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ORPHAN X

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ORPHAN X

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Gregg Hurwitz

ORPHAN XTraduzione di Martina Rinaldi

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Titolo originale dell’opera: Orphan XTraduzione dall’inglese: Martina Rinaldi

Copyright © 2016 by Gregg HurwitzFirst published in 2016 by Minotaur BooksAll rights reserved

Italian Translation Copyright© 2016 De Agostini Libri S.p.A., Novara

Prima edizione: giugno 2016www.deagostini.itRedazione: Corso della Vittoria, 91 - 28100 Novara

Tutti i personaggi e gli eventi in questo romanzo sono opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o esistite è puramente casuale.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmes-sa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, com-presi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di ca-rattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

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A tutti i ragazzi e le ragazze cattivi, sovversivi e capaci di fare giu-stizia:

Philip Marlowe e Sam Spade, Bruce Wayne e Jason Bourne, Bond e Bullitt, Joe Pike e Jack Reacher, Hawk e Travis McGee, i Sette Sa-murai e i Magnifici Sette, Mack Bolan e Frank Castle, i tre John (W. Creasey, Rambo, e McClane), il Capitano Achab e Guy Montag, Mike Hammer e Paul Kersey, The Lone Ranger and The Shadow, Robin Hood e Van Helsing, Beowulf e Gilgamesh, Ellen Ripley e Sarah Connor, Perseo e Coriolano, Hanna e Hannibal, l’Uomo senza Nome e Léon, Parker e Lucy, Arya Stark e George Stark, Pike Bishop e Harmonica, Lancillotto e Achille, il Cavaliere della Valle Solitaria e Jena Plissken, Ethan Edwards e Bill Munny, Jack Bauer e Jack il Riparatore, Zorro e The Green Hornet, Dexter e Mad Max, Quella sporca dozzina e l’Ispettore Callaghan, Terminator e Lady Vendetta, Nick Mano Fredda e Lucas Davenport, Logan 5 e James “Logan” Howlett, V e Vic Mackey, Hartigan e Marv, Sherlock e Luther, Veronica Mars e Selina Kyle…

Per essere stati così sbagliati da diventare leggenda.

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Ripley: «Ciò che stai facendo è sbagliato».Luther: «Sì, lo so».Ripley: «Allora perché lo fai?».Luther: «Perché è giusto».

Neil Cross, Luther

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Prologo

La prova del fuoco

Evan se ne sta rigido e silenzioso sul sedile della berlina nera. Ha dodici anni. Una guancia aperta e un taglio alla tempia. Il sangue gli cola tiepido sul collo, si mescola al sudore della paura. Le ma-nette incidono solchi profondi nei polsi magri. Il cuore gli martella nel petto, nella testa.

Ce la mette tutta per non tradire alcuna emozione.L’uomo alla guida ha detto di chiamarsi Jack Johns. Nient’altro.È sulla cinquantina, robusto e piazzato come un catcher, li-

neamenti regolari e sguardo dritto, affilato. Prende un fazzoletto dalla tasca e glielo allunga. «Per la guancia».

Evan studia il rettangolo di stoffa sottile. «Si macchierà».«Pazienza» fa Jack divertito. Lui, obbediente, si tampona il

sangue sul viso. Evan era il più piccolo, sempre l’ultimo a essere chiamato in

squadra. Solo grazie a una lunga serie di sfide è riuscito a conqui-starsi un posto in quella macchina, a farsi scegliere.

Qualche mese prima, l’Uomo Misterioso si era materializzato ai margini del campetto da basket. Osservava i ragazzi fare a bot-te. Nessuno sapeva chi fosse. Indossava un paio di impenetrabili Ray-Ban e fumava una sigaretta dopo l’altra giochicchiando con

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la catenina che portava al collo. Si muoveva lento, quasi pigra-mente, eppure riusciva ad apparire e scomparire in un batter d’oc-chio. Di teorie sul suo conto ne giravano tante. Era un maniaco. Era un ricco uomo d’affari che voleva adottare uno di loro. Un trafficante di organi. Un affiliato alla mafia greca.

Evan ne era affascinato.L’hanno fatto sparire in un soffio, come risucchiato da un disco

volante. È la prova del fuoco, sì, una specie di reclutamento, ma in vista di cosa Evan non lo sa ancora.

Di sicuro la sua destinazione, qualunque essa sia, non potrà essere peggio del disperato angolo di Baltimora da cui proviene.

D’un tratto il suo stomaco brontola e persino in quel momento, in quella situazione, l’imbarazzo gli colora le guance. Nello spec-chietto il suo volto è aguzzo, scavato. Magari nel posto in cui lo stanno portando ci sarà da mangiare in abbondanza. O forse sarà lui a finire mangiato.

A quel pensiero si riscuote. Si schiarisce la voce e domanda: «Che cosa volete da me?».

«Non te lo posso dire, per ora». Jack guida in silenzio per un po’, poi realizza che quella risposta non può bastare a un ragaz-zino nella posizione di Evan. «Non posso spiegarti tutto adesso» aggiunge con un tono quasi di scusa. «Ma stai pur tranquillo che non ti racconterò mai bugie».

Evan lo studia. Decide di credergli. «Mi farò del male?».Jack guida impassibile, lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé.«Qualche volta» dice.

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La spinosa questione del kombucha

Evan Smoak era al volante del suo pick-up, nel bagagliaio un set di silenziatori appena acquistato dal suo fornitore di fidu-cia, un tipo di Las Vegas con nove dita. Era diretto a casa, de-ciso ad arrivarci il più in fretta possibile senza lasciarsi distrarre dalla ferita da taglio che aveva sul braccio.

Se l’era procurata in una rissa nell’area di sosta. A meno che non fosse in missione, di solito evitava di immischiarsi in situa-zioni che non lo riguardavano, ma in quel caso c’era di mezzo una ragazzina e restare a guardare sarebbe stato impossibile.

Così, in attesa di medicarsi a dovere, faceva del suo me-glio per non imbrattare la macchina. Era riuscito a fermare il sangue con un calzino, se l’era tolto e l’aveva annodato stretto attorno alla ferita aiutandosi con i denti.

Non vedeva l’ora di rientrare nel suo appartamento: era un giorno e mezzo che non chiudeva occhio. Riusciva a pensare soltanto alla bottiglia di vodka a tripla distillazione che teneva nel surgelatore del suo Sub-Zero, alla doccia bollente, alle len-zuola fresche di bucato, e al cellulare chiuso nel cruscotto che ormai avrebbe potuto squillare in qualsiasi momento.

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Procedendo verso ovest attraversò una trafficatissima Bever-ly Hills e finalmente imboccò Wilshire Corridor, una via di palazzi residenziali dall’altezza imponente per gli standard di Los Angeles. L’edificio in cui abitava aveva un nome altisonan-te, Castle Heights, e si trovava all’estremità est della strada. Per questo gli appartamenti dei piani alti godevano di una discreta vista su Downtown. Dagli anni Novanta, Castle Heights non era mai stato ristrutturato: le pareti rivestite di marmo color salmone e le finiture in ottone non gli conferivano un’aria ele-gante né tantomeno trendy, ma solo – fatto raro nella scintil-lante Los Angeles – vagamente datata e pretenziosa. Era il po-sto perfetto per Evan. Gli inquilini erano benestanti e vecchio stampo – chirurghi, dirigenti d’azienda, pensionati incanutiti, soci onorari del country club. Pochi anni prima, quasi per sba-glio, ci si era trasferito un playmaker dei Lakers, e tutta la via aveva sofferto per qualche tempo lo scompiglio della notorietà, ma ben presto il tizio aveva tolto il disturbo e il palazzo era tornato alla sua routine ovattata e tranquilla.

Giunto a destinazione, Evan rallentò, fece segno al portiere che avrebbe parcheggiato da solo e svoltò giù per la rampa di-retto al garage. Il pick-up scivolò con precisione nel suo spazio tra due pilastri di cemento, appartato e protetto dal bagliore delle luci al neon sul soffitto.

A quel punto Evan sciolse il calzino-benda dal braccio e diede un’occhiata alla ferita. I margini erano puliti, ma era un bel taglio, e sanguinava ancora. Una cosa da sei, sette punti al massimo.

Recuperò il cellulare dal cruscotto. Era in gomma dura nera, con una custodia in vetroresina e Gorilla Glass, e ave-va uno speciale abbonamento RoamZone. Lo teneva sempre a portata di mano per essere sicuro di sentirlo.

In ogni momento.Dopo aver controllato nello specchietto che il garage fosse

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deserto, scese dal pick-up e si cambiò, sfilandosi la t-shirt e indossando al suo posto una delle felpe che teneva dietro il sedile. I silenziatori erano infilati in un comune sacchetto di carta. Ci buttò dentro anche la maglietta e il calzino sporchi di sangue. Verificò sul cellulare quanta batteria gli restava (due tacche), se lo fece scivolare in tasca e salì le scale che portavano all’ingresso.

Fuori dal portone si concesse un respiro profondo, per pre-pararsi al passaggio da un mondo a un altro. Trentadue passi attraverso l’atrio fino all’ascensore, un breve viaggio verso l’alto e finalmente sarebbe stato libero di rilassarsi.

Nella hall l’aria profumava di fiori freschi. Conscio dello stridio delle sue suole sul pavimento lucido, si stampò in faccia un blando sorriso e si incamminò senza fermarsi a salutare i vi-cini che a quell’ora rientravano a casa. Non dare nell’occhio era da sempre al primo posto nella lista delle sue priorità. Aveva superato da poco la trentina, era abbastanza in forma, ma non troppo muscoloso da attirare gli sguardi. Un giovane uomo normale, attraente al punto giusto.

Gli inquilini di Castle Heights andavano fieri degli eccezio-nali standard di sicurezza del palazzo, primo fra tutti l’ascenso-re controllato a distanza dall’addetto alla reception. Evan fece un cenno col capo al tipo che, dietro al bancone, sedeva cir-condato da una impressionante schiera di schermi.

«Ventunesimo piano, per favore, Joaquin» disse. «Perché non dice semplicemente attico? Dopo tutto è così

che si chiama. Attico» protestò una voce alle sue spalle. Nello stesso istante una mano grinzosa si strinse attorno al braccio ferito e una fitta bruciante gli percorse l’arto da cima a fondo.

Evan si voltò a guardare la donna tozza e vecchia che gli si era piazzata di fianco: Ida Rosenbaum, del 6g. «Ha proprio ragione, signora» concesse con un sorriso.

«E già che ci siamo,» lo incalzò lei «tra pochi minuti inizia la

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riunione dell’Associazione proprietari nella sala al decimo pia-no. Se non ricordo male ne ha già saltate tre dall’inizio dell’an-no». Forse per compensare l’affievolirsi dell’udito, la voce della Rosenbaum sovrastava qualunque rumore nel raggio di un chi-lometro. Evan poteva star certo che tutti i presenti ora sapesse-ro del suo record di defezioni.

L’ascensore arrivò con un ding. La Rosenbaum rinsaldò la presa sul braccio di Evan e fissò lo sguardo imperioso su Joa-quin. «Il signor Smoak salirà al decimo piano insieme con me».

«Solo un secondo! Aspettateci!». Era la donna del 12b – Mia Hall – che attraversava l’atrio di corsa con il figlioletto alle cal-cagna e il telefono stretto tra la spalla e la guancia.

Evan approfittò di quel momento per liberare educatamen-te il braccio dalla stretta della vicina. Il taglio continuava a sanguinare e il tessuto della felpa era già incollato alla pelle.

Mentre entrava di gran carriera nell’ascensore trascinan-dosi dietro il figlio, Mia cantilenava allegramente nel telefo-nino: «Tanti auguriii a teee, tanti auguri-in-ritardoooo, tanti scusa-mi-si-è-rotta-la-macchina-e-ho-dovuto-far-cambiare- i-dischi-il-che-tra-l’altro-mi-è-costato-un-botto-e-non-ho-fatto-in-tempo-a-prendere-Peter-a-scuola-e-allora-lui-è-dovuto-andare-da-un-amico-e-così-per-poco-non-mi-scor-davo-di-lasciarti-questo-messaggio… Insomma, tanti au- guri!». A quel punto chiuse la comunicazione e lasciò cade-re l’apparecchio nella capiente borsa che portava a tracolla. «Scusate! Permesso, grazie» disse. Appena prima che le por-te automatiche si richiudessero si rivolse a Joaquin: «Salve. Sbaglio o tra poco è prevista una riunione dell’Associazione proprietari?».

«È esatto» si affrettò a confermare la Rosenbaum nel solito tono.

Joaquin lanciò a Evan un’occhiata del tipo «Mi spiace, fra-tello» e le porte dell’ascensore finalmente scattarono. Il profu-

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mo della Rosenbaum nello spazio ristretto della cabina dava alla testa.

Non ci volle molto perché l’anziana signora rompesse di nuovo il silenzio. «Tutti con la faccia perennemente incollata a quei maledetti telefonini» si lamentò rivolta a Mia. «Il mio Herb, pace all’anima sua, lo diceva sempre: “Un giorno o l’al-tro la gente comincerà a parlare con gli schermi e non avrà più bisogno di altri esseri umani”».

Mentre Mia annuiva paziente, l’ascensore si mosse ed Evan ab-bassò lo sguardo sul piccolo Peter. Gli occhioni sgranati risplende-vano neri come il carbone. I capelli biondi erano fini e liscissimi, a parte una ciocca sulla nuca che si arricciava all’insù sfidando la forza di gravità. Aveva un coloratissimo cerotto proprio al centro della fronte e stava fissando il piede sinistro di Evan. In effetti – si accorse in quel momento – sentiva fresco alla caviglia. Ma certo, era per via del calzino mancante! Sotto lo sguardo indagatore del piccoletto, Evan fece un mezzo passo di lato.

Nel frattempo Mia aveva parlato. A giudicare dalla sua espressione doveva avergli appena rivolto una domanda. La guardò. Una spruzzata di lentiggini sul naso, talmente pallide da risultare quasi invisibili, la fronte alta incorniciata da una folta chioma castana, lucida e disordinata. Fedele come sempre al look tipico della madre single trafelata, le calze smagliate, il portapranzo di Batman nella mano destra e la borsa del com-puter a tracolla.

«Prego?» domandò Evan, trovandola improvvisamente di-versa nella luce intensa dell’ascensore.

«Dicevo» ripeté lei scompigliando affettuosamente i capelli di Peter «che la vita sarebbe noiosissima senza altri esseri umani a complicarcela un po’. Non trova anche lei?».

«Concordo» rispose Evan, scollando impercettibilmente la manica bagnata dalla pelle lacerata del braccio.

«Mamma? Mamma, mamma, mi si sta staccando il cerotto».

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«Ecco, appunto» disse Mia alla signora Rosenbaum, che però non le restituì il sorriso. Si mise a frugare nella borsa. «Ho la scatola qui da qualche parte».

«Quelli dei Muppet» specificò Peter, la voce bassa e roca, insolita in un bambino di appena otto anni. «Voglio Kermit, mamma».

«Kermit lo hai messo questa mattina. Miss Piggy può an-dare?».

«No, Miss Piggy non la voglio. Gonzo».«Trovato!».E così, mentre Mia cambiava il cerotto a Peter fermandolo

bene con i pollici e gli scoccava un bacio in fronte, Evan ne approfittò per sbirciarsi la manica.

Il sangue aveva impregnato il tessuto, e in quel punto il nero della felpa era più scuro.

Cambiò posizione e dalla busta di carta che teneva appog-giata sul fianco giunse il suono metallico dei silenziatori. Sul sacchetto era apparsa una chiazza umida – il calzino insangui-nato. Posò la busta a terra con la parte macchiata rivolta verso la parete.

«Evan, dico bene?». Mia pareva decisa a fare conversazione. «E mi dica, di cosa si occupa?».

«Importazione».«Ah, e di che cosa nello specifico?».Lanciò un’occhiata all’indicatore luminoso dei piani. Quel-

la sera l’ascensore saliva lento come una lumaca. «Forniture per pulizie industriali. A uso di alberghi e ristoranti».

Mia appoggiò la schiena alla parete. Indossava una giacca dall’aria vissuta e il bottone mancante all’altezza del petto of-friva un generoso scorcio della sua scollatura.

«Be’, non mi chiede che lavoro faccio io?». Il tono era alle-gro, con una punta di malizia. «È così che funzionano le con-versazioni, di solito».

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Procuratore distrettuale, terzo livello, tribunale di Torrance. Vedova da cinque anni e qualcosa. Qualche mese prima, con quel che restava dell’assicurazione sulla vita del marito, si era comprata un piccolo appartamento al dodicesimo piano.

Evan stirò le labbra in un sorriso forzato. «E lei, di cosa si occupa?».

«Io sono» scandì ironica Mia «procuratore distrettuale. Dun-que bada a come ti comporti!». Era passata al “tu” con naturalez-za. Evan si produsse in un’esclamazione che sperava appropriata alle circostanze. Peter, intanto, gli stava di nuovo fissando la ca-viglia incuriosito.

L’ascensore si fermò al settimo piano, affollandosi di con-domini provenienti dalla cosiddetta “social room”. «Ottimo, ottimo» commentò Hugh Walters, il presidente dell’Associa-zione proprietari, grande appassionato di monologhi. «Sono contento che siamo in tanti. L’occasione è importante. Oggi voteremo per decidere quali bevande servire al mattino nella hall».

«Purtroppo temo di non…» provò a schermirsi Evan.Hugh lo ignorò. «Decaffeinato o normale? È questo il di-

lemma».«Ma qualcuno beve ancora il decaffeinato?» intervenne gar-

rula Lorilee Smithson, del 3f, una terza moglie, che dopo anni di devozione alla chirurgia estetica, vantava un aspetto decisa-mente felino.

La Rosenbaum sbottò. «Che razza di domande! Mai sentito parlare di ipertensione?».

«Dacci un taglio, Ida» cinguettò Lorilee. «Quando la smet-terai di guardarmi dall’alto in basso solo perché sono bella?».

«Ti sbagli, mia cara. Se ti guardo dall’alto in basso è perché sei stupida».

«Io dico che dovremmo servire kombucha» saltò su Johnny Middleton, dell’8e. Sulla quarantina, la chioma rada e stentata

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tipica di chi ha subito un trapianto di capelli, si era trasferito lì qualche anno prima per stare accanto al padre rimasto vedovo. Indossava come sempre una tuta da ginnastica con il logo del corso di arti marziali che seguiva – e di cui parlava incessan-temente. «Contiene probiotici e anticorpi. Decisamente più sano del decaffeinato». Le porte si richiusero al quarto tentati-vo ed Evan si ritrovò schiacciato contro la parete di fondo. Gli pizzicava la pelle e sentiva il sangue ribollirgli per l’impazienza. Nelle situazioni ad altissimo rischio o durante gli scontri arma-ti poteva contare su un notevole self-control, ma le chiacchiere da bar di Castle Heights lo mettevano a durissima prova. An-che Mia alzò gli occhi al cielo mentre estraeva dalla borsa un muffin ai semi di papavero e lo addentava di gusto.

«È da un po’ che non dice la sua opinione su questo gene-re di questioni, signor Smoak» intervenne Hugh Walters nel solito tono altezzoso. Lo sguardo, dietro la montatura tanto antiquata da essere quasi tornata di moda, era severo. «Avanti, si esprima!».

Evan si schiarì la voce. «Personalmente… sento di poter fare a meno del kombucha».

«Forse se ti allenassi un po’, ogni tanto, invece di occuparti tutto il giorno di scartoffie, la vedresti in modo diverso» si in-dignò Johnny, strappando una risatina imbarazzata a Lorilee e occhiatacce di rimprovero agli altri.

A corto di pazienza, Evan abbassò lo sguardo constatando che la macchia sulla manica andava allargandosi pericolosa-mente. Incrociò le braccia per coprirla. 

«La tua felpa» bisbigliò Mia allungandosi verso di lui e por-tando con sé un lieve e gradevole sentore di citronella. «È ba-gnata».

«Ho avuto un piccolo incidente poco fa, in macchina» disse Evan. E, dato che continuava a fissargli la manica, aggiunse: «Succo d’uva».

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«Succo d’uva?».L’ascensore si fermò di colpo.«Ehi!» esclamò Lorilee. «Che succede?».La Rosenbaum non perse l’occasione di lanciarle una delle

sue frecciatine acide. «Magari hai attivato l’allarme con le tue labbra a canotto!».

I condomini scalpitavano nervosi come buoi in un recinto troppo stretto. Peter, accovacciato in quella selva di gambe e di scarpe, sollevò il lembo del pantalone sulla caviglia nuda di Evan. Lui ritrasse bruscamente il piede, e così facendo colpì il sacchetto di carta. Uno dei silenziatori rotolò sul pavimento della cabina.

Peter lo fissò per un istante a occhi sbarrati prima che Evan riuscisse a recuperare l’arnese metallico e a rimetterlo nella busta.

«Peter» intervenne Mia. «Alzati, non si sta per terra. Che ti salta in testa?».

Peter obbedì imbarazzato.«Mi era caduta una cosa» disse Evan. «E lui me l’ha rac-

colta».«Una cosa, cosa?» si informò Johnny.Evan decise che era meglio lasciar correre e fingere di inter-

pretarla come una domanda retorica. Alla fine Johnny sbloccò la leva di emergenza e l’ascensore

ricominciò a salire lentamente. Arrivati al decimo piano Hugh tenne aperte le porte e attese finché non furono scesi tutti. Guardò Peter e poi Mia. «Ne deduco che non ha nessuno che le guardi il bambino».

Le donne presenti si scambiarono occhiate eloquenti.«Sono una madre single» disse Mia semplicemente.«Il regolamento tuttavia parla chiaro, durante le riunioni

non sono ammessi bambini».«E va bene, Hugh». Mia sfoderò un sorriso abbagliante.

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«Vorrà dire che farà a meno del mio voto sulla questione bego-nie nell’area piscina».

Hugh si accigliò e si avviò con gli altri per il corridoio. Evan si voltò per rientrare nell’ascensore con Mia e Peter, ma la Ro-senbaum gli strinse di nuovo il braccio all’altezza della ferita aperta. «Andiamo» disse. «Lei ci vive in questo posto, ed è giu-sto che prenda parte alle decisioni come tutti gli altri».

«Mi dispiace» si sottrasse Evan. «Ma devo proprio tornare alle mie scartoffie».

Si liberò dalla presa e in quel momento si accorse che la si-gnora aveva i polpastrelli sporchi di sangue. Le offrì una stretta di mano per poterle asciugare le dita senza che lei se ne accor-gesse.

Nell’ascensore, Mia rimpacchettò gli avanzi del muffin e li rimise in borsa con un sospiro rivolto al soffitto. Proseguirono la corsa in silenzio, Evan con in mano la busta girata in modo da coprire la macchia e con la caviglia nuda e il braccio ferito rivolti verso la parete. Peter teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Raggiunsero il dodicesimo piano, Mia salutò e suo figlio la seguì. Le porte scattarono pronte a richiudersi, ma all’ultimo minuto una piccola mano si intrufolò a impedirglielo.

Spuntò la faccia di Peter, l’espressione serissima in contrasto con l’allegra smorfia di Gonzo sulla sua fronte. «Grazie per avermi coperto» bisbigliò.

Prima che Evan potesse rispondere, le porte si chiusero de-finitivamente.

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