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1 1 BRUNO ROMANO ORIENTARSI NEL PENSIERO -KANT- E NELLE NORME -GADAMER- RIFLESSIONI SU NOMOS E LOGOS: SCHMITT, HEIDEGGER, LACAN Edizione curata da C. Palumbo, G. Petrocco, A. Siniscalchi

ORIENTARSI NEL PENSIERO -K -G RIFLESSIONI SU NOMOS E … corso... · pensiero’ può essere illuminata anche con l’analisi e la discussione ... , secondo un movimento circolare

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BRUNO ROMANO

ORIENTARSI NEL PENSIERO -KANT- E NELLE NORME -GADAMER- RIFLESSIONI SU NOMOS E LOGOS: SCHMITT, HEIDEGGER, LACAN

Edizione curata da C. Palumbo, G. Petrocco, A. Siniscalchi

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INDICE

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QUESTIONI INIZIALI

‘Orientarsi nel pensiero’ è una espressione contenuta nel

titolo di un breve saggio di Kant, pubblicato nel 17861. L’orientarsi

si avvia in un luogo da dove ci si muove per indirizzarsi nella ricerca

di altri luoghi da raggiungere.

L’orientarsi può avere diverse qualificazioni; può

concernere sia la ricerca di un orientamento geografico nei luoghi,

sia la ricerca di un orientamento concettuale nelle argomentazioni,

che formano la relazione discorsiva tra le persone. In questa seconda

qualificazione, l’orientarsi può riguardare anche le prospettive che i

soggetti di una comunità intraprendono nel definire i loro cammini

tra le norme, regolative delle relazioni tra l’io ed il tu, tra il noi ed il

voi, tra le persone e le istituzioni.

Si segnala così che la chiarificazione dell’‘orientarsi nel

pensiero’ può essere illuminata anche con l’analisi e la discussione

dell’‘orientarsi nelle norme’, secondo un movimento circolare che

concerne sia il pensiero (logos) e le norme, sia le norme (nomos) ed

il pensiero.

Lo scritto di Kant, qui ripreso, può far luce su due itinerari,

costituiti da due qualificazioni dell’esistere umano. Una

qualificazione privilegia la ragione, cercata nella sua purezza, e

l’altra privilegia la fede, nel suo affidarsi alla capacità dell’intuizione

e del sentire della persona.

Il nucleo di queste pagine di Kant mostra che la purezza

della ragione non può non entrare nella quotidianità dell’esistenza

umana, immersa, sempre ed insuperabilmente, in immagini ed in

rappresentazioni sensibili. L’orientarsi delle persone viene

presentato anche muovendo dalla differenza tra la mia destra e la mia

1 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, Milano, 2015.

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sinistra, così da poter iniziare l’orientamento dalla materialità del

corpo, che, nella sua costituzione fisica, ha una parte nominata

‘destra’ ed una parte nominata ‘sinistra’.

Avanzando, sia in uno spazio geografico, sia in uno spazio

concettuale -ancora ignoti, da esplorare-, la persona muove da una

condizione che Kant descrive con queste espressioni: qui “subentra il

diritto del bisogno della ragione, quale fondamento soggettivo per

presupporre e ipotizzare qualcosa che essa non può pretendere di

sapere in virtù di motivi oggettivi”2. Pur senza poter raggiungere una

padronanza ‘oggettiva’ di un sapere puro e totale, la persona può e

deve orientare, anche secondo un ‘fondamento soggettivo’, la sua

esistenza nel mondo abitato da altre persone.

Significativamente, l’orientarsi nel pensiero si avvia

mediante una differenza istituita dall’attività, linguistico-dialogica,

del nominare, che conferisce ad una mano il nome di mano destra e

ad un’altra mano il nome di mano sinistra. Si conferma qui che il

nucleo del pensiero è omogeneo al nucleo del linguaggio. Alle

persone è dato pensare nel medio delle parole: non vi è un pensiero

senza parole, così come non vi sono parole senza l’attività del

pensiero.

L’orientarsi nel pensiero si dispiega come l’orientarsi nel

linguaggio ed è omogeneo all’orientarsi nelle norme.

Non ci si orienta né secondo una ragione pura-totale, né

secondo una fede senza ragione, ma si ricerca una direzione nella luce

della ‘fede razionale’, chiarita dalla filosofia, come si argomenta

nella ‘fede filosofica’ di Jaspers.

Nel comporsi di un unicum, costituito dal reciproco

illuminarsi della fede e della ragione, si ha che il nucleo iniziante è

strutturato dal complesso unitario della persona: soggetto pensante e

corpo vivente. L’orientarsi originario viene presentato come il

muovere da una differenza, che concerne una parte sinistra ed una

parte destra del corpo umano, confermando l’essenzialità del corpo

materiale per iniziare il movimento della ragione, che non cade né

nella vuota purezza di una umanità immateriale, né nella materialità

di persone prive di una ricerca della pura luminosità della ragione.

2 Ivi, p. 36.

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Vi è una reciproca chiarificazione dell’orientarsi nel

pensiero e dell’orientarsi nelle norme, accomunati dal loro

dispiegamento nelle relazioni dialogiche, svolte nel linguaggio

simbolico, creativo di comunicazioni plurivoche e non esecutivo di

informazioni univoche.

Nell’orientarsi nel pensiero, all’inizio vi è anche

l’assunzione di una differenza radicata nel distinguere la mano destra

e la mano sinistra, mediante i nomi conferiti a queste due parti del

corpo. Analogamente, nell’orientarsi nelle norme, all’inizio vi è

anche l’assunzione della differenza sia tra le molteplici norme e il

senso unitario del sistema giuridico, sia tra la legalità e la giustizia.

Il breve saggio di Kant, qui ripreso, ha questo avvio: “per

quanto in alto possiamo porre i nostri concetti e per quanto, inoltre,

possiamo astrarre dalla sensibilità, tuttavia a essi continuano a

rimanere attaccate delle rappresentazioni figurate, la cui peculiare

destinazione è di rendere idonei all’uso empirico quegli stessi

concetti che del resto non sono derivati dall’esperienza”3.

Per la specifica condizione della persona in carne ed ossa,

vivente nella materialità di un mondo condiviso nella penuria dei

beni, viene qui avviato a discussione che i concetti, anche quelli delle

norme e del diritto sono tutti concetti spirituali, che hanno una

ineliminabile connessione con l’insieme delle rappresentazioni

radicate nella sensibilità materiale della condizione mondana dei

corpi umani.

Quel che è comunicato, sia quanto all’orientarsi nel

pensiero, sia quanto all’orientarsi nelle norme, può essere chiarito

riprendendo l’opera di riflessione sul termine ‘orientarsi’, su quel che

esso presenta come suo specifico contenuto nell’esistenza delle

persone e nelle loro relazioni, anche giuridiche.

“Orientarsi in senso vero e proprio significa: da una

determinata regione del mondo (delle quattro in cui abbiamo

suddiviso l’orizzonte) trovare le altre tre e in particolare trovare

l’oriente”. Nella mia esistenza, io, persona impegnata nell’opera di

ricerca di un orientamento, “ho assolutamente bisogno -scrive Kant-

3 Ivi, p. 29.

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del sentimento di una differenza nel mio proprio soggetto, vale a dire

la differenza tra mano destra e mano sinistra”4.

L’espressione ‘sentimento di una differenza’ ha una

specifica valenza, quella di considerare che il lato della mano destra

ed il lato della mano sinistra “non presentano ... alcuna differenza

osservabile”, poiché, al di là del lessico di Kant, si tratta di una

differenza istituita dalla ‘capacità di sentirsi’ nell’attribuire nomi,

nel conferire un senso linguistico-esistenziale a qualcosa, superando

la sua nuda presenza oggettiva, fisica, fattuale.

Nell’orientarsi geografico, si deve considerare che “pur

con tutti i dati obiettivi del cielo, io mi oriento geograficamente

soltanto in base a un fondamento soggettivo della distinzione ...

perfino l’astronomo, se facesse attenzione soltanto a quel che vede e

non contemporaneamente a quel che sente, inevitabilmente si

disorienterebbe ... viene in suo aiuto, in maniera del tutto naturale

mediante il sentimento della mano destra e della mano sinistra, quella

capacità di distinzione disposta certo dalla natura, ma divenuta

qualcosa di consueto grazie ad un ripetuto esercizio”5, che costituisce

il contenuto di una memoria del linguaggio simbolico, esercitato in

una lingua specifica. È la lingua, condivisa in una comunità, che si

ritrova nel senso dei termini impiegati -mano destra, mano sinistra,

etc.- ed intesi sia nel loro definito significato, sia nella capacità

simbolica che qualifica l’interagire creativo, esercitato nelle

comunicazioni delle persone.

L’orientarsi inizia a presentare e distinguere: a)quel che è

proprio degli atti dell’opera -pensata, voluta ed esercitata- delle

persone, soggetti del nominare nel linguaggio-discorso, e b)quel che

è proprio del mutamento a-personale delle cose, dei viventi non-

umani e delle macchine, mai capaci dell’atto del nominare in un

linguaggio simbolico-polisenso, distinto dalle operazioni

dell’informare in un linguaggio numerico-monosenso, sempre

mancante della gratuità del donare il senso nello svolgimento

dialogico del logos.

Unicamente nelle persone l’orientarsi si avvia mediante il

non coincidere con l’oggettività naturalistica degli elementi di un

4 Ivi, pp. 32-33. 5 Ivi, p. 33.

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ambiente. Questo non-coincidere è segnato anche dal conferimento

di un nome, sia alla mano destra, sia alla mano sinistra, elementi che

certo gli esseri umani si trovano già ad avere nella fisicità del loro

corpo, ma che costituiscono un principio orientante unicamente

quando ricevono un senso conferito dall’atto personale-

interpersonale del nominare, che, nell’esercizio della dialogicità del

linguaggio simbolico, connette ed esterna il pensiero e la volontà.

“Al buio, in una stanza a me nota, posso orientarmi a

condizione di poter afferrare almeno un oggetto di cui ricordo la

posizione. In tal caso, però, non mi è evidentemente d’aiuto

nient’altro che la capacità di determinare le posizioni in base a un

fondamento soggettivo di distinzione ... tra i miei due lati: quello

destro e quello sinistro”6. Questa distinzione è radicata nella

materiale corporeità del soggetto, nei suoi due lati, destro e sinistro,

ed è dunque una distinzione non riferibile ad uno spirito puro,

immateriale, ma appartiene ad una persona che ha un corpo,

ambientato in un mondo costituito anche dagli elementi della materia.

Le persone non esistono solamente nell’ordine della

purezza, ma, anche ed insuperabilmente, nella dimensione

ineliminabile dell’impuro, di quel che appartiene ai sensi ed ai loro

commisti rapporti inevitabili con la materialità.

Sia nell’orientarsi nello spazio geografico, sia

nell’orientarsi nello spazio concettuale, la persona si muove “in base

a un fondamento soggettivo della distinzione”, che “non è altro che

il sentimento del bisogno proprio della ragione”. Si tratta di prendere

atto che, anche nell’orientarsi nei concetti, “subentra il diritto del

bisogno della ragione, quale fondamento soggettivo per presupporre

e ipotizzare qualcosa che essa non può pretendere di sapere in virtù

di motivi oggettivi; il diritto, cioè, di orientarsi nel pensiero ...

unicamente in virtù del suo proprio bisogno”.

Il ‘proprio bisogno’ si presenta -sia nel versante pratico, sia

nel versante teoretico- come il bisogno di un inizio istituito nel

compiere delle ipotesi, che non possono essere costituite nell’ordine

di pure razionali argomentazioni oggettive e che però appartengono

pur sempre alla ricerca della ragione, riconosciuta come “l’ultima

pietra di paragone”.

6 Ivi, p. 34.

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Le persone non esistono né unicamente nella conoscenza

razionale, né unicamente nella intuizione fideistica. La via

dell’esistenza umana viene illuminata da Kant con il ricorso

all’espressione “fede razionale”. Questa espressione si chiarisce

considerando che “ogni fede è, dunque, un tener per vero

soggettivamente sufficiente, con coscienza però della sua oggettiva

insufficienza; essa quindi viene opposta al sapere”7. La ‘fede

razionale’ mai si può trasformare in un sapere, perché è costituita sia

da elementi sufficienti sul versante soggettivo, sia da elementi

insufficienti sul versante oggettivo, strutturalmente proteso ad un

conoscere che è un sapere.

L’orientarsi nel pensiero muove sia dall’impossibilità

delle persone di potere accedere ad una conoscenza totale-infinita,

sia dal bisogno di assumere una direzione che consenta l’impegnarsi

nella pratica quotidiana dell’esistere-coesistere, rischiata dalla

libertà, ambientata in un mondo materiale dove non si danno “esseri

naturali puramente spirituali”8.

Nelle esemplificazioni proposte da Kant, l’orientarsi della

persona comporta l’assumere una differenza, presente nella

corporeità e però assumibile unicamente una volta che le sia stato

dato un nome, così che, nella dialogicità del linguaggio simbolico,

sia stata nominata una mano, la destra, ed un’altra mano, la sinistra.

Dare un nome, nominare, è non coincidere con quel che si

nomina ed immettere i nomi conferiti nel destinare-ricevere i

contenuti dialogici, affidati all’opera dell’interpretazione, che

costituisce e specifica le relazioni umane, anche quelle giuridiche.

Già qui si presenta il nucleo della ‘fede razionale’, che è la fede nella

comunicabilità di un nome, rispettando la razionalità di una tale fede,

ovvero riconoscendo che, nel dialogo, la ragione non può perdere il

suo tratto costitutivo: l’universalità della ratio del domandare e del

rispondere tra gli esseri umani, creatori di simboli plurivoci-

evocanti e non esecutori di segni univoci, certi nella loro a-personale

funzionalità e così estranei all’arte ermeneutica.

Anche nell’orientarsi nelle norme, opera la ‘fede

razionale’, segnata dalla insufficienza di elementi oggettivi,

7 Ivi, p. 43. 8 Ivi, p. 37.

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riconducibili ad un sapere totale-infinito, che possa raggiungere la

padronanza assoluta sia della legalità, sia della giustizia, ambientate

nella responsabilità dell’opera ermeneutica del giurista. Poiché una

padronanza oggettivata ed assoluta di un sapere giuridico totale non

appartiene alla persona umana, alla sua condizione di finitudine, si ha

che l’orientamento tra le norme si avvia assumendo una differenza,

qualificata dalla sufficienza di elementi soggettivi (fede) e

dall’insufficienza di elementi oggettivi (ragione). In Kant, questi due

versanti si compongono nel contenuto dell’espressione ‘fede

razionale’.

Nello spazio geografico ci si orienta secondo il sentire la

differenza tra la sinistra e la destra, più precisamente tra la mano

nominata sinistra e la mano che ha ricevuto il nome di destra. Nello

spazio giuridico ci si orienta muovendo dal sentire la differenza tra

l’accogliere l’altra persona e l’escluderla. Quest’ultima differenza è

impiantata nella sufficienza di un sentire del soggetto, ma non ha una

sufficienza riferibile ad una conoscenza oggettiva, pura e certa,

poiché le due possibilità dell’accogliere o dell’escludere sono

significate ed illuminate da una molteplicità di gradazioni, di toni.

L’accogliere e l’escludere consentono uno spazio lasciato all’arte

dell’ermeneutica esistenziale, ad una scelta esposta al rischio della

libertà e non sostituibile né con una correttezza logico-matematica,

né con una certezza naturalistica, fisica, chimica, biologica,

macchinica, etc.

Questo sentire del soggetto è un muoversi secondo una

fede che orienta all’accogliere e non all’escludere e che però

custodisce anche il suo ineliminabile riferimento alla ragione, ovvero

alla razionalità del prevalere qualitativo-esistenziale dell’accoglienza

e non dell’esclusione. La ragione mostra, al di là della lettera dei testi

di Kant, che unicamente in una relazione di vicendevole

accoglimento, i soggetti possono perfezionare la qualità della loro

condizione, mentre nell’esclusione la deteriorano l’un l’altro,

perdendosi in un narcisismo distruttivo della reciprocità del donarsi

il senso nel dialogo, disciplinato dal principio di uguaglianza.

La “libertà di pensare” costituisce il tesoro principale della

condizione umana, ma può perfezionarsi o deteriorarsi, come Kant

mostra con il suo interrogativo: “fino a che punto e quanto

correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in

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comunità con gli altri, ai quali noi partecipiamo i nostri pensieri ed

essi a noi i loro?”9.

La ‘fede razionale’ orienta le persone verso la custodia

della ‘libertà di pensare’, che può essere rispettata ed accresciuta

unicamente se si coesiste in questo ‘pensare in comunità’, inteso

come il reciproco partecipare nel dialogo i propri pensieri personali -

gli uni agli altri-, così che ognuno accresce-perfeziona se stesso

ricevendo i pensieri dell’altro ed accresce-perfeziona l’altro

donandogli i suoi pensieri, in una comunità disciplinata dai due

versanti, distinti ma connessi, del rispetto della legalità e della

ricerca della giustizia.

Unicamente la fede razionale, nella distinzione-

connessione dei suoi due poli -sentire e ragionare-, libera dalla “totale

sottomissione della ragione ai fatti” -alla forza più forte e vincente-,

libera dall’abbandonarsi alla “superstizione”10, anche a quella

superstizione che si ferma ad una legalità spogliata delle domande

sulla giustizia.

Segue qui una interpretazione della ‘fede razionale’, che

invita a chiarire il legame circolare tra due versanti: quello della

‘legge del testo’ e quello del ‘testo della legge’11.

Nel primo versante si coglie la struttura del logos nel suo

dispiegarsi come relazione dialogica, non producibile

arbitrariamente, né disponibile secondo la forza di chi è più forte.

Nessuno è il padrone assoluto delle sue parole, del senso che vi

conferisce. L’interpretazione di tutti arricchisce tutte le parole dei

dialoganti.

Nel secondo versante si indica il nomos, nel suo incidere

istituente il complesso delle norme vigenti in un tempo, costitutive di

un testo, assunto come l’essenziale riferimento regolativo che

disciplina le relazioni tra le persone e tra le persone e le istituzioni.

Questi due versanti -‘legge del testo e ‘testo della legge’-

si chiariscono nel ripensare il concetto di Kant, espresso con la

formula ‘fede razionale’, poiché entrambi non possono essere trattati

esclusivamente né a)dall’intuizione del sentire, che si affida ad una

9 Ivi, pp. 48-49. 10 Ivi, p. 51. 11 Cfr. il mio La legge del testo. Coalescenza di logos e nomos, Torino, 1999.

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fede, né b)dalla purezza della ragione, divelta dalla materialità della

condizione umana.

La ‘legge del testo’ può essere chiarita come l’inizio

normativo dell’esercizio della parola in una lingua, come il muovere

da un ‘oriente’, da dove acquistano luce il rilievo e la disciplina della

pluralità delle parole destinate all’altro. Viene qui nominata la fede,

intesa come insieme di elementi soggettivi sufficienti che avviano il

dialogo tra l’io ed il tu. Sono gli elementi soggettivi che colgono il

‘sentire che l’altro mi può comprendere’, poiché insieme

apparteniamo all’unità di una lingua, che consente sia l’arricchirsi

dei miei pensieri, nel ricevere i pensieri degli altri, sia il donare agli

altri quanto io posso destinare al perfezionamento delle loro

personalità di soggetti parlanti. È il perfezionarsi-arricchirsi nella

reciprocità del dialogare, regolata dalla ragione del riconoscimento

incondizionato dell’inviolabilità dell’universale diritto di tutti a

prendere la parola nascente dalla capacità simbolica delle persone,

creatrici di senso.

Il ‘testo della legge’ è costituito da una selezione che, tra

le tante norme istituibili nelle relazioni interpersonali, ha istituito

alcune norme e non altre, secondo una selezione che ha il suo

principio nella fede, custode del sentire la dignità umana, incontrata

dalla ragione che illumina l’incondizionata struttura universale delle

persone, qualificativa dello status, privato e pubblico, dell’io di ogni

singola donna e di ogni singolo uomo.

La ‘legge del testo’ ed il ‘testo della legge’ sono due

versanti della ‘fede razionale’, che illumina l’analogia e la

connessione dell’‘orientarsi nel pensiero’ e dell’‘orientarsi nelle

norme’.

La ‘legge del testo’ è presentata nel muovere dalla fede nel

potersi ritrovare nell’altro, ovvero dalla fede che l’io ha nel ri-

conoscersi nel tu, in una condizione radicata nel presupposto che la

fede illumini il riconoscimento e l’uguaglianza delle persone in

quanto persone. Senza il ‘sentire’ queste dimensioni relazionali, non

si avvierebbe nessun rapporto umano, più specificamente nessun

relazionarsi dialogico, nel suo essere il nucleo di ogni tipo di

interagire dei parlanti secondo la loro capacità simbolica, che è

assente nel non-umano.

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Parlare è affidarsi al domandare ed al rispondere nella

reciprocità dell’avere fede nel dialogare, che accomuna i soggetti del

linguaggio, disciplinati dal principio di uguaglianza.

Da questa fede nella ‘legge del testo’, così intesa, si avvia

l’opera legislativa dell’istituzione delle norme, che disciplinano le

relazioni tra gli esseri umani di una comunità, secondo la selezione

dei contenuti del ‘testo della legge’. Questa opera istituente trova la

sua misura, la sua ‘pietra angolare’, nella ragione, vissuta come

rispetto dell’universalità della condizione umana, centrata nella

dignità, che non è il prodotto contingente dei fatti storici, nelle loro

modalità vitali, mercantili, ideologiche, etc., ma è una dimensione

inviolabile, formativa della differenza antropologica, che segna il

salto, e non la semplice differenza di grado, tra l’umano e tutto il

resto del non-umano.

La figura e l’opera del giurista appartengono

esclusivamente alla condizione umana. Sono assenti nelle cose, nelle

macchine e nei viventi non-umani, insuperabilmente privi sia della

‘legge del testo’, sia del ‘testo della legge’, sia della loro unità-

distinzione, illuminata dalla ‘fede razionale’, pensata da Kant.

Come osserva Calamandrei, il giurista, considerato, nel

pensiero dei classici, il “sacerdote della giustizia”, attualmente “è

scaduto nella comune opinione al livello di un equilibrista della

dialettica che ingegnosamente si esercita sui trapezi delle pure

formule, senza darsi pensiero del contenuto, buono o cattivo, ch’esse

ricoprono”.

Ne consegue che i giuristi “rischiano di apparire come dei

calcolatori senz’anima e senza preferenze, schiavi del fatto, pronti a

servire qualunque padrone ... Di qui l’origine di quello scetticismo

che c’è oggi tra i giovani, anche tra quelli che si inscrivono a

giurisprudenza, sulla forza ideale di quel diritto che essi studiano: la

scienza giuridica fa un po’ la parte non brillante della grammatica, la

quale si adatta a tutti i testi, ma non ha niente a che fare con

l’ispirazione artistica”12; si adatta anche ai testi dei ‘fedeli’ di ogni

fondamentalismo, da quello religioso dei tagliatori di teste, a quello

economico dei signori della finanza, dei padroni delle multinazionali,

dei detentori delle concentrazioni bancarie, etc.

12 P. Calamandrei, Fede nel diritto, Roma-Bari, ed. dig., 2014, p. 2 of 26.

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La discussione sulla ‘fede razionale’ -riprendendo la

terminologia di Kant- consente di orientarsi nella complessità del

fenomeno del diritto. Si possono considerare due itinerari principali,

che, in questo fenomeno, Calamandrei così nomina: quello del

“sistema della formulazione giudiziaria” e quello del “sistema della

formulazione legislativa”.

Nel primo sistema, si ha una vita sociale che si svolge senza

alcuna regola istituita dal legislatore, così che “lo Stato interviene

come arbitro pacificatore, e detta lì per lì la soluzione che ritiene più

appropriata alla singola lite”, ovvero interviene “caso per caso”. In

questa direzione, “il diritto lo si manifesta nello stesso momento in

cui viene eseguito; diritto e forza coincidono in un punto solo”, quello

che risulta vincente nella contingente combinatoria dei fatti ed

impone la sua soluzione.

Nel secondo sistema, “lo Stato non si limita più a reprimere

con mezzi di fortuna il conflitto quando sia concretamente già

insorto, ma procura di prevenirlo: per ottenere ciò prevede in anticipo

con un processo di astrazione ... [definendo] le classi tipiche di

conflitti nei quali il suo intervento potrebbe essere utile”.

Ci si trova davanti ad un primo sistema, quello di una

soluzione ‘caso per caso’, oppure davanti ad un secondo sistema, che

registra un’attività del legislatore, separata e cronologicamente

precedente l’attività del giudice.

L’opera di istituzione delle leggi è tale che, quando “il

diritto sia uscito dalla fucina del legislatore, colato nelle formule delle

leggi, esso si raffredda e si consolida, e il giudice deve applicarlo così

come esso gli viene presentato, senza poter ricominciare per conto

suo quel lavoro di diagnosi politica, che è stato compiuto ... dal

legislatore”. In questa prospettiva, si afferma il principio costitutivo

del “sistema della legalità”13.

Il rispetto del principio di legalità comporta che i giudici,

in quanto giuristi e non politici, abbiano conoscenza “delle leggi e

dei metodi con cui si compie il raffronto tra le loro ipotesi astratte e

la concreta realtà dei casi umani”. Quando invece “vige il sistema del

caso per caso, i giudici devono essere non dei giuristi”, ma delle

figure politiche, ritenute idonee a procedere senza riferimento alle

13 Ivi, p. 9 of 26.

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leggi già istituite e senza conoscenza dei metodi dell’ermeneutica

giuridica, che orienta ed argomenta il passaggio dalla norma generale

al caso particolare. Si richiede unicamente “quella misteriosa dote

naturale che è la sensibilità politica”14. Si confondono qui l’attività

del legislatore e quella del giudice. La funzione legislativa e la

funzione giurisdizionale risultano indistinte, non separate.

Il principio di legalità si concretizza nell’orizzonte della

generalità-astrattezza delle norme istituite, che consentono la

custodia di un principale bene personale-interpersonale: la certezza

del diritto.

Su questi temi, in Calamandrei si legge: “senza la legge

astratta non può esservi in concreto tra i consociati quella certezza

del diritto, che permette di sapere in anticipo quali sono i limiti del

lecito”. Di conseguenza “non può esservi in concreto alcuna garanzia

di dignità umana”, rispettata come esige il principio di reciprocità, di

uguaglianza. Viene qui sostenuto che, nel “sistema della legalità”,

“ciascuno sa che nel momento stesso in cui afferma il diritto suo

proprio, nello stesso momento egli riconosce, basato sulla stessa

legge, il diritto del suo simile e il suo proprio dovere dinanzi a lui”15.

Il rispetto del principio di legalità e la custodia della

certezza del diritto non sono elementi della giuridicità che possono

concretizzarsi nella società in modalità meccaniche, in operazioni

robotiche, logico-matematiche, semplicemente esecutive del ‘testo

della legge’, poiché i giuristi eserciteranno il loro compito con il

“risalire dalle leggi all’ordinamento giuridico”, così da prendere atto

che “la realtà positiva del diritto è più vasta e più organica di quella

che affiora nell’apparenza del diritto scritto”, si radica nella ‘legge

del testo’.

I giuristi sono pienamente tali perché possiedono la

consapevolezza di operare con il ricorso alle “regole

dell’interpretazione” ed ai “principi generali” del diritto,

riaffermando che le norme hanno una configurazione generale e

pertanto una ‘elasticità’ affidata all’arte ermeneutica, che offre al

giudice delle “valvole di sicurezza”, degli “organi respiratori” del

sistema giuridico vigente, in modo da poterlo mantenere

14 Ivi, p. 11 of 26. 15 Ivi, p. 13 of 26.

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costantemente sensibile alle “esigenze della società a cui esso deve

servire”16, nel rispetto della ‘legge del testo’.

La “fede nel diritto” e “la fede del giurista”, afferma

Calamandrei, consistono nel “portare in mezzo agli uomini, e

specialmente in mezzo alla povera gente, la sensazione che

l’uguaglianza di tutti cittadini dinanzi alla legge non è una beffa a cui

i giudici volgono le spalle, ma è una realtà che vive e si afferma, più

forte di ogni prepotenza e di ogni soperchieria”, superate -si può dire,

come prima discusso con Kant- da una “fede razionale”, che illumina

l’‘orientarsi nelle norme’ in un nesso circolare con l’‘orientarsi nel

pensiero’.

Il principio di legalità e la certezza del diritto riaffermano

che le relazioni giuridiche sono concepite “in forma di correlazione

reciproca” e sono concretizzate quando il diritto “non può essere

affermato in me senza essere affermato contemporaneamente in tutti

i miei simili ... Nel principio della legalità c’è il riconoscimento della

uguale dignità morale di tutti gli uomini ... Attraverso l’astrattezza

della legge, della legge fatta non solo per un caso ma per tutti i casi

simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte:

quasi si direbbe che in questo principio della legalità che risale alla

grande tradizione del diritto romano si trovi trasfusa in formula logica

l’imperativo morale che comanda di non fare agli altri ciò che non si

vuole sia fatto a noi stessi”17.

Nel rispetto del principio della legalità e della certezza del

diritto, non si può evitare l’interrogativo: che ne è delle questioni

sulle leggi ingiuste?

In Calamandrei si legge “la qualificazione di ingiustizia

data a una legge importa ... non un giudizio giuridico, ma morale”18.

Tuttavia, poco più avanti, Calamandrei considera che “può esservi,

basato sul principio della legalità, un regime autoritario, nel quale,

pur essendovi leggi generali ed astratte, e un apposito provvedimento

legislativo per formularle, la formulazione di esse è però affidata a

un despota o a un oligarca, e senza il rispetto di quelli che si chiamano

i diritti della libertà”. Segue l’affermazione: “occorre che la libertà

16 Ivi, p. 21 of 26. 17 Ivi, pp. 24-25 of 26. 18 P. Calamandrei, Non c’è libertà senza legalità, Roma-Bari, ed. dig., p. 11.

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individuale sia assicurata anche contro le leggi ed anche nel periodo

di formazione delle leggi. ... [nell’]atto stesso in cui [si] stabilisce il

sistema della legalità, secondo il quale la libertà può essere limitata

purché si rispetti il procedimento legislativo”.

Sono riconosciuti e riaffermati i “diritti di libertà, che le

leggi, anche se deliberate regolarmente, non possono sopprimere”.

La legalità “può modificare tutte le leggi meno quelle poste

a priori come condizioni necessarie per il rispetto della libertà. La

libertà di culto, di stampa, di pensiero, di riunione, ecc., la

uguaglianza dei cittadini nonostante ogni diversità di razza o di

religione, sono considerate come estrinsecazioni insopprimibili della

personalità umana, che non si potrebbero menomare senza per questo

sopprimere la libertà. Le leggi possono far tutto meno che sopprimere

questi diritti intangibili ... possono far tutto meno che infrangere

questi principi”19.

L’insieme dei riferimenti, qui delineati, al pensiero di

Calamandrei -specificamente il rinvio al principio della legalità ed

alla certezza del diritto- sollecita a riproporre l’analogia tra

l’orientarsi nel pensiero e l’orientarsi nelle norme, così da descrivere

e chiarire il nesso che lega e distingue la legge del testo ed il testo

della legge, riproponendo il seguente interrogativo di Luhmann:

‘esistono ancora norme indispensabili?’.

Lungo il questionare sul darsi di ‘norme indispensabili’

(Luhmann), di ‘diritti intangibili’ (Calamandrei), i passi primi ed

essenziali concernono la peculiarità del sistema giuridico,

nell’insieme dei sistemi sociali20, ed i legami che saldano gli anelli

dell’ermeneutica giuridica21 e della specificità fenomenologico-

esistenziale del linguaggio umano22, nucleo dell’interagire delle

persone nell’esercizio della loro capacità simbolica.

19 Ivi, p. 14. 20 Cfr. L. Avitabile, Modernità e pensiero giuridico. Persona sistema testo, Torino,

2013; Cammini di Filosofia del diritto, Torino, 2013. Si deve a L. Avitabile la

traduzione e la cura di N. Luhmann, Il diritto della società, Torino, 2012. 21 Cfr. G. Bartoli, Il problema dell’interpretazione giuridica tra ermeneutica e

fenomenologia, Torino, 2014 22 Cfr. C. Palumbo, Norma diritto interpretazione. Grammatica e filosofia del

diritto a partire da Salvatore Pugliatti, Torino, 2016.

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Si ripropongono qui le connessioni tra a)l’orientarsi nel

pensiero e b)l’orientarsi nelle norme, che implicano una riflessione

c)sull’orientarsi nella libertà. In assenza di questa terza dimensione

non si presenterebbero né il pensiero umano, né le norme istituite in

un sistema giuridico. Se si rimuove l’insieme delle questioni sulla

libertà, il pensiero, le norme giuridiche ed il loro incidere sulle

persone residuano come effetti di meccanismi naturalistici, operativi

in tutti gli enti non umani, costitutivamente privi della capacità di

pensare, di volere e di istituire le norme di una comunità, formata da

soggetti responsabili, imputabili e non innocenti come le cose, i

vegetali e gli animali, mai autori della storia e sempre estranei al

fenomeno del diritto.

***

Lo studio di Kant Che cosa significa orientarsi nel

pensiero? è del 1786. Nel 1792 Kant pubblica un articolo su Del male

radicale nella natura umana23. In quest’ultimo lavoro, il problema

del male sollecita una riflessione sull’orientarsi nella libertà, poiché

si può nominare questo termine -libertà- soltanto se non si è

naturalisticamente già pre-determinati a compiere dei

comportamenti, ma si è esposti al selezionare un itinerario che

qualifica l’esercizio della libertà in una definita prospettiva e non in

una diversa, compiendo atti conformi al bene ed al giusto oppure al

male ed all’ingiusto.

Si legge in Kant: “il principio del male non si può trovare

in un oggetto determinante il libero arbitrio per inclinazione, né in

una tendenza naturale, ma soltanto in una regola che il libero arbitrio

fa a sé stesso per un uso della sua libertà, cioè in una massima”. Si

afferma qui che l’orientamento della libertà verso il male non può

essere ridotto “ad una determinazione da parte di cause naturali”,

poiché questo “contraddice alla libertà”24, la nega, la spoglia della

responsabilità-imputabilità e la configura come irrilevante per il

diritto.

23 I. Kant, Il male radicale, Milano, 2014. 24 Ivi, p. 77.

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Una tesi centrale in Kant è la seguente: “la libertà di cui è

dotato il libero arbitrio ha un carattere del tutto particolare, e cioè che

essa non può essere determinata ad un’azione da un motivo se non in

quanto l’uomo ha accolto tale motivo nella sua massima (se ne è fatto

una regola generale secondo la quale egli vuole comportarsi)”25. Si

intende chiarire così che la libertà consiste in atti che si danno un

orientamento, pensato, voluto, scelto e costituito da un percorso

personale, qualificativo della singola esistenza dell’io, che seleziona

una massima, ovvero una regola generale, una forma qualificativa

dell’incontro con gli altri esistenti e del rapporto con il mondo

condiviso, nella concretezza dei casi particolari.

L’‘orientarsi nella libertà’ non è un fatto bio-macchinale,

ma è un atto dell’io, che si connette all’‘orientarsi nel pensiero’ ed

all’‘orientarsi nelle norme’.

Queste tre dimensioni dell’assumere un orientamento sono

costitutive della differenza antropologica, che segna il salto

ontologico tra l’umano ed il non-umano, poiché in quest’ultimo

versante non si presenta alcunché né della libertà, né del pensiero, né

dell’opera dell’istituzione delle norme giuridiche; non vi è nulla

dell’orientarsi, ma si è già-orientati.

L’unità-differenza tra questi tre modi dell’orientarsi

illumina il legame tra i due poli della legge del testo e del testo della

legge. Nel primo polo si presenta ciò che è sottratto alla disponibilità

degli esseri umani, che non possono che esistere nell’assumere una

massima orientante l’esercizio della loro libertà, superando

l’indifferenza verso i più differenziati cammini ed istituendo un testo

della legge, mai riconducibile ad una esecuzione a-personale delle

leggi della fisica, della biologia, della meccanica, della robotica, etc.

Assumere una massima comporta il fare propria una

‘regola generale’, che orienta il singolo esistente nel comportarsi

nella concretezza dei ‘casi particolari’. Si intende qui mostrare che,

davanti al singolo caso concreto, la condotta scelta dall’essere umano

non è semplicisticamente particolare, ma consiste nella

concretizzazione di una regola generale in un caso specifico, definito

nella sua peculiarità. L’essere umano non esiste immergendosi in un

itinerario esistenziale che vede ogni volta un caso isolato, poi un caso

25 Ivi, p. 81.

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successivo, poi un altro ancora, etc.; non esiste nella modalità del

‘caso per caso’, ma nell’assumere una visione generale, una massima

regolativa del suo essere-aperto nella relazione con il mondo e con

gli altri.

I temi del male e della libertà hanno in Kant una trattazione

che, nel suo nucleo, è così esposta: “l’uomo deve farsi o essere fatto

da sé stesso ciò che egli è o deve divenire ... buono ... o cattivo”. Quel

che egli è, in ogni sua situazione, morale o giuridica, “deve essere un

effetto del suo libero arbitrio, perché, altrimenti, essa [, la situazione,]

non potrebbe essergli imputata”26, così che la persona non potrebbe

essere qualificata e giudicata né buona o cattiva, né giusta o ingiusta,

né rispettosa o irrispettosa della legalità, etc.

La condizione prioritaria affinché si possa dare una

qualsiasi qualificazione -morale e/o giuridica- all’esistenza umana è

che si debba trattare di atti pensati e voluti dalla singola persona ed

in quanto tali imputabili all’esercizio della sua libertà. Non si è buoni

e giusti, cattivi ed ingiusti perché si esegue una inclinazione bio-

naturale, né perché ci si trova in una situazione che ambienta le

nostre scelte, ma si è qualificabili, nelle modalità appena nominate,

unicamente in quanto si è responsabili-imputabili, ovvero perché si

è scelta una motivazione e la si è assunta nella luce di una massima,

che viene fatta propria nella concretezza dei casi dell’esistere-

coesistere quotidiano.

Una massima è assunta come una regola generale, non è

esauribile in un singolo caso, ma è tale da poter essere riferita ad una

visione generale dell’essere-aperto dell’uomo nello scegliersi, nel

formarsi una sua identità esistenziale, nel medio dell’interagire

dialogico con gli altri, mantenendosi costantemente nella plurivocità

di un linguaggio simbolico-creativo e non spegnendosi nell’univocità

di un linguaggio segnico-esecutivo.

La persona permane sempre sospesa in una esistenza che

non può essere liberata dalla tendenza al male, costitutiva di un ‘male

radicale’, che è inestirpabile.

Se fosse possibile eliminare la dimensione del male,

dell’ingiusto e dell’illegale, ed esistere nella purezza del bene, del

giusto e del legale, dovrebbe venir meno la differenza tra la

26 Ivi, p. 106.

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generalità della massima, assunta per l’orientamento delle condotte

personali, e la particolarità del caso concreto, che ambienta la

specifica volontà umana. Nelle comunità delle persone dovrebbe

venir meno la differenza tra i due versanti della legge del testo -

strutturata come la massima- e del testo della legge -strutturato come

il caso particolare-, prima analizzati e discussi nel loro appartenere

esclusivamente agli autori di un linguaggio dialogico, illuminato

dalla plurivocità dei simboli, che, in ogni parola, presenta un

significato e simultaneamente apre una domanda di senso sul

significato presentato.

Possono essere ripresi due itinerari, esposti nello scritto

Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, prima analizzato e posto

in discussione.

In un primo itinerario, si sostiene che “per quanto in alto

possiamo porre i nostri concetti e per quanto, inoltre, possiamo

astrarre dalla sensibilità, tuttavia a essi continuano a rimanere

attaccate delle rappresentazioni figurate, la cui peculiare destinazione

è di rendere idonei all’uso empirico quegli stessi concetti”27.

In un secondo itinerario, si afferma che “la libertà di

pensare”, bene primo dell’esistenza umana, è mantenuta attiva

unicamente quando noi pensiamo “in comunità con gli altri, ai quali

noi partecipiamo i nostri pensieri ed essi a noi i loro”28.

Quanto al primo itinerario, i concetti del bene e del giusto,

del male e dell’ingiusto sono tali che, nella specificità della

condizione umana, permangono radicati in ‘rappresentazioni

figurate’ e così sono qualificati anche dalla non-purezza di tali

rappresentazioni, che sono ‘figurate’, ovvero sono calate nella

materialità dei casi particolari e quindi nel continuo attraversarsi di

contaminazioni tra le diverse, contingenti, mutevoli, modalità di

situazioni concrete. Si intende alludere ai casi reali, costitutivamente

distanti dalla purezza del concetto del bene e del giusto, perché

sempre esposti alla possibilità di cedere al male ed all’ingiusto, alla

possibilità di identificarsi in una singola figura particolare, di perdersi

nella sua ripetizione, nella chiusura in una singolarità confinata,

emendata da dubbi, interrogativi, analisi comparative, etc. Nelle

27 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, cit. p. 29. 28 Ivi, pp. 48-49.

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persone, qualsiasi concetto viene ambientato in rappresentazioni

particolari e quindi perde la purezza della generalità, propria della

massima assunta nel definire le condotte.

Quanto al secondo itinerario, parimenti la libertà di

pensare appartiene certo ad ogni singola infungibile persona, ma ha

la sua concretezza nel pensare con gli altri, nella comunità del

dialogare, che si dispiega nella plurivocità simbolica dell’interagire e

quindi viene ogni volta esposta alle molteplici possibilità

interpretative, che aprono sia al consentire, sia al dissentire e pertanto

al conflitto discorsivo, che si alimenta alla compresenza sia del bene

e del giusto, sia del male e dell’ingiusto, concreti nell’unità-

differenza del bene particolare e del bene universale.

L’eliminazione del male radicale e dell’ingiustizia

radicale comporterebbe un sapere totale di queste due dimensioni e

di quelle opposte del bene radicale e del giusto radicale. La

padronanza assoluta del sapere avrebbe però, come effetto

insuperabile, l’eliminazione stessa della condizione di libertà nella

sospensione tra le alternative. La persona si disimpegnerebbe dalla

riattivazione, mai ultima, pensata e voluta, della costruzione del bene

e del giusto, nella connessione ineliminabile del donare a se stesso

(egoismo-amore di sé) e del donare agli altri (altruismo-amore del

prossimo), in una comunità di autori del pensare=donare il senso,

secondo una reciprocità universale ed incondizionata.

L’amore di sé e l’amore del prossimo entrano in una

relazione che inevitabilmente si confronta con il possesso e con la

proprietà dei beni, con il mio e con il tuo, con la quantità dell’avere

di una persona che, quanto al medesimo bene, esclude l’avere di

un’altra persona e non può possedere un sapere compiuto degli effetti

negativi di un tale escludere, che residua come un male radicale,

paradossalmente connesso al bene radicale, costituente l’inizio di

ogni azione concepita da qualsiasi persona. Vogliamo il male perché,

nell’immediato, ci si presenta, pur senza una ragione sufficiente,

come il bene.

Chi sceglie consapevolmente il male, compie una tale

scelta perché gli si presenta essere, qui ed ora, il bene, nella

configurazione di quel che gli è utile nella situazione presente.

Tuttavia la priorità della dimensione del bene, come inizio motivante

l’agire umano, si concretizza in modalità che registrano la pluralità

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degli esseri umani, la loro differenza, la possibilità che il desiderio di

uno non si possa realizzare integralmente senza venire a limitare la

realizzazione del desiderio dell’altro, poiché alla comunità umana

appartiene la condizione insuperabile della scarsità dei beni, della

penuria.

Non vi è disponibilità illimitata di tutti i beni per i desideri

di tutte le singole persone, poiché la realizzazione di un mio desiderio

necessita della disponibilità di beni miei, sottratti alla disponibilità di

un’altra persona. Non vi è tutto per tutti e gli effetti delle limitazioni

del mio e del tuo incidono non solamente nella sfera esteriore

dell’avere, ma anche e profondamente nella sfera interiore del

sentire.

La sofferenza che si produce nell’altro, nel non poter

realizzare i desideri su beni suoi, non disponibili da altri, non è

oggettivabile e costituisce un aspetto del male radicale, insuperabile.

L’inizio dell’azione di chi sceglie il male si ha con il bene radicale,

genesi di qualsiasi atto umano. Nessuno vuole il male se non perché

impropriamente lo valuta, qui ed ora, come il bene.

***

I temi discussi da Kant nei due studi ricordati in queste

pagine sono riferibili unicamente alla persona umana, che si orienta

nel pensiero ed esiste nell’essere attraversata dalla dimensione del

male radicale, mai eliminabile.

In Kant, secondo l’interpretazione di Heidegger, le

questioni specifiche dell’essere umano sono da ricondurre alla libertà

intesa “come privilegio specifico dell’uomo in quanto entità

razionale”29, riconosciuto come persona, avendo presente che “la

personalità significa per Kant quel che costituisce l’essenza della

persona in quanto persona, l’esser persona”.

Heidegger si chiede “che cosa costituisce la personalità di

una persona?” Considera che la dimensione della personalità “fa

dell’uomo una entità razionale e nello stesso tempo capace di

imputazione ... L’essenza della persona, la personalità, consiste nella

29 M. Heidegger, Dell’essenza della libertà umana. Introduzione alla filosofia,

Milano, 2016, p. 541.

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responsabilità di sé” e costituisce l’uomo come il solo essere “capace

di imputazione”30 e pertanto l’unico ente che ha la sua esistenza anche

nell’intero svolgimento del fenomeno giuridico, avente il suo centro

proprio nella responsabilità-imputabilità, nucleo di ogni momento

della giuridicità.

Viene riaffermato che “la responsabilità di sé è allora il

modo fondamentale dell’essere che determina tutti gli atti e le

omissioni dell’uomo”31.

Interpretando Kant, Heidegger, ribadisce la differenza tra

l’umano ed il non-umano e sostiene che “il privilegio dell’uomo

risiede nella personalità, l’essenza di questa nella responsabilità di

sé”. La specificità della condizione umana viene colta nella

responsabilità-imputabilità degli atti posti in opera dalla singola

persona, nella formazione continua della sua originale personalità,

mai fungibile con quella di qualsiasi altro essere umano.

In modalità, sia pure metaforiche, Heidegger osserva che

“anche in una macchina è dato secondo Kant un agire, ma ciò che lì

determina il movimento di una parte non viene rappresentato da

questa parte determinata come il determinante”, così da doversi

sostenere che “la macchina e le singole parti non possono agire

volontariamente, [poiché] non c’è un effettuare secondo e mediante

concetti”32. Così viene sostenuto che la responsabilità-imputabilità,

anche nei suoi rilievi giuridici, è radicata unicamente nelle persone,

nel loro personale selezionare un orientamento, scelto e posto in

opera nel suo differenziarsi da altri orientamenti.

Il poter essere imputabile è il rispondere-di-a e si manifesta

nella “capacità di effettuare secondo la rappresentazione di qualcosa

in quanto principio”33. Questa tesi viene confermata nel sostenere che

“la volontà è la capacità di determinare la sua causalità, di

determinarsi nel suo essere causa”34, assumendo un orientamento

selezionato, scelto e voluto nel confronto con altri orientamenti

praticabili.

30 Ivi, p. 543. 31 Ivi, p. 545. 32 Ivi, p. 567. 33 Ivi, p. 569. 34 Ivi, p. 571.

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Quando “io voglio in maniera effettiva, cioè mi decido,

voglio nella risolutezza, ossia assumo su di me la responsabilità e in

questa assunzione divento esistente”35. Nell’assunzione di

responsabilità io formo, in modo mai ultimo, la mia personalità e

rispondo del mio divenire l’esistente che divengo.

La personalità costituisce il concretizzarsi effettivo della

persona, che pertanto non è un concetto vuoto, ma si viene mostrando

nel mondo condiviso con gli altri, così da presentare gli atti della

libertà, che appartengono ad un io che di essi risponde, non

unicamente alla sua chiusa individualità, ma all’interezza

dell’umanità.

“La libertà pratica in quanto autonomia è responsabilità di

sé, questa è l’essenza della personalità della persona umana, l’essenza

autentica, l’umanità dell’uomo”36.

Nell’agire di ogni persona, nei suoi atti, nelle sue condotte,

che si inscrivono nel mondo abitato anche da altre persone, lo scopo

legittimo perseguito è quello costituito dall’apertura relazionale,

rispettosa dell’umanità, e non dalla chiusura egoistica di un io nelle

diverse modalità di un narcisismo, che, nella coerenza del suo essere

tale, non si apre ad una formazione della personalità che riconosca il

differenziato formarsi delle altre personalità.

Argomentare che lo scopo dell’agire umano non è un io

chiuso nella sua sufficienza autoreferenziale, comporta il condividere

che l’agire della persona assuma dei limiti, costituiti prioritariamente

da quel limitare richiesto dal riconoscimento dei diritti, di tutte le

altre persone, alla formazione della loro personalità, pur sempre

secondo itinerari coesistenziali che si concretizzano non escludendo

alcuna persona dall’essere riconosciuta in quanto tale.

Scrive Lowen: “è soprattutto il rifiuto dei limiti sociali ... a

favorire lo sviluppo dell’atteggiamento narcisistico”37. I limiti

giuridico-sociali si presentano come principi e regole per l’esercizio

della libertà della singola persona, poiché senza l’assunzione di limiti

la libertà si sforma, si distrugge nell’informe, nell’omnieventualità

dove tutto può accadere. La persona e la sua essenza, ovvero la

35 Ivi, p. 579. 36 Ivi, p. 611. 37 A. Lowen, Il narcisismo, Milano, 2009, p. 178.

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personalità in continua formazione, necessitano dei confini che

conferiscono una forma, una definita identità esistenziale. In questa

direzione, Lowen scrive: “individualità e personalità dipendono dalla

presenza di confini e limiti riconosciuti e accettati”, così che “l’io non

venga sommerso, sopraffatto e perduto”38, in assenza di una garanzia

giuridica, custode della pretesa della persona alla libera formazione

della sua personalità nella reciprocità dell’interagire comunitario.

La persona, che cade in una condizione di narcisismo, si

trasforma in un passivo spettatore della sua immagine e così si chiude

all’alterità delle altre persone, alla ricerca di una nuova, creativa

ipotesi di senso da inscrivere nel mondo condiviso con gli altri.

“Avendo assunto l’atteggiamento passivo dello spettatore, è poi

difficile ritrovare le energie per riprendere la vita attiva”39, ovvero

per attivare anche l’apertura al rispetto giuridico delle differenziate

personalità delle altre persone.

Il narcisista non ha problemi di orientamento, non ha

interrogativi, dubbi, domande, né quanto all’‘orientarsi nel

pensiero’, né quanto all’‘orientarsi nelle norme’, poiché si trova a

vivere in un essere sempre già-orientato secondo la coincidenza con

una sua immagine, con la chiusura autoreferenziale in essa.

Il permanere in una situazione di narcisismo esige lo

spegnimento della meraviglia, dello stupore, che si destano

prioritariamente nell’accogliere l’alterità, l’altro nella sua non

prevedibilità, nella capacità di sorprendere, che riattiva la volontà di

una formazione di senso nell’interagire dialogico.

Dialogo e narcisismo si oppongono in modo radicale,

poiché il narcisista si chiude nel suo monologo, rifiuta l’ascolto e

l’accoglienza dell’altro, rispettato nell’interagire discorsivo.

L’immagine, che esaurisce l’individuo narcisista nella

coincidenza con uno stato del suo io, rende negativamente

indifferente la presenza degli altri ed il comprendere le relazioni

interpersonali nel consenso e nel dissenso. Queste due dimensioni

perdono il loro significato una volta che ci si è chiusi in un immagine

definita, estranea sia al consentire sia al dissentire, essendo una

immagine narcisistica, autosufficiente, monologica, e pertanto priva

38 Ivi, p. 179. 39 Ivi, p. 190.

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delle questioni aperte con le domande inizianti il dialogare sul

consenso e sul dissenso, genesi delle controversie giuridiche e delle

soluzioni concepite nelle attività legislative e giurisdizionali.

Scrive Lowen: “i narcisisti non sono né liberi da

preoccupazioni, né innocenti. Hanno imparato a giocare il gioco del

potere, a sedurre e manipolare. Si preoccupano sempre di come li

vedono gli altri, delle reazioni che sapranno suscitare. E devono

mantenere il controllo”40.

La figura di chi persegue la condizione di narcisismo

coincide con quella di chi ricerca un potere senza limiti, senza

confronto con gli altri e pertanto anche senza controversie, dove ogni

persona, accogliendo la personalità degli altri, accoglie la loro

differenza, capace di aprire situazioni conflittuali che esigono una

regola, un limite, una disciplina giuridica che sia ‘terza’, ‘sovra le

parti’.

Il narcisista è una ‘parte’ che si esaurisce nella sua

immagine e disconosce le altre parti, così da chiudersi alla

dimensione della terzietà, che è sovra le parti, poiché costituisce una

regola che non è imposta da una parte ad un’altra parte, ma è una

regola imparziale, strutturata in modo da custodire la differenza di

senso, che forma le distinte personalità, conferisce luminosità, pur

accogliendo il limite che sanziona l’esclusione di un singolo essere

umano.

40 Ivi, p. 194.

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INTRODUZIONE

CAPACITÀ SIMBOLICA

INTERAGIRE ED ORIENTARSI NELLE ISTITUZIONI

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Kant coglie la peculiarità della conoscenza fisiologica,

distinta dalla conoscenza pragmatica, che “mira a indagare ciò che

egli [l’uomo], in quanto essere che agisce liberamente, fa ovvero può

fare di se stesso”. Si presentano due itinerari distinti, che Kant così

descrive: uno concerne il ‘conoscere il mondo’ e l’altro l’‘aver

pratica del mondo’; “nel primo caso ci si limita a comprendere il

gioco cui si è assistito, mentre nell’altro vi si è preso parte”41.

Nel ‘prendere parte al gioco’, ogni singolo essere umano è

se stesso e lo è nel differenziarsi dall’altro. In questo differenziarsi

interpersonale, la persona avverte che formula un suo giudizio e che,

nel formularlo, mette “alla prova la correttezza del … giudizio”,

interagendo e confrontandosi con i giudizi delle altre persone.

La condizione umana mostra il desiderio del confronto

dialogico nell’interagire. Kant osserva: “non si dica, peraltro, che

almeno la matematica ha il privilegio di parlare in base alla propria

sovranità: infatti, se prima non si fosse percepita la costante

coincidenza tra il giudizio dell’agrimensore e il giudizio di tutti

quegli altri che si dedicavano con talento e diligenza a questa

disciplina, la stessa matematica non si sarebbe sottratta alla

preoccupazione di cadere per qualche aspetto in errore”42.

Questa tesi di Kant invita a pensare che anche la

numerazione, nelle sue diverse tipologie, entra nell’orizzonte delle

questioni sulla verità unicamente quando diviene oggetto del dialogo,

del confronto tra il dire dell’io e del tu, del noi e del voi.

Sia nell’orientarsi nel pensiero, sia nell’orientarsi nelle

norme, l’essere umano vi è presente nella sua interezza, come una

entità vivente, definita dalla sua specificità biologica, e come l’unica

entità che esercita un pensiero ed una volontà capaci di trasformare

il mondo secondo una personale ipotesi creativa di una forma nuova,

concepita e decisa nell’interagire dialogico tra i soggetti parlanti.

Scrive Plessner: “l’uomo costituisce certo la sua categoria

di riferimento, ma non allo scopo di una pura classificazione, bensì

41 I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatica, Torino, 2010, p. 100. 42 Ivi, p. 111.

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per assicurare un’insondabilità che sancisca la serietà della

responsabilità, dinanzi a tutte le possibilità nelle quali egli può

comprendersi e dunque essere”43. L’insondabilità costituisce il luogo

della responsabilità, che non ha una spiegazione scientifica, ma è

l’atto personale del prendere e rischiare una libera decisione, che è

scelta dal pensiero e dalla volontà della singola persona e che

costituisce il nucleo di tutti gli elementi riferibili al poter essere

dell’io responsabile-imputabile, nucleo della giuridicità.

La decisione è un atto personale che si manifesta come un

fenomeno sociale per il suo incidere sulla qualità delle relazioni

umane; in questa sua seconda qualificazione mostra che ogni

decidere umano ripropone gli elementi propri dell’istituire nei distinti

sistemi sociali.

L’opera dell’istituire entra nel mondo conferendo stabilità

e durata ad una decisione che si forma nel dialogo tra le persone di

una comunità. Già lo svolgimento stesso del dialogo esige che il suo

darsi si compia in una lingua istituita, che ha acquisito una durata,

così da poter consentire ai dialoganti lo scambio durevole delle loro

ipotesi, secondo una definita lingua e non secondo un linguaggio

indefinito, che renderebbe precaria la possibilità di scambiare le

riflessioni sulle ipotesi formative della relazionalità umana.

Una istituzione sorge con un atto singolo-plurale, che si

inscrive nella storia del mondo, perché dura e non si dissolve nel

momento stesso del suo presentarsi. In una istituzione, gli atti delle

singole persone si intersecano gli uni con gli altri nella formazione

del mondo, che costituisce il risultato del lavoro umano ed in questo

si distingue dall’ambiente naturalistico, proprio delle cose, degli

animali e delle macchine, privi della capacità di istituire un mondo.

Le persone esistono nei due versanti del mondo condiviso: a)quello

del continuare una forma di vita mediante il soddisfacimento di

bisogni vitali e b)quello dell’iniziare una esistenza-coesistenza non

già inscritta in un semplice svolgimento esecutivo dei meccanismi

naturalistici, ma avviata anzi a formare una storia, al di là del

semplice mutamento di accadimenti impersonali.

Con l’opera dell’istituire, le persone si distaccano dai

meccanismi degli accadimenti naturalistici, fisico-biologici, e creano

43 H. Plessner, Antropologia filosofica, Brescia, 2010, p. 54.

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un tessuto di atti sociali destinati, per la struttura del loro interagire,

ad una nuova formazione delle relazioni.

Il sorgere delle istituzioni segna quella condizione che

vede l’umanità consegnata ai suoi atti e non solamente consumata

nell’esecuzione fattuale delle leggi dell’ambiente naturalistico. Si

presenta qui una questione centrale, quella del come conciliare una

condizione di stabilità trovata nelle leggi naturali con una condizione

creata dalle istituzioni, che consistono in una stabilità istituita con un

sistema normativo, nascente dal pensiero e dalla volontà delle

persone e non semplicemente dall’ambiente naturalistico delle cose,

di tutti gli esseri non-umani.

L’istituzione libera dal cominciare ogni atto sociale da un

inizio nuovo, perché l’istituzione consiste nella ripetizione di un

cominciamento già compiuto e consolidato nella durata. Tuttavia

questa liberazione offre, anche e simultaneamente, l’apertura di uno

sguardo critico su ciò che è stato già istituito, ovvero sollecita ad un

nuovo, originale ‘istituire altrimenti’, secondo un movimento storico

che non ha una fissità omogenea alle leggi fisiche, biologiche,

meccaniche, etc.

Nella formazione delle istituzioni, si presenta principale la

dimensione della reciprocità, poiché la struttura plurale di ogni

istituzione mostra che in questa pluralità vi è l’incidere della

comunicazione creativa interpersonale, non riducibile alle

informazioni vitali a-personali, esemplificabili nelle operazioni in

svolgimento negli elementi biologici dei sistemi immunitari. Nel

comunicare ne va di un senso originale, di una creazione, sentita

come tale in quanto un io accoglie un tu, che, nel riceverla, la ratifica

e la interpreta. Significativamente si legge in Gehlen che “la

reciprocità è una categoria fondamentale, riguarda un tratto

essenziale dell’essere umano … Una parola è dotata di significato se

si presuppone che possa essere una parola altrui e viene pronunciata

mirando intenzionalmente a una risposta”44, concepita mediante la

creatività del comprendere e dell’interpretare.

Qui si sostiene che la parola viene pensata e pronunciata

nel suo essere destinata agli altri, muovendo dal presupposto che chi

la enuncia e chi la riceve sono accomunati dall’esistere in una

44 A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, Milano, 2016, p. 63.

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istituzione, quella di una lingua che dura in una epoca. La durata di

una lingua è custodita dalle regole che la disciplinano e che

garantiscono, per un tempo, la permanenza dei significati delle

parole, sia nel loro essere destinati, sia nel loro essere ricevuti ed

interpretati.

L’orientarsi in una istituzione è omogeneo all’orientarsi in

una lingua. L’un versante presuppone l’altro ed entrambi

presuppongono l’interagire dialogico delle persone, capaci di

esercitare un’attività che, simultaneamente, è di ripetizione e di

creazione.

Si legge in Gehlen: “l’uomo moderno vive nel punto di

intersezione di molte istituzioni che nei confronti del singolo fanno

valere … l’autorità di ciò che è fine a se stesso e pongono in relazione

i singoli indipendentemente dalle situazioni oggettive”. Che le

diverse istituzioni -quelle delle professioni, delle differenziate

comunità di lavoro, dei raggruppamenti familiari, etc.- possano

operare secondo il modello dell’essere-fini-a-se-stessi comporta che

si debba “sospendere la questione del senso”, poiché chi si pone

interrogativi sul senso alimenta l’apertura verso la ricerca di

“istituzioni diverse da quelle presenti”45, che pertanto non

troverebbero una loro fissata concretizzazione-esecuzione.

Si apre qui l’insieme delle questioni che, anche

nell’orientarsi nelle istituzioni, presentano il darsi di una molteplicità

di fini, ognuno dei quali è perseguito per se stesso, per la sua

concreta, funzionale realizzazione, non considerando che i conflitti

tra i fini delle molteplici istituzioni non possono essere risolti che dal

riferimento regolativo all’unità esistenziale dell’essere umano, mai

smembrabile in una molteplicità di settori. L’unità e l’indivisibilità

dell’io esigono che i conflitti tra le istituzioni siano superati

dall’assumere come regola la reciprocità-uguaglianza tra le persone,

non assoggettabili ad una determinata istituzione che, operando come

totale-assoluta, prevalga sulle altre.

Si offre all’analisi il cammino umano dell’orientarsi nelle

istituzioni, del disciplinare, anche giuridicamente, i conflitti tra una

istituzione e le altre. La posizione dell’uomo nel mondo, costituito da

una pluralità di istituzioni, comporta che si prenda atto del formarsi

45 Ivi, p. 79.

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di ogni istituzione nel suo differenziarsi dalle altre. Qualsiasi forma

dell’interagire umano si costituisce per differenza da altre forme, ma

questo costituirsi rinvia all’esercizio della libertà creativa di ogni

singola persona in dialogo con la creatività delle altre persone. Si

tratta di differenze non riconducibili alla commistione a-personale di

accadimenti biologici, fisici, chimici, ma di differenze tali da essere

riferite ad una relazione discorsiva, dove i dialoganti rispondono per

le loro ipotesi di un concreto differenziarsi, che hanno una

valutazione giuridicamente positiva se generano rispetto verso tutti

ed una valutazione negativa se impongono a qualcuno una

condizione di esclusione-assoggettamento.

Ogni esercizio dell’interagire umano tende ad acquisire

una durata acquistando la condizione propria di ciò che si costituisce

assumendo la struttura di una istituzione, ovvero contrastando la

mutevolezza del divenire, che non consente alcuna modalità del

progettare per un tempo, né ad un singolo, né ad una comunità.

La tendenza al durare appartiene primieramente alla

struttura della parola che permane, come istituzione linguistica, se

custodisce il suo significato, poiché una continua mutevolezza del

significato delle parole segnerebbe la distruzione del linguaggio

stesso, della sua radice più iniziale, consistente nel rendere possibile

la stabilità di una comunicazione discorsiva tra i parlanti.

Scrive Gehlen: “ciascuno converrà … che un’intenzione

mentale si fissa e acquista durata solo attraverso il suono linguistico,

mentre prima è solo il lampo di un significato che svanisce … In

quanto suono linguistico, però, l’intenzione si sposta

immediatamente nel campo dei contatti sodali, assume un contenuto

obbligante in quanto parola circolante, condivisa da tutti”46.

Il ‘contenuto obbligante’ della parola manifesta che il

linguaggio è ‘terzo’, ‘sovra le parti’, è costituito da norme che

regolano la comunicazione, la rendono possibile perché una

determinata lingua è una istituzione che dura nel tempo e si distingue

da un’altra lingua.

Nel rapporto dell’io con una singola parola e con l’insieme

di una lingua, l’inizio è costituito da una differenza che separa un

significato da un altro significato e però non si ferma in questa

46 Ivi, p. 112.

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separazione, ma da qui si muove per illuminare la relazione

comunicativa -io/tu-, non limitabile nella stasi di quel che ha distinto

i significati, essendo orientata invece al lavoro di continua

trasformazione del mondo condiviso dai parlanti, autori originali del

pensiero, della volontà, del dono del senso nella gratuità empatico-

affettiva.

Anche le istituzioni “dell’economia, del diritto, dell’arte …

hanno la caratteristica … di trasformarsi in valori autonomi”47. Così

si può oscurare, sino a disperdersi, l’istituzione del diritto, che non è

autoreferenzialmente destinata al diritto, non nasce per e non si

rivolge al sistema giuridico, ma ha la sua genesi ed il suo

concretizzarsi nel rispetto della relazione umana, in quanto relazione

di uguaglianza tra i soggetti del dialogo, uguali perché tutti

interagiscono nell’essere contemporaneamente debitori e creditori di

senso, secondo i simboli che eccedono i confini dei segni e

sollecitano la formazione di un ‘altrimenti’, creativo.

I simboli formano il senso, oltrepassando i significati, nella

loro chiusa datità. Esemplarmente, la toga non è un capo di

abbigliamento, ma esterna il senso di una figura delle istituzioni

giuridiche.

Se l’istituzione giuridica acquista una sua chiusa

autonomia, che concerne il ciclo delle operazioni sistemico-

funzionali dell’attività legislativo-giurisdizionale, allora i contenuti

di una tale istituzione possono essere anche contro-umani, ovvero

possono rivestire di legalità l’esercizio della violenza di qualcuno che

si impone a qualcun altro, negando la dimensione universale dei

‘diritti di libertà’, prima ricordati con Calamandrei.

Si pongono le questioni nascenti dal conflitto tra la

struttura della condizione umana e la struttura delle istituzioni, perché

“la despecializzazione del comportamento è un tratto caratteristico

dell’uomo (in generale), e, d’altra parte, proprio in questo consistono

i rischi del suo non essere stabilizzato”48, ovvero non situato

integralmente nella fissità e nella durata di una istituzione.

Da queste considerazioni segue che tutte le istituzioni si

costruiscono intorno ad una fissità, che però non può servire

47 Ivi, p. 81. 48 Ivi, p. 116.

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unicamente al suo stesso funzionamento, ma custodisce la

‘despecializzazione del comportamento umano’, che in Aristotele

viene affermata con il sostenere che ‘l’anima umana è in un certo

qual modo tutte le cose’, ha una plasticità che è propria della

conoscenza-coscienza creativa degli esseri umani, espressa nella

formazione dei simboli, che incidono nell’interagire, mai asservibile

alla nuda correttezza dei segni, formativi delle parole segnico-

numeriche della tecnica, tendenti a sostituirsi alle parole simbolico-

evocanti dell’arte.

Le istituzione di una società impostano “sulla durata l’agire

rivolto all’esterno e il comportamento reciproco. Anche le più alte

sintesi spirituali … vivono solo fintanto che durano le istituzione al

cui interno esse vengono vissute”49.

Si è così portati a sostenere che la plasticità della struttura

umana, il suo non essere determinata né da certezze a-personali,

fisico-biologiche, né da meccanismi neurologici, esige tuttavia la

durata di una fissità, che, a sua volta, si presenta subito in un rapporto

di conflitto con la costante despecializzazione degli atti umani.

Nell’attività istituente, la plasticità della persona si

differenzia da tutto il resto del non-umano: “l’uomo non può …

affermare nulla di sé in modo diretto, ma si concepisce solo a partire

dal non-umano, nel confronto e nella contemporanea distinzione di

sé da quello”50.

Nel nostro presente storico, la differenziazione tra l’umano

ed il non-umano diviene sempre più flebile, viene oscurata, lasciando

formarsi una cultura centrata sulla figura di un ‘nuovo uomo

naturale’. Questa figura “si sviluppa nel suo ambiente in modo

prevedibile, senza reali lotte interiori, senza riferirsi costantemente

alla rappresentazione di una nuova vita cui aspirare, senza sforzi

personali per realizzarla. … il nuovo uomo naturale cambia con le

circostanze, lo si controlla controllando le circostanze”51, manca

della plurivocità incontrollabile dei simboli del linguaggio dialogico.

Nel modello del ‘nuovo uomo naturale’, non residua

alcunché delle lotte interiori; viene meno la stessa vita dell’interiorità

49 Ivi, p. 109. 50 Ivi, p. 126. 51 Ivi, pp. 129-130.

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e le istituzioni si limitano ad essere quella fissità-durata che è utile

all’affermarsi delle ‘circostanze’, ovvero degli elementi che

compongono funzionalmente un ambiente cosale, non più distinto

dal mondo umano. Viene rimosso quel che è proprio dell’opera

umana: la formazione pensata e voluta di un mondo storico, distinto

dall’ambiente a-storico, costituito da un insieme di elementi che

accadono senza alcun riferimento alla peculiarità della vita interiore

della persona e dei simboli che la illuminano nel pensiero, nella

volontà e nel pathos, condivisi con le altre persone.

Appartiene alla specificità del ‘nuovo uomo naturale’

l’oscuramento della distinzione tra la vita interiore e la vita

esteriore, ovvero di quella distinzione che è qualificativa della

condizione umana ed è assente in tutto l’insieme del non-umano. La

caduta di questa differenza comporta il venir meno anche delle

questioni, esclusivamente umane, dell’orientarsi, pensato e voluto,

sia tra i molteplici elementi del pensiero (logos), sia tra i molteplici

elementi di un sistema normativo (nomos).

Caduta la differenza tra la vita interiore e la vita esteriore,

tutto diviene il risultato dell’insieme delle operazioni ambientali dove

vive l’essere umano, tutto acquista i tratti propri di una meccanicità

fisico-biologica. L’entusiasmo e la malinconia, l’amore e l’odio,

l’accoglienza e l’esclusione finiscono per essere ritenute delle

secrezioni di organi della corporeità, determinate dalle situazioni

ambientali, secondo un darwinismo scolastico, acritico.

L’orientarsi ha una qualificazione attiva, non consiste nella

passività dell’essere orientato; è un atto, non un fatto. L’orientarsi è

esclusivamente umano, l’essere-orientato qualifica tutto il non-

umano.

L’attività della persona è centrata sull’io, sulla sua

interiorità, che è tale perché è sospesa negli atti dello scegliere tra il

bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra il bello ed il brutto, tra

l’armonico ed il disarmonico, etc. Di queste alternative, l’io ne ha una

esperienza diretta, di prima mano, ne è imputabile quanto alla

risposta, mentre gli esseri del non-umano non ne hanno alcuna

esperienza personale, essendo strutturalmente mancanti di quel che è

proprio della persona, della sua dignità consistente nel compiere atti,

concepiti e scelti, e non semplicemente nell’eseguire fatti non

imputabili, innocenti.

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Oggi si può affermare l’inclinazione ad ambientare

l’esistenza delle persone in una condizione sociale che lascia

residuare solamente esperienze di seconda mano, qualificate tali

perché non ambientate nella vita interiore, ma risultanti dal flusso di

una quantità di dati soverchianti la capacità di elaborazione delle

donne e degli uomini e destinati alle persone “sotto forma di

informazione meccanizzata”, fatta circolare nelle reti dagli strumenti

informazionali. Segue che ogni singolo essere umano si avverte come

una “esperienza di seconda mano”, non sentita nelle alternative della

propria interiorità, ma proveniente ed imposta dalle circostanze dei

fatti ambientali, che privano la persona dell’originalità del suo

orientarsi, riducendola ad un ente già orientato.

Il divario tra l’orientarsi ed il trovarsi già orientati consiste

nell’avere e nell’esercitare la capacità simbolica oppure

nell’esaurirsi nell’esecuzione dei segni.

I simboli si presentano nella condizione dell’essere-aperti,

dell’esistere sospesi davanti a delle alternative, che attendono una

scelta, pensata, voluta e decisa con consapevole imputabilità. I segni

fluiscono impersonalmente, connettono un’operazione ad un’altra

operazione, senza mai esigere un interagire qualificato dall’incidenza

della capacità simbolica, che illumina la libertà nel suo essere

sospesa davanti alle alternative che esigono una scelta responsabile-

imputabile, giuridicamente rilevante.

Nell’opera formativa delle istituzioni, le persone si

orientano confrontando discorsivamente le diverse ipotesi

dell’istituire ed in questo confronto è inevitabile che facciano

circolare, nei loro dialoghi, domande e risposte su ciò che è vero, su

ciò che è giusto, etc., sui concetti della verità, della giustizia, etc. ,

comunicati anche mediante simboli, che schiudono alternative

ermeneutiche, al di là della esecutività dei segni, certi ma privi di

domande e risposte davanti all’ ‘aut aut’ discusso da Kierkegaard.

All’esterno dell’interagire e della sua qualificazione,

sorgente dall’incidenza dei simboli, si ha che “la determinazione

corrente della verità suona: la verità è la correttezza della

rappresentazione, è l’accordo dell’enunciazione (della proposizione)

con la cosa”. Da questo segue, per Heidegger, che qui “si nasconde

qualcosa che ha la dignità di una domanda: quel quadruplice unitario

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essere-aperto della cosa, dell’ambito posto tra la cosa e l’uomo,

dell’uomo stesso e dell’uomo nei confronti dell’altro uomo”52.

Anche la stessa modalità abituale di intendere la verità

come correttezza, come corrispondenza tra l’enunciazione e ciò che

viene enunciato, ha il suo luogo in questa quadruplice apertura,

concerne 1)sia il tema posto in discussione, 2)sia il suo rapporto con

l’uomo, 3)sia la condizione umana, 4)sia la relazione dialogica tra gli

esseri umani. Se quel che costituisce il tema della ricerca della verità,

nel tenersi aperti degli esseri umani nella relazione che li impegna

nell’interrogarsi sulla verità, se tutto l’insieme di queste dimensioni

non si mantenesse nell’essere-aperto non si avrebbe neppure lo

stesso questionare sulla correttezza o non correttezza di quel che

viene enunciato, né si avrebbero i due versanti dei simboli del

linguaggio comunicativo-creativo e dei segni del linguaggio

informativo-esecutivo.

Heidegger si sofferma sulla differenza tra il vero e la verità:

‘filosofando, meditiamo sull’essenza del vero’. “Con la parola

essenza si intende quel che rende vero ciò che di volta in volta è vero”

ed Heidegger considera che “la domanda su ciò che sia l’essenza

stessa di qualcosa” porta a “mettere in rilievo che l’essenza di

qualcosa non è l’universalmente valido, ma la cosa più essenziale”53,

che, anche oltre la lettera delle pagine di Heidegger, invita a cogliere

quel che si schiude nella quadruplice condizione umana dell’essere-

aperto.

Si riprende a considerare una tale quadruplicità, costituita

dall’apertura: a)di quel che viene ricercato, b)della condizione umana

verso il tema della ricerca, c)dell’uomo in quanto unico essere che è

in cammino nel destinare il domandare e nel ricevere il rispondere,

d)del sorgere e del permanere disposti -gli umani- nella relazione

dialogica. In quest’ultima situazione, l’apertura comporta degli

interrogativi e delle chiarificazioni sulle qualità del relazionarsi delle

singole persone.

Nelle relazioni umane, la rimozione dell’‘apertura’ si

concretizza primieramente con il non accogliere la parola dell’altro,

negando la condizione di reciprocità discorsiva, formativa dei due

52 M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, Milano, 1988, p. 24. 53 Ivi, p. 35.

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versanti del domandare e del rispondere, che costituiscono la parola

come luogo dell’essere aperti dei dialoganti nel loro comunicare

nella plurivocità dei simboli, al di là dell’informare nell’univocità dei

segni.

Nella reciprocità interpersonale dell’essere-aperti, sono

radicate le possibilità del consentire e del dissentire, ovvero del

diritto a prendere la parola, in quanto insostituibile parola di un io,

che non può essere fungibile con la parola di un tu. La negazione del

diritto ad esercitare la parola originale dell’io e del tu, mai

permutabili l’uno con l’altro, comporta la rimozione stessa del diritto,

garanzia del rispettare la formazione originale dell’identità

esistenziale dei singoli nel dialogo.

All’essere-aperti delle persone appartiene il compiere un

inizio, l’avviare un itinerario esistenziale, schiuso dalla plurivocità

dei simboli, che incide sui singoli autori delle relazioni interpersonali,

sulle modalità del loro avvertirsi impegnati nello scegliere e nel

formare un mondo, quello dove coesistono nelle istituzione di una

comunità, dialogano, ma permangono l’uno differenziato dall’altro.

La mia vita interiore non è né la tua, né la sua.

L’essere-aperti non è una condizione descrivibile come

trovarsi in uno stare a vedere quel che costituisce un tema del

pensiero e della volontà. È una condizione lontana dall’innocenza

naturalistica del trovarsi delle cose tra altre cose, poiché è anzi una

condizione che presenta ogni singolo essere umano nella sua

responsabilità-imputabilità.

Alla libertà appartiene che la condizione di apertura

potrebbe essere sostituita con la chiusura verso quel che interpella la

volontà ed il pensiero nella formazione della scelta del singolo.

L’apertura concerne l’essere umano nella sua interezza,

ovvero considerato non solamente come l’io del pensiero e della

volontà, ma anche come l’io di una corporeità, che è portatrice di

aspettative centrate sulla continuazione della vita, sulla

consapevolezza certo di essere mortale ma contemporaneamente

sulle attività intraprese per non morire ora.

L’apertura esige un orientarsi verso un itinerario oppure

verso un altro, rispettando la dignità umana, che non ha soltanto una

sua dimensione interiore, ma è costituita pure dall’esteriorità del

corpo, che pretende rispetto, già nel non poter essere trattato come un

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semplice luogo che eroga energie lavorative destinate

all’accrescimento del potere=avere di qualcuno che si impone su

qualcun altro, accrescendo il suo profitto, venerato dalla misura unica

del danaro.

L’essere-aperto viene esistito dalle persone come il

trovarsi nel luogo da dove avviare un orientamento; all’opposto vi è

la condizione di tutti gli enti privi della struttura della persona e

pertanto configurati come già orientati, esecutori di itinerari pre-

definiti dalle leggi della fisica, della chimica, della biologia, della

neuroscienza, della meccanica, etc.

Il diritto si presenta lì dove vi è l’essere-aperti per una

differenziata molteplicità di orientamenti, ovvero dove compare ed

incide la dimensione della possibilità esercitata-rischiata, che

impegna la scelta e la decisione di una persona, nel suo differenziarsi,

anche opponendosi, dalle scelte e dalle decisioni di altre persone. Qui

emergono dei conflitti di ipotesi nell’orientarsi e questi conflitti non

hanno una soluzione già data nella conoscenza delle leggi ‘spiegate’

dalle scienze, ma esigono l’istituzione di soluzioni contenute nelle

leggi giuridiche, nascenti dall’attività istituente dei legislatori.

Anche sull’istituzione delle leggi si pongono le domande:

che cos’è un tale istituire, quale è la sua essenza? Tutte le domande

sull’essenza di un singolo fenomeno, quindi le domande: Che cos’è

il diritto? Che cos’è l’arte? Che cos’è l’economia?, etc., sono sempre

domande che consentono all’interrogante di uscire dall’informe,

dall’indefinito, ovvero consentono di parlare in modo appropriato.

Nessuno, quando parla, -se parla sensatamente, per poter essere

ascoltato e compreso dagli altri- può parlare indistintamente di tutto.

Gli esseri umani dialogano su qualcosa, su un ambito definito; si può

dire sull’essenza di un qualcosa, che è distinta dall’essenza di un

qualcos’altro e che non è l’informe, non è senza una essenza.

Se il dialogo verte sull’istituzione delle leggi giuridiche, i

dialoganti non parlano certo delle leggi della fisica, della botanica,

della chimica, etc. Confinano nell’essenza di un tema il loro

comunicare, che però non si riduce mai ad un informare. Nella

definizione del tema del dialogo si confina l’essenza di quel che

impegna i parlanti e simultaneamente, se si vuole mantenere viva la

discussione, si rimane nella condizione di apertura, di ricerca di un

orientamento, che non è già dato, ma viene rischiato nella

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relazionalità interpersonale, nell’interagire dialogico qualificato

dall’incidenza del linguaggio plurivoco dei simboli.

Su un qualsiasi tema, la discussione si svolge come un

dialogo su quel che è proprio di quel tema, sull’essenza che lo

distingue da un altro tema. Nel mettere in questione un tema, una

qualsiasi dimensione-entità della vita individuale e sociale, ci si

rivolge non ad una quantità di elementi, che, sommati, costituiscono

quella certa entità, ma ci si orienta verso l’insieme unitario che è il

senso e l’essenza di una tale entità.

Heidegger insiste nel segnalare che “la domanda

sull’essenza della verità è al tempo stesso e in se stessa domanda sulla

verità dell’essenza”54.

Quando ci si interroga sull’essenza della verità è

inevitabile interrogarsi sulla verità dell’essenza. Si esiste così in un

pensiero di stampo circolare. “Si parla dell’essenza dello stato,

dell’essenza della vita, dell’essenza della tecnica ammettendo forse

di non conoscere ancora l’essenza dello stato, della vita, della tecnica;

tacitamente, però, si ha la pretesa di sapere un’altra cosa, di sapere

cioè cosa sia l’essenza in generale, tanto dello stato, della vita, della

tecnica, quanto di qualunque altra cosa”55. Analogamente, ogni qual

volta si pone la domanda ‘che cos’è il diritto?, si cerca l’essenza del

diritto pur senza fermarsi preliminarmente sull’interrogativo: che

cos’è l’essenza?

Nell’abitualità del dire-discutere, non è posto in questione

l’interrogativo: “che cos’è in verità esso stesso quel che noi

intendiamo con la parola essenza? In breve: in che cosa consiste la

verità dell’essenza”56?

Con riferimento al diritto, qualsiasi domanda su questo

fenomeno è una domanda sull’essenza del diritto e comporta un

questionare sulla verità dell’essenza, in un procedere che

circolarmente esige di far luce sull’essenza della verità.

Con riferimento al tema dell’essenza, per Heidegger “la

determinazione essenziale del vero come correttezza

dell’enunciazione non è fondata ma solo proclamata. … Nella

54 Ivi, p. 41. 55 Ivi, p. 42. 56 Ivi, p. 47.

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filosofia di Platone e in quella di Aristotele … vengono determinati

nella loro essenza, tra le altre cose, anche l’anima, il movimento, il

luogo, il tempo, l’amicizia, la giustizia, lo stato e l’uomo”57.

Viene ripresa la considerazione che “la conoscenza

dell’essenza precede in qualche maniera ogni altro conoscere,

riconoscere, stabilire e fondare. I movimenti all’interno di una casa

… i singoli comportamenti della vita in una casa non sarebbero

affatto possibili se non fossimo guidati in essi dalla conoscenza

dell’elemento casalingo, di quel che la casa è58”, della sua essenza,

che, a sua volta, si chiarisce interrogandosi sulla verità dell’essenza.

La verità viene intesa da Heidegger come non-

nascondimento, disvelamento, secondo la sua lettura del pensiero

greco, che cadrebbe in oblio nel passaggio, prima, al pensiero romano

e, poi, al conoscere-sapere moderno. La verità non sarebbe più intesa

come disvelare, ma come “correttezza dell’enunciazione e della

rappresentazione”59, tralasciando così la modalità più originaria di

intendere la verità, che si ha nell’illuminare l’attenzione verso “quel

quadruplice unitario essere-aperto della cosa, dell’ambito posto tra la

cosa e l’uomo, dell’uomo stesso e dell’uomo nei confronti dell’altro

uomo”60.

La condizione di quadruplice apertura costituisce la

peculiarità dell’essere umano e si manifesta nel linguaggio, che

implica i due versanti del domandare e del rispondere, ascrivibili alla

relazione comunicativa, che separa ed unisce l’io, il tu, anche nel loro

orientarsi nelle istituzioni.

Esistendo nell’apertura, l’io e il tu interagiscono ponendosi

la questione dell’orientarsi, che ha un ‘da dove’ ed un ‘verso dove’.

Questi due luoghi, qualificativi della ricerca-orientamento,

sono tali che il ‘da dove’ si chiarisce come il trovarsi già in una

condizione che è quella umana e non è ogni altra condizione,

vegetale, animale, macchinica, etc. Il ‘verso dove’ è qualificato dalle

possibilità a)di perfezionare l’esistenza personale nella luminosità

del senso oppure b)di scivolare verso la buia negazione del

questionare sul senso.

57 Ivi, p. 57. 58 Ivi, p. 58. 59 Ivi, p. 78. 60 Ivi, p. 24.

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Il ‘da dove’, l’esistere in una situazione ricevuta e non scelta,

non è disponibile dalle persone, né in quanto individui, né in quanto

entità collettive. Nessun singolo e nessun gruppo e neppure l’intera

umanità può disporre del trovarsi a venire alla vita in quanto essere

umano, non ha nelle sue mani la possibilità di essere un vegetale, un

robot, una macchina funzionante con una cosiddetta intelligenza

artificiale.

Il ‘verso dove’ impegna gli atti umani nella ricerca di un

orientamento e della sua concretizzazione nelle istituzioni del mondo

condiviso dall’io e dal tu, dal noi e dal voi, dall’interezza

dell’umanità. L’orientamento è sospeso davanti alle possibilità

estreme del perfezionamento della condizione umana oppure della

sua distruzione, avviata con la rinuncia agli interrogativi sul senso,

sino a scivolare nel pre/post-umano, che è anche il pre/post-

istituzionale.

Tra il ‘da dove’ ed il ‘verso dove’, gli esseri umani sono

impegnati nel rischiare una direzione, che concerne l’orientarsi nel

pensiero, nelle norme, nelle istituzioni, poiché la quadruplice

condizione di apertura, prima ricordata con Heidegger, pone la libertà

davanti a delle alternative, non superabili con una verità che possa

essere individuata nella correttezza dell’enunciazione, estranea alla

plurivocità dei simboli, capaci di aprire itinerari esistenziali ed

estranei ad una correttezza laboratoriale dei percorsi fisico-biologici,

macchinali.

Gli itinerari esistenziali si dispiegano nell’interagire delle

persone in un relazionarsi qualificato dall’incidenza della plurivocità

dei simboli.

Le operazioni bio-macchinali eseguono degli schemi che

non concernono il pensiero, la volontà, l’affettività e la decisione,

nascenti nell’interazione dialogica, illuminata dall’apertura del

pensiero simbolico, che, diversamente dal pensiero segnico, dona

luminosità ad un futuro possibile.

Scrive Heidegger: “i Greci conoscono già la verità nei suoi

due sensi, come non-nascondimento (l’aprirsi dell’ente) e come

adeguazione della rappresentazione all’ente, come correttezza”61,

logico-formale Questo secondo senso progressivamente diviene

61 Ivi, p. 80.

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dominante e permane tale nella condizione moderna e

contemporanea. Si oscura così il primo senso, ovvero la verità

presentata nella quadruplice direzione dell’essere-aperto, “1) della

cosa, 2) dell’ambito posto tra la cosa e la persona, 3) della persona

stessa nei confronti della cosa, 4) della persona nei confronti

dell’altra persona”’62.

La verità intesa come adeguazione è qualificata dall’essere

una verità-copia di un ente, priva di quell’apertura alla creazione di

senso, che, con la capacità simbolica, differenzia l’interagire umano

dal combinarsi fattuale degli elementi del non-umano.

L’interagire si forma con gli atti delle persone. Nell’a-

personale, nel non-umano si danno solo fatti, fisici, biologici,

macchinali, tutti privi del pensiero che si illumina nei simboli

aprendo la dimensione della possibilità, della plurivocità ermeneutica

delle prospettive, formative anche delle questioni sull’orientarsi

nelle istituzioni dei sistemi sociali.

Proprio la condizione di quadruplice apertura, che avvia la

formazione della storia, è distinta dalla trasformazione-evoluzione,

comune a tutti gli enti dei sistemi fisico-biologici-macchinali.

L’essere-aperto, nei quattro versanti indicati, esige dalla persona

un’opera di orientamento, mentre le entità impersonali -le cose, gli

animali e le macchine- sono già orientate, ovvero sono costituite da

memorie fisico-chimiche, neurobiologiche, informatico-macchinali,

etc., che si svolgono esecutivamente, senza alcun intervento creativo,

imputabile ad un io che interagisce con un tu nella luminosità dei

simboli, impegnandosi nell’orientarsi nelle istituzioni.

Una persona si orienta concependo, nell’interagire

dialogico, delle ipotesi di trasformazione di quel che la circonda, del

mondo condiviso con altre persone mediante il linguaggio simbolico.

È il linguaggio proprio delle relazioni comunicative, che hanno il loro

centro nella parola, capace sia di enunciare un significato, sia di

comunicare un simbolo, aprente una molteplice possibilità di itinerari

ermeneutici nella ricerca del senso esistenziale.

L’orientarsi delle persone esige un equilibrio tra le quattro

direzioni dell’essere-aperto, avente il suo asse nella peculiarità della

condizione umana. In assenza dell’umanità, non avrebbe alcun senso

62 Ivi, p. 21.

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nominare l’apertura, ovvero la ricerca della verità intesa come non-

nascondimento, distinta da quella visione della verità consistente

nella copia della realtà. Nel non-nascondimento si illumina la

ricerca del senso; nella correttezza dell’adeguazione alla realtà si

constata l’esecuzione di schemi già dati, di memorie a-personali,

configurative dei fatti fisici, chimici, biologici, etc.

In tutto il non-umano non compare alcuna questione sulla

differenza tra la verità come non-nascondimento e la verità come

correttezza dell’enunciazione, poiché questa differenza avviene nella

dimensione dell’essere-aperto, ovvero in quella situazione costituita

dall’apertura di una persona verso un’altra persona. È quell’apertura

che ha il suo nucleo nel linguaggio discorsivo, nella relazione

dialogica che impegna l’io ed il tu nell’interagire coesistenziale,

illuminato dal linguaggio dei simboli, irriducibile al movimento

fattuale, consistente nel linguaggio dei segni.

La relazione tra i dialoganti forma il centro dell’essere-

aperto ed è, in quanto tale, una relazione che necessita di regole,

istituite per disciplinare la qualità del relazionarsi interpersonale di

un io, autore responsabile della sua libera opera, del pensiero e della

volontà, irriducibile all’opera di un altro, di un tu.

Su questi temi è proficua la rilettura di Kant, che scrive:

“fino a che punto e quanto correttamente penseremmo, se non

pensassimo per così dire in comunità con gli altri, ai quali noi

partecipiamo i nostri pensieri ed essi a noi i loro?”63. Con

l’espressione ‘pensare in comunità con gli altri’ si nomina la struttura

e lo svolgimento dell’interagire nella relazione dialogica,

disciplinata da regole che non sono dell’uno o dell’altro, ma hanno la

qualità dell’essere sovra-le-parti.

Il ‘pensare in comunità con gli altri’ descrive quella

condizione del reciproco, circolare, sollecitarsi della domanda dell’io

e della risposta del tu, dell’interagire nella creatività luminosa,

propria della capacità simbolica delle persone. Si può riprendere la

seguente tesi di Heidegger: “nell’opinione e nell’interrogare abituali,

la risposta è … quel che fa tacere la domanda. Rispondere, allora, è

soddisfare e accantonare la domanda”, mentre, precisa Heidegger,

“con la risposta pensante … il domandare, invece, non si interrompe

63 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, cit., pp. 48-49.

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mai, ma incomincia, si dispiega come inizio”64, come rischio

creativo.

Successivamente al cominciamento del pensiero greco, si

è consolidata una definizione dell’essere umano, che lo descrive

come “essere vivente razionale”65. La ragione si è trasformata

progressivamente in strumento omogeneo ad un “atteggiamento

pianificatore del calcolo … inserito nelle sequenze delle previsioni

matematiche … La ragione, adesso, diviene sempre più razionale, e

tutto l’ente diviene oggetto e risultato delle sue manovre … L’uomo

diventa sempre più ingegnoso e furbo, ma sempre più massificato e

piccolo … Quanto più implacabili si fanno le manovre della ragione

e il suo calcolo, tanto più acuto e massificato si fa l’urlo che invoca

l’esperienza vissuta”66, intesa come quel sentire interiore che

appartiene al chiudersi del singolo in se stesso, spegnendo la

condizione iniziale del pensiero greco, che si illumina nella

situazione centrale dell’essere-aperto, inteso nella quadruplicità di

direzioni prima discusse.

Il dominio della verità concepita come correttezza,

certezza calcolabile, non è, nota Heidegger, “l’indifferente e

inoffensivo contenuto dottrinario di una ‘logica’, … intesa come una

disciplina scolastica: la correttezza è l’adattamento e l’arrangiamento

di tutti i comportamenti umani … Quel che è corretto … viene

assegnato, custodito come possesso e portato all’utilizzazione”67; è

dominato e consumato, secondo il potere che impone l’imperativo:

‘produci il consumo!’.

Si chiarisce che alla verità, intesa come correttezza

calcolabile, appartiene lo spegnimento della condizione descritta da

Heidegger come propria dell’essere-aperto, che si viene

trasformando invece in un essere-chiuso, avente la sua modalità

prioritaria nell’oscurare una delle quattro direzioni dell’apertura,

quella “dell’uomo nei confronti dell’altro uomo”68.

L’oscuramento di questa direzione dell’apertura si

concretizza così: ogni persona diviene chiusa nei confronti di ogni

64 M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, cit. p. 95. 65 Ivi, p. 100. 66 Ivi, p. 101. 67 Ivi, p. 106. 68 Ivi, p. 24.

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altra persona, con la conseguenza principale che il dialogo, ovvero la

situazione interpersonale del dispiegamento del logos, si trasforma in

un monologo, che acquista efficacia e coerenza non accogliendo il

dire dell’altro, non donando ascolto alle sue parole, trasmutando

l’interagire delle persone nella luminosità dei simboli in un fluire a-

personale nel buio combinarsi dei segni.

Quando la comunicazione nel medio dei simboli si spegne

e si afferma il funzionamento dell’informazione a-personale nel

medio dei segni, l’orientarsi si sottrae alla condizione di apertura e si

consolida un percorrere itinerari di chiusura che non incontrano e non

rispettano l’alterità esistenziale, il tu nella sua irriducibilità a

qualunque altra entità.

L’io ed il tu non sono misurabili dalla correttezza segnica

della calcolabilità dei loro comportamenti, ma si chiariscono

nell’interagire reciproco, nascente dalla capacità simbolica, genesi

personale-interpersonale degli atti pensati e voluti, e, in quanto tali,

scelti ed imputabili.

L’alterità esistenziale si presenta ad ogni singolo essere

umano come quel che desta meraviglia, stupore, perché non si lascia

spiegare; i suoi atti liberi non sono anticipabili in un calcolo, che nel

presente contiene già un futuro preformato e così negato. Gli atti

umani si sottraggono alla correttezza calcolatoria di una logica che

spiega e non si arresta davanti alla non spiegabilità scientifica dei

simboli, presentati, nella loro ricchezza plurivoca, dal rischio della

libertà, esercitata nell’esistenza personale.

Nelle relazioni umane, esemplarmente in quelle giuridiche,

ogni persona è aperta all’accogliere ed all’ascoltare l’altra persona,

rispettandola nella sua irriducibilità ad un oggetto, conoscibile

secondo la correttezza numerica dei metodi scientifico-matematici.

Questa irriducibilità genera meraviglia, esige il rispetto per il mistero

della dignità umana, eccedente ogni enunciazione quantitativa ed

ogni eventuale, successiva monetizzazione; è l’irriducibilità della

relazione circolare tra l’io ed il tu; costituisce la peculiarità della

condizione umana, pur se apre l’eventualità di controversie tra le

domande e le risposte imputabili all’uno o all’altro degli esseri

dialoganti.

Il diritto si presenta lì dove si accende la meraviglia, lo

stupore, l’imprevedibilità, tutte dimensioni esclusive della

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condizione umana, della capacità di creazione di senso e delle

controversie che si formano nell’opporsi delle ipotesi formulate

quanto alla formazione-trasformazione del mondo condiviso.

“Quel che meraviglia e fa meraviglia ... mantiene e

amministra la voglia di meravigliarsi”. Si precisa che “il

meravigliarsi non vuole neppure che quel che fa meraviglia venga

chiarito; vuole, invece, essere incalzato e avvinto da quel che non è

chiarito, inteso come l’altro, il sorprendente, l’inconsueto,

contrapposto al comunemente noto, al tedioso, al vuoto”69.

La meraviglia ripropone la condizione esistenziale

dell’essere-aperto, dell’esistere nella ricerca del senso che non è la

ricerca della conoscenza di quel che ancora non è conosciuto.

La direzione più intensa del gratuito meravigliarsi viene

attivata dall’incontro con un altro essere umano; solamente nella

condizione del relazionarsi interpersonale può emergere la

distinzione tra la gratuità della ricerca-dono del senso e l’utilità-

commercio della conoscenza.

In tutti gli esseri non umani, si può scorgere un insieme di

operazioni fisico-chimiche, bio-macchinali, ma non si presenta mai

alcunché del meravigliarsi davanti agli interrogativi sul senso.

Si deve riprendere, ancora una volta, la distinzione tra ‘il

senso di un funzionamento’ ed ‘il funzionamento di un senso’,

mostrando che nel primo versante vi è la gratuità di un interrogativo,

di una domanda centrata sul ‘che ne è dell’io’, mentre nel secondo

versante vi è l’utilità di una conoscenza in un insieme funzionale di

operazioni, destinabili ad un mercato.

La meraviglia, lo stupore, si mantengono nella condizione,

specificamente umana, dell’essere-aperti nel gratuito ricercare il

senso, nell’avvertire che quanto viene conosciuto apre una possibile

trasformazione dell’io, nelle due direzioni diverse e opposte, del

perfezionarsi oppure del dissolversi.

Sia l’acquisizione di conoscenze, sia la ricerca del senso

non hanno un momento ultimo, uno stadio che possa essere

considerato compiuto; permangono sempre nell’incompiutezza. Una

conoscenza acquisita sollecita l’acquisizione di ulteriori conoscenze,

69 Ivi, p. 112.

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mai definitivamente raggiunte. La ricerca del senso non ha una

risposta che la possa esaudire, così da spegnere il ricercare.

Tuttavia tra l’inesauribilità dell’attività conoscitiva e

l’inesauribilità della ricerca del senso vi è una differenza

incolmabile, perché nel conoscere permane estranea, ad esempio, la

dimensione dell’egoità-egoismo, che invece si può presentare nella

ricerca del senso, poiché in quest’ultimo versante è in gioco il

proprio io, ne va del se stesso, è aperta la prospettiva della libera

selezione degli scopi, che rimane assente nelle operazioni del

conoscere. Questa selezione non avviene secondo itinerari

conoscitivi, ma si compie nel rischio delle decisioni, formativo del

futuro storico, concepito nell’interagire dialogico che si alimenta al

reciproco sollecitarsi dell’io e del tu nel comparare le loro ipotesi, i

loro progetti.

La storia non si concretizza esaurendosi in una attività

conoscitiva, ma si forma nella selezione degli scopi che attuano la

conoscenza nelle istituzioni di una comunità. L’opera dell’istituire i

sistemi sociali non è una semplice prosecuzione realizzatrice di

conoscenze già acquisite, ma è un’opera creativa, imputabile a degli

autori, che rischiano il futuro. Il legislatore non si confina nel dare

concretezza a delle conoscenze concernenti schemi di discipline

normative, ma è una entità istituente in quanto si mantiene

nell’essere-aperto, comparando le diverse ipotesi dei diversi esseri

umani aventi la responsabilità dell’attività legislativa, che sceglie e

decide.

L’istituire si dispiega nel dialogo che non si spegne nel

monologo, segnato dall’assenza dell’interagire comunicativo nel

medio del linguaggio simbolico. I simboli sono relazionali e

plurivoci. Nessun simbolo è tale per un singolo isolato, mancante

della molteplicità delle possibili interpretazioni provenienti dalle

letture dei simboli proposte dall’io e dal tu, dal noi e dal voi, nel

dialogare che li accomuna.

L’essere-aperto alimenta lo stupore, inteso anche come il

trovarsi davanti ad una esigenza di orientarsi, poiché unicamente gli

esseri umani hanno il problema del selezionare, tra le molteplici

ipotesi di orientamento, quella che viene scelta ed assunta come

contenuto della decisione e così inscritta nel mondo storico di una

comunità.

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Tutti gli enti non-umani eseguono il loro essere-orientati e

lo concretizzano senza trovarsi nel ‘tra’ che unisce e separa domande

e risposte. Sono esclusivamente ciò che sono e non quel che scelgono

di poter-essere, vivono in una realtà mai attraversata dalla

dimensione della possibilità, non confondibile con l’eventualità,

perché consiste nel rischiare l’esercizio del pensare, concepire e

volere una nuova direzione di senso, creata e non già trovata in una

condizione naturalistica, risultante dalla composizione di elementi

fattuali, non imputabili al pensiero ed alla volontà delle persone.

“Nello stupore è la più abituale di tutte le cose e in tutte le

cose a diventare la più inconsueta … Lo stupore non sa come entrare

nell’inconsueto del tratto più abituale del tutto, così come non sa

uscire da esso; è posto di fronte all’inconsueto del tratto abituale”70.

Nelle relazioni umane, ‘il più abituale’ è costituito dalle

regole che rendono possibile e reale il relazionarsi delle persone

nelle istituzioni. Si tratta delle regole che costituiscono i sistemi legali

e che però, con il presentarsi dello stupore, attivano le domande sulla

qualità dei contenuti della legalità, ovvero le domande che si

interrogano sulla ricerca della giustizia, che non è sempre riducibile

a quel che è selezionato ed istituito nei sistemi legali.

Il desiderio di giustizia precede ed orienta il desiderio di

legalità, ne seleziona i contenuti. Ci si chiede: una definita legalità è

giusta o ingiusta? Non ci si chiede: la giustizia è legale o illegale?

L’abituale è tale perché ha acquisito una durata, permane

nella fissità-ripetizione per un tempo, mentre il disabituale irrompe

con lo stupore, spezza un inizio che si era dato e segna un altro

iniziare. Tutte le leggi della fisica, della chimica, della botanica, della

neurobiologia, della meccanica, etc., permangono nel tempo, durano

e non ricevono una svolta segnata da un nuovo orientarsi secondo un

inizio diverso, pensato, voluto ed istituito nell’interagire dialogico,

che, illuminato dalla meraviglia, istituisce il cammino futuro nei

sistemi sociali.

Ci si abitua alla legalità e ci si può disabituare alla ricerca

della giustizia, che, in un assetto giuridico-sociale, si illumina con lo

stupore, con la ripresa dell’iniziare l’opera di analisi e di riflessione

su quanto attiene all’istituire il diritto positivo. La legalità è la

70 Ivi, pp. 118-119.

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continuazione di un inizio, la giustizia esige invece di riprendere

l’iniziare, chiede non semplicemente di eseguire quel che è stato

istituito, ma di concepire domande che impongono ai giuristi di

riavviare gli interrogativi sull’inizio, mettendo in questione il

rapporto tra l’opera di selezione delle norme e la qualità giuridico-

esistenziale delle relazioni umane.

Il nesso tra legalità e giustizia non può essere trattato

secondo gli schemi della correttezza scientifica, delle verifiche di

laboratorio, perché è un rapporto illuminato da quella che Heidegger

chiama “la tonalità emotiva fondamentale”, lo stupore, che consente

all’uomo di interrogarsi su che ne è “di fronte all’incondizionato farsi

sentire che si impone in questa tonalità emotiva che non sopporta

alcun ripiego”71.

Nello stupore, l’essere umano si rende disponibile per

l’incondizionato, per quell’iniziare che non viene ratificato dalla

correttezza di un calcolo, ma è affidato invece al rischio esistenziale

del ri-iniziare, esistendo nel ‘tra’ dei due versanti irrinunciabili e

differenziati: il durare-continuare nell’abituale e l’iniziare-divergere

nel disabituale.

Tutte le comunità sono strutturate da istituzioni, che

custodiscono la loro qualificazione umana proprio perché

compongono in armonia la compresenza di due versanti: quello di un

durare, abitualità, e quello di un nuovo cominciamento, disabitualità.

In modo esemplare, il linguaggio discorsivo di una comunità è una

istituzione e presenta sia la dimensione della durata, sia quella

dell’iniziare originale, ovvero, rispettivamente, della ripetizione e

dell’innovazione. Unicamente perché le parole custodiscono la

capacità di enunciare un definito significato durevole, possono

consentire la comunicazione tra le persone, pur mantenendo una

apertura per la genesi di nuove parole, capaci di comunicare nuove

formazioni di senso.

Questa struttura del linguaggio come istituzione è analoga

alla struttura del diritto come istituzione.

Il diritto istituito in una comunità consente la durata delle

relazioni, la loro liberazione dalla mutevolezza arbitraria, che

renderebbe impossibile la stessa capacità di progettare

71 Ivi, p. 121.

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nell’interagire. Tuttavia, le istituzioni giuridiche non hanno come

scopo il loro stesso funzionamento, ma garantiscono la possibilità di

riprendere l’opera, esclusivamente umana, dell’iniziare creativo.

Garantiscono che, sia pure nella durata delle qualificazioni delle

diverse modalità del relazionarsi umano, ogni essere di una comunità

abbia ed eserciti il diritto a rischiare un inizio, ad avviare un nuovo

cammino, che presenti il suo impegno originale per la formazione

della personalità dell’io nel medio delle relazioni interpersonali.

La direzione dell’iniziare, dell’orientarsi tra le molteplici

possibili ipotesi, non è né necessaria, né arbitraria, ma ripropone una

dimensione dell’essere-aperto, prioritariamente quella dell’apertura

“dell’uomo nei confronti dell’altro uomo”72.

Questa condizione di apertura non è il risultato di un

convenire tra una pluralità di esseri umani che perseguono un qualche

utile, non ha alcuna ‘ragion sufficiente’ nella dimensione unica

dell’utilità, che pertanto non è lo scopo prioritario e regolativo. La

condizione di apertura eccede l’utile monetizzabile e differenzia

l’umano dal non-umano.

“Nel XIX secolo si afferma largamente e viene ritenuta

valida la tesi che lo scopo di tutte le azioni sia di evitare il dispiacere

e di suscitare il piacere. Ogni comportamento umano -sostiene

Gehlen- viene quindi strumentalizzato in questo modo privo di

espressione. Anche Freud condivideva completamente questo punto

di vista: questo principio (il principio del piacere e del dispiacere)”73.

È una tesi che scivola verso la regola unica dell’utilità: il piacere è

utile, il dispiacere è disutile.

Nella condizione umana, le persone tendono ad esistere

sempre al di là della regola dell’utile, perché la loro esistenza è

strutturata nell’ordine dei simboli, che non sono né utili, né disutili,

ma sempre “significano più di quanto denotino o esprimano”74. Jung

osserva che “per la mente scientifica fenomeni quali le

rappresentazioni simboliche sono estremamente irritanti, perché non

possono essere formulati in modo tale da soddisfare il nostro

intelletto e la nostra logica. … ci si trova di fronte a realtà innegabili,

72 Ivi, p. 24. 73 A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, cit., p. 302. 74 C. G. Jung, Simboli e interpretazioni dei sogni, Torino, 2015, p. 10.

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che tuttavia è impossibile formulare in termini intellettuali”75,

secondo gli schemi abituali di quella logica che identifica la verità

con la correttezza dell’enunciazione, rilevante perché utilizzabile,

destinata al consumo nel mercato regolato dal danaro.

L’origine e l’interpretazione dei simboli non è un qualcosa

che possa “essere ridotta in termini meccanicistici … nello sforzo di

capire i simboli, ci si troverà non solo di fronte al simbolo, ma alla

totalità dell’individuo che lo produce”76, nella sua interazione con gli

altri individui.

Come le parole di ogni linguaggio, anche i simboli di ogni

cultura hanno una struttura singolare-plurale, abituale-disabituale;

esigono sempre un impegno ermeneutico che ne possa mostrare la

numinosità. “La perdita del numinoso” si compie come lo

smarrimento del “senso della vita”77, che non si lascia confinare nella

ripetizione-esecuzione dei meccanismi fisico-biologici.

Tutte le istituzioni umane, esemplarmente quelle

giuridiche, non possono essere trattate così come si trattano le cose,

perché non sono semplicemente quel che sono, ma sono quel che la

loro struttura simbolica comunica. Così l’istituzione della moneta

cartacea non produce oggetti che hanno il valore risultante dall’essere

quel che sono materialmente. Un biglietto da 100 €, nella sua nuda

materialità oggettiva, non vale 100 €, ma ha questo valore monetario

unicamente in quanto costituisce un simbolo istituito. Così

analogamente deve dirsi per la bandiera di uno Stato, di una società

sportiva ed ancora per le modalità di abbigliamento dei magistrati,

che compongono un collegio giudicante, per la toga degli avvocati,

per le divise dei militari, etc.

Tutti gli elementi appena descritti appartengono a delle

istituzioni simboliche, hanno senso nella complessa plurivocità dei

linguaggi umani, che dicono più di quel che viene posto nelle parole

di un enunciato e che pertanto non possono essere misurate dalla

correttezza logico-numerica dell’enunciazione, ma traggono il loro

senso da quel che comunicano nelle convenzioni sui simboli,

formative di una comunità.

75 Ivi, p. 92. 76 Ivi, p. 94. 77 Ivi, pp. 98-99.

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Gli elementi costitutivi delle istituzioni giuridiche non

sono oggetti, trattabili come tutti gli oggetti trovati natura, ma sono

stati istituiti, sorgono da una creazione di senso che costituisce il

mondo umano, distinto dall’ambiente del non-umano.

Una chiarificazione dell’orientarsi nel pensiero e

dell’orientarsi nelle norme è possibile riprendendo una tesi

principale sull’esercizio e sull’incidenza della capacità simbolica. In

questa tesi si sostiene: “un agire che articola il rapporto che ha con se

stesso nell’ipersignificatività si conquista per questa via la capacità

simbolica. Non è più qualcosa di abituale, né un’azione piatta, diretta

a uno scopo oggettivo, né un’espressione affettiva immediata”78.

Viene qui descritto il rapporto che ha l’autore di un agire

umano rivolgendosi a se stesso ed agli altri, in quello spazio che è

proprio di una significatività eccedente un significato definito ed è

pertanto illuminato da una ‘ipersignificatività’, capace di aprire lo

spazio dei simboli, non confinabile nella correttezza logica di

enunciati definiti, non calcolabile secondo una numerazione.

L’‘ipersignificatività’ presenta certo dei significati, ma,

simultaneamente ad essi, apre un itinerario capace di un inizio

originario, che segna una svolta di senso, idonea ad un agire

trasformativo della condizione presente nel mondo condiviso con gli

altri esseri umani, tali perché tutti titolari della capacità simbolica.

Le istituzioni giuridiche, ed in genere tutte le istituzioni dei

sistemi sociali, sorgono dalla capacità simbolica, poiché non sono

semplicemente la realtà che sono nella loro cosalità, ma incidono nel

mantenere simultaneamente la loro struttura presente e nel custodire

la dimensione dell’essere-aperto al futuro, nel reciproco aprirsi di un

essere umano ad ogni altro essere umano, componendo nei simboli

l’armonia tra la individualità della singola persona-personalità e

l’universalità del genere umano.

Questo aprirsi reciprocamente di un essere umano agli altri

esseri umani può ricevere un approfondimento significativo nel

riprendere la seguente tesi centrale di Blumer: “l’interazionismo

simbolico ritiene che il significato [sorga] dal processo di interazione

tra le persone … [;] il significato di una cosa, per una persona, nasce

dal modo in cui altre persone agiscono nei suoi confronti rispetto a

78 A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, cit., p. 173.

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quella cosa: le loro azioni contribuiscono infatti a definire la cosa per

la persona ... l’interazionismo simbolico vede i significati come

prodotti sociali, creazioni formate e determinate dalle attività di

definizione svolte dalle persone nel loro interagire”79.

Oltre la lettera delle tesi esplicitate da Blumer e dal contesto

dei suoi studi, l’interazionismo simbolico mostra che in una comunità

i significati si formano nella reciprocità dell’interagire delle persone

che si rivolgono agli elementi del mondo condiviso. In questa

direzione, “l’interazione simbolica rende di fatto la vita del gruppo

umano un processo costituente e non solo l’arena dove esprimere i

fattori preesistenti”80, così che una comunità di persone crea una

continua attività istituente, ovvero formativa sia di significati, sia di

simboli, che avviano la storia, trasformativa del mondo.

“Nell’interazione simbolica la vita del gruppo umano è un

processo diffuso nel quale la gente forma, conferma e trasforma gli

oggetti del proprio mondo man mano che dà loro significato”81.

Questo processo acquista i tratti propri del ‘simbolico’ in quanto gli

oggetti del mondo ricevono un significato che non si limita a ripetere

la loro datità concreta, ma comunica una condizione specifica, quella

dell’apertura nella costruzione del futuro che appartiene ad una

comunità.

Il processo dell’interazione simbolica è costantemente

alimentato dall’opera dell’interpretazione, dall’arte ermeneutica,

che appartiene esclusivamente alla condizione umana ed è assente in

tutti gli enti cosali, animali, macchinali, etc.

Le istituzioni in generale, specificamente le istituzioni

giuridiche, sorgono sulle relazioni umane, strutturate come

‘interazioni simboliche’. Quest’ultima espressione e tutto quel che si

riferisce all’‘interazionismo simbolico’ esigono una riflessione su

due concetti: quello dell’interagire e quello dei simboli.

L’interagire è un’attività esclusivamente umana, consiste nel

mettere in opera degli atti sociali, irriducibili ai fatti -fisici, chimici,

biologici, macchinali-.

79 H. Blumer, L’interazionismo simbolico, Bologna, 2008, p. 36. 80 Ivi, p. 42. 81 Ivi, p. 44.

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Gli atti sono concepiti dal pensiero, costituiscono i contenuti

di una volontà e si concretizzano nella consapevolezza che si danno

altri atti, pensati e voluti, da altre persone e che possono sorgere

controversie tra la realizzazione di un atto in contrasto con la

realizzazione di atti imputabili ad altre persone distinte, non fungibili,

esistendo ogni io nella formazione della sua personalità che non è

quella dell’io di altri.

L’interagire si dispiega nel mondo delle relazioni

comunicative, dei linguaggi che le rendono possibili nelle istituzioni

di una comunità. La peculiarità del linguaggio umano mostra la

struttura simbolica di questo linguaggio, che, diversamente dai

linguaggi del non-umano, è costituito da termini che “sono simbolici

… [in quanto] significano più di quanto denotino o esprimano”82, così

da esigere l’arte dell’ermeneutica, situata nel dialogo sulla

molteplicità delle possibili ipotesi interpretative, che si illuminano

nel confronto discorsivo, aperto dalla capacità simbolica, non

riducibile alla correttezza dell’enunciazione.

Nelle relazioni umane e nelle istituzioni di una comunità, si

ha che “ciascuno degli individui interpreta o definisce le azioni degli

altri invece di limitarsi a reagire ad esse. … l’interazione umana è

mediata dall’uso di simboli, dall’interpretazione, o dalla

comprensione del significato delle azioni dell’altro”83.

Le relazioni umane e le istituzioni, che ne garantiscono la

durata, si concretizzano nel linguaggio, che ha una struttura

simbolica, poiché si mantiene nella condizione dell’essere-aperto,

ovvero a)del dire il significato che viene enunciato e b)del

comunicare la possibilità di interagire creativamente nella continua

trasformazione del mondo di una comunità, del senso che la qualifica.

Un definito significato è efficace proprio per la correttezza

della sua enunciazione, che consente la comprensione dei contenuti

formativi di una comunicazione nella lingua di una comunità.

Tuttavia il significato non si esaurisce nel conferire una determinata

certezza al transito dei contenuti che qualcuno destina a qualcun altro,

ma, nel rispetto della creatività della condizione umana, schiude la

dimensione della possibilità ermeneutica=creativa. Questa schiusura

82 C. G. Jung, Simboli e interpretazione dei sogni, cit., p. 10. 83 H. Blumer, Interazionismo simbolico, cit., p. 113.

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è assente in tutto il non-umano, esaurito nella combinatoria dei fatti,

privi del pensare, volere e rischiare il cammino nuovo della

possibilità istituente.

L’interazione simbolica appartiene unicamente alle

persone, autori di un linguaggio che simultaneamente enuncia quel

che enuncia ed apre una possibilità creativa, che supera ogni definito

enunciato. Si allude al superamento, creativo della storia, che si

manifesta e si concretizza lì dove opera il ‘simbolico’, eccedente la

fattualità di tutti gli enti del non umano.

Possibilità e simbolico si coappartengono nella dimensione

dell’essere-aperto degli atti umani del pensare, del volere, dello

scegliere, secondo una massima assunta nell’esercizio del libero

arbitrio, imputabile, giuridicamente rilevante. La pura datità dei fatti

permane estranea alla condizione dell’apertura, difetta della

possibilità, è unicamente quel che è, non progetta nella luminosità

della capacità simbolica, permane estranea a tutti gli elementi della

giuridicità.

Simbolico ed apertura impegnano le persone nel loro

orientarsi, qualificativo della condizione umana, che si trova davanti

a diversi, alternativi, itinerari del pensiero, a diverse, differenziate,

direzioni della volontà.

In questa situazione, si è chiamati ad una scelta imputabile

nel rischiare il proprio orientarsi, secondo una massima assunta

(Kant). In assenza della possibilità, del simbolico, dell’essere-aperto,

ogni ente non si orienta, ma è già orientato dalla sua specifica

modalità, che esegue schemi trovati in natura, mai rischiando i

percorsi della creazione di senso nell’interagire simbolico, descritto

da Blumer come ‘interazionismo’, qualificato dall’esercizio della

capacità di formazione e di comunicazione dei simboli.

L’interagire simbolico attiva ed illumina tre connessi

itinerari: 1)orientarsi nel pensiero -Kant-, 2)orientarsi nelle norme -

Gadamer-, 3)orientarsi nella libertà -Jaspers-.

Sono i tre itinerari legati dall’unità-differenza che, secondo

la prospettiva di Lacan, unisce e separa la legge del testo, costitutiva

degli esseri parlanti -logos- ed il testo della legge, istituito nelle

comunità dei dialoganti, disciplinate dalla legalità, nascente e

regolata dall’ansia di giustizia-equità -nomos-.

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Come si discuterà criticamente, nell’opera di Schmitt si

afferma: “la parola greca nomos … deriva dal verbo greco nemein”,

considerato coincidente con il verbo tedesco nehmen, ‘prendere

possesso’, ‘conquistare’. Nomos qui è Nahme, è l’impossessarsi di

quel che è stato conquistato. Successivamente significa “la divisione

e suddivisione di ciò di cui si è preso possesso; infine indica la

valorizzazione, di quanto sia ottenuto con la divisione, dunque la

produzione e il consumo”84. In Schmitt si ha un nomos (testo della

legge) non misurato-selezionato dal logos (legge del testo), genesi

della capacità simbolica formativa delle istituzioni di una comunità.

84 C. Schmitt, Stato, grande spazio, nomos, Milano, 20015, p. 293; Il nomos della

terra, Milano, 2011, pp. 54- 71.