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310 Andrea Palladio, nella Scrittura intorno al model- lo di Ludovico Beretta per il duomo di Brescia, per convincere i Deputati sopra le fabbriche del- la città lombarda del vantaggio di realizzare in pietra cotta i pilastri, le volte e le altre parti del nuovo tempio, chiude l’argomento sostenendo che “le fabriche si stimano più per la forma che per la materia” 1 . È un’affermazione illuminante, che dà ragione di un intimo convincimento di Andrea: nessuna ricchezza di materiale o dispie- gamento di preziosità può far aggio sul partimen- to ragionato della fabbrica, sul controllo rigoroso degli elementi formali, compositivi e spaziali del- l’edificio. Si tratta di una dichiarazione che tutta- via non va intesa in senso riduttivo, quale dimo- strazione di disinteresse o peggio di indifferenza del maestro vicentino verso la sostanza fisica del- l’architettura. Del resto molte sue fabbriche mo- strano come egli abbia saputo impiegare sapien- temente ai propri fini espressivi materiali, tecni- che costruttive, articolazioni strutturali. Tra que- ste spicca il Convento della Carità, la prima ope- ra veneziana di Andrea Palladio. Le vicende del complesso sono note 2 . Ai nostri fini basterà ricor- dare che intorno al 1560 i Canonici Lateranensi affidarono all’architetto il compito di riedificare la loro sede conventuale, in un’area del sestiere di Dorsoduro prossima al Canal Grande. Nel pro- gramma edilizio della congregazione Palladio colse l’occasione per dar corpo ad un suo intento ambizioso: offrire una propria interpretazione della casa “de gli Antichi”. La planimetria del complesso, riprodotta nei Quattro Libri specular- mente rovescia e con l’introduzione di alcune re- golarizzazioni 3 , si doveva articolare in un grande Atrio, con colonne giganti e impluvium centrale, affiancato da due ambienti simmetrici, l’uno de- stinato a sala del Capitolo, l’altro, il Tablino, adi- bito a sacrestia e collegato ai piani superiori da una grande scala ovata. Di seguito si collocava il chiostro conventuale, o Peristilio, e ancora, pro- cedendo sull’asse longitudinale, dopo una terraz- za scoperta che montava sulle arcate del primo ordine del chiostro e che scavalcava una stretta calle, un grande refettorio, oltre il quale si dove- va aprire un secondo chiostro, fiancheggiato da altri ambienti di servizio e da un giardino. Solo un frammento della grande fabbrica venne realiz- zato: l’Atrio, devastato da un incendio nel 1630, il Tablino, la scala ovata e uno dei quattro lati del Peristilio. Difficoltà economiche, la peste del 1575 e la rapida decadenza della congregazione condussero dapprima all’interruzione del pro- gramma edilizio, poi al suo definitivo abbandono. Indemaniato alla fine del XVIII secolo, per alcu- ni anni quartiere delle truppe francesi e austria- che, il convento venne destinato nel 1807 a sede della nuova Accademia di Belle Arti e della pina- coteca che si stava allestendo con le spoliazioni delle chiese e dei monasteri veneziani. Per adat- tarlo ai nuovi usi e funzioni intervennero gli ar- Mario Piana Il Convento della Carità: materiali, tecniche, strutture 1. Cortile del Convento dei Lateranensi alla Carità, Venezia (foto Alinari 32.062).

Palladio Costruttore 7 Il Convento Della Carità - Materiali, Tecniche, Strutture

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Page 1: Palladio Costruttore 7 Il Convento Della Carità - Materiali, Tecniche, Strutture

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Andrea Palladio, nella Scrittura intorno al model-lo di Ludovico Beretta per il duomo di Brescia,per convincere i Deputati sopra le fabbriche del-la città lombarda del vantaggio di realizzare inpietra cotta i pilastri, le volte e le altre parti delnuovo tempio, chiude l’argomento sostenendoche “le fabriche si stimano più per la forma cheper la materia”1. È un’affermazione illuminante,che dà ragione di un intimo convincimento diAndrea: nessuna ricchezza di materiale o dispie-gamento di preziosità può far aggio sul partimen-

to ragionato della fabbrica, sul controllo rigorosodegli elementi formali, compositivi e spaziali del-l’edificio. Si tratta di una dichiarazione che tutta-via non va intesa in senso riduttivo, quale dimo-strazione di disinteresse o peggio di indifferenzadel maestro vicentino verso la sostanza fisica del-l’architettura. Del resto molte sue fabbriche mo-strano come egli abbia saputo impiegare sapien-temente ai propri fini espressivi materiali, tecni-che costruttive, articolazioni strutturali. Tra que-ste spicca il Convento della Carità, la prima ope-ra veneziana di Andrea Palladio. Le vicende delcomplesso sono note2. Ai nostri fini basterà ricor-dare che intorno al 1560 i Canonici Lateranensiaffidarono all’architetto il compito di riedificarela loro sede conventuale, in un’area del sestiere diDorsoduro prossima al Canal Grande. Nel pro-gramma edilizio della congregazione Palladiocolse l’occasione per dar corpo ad un suo intentoambizioso: offrire una propria interpretazionedella casa “de gli Antichi”. La planimetria delcomplesso, riprodotta nei Quattro Libri specular-mente rovescia e con l’introduzione di alcune re-golarizzazioni3, si doveva articolare in un grandeAtrio, con colonne giganti e impluvium centrale,affiancato da due ambienti simmetrici, l’uno de-stinato a sala del Capitolo, l’altro, il Tablino, adi-bito a sacrestia e collegato ai piani superiori dauna grande scala ovata. Di seguito si collocava ilchiostro conventuale, o Peristilio, e ancora, pro-cedendo sull’asse longitudinale, dopo una terraz-za scoperta che montava sulle arcate del primoordine del chiostro e che scavalcava una strettacalle, un grande refettorio, oltre il quale si dove-va aprire un secondo chiostro, fiancheggiato daaltri ambienti di servizio e da un giardino. Soloun frammento della grande fabbrica venne realiz-zato: l’Atrio, devastato da un incendio nel 1630, ilTablino, la scala ovata e uno dei quattro lati delPeristilio. Difficoltà economiche, la peste del1575 e la rapida decadenza della congregazionecondussero dapprima all’interruzione del pro-gramma edilizio, poi al suo definitivo abbandono.Indemaniato alla fine del XVIII secolo, per alcu-ni anni quartiere delle truppe francesi e austria-che, il convento venne destinato nel 1807 a sededella nuova Accademia di Belle Arti e della pina-coteca che si stava allestendo con le spoliazionidelle chiese e dei monasteri veneziani. Per adat-tarlo ai nuovi usi e funzioni intervennero gli ar-

Mario Piana Il Convento della Carità: materiali, tecniche, strutture

1. Cortile del Convento dei Lateranensi alla Carità, Venezia (foto Alinari 32.062).

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chitetti Giannantonio Selva e Francesco Lazzari,che operarono non poche trasformazioni, anchenelle parti palladiane, alterandone lo stato fino al-lora mantenuto.

“Questo edifizio è tutto fatto di pietre cotte,cioè mattoni, salvo le base delle colonne, i capi-tegli, l’imposte degl’archi, le scale, le superficiedelle cornici e le finestre tutte e le porte”4, se-gnalava già il Vasari, che aveva probabilmente vi-sitato il cantiere nel corso del suo breve soggior-no veneziano del maggio 1566. L’annotazione,del tutto pertinente, coglie nel ruolo dominantesvolto dal laterizio il principale carattere costrut-tivo dell’edificio. L’argilla appare non solo comemateriale costitutivo delle varie muraglie e mem-brature della fabbrica, com’era d’uso comune aVenezia, ma è anche impiegata, quale sostitutodella pietra, per formare buona parte degli stessielementi dell’ordine. Fusti di colonne, architravi,fregi, cornici, fasce modanate sono realizzati inlaterizio, modellato con ammirevole precisione erifinito con un sottilissimo strato di cromia rossa.In cotto si articola l’intera architettura del Peri-stilio (ill. 1), punteggiata da qualche rado ele-mento lapideo. In cotto sono realizzate le trabea-zioni che ornano la facciata esterna del comples-so sul rio Terà di sant’Agnese (ill. 2), eccetto imodiglioni e il gocciolatoio della cornice corin-zia intagliati in calcare istriano, le metope rivesti-te d’intonaco rossastro5, i fregi ionico e corinzio,il primo intonacato in coccio pesto, il secondo inmarmorino biancastro dotato di una fascetta pe-rimetrale levigata, ad imitazione della cordellinache usualmente borda gli spigoli dei conci lapideisquadrati. Ugualmente in cotto è formata la tra-beazione contratta della Sacrestia, recentementeliberata dalle scialbature biancastre che ne cela-vano la vera sostanza6, ad esclusione dei brevi

tratti che si sviluppano dalle colonne alle pareti(ill. 3), e nello stesso materiale dovevano offrirsialla vista i due pilastri accoppiati alle colonne, orarivestiti di marmo veronese7.

Anche una parte dell’Atrio scomparso era dicostituzione laterizia: di certo gli otto fusti dellecolonne, di raffinata esecuzione8, sicuramente al-cune delle fasce modanate che ornavano il gran-de ambiente. Sulla parete dell’ala palladiana con-tigua alla chiesa infatti si conserva ancora unframmento di cornice in cotto (ill. 4), compostada una gola rovescia, una teoria di dentelli, unovolo, un listello9. Pesantemente manomessa nelNovecento dall’apertura di tre finestre, nelle pro-porzioni delle modanature essa appare compati-bile con quelle che dovevano essere le dimensio-ni dell’ordine gigante. Il listello misura 2.5 centi-metri di altezza, l’ovolo, formato dall’accoppia-mento di due conci laterizi sovrapposti, circa 12.5centimetri, i dentelli 13 centimetri, la gola rove-scia 9.7 centimetri; il frammento è superiormen-te concluso da uno sporto protettivo di normalimattoni. L’altezza complessiva delle modanature(va però tenuto conto che gli elementi sono statirimurati con spessori di malta di poco superioririspetto a quelli antichi) è di circa 39 centimetri.Se tale misura viene posta in relazione con leproporzioni della trabeazione dell’ordine corin-zio fissate nei Quattro Libri10, ove la successioneintavolato – la gola rovescia – dentelli e ovolorappresenta i 3/8 della cornice, la quale è a suavolta pari ai 5/12 della trabeazione, si ricava unadimensione di circa 249.5 centimetri, coinciden-te di fatto con l’altezza della trabeazione dell’A-trio della Carità indicata nel trattato: 7 piedi, pa-ri a 243.5 centimetri se calcolati in misura vene-ziana, a 245 centimetri se calcolati colla misuravicentina offerta nel trattato stesso11. La sua col-

2. Dettaglio della trabeazione dorica in materiale laterizio del prospetto sul rioterà di sant’Agnese (foto Böhm).

3. Attacco tra parte laterizia e lapidea della cornice trabeata del Tablino (foto Böhm).

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locazione altimetrica inoltre parrebbe collimarebene con la quota dei dentelli interposti tra l’ar-chitrave e i modiglioni della trabeazione dell’A-trio (ill. 5) rappresentato nei Quattro Libri12, tan-to che, se non si fosse indotti alla cautela daglievidenti segni che indicano come tale frammentosia stato smontato e rimurato in età imprecisata13,si sarebbe senz’altro indotti a ritenerlo apparte-nente alla cornice del muro perimetrale sotto-stante il cassettonato ligneo dei lacunari.

È possibile che gli stessi capitelli compositidell’Atrio fossero in cotto dipinto di bianco, li-stati in pietra nel solo abaco. Gli appunti lasciatida Inigo Jones sulla sua copia dei Quattro Libriconservata nella biblioteca del Worcester Colle-ge indicano senza incertezze la natura lapidea deicapitelli14, ma non è da escludere che la sua vistasia stata tratta in inganno da una mimetizzazionecromatica del laterizio. Il sospetto emerge dall’e-same della “polizza delle pietre vive” del marzo1573, minuzioso elenco degli elementi lapideiforniti per la fabbrica da “mastro Antonio taglia-pietra de bisson a S. Vidal, et maestro Gierolimotesta grossa”, puntualmente riscontrabile nelleparti superstiti15. Nelle carte non è traccia alcunadei capitelli in pietra, mentre appaiono “li 8 Aba-chi delli capitelli delle colone dell’Atrio”. Che iltermine abaco non sia stato estensivamente usatoper indicare l’intero capitello appare evidente daun confronto tra i costi delle parti lapidee, rica-vabili dal documento. Il valore di un abaco del-l’Atrio è fissato in 29 Lire e 10 soldi16, quello del-

la relativa base in 133 Lire tonde17. Meno di unquarto, dunque: rapporto credibile nei terminidati, e per converso del tutto improbabile se in-dicasse quello intercorrente tra un intero capitel-lo composito e la sua base18. È ben vero che tal-volta i capitelli lapidei, se di dimensioni inusitate,venivano realizzati in più elementi. Quelli dellequattro semicolonne del prospetto della chiesa diSan Francesco della Vigna, ad esempio, limitan-dosi alle sole opere veneziane di Palladio, sonocomposti da un numero variabile di blocchi, as-semblati in opera con zeppe, arpesi e doroni me-tallici, mentre quelli dell’ordine maggiore inter-no di San Giorgio sono ricavati ognuno da treconci sovrapposti. Può anche darsi, quindi, che iCanonici si siano rivolti ad altri lapicidi per l’in-taglio delle volute e dei fogliami19; nel qual caso,però, andrebbe individuata una plausibile ragio-ne che giustifichi un affidamento degli abachi edei càlati a distinte botteghe di tagliapietra, datele ovvie complicazioni che sarebbero derivate datale ipotetica suddivisione operativa. Permanedunque l’eventualità, allo stato dei fatti peraltronon dimostrabile, che i capitelli dell’Atrio potes-sero essere modellati in terra cotta e dipinti adimitazione del materiale lapideo, come quelli piùtardi realizzati all’interno del tempio del Reden-tore o nel pronao del tempietto Barbaro a Maser.

La preferenza accordata al laterizio nella co-stituzione di elementi architettonici, voluta forseda una committenza tenuta al rispetto di regoledi modestia, quale segno di rinuncia all’esibizio-

4. Elementi superstiti di cornice dell’Atrio scomparso.

5. Atrio della Carità. Da Andrea Palladio, I Quattro Libri, Venezia 1570, II, p. 31.

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ne e alla sontuosità, dovette risultare ben conso-na e particolarmente aderente agli intendimenticostruttivi di Andrea Palladio, tanto da venire ri-proposta nello stesso torno d’anni dapprima nel-le cornici e finestre interne del Refettorio di SanGiorgio Maggiore, ora ricoperte da ridipinture,poi nella stessa chiesa benedettina. In mattoniarrotati è realizzata una parte del basamento e icornicioni esterni che corrono sui fianchi e itransetti; sempre in laterizio, ricoperto da unostraterello rosso di esile spessore, sono costituitii quattro arconi della nave maggiore sottostantila cupola e i due contigui ai catini del transetto,gli archi del presbiterio, la cornice del tamburodella cupola, gli archi delle navate, i corpi inter-ni delle finestre termali20. Anche in questo caso labicromia iniziale è stata cancellata con sovrappo-sizioni di ridipinture biancastre marcate da righepiù scure per mimare un apparecchio lapideo,ma è ben osservabile in numerosi punti grazie al-le cadute dello scialbo21.

Nel prospetto esterno sul rio Terà di sant’A-gnese e nel Tablino gli elementi laterizi dell’ordi-ne risaltano sulle superfici delle pareti, ricoperteda un rivestimento biancastro, definito stucco oterrazzetto nelle carte del XVI secolo ed ora notocol nome di marmorino (ill. 6). Composti da cal-ce e frammenti di pietra d’Istria, caratterizzati dauna grande accuratezza d’esecuzione e dai tratta-menti finali a base di olio di lino o di sapone e ce-ra cui erano sottoposti, i marmorini appaiono incittà a cavallo tra Quattro e Cinquecento, in pa-rallelo al diffondersi del nuovo linguaggio archi-tettonico. La ragione della rapida affermazione eimmensa fortuna che conosceranno nei secoli se-guenti va individuata nella capacità dei terrazzettidi evocare – talvolta di imitare pedissequamente –

6. Le pareti e le volte in marmorino del Tablino (foto Böhm).

aspetto e consistenza del materiale lapideo22. Nel-l’accoppiamento tra laterizio e marmorino pro-posto nel prospetto su sant’Agnese e nel Tablinosi può cogliere il rifiuto di un’ortodossia fino al-lora indiscussa dagli architetti del rinascimento edel classicismo veneto. La consueta gerarchia cheintercorreva tra il valore dell’elemento architet-tonico e il pregio del materiale viene qui contrad-detta. Nei due brani architettonici si instaura unarelazione di segno inverso: gli elementi dell’ordi-ne sono realizzati in cotto, materia ordinaria senon povera, destinata di norma alla realizzazionedelle ossature murarie, mentre le cortine lateriziesono ricoperte da uno stucco biancastro che donaloro la sembianza di muraglie lapidee.

La combinazione tra laterizio e pietra è impie-gata nel Peristilio, in accoppiamento con alcunepeculiari modalità di tessitura muraria, per sotto-lineare le valenze strutturali delle varie membra-ture. Quello che rimane è un solo lato dell’inclau-stro, eretto a partire dal 1561 e mai completato,pesantemente manomesso agli inizi dell’Ottocen-to con la demolizione dei voltatesta al pianterre-no, la ricostruzione dei tratti angolari, la sostitu-zione di molti elementi modanati e di numeroseformelle del fregio continuo a bucrani e rosette.Canonica appare la partitura del prospetto, “ilquale ha tre ordini di colonne uno sopra l’altro: ilprimo è Dorico, le colonne escono fuori de i pila-stri più che la metà: il secondo è Ionico, le colon-ne sono per la quinta parte minori di quelle delprimo: il terzo è Corinthio, & ha le colonne laquinta parte minori di quelle del secondo. In que-sto ordine in luogo de Pilastri vi è il muro conti-nuo, & al diritto de gli Archi de gli ordini inferio-ri vi sono fenestre che danno lume all’entrar nellecelle: i volti delle quali sono fatte di canne, accio-che non aggravino i muri”23. Dall’omogeneo im-paginato laterizio spiccano pochi inserti lapidei.Basi, capitelli, cimase delle cornici, stipiti di fine-stra e balaustrata della loggia (questa di fattura ot-tocentesca) sono in pietra d’Istria; ogni altra partedel prospetto, compresi i fusti, gli architravi, i fre-gi e le cornici, è in cotto, lavorato per rimanere avista e rifinito con una cromia rossa.

Opera austera, archeologizzante, di disegno“anacronisticamente classico”24, la facciata delchiostro si richiama nell’aspetto alle architetturein materiale misto del mondo antico. In partico-lare, sia per il suo insolito accostamento tra late-rizio e pietra, sia per alcune singolari articolazio-ni costruttive, trova precisa ispirazione in un mo-numento romano, la cosiddetta Crypta Balbi25, oportico di Pompeo (ill. 7). Rovina di cui riman-gono oggi pochi lacerti26, ma ben nota agli archi-tetti cinquecenteschi e rilevata anche da Andrea:tre sono i disegni palladiani ad essa dedicati, chene raffigurano la pianta (RIBA, XI/1), il registroinferiore del prospetto (RIBA, XI/2r), la sezione(RIBA, XI/2v). Nel chiostro veneziano tuttavia il

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modello antico non viene riproposto nel suo vol-to primitivo, bensì parafrasato, in bella copia,nella sua condizione di rovina; va ricordato infat-ti che la presenza quasi certa di rivestimenti mar-morei, intonaci e stucchi di finitura – che Palla-dio non poteva ignorare – celava in origine la va-rietà delle tessiture e la diversità dei materialidella Crypta Balbi27. Le sue spoglie articolazionicostruttive, prodotte dall’ingiuria del tempo, isuoi nudi paramenti strutturali privi di ogni rive-stimento vengono evocati nella Carità, ma ritra-scritti “in pulito”, cancellando ogni lacuna, cor-reggendo ogni asimmetria nella combinazionedei materiali, eliminando ogni incertezza o gros-solanità di tessitura.

I mattoni impiegati nell’erezione del Peristi-lio mostrano di essere stati spianati dopo la cot-tura, verosimilmente fregando con sabbie di na-tura silicea ed acqua almeno cinque delle sei fac-ce di ogni elemento, via via accostate ad un discodi legno rotante posto in orizzontale. La preci-sione geometrica delle facce così rettificate haconsentito di erigere un magistrale apparecchiomurario, quanto mai omogeneo e compatto, do-ve le assise sono ordinate con straordinaria rego-larità e lo spessore delle malte di allettamento si

contiene tra gli uno e i due millimetri. La perfe-zione degli sviluppi delle cortine è stata infine as-sicurata da un’ulteriore levigatura delle superfici,condotta a murazione conclusa. In qualche caso,sempre al fine di ottenere quella complanaritànelle facce e quella nettezza negli spigoli che unaproduzione per sola sformatura dei laterizi nonavrebbe consentito di raggiungere, il cotto è sta-to sagomato a taglio di sega. La conformazionead “L” dei conci dei dentelli della cornice dorica,ad esempio, risulta impressa per resecatura: dal-la parte anteriore destra di ogni mattone, inizial-mente rettangolare, è stato asportato un bloc-chetto di materiale, di ampiezza corrispondenteall’interspazio tra un dentello e l’altro e diprofondità pari alla sporgenza degli stessi dentel-li dal fondo. La precisione nella rotondità dellesemicolonne ed il perfetto andamento della ra-strematura sono stati raggiunti grazie ad unaprogressiva consunzione delle loro superfici,operata dapprima con raspe e lime, poi con pie-tre pomici o molari e infine, forse, con polveriabrasive (ill. 8). Ugualmente rifinite per mezzodi levigatura appaiono tutte le superfici curve,concave o convesse, delle modanature, ricorren-do forse, in analogia con le procedure applicatedai lapicidi, all’impiego di pietre molari intaglia-te a controsagoma, che hanno pareggiato e cor-retto le imperfezioni. Quella della levigatura delcotto non è una procedura tecnica messa a pun-to da Palladio; il sistema, comune a tutta l’areapadana, appare anche nelle più antiche fabbricheveneziane a noi pervenute28. Da tempo remoto inlaguna si era affermato l’uso, una volta compiutala murazione, di rifinire per mezzo di abrasione iparamenti laterizi, allo scopo di migliorare laprecisione di alcune articolazioni delle cortine.In taluni casi i mattoni risultano spianati uno aduno prima della messa in opera. La regolarizza-zione può interessare solo alcune facce, al fine dicostituire spigoli molto precisi e geometrica-mente definiti di lesene e riseghe29, o di realizza-re parti modanate particolarmente curate, comein quasi tutti gli edifici religiosi tre–quattrocente-schi. In altri casi, analogamente alla Carità, la le-vigatura appare applicata sulla totalità delle faccedei conci esterni, consentendo la formazione diparamenti di marcata regolarità, con giunti di al-lettamento di spessore infimo30. Viva in città pertutto il Quattrocento, tale raffinata tecnica deca-de completamente nell’età del classicismo, con leuniche ed isolate eccezioni del prospetto di palaz-zo Corner a San Polo, di alcuni ambienti al pian-terreno di palazzo Trevisan a Murano, della Ca-rità, di San Giorgio Maggiore, dei cornicioniesterni del Tempio della Visitazione a Pellestrina,per riapparire in qualche brano di architettura ot-tocentesca d’ispirazione medievale31.

Il distinto grado di abrasione subito dai mat-toni del Peristilio ha contribuito a differenziare il

7. Giuliano da Sangallo, Crypta Balbi (B.A.V., Codice Barberiniano, Vat. Lat. 4424, f. 4v.).

8. Dettaglio della tessitura laterizia di una semicolonna dorica del Peristilio. Sono visibili le impronte della raspa metallica impiegata per rifinire la rotonditàdel fusto.

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loro aspetto finale: il laterizio dei fusti delle se-micolonne, in particolare quello delle ioniche,mostra una maggiore irregolarità nell’impasto,con presenza di noduli, variegature e striaturedella materia, dovuto non solo all’impiego di ap-posite e distinte partite di laterizi curvi, ma ancheal lavorio della raspa metallica intervenuto nellefasi di raffinazione dei fusti, che ha comportatol’asportazione di una quantità non trascurabile dimateriale e la messa in luce del loro nucleo inter-no. Buona parte dei laterizi del chiostro mostrainfatti di essere stata prodotta con due tipi di ar-gille: uno strato superficiale, dello spessore varia-bile da pochi millimetri a un centimetro, d’impa-sto fine e compatto, che dev’essere stato spalma-to sulle pareti delle forme lignee, colmate poicon materiale più grossolano. Sui bucrani e le ro-sette del fregio dorico lo strato d’argilla ben raf-finata applicato ad umido sugli elementi appenasformati, al fine di poterne rifinire a stecca la mo-dellazione, ha prodotto nel tempo – in ragionedel diverso comportamento dei materiali, similima non uguali – il manifestarsi di microtensioniche hanno danneggiato le superfici, cui è statopurtroppo posto riparo nel primo Ottocento conestese sostituzioni delle formelle. Dei trentunobucrani ora esistenti nel fregio solo quattordicirisalgono al XVI secolo, appartenendo gli altridiciassette a formelle di sostituzione, quindici deiquali datati nell’orbita destra32.

Tutte le superfici laterizie del chiostro, analo-gamente a quelle del Tablino e del prospetto sulrio Terà di sant’Agnese, sono ricoperte da unostrato di colore rosso, variamente definito nelpassato come stucco rosso o sottile intonaco simi-le al mattone lisciato33. Purtroppo i resti della co-lorazione, “una sottilissima cartellina rossiccia,oramai pressoché consunta”34, sono stati cancella-ti forse del tutto dai restauratori ottocenteschi,nel tentativo di attenuare il contrasto tra parti an-tiche e rifacimenti: “E parlando delle parti tutte dicotto di nuovo costrutte, furono queste nelle lorcongiunzioni rettificate, e poscia per intiero levi-gate colla pietra pomice e collo stesso matton cot-to, usato per l’ultima pulitura, in luogo di acqua,l’olio di linseme, e ciò per conseguire quel sotti-lissimo intonaco rossiccio già ricordato dal Te-manza nella vita del Palladio. Questa pulitura, chein allora si limitò soltanto alle parti aggiunte, alpresente che si va a compiere del tutto il ristauro,di cui parliamo, verrà pur estesa sull’intiero pro-spetto, acciocché, anche per conto della tinta na-turale dei mattoni, possibilmente si accordi ilnuovo col vecchio edifizio”35. Difficile ora, tra ilacerti di cromia peraltro ancora sussistenti nelleparti modanate e nei sottosquadra delle trabea-zioni, discernere gli strati cinquecenteschi even-tualmente sfuggiti all’operazione da quelli pro-dotti dalla stessa sagramatura ottocentesca. Le in-dagini, comunque avviate, sugli strati cromatici

9. Rilievo della trabeazione dorica del Peristilio della Carità (Mario Piana).

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del Peristilio, non hanno fornito dati affidabili.Altre simili analisi compiute su campioni preleva-ti dalla trabeazione laterizia del contiguo Tablinoindicano come la colorazione del cotto, in questocaso quasi certamente originaria, sia dovuta a unasagramatura delle superfici36; è probabile perciòche anche i mattoni del Peristilio siano stati sot-toposti nel Cinquecento a tale politura finale.

Il trattamento delle superfici proposto nelPeristilio conserva memoria dei regalzieri, tantofrequenti nelle fabbriche lagunari del XIV e XVsecolo37. Diffuso nel medioevo anche nel restodella penisola e in vaste aree europee, il regalzierè un intonaco che riproduce una finta cortina la-terizia, dipinta a fresco su intonaco monostrato.Su un fondo rossastro applicato a larghe pennel-late si sovrappone la trama bianca delle fugature,la cui stesura appare spesso guidata da incisioniorizzontali tracciate a chiodo sull’intonaco anco-ra fresco in corrispondenza degli allettamentisottostanti, anche se non mancano esempi di fin-ti ammattonati caratterizzati da un passo d’assisediverso da quello delle murature di supporto38.Un distinto trattamento, basato sull’applicazionedi uno strato rosso a legante oleoso veniva riser-vato solo a quelle parti di articolazione murariasottoposte a levigatura, quali stipiti, bancali e ar-chi di finestre, rosoni, lesene, cornici o altri ele-menti sagomati, che non abbisognavano di unostrato d’intonaco per regolarizzare le superfici39.Ed è proprio tale trattamento che viene riesuma-to nel convento dei Lateranensi ed esteso – que-sta è la sola novità – alle intere superfici lateriziea vista. La pratica del regalzier, che metodica-mente celava con una finta cortina un vero para-mento laterizio, trovava giustificazione nella vo-

lontà di uniformare per colore e per trama le su-perfici delle fabbriche. Lo richiedeva la marcatavariabilità dei paramenti murari, edificati conpiere cote dalla cromia inevitabilmente diversa, e,talvolta, lo imponeva la compresenza di laterizidal differente formato, per la diffusa pratica delreimpiego di materiali provenienti da edifici de-moliti o dati i lunghi periodi intercorsi tra l’avvioe il completamento delle costruzioni, in qualchecaso talmente dilatati da abbracciare i contestua-li mutamenti delle misure dei mattoni. Lo stessoruolo, in sostanza, giocato dalla cromia della Ca-rità. Oggi, con la perdita quasi completa della fi-nitura, balzano agli occhi variazioni sensibili dicolore: i corpi delle semicolonne, disseminati dinoduli e variegati nell’impasto, gli archi dell’or-dine dorico, murati con mattoni paglierino chia-ro nettamente distinti da tutti gli altri laterizi piùscuri e rosati del registro, le formelle del fregio,variamente sfumate in rosso, giallo, bruno. Sbal-zi sensibili di tono e impasto si osservano inoltresu singoli mattoni della parete archeggiata, nonrilevabili nel paramento del terzo ordine, piùomogeneo nella composizione. Oltre che per lesue indubbie funzioni protettive la sottile finitu-ra rossa è dunque stata applicata per attenuare levariazioni materiche e cromatiche dei lateriziimpiegati, dovute agli inevitabili scarti nelle ca-ratteristiche delle varie partite di fornitura e aidistinti gradi di abrasione subiti dai mattoni.

La presenza nel Peristilio di un motivo strut-turale insolito per l’architettura cittadina consen-te di avanzare qualche altra considerazione sullasensibilità e gli intendimenti costruttivi di Andrea.Sulla facciata del chiostro corrono due linee dipiattabande, a formare il corpo delle architravi do-rica e ionica (ill. 9). Ognuna di esse è composta dadue file laterali di mattoni inclinati, murati a giun-ti paralleli, e da un gruppo centrale di laterizi sa-gomati a cuneo. Per ragioni di semplicità realizza-tiva tale orditura è stata preferita all’altro possibi-le sistema di composizione del motivo strutturale,anche se più razionale e staticamente efficace, cheprevede la progressiva variazione dell’inclinazionedei giunti, convergenti su un unico fuoco. Unamurazione a giunti convergenti delle piattabandeavrebbe obbligato alla preparazione di una serieconsiderevole di stampi per la produzione di mat-toni a cuneo40, pari quasi all’intera somma delle al-tre forme presenti nella fabbrica. Il conto, qui li-mitato per comodità al solo ordine dorico, è pre-sto fatto. Essendo ogni piattabanda dell’architravecomposta da ventiquattro elementi laterizi, permetà speculari gli uni agli altri, si sarebbero dovu-ti predisporre diciotto stampi diversi, sei per pro-durre i dodici mattoni posti a coltello e dodici perprodurre i ventiquattro mattoni posti in chiave.La somma di tutte le altre forme usate per com-porre il registro inferiore della facciata ammonta aventitré: una relativa alla colonna, tre alla cortina

10. Tessitura dell’architrave corinzia del Peristilio.

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muraria, cinque all’arco, cinque all’architrave, treal fregio (non conteggiando la prima formella diproduzione non seriale posta sullo spigolo sini-stro, e la trentatreesima, separata in due parti,contenente il monogramma della congregazionedei Canonici Regolari e il millesimo di costruzio-ne), sei, infine, alla cornice41. Nell’orditura a giun-ti paralleli prescelta invece due soli stampi sonobastati per produrre tutti i laterizi necessari: unoper quelli posti a coltello, l’altro per quelli posti inchiave, e le complicazioni sono state circoscritte alsolo lavorio di adattamento a cuneo dei tre–quat-tro mattoni centrali.

Il cortile della Carità rappresenta uno dei raricasi di applicazione in ambito lagunare del moti-vo strutturale della piattabanda. A Venezia esso hasempre stentato ad imporsi come soluzione credi-bile, non è mai stato capace di conquistarsi unruolo stabile tra la gamma delle tecniche a cui ri-

correre nel bisogno. La ragione va quasi certa-mente individuata nelle scarse caratteristichemeccaniche dei suoli paludosi dell’estuario vene-to e nei conseguenti, inevitabili, assestamenti del-le varie membrature delle fabbriche, che rendeva-no quanto mai arduo ottenere una sufficiente sta-bilità delle spalle d’imposta, indispensabile all’e-quilibrio delle piattabande. Ricusata da proti e ar-tieri – fedeli senza dubbi o tentennamenti al tra-dizionale remenato di scarico42 – la piattabanda ap-pare solo sporadicamente nel sedicesimo secolo ecade poi nell’oblio più completo, per tornare inauge solo nell’Ottocento, reintrodotta in città dauna manualistica altrove elaborata. Pochissimi so-no i casi cinquecenteschi che ci sono noti a Vene-zia, e, fino alla metà del XVI secolo, non più diqualche decina nei domini della terraferma. Ilmotivo strutturale non rientra certo tra quelliprediletti dal classicismo veneto, anche se vieneimpiegato con una certa frequenza da MicheleSanmicheli43, Jacopo Sansovino44 e Andrea Palla-dio. Il sistema, a quanto ci è dato conoscere, vie-ne per la prima volta proposto dall’architetto vi-centino in villa Gazzotti a Bertesina, nelle archi-travi delle finestre sul retro, quelle risparmiatedalle pesanti manomissioni sofferte dal prospettorivolto alla campagna45. Nelle successive fabbri-che palladiane la piattabanda appare in una vastagamma di applicazioni: viene impiegata per sca-valcare luci dimensionalmente significative, comenel pronao di villa Foscari a Gambarare di Mira onel cortile interno di Palazzo Barbaran Da Portoa Vicenza, ad esempio, dove filari concatenati dipiattabande laterizie poggianti sulle colonne for-mano il corpo delle architravi, oppure per rita-gliare nelle pareti aperture a profilo rettilineo –quando vi è stata rinuncia a contornare i vani conbancali, stipiti ed architravi lapidee –, come neimotivi serliani di villa Poiana, o nelle finestre dipianterreno dei vicentini palazzi Thiene, Barba-ran, Iseppo, Valmarana. Tutti casi ove è lecitosupporre la presenza di piattabande laterizie, perquanto celate sotto intonaco, e non osservabili46.D’altra parte le soluzioni tecniche alternative allapiattabanda allora disponibili per concludere informa rettilinea un varco murario – porta, fine-stra, loggia o porticato che fosse – erano rappre-sentate dalle sole architravi lapidee o lignee (leune e le altre eventualmente coadiuvate da un su-periore arco ribassato interno alle murature), ilcui impiego, per una serie di indizi, può essereescluso negli edifici rammentati. Un perfetto do-minio della tecnica costruttiva della piattabanda,quello di Andrea Palladio. Una grande varietàd’applicazione, segnata però da una peculiarità: inquasi tutte le sue fabbriche la piattabanda si carat-terizza come tessitura dotata di valenze esclusiva-mente utilitarie e viene intesa quale mero appara-to strutturale destinato a scomparire sotto l’into-naco, o tutt’al più è vista come apparecchio mura-

11. Le piattabande delle architravi dorica e ionica (foto Böhm).

12. Data (1562) incisa nell’orbita destra di un bucranio (foto Dino Chinellato).

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rio da sbozzare, sagomare, incidere ed in ultimorifinire a stucco per imitare un monolite lapideo oun bugnato in pietra47.

Con ben altra pregnanza e significato, il moti-vo della piattabanda è invece proposto nel cortiledei Lateranensi. L’aggetto pronunciato delle ar-chitravi dorica e ionica, determinato dalla spor-genza delle colonne che fuoriescono della paretein misura superiore a quella del loro raggio, da so-lo non giustifica l’uso di una tessitura capace diautosostenersi, com’è quella a piattabanda. Il goc-ciolatoio della cornice dorica, ad esempio, chepossiede uno sbalzo di qualche centimetro più ri-dotto, ma dimensionalmente analogo e rapporta-bile a quello dell’architrave, è composto da concilaterizi a sbalzo, ammorsati nella muratura. I dis-sesti subiti dalla fabbrica del resto indicano che lepiattabande del cortile altro non sono, dal puntodi vista statico, che delle articolazioni a mensoladella parete. Quelle investite dalle due principalifessure che percorrono verticalmente l’intera fac-ciata mostrano di aver subito una separazionenetta tra la loro imposta e la relativa chiave lapi-dea di sostegno, con allontanamento sensibile deibordi di frattura, senza altro movimento48. Se talistrutture avessero sviluppato il lavoro che è pro-prio alle piattabande, si sarebbero dovuti conte-stualmente manifestare ulteriori cedimenti, perconsentire la conservazione, sia pure parziale, delcontatto tra il loro corpo e l’appoggio costituitodalle cadene in pietra. Ciò non si è verificato per-ché la stabilità delle architravi intessute a piatta-banda è nella realtà garantita dal loro legame e in-timo incastro con le cortine retrostanti.

Espressive, più che di natura statica, sono dun-que le ragioni dell’impiego della piattabanda nelchiostro della Carità. La loro presenza imprime

un senso di maggior solidità alla fabbrica, ma nonè stato questo – crediamo – il principale intento diAndrea Palladio, che ha voluto innanzitutto resti-tuire pieno significato strutturale ad una delle ar-ticolazioni fondamentali dell’ordine. La portanzadell’architrave, in altri termini, è stata didascalica-mente sottolineata per mezzo di una tessitura as-solutamente esplicita nel dichiarare il lavoro e lesollecitazioni in atto nell’elemento. Una volontàpalese, enunciata con ogni evidenza, che dà ancheragione della mancanza, a prima vista apparente-mente contraddittoria, della tessitura a piattaban-da nell’architrave corinzia (ill. 10). Il fatto puòcertamente derivare da scelte operate al di fuoridel controllo di Andrea: l’erezione dell’inclaustro,avviata nel 1561, non doveva aver superato dimolto il registro inferiore nel giugno dell’annosuccessivo, quando giunge a scadenza il suo con-tratto di soprastante alla fabbrica49, visto che la da-ta 1562, già segnalata dai restauratori ottocente-schi e di nuovo individuata nel corso di un recen-te intervento manutentivo, si rinviene incisa nel-l’orbita sinistra di alcuni bucrani (ill. 12) del fregiodorico50. A conferma di ciò è necessario conside-rare l’inveterata abitudine delle maestranze vene-ziane di offrire una prolungata pausa di riposo al-la fabbrica una volta realizzato un primo livello dispiccato, al fine di consentire al masso di fonda-zione gravato dal nuovo carico di assestarsi ulte-riormente sugli infidi terreni lagunari, col vantag-gio di una miglior stabilità nel prosieguo dellamurazione. Con maggior fondamento, tuttavia –e nella credibile ipotesi di una stretta fedeltà delcapomastro Antonio Paleari, cui era affidata la cu-ra materiale della fabbrica, al modello approntatodal maestro51 e alle prescrizioni da lui dettate – larinuncia del motivo a piattabanda nell’architrave

13. Una chiave lapidea d’imposta alle piattabande laterizie del Peristilio(foto Böhm).

14. Capitello e piattabanda laterizia del Peristilio (foto Meri Gallo).

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corinzia va anch’essa attribuita ad una meditatascelta linguistica, legata al cambio di passo com-positivo del terzo registro, risolto a parete piena,cadenzata da un telaio architettonico stiacciato,appena rilevato dal filo murario e di esile risaltovisivo. All’ordine superiore, in ciò confliggendocon le membrature sottostanti, è stato program-maticamente attribuito un puro significato deco-rativo: in tale contesto sarebbe di certo apparsoinopportuno e affatto contraddittorio ribadire laportanza dell’elemento architravato.

Singolare è la disposizione, o per meglio dire,la cadenza apparente impressa alle piattabandecontigue, ordinate sullo stesso ritmo, ma con ri-sultato difforme da quello prodotto dal modellocostruttivo antico da cui derivano. Se nella Cryp-ta Balbi al cotto delle piattabande dell’architravesi contrappone costantemente la pietra dellespalle, conci trapezoidali di travertino posti sul-l’asse delle colonne e degli archi, nel chiostro ve-neziano la materia delle spalle stesse si alternacon regolarità: laterizio sulle colonne, pietra d’I-stria sulle arcate. Ciò induce nell’osservatore unasingolare illusione ottica; le piattabande del Pe-ristilio, appaiono più che raddoppiate in lun-ghezza, simulano lo scavalcamento dei capitelli(bisogna avvicinarsi molto per cogliere in queipunti e gli attacchi di spalla e i mutamenti di tes-situra) e sembrano trovare appoggio solamentesulle cadene lapidee soprastanti la mezzeria degliarchi52, dove il cambio di materiale evidenzia inpieno la loro imposta obliqua (ill. 11). Ai nostrigiorni tale effetto visivo, a causa della scomparsaquasi totale del vivace strato rosso–bruno untempo presente sulle superfici laterizie, che esal-tava il contrasto col biancore degli inserti lapidei

e ribadiva il passo apparente delle piattabande,risulta in parte attenuato, per quanto ancora benapprezzabile. L’esito così ottenuto è di segno in-novativo. Nell’architrave della Crypta Balbi ilsostegno alle piattabande offerto in alternanzadagli archi e dalle colonne marca la stretta com-penetrazione tra parete e ordine; nel chiostrodella Carità, al contrario, dove le spalle dellepiattabande visivamente si distendono nel ritmo,mostrando di impostarsi grazie alle chiavi lapi-dee unicamente sulla muratura dei volti (ill. 13),è la sola parete archeggiata ad ostentare la pro-pria funzione portante nei confronti della tra-beazione, che dichiara di prevalere, quanto a si-gnificato strutturale, sul telaio dell’ordine. Nonpalesando di gravare sul capitello, suo naturaleappoggio, l’architrave così ritmata depotenzia lacolonna, sottraendole buona parte della sua va-lenza di elemento portante; e d’altra parte il so-stegno che la colonna mostra pur sempre di for-nire alla mezzeria della piattabanda – un contro-senso dal punto di vista statico – produce unospiazzamento visivo sottile e inquietante, checontribuisce non poco a far intendere la colonnastessa come appendice meramente decorativa,come semplice e dichiarato posticcio (ill. 14).

Nell’ufficio solo accessorio interpretato dallacolonna nell’impaginato del chiostro, a ben ve-dere, può essere individuata una delle chiavi usa-te da Palladio per porre in relazione la facciatainterna con quella ad essa simmetricamente op-posta, sul rio Terà di sant’Agnese. Due prospettiappartenenti allo stesso corpo di fabbrica, ma traloro antitetici nel linguaggio: tanto articolato,complesso ed eloquente il Peristilio, quanto so-bria, riduttiva e dimessa fin quasi a rasentare l’a-fasia, la muraglia esterna (ill. 15). Eppure la loroapparente lontananza viene smentita (al di là del-le scontate analogie: l’uguale sovrapposizionedegli ordini, i fitti rimandi altimetrici tra profiliinterni ed esterni, il ricorso al cotto nella costi-tuzione degli elementi architettonici) da un me-desimo intento espressivo, incline al sovverti-mento dei codici sintattici. In entrambi i pro-spetti si instaura un dialogo privilegiato tra la pa-rete e la trabeazione; nell’uno e nell’altro caso lacolonna viene relegata in posizione subordinatae marginale, mediante segni allusivi nel chiostrointerno, con esplicito gesto di ablazione nella pa-rete rivolta alla città, dove però la colonna stessa,pur assente materialmente, torna sotto specie dimisura proporzionale, riappare quale perentoriomodulo ordinatore delle fasce modanate.

Un indirizzo costruttivo, quello assunto nelconvento della Carità, che svela la perenne attitu-dine sperimentalista di Andrea; un procedere nel-le scelte edificatorie e nell’uso dei materiali anco-ra una volta rivelatore della sua tenace vocazionead agire al di fuori di qualsiasi preclusione, al di làdi ogni ortodossia.

15. Il prospetto del corpo palladiano sul rio Terà di sant’Agnese (foto Böhm).

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1. Pubblicato in: T. Temanza, Vita di An-drea Palladio Vicentino, Venezia 1762, (pp.XCIII–XCVII) p. XCV.

2. Sull’insediamento conventuale e le vi-cende vissute dai corpi di fabbrica palla-diani si rimanda a: E. Bassi, Il conventodella Carità, Vicenza 1971; Il complessopalladiano della Carità a cura di E. Bassi,Milano 1980.

3. Andrea Palladio, I Quattro Libri del-l’Architettura, Venezia 1570, II, VI, p. 30.

4. Giorgio Vasari, Le vite de’ piu eccellentiPittori, Scultori, e Architettori, [Firenze1568], a cura di L. e C. Ragghianti, Mi-lano 1971, IV, p. 579.

5. L’intonaco delle metope, di fatturaprimo ottocentesca con riprese successi-ve, era inizialmente realizzato in cocciopesto dipinto di rosso, come testimonia-to da alcuni residui individuati nel corsodell’ultimo restauro del prospetto com-piuto nel 1981. Sui criteri assunti e lemetodologie applicate in tale interventomanutentivo si rimanda a: M. Piana, Unaesperienza di restauro sugli intonaci venezia-ni”, in “Bollettino d’Arte del MBCA”, 6,1984, pp. 103–106.

6. “Nel tablino è in stucco tutto il goc-ciolatoio, che sembra di pietra serena,tanto la lavorazione è esatta”, scrivevaElena Bassi nel 1971 (Il Convento…, [cfr.nota 2], p. 53) e ancora nel 1980 (Il com-plesso, … cit. [cfr. nota 2], p.10) tratta ininganno dalla boiacca di cemento e sab-bia dipinta di bianco, rimossa nel 1984 inoccasione di un intervento di manuten-zione. Non si è ancora riusciti a precisa-re la data d’applicazione di tale strato,eseguito con l’evidente intento di imitaregrana, colorazione e aspetto superficialedella pietra d’Istria. Esso è comunqueposteriore al restauro del Lazzari. Lo in-dicano sia il legante cementizio impiega-to, allora sconosciuto, sia i frammenti dicromia rossa rinvenuti sul segmento dicornice a stucco corrispondente al trattomurario di chiusura della grande finestrache un tempo si affacciava sull’Atrio,tamponata per collocare l’attuale portaled’ingresso al Tablino: il completamentoera stato rifinito dai restauratori ottocen-teschi con un trattamento cromatico cheimitava il colore allora presente sulla re-stante trabeazione. Sulle due parti in pie-tra della cornice trabeata non vi è tracciadi colorazione rossa, forse completamen-te rimossa nei passati restauri; l’ipotesiche gli elementi lapidei fossero inizial-mente dipinti non è da escludere, data labrutalità dell’attacco tra cotto e pietra,invero eccessiva anche per le licenze chePalladio volentieri si concedeva. Le ope-razioni di restauro del Tablino, compiuteparte nel 1984, parte nel 1994, così comequelle di protezione e conservazione re-lative all’impaginato murario del Peristi-lio, realizzate nel 1994–95, sono state dame progettate e dirette, con l’aiuto diNatale Frattin, per conto del Ministeroper i Beni Culturali e Ambientali.

7. Le lesene vennero ricoperte con lastredi Rosso di Verona nel 1948, per omoge-neizzarle col materiale dei fusti delle colo-ne mandolate. Ricordando tale manomis-sione Elena Bassi commenta che “il Pal-ladio, ovviamente, prevedeva tutte le pa-reti uniformemente intonacate” (Bassi, Il

Convento…, cit. [cfr. nota 2], p. 77). Gra-zie allo smontaggio parziale delle tavolemarmoree operato nell’intervento del1984 si è constatato che il corpo dei fusti– aggrediti a scalpello per far posto allospessore delle lastre – è realizzato conmattoni levigati sulle facce di reciprococontatto e con giunti sottilissimi di malta:tecnica eccellente, nettamente distinta daquella applicata per innalzare le cortineadiacenti. Se le due lesene fossero stateconcepite per essere intonacate come lerestanti pareti sarebbe risultato del tuttoinutile murarle con una tessitura tantoraffinata. È comunque possibile che in etàantecedente la drastica operazione i fustiavessero subito la stessa scialbatura riser-vata alla trabeazione contratta.

8. “saepe contemplatus sum Venetiis cumsumma voluptate Atrium Graecum […]structum ab Andrea Palladio supra octocolumnas ordinis compositi; bases sunt èsaxo sine stylobatis, scapi aut corpora èmeris lateribus […]. Nunquam vidi tammagnificas columnas è saxo aut marmore:nam latere primum formati circulares, &dein antequam ururentur, caesi in quatuorpartes aut plures; quarum latera posteatam arcte junguntur, & cunei tam exacteconcurrunt in unum centrum, ut colum-nae ex uno saxo factas videantur”. HenryWotton, M. Vitruvi de Architectura libri de-cem… collecta, Amsterdam 1649, p. 13.

9. La persistenza del frammento è statasegnalata da Elena Bassi e documentatafotograficamente (Il Convento…, cit. [cfr.nota 2], Tav. LXVI). La didascalia cheaccompagna l’immagine parla generica-mente di “mattoni della terrazza che cir-condava l’impluvium”.

10. Palladio, I Quattro Libri…, cit [cfr.nota 3], I, XVII, p. 42.

11. Ibidem, II, II, p. 4. Nel Peristilio, a ri-prova, il solo ovolo confrontabile, pre-sente sulla cornice ionica, misura 7 cen-timetri, i dentelli che corrono su quelladorica 8.1 centimetri, le otto gole rove-sce delle trabeazioni, ricavate da cinquediversi stampi, procedendo dal basso al-l’alto misurano 5.8, 4 (quella immediata-mente sottostante i dentelli), 4.9, 4.9,6.2, 4, 6.2, 5.8 centimetri. Misure quasidimezzate rispetto a quelle delle moda-nature del frammento di cornice, comepressoché dimezzate sono le dimensionidell’ordine del Peristilio rispetto a quelleche doveva possedere l’Atrio.

12. Il bordo superiore dell’ovolo appar-tenente al frammento di cornice cade aduna quota pari – lo scarto misurato è in-feriore ai due centimetri – a quella del fi-lo d’attacco tra l’architrave e il fregio io-nico del chiostro: la stessa relazione alti-metrica che si può individuare ponendo aconfronto le tavole dell’Atrio e del chio-stro (II, VI, pp. 31 e 32).

13. La prova più evidente della ricompo-sizione del frammento di cornice dell’A-trio è data dalla natura cementizia dellemalte di allettamento.

14. “The Atrio is finish’d, the Columnsare of Bricks, with red Stucco, the baseand Capitals are of Stone, the Roof ofthe Gallery above The Entablature is ofTimber, and was paved with Bricks”.(Inigo Jones, Notes and remarks upon the

Plates of the second book of Palladio’s Archi-tecture, Oxford 1741, p. 71).

15. Archivio di Stato di Venezia (d’ora inpoi ASVe), Convento di Santa Maria dellaCarità, serie III, b. 6, “Polizze di lavori”(registrato in Sommario scritture al n.3116, c. non num.). Pubblicato in: Bassi,Il convento…, cit. [cfr. nota 2], pp. 138-141, doc. VIII.

16. “Per li 8 Abachi delli capitelli delle co-lone dell’Atrio, montano tutti L. 236 s. – ”Le 236 lire complessive corrispondono adun valore unitario di Lire 29 e soldi 10(Idem, c. 8v.).

17. Lire 93 l’una di sola fattura, cui van-no aggiunte Lire 40 di materiale (Ibid.).

18. I capitelli del Peristilio, a riprova,elementi sensibilmente ridotti nelle di-mensioni, intagliati solo per metà – i co-rinzi solo per un quarto – e di comples-sità non certo paragonabile a quelli del-l’Atrio, sono pur sempre stati pagati 19Lire e 2 soldi l’uno per le semicolonnedoriche, 31 Lire per quelle ioniche, 21Lire per le paraste corinzie, e le loro ba-si rispettivamente 31 Lire (Idem, c. 4v) ,26 Lire e 11 soldi, 7 Lire (Idem, c. 6v).

19. Per tale ipotesi sembra propendereElena Bassi: “E finalmente [nella “poliz-za”] si ricorda l’atrio dove sono state im-piegate varie pietre per le sotto basi dellecolonne e per cinque basi e per gli ottoabachi; non si citano gli otto capitelli, for-se affidati a scultori provetti o forse ese-guiti da chi aveva fornito anche le restan-ti tre basi di cui il documento non fa pa-rola. (Il convento…, cit. [cfr. nota 2], p. 49).

20. Dei laterizi rettificati usati nell’ere-zione di San Giorgio si rinviene traccianell’Accordo “del far la chiesa” dell’8 feb-braio 1567 (m.v.) tra i padri benedettini eil muraro Antonio Paleari di Marcò, lostesso capomastro impegnato nell’erezio-ne della Carità: “Il soprascritto M° Anto-nio promette e si obliga far tutte le mura-glie faran bisogno in detta chiesa com-prese anche nelli siti ora fatti delle fonda-menta insino in quella parte dove vi entrapietre fregade come altre et fare tutti lipilastri a valenghin come le colonne ettuti li volti di pietra cotta, sì nella partedove andrano soazadi et fregati comequelli andrano smaltadi, qual muraglie etvolti promette di far esso M° Antonio conogni diligentia dovendo smaltare essemuraglie dentro dove farà bisogno comedrio man di smaltadure et di fori livazzar-le dove farà bisogno […] Item si dechiarache li Padri siano obligati farli tagliar lepiere cotte et fregarli”. ASVe, S.GiorgioMaggiore, b. 21, carte sciolte. Pubblicatoin G.G. Zorzi, Le chiese e i ponti di AndreaPalladio, Vicenza 1967, p. 67, doc. 27.

21. Nelle ispezioni a distanza ravvicinatacondotte negli anni 1992–97 grazie allapresenza di ponteggi installati per re-staurare i telai e i manti vitrei delle fine-stre si è constatata al di sotto di varie ma-ni di scialbo la presenza su tutti gli ele-menti architettonici citati di una colora-zione rossa, integra e in ottime condizio-ni di conservazione. In tali occasioni so-no state aperte a bisturi delle finestrellesu qualche arco e finestra; ben visibili an-che dal basso sono quelle ricavate sullafinestra termale ovest del transetto sini-

stro. Le analisi condotte su frammenti al-lora prelevati hanno indicato che si trat-ta di una pittura a base di ocra rossa, pro-babilmente con legante oleoresinoso, ap-plicata direttamente sul laterizio levigatoo su un’imprimitura di preparazione abase carbonatica. Analisi si vanno ancoracompiendo per precisare meglio la natu-ra dei pigmenti e dei leganti dello stratorosso, dell’imprimitura e delle ridipintu-re; si sta tentando anche di individuare lapresenza di fumi e polveri di deposito at-mosferico eventualmente interposto trala pittura rossa e gli strati successivi, fat-to che consentirebbe di stabilire, sia purecon approssimazione e non poche incer-tezze, l’età della prima scialbatura. Ci siripromette comunque di tornare più dif-fusamente su tale argomento in altra oc-casione, quando saranno disponibili i da-ti completi delle analisi in corso.

22. M. Piana, Tecniche edificatorie cinque-centesche: tradizione e novità in Laguna, in“D’une ville à l’autre: structures matérielleset organisation de l’espace dans les villes eu-ropéennes (XIII-XVI siécle)”, atti del con-vegno École Française de Rome, Roma1989, p. 639. Per ulteriori informazionisui materiali e le tecniche esecutive deimarmorini e sulle loro proprietà chimico– fisiche si rimanda a: G. Biscontin – M.Piana – G. Riva, Research on Limes and In-tonacoes of the historical Venetian Architectu-re, in “Mortars, Cements and Grouts used inthe Conservation of Historic Buildings”, attidel Symposium ICCROM, Roma 1982,pp.359–371; G. Biscontin – M. Piana –G. Riva, Aspetti e durabilità degli intonaci“marmorino” veneziani, in “Restauro eCittà”, 3/4, 1986, pp. 117–126.

23. Palladio, I Quattro Libri…, cit. [cfr.nota 3], II, VI, p. 29.

24. Non si può che concordare con le va-lutazioni espresse sul “disegno […] ana-cronisticamente classico a metà del Cin-quecento non-classico” (J.S. Ackerman,Palladio, Torino 1972 [Harmondsworth1966], p. 156), sulla sobrietà e il decorodel cortile della Carità, opera “in armo-nia con la tradizione romano–repubbli-cana di Vitruvio o del Teatro di Marcel-lo”, per la quale “non si può parlare né di‘licenza’ né di ‘fantasia’” (J.S. Ackerman,Palladio: in che senso classico?, Prolusione alXXXV Corso sull’architettura di AndreaPalladio, Vicenza 1993, p. 18. Il testo èpubblicato anche in “Annali di Architet-tura”, 6, 1994, pp. 11 – 22).

25. Il ricordo dell’alzato dei Portici diPompeo nelle serraglie a cunei rovesciatidegli architravi del chiostro è segnalatoda G.G. Zorzi, Le opere pubbliche e i pa-lazzi privati di Andrea Palladio, Venezia1965, p. 245.

26. I resti della fabbrica – ora è visibilesolo la parte superiore di un’arcata delprimo ordine – per lungo tempo erro-neamente nota come Crypta Balbi ed og-gi conosciuta come Portico di Filippo, sirinvengono a Roma, in via de’ Calderarial civico 23/B, vicino a Piazza delle Cin-que Scole.

27. Nella testimonianza grafica forse piùdettagliata dello stato cinquecentesco delprospetto della Crypta Balbi a noi perve-nuta, tracciata da Giuliano da Sangallo(B.A.V., Codice Barberiniano, Vat. Lat.

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4424, f. 4v), solo l’arcata destra dell’ordi-ne inferiore mostra i paramenti costrutti-vi, mentre il resto della fabbrica è rico-perto da ampi tratti di intonaco, da stuc-chi, rilievi, fors’anche da crustae marmo-ree. Potrebbe trattarsi solo di una propo-sta arbitraria di completamento, ma nonè da escludere che il foglio rappresentiun’ipotesi ricostruttiva fondata sull’osser-vazione di frammenti all’epoca ancorapersistenti. In ogni caso il disegno attestala consapevolezza degli architetti cinque-centeschi che in origine le muraglie del-l’edificio erano concepite non per espor-re alla vista la loro nudità strutturale, maper fornire il supporto ad una finiturasuccessiva. Andrea Palladio peraltro,sempre nella Scrittura per il duomo diBrescia (vedi nota 1), nel sostenere la suaproposta di formare le membrature dellafabbrica parte in pietra, parte in laterizio,afferma: “perciochè tutto quello che saràdi pietra cotta si coprirà poi di stucco cheaccompagnerà et unirà benissimo unocon l’altro, onde tutta la fabbrica riusciràfortissima et bellissima, del che io ne pos-so rendere bonissimo testimonio dellefabbriche che ho visto, delle quali pochis-sime ne sono senza adornamenti, et tuttecoperte di stucco, et benchè sieno di mil-lecinquecento et più anni, nondimeno ilstucco è così bello come se fusse stato anostri tempi, siccome se ne vede in esse-re in tutti gli antichi tempi in Roma, inNapoli, et in molti altri luoghi, dove misono trovato, gli ornamenti dei quali so-no di stucco, come ho detto di sopra, etsono così belli et integri come se fusserofatti il giorno d’oggi, et dureranno finoche alcuno non li rompi a forza di mar-tello alla qual violentia nè anco la pietraviva, ancorchè durissima, può resistere”.

28. La levigatura delle superfici lateriziedopo la loro posa in opera può ad esem-pio essere osservata nelle nicchie absida-li di San Marco, nei dentelli delle corni-ci di Santa Fosca di Torcello o nell’absi-de di San Donato di Murano.

29. Sugli spigoli delle lesene esterne del-le chiese dei Frari e dei Santi Giovanni ePaolo si può rilevare la presenza di mat-toni arrotati sulle due facce visibili, posticon funzione di testimoni, a garanzia dibuon allineamento e a miglior guida del-la murazione.

30. Palazzo da Mula a Murano, nelle par-ti di facciata risparmiate da successivi in-terventi di sostituzione dei paramenti,rappresenta un caso esemplare di cortinamurata con laterizi dalle facce intera-mente spianate.

31. I corpetti anteriori di Ca’ Falier Ca-nossa a San Marco o la cinta muraria dipalazzo Donà Giovannelli a Cannaregiocostituiscono altrettanti esempi di para-menti ottocenteschi intessuti con matto-ni levigati prima della messa in opera.

32. Quattordici bucrani sono datati col1828, uno con solo le tre prime cifre delmillesimo. Ai diffusi sollevamenti di sca-glie, distacchi e cadute di materiale sof-ferti dalle formelle del fregio dorico si ètentato recentemente (1994–95) di porrerimedio con applicazioni di silicato dietile, un materiale dalla blanda capacitàconsolidante, ma di buona compatibilitàcon le caratteristiche chimico-fisiche dellaterizio.

33. “red Stucco” (Jones, Notes…, cit. [cfr.nota 14], p. 71); “Un intonaco sottilissi-mo rossiccio, forse manipolato a olio dilinseme, simile al mattone lisciato, coprele colonne, i pilastri ed ogni altra parte.Di per tutto sonvi segnati i conventi, chedistinguono i filari dei mattoni, e ciò contal diligenza, che ognuno tiene, che quel-l’opera sia senza intonaco” (Temanza, Vi-ta di Andrea Palladio…, cit. [cfr. nota 1],p. XVI).

34. F. Lazzari, Dell’edifizio palladiano nelmonastero della Carità ora porzione dell’Ac-cademia delle belle arti in Venezia, Venezia1835, pp. 8–9.

35. Ibidem, pp. 18–19.

36. Le analisi sono state curate dal dott.Roberto Bonomi, chimico dell’E.N.A.I.P.,Scuola di Restauro di Botticino, Brescia.

37. Il regalzier più antico fino ad ora no-to risale al XII secolo, individuato negliscavi archeologici appena conclusi nellachiesa di San Lorenzo a Castello; quellopiù tardo, caso oramai del tutto isolato,rifiniva le cortine laterizie esterne dellasettecentesca chiesa della Maddalena.

38. Un frammento di tale tipo, partico-larmente ben conservato, insiste su unalesena absidale della chiesa dei Carmini.Un diverso passo tra gli allettamenti del-la cortina muraria e le fughe dipinte delregalzier si riscontra anche sulle superficiinterne dei Frari, dei Santi Giovanni ePaolo, di Sant’Alvise, di Santo Stefano;per tali intonaci tuttavia le valutazionidevono essere avanzate con ogni possibi-le cautela in quanto sono stati abbondan-temente ripresi o interamente ricostruitinel corso di restauri otto–novecenteschi.

39. I sottilissimi strati di cromia rossa so-no ancora osservabili sulla stessa chiesadella Carità, e, solo per citare qualche al-tro esempio, nelle chiese dei Frari, deiSanti Giovanni e Paolo, di Santo Stefano,dei Carmini, della Madonna dell’Orto.

40. Un’alternativa di tessitura poteva an-che essere quella fondata sull’impiego diconci a facce complanari, convergenti suun punto d’origine comune; in tal caso,però, i forti spessori di malta che si sa-rebbero resi necessari per ovviare alla di-varicazione delle superfici di contatto trai blocchi d’argilla sarebbero stati mal tol-lerati dal resto delle cortine, murate conpulizia estrema.

41. A tanto ammonta la somma delle for-me laterizie presenti nell’ordine dorico,da noi conteggiata con l’ispezione ravvi-cinata delle membrature. Sul loro esattonumero permane comunque qualche in-certezza. È possibile che il corpo dellesemicolonne, ad esempio, non sia costi-tuito da un unico formato di mattoni: illavorio di lima e pietra molare (moltearee conservano i segni lasciati dalla ra-spa metallica, non del tutto cancellatidalle fasi successive di levigatura) effet-tuato dai costruttori per accompagnare larastrematura del fusto e condurre a per-fezione lo spianamento delle superficiimpedisce di rilevare le eventuali varia-zioni di pezzatura.

42. “Per sollevare l’ornato superiore del-le Porte e Finestre, od il solo architrave,

se sono semplici, dal carico del sovrappo-sto muro, si suol formare sopra l’archi-trave o cornice un arco scemo, aventetanto di corda, quant’è la luce del vano, ilquale da noi vien detto remenato.” (F.Lazzari, Compendio delle più interessantiregole di architettura teorico–pratiche, Ve-nezia 1830, p. 46).

43. Il motivo della piattabanda è tra l’al-tro presente nei palazzi Canossa e Lave-zola Pompei, in porta San Zeno e portaPalio a Verona, in palazzo Roncade a Ro-vigo, nella porta del Gesù a Candia, nel-le due cannoniere fiancheggianti l’in-gresso del mastio del forte di Sant’An-drea a Venezia.

44. Piattabande appaiono in alcuni por-tali laterizi del cortile e nelle architraviesterne ed interne, ricoperte d’intonaco,della sansoviniana villa Garzoni a Ponte-casale, in qualche finestra a San Martinodi Castello e sono state adottate con fi-nalità strettamente utilitarie nel cortileinterno del veneziano palazzo Corner al-la Ca’ Granda, dove una serie di piccolepiattabande impostate su mensole lapi-dee corre a sostegno del suolo e delle ba-laustrate del doppio pergolo continuo. Lemodeste dimensioni delle piattabandepresenti nel cortile di Ca’ Corner e la lo-ro forma ancora esitante (il tracciatoconserva qualche centimetro di monta alcentro), nulla tolgono alla novità del si-stema proposto, alternativo a quelli finoallora in vigore in area veneta, basati osull’impiego del legno nella formazionedegli elementi che sostengono gli agget-ti, o nell’applicazione diretta delle lastrepavimentali su mensole lapidee.

45. Ciascuna delle piattabande di villaGazzotti, edificata a partire dal 1542, ècuriosamente fortificata con ben due re-menati di scarico, una precauzione davve-ro superflua: esse, se stabili all’imposta –come in quel caso –, non traggono bene-ficio alcuno dall’essere sgravate. Si trattadi una possibile manifestazione d’insicu-rezza verso un accoltellato poco familia-re, non tanto all’architetto, quanto allemaestranze operanti nel cantiere: esecu-tori forse diffidenti nei confronti di unatecnica a loro estranea, poco disposti adar credito e quindi a far esclusivo affida-mento sulle capacità portanti di unastruttura dal comportamento non ancorasperimentato.

46. Una prova, indiretta, ma di sicuraevidenza, a sostegno di tale ipotesi è for-nita dalla presenza di una chiave lapideacuneiforme nell’architrave bugnato dellafinestra di pianterreno sul voltatesta dipalazzo Thiene, che in quel contesto nonpuò associarsi che a due filari laterali dimattoni accoltellati, murati in aggetto,intagliati a bugne e ricoperti d’intonaco.

47. Le eccezioni paiono essere costituitedalle sole piattabande lapidee delle fine-stre di pianterreno di palazzo Antonini aUdine.

48. Nel recente intervento tali fessure,che interessano gli archi della terza e laquinta campata a partire da sinistra, sonostate colmate per impedire dannose infil-trazioni di acqua piovana.

49. L’incarico di soprastante alla fabbricaassunto da Andrea Palladio, pagato con

“scudi 40 forestieri al anno”, dura dalprimo giugno 1561 al 31 maggio 1562(ASVe, Convento di Santa Maria della Ca-rità, serie I, b. 29; già Sala Regina Mar-gherita, LXXIV, 13). Pubblicato in: Zor-zi, Le opere pubbliche…, cit. [cfr. nota 25],p. 245, doc. 1).

50. Lazzari, Dell’edifizio…, cit. [cfr. nota34], p. 9. Due sono i bucrani marcati1562 all’interno dell’orbita destra, condata tracciata sull’argilla ancora fresca: ilsesto, e il sedicesimo a partire da sinistra,corrispondenti alla dodicesima e allatrentaduesima formella del fregio dorico.Francesco Lazzari nella sua “memoria”parla di “molti [...] teschi bovini” datati(Ibidem), riferendosi evidentemente an-che ad altre formelle, da lui sostituite.

51. “1561 adì 7 marzo / Messer AndreaPaladio Architetto die dar per scudi 10forestieri dati per il modello [...] 1561 adjprimo zugno / Messer Andrea contra-scrito die haver per il modello della fab-brica scudi 10 forestieri” (ASVe, Conven-to di Santa Maria della Carità, serie I, b.29 …, cit. [cfr. nota 49]).

52. Le spalle lapidee delle piattabandeappaiono nella “polizza delle pietre vive”del marzo 1573, cit.: “Per li Architravipezzi n. 8 quali fanno cadena sopra allivolti del primo ordine longhi pie 3 l’unosono tutti pie 24 a soldi 56 1/2 el piemonta Lire 67 soldi 16” (c. 3r num. nonorig.). “Per pezzi n° 7 che fano chiavedell’Architravo della cornise jonica longipie 3 l’uno, sono pie 21 tutti, a soldi *** ilpe, monta Lire 59 soldi 6” (c. 6v num.non orig.). (ASVe, Convento di Santa Ma-ria della Carità, serie III, b. 6, “Polizze dilavori”…, cit. [cfr. nota 15]). Il costo uni-tario, al piede, delle cadene dell’architraveionica, non indicato nel documento, è disoldi 56 1/2 circa. Il conto, dato il rap-porto di 20 soldi per ogni lira, è il se-guente: 59 lire e 6 soldi corrispondono a1186 soldi; tale cifra divisa per i 21 piedidà il risultato di soldi 56.47.