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Paola Volpini Storia moderna Ceti sociali in età moderna: dibattito sulla nobiltà. Possevino
Ceti sociali in età moderna: dibattito sulla nobiltà. Tiraqueau
Il Sacco di Roma Ludovico Dolce Vita dell’imperatore Carlo V, 1566
Poggio Bracciolini, Epistole, a Niccolò Niccoli I, XIII, ed. Tonelli, I, Firenze, 1832, p. 62”
“Io tuttavia, caro Niccolò, sono un po’ stanco di questa affannosa ricerca di nuovi libri.Sarebbe ormai tempo che mi svegliassi e che facessi in modo che mi servissero in qualcosa, per la mia vita, quei costumi di cui quotidianamente leggiamo. Infatti raccogliere ogni giorno pezzi di legno,pietre e cemento,potrebbe sembrare molto sciocco se non edificherai nulla con tutto ciò. Ma questo edificio che dobbiamo costruire per ben vivere è così arduo, difficile, faticoso, che a stento potrà essere compiuto, anche se cominciamo in età giovanile. Io, però per parlare di me, ne ho il proposito...”.
Testi su Scoperte geografiche
Raccolta completa degli scritti di Cristoforo Colombo Dalle Lettere (trascritte da Bartolomé de las Casas)
Venerdì 12 ottobre Approdai ad una piccola isola, detta nella lingua degli Indiani Guanahani. Tosto vedemmo gente affatto nuda. Scesi a terra […] Io presi in mano lo stendardo reale, e i due capitani [che lo accompagnavano] le bandiere della Croce Verde, che faccio alzare in ogni nave per segnale, sulel quali trovasi una F. ed una I sormontatid a un corona, ed in mezzo la croce. […] E loro dissi: fate fede e testimonianza, siccome in presenza di tutti voi piglio, come di fatto presi, possesso di quest’isola in nome del re e della regina miei padroni, e feci le proteste dovute […] Onde conciliarci l’amicizia loro, e perché m’avvidi essere tal gente che meglio con dolci maniere e colla persuasione che per la violenza alla fede nostra si convertirebbero, diedi ad alcuni di loro de’ berretti di colore e perle di vetro, che si appendevano al collo, e altre siffatte cosuccie, che loro tornarono sommamente gradite, e a noi li strinsero d’una maravigliosa amicizia. […] In una parola pigliavano quanto si offriva loro, e assai volentieri donavano quanto si avessero […]. Sabato 13 ottobre […] Portarono gomitoli di cotone filato, pappagalli, zagaglie ed altre coserelle, che recherebbe fastidio noverare per minuto, e tutto donavano per ogni bagatella data lor in iscambio. Attento li esaminai e vidi di scoprire se possedessero oro. Scorsi alcuni di essi portarne un picciolo pezzo appiccato tra’ fori del naso e venni ad apprendere […] siccome volgendo intorno all’isola […] troverei una terra il cui re possiede grandi vasi d’oro e quantità di siffatto metallo.
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Amerigo Vespucci Mundus novus Amerigo Vespucci a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici. Brani Ai giorni passati pienamente diedi aviso alla S.V. del mio ritorno. E, se ben mi ricordo, le raccontai di tutte queste parti del mondo nuovo alle quali io era andato con le caravelle del Serenissimo Re di Portogallo, e se diligentemente saranno considerate parrà veramente che facciano un altro mondo. Sì che non senza cagione l'abbiamo chiamato mondo nuovo, perché gli antichi tutti non n'ebbero cognizione alcuna e le cose che sono state nuovamente da noi ritrovate trapassano la loro openione. Pensorono essi oltre la linea equinoziale verso mezzogiorno niente altro esservi che un mare larghissimo e alcune isole arse e sterili. Il mare lo chiamarono Atlantico; e, se talvolta confessarono che vi fusse punto di terra, contendevano quella esser sterile e non potervisi abitare. La openione de' quali la presente navigazione rifiuta, e apertamente a tutti dimostra esser falsa e lontana da ogni verità, percioché oltra l'equinoziale io ho trovato paesi più fertili e più pieni di abitatori che giamai altrove io abbia ritrovato, se ben V.S. anche voglia intender dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa, come più ampiamente qui di sotto seguitando sarà manifesto. Percioché, poste da parte le cose picciole, racontaremo solamente le grandi che siano degne di esser intese e quelle che da noi personalmente avemo vedute, over abbiamo udite per relazione di uomini degni di fede. Di queste parti adunque nuovamente ritrovate ora ne diremo più cose diligentemente e senza alcuna bugia. Con felice augurio, adunque, alli 13 di maggio 1501, per comandamento del Re, ci partimmo da Lisbona con tre caravelle armate e andammo a cercare il mondo nuovo; e, facendo il viaggio verso ostro, navigammo venti mesi, della qual navigazione narreremo primamente l'ordine che navigando tenemmo in questa maniera. Andammo alle Isole Fortunate, che oggi si chiamano le Gran Canarie; elle sono nel terzo clima, nell'ultima parte del ponente abitato. Dipoi, navigando per l'Oceano, scorremmo la costa d'Africa e del paese dei negri insino al promontorio che da Tolomeo è chiamato Etiopo, i nostri lo chiamano Capo Verde, dai negri è detto Biseneghe, gli abitatori lo chiamano Madangan: il qual paese è drento la zona calda per quattordici gradi verso tramontana, abitato dai negri. Quivi rinfrescati e riposati e fornitici di ogni sorte di vettovaglia, facemmo vela drizzando il nostro viaggio verso il Polo Antartico; nondimeno tenevamo alquanto verso ponente, percioché era vento di levante, né mai vedemmo terra se non dopo che avessimo navigato tre mesi di continuo e tre giorni. Nella qual navigazione in quanti travagli e pericoli di vita ci ritrovassimo, quanti affanni e quante perturbazioni e fortune patissimo e quante volte ci venisse a noia di esser vivi, la lascierò giudicare a quei che hanno l'esperienza di molte cose, e principalmente a coloro che conoscono chiaramente quanto sia difficile il cercar le cose incerte e l'andare in luoghi dove uomo più non sia stato. Ma quei che di ciò non hanno esperienza non vorrei che di questo fussero giudici. E, per ridur le molte parole in una, sappia V. S. che noi navigammo sessantasette giorni nei quali avemmo aspra e crudel fortuna; percioché nei quarantaquattro giorni, facendo il cielo grandissimo romore e strepito, non avemmo mai altro che baleni, tuoni, saette e pioggie grandissime, e una oscura nebbia aveva coperto il cielo di maniera che di dì e di notte non vedevamo altramente che quando la luna non luce e la notte è di oscurissime tenebre offuscata. E perciò il timor della morte ci sopravenne di modo che già ci pareva quasi aver perduta la vita. Dopo queste cose sì gravi e sì crudeli, finalmente piacendo a Dio per la sua clemenzia di aver compassione della nostra vita, subito ci apparve la terra; la qual veduta, gli animi e le forze, che erano già cadute e diventate deboli, subitamente si rilevorono e si riebbero, sì
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come suole avenire a coloro che hanno trapassate grandissime aversità e massimamente a quei che sono campati dalla rabbia della cattiva fortuna. Noi adunque alli 7 di agosto del 1501 sorgemmo nel lito di quel paese, e, rendendo a Iddio massimo quelle maggior grazie che potevamo, facemmo secondo il costume cristiano solennemente celebrar la messa. La terra ritrovata ci parve non isola ma terraferma, percioché si estendeva larghissimamente e non si vedeva termine alcuno, ed era molto fertile e molto piena di diversi abitatori. E quivi tutte le sorte degli animali sono selvatiche, i quali nelle nostre parti sono del tutto incogniti. Ritrovammo quivi anche alcune altre cose delle quali studiosamente non ne abbiamo voluto far menzione accioché l'opera non divenga grande oltre misura. Questo solamente giudico che non si debba lasciare adrieto, che, aiutati dalla benignità di Dio, a tempo e secondo il bisogno vedemmo terra, percioché non potevamo più astenerci, mancandoci tutte le vettovaglie, cioè legne, acqua, biscotto, carne salata, cacio, vino, olio, e — quel che è più — il vigor dell'animo [...]. Eravamo venuti in luogo che, se io non avessi avuto notizia della cosmografia, per negligenzia del nocchiero già avevamo finito il corso della nostra vita, percioché non ci era pilotto alcuno che sapesse insino a 50 leghe dove noi fussimo. E andavamo errando vagabondi senza saper dove ci andassimo, se io non avessi a punto veduto alla salute mia e de' compagni con l'astrolabio e col quadrante instrumenti astrologici, e per questa cagione mi acquistai non picciola gloria: di modo che, d'allora innanzi appresso di loro fui tenuto in quel luogo che i dotti sono avuti appresso gli uomini da bene, percioché insegnai loro la carta da navigare e feci che confessassero che i nocchieri ordinarii, ignoranti della cosmografia, a mia comparazione non avessero saputo niente.
Bernal Díaz del Castillo Historia verdadera de la conquista de la Nueva España
(Storia veritiera...)
in A.Albònico – G. Bellini (eds.), Nuovo Mondo. Gli spagnoli, Torino, Einaudi, 1992, pp. 137-‐141) Come giungemmo nella grande piazza, chiamata Tatelulco, siccome non avevamo mai visto nulla di simile, rimanemmo stupefatti nel vedere la massa di gente e di mercanzie che c’erano e del grande ordine che regnava dappertutto. E i notabili che ci scortavano via via di indicavano il tutto:ogni tipo di mercanzia era separata dalle altre ed erano indicati i posti prestabiliti. Cominciamo con i mercanti d’oro, argento, pietre preziose, piume, indumenti e oggetti lavorati e schiave e schiavi da vendere. E ce n’erano tanti in quella grande piazza come quanto i portoghesi portano a vendere i negri della Guinea e li tenevano legati a lunghe sbarre con un collare al collo in modo che non potessero fuggire. Poi c’erano mercanti che vendevano indumenti più correnti, e cotone e altre cose di filo ritorto e venditori di cacao e in questo modo era in mostra ogni genere di merci che si trovava nella Nuova Spagna, messe in bell’ordine come si fa nella mia terra che è Medina del CAmpo [...] Ci recammo dunque al grande CU (tempio); mentre ci avviavamo verso i grandi cortili e prima di uscire dalla piazza, notammo molti altri mercanti che, a quanto dicevano, erano quelli che andavano a vendre l’oro in grani [...]. Lasciammo così la grande piazza senza soffermarci oltre a guardarla e giungemmo ai grandi cortili e recinti in cui si trova il gran cu. Prima di giungere a esso c’era una serie concentrica di cortili che, a mio parere, erano più grandi della piazza che si trova a Salamanca, e con due recinzioni intorno fatte di muri di pietra e lo stesso cortile era tutto lastricato con grandi pietre bianche e molto lisce e dove non c’erano pietre era coperto di calce e lucidato e tutto [era] talmente publito che non si sarebbe potuto trovare una pagliuzza o un granello di polvere. E come arrivammo dinanzi al grande Cu, prima ancora che mettessimo piede su un solo gradino, il grande Montezuma, dalla cima in cui stava facendo sacrifici, ci mandò incontro sei sacerdoti e due nobili, affinchè accompagnassero il nostro capitano Cortés, [ma lui volle salire da solo i 114 scalini]... Quindi raggiungemmo la cima del gran cu, che era una piazzola dove c’era uno spazio come per una tribuna, e su di esso erano collocate delle grandi pietre, dove mettevano i poveri Indi per sacrificarli. Lì c’era una grande statua simile a un drago, e altre brutte statue e molto sangue sparso quel giorno stesso. ... Poi [Montezuma] lo prese per mano [Cortés] e gli disse di guardare la sua grande città e tutte le altre città che c’erano dentro la laguna e molti altri paesi sparsi intorno alla laguna sulla terraferma, e che, se non aveva visto bene la sua grande piazza, da lì psopra la poteva vedere meglio. E così rimanemmo a guardare, poiché quel grande e maledetto tempio era talmente alto che dominava tutto....”
Michel de Montaigne Saggi
Prima ed. 1580
Capitolo XXXI, Dei cannibali […] Ho avuto a lungo presso di me un uomo che aveva vissuto dieci o didici anni in quell’altro mondo che è stato scoperto nel nostro secolo […] Questa scoperta di un paese infinito sembra sia di molta importanza. Non so se posso affermare che non se ne farà in avvenite qualche altra, tanti essendo i personaggi più grandi di noi che si sono ingannati a proposito di questa. Ho paura che abbiamo […] più curiosità che capacità. Abbracciamo tutto, ma non stringiamo che vento. […]. Quell’uomo che era con me era un uomo semplice e rozzo, condizione adatta a rendere una testimonianza veritiera; poiché le persone d’ingegno fino osservano, sì, con molta maggior cura, e più cose, ma le commentano; e per far valere la loro interpretazione e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la storia; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincercene, aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano e la ampliano. Ci vuole un uomo o molto veritiero o tanto semplice da non avere di che costruire false invenzioni e dar loro verosimiglianza, e che non vi abbia alcun interesse. Così era il mio; e, oltre a questo, mi ha mostrato in diverse occasioni parecchi marinai e mercanti che aveva conosciuto in quel viaggio. Mi accontento, quindi, di queste informazioni, senza occuparmi di quel che ne dicono i cosmografi. […] Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religoine, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo; laddove, in vernità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. […] Essi fanno la guerra contro i popoli chesono al di lù delle loro montagne, più addentro nella terraferma, e vanno in guerra tutti nudi, senza altre armi che arhi o spade di legno, appuntite da un capo, come le punte dei nostri spiedi. Straordinaria è la loro tenaca nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di sangue; poiché fughe e panico non sanno che siano. Ognuno riporta come proprio trofeo la testa del nemico che ha ucciso, e l’appende all’ingresso della propria casa. Per molto tempo trattano bene i loro prigionieri, e con tutte le comodità che possono immaginare, poi quello che ne è il capo riunisce in una grande assemblea i suoi conoscenti; attacca una corda a un braccio del prigioniero e lo tiene per un capo si essa, lontano di qualche passo per paura di esserne colpito, e dà da tenere alla stessa maniera l’altro braccio al suo più caro amico; e tutti e due, alla presenza di tutta l’assemblea, l’ammazzano a colpi di spada. Fatto ciò, lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e ne mandano dei pezzi ai loro amici assenti. Non lo fanno, come si puù pensare, per nutrirsene […], ma per esprimere una suprema vendetta. […] Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostro.
Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto. […]
Le 95 tesi sulle indulgenze affisse da Martin Lutero
sulla porta della chiesa di Ognisanti a Wittenberg il 31 ottobre 1517.
Estratti
Tesi intese alla determinazione dell'efficacia delle indulgenze.
Le tesi che seguono, il cui fine è quello di chiarire la verità, formeranno oggetto di un dibattito a Wittenberg, condotto dal R. P. Martin Lutero, Maestro di Arti e di sacra Teologia, nonché lettore ordinario di questa stessa disciplina in questa città. Egli invita tutti coloro che si troveranno nell'impossibilità di parteciparvi, di inviare le loro osservazioni per iscritto. Nel nome del nostro Signore Gesù Cristo. Amen.
[…]
21. Sbagliano, […] quei predicatori che affermano che "per opera delle indulgenze papali l'uomo è liberato da ogni pena e salvato".
22. Anzi, il papa non rimette alle anime del purgatorio nemmeno quelle pene che esse avrebbero dovuto scontare in questa vita.
[…]
24. Ne consegue inevitabilmente che la maggior parte del popolo resta ingannata dalla …
27. Esprimono [dottrine prive di fondamento] quelli che dicono: "Appena un soldino ha tintinnato nella cassa, un'anima se ne vola via".
28. Quel che è certo, è che mentre il tintinnio della moneta nella cassa incrementa il guadagno e l'avarizia, … ma [la grazia] dipende dalla sola volontà di Dio.
[…]
32. Saranno dannati eternamente coloro che pensano di essere stati salvati grazie [alle indulgenze]
[…]
36. Qualunque cristiano, qualora sia veramente pentito, gode della remissione plenaria della colpa e della conseguente pena, anche senza lettere di indulgenza.
37. Qualunque vero cristiano in quanto tale, vivo o morto, partecipa a tutti i beni di Cristo e della Chiesa, che vengono concessi da Dio anche senza lettere di indulgenza.
[…]
75. Ritenere che le indulgenze papali siano tanto potenti da assolvere un uomo, anche nel caso pur impossibile, che esso avesse violato la Madre di Dio, significa essere fuori di senno.
76. Al contrario, quanto alla colpa, sosteniamo che le indulgenze papali non possono cancellare, nemmeno il più piccolo dei peccati veniali.
[…]
81. Questa scandalosa predicazione delle indulgenze rende difficile anche ai dotti impegnati nel salvaguardare il rispetto dovuto al papa, difenderlo dalle calunnie e dalle sottili insinuazioni dei laici.
82. Ad esempio: perché il papa non vuota il purgatorio ispirandosi alla santissima carità e alla somma necessità delle anime, che costituisce il motivo più giusto, dal momento che libera un infinito numero di anime in cambio del dannosissimo danaro destinato alla costruzione della basilica, che rappresenta, invece, un motivo di trascurabile importanza?
[…]
86. Così ancora: perché mai il papa, le cui ricchezze sono oggi [enormi] … non costruisce la basilica di San Pietro utilizzando il suo danaro, invece di quello dei poveri fedeli?
[…]
90. Soffocare queste pericolosissime argomentazioni dei laici con la sola forza e senza addurre ragioni significa esporre la Chiesa e il papa alle beffe dei nemici e rendere infelici i cristiani.
[…]
94. Si devono esortare i cristiani a seguire con zelo il loro capo, Cristo, attraverso le pene, le mortificazioni, e le tribolazioni.
95. Sicché confidino piuttosto di "entrare in cielo attraverso molte tribolazioni", che per la sicurezza [data dall’acquisto delle indulgenze].
Calvino e la vocazione Dobbiamo anche prestare attenzione al fatto che Dio ordina a ciascuno di noi di tenere a mente la sua vocazione in ogni atto della vita. Poiché sa quanto l’intelletto dell’uomo bruci di inquietudine, quale leggerezza lo trasporti qua e là, quali ambizione e cupidigia lo solleciti ad abbracciare contemporaneamente parecchie cose diverse. …. Dio… ha ordinato a ognuno il da farsi. Affinché nessuno oltrepassi con leggerezza i suoi limiti, ha chiamato tali modi di vivere “vocazione”. Ognuno, per proprio conto, deve considerare che il suo stato è per lui come un punto fermo assegnato da Dio, perché non volteggi e svolazzi sconsideratamente per tutto il corso della sua vita. … Non mi voglio sofefrmare ad annoverare tutti gli esempi che sipotrebbero citare: basti sapere che la vocazione di Dio è per noi principio e fondamento per dirigerci rettamente in ogni frangente, e che colui che non vi si sarà attenuto non seguirà mai la retta via per compiere il suo dovere. Potrà sì fare talvolta qualche atto esteriormente lodevole, ma non sarà accetto al giudizio di Dio, per quanto stimato dinanzi agli uomini. [da G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, ed. a c. di G. Tourn, To, 1971, vol. i, pp. 870-‐72]
Calvino e la predestinazione Chiunque vorrà considerarsi uomo timorato di Dio, non oserà negare la predestinazione, per mezzo della quale Dio ha assegnato gli uni a salvezza e gli altri a condanna eterna […]. Definiamo predestinazione il decreto eterno di Dio, per mezzo del quale ha stabilito quel che voleva fare di ogni uomo. Infatti non li crea tutti nella medesima condizione, ma ordina gli uni a vita eterna, gli altri all’eterna condanna. Così in base al fine per il quale l’uomo è stato creato diciamo che è predestinato alla vita o alla morte […]. Affermiamo dunque, come dimostra chiaramente la Scrittura, che Dio ha inizialmente decretato, con la sua decisione eterna e immutabile, quali voleva scegliere a salvezza e quali voleva votare alla perdizione. Affermiamo che una tal determinazione, quanto agli eletti, è fondata sulla misericordia senza alcun riguardo alla dignità umana1; che, al contrario, l’entrata nella vita2 è preclusa a tutti coloro che vuole condannare; ciò avviene secondo il suo giudizio occulto ed incomprensibile, ma giusto. Insegniamo inoltre che la chiamata degli eletti è come un indice e una testimonianza della loro elezione. Parimenti, che la loro giustificazione ne è un altro segno, fino a che giureranno alla gloria in cui risiede il compimento di questa chiamata. Ora, come il Signore mette un segno su coloro che ha scelti, chiamandoli e giustificandoli, al contrario privando i reprobi della conoscenza della sua Parola o della santificazione data dal suo Spirito, indica in tal modo quale sarà la loro fine e qual giudizio è loro preparato. [da G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, ed. a c. di G. Tourn, To, 1971, vol. ii, pp. 1100-‐7]
1 Alla dignità umana: alla condizione sociale 2 nella vita: nella salvezza eterna
REGOLE DA OSSERVARE PER AVERE L'AUTENTICO SENTIRE NELLA CHIESA
MILITANTE
Da: Ignazio da Loyola, Esercizi spirituali, 1548
Prima regola. Messo da parte ogni giudizio proprio, dobbiamo avere l'animo disposto e pronto a
obbedire in tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa madre Chiesa
gerarchica.
[...] Quarta regola. Si lodino molto gli ordini religiosi, il celibato e la castità, e il matrimonio non tanto
come questi.
Sesta regola. Si lodino le reliquie dei santi, venerando quelle e pregando questi; si lodino le
celebrazioni stazionali, i pellegrinaggi, le indulgenze, i giubilei, le crociate e le candele che si
accendono nelle chiese.
Decima regola. Dobbiamo essere sempre pronti ad approvare e a lodare, sia le disposizioni e le
raccomandazioni, sia i comportamenti dei superiori. Infatti, anche se alcuni di questi non fossero
buoni, o non lo fossero stati, il criticarli, predicando in pubblico o discorrendo con persone
semplici, susciterebbe mormorazione e scandalo piuttosto che vantaggio; e così la gente si
sdegnerebbe contro i superiori civili o religiosi. Tuttavia, come è dannoso criticare i superiori in
loro assenza davanti alla gente semplice, così può essere vantaggioso parlare dei loro cattivi
comportamenti alle persone che possono portarvi rimedio.
[...]
Tredicesima regola. Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io
vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti noi crediamo che lo Spirito
che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo
sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo
stesso Spirito e signore nostro che diede i dieci comandamenti.
Quattordicesima regola. È verissimo che nessuno si può salvare senza essere predestinato e senza
avere la fede e la grazia; tuttavia bisogna fare molta attenzione nel modo di parlare e di discutere di
tutti questi argomenti.
Quindicesima regola. Abitualmente non si deve parlare molto della predestinazione; ma se in
qualche modo e qualche volta se ne parla, se ne deve parlare in modo che le persone semplici non
cadano in alcun errore, come quando uno dice: è già stabilito se io dovrò essere salvo o dannato;
perciò, sia che agisca bene sia che agisca male, non potrà accadere diversamente. Così si diventa
pigri e si trascurano le opere che conducono alla salvezza e al vantaggio spirituale dell'anima.
Sedicesima regola. Così pure bisogna fare attenzione che, parlando molto e con grande fervore
della fede, senza alcuna distinzione o spiegazione, non si dia occasione alla gente di essere
indolente e pigra nell'operare, sia prima che la fede sia congiunta con la carità, sia dopo.
Diciassettesima regola. Allo stesso modo non si deve parlare troppo diffusamente della grazia,
insistendovi tanto da favorire quell'errore che nega la libertà. Perciò si può parlare della fede e della
grazia, per quanto ci è possibile con l'aiuto divino, per la maggior lode della divina Maestà; ma,
particolarmente in questi tempi così pericolosi, non in maniera e in termini tali, che le opere […] ne
ricevano danno o non si tengano in alcun conto.
Diciottesima regola. Si deve stimare più di tutto il servizio di Dio nostro Signore per puro amore;
tuttavia si deve lodare molto anche il timore della sua divina Maestà. Infatti, non solo il timore
filiale è cosa buona e santissima, ma, se non si arriva ad altro di meglio o di più utile, anche il
timore servile aiuta molto ad uscire dal peccato mortale; poi, una volta usciti, si arriva facilmente al
timore filiale, che è pienamente accetto e gradito a Dio nostro Signore, essendo un tutt'uno con
l'amore divino.
Paola Volpini Storia moderna
Paola Volpini Storia moderna a.a.: 2012/2013 Settore M-STO/02 - CFU 6 - Semestre II - Codice 1023477 Cdl associati: L-1 Studi storico-artistici - 15936 ( L )
Fonte: Petition of right 1628 (estratti)
I dibattiti di Putney, 1647
Estratti
Vi fu chi difese il voto per censo:
“Penso che nessuna persona abbia diritto a una partecipazione nell’ordinamento degli affari del Paese, a determinare o scegliere coloro che determineranno da quali leggi dobbiamo essere governati in questo Paese – nessuna persona ha diritto a ciò, la quale non abbia un interesse permanente fisso in questo paese. Solo quelle persone, riunite insieme, sono propriamente i rappresentanti di questo paese, e per conseguenza anche coloro che devono creare i rappresentati del paese. …”
e chi, più radicale, sostenne:
“Nulla di quello che ho sentito può convincermi del perché un uomo nato in Inghilterra non dovrebbe avere il voto nell’elezione dei deputati. … non trovo nessun passo nella legge di Dio che afferma che un lord debba scegliere venti deputati e un gentiluomo soltanto due e un povero nessuno: …. Ma trovo che tutti gli inglesi devono esser soggetti alle leggi inglesi, e credo sinceramente non vi sia persona che neghi che il fondamento di ogni legge risiede nel popolo e, se risiede nel popolo, bisogna che ad esso sia attribuito il diritto di voto. Inoltre ho pensato a un’altra cosa: in quale condizione miserabile verrebbe a trovarsi un uomo che ha combattuto in questa guerra per il Parlamento, ove si ritrovasse privo del diritto di voto! Perciò io penso … che ogni uomo nato in Inghilterra non può e non deve, né per la legge di Natura, né per quella di Dio, essere escluso dalla scelta di quelli incaricati di fare le leggi sotto le quali egli deve vivere, e per quel che io sappia, perdere altresì la vita…”
Discorso diverso per gli apprendisti, i servitori e i poveri, che “dipendono dalla volontà di altri uomini, e avrebbero paura di contrariarli … Ma sarebbe bene che si stabilisse una regola generale che attribuisce il diritto di voto a tutti quelli che non sono legati alla volontà di altri uomini”.
Fonte: Bill of Rights 1689 (estratti)