemmeno mettere la sveglia, mentre Nina lanciava lecacchette per tutta la casa e io dovevo correrle dietro, madopo due giorni smise. All’inizio mia mamma non la voleva

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ma con il tempo si abituò. La gabbia la cambiavo io e miamamma. Passando il tempo prese il raffreddore e morì. Miricordo, quella notte è stata un inferno, piangevo come unafontana. Mentre l’uccellino era rimasto solo senza nessuno:quindi mia mamma per la disperazione fece la tomba per ilmio criceto. Dopo un po’ diede via anche l’uccellino, per-ché era sconvolta per tutti gli animali che ci erano morti.Ora aspetto di avere un altro animale perché sono una ap-passionata degli animali.

Giada Lakoseljac

Io e la mia macchia di peli (Ashley)Io sono Alexia, ho 10 anni e sono una ragazzina che amatutti gli animali ma soprattutto i cani e i gatti.Un giorno di novembre, tornando a casa da scuola ho senti-to dei miagolii provenire da un cassonetto della spazzatura,mi sono avvicinata per vedere cos’era, ho alzato il coperchio,e ho visto un gattino tutto nero con delle macchie bianchein una scatola che miagolava impaurito. Era tutto sporco e sisentiva un odore tremendo provenire da una ferita sul collo,era così debole che non riusciva neanche a muoversi, avevadue occhietti tristi e spaventati. In quell’istante chiesi a miamamma di prenderla perché in quelle condizioni penso chesarebbe morta, la mamma disse sì, si tolse la sciarpa e l’av-volse delicatamente, la portammo dal veterinario.In sala d’attesa c’erano molte persone che avevano vari tipidi animali, alcune ci chiesero che cosa avevamo avvolto nel-la sciarpa, perché si sentiva un cattivo odore, io risposi cheera una gattina che avevamo trovato nel cassonetto della

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spazzatura, poi siamo entrati dentro, il veterinario l’ha visi-tata e ha visto che il cattivo odore proveniva dal morso cheaveva sul collo, la ferita si era infettata perché era moltoprofonda. L’ha tosata, le ha medicato la ferita e l’ha pulitacon un liquido, le ha somministrato degli antibiotici e il ve-terinario ha detto a mia mamma che per una settimana nonpotevamo toccarla; il veterinario ha fatto anche una battu-ta che a me ha fatto arrabbiare, ha detto che perdevamotempo con una gatta che aveva poche possibilità di soprav-vivere. Io e mia mamma per due settimane le abbiamo me-dicato la ferita e dato gli antibiotici.Adesso è passato un anno e mezzo, è diventata una bellagatta grande, tutta pelosa, e vive felicemente con noi, al-l’inizio è stato difficile perché aveva paura di tutti, maadesso ha preso fiducia di noi, vuole sempre stare in brac-cio e farsi accarezzare.Io sono molto felice di averla salvata.

Alexia Nigris

I miei animaliIo sono un ragazzino di dieci anni e mi chiamo Andrea, mipiacciono gli animali, soprattutto i cani.Io ho degli animali in Serbia, quattro cani (due cani sono dacaccia e gli altri due, un pastore tedesco e l’altro non so).Il pastore tedesco si chiama Agna ed è una femmina, e l’horicevuto dallo zio. Lei ha il muso lungo e assomiglia ad unlupo; il suo pelo non è tanto lungo ed è di colore nero e se-nape. Quando arrivo in Serbia il cane viene e mi salta ad-dosso e certe volte mi butta a terra.

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Un giorno io l’ho portata a spasso, ma lei che è furba mi èscappata ed è andata in una casa e ha rovesciato tutto.Gli altri cani sono buoni, non corrono, perché sono moltovecchi. Solo un cane, Max, che è vecchio ma ancora forte,salta e apre la porta della sua gabbia e scappa per il giardi-no e può mordere qualcuno e mio nonno urla: “Max!” madopo qualche minuto lo prende.Io ai miei cani, quando sono lì, do da mangiare, ma quandonon ci sono, mia mamma si occupa di loro.Io avevo anche due canarini, uno blu e l’altro verde. Ioquesti canarini li ho presi a sette anni ed ero molto felice.Però a otto anni uno è morto e l’altro è scappato, siamoandati in un posto e quando siamo tornati abbiamo vistola gabbia vuota. Io a questi animali sono molto affeziona-to.In Serbia ho anche tante galline, ma c’è una gallina che vasul cane e inizia a dargli pizzicotti.A me piacciono i miei animali, e da grande vorrei avere unrottweiler.

Antonio Milkovic

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Scuola elementare “Dante Alighieri” di DuinoClasse IV

L’incontroEra un pomeriggio, ed era il 4 settembre quando sono an-data a trovare il mio vicino in giardino e vidi due gatti bian-chi in un tubo della casa vicina, ed erano bellissimi.Chiamai mia sorella e anche lei li vide, ed ebbe un’idea diprenderceli, così uno a testa si facevano prendere e così celi portammo a casa di mia nonna in giardino.Gli demmo prosciutto crudo e un bicchiere di latte, loroerano affamati ed assetati, mangiarono tutto così ci venim-mo già in testa i nomi: uno Fufi e uno Cus Cus.Fufi era bianco con gli occhi verdi, ed è mio mentre CusCus era bianco anche lui, però gli occhi uno verde e uno az-zurro, e quello era di mia sorella. Così noi abbiamo deciso di portarli a casa ed adottarli, eancora adesso sono vispi e vegeti.

Gigliola Fois

Un batuffolo grigioOggi vi racconterò la storia di Birra la mia cagnolina. La suastoria iniziò per strada, quando alcuni assistenti del canilela trovarono era tutta arrotolata come una ciambella nelbel mezzo dell’inverno, poi venne portata al canile di s.Giorgio dove io e la mia famiglia siamo andati a vederla,stava tutta rannicchiata nella sua cuccia in attesa che qual-cuno la venga a prendere. Quando le siamo andati vicinolei ha iniziato subito a saltare e a leccare le nostre mani ol-tre la recinzione: fu amore a prima vista!

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E subito siamo andati dalla responsabile del canile e abbia-mo firmato i documenti necessari per adottarla, ma non laportammo subito via, così ritornai a salutarla. E le diedil’ultima carezza.Una settimana dopo mio papà a mia insaputa andò a pren-derla e mi ritrovai davanti agli occhi quel musetto baffuto!Finalmente il mio sogno si era avverato, avevo una cagno-lina tutta mia, per poter giocare e farci compagnia a vicen-da, non vedevo l’ora di raccontarlo ai miei amici!Da quel giorno siamo diventate inseparabili, lei si è rivela-ta una cagnolina obbediente, affettuosa, furba e giocherel-lona.Birra si è ambientata molto bene a casa nostra, la portiamospesso a camminare nel bosco, l’abbiamo portata in monta-gna quest’estate, in vacanza con noi e anche quest’invernosulla neve, ormai fa parte della famiglia.

Carolina Bertoldo

Storia di un animaleAvevo circa 4 anni, quando la mamma un bel giorno di set-tembre arrivò a casa con un gatto minuscolo.Lo aveva trovato in porto a Duino insieme a mia sorellaIsabella, a dei suoi compagni di scuola e ad alcune mae-stre. Erano andati a passeggiare lì perché c’era un’ora disciopero.Quel gattino fu portato subito dal veterinario, aveva solo120 grammi e qualche giorno di vita. La mamma dovetteallattarlo col biberon, in questa occasione abbiamo sco-perto perché le mamme leccavano sempre i loro piccoli,

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per fargli fare pipì la mamma doveva picchiettargli il pan-cino dopo che aveva bevuto il latte.Mangiava ogni due ore, anche di notte. Il veterinario disseche forse sarebbe morto, era troppo piccolo!Lo chiamammo Red, era tutto rosso. Adesso io ho undicianni e Red è ancora qua con me, è grande ed è molto feli-ce di stare con noi.

Sebastiano Canetti

Le sette vite di un gatto senza nomeDicono che i gatti hanno nove vite e io vi racconto la storiadi un gatto che ne ha sprecate sette.Era una giornata di sole, nel giardino di mia nonna, vicinoa un portoncino era incastrato con la sua zampa un bel gat-tino rosso, e io l’ho liberato.Dopo aver aperto il portoncino e liberato il gatto, ho vistoche aveva una zampa rotta, così decisi di dargli da mangia-re, per tirarlo un po’ su di morale.Dopo che il gatto aveva finito di mangiare l’avevo messodentro a una cesta con una coperta.Il giorno dopo abbiamo visto che aveva le orecchie strap-pate, abbiamo capito che era andato sotto una macchina.Io e mia nonna lo abbiamo curato per bene e gli abbiamodato da mangiare.Il giorno dopo si era già ripreso. Era più allegro e vivace,anzi si era ingrassato molto.Dopo una settimana ritornò a casa dal suo solito giretto, unpo’ malconcio, e si capisce che qualcuno lo aveva picchia-to, aveva male a una zampetta, camminava zoppo e siamo

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andati dal veterinario e ha detto che si è rotto il nervo del-la zampetta davanti destra e che dobbiamo operarlo.Spero che andrà tutto bene.

Ilaria Chiatti

OscarOscar è un bellissimo cucciolo di cane, tutto bianco a mac-chie marrone chiaro.È appena entrato a far parte della famiglia di due miei ami-ci, con cui sono stato in montagna un paio di settimane fa.Cristina, che è l’amica della mamma e padrona di Oscar,sta tentando di addestrare questo cucciolo (senza grandirisultati).Mia sorella Francesca è innamorata del cagnolino e hachiesto a Cristina di poter tenere il guinzaglio.Cristina l’ha accontentata, ma qualche minuto dopo Fran-cesca se ne stava sulla neve tutta sola, mentre Oscar cor-reva via inseguendo un cagnolino che passava di là.Cristina si è subito lanciata all’inseguimento del fuggitivo efacendo una curva sul ghiaccio è scivolata e volata a gam-be all’aria.Poi l’abbiamo vista dolorante mettersi a quattro zampe echiamare: “Oscar! Vieni qui!” e – miracolo! – Oscar lasciaperdere la sua preda e, forse mosso da pietà per la sua do-lorante padrona, torna trotterellando da lei, mentre Fran-cesca, comprendendo il disastro che aveva combinato,piangeva come una fontana.Cristina, massaggiandosi la schiena, è invece raggianteperché finalmente il cucciolo le ha dato retta!

Christian Chivella

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Il mio gatto ZabooTutto inizia quando io stavo facendo i compiti sul balconedella mia cucina, era una giornata bella e il sole sorgeva,quando ho sentito un impercettibile miao miao, sembravail miagolio di un cucciolo appena nato.Io e la mia mamma, dopo che abbiamo sentito il miagolio,siamo andati a vedere cos’era.Quando siamo arrivati più vicino abbiamo visto una picco-la testolina che spuntava fuori da un paio di rovi, era solo,povero, senza la mamma, con gli occhi ancora chiusi.La mia mamma aveva portato anche un asciugamano cheha usato per portare il piccolino dentro la nostra casa.La mia mamma ora mi aveva consegnato il “fagottino” edera andata subito al negozio di animali per comprare cibo.Dopo 10 minuti eravamo nella cucina, provando a dargli untipo di latte per i gatti piccolissimi: era una polvere biancada diluire nell’acqua; tentammo di somministrarglielo conun minuscolo biberon, ma lui non lo voleva.La mamma era preoccupata perché sapeva che se nonavesse mangiato sarebbe morto. Piccola, la mia gatta, loguardava di brutto, e capimmo che non ci avrebbe aiutato.Per fortuna dopo qualche tentativo ha capito che dovevabere e ha ingoiato il latte, sbavando un po’.Dopo una settimana il gattino ancora senza nome aprì gliocchi e per farci capire che aveva fame succhiava le ditamie e di mia mamma (ci preferiva, rispetto ai “maschi” dicasa, come se sapesse che l’avevamo salvato noi).Adesso Zaboo (lo abbiamo chiamato così) è molto bello, ungattone tigrato un po’ grassetto, ma è ancora tanto carino.

Beatrix Howe

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Diario a quattro zampeUn giorno la famiglia ed io decidemmo di prendere un ca-ne. Così il giorno dopo siamo andati dalla dottoressa Paro-nuzzi, per chiederle di darci un consiglio su quale cane sce-gliere; mio papà aveva chiesto di averla o averlo tranquillo,insomma che non fosse casinista. Lei ci disse che l’avevanoun cane così, e quindi ci consigliò “Briciola”. Noi abbiamodetto che andava bene, e che saremmo andati al canile diOpicina a vedere.10 giorni dopo andiamo all’ASTAD, appena arrivati là,c’erano tutti i cani che abbaiavano (mi facevano pena), gi-ravano intorno, giocavano insieme e certi anche mangiava-no e bevevano, e qualcuno andava x la sua strada, ci avvi-cinammo a loro mi piacevano così tanto, ma mio papà sta-va guardando attentamente in giro, e vedeva una cagnoli-na bianca con le macchie marrone chiaro, che camminavasu per le scale, verso l’edificio, avrà avuto cinque-sei anni,se ne stava tutta da sola, si capiva che aveva una bruttastoria alle spalle, mio papà mi ha chiamato per vederla e ciha chiesto se ci piaceva, e noi abbiamo detto che era bel-lissima. E quindi abbiamo chiamato la signora e le abbiamodetto che volevamo prenderla. Siamo andati dentro nellostudio, e là ci hanno spiegato tutto come fare. E così siamotornati a casa con lei, Briciola, che annusava da tutte leparti. Io ero felicissima di averla con noi.

Silvia Napolitano

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Palla di Neve, il mio conigliettoVi racconto la storia di Palla di Neve, il mio coniglietto.Era un giorno d’inverno quando i miei genitori portarono acasa una “palla di neve”.Io pensavo che fosse neve, poi lo vidi muoversi.Era soffice, piccolo, gli occhi blu, le orecchie a punta e lacoda pelosa.Quando era piccolo lo rincorrevo perché scappava sempree lo si prendeva.Molte sere però lo tenevo in braccio e lo “coccolavo”.Una sera d’inverno, Palla uscì dalla gabbia e incominciò acorrere per tutta la sala e finì con l’incastrarsi tra una pian-ta e il mobile.Dopo un po’ di tempo io ed il papà riuscimmo a tirarlo fuo-ri senza fargli male.Il coniglietto stanco e stressato andò all’ingresso e si misesul tappeto.Al mattino seguente lo trovammo sdraiato nella sua gabbia.Ora Palla di Neve è diventato grande, lungo, cicciotto, pe-loso e “coccolone”.

Alberto Novati

Silvi un gatto bianco e neroUn giorno la mia famiglia decise di prendere un gatto. Al-lora mamma ed io ci mettemmo a cercare sulle pagine gial-le un gatto però di colore bianco e nero. Dopo un po’ lo tro-vammo ed era a Trieste, io e la mia famiglia ci mettemmoin viaggio, ed arrivammo a Trieste, parcheggiammo l’auto eci trovammo di fronte ad una casa. Entrammo, dentro

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c’erano tre gattini tutti di quattro mesi, uno rosso, uno gri-gio e uno bianco e nero. Dopo un po’ arrivò una signora checi disse che erano tutti e tre fratelli, quello rosso era il piùvivace e dispettoso, quello grigio era normale e tranquillo,e quello bianco e nero era anche troppo calmo. Infine cichiese quale avremmo voluto prendere, noi avevamo giàdeciso: quello bianco e nero. Poi la signora lo fece prende-re in braccio a mia madre, lui era piccolissimo, magrissimoe aveva il musetto quasi più piccolo del corpo. Lo mettem-mo dentro una cesta con una coperta, e lo portammo a ca-sa. Appena arrivati a casa lo mettemmo sul divano e lui sifaceva coccolare, gli demmo da mangiare e poi gli mettem-mo una copertina blu (visto che era un maschio) sul corpi-cino e lo sistemammo in una grande cesta per farlo dormi-re. Andammo a dormire anche noi e il giorno dopo ci al-zammo, lui era già sveglio, gli demmo da mangiare e poi iodecisi il suo nome Silvestro, proprio come il gattone deicartoni animati, mentre lui saltava per tutta la casa.Quando arrivò il Natale la mattina ci svegliavamo e trova-vamo Silvi (Silvestro) che dormiva sul presepio, come unangioletto.Adesso Silvi ha quattro anni ed è sempre a casa con noi.

Katia Tinta

Il regalo pelosoEra la sera della vigilia di Natale dell’anno 2002.Mi trovavo a casa della nonna.Noi bambini aspettavamo con impazienza il momento del-la consegna dei regali. Finalmente ci vennero consegnate

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due scatole, una era confezionata con dei fiocchetti doratie l’altra era una scatola di cartone chiusa con del nastroadesivo, con dei buchi. Io speravo che si fossero sbagliati, perché confrontandolacon quella dei miei fratelli, erano molto più preziosi e ab-bondanti. Per la curiosità aprii prima quella bruttina… al-l’interno ci trovai un batuffolo bianco con delle macchienere ed il musetto marrone con una riga bianca che scen-deva dalla fronte fino al naso, era basso e grassottello conuna puntina bianca.Lo chiamai Jack perché apparteneva alla razza Jack Rus-sell Terrier, vedendolo da lontano sembrava uno sgabellinocon i piedi.Ma la cosa più bella del suo fisico erano proprio gli occhi,sembravano quelli di un umano, le sue pupille erano tal-mente grandi che sembrava sprofondare in un mare nerosenza fine. Guardai nella sua scatola e trovai un bigliettino, e lo lessi:“Questo regalo è per te, con tanto amore, il nonno”.E da allora fino ad oggi gli sono sempre riconoscente perquel regalo.

Alessandra Vescovini

Diario a quattro zampeIl mio gatto si è addormentato sulla mia testa quando eroseduto sul divano, faceva le fusa piano.

Un giorno in dolina c’era un gatto e il mio gatto è andatoanche lui in dolina e gli ho detto “attacca!”, lo seguiva tut-

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to il tempo, però non lo ha preso, ma dopo ha dormito tut-to il pomeriggio vicino alla stufa accesa.

Un giorno sono andato in dolina con il mio gatto ma è arri-vato un cane e mio papà mi ha detto di salire su un alberoe io ci sono riuscito, anche il mio gatto, dopo, scesi tutti edue siamo corsi velocissimi in bottega.Una mattina il mio coniglio non aveva l’acqua, non so daquanto tempo, mi sono accorto per fortuna e così gli ho da-to da bere e Macchia ha bevuto tantissimo.

Un giorno mia mamma era in macchina, ha visto un uccel-lino piccolo che non sapeva volare, lo ha preso e lo ha por-tato da mia nonna, gli ha dato da mangiare nel becco e cu-rato, e ha 7 mesi. L’ho chiamato Verdino, gli è cresciuta lacoda, le piume, è molto vivace e cinguetta, e spero che ri-manga in vita.

L’altro mese sono andato dalla nonna a trovare Neve, gli hochiesto alla nonna dov’era Neve ma non lo sapeva neanchelei. Allora lo ha chiamato, però non veniva, quindi sono an-dato a cercarlo per tutta la dolina, però non si è fatto vivo.Dopo essere andato a casa, era arrivata la sera, quindi hochiamato la nonna per avere notizie di Neve, ancora nien-te. Il giorno dopo ha telefonato la nonna, finalmente era ve-nuto.

Cristian Zullich

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Bibliografia

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Adelphi, Milano 1985LORENZ Konrad, E l’uomo incontrò il cane, Adelphi, Milano1973LOUV Richard, L’ultimo bambino nei boschi, Rizzoli, Milano2006LUCARELLI Carlo, Un giorno dopo l’altro, Einaudi, Torino2004MARCHESINI Roberto, Bastardo a chi?, Fabbri Editore, Mi-lano 2007

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MARCHESINI Roberto, L’identità del cane, Apeiron, Bologna2004MARCHESINI Roberto, Il valore della diversità – educare

attraverso la relazione con gli animali, Apeiron, Bologna2008MORRIS Desmond, Noi e gli animali, Mondadori, Milano1996MUNTHE Axel, Vagabondaggio, Corbaccio, Varese 1933PARONUZZI Alessandro, Afusorismi, Battello, Trieste 2003PARONUZZI Alessandro, Siamo tutti sulla stessa arca,Stampa Alternativa 2008PARONUZZI Alessandro - RICCIARDI Enrica, Animali tra le

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Indice

Il colore del grano – Prefazione di Enrica Ricciardi 3

PARTE PRI MA

Nuove “Storie naturali” 9

In principio c’era il cane 19

Per ultimo venne il gatto 49

Elementi di bioetica animale 63

L’essenziale è invisibile agli occhiUna lettura zooantropologica de “Il piccolo principe” 85

PARTE SECONDA

Gli animali per me sono come i miei parentiNuove “Storie naturali” raccontate dai bambini 109

Bibliografia 155

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2010

dalla tipografia Iacobelli srl