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Patrimonio
Gli effetti dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario
di Angelo Ginex 3
Donazioni indirette: recenti chiarimenti di prassi e giurisprudenza
di Lucia Recchioni 13
La recente giurisprudenza di legittimità sull’azione revocatoria
di Sergio Pellegrino 22
Fiscalità
Gli accertamenti da indagini finanziarie
di Marco Ligrani 30
Il superbonus 110%
di Debora Reverberi 40
Caso operativo
La procedura di composizione della crisi del consumatore: dagli atti preliminari alla
relazione particolareggiata del gestore con l’attestazione di fattibilità
di Giulio Pennisi 55
Fiscalità internazionale
La “frode castello” quale nuovo meccanismo di frode fiscale transnazionale
di Marco Bargagli, Alberta Gavasso, Marco Thione 66
La creazione della holding estera
di Ennio Vial 84
1 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Finanza
Le modifiche apportate al Decreto “Liquidità” in sede di conversione: come cambia il c.d.
“bazooka di liquidità”
di Giuseppe Rodighiero 96
Osservatorio giurisprudenziale
Osservatorio di giurisprudenza sul trust
di Sergio Pellegrino 109
2 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Patrimonio
3 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Gli effetti dell’accettazione dell’eredità
con beneficio d’inventario di Angelo Ginex – avvocato e Ph.D. in Diritto Tributario, Studio Legale Tributario Ginex & Partners
L’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario rappresenta un vero e proprio
strumento di segregazione patrimoniale, dacché consente all’erede di mantenere distinto il
patrimonio personale da quello ereditario. Gli effetti che detta accettazione produce, però,
non si limitano soltanto a questo, essendo prevista anche la permanenza dei diritti e degli
obblighi dell’erede verso l’eredità, la limitazione di responsabilità cum viribus hereditatis per
debiti ereditari, la preferenza dei creditori dell’eredità e dei legatari nella distribuzione
dell’attivo ereditario e il divieto di iscrizione di ipoteche giudiziali. Infine, non si dimentichino
i diversi diritti dei creditori dell’eredità e dei creditori personali dell’erede.
L’accettazione dell’eredità
L’accettazione dell’eredità, cui consegue la successione dell’erede in tutti i rapporti giuridici facenti
capo al de cuius, può essere “pura e semplice” o con “beneficio d’inventario”, così come previsto
dall’articolo 470, comma 1, cod. civ., secondo cui «L’eredità può essere accettata puramente e
semplicemente o col beneficio d’inventario».
In via di estrema sintesi, l’accettazione “pura e semplice”, che può realizzarsi attraverso 3 diverse
modalità (ovvero, mediante accettazione espressa, tacita o presunta), comporta la successione
dell’erede in tutti i rapporti giuridici, sia attivi sia passivi, di cui il defunto era titolare, senza alcuna
limitazione di responsabilità.
In tal caso, quindi, il patrimonio dell’erede si confonde integralmente con quello facente capo al de
cuius, con la conseguenza che, se l’eredità è gravata da debiti e l’attivo ereditario è insufficiente al loro
soddisfacimento, l’erede sarà chiamato a provvedere al pagamento di detti debiti anche con il proprio
patrimonio personale, in virtù di quanto disposto dall’articolo 2740, cod. civ., secondo cui «Il debitore
risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri».
L’accettazione dell’eredità con “beneficio d’inventario”, invece, non determina la “confusione” del
patrimonio ereditario con quello personale dell’erede, così come previsto dall’articolo 490,
comma 1, cod.civ., secondo cui «L’effetto del beneficio d’inventario consiste nel tenere distinto il
patrimonio del defunto da quello dell’erede».
Patrimonio
4 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Nella specie, quindi, il patrimonio personale dell’erede non può essere assolutamente intaccato da
possibili debiti derivanti dall’eredità stessa, al contrario dell’ipotesi dell’accettazione pura e semplice,
ove l’erede risponde dei debiti ereditari (eventualmente) anche oltre il valore dell’attivo ereditario ex
articolo 2740, cod. civ..
Sul punto, la Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 23961/2019, ha affermato che:
«L’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario non determina di per sé sola il venir meno della
responsabilità patrimoniale degli eredi per i debiti anche tributari, ma fa solo sorgere il diritto di questi
ultimi a non risponderne “ultra vires hereditatis”, cioè al di là del valore dei beni lasciati dal de cuius».
Inoltre, l’articolo 470, comma 2, cod. civ., perseguendo finalità di pubblico interesse, dispone che
«L’accettazione col beneficio di inventario può farsi nonostante qualunque divieto del testatore», per cui
eventuali disposizioni testamentarie che vietino l’accettazione con beneficio d’inventario sono da
ritenersi nulle.
La natura giuridica dell’eredità beneficiata
Tempo addietro si è discusso molto circa la natura giuridica dell’accettazione dell’eredità con beneficio
d’inventario, giungendo a conclusioni diametralmente opposte circa l’acquisto o meno della qualità di
erede da parte del chiamato all’eredità.
Da un lato, si è affermato che l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario non determini
l’acquisto dello status di erede; più propriamente, assumendo detta eredità una sorta di personalità
giuridica in quanto autonomo centro d’interessi, il chiamato all’eredità acquisterebbe la qualità di
amministratore della “persona giuridica eredità”1.
In tale contesto, comunque, non sono mancate pronunce di segno contrario (cfr. Cassazione, sentenza
n. 6683/1992), secondo cui:
«Posto che l’eredità beneficiata non ha carattere di soggetto di diritto e che l’erede che abbia accettato
con beneficio d’inventario non assume, nei suoi riguardi, la veste di rappresentante, è inammissibile il
ricorso per cassazione proposto dal curatore dell’eredità giacente ove, nelle fasi di merito, siano stati
in giudizio unicamente gli accettanti con beneficio d’inventario».
Dall’altro lato, invece, è stato osservato che il soggetto che accetta l’eredità con beneficio d’inventario,
ancorché non diventi successore dei debiti dell’eredità, assuma sine dubio la qualità di erede, in quanto
1 L. Barassi, “Le successioni per causa di morte”, Milano, 1947, pag. 123.
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5 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
è comunque tenuto al pagamento di tali debiti, anche se nei limiti dell’attivo ereditario2.
Quest’ultimo orientamento è quello oggi unanimemente condiviso, essendo ormai pacifico che
l’accettazione dell’eredità beneficiata determini l’acquisito dello status di erede e, allo stesso
tempo, di debitore per i debiti ereditari, seppur nei limiti dell’attivo dell’eredità, in deroga alla
regola generale della responsabilità patrimoniale ex articolo 2740, cod. civ..
Tale orientamento, a quanto ci consta, è stato inaugurato sin dalla sentenza n. 7695/1992, ove la Corte
di Cassazione ha affermato tout court che:
«Il chiamato all’eredità, che abbia accettato con beneficio d’inventario, assume la qualità di erede e
non è ammessa rinuncia all’eredità da parte di chi abbia già accettato, ancorché con l’indicato beneficio
… salva l’opponibilità del limite di responsabilità “intra vires hereditatis”, per effetto del beneficio
d’inventario … La rinuncia è espressamente prevista dall’ultima parte dell’articolo 490, cod. civ. e non
richiede la medesima forma prevista per l’accettazione con il beneficio d’inventario».
Ergo, secondo i giudici di vertice, il chiamato all’eredità che abbia accettato con beneficio d’inventario
assume la qualità di erede per cui, mentre da parte sua non è ammessa rinuncia all’eredità, può
rinunciare al limite di responsabilità intra vires hereditatis, come espressamente previsto dall’ultima
parte dell’articolo 490, cod. civ., senza che si richieda la medesima forma prevista per l’accettazione con
il beneficio d’inventario.
I chiamati all’eredità
In via generale, come previsto dall’articolo 470, comma 1, cod. civ., ogni chiamato all’eredità ha la
facoltà di scegliere se procedere all’accettazione “pura e semplice” o con “beneficio d’inventario”.
Per determinati soggetti, invece, è ammessa soltanto l’accettazione con beneficio d’inventario, affinché,
in considerazione delle loro peculiarità, non si abbia una “confusione” del patrimonio ereditario con
quello personale dell’erede. Si tratta, in particolare, dei soggetti legalmente incapaci ex articoli 471 e
472, cod.civ., delle associazioni, delle fondazioni e degli altri enti non riconosciuti ai sensi dell’articolo
473, cod. civ. Ancora, va menzionato anche il legittimario che, avendo subìto una lesione della quota di
legittima a lui spettante, intenda promuovere l’azione di riduzione ex articolo 536, cod. civ..
In tale contesto, è estremamente interessante una recente pronuncia di legittimità (cfr. Cassazione,
ordinanza n. 15267/2019), laddove si è evidenziato che i minori e gli altri incapaci godono di una
particolare ulteriore tutela, nel senso che:
2 L. Ferri, “Successioni in generale, Art. 456-511”, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1980, pag. 325.
Patrimonio
6 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
«Qualora il genitore esercente la relativa responsabilità o il legale rappresentante del minore chiamato
all’eredità faccia l’accettazione prescritta dall’articolo 471, cod. civ., da cui deriva l’acquisto da parte
del minore della qualità di erede (articoli 470 e 459, cod. civ.), ma non compia l’inventario - necessario
per poter usufruire della limitazione della responsabilità – questo potrà essere redatto dal minore entro
un anno dal raggiungimento della maggiore età; se anche in tale termine non si provveda, l’accettante
è considerato erede puro e semplice (articolo 489, cod. civ.)».
Da ultimo, si precisa che il Legislatore ha previsto discipline differenti a seconda che il chiamato
all’eredità sia o meno nel possesso materiale dei beni facenti parte della massa ereditaria.
Gli effetti dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario
Come anticipato, l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, in virtù di quanto disposto
dall’articolo 490, comma 1, cod. civ., ha quale primo effetto quello di tenere distinto il patrimonio
ereditario da quello personale dell’erede (cfr. Cassazione, sentenza n. 16046/2001).
Sul punto, il Tribunale di Monza, con la recente sentenza 21 novembre 2019, ha osservato che:
«L’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario è pur sempre un’accettazione dell’eredità, sicché
l’erede beneficiato, quale successore nel debito ereditario, può essere condannato al pagamento
dell’intero, fermo che, in concreto, la sua responsabilità resta limitata “intra vires hereditatis” ove egli
faccia valere il beneficio con l’apposita eccezione (Cassazione n. 14821/2012)».
Ulteriori effetti sono poi elencati nel comma 2, articolo 490, cod. civ. laddove è precisato che per effetto
di tale separazione:
«1. l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne
quelli che si sono estinti per effetto della morte; 2. l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari
e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti; 3. i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza
sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede. Essi però non sono dispensati dal domandare
la separazione dei beni, secondo le disposizioni del capo seguente, se vogliono conservare questa
preferenza anche nel caso che l’erede decada dal beneficio d’inventario o vi rinunzi».
Tale circostanza è stata rimarcata dalla stessa Corte di Cassazione, la quale nella sentenza n.
23019/2016, ha evidenziato che:
«Colui che accetta l’eredità con beneficio di inventario è erede, come sancito dall’articolo 490, comma
1, cod. civ., con l’unica rilevante differenza, rispetto all’accettazione pura e semplice, che il patrimonio
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del defunto è distinto da quello dell’erede e che si producono gli effetti conseguenti indicati dall’articolo
490, comma 2, cod. civ.».
Infine, l’articolo 2830, cod. civ., la cui ratio è quella di assicurare il rispetto della par condicio creditorum,
esclude che, a seguito dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, possano essere iscritte
ipoteche giudiziali sui beni facenti parte dell’asse ereditario.
Permanenza di diritti e obblighi dell’erede verso l’eredità
Secondo quanto previsto dall’articolo 490, comma 1, n. 1), cod. civ., l’erede conserva verso l’eredità tutti
i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto della
morte.
Tale disposizione non fa altro che derogare al principio generale sancito nell’articolo 1253, cod. civ.,
secondo cui l’obbligazione si estingue per “confusione” nella ipotesi in cui la qualità di creditore e
debitore si riuniscano in capo alla medesima persona.
Nella specie, quindi, i rapporti obbligatori (ovvero, il diritto di credito dell’erede e il
corrispondente obbligo di soddisfare detto credito da parte dell’eredità) rimangono in essere, nel
senso che non si estinguono per confusione in conseguenza della riunione della qualità di
creditore e debitore in capo alla stessa persona dell’erede.
Sul punto, vi è chi ha osservato come tale istituto configurerebbe una vera e propria segregazione
patrimoniale3, in quanto l’erede, a seguito dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario,
diventa titolare di 2 diversi patrimoni, tra loro distinti e separati4.
Limitazione di responsabilità per debiti ereditari
Ai sensi dell’articolo 490, comma 1, n. 2), cod. civ., l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario
determina una limitazione di responsabilità dell’erede per i debiti ereditari.
Più precisamente, quest’ultimo, ancorché subentri in tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi,
facenti capo al de cuius, risponde di tali debiti soltanto nei limiti dell’attivo ereditario e, quindi, di
quanto riceve in eredità.
3 G. Prestipino, “Delle successioni in generale, artt. 456-535”, in Comm. cod. civ., diretto da De Martino, Novara, 1982, pag. 288. 4 A. Busani, La successione mortis causa, Cedam, 2020, p. 283.
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8 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Per quanto concerne il campo applicativo della limitazione in parola, si è precisato che essa, oltre i
debiti ereditari e i legati, colpisca, più in generale, anche gli oneri testamentari e ogni possibile peso
posto a carico dell’erede ex articolo 752, cod. civ.5.
Infatti, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 25150/2016, ha affermato che:
«È opponibile ai terzi, e quindi anche al Fisco, la limitazione di responsabilità dell’erede che abbia
accettato con beneficio d’inventario. Pertanto tale limitazione di responsabilità non può essere ignorata
dall’Amministrazione, che è tenuta ad attendere la definitività della procedura liquidatoria per
quantificare il tributo successorio, potendo agire nei confronti dell’erede nei soli limiti di residua
capienza del patrimonio pervenutogli, dato che tale tributo può essere richiesto all’erede accettante
con beneficio soltanto dopo la deduzione delle passività ad esso inerenti. Infatti la limitazione di
responsabilità degli eredi derivante dall’accettazione con beneficio di inventario risponde all’esigenza
di ridurre il sacrificio economico del soggetto passivo entro l’ambito del suo effettivo arricchimento
(Cassazione n. 14847/2015 e n. 4419/2008)».
Ad adiuvandum, occorre rilevare che l’erede è obbligato esclusivamente cum viribus hereditatis, nel senso
che egli è chiamato ad adempiere esclusivamente mediante l’impiego dei beni ereditari e non di beni
propri6.
Sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 27364/2016, ha osservato che:
«La responsabilità dell’erede beneficiato opera non solo intra vires (e cioè nei limiti del valore dei beni
costituenti il patrimonio ereditario), ma cum viribus, e cioè con i soli beni ereditari. In tal senso
Cassazione n. 5067/1993 ha precisato che la disposizione dell’articolo 490, cod. civ., comma 2, n. 2)
limita la responsabilità dell’erede accettante con il beneficio d’inventario per il pagamento dei debiti
ereditari e dei legati “intra vires” e “cum viribus hereditatis”».
Pertanto, l’erede, qualora avesse necessità di liquidità, potrà procedere alla liquidazione di un bene
immobile dell’eredità, munendosi dell’autorizzazione prevista dall’articolo 747, c.p.c., mentre non potrà
fare ricorso alle proprie disponibilità finanziarie.
D’altronde, quanto non appena evidenziato emerge ictu oculi dal dettato normativo contenuto
nell’articolo 497, cod. civ., ove è disposto che l’erede, in caso di accettazione beneficiata, non può essere
costretto al pagamento dei debiti ereditari con i propri beni, a meno che si sia reso inadempiente
all’obbligo di presentare il conto della sua amministrazione durante la procedura di liquidazione.
5 Cassazione, sentenza n. 5067/1993, in Giurisprudenza Italiana, 1995, 1, pag. 536, con nota di Garofalo, Sulla responsabilità dell’erede
beneficiato per l’adempimento dell’onere testamentario. 6 G. Capozzi, “Successioni e donazioni”, tomo I, Milano, 2009, pag. 290.
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9 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Preferenza dei creditori dell’eredità e dei legatari
Altro effetto dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario è quello previsto dall’articolo 490,
comma 1, n. 3), cod. civ., secondo cui i creditori dell’eredità e i legatari godono di un diritto di preferenza
nella distribuzione dell’attivo ereditario.
Circa la natura giuridica di tale preferenza, si è affermato che, in considerazione del riconoscimento ope
legis a seguito dell’accettazione con beneficio d’inventario, essa mostrerebbe un’architettura similare
alla prelazione assicurata dai privilegi speciali7. Secondo altri, invece, essa consisterebbe in un vincolo
reale gravante sui beni ereditari, sebbene non regolamentata da apposito negozio8.
Resta inteso che i creditori dell’eredità e i legatari, come già evidenziato, in deroga al principio
della responsabilità patrimoniale di cui all’articolo 2740, cod. civ., non possono aggredire il
patrimonio personale dell’erede.
Se, però, un determinato bene ereditario venga venduto e il denaro ricavato utilizzato per acquistare un
altro bene, quest’ultimo, anche se rientrante nella sfera personale dell’erede, può essere comunque
aggredito dai creditori dell’eredità.
Invero, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 13206/2012, ha affermato che:
«Il beneficio d’inventario limita, normalmente, la responsabilità dell’erede non solo al valore, ma anche
ai beni allo stesso pervenuti, assoggettando, in via di principio, questi e non quelli personali
all’esecuzione forzata (confr. Cassazione n. 5067/1993). Il che tuttavia non vuol dire che la vendita di
un bene ereditario e il reinvestimento del denaro ricavato, rispettati gli oneri procedurali imposti
dall’articolo 747, c.p.c. e ss., valga a purgare definitivamente l’acquisto».
Invece, i creditori personali dell’erede, fermo restando la preferenza accordata ai soggetti sopra
indicati, potranno avanzare pretese sugli eventuali beni che dovessero residuare alla
soddisfazione dei creditori dell’eredità e dei legatari.
Quindi, tale aggressione potrà realizzarsi soltanto quando, soddisfatti i creditori dell’eredità e i legatari,
residuino beni non più qualificabili come “beni ereditari”.
Sotto tale profilo, però, occorre distinguere tra liquidazione individuale ai sensi dell’articolo 495, cod.
civ. e liquidazione concorsuale ex articolo 498, cod. civ..
7 G. Prestipino, “Delle successioni in generale,” in Comm. teorico-pratico al cod. civ., diretto da De Martino, Novara-Roma, 1981, pag. 295. 8 L. Ferri, op. cit., pag. 294.
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Nel primo caso, sulla scorta di quanto disposto dall’articolo 493, comma 2, cod. civ., i beni mobili non
sono considerati più ereditari trascorsi 5 anni dalla dichiarazione di accettazione beneficiata, mentre i
beni immobili perdono tale qualifica quando si prescrivono i diritti di credito vantati nei confronti
dell’eredità.
Nel secondo caso, invece, sia i beni mobili sia quelli immobili non sono più considerati beni ereditari
decorso il termine di 3 anni, in quanto l’articolo 502, comma 3, cod. civ. dispone che:
«I creditori e i legatari che non si sono presentati hanno azione contro l’erede solo nei limiti della
somma che residua dopo il pagamento dei creditori e dei legatari collocati nello stato di graduazione.
Questa azione si prescrive in 3 anni dal giorno in cui lo stato è divenuto definitivo o è passata in
giudicato la sentenza che ha pronunziato sui reclami, salvo che il credito sia anteriormente prescritto».
Divieto di iscrizione di ipoteche giudiziali
Da ultimo, l’articolo 2830, cod. civ., come già anticipato, al fine di assicurare il rispetto della par condicio
creditorum, esclude che, a seguito dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, possano
essere iscritte ipoteche giudiziali sui beni facenti parte dell’asse ereditario.
Invero, la Corte di Cassazione, sin dalla lontana sentenza n. 2482/1966, ha affermato che:
«La ratio della norma dell’articolo 2830, cod. civ. - la quale dispone che, se l’eredità è accettata con
beneficio d’inventario, o se si tratta di eredità giacente, non possono essere iscritte ipoteche giudiziali
neppure in base a sentenze pronunciate anteriormente alla morte del debitore - risiede nell’intento
legislativo di mantenere la par condicio creditorum, in quanto, risultando la garanzia patrimoniale
limitata al compendio dei beni ereditari, il quale costituisce un patrimonio separato, ed essendo tale
patrimonio destinato alla liquidazione, non sarebbe giustificato che singoli creditori, mediante
l’iscrizione di ipoteche giudiziali, possano costituire a loro vantaggio diritti di prelazione. Tale essendo
la ratio della norma, questa non può concernere che esclusivamente i beni su cui i creditori dell’eredità
debbono realizzare i loro diritti, rimanendone esclusi quelli che non hanno tale funzione strumentale».
Quindi, ciò significa che i creditori dell’eredità, in caso di accettazione beneficiata da parte
dell’erede, non possono iscrivere ipoteca giudiziale, poiché si vuole assicurare una parità di
trattamento tra i creditori del de cuius. Pertanto, qualora si procedesse comunque all’iscrizione di
detta ipoteca, questa sarebbe nulla, anche in ipotesi di decadenza dal beneficio d’inventario9.
9 A. Busani, op.cit., pag. 288.
Patrimonio
11 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Secondo un orientamento minoritario, invece, la violazione del divieto in parola comporterebbe non la
nullità ma l’inefficacia dell’ipoteca, che verrebbe quindi superata in caso di decadenza dal suddetto
beneficio. Nella specie, i creditori dell’eredità potrebbero comunque avere interesse a procedere in tal
senso, al fine di riservarsi la possibilità di prenotare il grado ipotecario ex articolo 2852, cod. civ. in
ipotesi di decadenza dal beneficio d’inventario10.
In questi termini, si era espressa anche la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione, sentenza n.
2571/1970), affermando che:
«L’ipoteca giudiziale iscritta sui beni di un’eredità accettata con beneficio d’inventario non è affetta da
nullità assoluta, ma soltanto inopponibile ai creditori che concorrono al soddisfacimento dei loro diritti
sui beni ereditari, con la conseguenza che, se l’erede decade dal beneficio, riprende vigore e operatività
l’ipoteca validamente iscritta».
Invece, i creditori personali dell’erede, così come possono avanzare pretese sugli eventuali beni
che dovessero residuare alla soddisfazione dei creditori dell’eredità e dei legatari, allo stesso
modo possono validamente iscrivere ipoteca giudiziale sui medesimi beni immobili, che non
possono più essere qualificati come ereditari.
In tale contesto, peraltro, si è affermato che, qualora il debito sia di modico ammontare:
«i creditori personali dell’erede potrebbero ragionevolmente vantare un’aspettativa sulla rimanenza di
alcuni beni ereditari e, per questo motivo, chiedere l’iscrizione di un’ipoteca giudiziale prima che i beni
stessi divengano aggredibili per aver perso la qualifica di “beni ereditari”»11.
L’estensione degli effetti dell’accettazione beneficiata
L’articolo 510, cod. civ. stabilisce che:
«L’accettazione con beneficio d’inventario fatta da uno dei chiamati giova a tutti gli altri, anche se
l’inventario è compiuto da un chiamato diverso da quello che ha fatto la dichiarazione».
Tale disposizione sancisce il principio per cui, qualora vi siano più chiamati all’eredità e uno di questi
accetti con beneficio d’inventario, gli effetti dell’accettazione beneficiata si estendono anche a tutti gli
altri chiamati, sempreché non sia già intervenuta un’accettazione pura e semplice.
Detto in altri termini, l’estensione degli effetti dell’accettazione con beneficio d’inventario in
favore degli altri chiamati all’eredità si realizza soltanto se questi, mediante accettazione
10 G. Grosso – A. Burdese, “Le successioni. Parte generale”, in Tratt. dir. civ., diretto da Vassalli, vol. XII, tomo 1, Torino, 1977, pag. 504. 11 A. Busani, op.cit., pag. 289.
Patrimonio
12 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
espressa, tacita o presunta, non abbia già acquistato la qualità di erede puro e semplice prima
che uno di essi abbia dichiarato di accettare con beneficio d’inventario (cfr. Cassazione, sentenza
n. 782/1982).
Tantomeno, detti effetti si estendono a coloro che non siano più chiamati all’eredità, o perché si è
prescritto il diritto di accettare detta eredità, che ai sensi dell’articolo 480, cod. civ. deve avvenire nel
termine di 10 anni dall’apertura della successione, o perché il chiamato all’eredità è decaduto dal
termine fissato dall’Autorità giudiziaria ai fini della comunicazione di accettazione o meno dell’eredità
stessa ex articolo 481, cod. civ..
Diverso è il discorso, invece, nel caso del chiamato che rinuncia all’eredità, il quale, anche dopo tale
dichiarazione, potrebbe comunque accettare l’eredità, a meno che tale diritto non si sia prescritto o altri
chiamati non abbiano acquistato l’eredità ai sensi dell’articolo 525, cod. civ..
Dunque, il chiamato all’eredità, se è ancora in tempo per poter accettare detta eredità, può sempre
beneficiare dell’estensione degli effetti dell’accettazione beneficiata, pur avendovi rinunciato, salvo che
vi sia stato accrescimento a favore degli altri coeredi, ovvero acquisto automatico di tale eredità da
parte del chiamato ulteriore ex articolo 674, cod. civ..
Per quanto concerne l’estensione degli effetti dell’accettazione con beneficio d’inventario in favore
degli altri chiamati all’eredità, è d’uopo chiarire che, affinché ciò sia possibile, è pur sempre necessaria
una dichiarazione di accettazione dell’eredità da parte di quest’ultimi, dacché la qualità di erede
beneficiato non viene acquisita automaticamente ex articolo 510, cod. civ..
Peraltro, si rinviene un vivace dibattito dottrinale circa le modalità di manifestazione di tale
accettazione: da un lato, si afferma che non sarebbero necessarie le forme solenni contemplate
dall’articolo 484, cod. civ., per cui l’accettazione potrebbe intervenire anche a mezzo di scrittura privata;
dall’altro lato, invece, si sostiene che sarebbe comunque necessaria l’osservanza delle forme solenni
previste dal citato articolo 484, cod. civ. e quindi una dichiarazione ricevuta da un notaio o dal
cancelliere del tribunale territorialmente competente.
Nella giurisprudenza di legittimità, invece, sembra prevalere il primo orientamento (cfr. Cassazione,
sentenza n. 22286/2008) giacché si afferma che:
«La lettera e la “ratio” della norma portano alla conclusione che sia necessaria una manifestazione
della volontà di giovarsi di tale forma di accettazione, espressa in maniera chiara ed univoca, ma in
forma diversa da quella formale e rigorosa dell’articolo 484, cod. civ., perché altrimenti nessun
giovamento deriverebbe dall’accettazione dell’altro chiamato, se in ogni caso fosse necessaria
l’accettazione formale».
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Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Donazioni indirette: recenti chiarimenti
di prassi e giurisprudenza di Lucia Recchioni – avvocato, dottore commercialista, giornalista pubblicista
Pur essendo nota la definizione di “donazione indiretta”, nella pratica non è sempre agevole
individuare le fattispecie che, effettivamente, possono essere ricondotte a tale qualificazione.
Questa difficoltà, ovviamente, trova evidenza nelle numerose pronunce di giurisprudenza,
finalizzate a individuare i casi di donazione indiretta, e a verificare quindi l’applicabilità di
tutte le conseguenze connesse alla richiamata disciplina.
Anche recentemente la Corte di Cassazione ha avuto modo di soffermarsi su alcuni casi,
fornendo interessanti spunti.
Negli scorsi giorni, poi, il tema delle donazioni indirette è stato oggetto anche di una risposta
a istanza di interpello da parte dell’Agenzia delle entrate: ciò rappresenta un ottimo spunto
per tornare a soffermarsi sulla disciplina fiscale prevista, alla luce dei recenti chiarimenti.
Premessa
Come noto, si considerano “donazioni indirette” le liberalità conseguite con atti diversi dalla donazione,
la quale, come noto, deve essere fatta per atto pubblico sotto pena di nullità (articolo 782, cod. civ.).
Pertanto, le donazioni indirette sono valide anche se non redatte per atto pubblico, essendo necessario
rispettare esclusivamente la forma richiesta per l’atto che è stato scelto per conseguire l’intento liberale:
il classico esempio citato, per meglio illustrare le donazioni indirette, è quello del padre che acquista,
con i propri soldi, l’autovettura da intestare al figlio.
Al di là degli esempi di più immediata comprensione, tuttavia, pare evidente che la facile individuazione
dei fenomeni di donazione indiretta non sia sempre facile, e anche la giurisprudenza, negli anni, ha
contribuito a distinguere le fattispecie qualificabili come “donazione indiretta” da quelle che, invece,
donazione indiretta non sono e possono, ad esempio, essere qualificate come ipotesi di donazione nulla
per mancanza del requisito di forma, oppure normali operazioni di scambio.
La differenza non è di poco conto, soprattutto ove si consideri che, anche alle ipotesi di donazione
indiretta risultano applicabili, tra le altre, le disposizioni in materia di collazione (articolo 737, cod. civ.),
riduzione (articolo 555, cod. civ.) e revocazione (articoli 800 e ss., cod. civ.), nonché molte altre
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disposizioni dettate in materia di donazione, a eccezione, ovviamente, all’articolo 782, cod. civ., dedicato
ai requisiti di forma1.
La Corte di Cassazione ha, negli anni, qualificato la donazione indiretta come segue:
“La donazione indiretta consiste nell'elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il
negozio tipico descritto nell'articolo 769, cod. civ., mediante un negozio oneroso che produce, in
concomitanza con l'effetto diretto che gli è proprio e in collegamento con altro negozio, l'arricchimento
animo donandi del destinatario della liberalità medesima" (Cassazione n. 21449/2015).
Più recentemente, con l’ordinanza n. 9379/2020, la Corte di Cassazione ha avuto modo di qualificare la
donazione indiretta come un negozio:
“che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da fine di liberalità e abbia lo scopo e l’effetto
di arricchire gratuitamente il beneficiario … nella donazione indiretta la liberalità di realizza, anziché
attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando
la forma e la causa che è a essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del
destinatario, sicchè l’intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati,
ma solo, in via indiretta, dall’esame, necessariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del
singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da
chi ne abbia interesse”.
Il caso riguardava una signora (legalmente separata dal marito) che aveva acquistato un appartamento
con il denaro interamente fornito dai suoceri.
La signora veniva quindi citata in giudizio dagli ex suoceri, marito e cognati, i quali deducevano di aver
effettuato una donazione indiretta nei confronti del figlio, con intestazione meramente fittizia alla
signora. Gli attori richiamavano altresì un patto fiduciario tra i 2 coniugi, che era venuto meno a causa
della separazione.
Tralasciando alcune questioni giuridiche non rilevanti ai fini della presente trattazione, giova
evidenziare che la Corte di Appello di Roma individuava, nella fattispecie in esame, un’ipotesi di
donazione indiretta dei suoceri a favore della nuora (e non del figlio), “paralizzando” quindi la domanda
di restituzione delle somme per indebito arricchimento.
Alla luce della già richiamata definizione di “donazione indiretta”, la Corte di Cassazione ha però
ritenuto che la mera dazione del denaro non possa confermare l’animus donandi dei suoceri: tutti gli
1 Le donazioni indirette sono espressamente previste dall’articolo 809, cod. civ., in forza del quale “Le liberalità, anche se risultano da atti diversi
da quelli previsti dall'articolo 769, sono soggette alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d'ingratitudine e per
sopravvenienza di figli, nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari. Questa disposizione non si applica
alle liberalità previste dal comma 2, articolo 770 e a quelle che a norma dell'articolo 742 non sono soggette a collazione”.
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elementi devono essere quindi valutati dai giudici, per poter individuare se ricorre un’ipotesi di
donazione indiretta.
L’insegnamento che può trarsi dalla richiamata pronuncia, quindi, è che non vi sono, di per sé, atti che
configurano donazioni dirette e atti che non lo sono: l’unico criterio-guida è rappresentato dalla volontà
delle parti, che deve essere oggetto di attenta valutazione da parte del giudice.
Donazione indiretta e pagamento parziale
Un altro dubbio che frequentemente è stato sollevato in giurisprudenza riguarda la possibilità di
configurare una donazione indiretta nel caso in cui il denaro corrisposto dal donante sia sufficiente a
coprire soltanto una parte dell’intero prezzo.
Sul punto merita di essere richiamata l’ordinanza n. 10759/2019, riguardante il caso di una figlia alla
quale era stata donata dal padre una somma sufficiente all’acquisto del 50% dell’immobile (essendo
l’altro 50% acquistato dal di lei marito).
La Corte di Cassazione, investita della questione, ha ritenuto che:
“la liberalità realizzata con la corresponsione delle somme necessarie a pagare il prezzo da parte del
donante, non necessariamente debba tradursi nella corresponsione dell'intero prezzo, ma anche di una
parte di esso, laddove sempre sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego
delle somme, e che laddove queste ultime non siano in grado di coprire per l'intero l'obbligazione
gravante sul compratore, l'oggetto della liberalità debba essere identificato, analogamente a quanto
affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato
corrispondente alla quota parte di prezzo soddisfatta con la provvista fornita dal donante”.
Al fine di poter meglio comprendere la portata innovativa della pronuncia citata, si rende necessario
richiamare la sentenza n. 2149/2014, secondo la quale, se il denaro donato costituisce parte del prezzo
dell’immobile acquistato, deve ritenersi esclusa la donazione indiretta dell’immobile, che si configura,
invece, nel caso in cui l’intero prezzo sia stato sostenuto dal donante.
La Corte di Cassazione, nella più recente ordinanza, non ignora la richiamata pronuncia, ma si limita a
sottolineare che:
“anche a voler dare seguito a quanto affermato dal precedente richiamato da parte ricorrente, e
costituito da Cassazione n. 2149/2014, a mente del quale la donazione indiretta dell'immobile non è
configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacchè la
corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l'identico risultato giuridico-
economico dell'attribuzione liberale dell'immobile esclusivamente nell'ipotesi in cui ne sostenga
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l'intero costo, poiché nella fattispecie la donazione concerneva solo il 50% dell'immobile e cioè la
quota che sarebbe dovuta pervenire alla ricorrente, ed essendo stato accertato che le somme versate
dal de cuius alla prima siano pari effettivamente al valore della quota, il richiamo al detto precedente
non potrebbe giovare alla tesi della convenuta”.
Rinuncia al diritto e donazione indiretta
Un’altra pronuncia della Corte di Cassazione, ugualmente rilevante e recente, è l’ordinanza n.
15666/2019.
Nell’ambito di una causa di scioglimento della comunione ereditaria, un erede proponeva la
qualificazione come donazione indiretta, in quanto tale soggetta a collazione, di un’operazione
societaria che aveva portato il fratello a sottoscrivere la quota del 12,50% del capitale sociale della
società di famiglia grazie alla rinuncia del genitore (de cuius) a esercitare il suo diritto di opzione.
Lo stesso erede, poi, chiedeva che venisse qualificata come donazione indiretta anche la somma di
denaro (pari a 148.800 euro) versata dal de cuius al fratello.
Il Tribunale rigettava sia la prima sia la seconda domanda.
Nel primo caso il Tribunale riteneva che la mancata sottoscrizione della quota da parte del genitore
non potesse essere qualificata come donazione: ciò anche in considerazione della circostanza che,
grazie alla richiamata rinuncia al diritto di opzione, anche gli altri soci avrebbero avuto la possibilità di
sottoscrivere l’aumento di capitale.
Nel secondo caso, invece, il Tribunale qualificava il versamento in contanti come una donazione diretta
effettuata in violazione della forma richiesta dall’articolo 782, cod. civ., ma la cui nullità non poteva
essere dichiarata per difetto di domanda in tal senso proposta dalla parte attrice.
Tralasciando quest’ultima questione, relativa esclusivamente ai profili processuali, assume particolare
rilievo la ricostruzione relativa alla rinuncia del diritto di opzione.
Invero, pur essendo pacifico che, come già anticipato, la rinuncia al diritto di opzione fosse a favore di
tutti i soci, i ricorrenti lamentavano che l’intera operazione fosse stata concepita per far sottoscrivere a
un singolo erede l’intero aumento del capitale, a seguito del pagamento di un corrispettivo irrisorio, o,
comunque, finanziato dagli stessi dividendi della società. Tra l’altro, il significativo vantaggio
patrimoniale che l'operazione aveva determinato nella sfera del fratello era avvenuto in conformità alla
volontà del padre, manifestata in uno scritto, nel quale si evidenziava il suo compiacimento nel vedere
il figlio designato a capo dell’azienda di famiglia.
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Nonostante i richiamati elementi, la Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, e non perché
la rinuncia non fosse in grado di avvantaggiare il terzo (anzi, sono state espressamente citate pronunce
in tal senso, quali, Cassazione n. 9872/2000 e n. 507/1967), ma perché non è stato ritenuto sussistente
un nesso diretto tra donazione e arricchimento.
In altre parole, l’arricchimento, pur essendovi stato, non è stato ritenuto in questo caso imputabile alla
decisione del padre, che ha rinunciato al diritto di opzione, dovendo essere considerato logica
conseguenza della decisione del figlio che ha profittato della situazione di particolare favore. Decisione,
però, che anche gli altri soci avrebbero potuto maturare.
La donazione indiretta nei contratti di scambio
La donazione indiretta può configurarsi anche nell’ambito dei contratti di scambio, quando il
corrispettivo previsto è di molto inferiore a quello che sarebbe dovuto: in questo caso la sproporzione,
se elevata, può condurre a individuare una volontà di una parte di arricchire l’altra.
Sul punto può essere citata la sentenza della Corte di Cassazione n. 7681/2019, con la quale i giudici
sono stati chiarimenti a dirimere una questione molto complessa, riguardante i rapporti tra coeredi. Due
sorelle avevano raggiunto un accordo, in forza del quale la prima era usufruttuaria dell’immobile in cui
viveva, mentre la seconda era nuda proprietaria dello stesso appartamento, nonché di altri 3 immobili
appartenenti all’eredità. La sorella titolare del diritto di usufrutto, a seguito della sua morte, lasciava in
eredità tutti i suoi beni all’altra sorella con testamento.
Il marito della sorella deceduta, tuttavia, continuava a occupare l’immobile, presentando una
dichiarazione di successione legittima, nonostante la presenza del testamento. Il marito, convenuto in
giudizio, nel contestare le pretese di parte attrice, proponeva domanda di riduzione, qualificando
l’accordo tra le sorelle una donazione indiretta, con richiesta della quota riservata ai legittimari.
Nel corso del giudizio moriva anche il marito, sicché il processo continuava con la figlia dello stesso.
Il Tribunale di Firenze escludeva la configurabilità di una donazione indiretta, non ritenendo sussistente
una sproporzione: alla sorella che aveva rinunciato a godere dell’immobile per tutti gli anni di vita
dell’altra, infatti, veniva riconosciuta, in futuro, la piena proprietà dell’immobile.
Tale interpretazione è stata condivisa anche dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha precisato
che la donazione indiretta nei contratti di scambio:
“è configurabile solo a condizione che le parti abbiano volutamente stabilito un corrispettivo di gran
lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l’intento (desumibile anche dalla stessa notevole
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entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del corrispettivo) di arricchire la parte
acquirente per quella parte eccedente il corrispettivo pattuito”.
Donazioni indirette e imposta di donazione
Tutto quanto appena premesso con riferimento alla corretta individuazione delle operazioni di
“donazione indiretta”, merita di essere concentrata l’attenzione sui profili riguardanti l’imposta di
donazione.
Utili spunti, in merito, possono essere tratti dalla recente risposta all’istanza di interpello n. 205/2020.
Il caso riguarda un contribuente che aveva richiesto e ottenuto il divorzio. Con l’accordo di divorzio
veniva previsto l’obbligo, in capo allo stesso, di corrispondere ai figli beni e titoli di proprietà, vincolati
fino al venticinquesimo anno di età di questi ultimi.
L’accordo prevede inoltre che le rendite eventualmente maturate sui beni siano depositate su appositi
conti correnti o libretti di risparmio vincolati, intestati a ciascun figlio: tuttavia, non potendo essere i
conti intestati agli stessi figli, ancora minori di età, viene attualmente prevista la cointestazione al
contribuente e all’ex coniuge.
Il contribuente si rivolge quindi all’Agenzia delle entrate, chiedendo se il deposito delle somme possa
configurare donazione indiretta e, come tale, determinare, in capo alla cointestataria, l’applicazione
dell’imposta di donazione.
L’Agenzia delle entrate, al fine di fornire una risposta al quesito prospettato, richiama l’articolo 769,
cod. civ., in forza del quale “La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte
arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa
un'obbligazione”: elementi essenziali della donazione, quindi, come noto, sono l'animus donandi e
l'arricchimento del donatario, cui corrisponde il depauperamento del donante.
Le donazioni indirette, dunque, comportano sempre un arricchimento a favore del beneficiario
realizzato per spirito di liberalità, ma tramite atti diversi dalla donazione.
Pare quindi evidente la netta distinzione tra donazioni (anche indirette) e obblighi giuridici: in
quest’ultimo caso, infatti, manca qualsiasi spirito di liberalità.
Pertanto, sebbene la cointestazione di un conto corrente bancario possa configurare un’ipotesi di
donazione indiretta, ciò non vale in tutti i casi, ma solo laddove l’atto sia guidato dal c.d. animus donandi.
Nel caso oggetto di interpello, quindi, l’istante si limita a rispettare un obbligo imposto con sentenza
del Tribunale, ragion per cui non è mosso dallo spirito di liberalità.
Tutto quanto appena premesso, conclude l’Agenzia delle entrate come segue:
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“Si condivide, pertanto, la soluzione interpretativa fornita dall'istante, secondo la quale la
cointestazione del conto corrente per le finalità sopra ricordate (a garanzia della sicurezza economica
dei figli), in adempimento di un obbligo stabilito dal giudice in sede di sentenza di divorzio, non
costituisce una forma di donazione indiretta in favore della cointestataria e, quindi, non integra il
presupposto impositivo dell'imposta di donazione”.
La risposta, come pare evidente, assume particolare rilievo, non tanto per ciò che afferma, ma,
soprattutto, per ciò che sottintende.
È infatti pacifico che, nel caso di specie, non possa configurarsi un’ipotesi di donazione indiretta e,
quindi, deve ritenersi esclusa qualsiasi forma di tassazione. Dalla risposta dell’Agenzia delle entrate,
però, pare potersi desumere che gli atti di donazione indiretta siano, invece, assoggettati a imposta di
donazione. D’altra parte, se così non fosse, non sarebbe stata necessaria una ricostruzione, come quella
proposta nella risposta a istanza di interpello, finalizzata a chiarire se l’atto possa qualificarsi o meno
come “donazione indiretta”.
In merito all’imposta di donazione, si ritiene opportuno ricordare che l’articolo 1, comma 4, D.Lgs.
346/1990 prevede che la stessa non trovi applicazione nei casi di donazioni di modico valore ex articolo
783, cod. civ.. Il successivo comma 4-bis, inoltre, prevede che l’imposta di donazione non si applichi in
caso di donazione, o altri atti di liberalità, collegati ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione
di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, se per l’atto è prevista l’applicazione
dell’imposta di registro in misura proporzionale o dell’Iva. Pertanto, ad esempio, nel caso in cui una
somma di denaro sia donata per l’acquisto di un immobile, è esclusa la tassazione ai fini dell’imposta
di donazione se il collegamento tra la dazione di denaro e l’acquisto dell’immobile è richiamato nell’atto
stesso.
In merito a questi profili, tra l’altro, è recentemente intervenuta anche la CTR Lombardia, con la
sentenza n. 263/2020, specificando che, in questi casi, gli importi non assumono rilievo nemmeno ai
fini dal calcolo del coacervo.
La questione oggetto della richiamata pronuncia vedeva il marito donare al coniuge una somma di
denaro pari a 999.000 euro, dichiarando, nell’atto pubblico, di non aver effettuato, a favore della stessa,
nessuna precedente donazione, a eccezione della liberalità indiretta di 1.890.000 euro di cui all'atto di
compravendita di un immobile.
L’Agenzia delle entrate notificava un avviso di liquidazione, ritenendo rilevante, ai fini
dell’individuazione della franchigia, anche il valore della donazione indiretta: determinava quindi in
39.960 euro – pari al 4% dell'importo di 999.000 euro – l'imposta di donazione dovuta.
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I coniugi impugnavano l’avviso di liquidazione, evidenziando che l'imposta di donazione non si applica
alle donazioni e alle altre liberalità collegate ad atti concernenti il trasferimento di diritti immobiliari,
se per l'atto traslativo è prevista l'applicazione dell'imposta di registro o dell'Iva sul trasferimento
immobiliare. Essendo quindi i trasferimenti immobiliari non soggetti a imposta, gli stessi dovevano
ritenersi esclusi dal coacervo.
Secondo la tesi prospettata dall’Agenzia delle entrate, invece, l’articolo 57, comma 1, D.Lgs. 346/1990,
esclude, ai fini del calcolo dell'eventuale supero della franchigia, il computo delle donazioni menzionate
dall'articolo 1, comma 4, D.Lgs. 346/1990, ovvero le donazioni rimuneratorie e di modico valore, ma
non le liberalità indirette collegate ad atti di trasferimento immobiliari (richiamate dall’articolo 1,
comma 4-bis, D.Lgs. 346/1990).
Stante le richiamate tesi, i giudici aderiscono all’interpretazione prospettata dal contribuente, posto che
l’articolo 57, D.Lgs. 346/19902 esclude dalle donazioni rilevanti ai fini della disciplina del coacervo:
“quelle registrate gratuitamente o con pagamento dell'imposta in misura fissa a norma degli articoli
55 e 59 del medesimo testo, tra cui le donazioni di ogni altro bene o diritto dichiarato esente
dall'imposta a norma di legge (articolo 59, comma 1, lettera b, D.Lgs. 346/1990) quali appunto risultano
essere le liberalità indirette collegate ad atti di trasferimento immobiliari”.
Tutto quanto appena premesso con riferimento agli atti di trasferimento immobiliari, giova ricordare
che, secondo l’interpretazione offerta dall’Agenzia delle entrate3 (recentemente confermata dalla
richiamata risposta all’istanza di interpello), le altre liberalità indirette risultano essere tassabili ai sensi
dell’articolo 56-bis, D.Lgs. 346/1990.
In virtù della richiamata disposizione normativa, per le donazioni indirette può essere prevista la
registrazione volontaria, oppure una particolare disciplina in materia di accertamento, in forza della
2 “Il valore globale netto dei beni e dei diritti oggetto della donazione è maggiorato, di un importo pari al valore complessivo di tutte le donazioni,
anteriormente fatte dal donante al donatario, comprese quelle presunte di cui all'articolo 1, comma 3, ed escluse quelle indicate nell'articolo 1, comma
4, e quelle registrate gratuitamente o con pagamento dell'imposta in misura fissa a norma degli articoli 55 e 59. Agli stessi fini, nelle ipotesi di cui
all'articolo 56, comma 2, il valore globale netto di tutti i beni e diritti complessivamente donati è maggiorato di un importo pari al valore complessivo
di tutte le donazioni anteriormente fatte ai donatari e il valore delle quote spettanti o dei beni e diritti attribuiti a ciascuno di essi è maggiorato di un
importo pari al valore delle donazioni a lui anteriormente fatte dal donante. Per valore delle donazioni anteriori si intende il valore attuale dei beni
e dei diritti donati; si considerano anteriori alla donazione, se dai relativi atti non risulta diversamente, anche le altre donazioni di pari data”. 3 “Si ritiene che le liberalità indirette siano rimaste imponibili anche nell'ambito della nuova imposta. Il Legislatore, infatti, in base al combinato
disposto degli articoli 1, Tus e 2, comma 47, D.L. 262/2006, attribuendo rilevanza fiscale ai fini della predetta imposta anche ai "trasferimenti di beni
e diritti … a titolo gratuito", ha ricompreso nell'ambito applicativo della imposta sulle successioni e donazioni ogni forma di liberalità tra vivi, compresa
quella indiretta. Come già chiarito dalla circolare n. 3/E/2008, § 2, quindi, l'imposta sulle successioni e donazioni si applica alle "liberalità indirette
risultanti da atti soggetti a registrazione" (articolo 1, comma 4-bis, Tus), nonché alle altre "liberalità tra vivi" che si caratterizzano per l'assenza di un
atto scritto (soggetto a registrazione).
L'imposta, ai sensi del citato articolo 1, comma 4-bis, non deve essere comunque applicata nei casi di donazioni o altre liberalità collegate ad atti
concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l'atto sia prevista l'applicazione
dell'imposta di registro, in misura proporzionale o dell'imposta sul valore aggiunto”. Cfr. circolare n. 30/E/2015, § 1.2.
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quale l’accertamento stesso può essere effettuato esclusivamente in presenza di entrambe le seguenti
condizioni:
a) quando l'esistenza delle liberalità risulti da dichiarazioni rese dall'interessato nell'ambito di
procedimenti diretti all'accertamento di tributi;
b) quando le liberalità abbiano determinato, da sole o unitamente a quelle già effettuate nei confronti
del medesimo beneficiario, un incremento patrimoniale superiore all'importo di 180.759,91 euro.
L’accertamento, quindi, può avere avvio solo a seguito di espressa autodichiarazione da parte del
contribuente, resa nell’ambito di procedimenti diretti all’accertamento di tributi (è il classico caso, della
donazione indiretta dichiarata nell’ambito di un accertamento sintetico ai fini delle imposte dirette).
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La recente giurisprudenza di legittimità
sull’azione revocatoria di Sergio Pellegrino – dottore commercialista, Amministratore Consulta Delta Erre Trust Company Srl
Una serie di recenti pronunce della Cassazione hanno affrontato alcune tematiche
“particolari” legate all’azione revocatoria: si tratta della fattispecie del credito litigioso, della
possibilità di esperire l’azione nei confronti di un fallimento, della presenza di eventuali
ipoteche sul bene oggetto dell’atto dispositivo.
Premessa
Si susseguono incessantemente le pronunce di merito e di legittimità relative ad azioni revocatorie
ordinarie attivate da parte di creditori che lamentano il pregiudizio delle proprie ragioni per effetto di
atti dispositivi posti in essere da parte dei debitori.
Appare opportuno, quindi, andare a verificare, attraverso i più recenti approdi giurisprudenziali, quale
sia lo stato dell’arte in relazione ad alcune tematiche di particolare interesse, non dopo aver effettuato
una sintetica ricostruzione di quelli che sono gli elementi fondanti della disciplina dell’actio pauliana.
Inquadramento normativo e finalità dell’azione
Punto di partenza in questo ambito non può che essere il disposto dell’articolo 2740, cod. civ., con il
quale il Legislatore ha stabilito che “il debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con
tutti i suoi beni presenti e futuri”.
Il patrimonio del debitore è quindi posto a garanzia generica di tutti i creditori, che su di esso si possono
soddisfare per vedere tutelate le proprie pretese, in condizioni di parità, fatta salva, chiaramente, la
presenza di eventuali cause di prelazione.
Per far sì che la previsione dell’articolo 2740, cod. civ. possa essere effettivamente efficace e venga
assicurata l’integrità della garanzia patrimoniale, un ruolo chiave nell’ambito del sistema di tutele che
il nostro ordinamento ha approntato per garantire i creditori1 viene svolto appunto dall’azione
revocatoria, disciplinata dall’articolo 2901 e ss., cod. civ..
1 Nell'ambito dei c.d. mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale che troviamo nel capo V, Titolo III, Libro VI, cod. civ..
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L’azione revocatoria ordinaria può essere esperita da parte del creditore che ritenga che l’atto
dispositivo posto in essere dal proprio debitore possa recare pregiudizio alle ragioni del credito.
Affinché il creditore possa “attivarsi” devono essere presenti una serie di presupposti:
− è, evidentemente, innanzitutto necessaria l’esistenza di un diritto di credito, anche se, come avremo
modo di evidenziare meglio nel prosieguo, la nozione di credito cui fa riferimento la disposizione è
estremamente “ampia”;
− quindi, il fatto che il debitore sia a conoscenza del pregiudizio arrecato attraverso l’atto dispositivo
ovvero, qualora questo sia anteriore rispetto al sorgere del credito, che l’atto fosse dolosamente
preordinato a pregiudicarne il soddisfacimento;
− infine, la circostanza che, nel caso in cui l’atto sia a titolo oneroso, il terzo sia anch’esso consapevole
dell’esistenza del pregiudizio.
Non soltanto gli atti dispositivi compiuti da parte del debitore successivamente al sorgere del credito,
ma anche quelli posti in essere antecedentemente, possono essere oggetto di azione revocatoria,
sebbene dovendo rispettare condizioni più rigorose.
Va evidenziato però come l’azione revocatoria abbia una funzione meramente conservativa e non
recuperatoria: in buona sostanza, l’accoglimento della stessa non sancisce l’illegittimità o l’inesistenza
dell’atto pregiudizievole, ma “soltanto” la sua inefficacia e, per di più, ciò limitatamente nei confronti
del creditore che l’ha concretamente esperita.
Questi, una volta acquisita la pronuncia di revoca, dovrà attivarsi per aggredire il bene oggetto dell’atto
dispositivo con la procedura di espropriazione forzata, così come disciplinata dall’articolo 2902, cod.
civ.. Potrà promuovere verso i terzi acquirenti le stesse azioni, conservative o esecutive, che avrebbe
potuto porre in essere nei confronti del debitore qualora l’atto dispositivo non fosse stato realizzato.
La tutela del creditore viene completata della previsione contenuta nel comma 2, articolo 2902, cod.
civ. che prevede che il terzo acquirente, qualora abbia verso il debitore ragioni di credito dipendenti
dall’esercizio dell’azione revocatoria, non possa concorrere sul ricavato dei beni oggetto dell’atto
dichiarato inefficace, se non dopo che il creditore sia stato soddisfatto.
Nel caso in cui vi sia stato un ulteriore passaggio del bene nei confronti di un soggetto terzo, l’ultimo
comma dell’articolo 2901, cod. civ. prevede che l’inefficacia dell’atto non pregiudichi i diritti acquistati
a titolo oneroso dai terzi in buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione.
Per quanto riguarda l’individuazione degli atti dispositivi che si possono considerare pregiudizievoli, e
quindi potenzialmente idonei a generare la reazione da parte del creditore, questa è stata rimessa dal
Legislatore alla valutazione del giudice, non essendo possibile definirne le condizioni a priori.
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L’aspetto importante da sottolineare è che il creditore non deve dimostrare di aver subito un danno
concreto ed effettivo, essendo sufficiente la sussistenza del mero pregiudizio e quindi il fatto che l’atto
dispositivo compiuto dal debitore abbia reso più difficoltosa la tutela delle ragioni creditorie.
Questo comporta che anche modifiche di carattere qualitativo, e non quantitativo, della consistenza
patrimoniale del debitore possano legittimare l’azione revocatoria: l’esempio classico al riguardo è
quello della vendita di un immobile che, anche se realizzata a condizioni di mercato, può legittimare
l’attivazione dell’articolo 2901, cod. civ. essendo evidente che è più problematico per il creditore andare
ad “aggredire” importi di denaro (facilmente occultabili) rispetto al patrimonio immobiliare.
Per espressa previsione normativa, contenuta nell’ambito del comma 3, articolo 2901, cod. civ. sono
sottratti all’azione revocatoria gli atti dispositivi posti in essere da parte del debitore per fare fronte a
un debito scaduto.
Dopo aver analizzato l’elemento oggettivo, e cioè il ricorrere dell’eventus damni, dobbiamo soffermarci
su quello soggettivo, che assume sfumature diverse a seconda della natura gratuita o onerosa dell’atto
dispositivo e del momento in cui esso viene realizzato, anteriormente o successivamente alla
formazione del credito.
Nel caso in cui l’atto dispositivo sia a titolo gratuito, non potendo l’accoglimento dell’azione revocatoria
andare a compromettere la situazione del terzo rispetto a quella che era ex ante, essendo stato questi
beneficato di un incremento patrimoniale senza alcun corrispettivo, è sufficiente andare a indagare
l’aspetto psicologico in capo al debitore-disponente.
Qualora l’atto dispositivo sia stato realizzato successivamente rispetto all’assunzione del debito, la
consapevolezza del pregiudizio prevista dalla norma è, di fatto, in re ipsa e non richiede un particolare
sforzo probatorio: se il patrimonio “residuo” del debitore non è sufficiente a fornire la garanzia
patrimoniale pretesa dall’articolo 2740, cod. civ., è evidente (e automatico) il pregiudizio.
Se invece l’atto dispositivo precede la manifestazione del debito, è necessario per il creditore dimostrare
la dolosa preordinazione.
Trattandosi di una non semplice indagine psicologica, nella valutazione del giudice assumerà
probabilmente un particolare rilievo l’aspetto temporale: se i 2 eventi sono cronologicamente
ravvicinati, è lecito presumere la preordinazione, mentre se così non è, e l’atto dispositivo magari è stato
posto in essere anni prima, le conclusioni probabilmente divergerebbero radicalmente.
Nel caso in cui, invece, l’atto dispositivo sia a titolo oneroso, l’investigazione sulla sussistenza del
consilium fraudis deve riguardare anche la figura del terzo.
Patrimonio
25 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La conoscenza da parte di questi del pregiudizio può essere provata dal creditore con ogni mezzo, anche
attraverso il ricorso a presunzioni.
Ad esempio, la circostanza che debitore e acquirente siano parenti alleggerisce evidentemente l’onere
probatorio in capo al creditore, che avrà gioco facile a sostenere il fatto che sia inverosimile che il terzo
fosse all’oscuro della situazione debitoria del disponente.
Sulla base di quanto dispone l’articolo 2903, cod. civ., l’azione revocatoria può essere esercitata entro
5 anni dalla data dell’atto, intesa, almeno dalla giurisprudenza prevalente, come il giorno in cui è stata
data pubblicità dell’atto a terzi (non potendosi, infatti, fino a quel momento esercitare l’azione).
L’ampia “nozione” di credito e la fattispecie del credito litigioso
Una prima tematica che merita uno specifico approfondimento è quella dell’esperibilità dell’azione
revocatoria in relazione a crediti che non siano certi ed esigibili, ma soltanto eventuali.
Si sottolineava in precedenza come la nozione di credito cui fa riferimento la norma sia decisamente
ampia, tant’è che la disposizione indica come anche il credito soggetto a condizione o a termine, e
quindi al momento inesigibile, possa essere oggetto di un’azione revocatoria.
E lo stesso vale anche per il credito illiquido, vale a dire quel credito non ancora quantificato nel suo
esatto ammontare.
La giurisprudenza di legittimità ha nel corso del tempo ulteriormente esteso la nozione di credito,
ricomprendendo nell’ambito applicativo della disposizione anche il credito litigioso, dunque eventuale.
Lo ha fatto attraverso un percorso non privo di ostacoli, nella quale la lettura “espansiva” della norma,
sostenuta da alcune pronunce, è stata contrastata da altre, autrici della tesi della necessità della
sospensione, ai sensi dell’articolo 295, c.p.c., del processo nel quale sia proposta l’azione revocatoria in
attesa della definizione del distinto giudizio che ha a oggetto l’accertamento del credito per la cui
conservazione è stata proposta la domanda revocatoria.
Sulla questione però, ormai parecchi anni fa, si sono pronunciate le Sezioni Unite Civili della Corte di
Cassazione, con l’ordinanza n. 9440/2004 che rappresenta ancora oggi la pietra angolare
dell’orientamento dei giudici di legittimità.
Sposando la lettura “espansiva” dell’articolo 2901, cod. civ. e quindi “ampliando” la nozione di credito
a cui questo fa riferimento, la pronuncia in questione ha negato la necessità della sospensione del
procedimento incentrato sull’azione revocatoria e questo alla luce della considerazione che la
sospensione prevista dall’articolo 295, c.p.c. deve essere disposta nel caso in cui:
Patrimonio
26 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
“i giudizi pendenti innanzi a giudici diversi siano legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità-
dipendenza, da intendere come pregiudizialità non meramente logica, ma giuridica, nel senso che la
definizione della controversia pregiudiziale costituisca l’indispensabile antecedente logico-giuridico
dal quale dipende la decisione della causa pregiudicata, il cui accertamento debba avvenire con
efficacia di giudicato, con conseguente eventualità di un conflitto di giudicati”.
Una condizione di questo tipo, evidentemente, non ricorre nel caso del credito litigioso, in quanto la
sussistenza del credito, sebbene eventuale, e quindi della legittimazione all’esperimento dell’azione
revocatoria, è dato proprio dalla pendenza del giudizio di accertamento del credito, del quale non è
necessario attendere la definizione prima di pronunciarsi sulla domanda di revocatoria.
Non c’è neppure il rischio di un conflitto fra giudicati perché, come evidenziato in precedenza, con
l’eventuale accoglimento della domanda il giudice si “limita” a dichiarare l’inefficacia dell’atto di
disposizione nei confronti del creditore procedente.
Per dare attuazione alla sentenza è necessario procedere nelle forme previste dagli articoli 602 e 603,
c.p.c., notificando al debitore e al terzo acquirente il titolo esecutivo.
Nel caso del credito litigioso questo è rappresentato dalla sentenza di condanna, di modo che qualora
la domanda del creditore sia stata rigettata e dunque non sia stata riconosciuta l’esistenza del credito,
la sentenza che ha accolto la domanda revocatoria sarà evidentemente priva di utilità all’atto pratico.
Come puntualizzato nell’ordinanza n. 22859/2019 della Cassazione, questo si deve considerare ormai
un consolidato orientamento della Suprema Corte:
“anche un credito litigioso (tale era la originaria condizione di quello a garanzia del quale è stata
esperita l’azione revocatoria) può essere tutelato ai sensi dell’articolo 2901, cod. civ., in quanto tale
norma ha accolto una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente
irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità, sicché anche il credito eventuale,
nella veste di credito litigioso, è idoneo a determinare - sia che si tratti di un credito di fonte
contrattuale oggetto di contestazioni separato giudizio sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto
illecito – l’insorgere della qualità di creditore che abilita l’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria
attraverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore”.
Secondo il principio espresso dalla Cassazione, dunque, anche un credito in contestazione in Tribunale
può essere oggetto dell’esercizio dell’azione revocatoria, consentendo comunque la manifestazione
della “qualità” di creditore.
Sulla questione si è recentemente pronunciata la Cassazione con l’ordinanza n. 4212/2020.
Patrimonio
27 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La controversia si era originata per effetto dell’azione revocatoria esperita dal curatore fallimentare per
ottenere la dichiarazione di inefficacia dell’atto di donazione con il quale il padre, presidente del
collegio sindacale della società poi fallita, aveva trasferito il proprio patrimonio immobiliare al figlio.
Secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello non avrebbe correttamente interpretato la sentenza delle
Sezioni Unite della Cassazione del 2004, che, nel fare riferimento al credito litigioso, avrebbe inteso
esclusivamente il credito potenzialmente derivante da un giudizio già intrapreso.
Nel caso di specie – questa la tesi difensiva – non pendendo alcun giudizio di accertamento del credito
risarcitorio nei confronti del professionista, quale presidente del collegio sindacale della società poi
fallita, ne doveva conseguire il difetto di legittimazione attiva e l’interesse ad agire del fallimento, che
non potrebbe essere considerato titolare di un credito neppure eventuale.
I giudici hanno però ritenuto il ricorso infondato, contestando la visione proposta.
Per legittimare l’azione revocatoria è sufficiente che il credito non sia manifestatamente pretestuoso e
non vi è un onere di preventiva introduzione del giudizio di accertamento del credito.
La ragione di credito costituisce titolo di legittimazione dell’azione revocatoria e quindi non necessita
un accertamento sia pure incidentale del credito, ma, unicamente, l’accertamento non manifesta
pretestuosità della ragione di credito quale titolo di legittimazione all’azione.
Legittima era stata quindi l’azione intrapresa dal fallimento, che aveva il diritto di agire in revocatoria
a tutela di un credito in relazione al quale, al momento, non aveva ancora promosso un giudizio di
accertamento, avendo comunque allegato nell’atto di citazione i fatti costitutivi del credito risarcitorio
vantato.
Inammissibilità dell’azione revocatoria nei confronti di un fallimento
La questione dell’ammissibilità dell’azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, nei confronti di un
fallimento è stata recentemente affrontata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza
n. 12476/2020.
La problematica era stata già esaminata dalle Sezioni Unite nel 20182: il collegio giudicante aveva allora
concluso per l’inammissibilità, sulla base delle seguenti considerazioni:
− l’azione revocatoria ordinaria o fallimentare si concretizza in un’azione costitutiva che modifica ex
post una situazione giuridica preesistente;
− alla data di apertura del concorso, il passivo si deve considerare cristallizzato al fine di tutelare la
massa dei creditori.
2 Sentenza Cassazione n. 30416/2018.
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28 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Anche alla luce del dibattito sviluppatosi a livello di dottrina, la prima Sezione della Corte ha richiesto
una revisione della posizione assunta nel precedente delle Sezioni Unite.
La natura costitutiva della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, “contestata” dai giudici della
prima Sezione, non può, secondo la “nuova” pronuncia, essere messa in discussione:
“la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra infatti un diritto di
credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima e indipendentemente dall’esercizio
dell’azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all’esercizio dell’azione
revocatoria, al punto che rispetto a esso non è configurabile l’interruzione della prescrizione a mezzo
di semplice atto di costituzione in mora (articolo 2493, ultimo comma, cod. civ.)”.
La funzione dell’azione revocatoria è quella di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore
del patrimonio del suo debitore, messa in “crisi” dall’atto dispositivo: non determina la restituzione del
bene al patrimonio del debitore, ma “soltanto” l’inefficacia dell’atto dispositivo nei confronti dell’attore,
che può così aggredire il bene attraverso l’azione esecutiva.
L’inefficacia in questione può soltanto sopravvenire nel momento in cui vi è l’accoglimento della
revocatoria, che quindi incide ex post sulla situazione preesistente: non può essere pertanto condivisa
la tesi sostenuta da parte della dottrina, che spiegherebbe l’azione revocatoria ordinaria sul piano delle
limitazioni del potere del debitore di disporre dei propri beni.
L’atto dispositivo non è inefficace né per il debitore, né per la controparte, tant’è che il terzo acquirente
del bene continua a mantenere inalterato il diritto di proprietà, ma diventa esposto alle ragioni
esecutive del creditore, in una situazione che può essere assimilata a quella del terzo acquirente del
bene ipotecato o dato in pegno.
Con il fallimento si apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito per titolo anteriore alla
sentenza, mentre accadimenti successivi non debbono incidere sull’asse patrimoniale assoggettato al
concorso.
L’azione revocatoria nei confronti del fallimento deve essere, perciò, considerata inammissibile, poiché
non è possibile sottrarre il bene oggetto dell’azione all’asse fallimentare cristallizzato al momento della
dichiarazione di fallimento, sottraendolo così alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente.
Il fallimento dell’acquirente impedisce il recupero del bene per esercitare su di esso l’azione esecutiva,
ma non preclude l’insinuazione al passivo di quel fallimento per il corrispondente controvalore: i
creditori dell’alienante (e per essi il curatore fallimentare ove l’alienante sia fallito) restano tutelati
nella garanzia patrimoniale generica dalle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al
passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione
Patrimonio
29 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
astrattamente revocabile, demandando al giudice delegato di quel fallimento anche la delibazione della
pregiudiziale costitutiva.
Azione revocatoria su beni gravati da ipoteca
Altra tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi recentemente la Suprema Corte è quella della
possibilità di esperire l’azione revocatoria su beni vincolati già da ipoteca.
Si è occupata della questione, innanzitutto, l’ordinanza n. 1593/2020, che ha esaminato un caso di
domanda di revocatoria in relazione alla donazione da marito a moglie dell’unico bene del patrimonio
del debitore, ritenuta lesiva del diritto da parte della ricorrente alla reintegra nella quota di legittima.
I convenuti avevano eccepito, fra le altre cose, il fatto che il credito fosse sorto successivamente e che
il bene oggetto di revocatoria fosse comunque vincolato da ipoteca a favore di una banca e quindi la
donazione non poteva ritenersi per questo pregiudizievole.
In relazione a quest’ultimo aspetto, i giudici evidenziano come l’azione revocatoria operi a tutela
dell’effettività della responsabilità patrimoniale del debitore, ma non produce effetti recuperatori o
restitutori al patrimonio dello stesso del bene dismesso, che ne richiedano quindi la libertà e la
capienza: comporta infatti la “sola” inefficacia dell’atto revocato e l’assoggettamento del bene al diritto
dell’attore di procedere a esecuzione forzata sullo stesso.
Di conseguenza, il fatto che vi siano ipoteche già gravanti sul bene, non incidono sul pregiudizio
arrecato dall’atto dispositivo al creditore, anche alla luce della considerazione che le iscrizioni
ipotecarie possono subire vicende modificative o istintive a opera sia del debitore sia di terzi: dunque
l’ipoteca non preclude la possibilità di esperire l’azione revocatoria.
Questa conclusione è confermata anche dalla successiva ordinanza n. 8992/2020, che afferma che:
“secondo la costante giurisprudenza di questa Corte in tema di azione revocatoria ordinaria, l'esistenza
di una ipoteca sul bene oggetto dell'atto dispositivo, ancorché di entità tale da assorbirne, se fatta
valere, l'intero valore, non esclude la connotazione di quell'atto come "eventus damni" (presupposto
per l'esercizio della azione pauliana), atteso che la valutazione tanto della idoneità dell'atto dispositivo
a costituire un pregiudizio, quanto della possibile incidenza, sul valore del bene, della causa di
prelazione connessa all'ipoteca, va compiuta, in chiave di effetti, con riferimento non al momento del
compimento dell'atto, ma con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, per apprezzare
l'eventualità del venir meno, o di un ridimensionamento, della garanzia ipotecaria”.
La valutazione va dunque fatta nella prospettiva del possibile pregiudizio futuro, così come valutabile
al momento in cui viene stipulato l’atto dispositivo.
Fiscalità
30 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Gli accertamenti da indagini finanziarie di Marco Ligrani – dottore commercialista
Quello delle indagini finanziarie rappresenta uno dei principali e più invasivi metodi di
controllo della posizione patrimoniale dei contribuenti, potenziato in modo rilevante
all’indomani della creazione dell’Archivio dei rapporti con gli operatori finanziari, che, di
fatto, consente all’Amministrazione finanziaria di disporre di tutti i dati in modo
continuativo. Nel corso degli anni, la legislazione ha, via via, ampliato notevolmente
l’oggetto del controllo, finendo per includervi ogni tipo di rapporto e di operazione, che siano
stati intrattenuti con gli intermediari creditizi. Dal punto di vista operativo, la capacità di
difesa da parte del contribuente, nella fase istruttoria prima ancora che in quella
contenziosa, è direttamente proporzionale alla possibilità di tracciare analiticamente ogni
movimento che lo riguardi, in modo da vincere la presunzione legale relativa prevista per
legge.
Premessa
Inizialmente note come “accertamento bancario” quando ancora il perimetro normativo era ristretto ai
soli istituti di credito, le indagini finanziarie, oggetto dell’articolo 32, D.P.R. 600/1973 e dell’articolo 51,
D.P.R. 633/1972, hanno conosciuto un’evoluzione sempre più rapida nel corso del tempo, fino a
ricomprendervi tutti i rapporti e le operazioni, sia di conto corrente sia di investimento lato sensu, aventi
– appunto - natura finanziaria.
Dal 2011 è stato attivato l’archivio dei rapporti con gli operatori finanziari che ha decisamente
potenziato un istituto già – di per sé stesso – invasivo, cui gli intermediari creditizi hanno l’obbligo di
inviare periodicamente tutti i dati in proprio possesso, relativi ai rapporti intrattenuti con la clientela.
L’ultima modifica, datata 2016 e attualmente in vigore, ha escluso dal novero dei movimenti accertabili
ai fini delle imposte dirette tutti i prelevamenti dei professionisti (facendo proprio il principio espresso
dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 228/2014) e, al contempo, ha fissato le soglie minime di
1.000 euro giornalieri e di 5.000 euro mensili, al di sotto delle quali non è richiesta alcuna prova
contraria da parte del contribuente.
A seguito dell’emergenza epidemiologica per il Covid-19, il D.L. “Cura Italia” (18/2020) ha prorogato il
termine di effettuazione delle comunicazioni all’archivio, in scadenza tra l’8 marzo e il 31 maggio 2020.
Fiscalità
31 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
L’oggetto del controllo e la modalità di acquisizione dei dati: l’archivio dei rapporti con
gli operatori finanziari
Oggetto delle indagini finanziarie sono tutti i dati e gli elementi attinenti ai rapporti e alle operazioni
intrattenuti con gli intermediari finanziari, nonché alle garanzie prestate da terzi o dagli operatori
finanziari, acquisiti con le diverse modalità previste dall’articolo 32, D.P.R. 600/1973, in materia di
accertamento delle imposte sui redditi e dall’articolo 51, D.P.R. 633/72, con riferimento all’Iva.
La prima considerazione che va fatta attiene all’accezione amplissima dell’espressione “dati ed elementi
attinenti” utilizzata dal Legislatore, la quale estende il riferimento ai rapporti e alle operazioni di ogni
tipo e natura, anche oltre il mero dato letterale indicato nella norma. Pertanto, non soltanto le mere
risultanze dei dati messi a disposizione dal sistema creditizio, ma anche ogni altra informazione che a
esse risulti eventualmente connessa (rectius attinente, per utilizzare la stessa espressione del testo)
rientra, a pieno titolo, nel novero degli elementi oggetto di controllo; massima discrezionalità, dunque,
da parte dell’Agenzia delle entrate e della G. di F., soggetti deputati alle indagini, che – di fatto – non
trova ostacolo alcuno.
Quanto ai destinatari cui la richiesta di informazioni è rivolta, essi rappresentano la generalità degli
intermediari finanziari e creditizi: in particolare, come precisato nell’elenco contenuto nel comma 1,
numero 7, di entrambe le disposizioni, si tratta delle banche, della società Poste italiane Spa per le
attività finanziarie e creditizie, delle società ed enti di assicurazione per le attività finanziarie, degli
intermediari finanziari, delle imprese di investimento (Sim), degli organismi di investimento collettivo
del risparmio (Oicr), delle società di gestione del risparmio (Sgr) e delle società fiduciarie.
Venendo alla modalità di acquisizione delle informazioni, l’istituzione, a opera del Decreto 201/2011,
dell’Archivio dei rapporti con gli operatori finanziari, di fatto consente – ai soggetti preposti ai controlli
– di disporre in modo continuativo delle informazioni rilevanti ai fini fiscali. Si tratta, come precisato
dalla stessa Agenzia delle entrate sul proprio sito istituzionale, di una sezione dell’Anagrafe tributaria
che si affianca a quella relativa all’Anagrafe dei rapporti finanziari, che era già stata regolata dai
provvedimenti del 19 gennaio 2007 e del 29 febbraio 2008.
Per effetto dell’istituzione dell’archivio, dunque, dal 1° gennaio 2012 gli intermediari finanziari e
creditizi hanno l’obbligo di inviare periodicamente tutti i dati in proprio possesso, tra i quali è compresa
la giacenza media annua dei depositi e dei conti correnti bancari e postali. Per effetto del rimando
all'articolo 7, comma 6, D.P.R. 605/1973, i dati comprendono anche le c.d. operazioni “extra-conto”
(come il cambio-assegni), che prevedono l’identificazione mediante i dati anagrafici e il codice fiscale
del soggetto che le effettua.
Fiscalità
32 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
A titolo di esempio, dunque, verranno inviate all’archivio tutte le informazioni relative ai rapporti di
conto corrente, all’utilizzo di carte di credito, agli investimenti di natura finanziaria e alle cassette di
sicurezza.
Accanto all’operatività dell’archivio, resta, naturalmente, ferma la possibilità, per l’Amministrazione
finanziaria, di procedere, ai sensi del comma 1 degli articoli 32, D.P.R. 600/1973 e 51, D.P.R. 633/1972,
con una formale richiesta di informazioni inviata agli intermediari finanziari, previa espressa
autorizzazione da parte del direttore (centrale o regionale) dell’Agenzia delle entrate, ovvero del
comandante regionale della G. di F.. La Corte di Cassazione, tuttavia, con giurisprudenza oramai
consolidata ha escluso che tale autorizzazione debba essere necessariamente portata a conoscenza del
contribuente, ove allo stesso non ne derivi alcun pregiudizio:
“In tema di accertamento dell'Iva, l'autorizzazione prescritta dall'articolo 51, comma 2, n. 7, D.P.R.
633/1972 (nel testo, applicabile "ratione temporis", risultante dalle modifiche introdotte dall'articolo
18, comma 2, lettere c) e d), L. 413/1991) ai fini dell'espletamento delle indagini bancarie risponde a
finalità di mero controllo delle dichiarazioni e dei versamenti d'imposta e non richiede alcuna
motivazione; pertanto, la mancata esibizione della stessa all'interessato non comporta l'illegittimità
dell'avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite
dall'ufficio o dalla G. di F., potendo l'illegittimità essere dichiarata soltanto nel caso in cui dette
movimentazioni siano state acquisite in materiale mancanza dell'autorizzazione, e sempre che tale
mancanza abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente.» (Cassazione, sentenza n.
16874/2009)” (ordinanza n. 7747/2019).
Dal punto di vista soggettivo, risulta oramai superata la diatriba in merito ai contribuenti destinatari
delle indagini finanziarie, per cui vi rientra, pacificamente, ogni categoria reddituale e, dunque, anche
le persone fisiche.
Il dubbio era sorto in quanto l’articolo 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, D.P.R. 600/1973 dopo un
riferimento onnicomprensivo al reddito imponibile (“I dati ed elementi attinenti ai rapporti e alle
operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del n. 7) e dell'articolo 33, commi 2 e 3, o acquisiti ai
sensi dell'articolo 18, comma 3, lettera b), D.Lgs. 504/1995, sono posti a base delle rettifiche e degli
accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per
la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”), contiene un
riferimento specifico ai ricavi e alle scritture contabili e questo aveva fatto pensare a una limitazione ai
soli percettori di reddito d’impresa o di lavoro autonomo (“alle stesse condizioni sono altresì posti come
Fiscalità
33 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
ricavi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e
sempre che non risultino dalle scritture contabili”).
In realtà, il dubbio è stato dissipato dalla stessa Corte di Cassazione, la quale, negli anni, ha valorizzato
l’onnicomprensività della norma, che, pertanto, ricomprende ogni categoria reddituale, facendo leva
anche sul fatto che viene espressamente richiamato anche l’articolo 38, D.P.R. 600/1973, che riguarda
proprio le persone fisiche:
“secondo questa Corte, il contribuente ha l'onere di superare la presunzione posta dagli articoli 32,
D.P.R. 600/1973 e 51, D.P.R. 633/1972, dimostrando in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle
operazioni bancarie a fatti imponibili (Cassazione n. 10480/2018), dimostrazione che nel caso di specie
non risulta avvenuta, senza che assuma alcuna rilevanza la sua qualifica soggettiva di lavoratore
dipendente, autonomo o imprenditore, dato che la presunzione legale relativa alla prima parte del
D.P.R. 600/1973, articolo 32, comma 1, n. 2 (consistente nel fatto che i “dati" e gli "elementi" acquisiti
attraverso le indagini bancarie possono essere posti a base degli accertamenti e rettifiche, di cui agli
articoli 38-41, D.P.R. 600/1973, e agli articoli 54 e 55, D.P.R. 633/1972 per l'Iva, se il contribuente non
dimostra di averne tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta, o che essi non
hanno rilevanza allo stesso fine), trova applicazione anche a soggetti diversi dagli imprenditori e dai
lavoratori autonomi in virtù della portata generale del disposto normativo (Cassazione n. 15050/2014)”
(ordinanza n. 104/2019).
Dello stesso avviso si è dimostrata la G. di F., la quale, seguendo il medesimo schema logico-giuridico
della Cassazione, ha precisato che si possono computare in aumento del reddito di qualsiasi
contribuente, attinto dalle indagini finanziarie, gli importi corrispondenti ai versamenti presso gli
intermediari (circolare n. 109546/2017, pagina 26).
L’onere della prova: la presunzione legale relativa a favore del fisco
Una volta acquisite le informazioni, spetta al contribuente – e al professionista che sia stato
eventualmente delegato – dimostrare che i movimenti ingiustificati non possiedono natura imponibile.
Infatti, quella delle indagini finanziarie è una delle metodologie accertative che prevedono una
inversione legale dell’onere probatorio: è l’effetto della previsione contenuta in entrambi i passaggi
contenuti nel comma 1, n. 2 degli articoli 32, D.P.R. 600/1973 e 51, D.P.R. 633/1972 di cui si è detto
poc’anzi, i quali gravano espressamente il contribuente della dimostrazione della non imponibilità delle
somme:
Fiscalità
34 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
“se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a
imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; ... se il contribuente non ne indica il soggetto
beneficiario e sempre che non risultino dalle scritture contabili.”
L’inciso “sono posti a base” contenuto nell’articolo 32, D.P.R. 600/1973 potrebbe indurre a ritenere che,
in presenza di movimenti ingiustificati, il Legislatore richieda un quid pluris affinché gli stessi rilevino
come materia imponibile.
La perplessità, tuttavia, finisce per scomparire di fronte alla discrezionalità riservata all’Amministrazione
finanziaria, che, in linea generale, non è mai vincolata nella metodica da utilizzare ma può scegliere
quella ritenuta più utile per il buon fine dell'azione accertativa (cfr., per tutte, Corte di Cassazione,
ordinanza n. 26375/2019).
Tornando all’onere probatorio, la sede in cui se ne realizza l’inversione è quella istruttoria, mutuata
dalla natura stessa della norma. Pertanto, dopo che i dati e gli elementi sono stati acquisiti da parte dei
verificatori, in sede di contraddittorio il contribuente avrà l’onere di fornire la prova contraria tracciando
ogni movimento, compito tutt’altro che facile soprattutto a distanza di anni.
La medesima struttura normativa si riverbera sul giudizio, facendo eccezione alla regola generale
contenuta nell’articolo 2697, comma 1, cod. civ., in base al quale l’onere della prova incombe sull’attore,
che, in senso sostanziale, coincide sempre con l’Amministrazione finanziaria.
L’attenzione va posta, dunque, sulla modalità con cui questa prova debba essere fornita.
Al riguardo, la Corte di Cassazione è univoca nel pretendere che tale prova debba essere fornita in modo
analitico e non “per masse”:
“E invero, quanto alla valutazione delle prove, questa Corte, con sequenza giurisprudenziale univoca
ha da tempo chiarito che «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l'accertamento
effettuato dall'ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l'onere probatorio
dell'Amministrazione è soddisfatto, secondo l'articolo 32, D.P.R. 600/1973, attraverso i dati e gli
elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un'inversione dell'onere della prova a carico
del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria
non sono riferibili a operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica,
con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come
ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili» (cfr. sentenza n. 18081/2010;
sentenza n. 15857/2016; ordinanza n. 24422/2018)” (ordinanza n. 9423/2020)
Pertanto, al fine di vincere la presunzione di imponibilità prevista per legge, è opportuno – per non dire
necessario – che il contribuente riscontri puntualmente, movimento per movimento (nel caso dei
Fiscalità
35 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
rapporti di conto corrente), ovvero in relazione a ciascuna somma altrimenti investita ovvero tracciata
dagli intermediari finanziari (negli altri casi), quale sia la provenienza o l’impiego, a seconda che si tratti
di un afflusso o un deflusso di danaro. Ciò comporta, ad esempio, che potrebbe risultare insufficiente a
vincere la presunzione di imponibilità, prevista dalla norma, l’esibizione delle ricevute fiscali emesse
nella stessa giornata, il cui incasso sia avvenuto in modo cumulativo.
Restano naturalmente esclusi i movimenti già tracciati, ovverosia quelli con riferimento ai quali
risultano presenti, in Anagrafe, le generalità dei percipienti o di coloro da cui provengono le somme; è
il caso, ad esempio, dei bonifici e dei giroconti, ovvero degli accrediti e degli addebiti periodici, che
derivano da un mandato di incasso o di pagamento.
La prova più delicata, tuttavia, resta quella riguardante i versamenti e i prelevamenti.
I versamenti rientrano nella definizione onnicomprensiva contenuta nella prima parte della norma (“I
dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero
7) e dell'articolo 33, commi 2 e 3, o acquisiti ai sensi dell'articolo 18, comma 3, lettera b), D.Lgs. 504/1995,
sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente
non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno
rilevanza allo stesso fine”), mentre i prelevamenti formano oggetto del periodo successivo che riguarda
i soli titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo, dal momento che il termine “compensi”, riferito
ai professionisti, è stato espunto all’indomani della summenzionata sentenza n. 228/2014 della
Consulta (“alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche e accertamenti,
se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempre che non risultino dalle scritture contabili, i
prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a 1.000
euro giornalieri e, comunque, a 5.000 euro mensili.”)
Con riferimento ai versamenti, l’onere della prova deve riguardare la provenienza della somma, che
risulti da un documento certo e non di provenienza privata, come può essere una dichiarazione di parte
(si pensi alle regalie in occasione dei matrimoni), ancorché resa in forma di dichiarazione sostitutiva di
atto notorio. A titolo di esempio, dunque, servirà a vincere la presunzione di imponibilità un atto di
donazione di somme di danaro, il disinvestimento di titoli ovvero l’incasso di una polizza assicurativa.
Circa i prelevamenti, invece, la lettera della norma sembra mitigare l’onere probatorio alla mera
indicazione del beneficiario della somma, per cui, a stretto rigore, non sarebbe necessaria alcuna
documentazione, come accade per i versamenti: tuttavia, la prassi diffusa è quella per cui i verificatori
chiedono copia degli assegni emessi, in modo difforme da quanto richiesto dalla norma e, peraltro, con
un aggravio di costi anche notevole.
Fiscalità
36 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La ratio della disposizione relativa ai prelevamenti risiede nella potenzialità che la somma sia stata
utilizzata per il sostenimento di costi “a nero”, a loro volta derivanti da ricavi “nero”:
“Con riferimento alla seconda presunzione, invece, delimitata alle operazioni di segno negativo
descritte dall’endiadi “prelevamenti e importi riscossi”, la previgente formulazione ne stabiliva la
riconducibilità a “ricavi o compensi” non dichiarati, in mancanza dell’indicazione del beneficiario e
sempreché non risultanti dalle scritture contabili tenute dal contribuente, per effetto di una deduzione
complessa, secondo la quale un prelevamento ingiustificato dell’imprenditore o del professionista
veniva associato a un acquisto “in nero” di fattori della produzione (primo momento logico) e tale
acquisto veniva a sua volta assunto come fattore di causazione di una cessione o di una prestazione in
evasione d’imposta (secondo momento logico)” (circolare G. di F. n. 109546/2017 cit., pag. 26 e 27,
riferita alla precedente versione della norma).
Quanto alle soglie, si è già detto che, a seguito della modifica introdotta dal 3 dicembre 2016 (a opera
del D.L. 193/2016), non costituiscono movimentazioni accertabili i prelevamenti e i versamenti che non
superino la soglia giornaliera di 1.000 euro e mensile di 5.000 euro.
Sul punto sono necessarie 2 precisazioni.
La prima attiene al rapporto tra le 2 soglie: poiché il Legislatore ha utilizzato l’espressione “e,
comunque”, l’operatività della seconda soglia – ossia 5.000 euro mensili – scatta anche in presenza di
versamenti inferiori a 1.000 euro ma che, sommati tra di loro, la superino. Pertanto, il limite di 5.000
euro è da intendersi esclusivamente in modo cumulativo e rimane slegato dall’ammontare dei singoli
prelevamenti, che potranno risultare anche di importo inferiore a 1.000 euro ma, nel complesso,
superiori a 5.000 euro, dunque accertabili. Quanto alla soglia giornaliera di 1.000 euro, essa rileva con
riferimento al singolo prelevamento: pertanto, pur rimanendo al di sotto della soglia mensile di 5.000
euro, qualora si superasse il limite giornaliero di 1.000 euro si sarebbe tenuti, in ogni caso, a fornire
l’indicazione del beneficiario delle somme.
La seconda riguarda la decorrenza: alla norma va, pacificamente, attribuita natura procedurale ed è,
dunque, applicabile ai periodi di imposta ancora accertabili al 3 dicembre 2016, data della sua entrata
in vigore. Pertanto, le soglie di 1.000 e 5.000 euro varranno anche per gli accertamenti relativi al 2014
in caso di dichiarazione omessa e per quelli relativi al 2015, i quali – com’è noto - saranno emessi entro
fine anno, ma notificati nel 2021 in base al differimento previsto dall’articolo 157 del Decreto “Rilancio”
(34/2020, recante “misure urgenti in materia di salute, Sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche
sociali connesse all'emergenza epidemiologica da Covid-19”).
Fiscalità
37 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
L’estensione delle indagini anche al nucleo familiare e ai soci
Una questione delicata riguarda la possibilità, per il Fisco, di allargare le indagini finanziarie anche ai
terzi, in primis ai familiari e ai soci.
Se non sembra possa esservi ostacolo all’inclusione, tra i rapporti oggetto di verifica, anche ai conti
cointestati (ad esempio con il coniuge), ovvero a quelli sui quali il contribuente sottoposto a indagine
abbia una delega a operare, il dubbio permane in relazione ai conti intestati a soggetti diversi da quello,
ma legati da un vincolo di parentela o da un rapporto sociale.
Al riguardo, le norme nulla dicono, limitandosi - sia l’articolo 32, D.P.R. 600/1973 sia l’articolo 51, D.P.R.
633/1972 – a fare riferimento al solo contribuente sottoposto a verifica; sotto questo profilo, dunque,
sembrerebbe potersi ritenere che il meccanismo presuntivo delle indagini finanziarie debba, a rigore,
intendersi limitato esclusivamente ai rapporti (conti o altro) a lui direttamente intestati.
La Corte di Cassazione, tuttavia, in più occasioni si è espressa in senso diametralmente opposto,
ritenendo, pacificamente, che anche i rapporti intestati ai familiari o ai soci possano essere attratti alle
indagini, risultando in re ipsa la riconducibilità al contribuente verificato, stante la evidente contiguità
con esso e, pertanto, provata l’appartenenza al suo patrimonio personale:
“non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell'affluire di somme sul proprio
conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni
singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell'estraneità delle
stesse alla sua attività (di recente, Cassazione n. 4829/2015) e che tale principio si applica, in presenza
di alcuni elementi sintomatici, come il rapporto di stretta contiguità familiare tra il contribuente e i
congiunti intestatari dei conti bancari sottoposti a verifica, anche alle movimentazioni effettuate su
questi ultimi, poiché in tal caso, infatti, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni
sui conti bancari dei familiari debbano - in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno
contrario - ascriversi allo stesso contribuente sottoposto a verifica (Cassazione, ordinanza n.
27075/2017. In senso analogo si espressa Cassazione n. 1898/2016, secondo cui, ancorché in tema di
accertamento del reddito d'impresa, «gli articoli 32, n. 7, D.P.R. 600/1973 e 51, D.P.R. 633/1972
autorizzano l'ufficio finanziario a procedere all'accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti
correnti bancari formalmente intestati a terzi ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al
reddito del contribuente», nonché Cassazione n. 26173/2011; n. 26829/2014; n. 12276/2015 nonché
Cassazione n. 428/2015, secondo cui «In tema di imposte sui redditi, lo stretto rapporto familiare e la
composizione ristretta del gruppo sociale è sufficiente a giustificare, salva la prova contraria, la
riferibilità delle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari di tali soggetti all'attività economica
Fiscalità
38 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
della società sottoposta a verifica, sicché in assenza di prova di attività economiche svolte dagli
intestatari dei conti, idonee a giustificare i versamenti e i prelievi riscontrati, e in presenza di un
contestuale rapporto di collaborazione con la società, deve ritenersi soddisfatta la prova presuntiva a
sostegno della pretesa fiscale, con spostamento dell'onere della prova contraria sul contribuente. (Nella
specie, la S.C. ha enunciato il principio con riferimento a conti bancari intestati ad amministratori,
legati da evidenti rapporti di parentela, e nessuno degli intestatari svolgeva attività economica idonea
a giustificare simili importi reddituali)” (ordinanza n. 32427/2019).
Alla luce del prevalente orientamento di legittimità, dunque, deve ritenersi legittima l’estensione del
potere di indagine del Fisco anche ai rapporti, di natura finanziaria, riguardanti soggetti contigui al
contribuente verificato, naturalmente previa autorizzazione ad hoc da parte dei soggetti preposti, a
norma del comma 1, numero 7, delle disposizioni in argomento.
L’invito a esibire la documentazione: la mancata risposta e gli effetti sul piano
amministrativo e contenzioso
Come già evidenziato, la prova gravante sul contribuente viene fornita in contraddittorio, a seguito della
ricezione dell’apposito invito previsto dagli articoli 32, D.P.R. 600/1973 e 51, D.P.R. 633/1972.
È in quella sede, dunque, che il soggetto sottoposto alle indagini ha l’onere di fornire la prova contraria,
che dimostri la non imponibilità delle somme transitate sui conti o, più in generale, presenti
nell’archivio.
Il contenuto e gli effetti dell’invito formano oggetto di specifica previsione di legge (comma 2, articolo
32, D.P.R. 600/1973 e comma 3, articolo 51, D.P.R. 633/1972), che scandisce anche le conseguenze della
mancata risposta da parte del contribuente.
Quel che è opportuno evidenziare, al riguardo, è che l’invito deve contenere non soltanto l’indicazione
del termine minimo per l’adempimento, fissato a 15 giorni dalla ricezione, ma anche – e soprattutto –
le conseguenze della mancata ottemperanza, che consistono nell’inibizione alla successiva produzione
in sede sia amministrativa sia contenziosa, come previsto dall’articolo 32, comma 3, D.P.R. 600/1973.
Si tratta, invero, di un profilo che riveste la massima importanza, a tal punto che l’eventuale omissione
comporta di fatto, la caducazione degli effetti dell’invito medesimo:
“Sul punto, va del resto sottolineato anche il consolidato orientamento per cui, in tema di accertamento
tributario, l'omessa esibizione da parte del contribuente dei documenti in sede amministrativa
determina l'inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa, prevista dall'articolo 32,
D.P.R. 600/1973, solo in presenza del peculiare presupposto, la cui prova incombe
Fiscalità
39 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
sull'Amministrazione, costituito dall'invito specifico e puntuale all'esibizione, accompagnato
dall'avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza (Cassazione, ordinanza n.
27069/2016)” (Corte di Cassazione, ordinanza n. 7011/2018).
Quanto alla mancata risposta, va ricordato che l’inibizione alla produzione successiva, in sede
contenziosa, non opera nell’ipotesi oggetto dell’articolo 32, comma 4, 633/1972 ovverosia nel caso in
cui il contribuente che proponga ricorso (avverso il successivo accertamento), depositando in allegato i
documenti oggetto dell’invito, dichiari di non averli potuti produrre per causa a lui non imputabile.
Il principio rimanda alla giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, la quale delimita
l’operatività dell’inibizione documentale alla sussistenza di una condotta dolosa da parte del
contribuente, quando questi abbia scientemente rifiutato di dar seguito all’invito (cfr., da ultimo,
ordinanza n. 34524/2019).
Fiscalità
40 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Il superbonus 110% di Debora Reverberi – ingegnere gestionale, dottore in consulenza aziendale e libera professione
Il Decreto Rilancio ha introdotto la maggiorazione al 110% dell’aliquota di detrazione fiscale,
con fruizione in 5 rate annuali di pari importo, delle spese sostenute a partire dal 1° luglio
2020 fino al 31 dicembre 2021 per determinati interventi di efficientamento energetico
(ecobonus) e di riduzione del rischio sismico (sismabonus).
L’aspetto che rende potenzialmente incisiva la misura agevolativa è, oltre al suo notevole
rafforzamento, l’ampliamento delle modalità di fruizione con opzione per la trasformazione
in credito d’imposta cedibile a terzi o in alternativa lo sconto in fattura per l’importo
corrispondente alla detrazione.
Tali opzioni sono estese alle rate residue di detrazioni fiscali relative a interventi effettuati
in anni precedenti di recupero del patrimonio edilizio, ecobonus, sismabonus, bonus facciate,
installazione di impianti fotovoltaici e di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici.
La piena operatività del superbonus 110% resta a oggi subordinata all’emanazione di un
provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate e di un Decreto Mise ed è suscettibile
di modifiche anche sostanziali in sede di conversione in Legge del Decreto Rilancio.
Premessa
Il Decreto Rilancio, nell’ambito delle misure fiscali di sostegno alla ripresa economica dalla crisi
innescata dall’emergenza epidemiologica da Covid-19, prevede all’articolo 119 l’incremento al 110%
dell’aliquota di detrazione fiscale spettante nonché l’accelerazione del periodo di fruizione a rate
costanti in 5 anni a fronte di specifici interventi in ambito di efficientamento energetico (rientranti nel
c.d. ecobonus), riduzione del rischio sismico (rientranti nel c.d. sismabonus), installazione di impianti
fotovoltaici e installazione di colonnine per la ricarica di veicoli elettrici, con riferimento alle spese
sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021.
Oltre al sostanziale potenziamento delle detrazioni fiscali dell’ecobonus (limitatamente a specifici
interventi) e del sismabonus il Legislatore ha ampliato, in modo generalizzato ed esteso alle quote
residue di detrazione fiscale legate a interventi realizzati in anni precedenti, il novero delle modalità di
fruizione, rendendo possibile con l’articolo 121 del Decreto Rilancio la trasformazione in credito
d’imposta con facoltà di utilizzo diretto o di cessione a terzi soggetti, comprese banche e intermediari
finanziari, oppure lo sconto in fattura sul corrispettivo dovuto al fornitore.
Fiscalità
41 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La corretta e piena operatività della misura resta a oggi subordinata all’emanazione di un Decreto Mise,
atteso a 30 giorni dalla data di entrata in vigore della Legge di conversione del Decreto Rilancio, recante
le modalità attuative e di trasmissione dell’asseverazione del tecnico incaricato all’Enea e alla
pubblicazione di un provvedimento dell’Agenzia delle entrate sulle modalità di fruizione, che era atteso
entro il 20 giugno 2020.
Non da ultimo lo scenario attuale dell’agevolazione potrebbe subire modifiche sostanziali con la
conversione in Legge del Decreto Rilancio, visti i numerosi emendamenti presentati.
Ambito applicativo soggettivo
La platea di destinatari del superbonus 110% è delimitata in modo molto più circoscritto rispetto
all’ambito applicativo soggettivo della disciplina vigente dei c.d. ecobonus e sismabonus.
Le detrazioni per gli interventi di efficientamento energetico e riduzione del rischio sismico sono infatti
fruibili anche dai titolari di reddito d'impresa, a prescindere dalla destinazione degli immobili posseduti
e/o detenuti e dunque dalla qualifica di “immobili strumentali”, “immobili merce” o “immobili
patrimoniali”, come recentemente chiarito peraltro in materia di ecobonus dall’Agenzia delle entrate
nella risoluzione n. 34/E/2020.
Al contrario il superbonus del 110% non trova di norma applicazione ai titolari di reddito d’impresa, arti
o professioni, salvo il caso in cui gli interventi agevolabili siano effettuati da un condominio.
I potenziali beneficiari sono definiti puntualmente al comma 9, articolo 119, D.L. 34/2020:
− condomini;
− persone fisiche che agiscono al di fuori dell’esercizio dell’impresa, di arti e professioni;
− Istituti autonomi case popolari (IACP) comunque denominati nonché gli enti aventi le stesse finalità
sociali dei predetti Istituti, istituiti nella forma di società che rispondono ai requisiti della legislazione
europea in materia di "in house providing" per interventi realizzati su immobili, di loro proprietà ovvero
gestiti per conto dei Comuni, adibiti a edilizia residenziale pubblica;
− cooperative di abitazione per interventi realizzati su immobili dalle stesse posseduti o assegnati in
godimento ai soci.
Sussiste poi una causa di esclusione specifica per l’applicazione del superbonus 110% agli interventi di
efficientamento energetico (c.d. ecobonus) dettata dal comma 10, articolo 119, D.L. 34/2020:
“Le disposizioni contenute nei commi da 1 a 3 non si applicano agli interventi effettuati dalle persone
fisiche, al di fuori di attività di impresa, arti e professioni, su edifici unifamiliari diversi da quello adibito
ad abitazione principale”.
Fiscalità
42 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Il tenore letterale della norma circoscrive l’esclusione del superbonus del 110% all’effettuazione di
interventi di efficientamento energetico eseguiti su edifici monofamiliari che siano abitazioni
secondarie del contribuente.
Restano pertanto ammessi sia gli interventi antisismici (c.d. sismabonus) effettuati da persone fisiche
su abitazioni secondarie monofamiliari o multifamiliari, sia gli interventi di efficientamento energetico
effettuati da persone fisiche su abitazioni secondarie ubicate in edifici multifamiliari.
Nel caso in cui il soggetto beneficiario sia un condominio si ritiene di riflesso applicabile il superbonus
110% anche alle unità di proprietà di imprese ed esercenti arti e professioni.
Il quadro degli interventi agevolabili
Nell’ambito degli interventi meritevoli di detrazione fiscale potenziata al 110% in 5 anni il quadro
delineato dal Legislatore nel testo del Decreto Rilancio distingue interventi principali trainanti, che
beneficiano autonomamente della misura, e interventi trainati, secondari e meno impattanti, per i quali
la spettanza dell’agevolazione è subordinata alla contestuale realizzazione di almeno un intervento
principale.
Gli interventi trainanti rientrano in 2 macro categorie:
− le 3 fattispecie classificabili fra gli interventi di efficientamento energetico, di cui all’articolo 14, D.L.
63/2013 (c.d. ecobonus), espressamente elencate all’articolo 119, comma 1, D.L. 34/2020;
− gli interventi di riduzione del rischio sismico di cui all’articolo 16, commi da 1-bis a 1-septies, D.L.
63/2013 (c.d. sismabonus), previsti all’articolo 119, comma 4, D.L. 34/2020.
Fra gli interventi secondari, per i quali la spettanza dell’agevolazione è subordinata alla contestuale
realizzazione di un intervento trainante, rientrano i seguenti:
− tutti gli altri interventi di efficientamento energetico non citati fra gli interventi trainanti e rientranti
nella disciplina dell’ecobonus tradizionale, qualora eseguiti congiuntamente ad almeno uno di essi
(articolo 119, comma 2, D.L. 34/2020);
− installazione di impianti solari fotovoltaici e accumulatori a essi integrati, se eseguiti congiuntamente
a un intervento di efficientamento energetico o di riduzione del rischio sismico trainante (articolo 119,
commi 5 e 6, D.L. 34/2020);
− installazione di infrastrutture di ricarica per veicoli elettrici, se effettuata congiuntamente a un
intervento di efficientamento energetico (articolo 119, comma 8, D.L. 34/2020).
Fiscalità
43 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Gli interventi di efficientamento energetico (ecobonus)
Beneficiano del potenziamento della detrazione fiscale al 110% introdotto dal Decreto Rilancio le
seguenti 3 tipologie di principali interventi di efficientamento energetico rientranti nella disciplina
vigente in materia di c.d. ecobonus:
− interventi di isolamento termico delle superfici opache verticali e orizzontali che interessano
l’involucro dell’edificio con un’incidenza superiore al 25% della superficie disperdente lorda dell’edificio
medesimo (limite di spesa di 60.000 euro per unità immobiliare);
− interventi sulle parti comuni degli edifici per la sostituzione degli impianti di climatizzazione
invernale esistenti con impianti centralizzati a condensazione (con efficienza almeno pari alla classe A
di prodotto prevista dal regolamento), a pompa di calore (ivi inclusi gli impianti ibridi o geotermici,
anche abbinati all’installazione di impianti fotovoltaici e relativi sistemi di accumulo) o a
microcogenerazione (limite di spesa di 30.000 euro per unità immobiliare);
− interventi sugli edifici unifamiliari per la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale
esistenti con impianti a pompa di calore, ivi inclusi gli impianti ibridi o geotermici, anche abbinati
all’installazione di impianti fotovoltaici e relativi sistemi di accumulo e impianti di microcogenerazione
(limite di spesa di 30.000 euro per unità immobiliare).
Vi rientrano poi, in via secondaria e subordinatamente all’effettuazione di almeno uno degli interventi
sopra indicati, i lavori disciplinati dall’ecobonus tradizionale di cui all’articolo 14, D.L. 63/2013 nei limiti
di spesa previsti dalla legislazione vigente, fra i quali si possono annoverare:
− riqualificazione energetica di edifici esistenti per la riduzione del fabbisogno energetico (la disciplina
vigente dell’ecobonus prevede un valore massimo detraibile di 100.000 euro);
− sostituzione di finestre comprensive di infissi delimitanti il volume riscaldato verso l’esterno e o verso
vani non riscaldati che rispettano i requisiti di trasmittanza termica riportati in tabella 2 del D.M. 26
gennaio 2010 (la disciplina vigente dell’ecobonus prevede un valore massimo detraibile di 60.000 euro
per unità immobiliare);
− installazione di collettori solari (pannelli solari) per la produzione di acqua calda per usi domestici o
industriali e per la copertura del fabbisogno di acqua calda in piscine, strutture sportive, case di ricovero
e cura, istituti scolastici e Università (la disciplina vigente dell’ecobonus prevede un valore massimo
detraibile di 60.000 euro per unità immobiliare);
− acquisto e posa in opera di schermature solari e/o chiusure tecniche mobili oscuranti (allegato M al
D.Lgs. 311/2006) montati in modo solidale all’involucro edilizio o ai suoi componenti e installati
Fiscalità
44 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
all’interno, all’esterno o integrati alla superficie finestrata (la disciplina vigente dell’ecobonus prevede
un valore massimo detraibile di 60.000 euro per unità immobiliare);
− installazione e messa in opera di sistemi di building automation, che consentano la gestione
automatica personalizzata degli impianti di riscaldamento o produzione di acqua calda sanitaria o di
climatizzazione estiva, compreso il loro controllo da remoto attraverso canali multimediali (la disciplina
vigente non prevede un limite massimo di detrazione).
Gli interventi di ecobonus per accedere al superbonus 110% devono rispettare i requisiti tecnici minimi
previsti dalla legislazione vigente in materia e dettati dai decreti del Mise emanati in attuazione
dell’articolo 14, comma 3-ter, D.L. 63/2013.
Inoltre, devono assicurare nel loro complesso, anche congiuntamente agli interventi secondari di
installazione di impianti fotovoltaici e accumulatori a essi integrati, le seguenti prestazioni:
− il miglioramento di almeno 2 classi energetiche dell’edificio;
− oppure, qualora ciò non fosse possibile;
− il conseguimento della classe energetica più alta.
Il raggiungimento di tali obiettivi deve essere dimostrato mediante l’attestato di prestazione energetica
(A.P.E), di cui all'articolo 6, D.Lgs. 192/2015, ante e post intervento, rilasciato da tecnico abilitato nella
forma della dichiarazione asseverata.
Interventi di isolamento termico delle superfici opache verticali e orizzontali
Gli interventi sulle strutture opache verticali e orizzontali, ovvero pareti generalmente esterne,
coperture e pavimenti, sono quelli che interessano l’involucro dell’edificio con un’incidenza superiore
al 25% della superficie disperdente lorda dell’edificio medesimo.
I materiali isolanti impiegati nella coibentazione devono rispettare i criteri ambientali minimi di cui al
decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare dell’11 ottobre 2017.
In tal caso, la detrazione fiscale del 110% da ripartire tra gli aventi diritto in cinque quote annuali di
pari importo è calcolata su un ammontare complessivo delle spese non superiore a 60.000 euro,
moltiplicato per il numero delle unità immobiliari che compongono l’edificio.
Salvo ulteriori precisazioni dell’Agenzia delle entrate dovrebbero rientrare fra i costi ammissibili le
seguenti spese documentate e rimaste a carico del contribuente, sostenute dal 1° luglio 2020 e fino al
31 dicembre 2021:
− spese di fornitura e posa in opera di materiale coibente e dei materiali ordinari funzionali alla
realizzazione dell’intervento;
Fiscalità
45 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− spese di demolizione e ricostruzione dell’elemento costruttivo;
− spese per opere provvisionali e accessorie strettamente funzionali alla realizzazione dell’intervento;
− spese per prestazioni professionali quali la produzione della documentazione tecnica necessaria,
compreso l’Attestato di Prestazione Energetica - A.P.E., direzione dei lavori, asseverazioni circa il rispetto
dei requisiti tecnici previsti dai decreti Mise nonché della congruità delle spese sostenute per il rilascio
delle attestazioni e delle asseverazioni di cui ai commi 3 e 13 e del visto di conformità di cui al comma
11, articolo 119, D.L. 34/2020.
Riguardo alle prestazioni professionali relative agli adempimenti previsti dal superbonus 110% il
comma 15, articolo 119, D.L. 34/2020 dispone che:
“Rientrano tra le spese detraibili per gli interventi di cui al presente articolo quelle sostenute per il
rilascio delle attestazioni e delle asseverazioni di cui ai commi 3 e 13 e del visto di conformità di cui
al comma 11”.
Interventi di sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti sulle parti comuni
Trattasi degli interventi effettuati sulle parti comuni degli edifici per la sostituzione degli impianti di
climatizzazione invernale esistenti con impianti centralizzati per il riscaldamento, il raffrescamento o
la fornitura di acqua calda sanitaria dotati di:
− caldaie a condensazione, con efficienza almeno pari alla classe A di prodotto prevista dal
Regolamento delegato (UE) 811/2013 della Commissione del 18 febbraio 2013;
− pompa di calore;
− impianti ibridi o geotermici, anche abbinati all'installazione di impianti fotovoltaici di cui al comma 5
e relativi sistemi di accumulo di cui al comma 6;
− impianti di microcogenerazione.
La detrazione fiscale è calcolata su un ammontare complessivo delle spese non superiore a 30.000 euro
moltiplicato per il numero delle unità immobiliari che compongono l’edificio.
Salvo ulteriori precisazioni dell’Agenzia delle entrate dovrebbero rientrare fra i costi ammissibili in
particolare le seguenti spese documentate e rimaste a carico del contribuente, sostenute dal 1° luglio
2020 e fino al 31 dicembre 2021:
− per la fornitura e la posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed
elettroniche, nonché delle opere idrauliche e murarie necessarie per la realizzazione a regola d’arte di
impianti solari termici organicamente collegati alle utenze, anche in integrazione con impianti di
riscaldamento;
Fiscalità
46 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− per lo smontaggio e la dismissione dell’impianto di climatizzazione invernale esistente, parziale o
totale, la fornitura e la posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed
elettroniche, delle opere idrauliche e murarie necessarie per la sostituzione a regola d’arte di impianti
di climatizzazione invernale con gli altri impianti ammissibili;
− per le opere edilizie funzionali alla realizzazione dell’intervento come individuate da un tecnico
abilitato (per esempio le spese per la demolizione del pavimento e quelle relative alla successiva posa
in opera del nuovo pavimento, se connesse alla realizzazione di un impianto radiante a pavimento);
− per prestazioni professionali necessarie per realizzare gli interventi agevolati e per acquisire la
certificazione energetica eventualmente richiesta produzione della documentazione tecnica necessaria,
compreso l’Attestato di Prestazione Energetica - A.P.E., direzione dei lavori, asseverazioni circa il rispetto
dei requisiti tecnici previsti dai decreti Mise nonché della congruità delle spese sostenute per il rilascio
delle attestazioni e delle asseverazioni di cui ai commi 3 e 13 e del visto di conformità di cui al comma
11, articolo 119, D.L. 34/2020;
− relative allo smaltimento e alla bonifica dell'impianto sostituito.
Interventi di sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti sugli edifici monofamiliari
Trattasi degli interventi effettuati su edifici monofamiliari per la sostituzione degli impianti di
climatizzazione invernale esistenti con impianti per il riscaldamento, il raffrescamento o la fornitura di
acqua calda sanitaria dotati di:
− pompa di calore;
− impianti ibridi o geotermici, anche abbinati all'installazione di impianti fotovoltaici di cui al comma 5
e relativi sistemi di accumulo di cui al comma 6;
− impianti di microcogenerazione.
La detrazione fiscale è calcolata su un ammontare complessivo delle spese non superiore a 30.000 euro.
Salvo ulteriori precisazioni dell’Agenzia delle entrate dovrebbero rientrare fra i costi ammissibili in
particolare le seguenti spese documentate e rimaste a carico del contribuente, sostenute dal 1° luglio
2020 e fino al 31 dicembre 2021:
− per la fornitura e la posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed
elettroniche, nonché delle opere idrauliche e murarie necessarie per la realizzazione a regola d’arte di
impianti solari termici organicamente collegati alle utenze, anche in integrazione con impianti di
riscaldamento;
Fiscalità
47 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− per lo smontaggio e la dismissione dell’impianto di climatizzazione invernale esistente, parziale o
totale, la fornitura e la posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed
elettroniche, delle opere idrauliche e murarie necessarie per la sostituzione a regola d’arte di impianti
di climatizzazione invernale con gli altri impianti ammissibili;
− per le opere edilizie funzionali alla realizzazione dell’intervento come individuate da un tecnico
abilitato (per esempio le spese per la demolizione del pavimento e quelle relative alla successiva posa
in opera del nuovo pavimento, se connesse alla realizzazione di un impianto radiante a pavimento);
− per prestazioni professionali necessarie per realizzare gli interventi agevolati e per acquisire la
certificazione energetica eventualmente richiesta produzione della documentazione tecnica necessaria,
compreso l’Attestato di Prestazione Energetica - A.P.E., direzione dei lavori, asseverazioni circa il rispetto
dei requisiti tecnici previsti dai decreti Mise nonché della congruità delle spese sostenute per il rilascio
delle attestazioni e delle asseverazioni di cui ai commi 3 e 13 e del visto di conformità di cui al comma
11, articolo 119, D.L. 34/2020;
− relative allo smaltimento e alla bonifica dell'impianto sostituito.
Gli interventi di riduzione del rischio sismico (sismabonus)
Il comma 4, articolo 119, D.L. 34/2020 ha introdotto la maggiorazione della detrazione fiscale al 110%
sulle spese relative ai seguenti interventi di riduzione del rischio sismico degli edifici (commi da 1-bis
a 1-septies, articolo 16, D.L. 63/2013), sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021 entro il limite
complessivo di 96.000 euro per ciascuna unità immobiliare:
− adozione di misure antisismiche su edifici ubicati nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zona
sismica 1 e 2) con particolare riguardo all'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica, in
particolare sulle parti strutturali, per la redazione della documentazione obbligatoria atta a comprovare
la sicurezza statica del patrimonio edilizio, nonché per la realizzazione degli interventi necessari al
rilascio della suddetta documentazione. Gli interventi devono essere realizzati sulle parti strutturali
degli edifici o complessi di edifici collegati strutturalmente e comprendere interi edifici e, ove
riguardino i centri storici, devono essere eseguiti sulla base di progetti unitari e non su singole unità
immobiliari;
− lavori che determinano il passaggio a una classe di rischio sismico inferiore;
− lavori che determinano il passaggio a 2 classi di rischio sismico inferiori;
− acquisto di edifici antisismici (c.d. sismabonus acquisti) in zone classificate a rischio sismico 1, 2 o 3,
a seguito di demolizione e ricostruzione di interi edifici, anche con variazione volumetrica rispetto a
Fiscalità
48 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
quella preesistente, da parte di imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare, le quali, entro 18
mesi dalla conclusione dei lavori, provvedono alla vendita dell’immobile.
Per la valutazione della classe di rischio sismico si applicano le “Linee guida per l’attribuzione della classe
di rischio sismico delle costruzioni” di cui al Decreto 58/2017 del M.I.T. e ss.mm.ii., che introduce la
classificazione del rischio sismico per le costruzioni basata su 8 classi di rischio.
Tra le spese detraibili ai fini del superbonus 110% per la realizzazione degli interventi antisismici
dovrebbero rientrare anche quelle effettuate per la classificazione e verifica sismica degli immobili.
Per gli interventi di miglioramento sismico, in caso di cessione del credito d’imposta a un’impresa di
assicurazione e di contestuale stipula di una polizza che copra il rischio di eventi calamitosi, la
detrazione di cui all’articolo 15, comma 1, lettera f-bis), Tuir per i premi delle assicurazioni aventi a
oggetto tali rischi e stipulate relativamente a unità immobiliari ad uso abitativo spetta nella misura del
90%.
Il superbonus del 110% si applica dunque a tutti gli interventi di adeguamento e miglioramento sismico
indicati nell'articolo 16, dal comma 1-bis al comma 1-septies, D.L. 63/2013, indipendentemente dalla
riduzione del rischio sismico di una, due o tre classi, con l’unica eccezione degli edifici ubicati in zona
sismica 4 di cui all'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20 marzo 2003,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105 dell’8 maggio 2003, che sono espressamente esclusi.
Installazione di impianti fotovoltaici e sistemi di accumulo integrati
Nei commi 5 e 6, articolo 119, D.L. 34/2020 si estende la spettanza della detrazione fiscale nella misura
del 110% anche agli interventi di installazione di specifici impianti fotovoltaici e accumulatori a essi
integrati, per le spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021.
La maggiorazione dell’aliquota di detrazione compete solo nel caso in cui i predetti interventi siano
effettuati congiuntamente a uno degli interventi trainanti indicati nel comma 1 (interventi di
efficientamento energetico) e nel comma 4 (interventi di riduzione del rischio sismico).
L'installazione di impianti solari fotovoltaici connessi alla rete elettrica su edifici è soggetta a limiti
diversificati in funzione dell’intervento realizzato:
− in caso di interventi su “edifici”, “edifici di proprietà pubblica”, “edifici adibiti a uso pubblico” e “edifici
di nuova costruzione” ai sensi rispettivamente dell'articolo 1, comma 1, lettere a), b), c) e d), D.P.R.
412/1993 spetta fino a un ammontare complessivo di spesa non superiore a 48.000 euro e comunque
nel limite di 2.400 euro per ogni kW di potenza nominale dell'impianto solare fotovoltaico;
Fiscalità
49 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− in caso di “interventi di ristrutturazione edilizia”, “interventi di nuova costruzione” e “interventi di
ristrutturazione urbanistica” di cui rispettivamente all'articolo 3, comma 1, lettere d), e) e f), D.P.R.
380/2001 spetta fino ad un ammontare complessivo di spesa non superiore a 48.000 euro e comunque
nel limite di 1.600 euro per ogni kW di potenza nominale.
La detrazione del 110% spetta anche per l'installazione contestuale o successiva di sistemi di accumulo
integrati negli impianti solari fotovoltaici agevolati di cui al comma 5, alle stesse condizioni, negli stessi
limiti di importo di spesa complessiva di euro 48.000 e comunque nel limite di 1.000 euro per ogni kWh
di capacità di accumulo del sistema.
In entrambi i casi la fruizione della detrazione è subordinata alla cessione in favore del GSE dell’energia
non auto-consumata in sito.
La detrazione per installazione di impianti fotovoltaici e sistemi di accumulo integrati soggiace a un
divieto generale di cumulo con altri incentivi pubblici o altre forme di agevolazione di qualsiasi natura
previste dalla normativa europea, nazionale e regionale, compresi i fondi di garanzia e di rotazione di
cui all'articolo 11, comma 4, D.Lgs. 28/2001 e gli incentivi per lo scambio sul posto di cui all'articolo
25-bis, D.L. 91/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 116/2014.
Installazione di infrastrutture di ricarica per veicoli elettrici
La disposizione contenuta nel comma 8, articolo 119, D.L. 34/2020 riconosce la detrazione fiscale del
110% anche per le spese sostenute, subordinatamente all’effettuazione di uno degli interventi trainanti
di efficientamento energetico di cui al comma 1, per l’installazione di infrastrutture per la ricarica di
veicoli elettrici negli edifici.
Modalità di fruizione
L’articolo 121, D.L. 34/2020 ha introdotto, in via sperimentale per i soli interventi effettuati negli anni
2020 e 2021, la possibilità per il soggetto avente diritto a specifiche detrazioni fiscali di optare, in luogo
dell’utilizzo diretto in detrazione:
− per un contributo di pari ammontare sotto forma di sconto sul corrispettivo dovuto, anticipato dal
fornitore che ha effettuato gli interventi e da quest'ultimo recuperato sotto forma di credito d'imposta,
con facoltà di successiva cessione del credito;
ovvero
Fiscalità
50 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− per la trasformazione del corrispondente importo della detrazione in credito d'imposta da utilizzare
anche in compensazione, con facoltà di successive cessioni ad altri soggetti, compresi gli istituti di
credito e altri intermediari finanziari.
Tale previsione deroga espressamente alle specifiche discipline in materia di cessione del credito e di
sconto in fattura contenute negli articoli 14 e 16, D.L. 63/2013.
La disciplina sulla trasformazione delle detrazioni fiscali in sconto sul corrispettivo dovuto e in credito
d'imposta cedibile si applica alle seguenti detrazioni fiscali, su opzione esercitabile nel 2020 anche in
relazione alle rate residue di detrazioni relative ad interventi effettuati in anni precedenti:
− recupero del patrimonio edilizio (articolo 16-bis, comma 1, lettere a) e b), Tuir);
− interventi di efficientamento energetico, c.d. ecobonus (articolo 14, D.L. 63/2013, convertito, con
modificazioni, dalla L. 90/2013) e relativo superbonus (commi 1 e 2, articolo 119, D.L. 34/2020);
− interventi antisismici, c.d. sismabonus (articolo 16, commi da 1-bis a 1-septies, D.L. 63/2013,
convertito, con modificazioni, dalla L. 90/2013) e relativo superbonus (comma 4, articolo 119, D.L.
34/2020);
− recupero o restauro della facciata degli edifici esistenti ivi inclusi quelli di sola pulitura o tinteggiatura
esterna, c.d. bonus facciate (articolo 1, comma 219, L. 160/2019);
− installazione di impianti fotovoltaici (articolo 16-bis, comma 1, lettera h) Tuir) e relativo superbonus
(commi 5 e 6, articolo 119, D.L. 34/2020);
− installazione di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici (articolo 16-ter, D.L. 63/2013 convertito,
con modificazioni, dalla L. 90/2013) e relativo superbonus (comma 8, articolo 119, D.L. 34/2020).
In sintesi, il soggetto beneficiario del superbonus 110% potrà optare in alternativa per una delle
seguenti modalità di fruizione dell’agevolazione:
− detrazione fiscale in 5 quote annuali di pari importo;
− sconto in fattura sul corrispettivo dovuto fino all’importo massimo del corrispettivo, anticipato dal
fornitore che ha effettuato gli interventi e da quest'ultimo recuperato sotto forma di credito d'imposta,
con facoltà di successiva cessione del credito;
− trasformazione del contributo in credito d’imposta e utilizzo diretto in compensazione ai sensi articolo
17, D.Lgs. 241/1997, con la medesima ripartizione in complessive 5 quote annuali;
− trasformazione del contributo in credito d’imposta e successiva cessione a terzi.
In caso di utilizzo in compensazione la quota di credito d'imposta non fruita nell'anno non può essere
compensata negli anni successivi e non può essere richiesta a rimborso.
Fiscalità
51 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Al credito d’imposta relativo al superbonus 110% non si applicano i seguenti limiti generali di
compensazione:
− limite applicabile ai crediti d’imposta agevolativi di cui all’articolo 1, comma 53, L. 244/2007, pari a
250.000 euro;
− limite generale di compensabilità di imposte e contributi di cui all’articolo 34, L. 388/2000, di originari
700.000 euro, innalzato per il 2020 a 1.000.000 di euro dall’articolo 147, D.L. 34/2020.
L'opzione per la cessione del credito d’imposta o per lo sconto in fattura del superbonus 110%, da
comunicare esclusivamente in via telematica, è subordinata al rilascio del visto di conformità dei dati
relativi alla documentazione attestante la sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione
d'imposta per gli interventi agevolabili.
Le modalità attuative della disciplina sulla trasformazione delle detrazioni fiscali in sconto sul
corrispettivo dovuto e in credito d'imposta cedibile, comprese quelle relative all'esercizio delle opzioni
da effettuarsi in via telematica, sono demandate a un provvedimento del direttore dell'Agenzia delle
entrate che avrebbe dovuto essere emanato entro il 20 giugno 2020 (30 giorni dall’entrata in vigore del
Decreto Rilancio).
Adempimenti
La disciplina del superbonus 110%, così come delineata nel Decreto Rilancio ante conversione in Legge,
comporta un ruolo pervasivo e rilevante dei professionisti, chiamati ad asseverare i requisiti tecnici di
ammissibilità alla detrazione fiscale degli interventi effettuati, la congruità delle spese sostenute in
relazione ai lavori agevolabili e la sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione
d'imposta.
In caso di opzione per la cessione del credito d’imposta o per lo sconto in fattura di cui all'articolo 121,
D.L. 34/2020, sono in particolare previsti i seguenti adempimenti:
− l’asseverazione dei requisiti tecnici previsti dalle attività agevolate e della corrispondente congruità
delle spese sostenute in relazione agli interventi ammissibili;
− l’ottenimento del visto di conformità dei dati relativi alla documentazione che attesta la sussistenza
dei presupposti che danno diritto alla detrazione d'imposta.
Attestato di prestazione energetica
In caso di effettuazione di interventi di efficientamento energetico (ecobonus) di cui ai commi 1 e 2,
articolo 119, D.L. 34/2020, l’accesso al superbonus 110% richiede la capacità di assicurare nel
Fiscalità
52 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
complesso, anche congiuntamente ad interventi di installazione di impianti fotovoltaici e accumulatori
a essi integrati, le seguenti prestazioni energetiche:
− il miglioramento di almeno due classi energetiche dell’edificio;
oppure, qualora ciò non fosse possibile,
− il conseguimento della classe energetica più alta.
Il raggiungimento di tali obiettivi deve essere dimostrato mediante il rilascio da parte di un tecnico
abilitato, sia prima che dopo l’intervento, dell’attestato di prestazione energetica (A.P.E) di cui
all'articolo 6, D.Lgs. 192/2015, nella forma della dichiarazione asseverata.
Asseverazione dei requisiti tecnici
In caso di effettuazione di interventi di efficientamento energetico (ecobonus) di cui ai commi 1 e 2,
articolo 119, D.L. 34/2020 con opzione per la cessione del credito d’imposta o per lo sconto in fattura
di cui all'articolo 121, D.L. 34/2020, l’accesso al superbonus 110% è subordinato all’asseverazione dei
tecnici abilitati circa:
− il rispetto dei requisiti tecnici previsti dai decreti di cui al comma 3-ter, articolo 14, D.L. 63/2013;
− la corrispondente congruità delle spese sostenute in relazione agli interventi agevolati.
Una copia dell'asseverazione deve essere trasmessa esclusivamente per via telematica all'Agenzia
nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea).
Le modalità di trasmissione all’Enea dell’asseverazione e le relative modalità attuative sono demandate
a un decreto del Mise, da emanarsi entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della Legge di
conversione del Decreto Rilancio. In caso di effettuazione di interventi antisismici (sismabonus) di cui al
comma 3, articolo 119, D.L. 34/2020, con opzione per la cessione del credito d’imposta o per lo sconto in
fattura di cui all'articolo 121, D.L. 34/2020, l’accesso al superbonus 110% è subordinato all’asseverazione
rilasciata dai professionisti incaricati della progettazione strutturale, direzione dei lavori delle strutture e
collaudo statico secondo le rispettive competenze professionali, iscritti ai relativi Ordini o Collegi
professionali di appartenenza, in base alle disposizioni di cui al Decreto M.I.T. 58/2017 circa:
− l'efficacia degli interventi finalizzati alla riduzione del rischio sismico;
− la corrispondente congruità delle spese sostenute in relazione agli interventi agevolati.
Ottenimento del visto di conformità
In caso di opzione per la cessione o per lo sconto in fattura di cui all'articolo 121, D.L. 34/2020 è
necessario l’ottenimento del visto di conformità dei dati relativi alla documentazione che attesti la
Fiscalità
53 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione d'imposta per qualunque intervento
ammissibile.
Ai sensi del comma 11, articolo 119, D.L. 314/2020:
“Il visto di conformità è rilasciato ai sensi dell'articolo 35, D.Lgs. 241/1997, dai soggetti indicati alle
lettere a) e b), comma 3, articolo 3, D.P.R. 322/1998, e dai responsabili dell'assistenza fiscale dei centri
costituiti dai soggetti di cui all'articolo 32, D.Lgs. 241/1997”.
I soggetti legittimati al rilascio del visto di conformità sono pertanto:
− gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali e dei consulenti
del lavoro;
− i soggetti iscritti alla data del 30 settembre 1993 nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle CCIAA per
la sub-categoria tributi, in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio
o equipollenti o diploma di ragioneria;
− i responsabili dei Caf.
Proposte di modifiche in sede di conversione in Legge del Decreto Rilancio
Durante il tortuoso iter di conversione in Legge del Decreto Rilancio, che deve concludersi entro il 18
luglio 2020 stante l’avvenuta pubblicazione del D.L. 34/2020 in G.U. n. 128 del 19 maggio 2020 sul
supplemento ordinario n. 21/L, sono stati presentati numerosi emendamenti che potrebbero modificare
significativamente lo scenario ivi rappresentato e farlo successivamente all’avvenuto sostenimento di
spese detraibili, ammesse a decorrere dal 1° luglio 2020.
Per quanto concerne l’ambito applicativo temporale si prospetta l’ipotesi di estensione delle spese
detraibili al 31 dicembre 2022, eventualmente limitata, per problemi di copertura finanziaria, agli
interventi combinati di efficientamento energetico e antisismici.
Fra gli emendamenti proposti spicca l’estensione dell’ambito applicativo soggettivo del superbonus alle
aziende turistiche, alberghi e residence nell’esercizio di attività d’impresa a condizione che i proprietari
siano i gestori dell’attività, agli enti non commerciali, compresi quelli del terzo settore e quelli religiosi
civilmente riconosciuti, nonché alle associazioni e alle fondazioni proprietarie oppure titolari di diritti
reali di godimento oppure detentori di immobili adibiti all’attività di scuola paritaria d’infanzia no profit.
Inoltre, il correttivo include nella platea anche i proprietari di beni provenienti da patrimoni immobiliari
dismessi da società a partecipazione pubblica e quelli di associazioni e società sportive dilettantistiche.
Fiscalità
54 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Altra proposta di modifica al testo del Decreto Rilancio è l’estensione del superbonus a tutte le
abitazioni secondarie, eventualmente compensabile in caso di risorse finanziarie insufficienti con una
riduzione dei tetti di spesa o limitata ad un solo immobile “seconda casa” per contribuente.
Allo studio vi sono anche modifiche migliorative delle modalità di fruizione dell’agevolazione in
relazione alle opzioni di sconto in fattura e cessione del credito d’imposta: le imprese che effettuano
gli interventi potrebbero infatti non avere la liquidità necessaria per concedere lo sconto in fattura, per
la cessione dei crediti d’imposta servono meccanismi snelli e per favorire la liquidità potrebbe essere
consentita la vendita dei crediti di imposta a stato avanzamento lavori.
Caso operativo
55 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La procedura di composizione della crisi
del consumatore: dagli atti preliminari
alla relazione particolareggiata del
gestore con l’attestazione di fattibilità di Giulio Pennisi – dottore commercialista
La L. 3/2012, “Modifiche alla legislazione vigente in materia di usura e di estorsione”,
successivamente modificata con il D.L. 179/2012 (Decreto Sviluppo Bis, convertito nella L.
221/2012) ha, per la prima volta, introdotto nel nostro ordinamento una procedura di
esdebitazione destinata a tutti quei soggetti che non possono accedere alle procedure
concorsuali previste dalla Legge Fallimentare. La norma prevede 3 distinte procedure a
favore di quei soggetti prima esclusi da ogni meccanismo di tutela giurisdizionale del
debitore, incluso il consumatore che in una situazione di insolvenza può proporre un piano
di ristrutturazione del debito soggetto all’approvazione del Tribunale competente per
territorio. L’istituto è stato rinnovato e incluso nel nuovo Codice della crisi di impresa e
dell’insolvenza, ma continuerà a essere applicato nell’attuale formulazione, fino all’entrata
in vigore della riforma, attualmente differita al 1° settembre 2021.
Premessa
Le procedure del piano del consumatore e dell’accordo del debitore, introdotte dalla L. 3/2012, si
svolgono sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria e con esse si realizza l’effetto della cancellazione
dei debiti pregressi (discharge) del debitore persona fisica – anche consumatore – o ente collettivo non
assoggettabile alle ordinarie procedure concorsuali. L’istituto introdotto dalla Legge sul
sovraindebitamento, richiama, sia in termini di fini sia di procedura, come ricordato anche nella
Relazione illustrativa al Decreto, gli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’articolo 182-bis,
L.F. e i piani di risanamento dell’esposizione debitoria dell'impresa ex articolo 67, comma 3, lettera d),
L.F.. La ragione di una tale disciplina si rinviene, oltre che come strumento di prevenzione del ricorso
al mercato dell’usura, soprattutto, in tempi di forte crisi economica e finanziaria, nella necessità di
attribuire alle situazioni di insolvenza (sovraindebitamento) del debitore non fallibile (piccole imprese
o società artigiane, ad esempio) ovvero del consumatore, la possibilità della cancellazione dei debiti al
Caso operativo
56 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
fine di ripartire da zero (fresh start) e di riacquistare un ruolo attivo nell’economia, senza restare
schiacciati dal carico dell’indebitamento preesistente. La procedura si attua per il tramite degli
organismi di composizione e dei gestori della crisi che effettuano l’attività di supporto e ausilio al
debitore anche per la procedura del piano del consumatore, ipotesi peculiare sia per i profili soggettivi
(debitori persone fisiche non sempre in possesso di informazioni dettagliate circa la propria situazione
personale) sia per i profili oggettivi (procedura “snella” che rappresenta un unicum del genere).
Gli organismi di composizione della crisi: definizione
La Legge 3/2012 ha individuato negli “Organismi di composizione della crisi” (Occ) i soggetti abilitati
a trovare una soluzione alle crisi da sovraindebitamento degli imprenditori non fallibili e dei
consumatori. Con la novella della L. 221/2012, il ruolo assunto da tali soggetti è divenuto, quasi
riconducibile a un’attività di “intermediazione” fra i soggetti non fallibili e il Tribunale . Nella figura
dell'organismo, nel suo ruolo così come delineato dal Legislatore, infatti si possono riscontrare
compiti di consulente legale e finanziario del debitore, ma anche quelli di ausiliario del giudice e di
garanzia nei confronti dei terzi in generale e dei creditori in particolare. Spesso ci si chiede se tali
funzioni non finiscano per attribuire all’Occ una sorte di conflitto di interessi interno nel delicato
ruolo assegnato, visto che lo stesso soggetto è chiamato a predisporre il piano, attestarne la sua
fattibilità, assumere la funzione di tutela dei creditori (con le comunicazioni nelle forme stabilite dal
giudice, la relazione sull'esito della votazione e la vigilanza sull’adempimento dell’accordo nel caso
dei soggetti non fallibili e non annoverabili fra i “consumatori” e l'impegno a risolvere le difficoltà
insorte nell’esecuzione) nonché essere organo di ausilio del giudice delegato. Se da un lato era lecito
che il Legislatore individuasse tale figura in un soggetto altamente specializzato al fine di svolgere
le predette complesse attività – con le conseguenti responsabilità anche penali di cui all’articolo 16,
comma 2 – la norma ha altresì dettato, all’articolo 15, comma 9, che esso deve possedere le medesime
caratteristiche del curatore indicate nell’articolo 28, L.F. per poter espletare il relativo ruolo
all’interno delle procedure concorsuali (fallimento e concordato preventivo), nonché degli accordi di
ristrutturazione dei debiti, cui la relativa normativa sembra far riferimento in più punti. Non può infatti
trascurarsi, poi, il fatto che è necessario che l’organismo abbia i requisiti di indipendenza e terzietà,
in quanto non potrà fare preferenze tra classi di creditori, sia nella redazione del piano sia nella
certificazione della sua fattibilità, fungendo nella successiva fase esecutiva anche da compositore di
conflitti (quasi come un “mediatore” effettivo).
Caso operativo
57 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
I requisiti di ammissibilità del consumatore alle procedure di composizione della crisi
Con le modifiche apportate con il Decreto Sviluppo Bis, per la prima volta il Legislatore definisce per
esclusione le procedure di cui alla L. 3/2012 come “procedure concorsuali”, introducendo nel nostro
ordinamento un particolare iter anche nei confronti del debitore persona fisica, attivabile solo dal
debitore stesso e non dai creditori. Il consumatore, inoltre, conquista uno spazio autonomo nella norma
dal momento che viene prevista la possibilità che quest'ultimo possa presentare un proprio piano di
ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti1. Tuttavia, per ottenere l'ammissione alla
procedura di composizione della crisi, occorre preliminarmente soddisfare requisiti sia soggettivi sia
oggettivi. I primi individuano quali destinatari della norma le persone fisiche che non siano
assoggettabili alle vigenti procedure concorsuali disciplinate dal R.D. 267/19422. Pertanto, alla
procedura in commento possono ricorrere tutti i soggetti, che agiscono per la ristrutturazione dei debiti
da obbligazioni contratte per esigenze personali e non derivanti da attività d’impresa, professionale,
artistica o di lavoro autonomo. Sul piano oggettivo, invece, lo stato di “sovraindebitamento” è definito
come:
“la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente
liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà ad adempiere le proprie obbligazioni,
ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente” (articolo 6, comma 2, lettera a), L.
3/2012).
È pacifico che la lettura del dispositivo dell’articolo 6, comma 2, L. 3/2012 introduce un concetto del
tutto nuovo nel nostro ordinamento che appare diverso da quello di insolvenza utilizzato dalla Legge
Fallimentare: per sovraindebitamento si intende non solo l’incapacità definitiva e non transitoria di
adempiere regolarmente ai propri debiti, ma si deve far riferimento a una sproporzione tra il complesso
dei debiti e il proprio patrimonio prontamente liquidabile, ancorché non sia specificata l’entità di siffatto
squilibrio. Si tratta di un concetto di origine aziendalista in cui la misurazione quantitativa della
sproporzione, soprattutto nel caso di imprenditori non fallibili, è data dal perdurante squilibrio
finanziaria fra attività a breve e passività in scadenza. Per quanto attiene alla nozione di consumatore,
invece, la norma si limita a una qualificazione positiva limitata al solo requisito di persona fisica che
“…ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale
1 L’articolo 7, comma 1 disciplina la possibilità per il consumatore di proporre un piano fondato avente il contenuto di cui all'articolo 8 –
articolo 6, comma 1, ultimo periodo, L. 3/2012. 2 Per procedure concorsuali si intendono: fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria.
In dottrina, alcuni autori escludono dalle procedure concorsuali gli accordi di ristrutturazione dei debiti, il piano attestato di risanamento e la
transazione fiscale ex articolo 182-ter.
Caso operativo
58 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
eventualmente svolta” (articolo 6, comma 2, lettera b), L.3/2012). Tale specifica indicazione è da
ricondursi alla volontà del Legislatore di distinguere nettamente la procedura relativa al consumatore,
rispetto a quella prevista per tutti i restanti soggetti non fallibili. Un ulteriore aspetto di importanza
sostanziale riposa nell’assenza di cause ostative all'accesso alla procedura, riconducibili al mancato
ricorso, nei precedenti 5 anni, ai procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento,
all’aver subito, per cause imputabili al debitore, uno dei provvedimenti di cui agli articoli 14 e 14-bis
(ovvero l'impugnazione e la risoluzione dell'accordo e la revoca e la cessazione degli effetti
dell'omologazione del piano del consumatore) ovvero aver presentato una documentazione che non
consente di ricostruire compiutamente la sua situazione economica e patrimoniale.
Il ruolo del gestore della crisi nella predisposizione del piano del consumatore
Le funzioni che la L. 3/2012 affida all'organismo riguardano l'intero arco temporale del piano del
consumatore. L'avvio del procedimento, infatti, è lasciato all'esclusiva iniziativa del debitore ma con
l'assistenza imprescindibile dell'organismo di composizione delle crisi scelto dallo stesso debitore –
ovvero dopo aver fatto richiesta di nomina dell’Occ alla sezione della volontaria giurisdizione del
Tribunale territorialmente competente – che ha facoltà di presentare o meno il proprio piano del
consumatore.
La procedura di composizione della crisi, continuerà poi con successivo “ricorso” al medesimo Tribunale
del piano del consumatore, in caso che il soggetto persona fisica non agisca per debiti contratti
nell’attività d’impresa o professionale eventualmente svolta. L'organismo inizia la propria attività
assistendo il debitore nella presentazione dell'anzidetta proposta di accordo ai propri creditori, avente
a oggetto la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, in conformità a un piano che
preveda:
- scadenze e modalità di pagamento dei creditori, anche se suddivisi in classi, (per esempio pagamenti
rateali, cessione crediti futuri, cessione dei beni, liquidazione dell’attivo, etc.);
- le garanzie rilasciate per l'adempimento dei debiti;
- le modalità per l'eventuale liquidazione dei beni.
La proposta redatta col supporto dell'organismo potrà prevedere il pagamento parziale dei creditori
privilegiati, purché venga comunque assicurata una loro soddisfazione in misura non inferiore a quella
realizzabile in caso di liquidazione3. Non è invece ammissibile una proposta che preveda il pagamento
3 È possibile prevedere che i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca possono non essere soddisfatti integralmente, allorché ne sia
assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di
liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli
Caso operativo
59 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
parziale dei crediti impignorabili di cui all’articolo 545, c.p.p. e delle altre disposizioni contenute in
leggi speciali. Il piano del consumatore, inoltre, può prevedere una moratoria fino a un anno
dall'omologazione per il pagamento dei crediti privilegiati (articolo 8, comma 4, L. 3/2012). Già in questa
prima fase, appare chiaro l’intento del Legislatore di affidare all’Occ il compito di assistere il debitore
fin dall’inizio del procedimento, anche nella fase di redazione e della stessa predisposizione del piano
da sottoporre all’attenzione dei creditori, nonché nella necessaria predisposizione di tutta la
documentazione di supporto, al fine di offrire un supporto tecnico a soggetti che spesso non hanno le
risorse interne per provvedervi. Rientra sempre nei compiti dell'Organismo comunicare la proposta
all'agente della riscossione e agli uffici fiscali ed agli enti locali contestualmente al deposito in
Tribunale della proposta di accordo o, al massimo, entro 3 giorni da tale deposito, indicando la
ricostruzione della posizione fiscale del debitore e la presenza di eventuali contenziosi pendenti.
Unitamente alla proposta, il debitore deve depositare presso il Tribunale altri documenti, tra i quali
l'attestazione sulla fattibilità del piano redatta dal gestore nominato. Si può affermare, quindi, che l’Occ
non svolga solo una funzione di supporto nei confronti del debitore per la predisposizione del piano e
per la proposta di accordo, bensì possiede anche il potere di verificare i dati contenuti nella proposta e
i documenti allegati, nonché di attestare la fattibilità del piano. Sembrerebbe quindi rivestire
congiuntamente i ruoli che nel concordato preventivo hanno il professionista che assiste il debitore
nella predisposizione della domanda, l’attestatore (sia ex articolo 161, comma 3 sia 160, comma 2, L.F.),
il commissario giudiziale e persino, se disposto dal giudice (articolo 15, comma 8, L. 3/2012), le funzioni
di liquidatore.
Un caso pratico: la predisposizione del piano e della relazione particolareggiata
Due coniugi chiedono l’intervento dell’Organismo di composizione per la nomina di un gestore della
crisi per la predisposizione di un piano del consumatore. I richiedenti coobbligati, hanno sottoscritto
obbligazioni di natura personale che, a causa di eventi imprevedibili e accaduti in epoca successiva alla
nascita del rapporto obbligatorio, hanno provocato l’impossibilità sopravvenuta ad adempiere, e un
perdurante squilibrio fra i debiti scaduti e il reddito familiare disponibile. L’organismo effettuata una
valutazione preliminare, nomina il professionista incaricato e acquisisce l’accettazione all’incarico
corredato della dichiarazione di indipendenza e di assenza di motivi ostativi alla sua esecuzione. La
organismi di composizione della crisi. Articolo 7, comma 1, L. 3/2012. Secondo tale previsione, il privilegio può essere superato dalla
valutazione di convenienza, riservata agli Occ e successivamente verificata dal giudice, fra ciò che viene previsto nell’accordo e ciò che
probabilmente lo stesso creditore potrebbe ottenere a seguito di una procedura esecutiva.
Caso operativo
60 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
prima fase della procedura comporta una serie di attività tese alla ricognizione della stesura del piano
e della relazione particolareggiata attestativa.
Atti preliminari: la procedura
Le fasi preliminari della procedura attengono alle verifiche di base sul piano soggettivo4 e oggettivo5.
È quindi necessario verificare che la documentazione fornita consenta di ricostruire compiutamente la
situazione economica e patrimoniale e la non effettuazione da parte del consumatore di atti in frode ai
creditori (seppure di competenza del giudice delegato ai sensi dell’articolo 12-bis, comma 1), L. 3/2012.
La norma non lo prevede ma è opportuno valutare la possibilità di un fondo spese. Nella fase di
assistenza al consumatore nella predisposizione della proposta di ristrutturazione dei debiti e di
soddisfazione dei crediti sulla base di un piano (articolo 7, comma 1, L. 3/2012) e con il contenuto
dell’articolo 8, L. 3/2012 e gli allegati di cui all’articolo 9, comma 2, L. 3/2012 (in questo caso la
previsione del comma 3 non si applica), è necessario provvedere a redigere:
a) un elenco dei creditori con indicazione delle somme dovute (garanzie prestate, ipoteche, interessi
passivi);
b) un elenco di tutti i beni del debitore (ad esempio conto corrente, deposito titoli, quote, partecipazioni,
crediti, mobili, mobili registrati, immobili, cassette di sicurezza);
c) un elenco degli atti di disposizione compiuti negli ultimi 5 anni;
d) le dichiarazioni dei redditi degli ultimi 3 anni;
e) l’attestazione sulla fattibilità del piano;
f) l’elenco spese correnti necessarie al sostentamento del consumatore e della sua famiglia;
g) l’indicazione della composizione del nucleo familiare;
h) il certificato dello stato di famiglia (autocertificabile ai sensi dell’articolo 46, D.P.R. 445/2000);
i) la dichiarazione di eventuali redditi percepiti.
Sempre in tale fase preliminare è opportuno redigere un dettagliato verbale delle dichiarazioni
rilasciate e dei documenti prodotti dal consumatore istante, con esplicito riferimento alla completezza
dei dati e informazioni prodotte e dall’assenza di altri elementi di attivo e passivo anche potenziali e
quindi verificare l’attendibilità dei documenti ricevuti dal consumatore:
4 La verifica di sussistenza delle condizioni di ammissibilità di cui agli articoli 6 e 7 nonché di non aver utilizzato nei precedenti 5 anni (dalla
data in cui è stato corrisposto l’ultimo pagamento previsto) uno strumento di cui alla L. 3/2012 (piano, accordo o liquidazione) di non aver
subito per cause a lui imputabili uno dei seguenti provvedimenti: impugnazione e risoluzione accordo del debitore (articolo 14); revoca o
cessazione degli effetti dell’omologazione del Piano del consumatore (articolo 14-bis). 5 Il debitore deve trovarsi in situazione di sovraindebitamento come dettata dalla norma (articolo 6).
Caso operativo
61 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
1. richiedere formalmente al consumatore se oltre ai documenti ricevuti esistono altri
documenti/informazioni/dati potenzialmente rilevanti;
2. attivare il cassetto fiscale (previa verifica dell’eventuale assegnazione ad altro collega e, nel caso,
chiedere a questo le risultanze);
3. acquisire copia del documento d’identità;
4. verificare la presenza e la necessità di eventuali perizie o offerte ricevute sui beni;
5. richiedere carichi pendenti (in caso di fatti penali rilevanti);
6. richiedere gli estratti di ruolo presso l’agente della riscossione competente;
7. richiedere la certificazione carichi pendenti presso Agenzia delle entrate, Inps, Inail, uffici tributi degli
enti locali;
8. effettuare la richiesta precisazione credito ai debitori e ai creditori segnalati dal consumatore;
9. effettuare le visure camerali, catastali, le ispezioni ipotecarie e presso il P.R.A.;
13. esaminare gli estratti conto dei rapporti bancari degli ultimi 5 anni;
14. verificare l’esistenza di protesti di titoli a carico del consumatore;
15. verificare l’esistenza decreti ingiuntivi e procedure esecutive a carico del consumatore istante negli
ultimi cinque anni;
16. verificare la presenza esecuzioni mobiliari o immobiliari
17. accedere, previa richiesta al giudice ai sensi dell'articolo 15, comma 10, L. 3/2012 all’Anagrafe
tributaria, alla SIC (sistemi di informazioni creditizie); alla Centrali rischi, alla Centrale di allarme
interbancari, all’Archivio informatizzato degli assegni, alle altre banche dati pubbliche, compreso
l'archivio centrale informatizzato di cui all'articolo 30-ter, comma 2, D.Lgs. 141/2010;
18. redigere, in caso di soddisfazione parziale dei crediti muniti di privilegio pegno o ipoteca, apposita
relazione di attestazione (articolo 7, comma 1, L. 3/2012) in paragone alla liquidazione;
19. redigere la relazione che attesta la fattibilità del piano (articolo 9, comma 2 e articolo 15, comma 6,
L. 3/2012) e predisporre una relazione particolareggiata contenente (articolo 9, comma 3-bis, L. 3/2012)
l'indicazione delle cause dell'indebitamento e della diligenza impiegata dal consumatore nell'assumere
volontariamente le obbligazioni; l'esposizione delle ragioni dell'incapacità del consumatore di
adempiere le obbligazioni assunte; il resoconto sulla solvibilità del consumatore negli ultimi 5 anni;
l'indicazione della eventuale esistenza di atti del debitore impugnati dai creditori; il giudizio sulla
completezza e attendibilità della documentazione depositata a corredo della proposta, nonché la
probabile convenienza del Piano rispetto all’alternativa liquidatoria.
Caso operativo
62 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Nella fase di predisposizione della proposta è altresì opportuno valutare (articolo 15, comma 5, L.
3/2012) se indicare l’eventuale esistenza di procedimenti di esecuzione forzata che potrebbero
pregiudicare la fattibilità del piano onde sensibilizzare il giudice a disporre in merito, ai sensi
dell’articolo 12-bis, comma 2, L. 3/2012 nel Decreto che fissa l’udienza per l’omologa, e quindi prevedere
la eventuale sospensione delle procedure in corso e proporre all’organo giudicante, se è prevista la
liquidazione di beni pignorati, la nomina di un liquidatore con i requisiti ex articolo 28, L.F. (ex articolo
13, comma 1, L. 3/2012).
Le risultanze della istruttoria effettuata dal gestore nel caso concreto
Nel caso di specie i coniugi richiedenti, coobbligati e in regime di comunione de beni, entrambi
lavoratori dipendenti, uno nel settore privato, l’altro nel pubblico, alla luce di tutte le verifiche del
gestore della crisi finora descritte, risultavano proprietari di:
a) un immobile adibito ad abitazione principale del proprio nucleo familiare - composto anche da 2 figli
minori – su cui gravava una procedura esecutiva a seguito di inadempimento dal pagamento del mutuo
sottoscritto per l’acquisto;
b) una autovettura di scarso valore commerciale e nessun altro valore o bene mobile.
La situazione debitoria era composta, oltre che dal debito residuo del mutuo per sorta capitale, rate e
interessi scaduti, anche da 2 finanziamenti chirografari sottoscritti in epoca successiva e fronte di
acquisti di arredamento e piccole spese di ristrutturazione della abitazione. I debitori risultavano aver
contratto le obbligazioni nella consapevole possibilità di poterle adempiere stante la compatibilità
degli impegni assunti con i flussi di reddito attesi. In epoca successiva, però, causa il licenziamento
causato dal fallimento e chiusura dell’azienda presso cui era collocato uno dei coniugi, il nucleo
familiare non riusciva a sostenere il debito contratto e, perdurando la situazione, si acclarava lo stato
di sovraindebitamento.
La situazione debitoria era pertanto la seguente:
TIPOLOGIA DEBITO Debito Residuo % Tot. Rata Media Mensile % Tot.
Mutuo Ipotecario immobiliare 92.213,05 71,47% 850,00 59,86%
Fin. Credito al consumo 22.587,00 17,51% 370,00 26,06%
Mutuo chirografario 14.227,30 11,03% 200,00 14,08%
Il gestore verificava che il reddito netto mensile ed attuale prodotto al momento della domanda dal
nucleo familiare era pari a 1.820 euro; di contro, all’epoca in cui furono sottoscritte le obbligazioni del
piano, esso si attestava a circa 4.000 euro mensili. Il flusso reddituale odierno era quindi per la maggior
Caso operativo
63 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
parte impiegato nelle spese di mantenimento (vitto, utenze, spese scolastiche e mediche e simili)
verificate dal gestore per l’importo medio di 1.060 euro: la disponibilità reale per la soddisfazione dei
creditori nell’ipotesi di un piano sostenibile nel tempo non poteva essere superiore a 760 euro mensili
contro rate medie che ammontavano a 1.420 euro. Il rapporto fra reddito disponibile (760 euro) e rate
media mensile (1.420 euro) provava anche la situazione di perdurante squilibrio giustificante il ricorso
della procedura sul piano della diligenza e della meritevolezza. All’epoca della sottoscrizione di tali
obbligazioni, infatti, il gestore rilevava che il comportamento dei debitori poteva essere considerato
diligente, atteso che, a parità di costi di mantenimento, il reddito medio mensile (si ricorda 4.000 euro)
era tale da sostenere le rate dei debiti contratti.
Il piano proposto e la relazione particolareggiata
Il piano prevedeva il pagamento al 100% del creditore ipotecario e del 40% del ceto chirografario. La
proposta era compatibile all’alternativa liquidatoria dei beni atteso che la liquidazione a valori di
mercato dell’abitazione e dell’unico bene mobile posseduto, avrebbe infatti garantito un flusso di cassa
di 88.100 euro contro una debitoria di 129.027 euro.
Valore stimato del patrimonio immobiliare 86.400,00
Valore stimato del patrimonio mobiliare 1.700,00
Valore complessivo del patrimonio 88.100,00
Ciò avrebbe implicato per i creditori una soddisfazione con le seguenti percentuali
Tipo debito Debito residuo % soddisfazione
ipotesi liquidatoria
Valore del
Debito ipotesi
liquidatoria
Importo
riconosciuto
Mutuo Ipotecario immobiliare 92.213,05 93,947% 86.631,83 92.213,05
Mutuo chirografario 14.227,30 3,988% 567,39 5.690,92
Fin. Credito al consumo 22.587,00 3,988% 900,78 9.034,80
Di contro, invece il piano proposto, come si evince dall’ultima colonna della precedente tabella,
prevedeva il mantenimento in capo ai richiedenti dei beni posseduti, e il contestuale pagamento, in
luogo della liquidazione dei beni, dei valori qui esposti, in tempi distinti per il ceto privilegiato e quello
chirografario. La banca ipotecaria avrebbe beneficiato del rientro in 180 rate mensili, mentre i 2 istituti
eroganti i finanziamenti personali, sarebbero stati soddisfatti in 72 rate mensili. A entrambi sarebbe
stato riconosciuto un interesse corrispettivo a tasso fisso. La soluzione proposta era da considerarsi
migliorativa rispetto all’alternativa liquidatoria dei beni posseduti. Essa inoltre, prevedeva la
corresponsione del compenso all’Organismo di composizione in prededuzione, applicava la moratoria
annuale del pagamento del ceto privilegiato con maggiorazione degli interessi legali maturati fino al
Caso operativo
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primo pagamento e la sospensione dell’azione esecutiva fino al decreto di omologa per evitare di
arrecare pregiudizio alla sua fattibilità.
Il decreto di ammissione
Il giudice delegato, verificati i requisiti di ammissibilità, fissava l’udienza di omologa con decreto,
ritenendo meritevole di accoglimento la richiesta di sospensiva della procedura esecutiva tanto da
disporre che “ai sensi dell’articolo 12-bis, comma 2, L. 3/2012, considerato il pregiudizio che potrebbe
arrecare alla fattibilità del piano, sia sospesa la procedura esecutiva di cui al R.G.E. XXXXXX sino al
provvedimento di omologazione”. L’udienza, ai sensi articolo 12-bis, comma 1, L. 3/2012 era quindi fissata
in ossequio al termine di 60 giorni dal deposito della documentazione (o delle integrazioni) e onerando
il gestore della crisi a comunicare sia il decreto sia il piano ai creditori almeno 30 giorni prima
dell’udienza (articolo 12-bis, comma 1, L. 3/2012). Tali comunicazioni sarebbero state effettuate (ai
sensi dell’articolo 15, comma 7, L. 3/2012) a mezzo posta elettronica certificata se il relativo indirizzo
del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta
elettronica certificata delle imprese e dei professionisti ed in ogni altro caso a mezzo: telefax, lettera
raccomandata.
L’udienza di omologa
All’udienza, il giudice, rilevato l’esatto adempimento delle disposizioni richiamate nel decreto di
ammissione, provvedeva all’omologazione del piano, onerando le parti anche alla trascrizione del
decreto presso i registri immobiliari. L’omologazione, ai sensi dell’articolo 12-bis, comma 6, L. 3/2012
deve avvenire entro 6 mesi dalla presentazione della domanda, ma il termine non è perentorio. Il giudice
riteneva fondata la proposta di piano in quanto il creditore ipotecario risultava soddisfatto nella misura
del 100% del proprio credito che era pari alla somma oggetto del pignoramento immobiliare azionato
maggiorato degli interessi legali maturati, ritenendo quindi superata la generica contestazione
pervenuta circa il solo riconoscimento del capitale e degli interessi legali. Quanto al ceto chirografario,
il decreto superava le eccezioni circa la convenienza per il creditore rispetto alla alternativa liquidatoria,
atteso che quanto proposto era comunque superiore alla quota ricavabile in caso di liquidazione di tutti
i beni del debitore. Nelle more, il giudice riteneva sussistente il requisito della diligenza atteso che la
causa del sovraindebitamento era da attribuire alla cessazione dell’attività presso cui il ricorrente era
dipendente e che la debitoria era interamente riferibile a un periodo precedente quando il reddito
familiare poteva contare sugli stipendi di entrambi i coniugi ricorrenti. Circa la durata del piano per il
Caso operativo
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creditore ipotecario, esso era meritevole di accoglimento in quanto l’articolo 8, comma 4, L. 3/2012 non
vieta la predisposizione di una proposta di soddisfazione dei creditori privilegiati superiore ad un anno,
atteso che la norma riproduce l’articolo 186-bis, comma 2, lettera c), L.F. secondo il quale anche nel
concordato preventivo è ammissibile la dilazione pluriennale del pagamento dei creditori privilegiati,
ferma la condizione – in quel caso – di assicurare loro il diritto di voto. Tale principio, richiamato anche
dalla Cassazione sentenza n. 17834/2019 risolve l’asimmetria fra debitori ricorrenti e creditori non
votanti nel piano del consumatore, nel giudizio del magistrato circa la meritevolezza del debitore, la
verifica della fattibilità del piano attestata dal gestore della crisi ed il confronto tra la soddisfazione
assicurata dal piano e l’alternativa liquidatoria secondo gli articoli 14-ter e ss. della norma.
Esecuzione del Piano
Dopo l’omologazione, l’Organismo si adopera per risolvere le eventuali difficoltà nell'esecuzione
dell'accordo, per vigilare sull’adempimento dell’accordo e per comunicare ai creditori ogni eventuale
irregolarità (articolo 13, comma 2, L. 3/2012). Naturalmente rimane rimessa al giudice investito della
procedura la definizione di tutte le eventuali contestazioni relative alla violazione di diritti. Il ruolo
fondamentale di supporto, non solo al debitore, ma anche nei confronti del giudice delegato è
sottolineato anche nella Sezione III della L. 3/2012 dedicata alle disposizioni comuni, in quanto,
all'articolo 15, L. 3/2012 si dispone che spetti all'Organismo il compito di effettuare tutte le
comunicazioni disposte dal giudice ai fini delle procedure esaminate, invitando a preferire l'utilizzo
della posta elettronica certificata. In caso di nomina di un liquidatore da parte del giudice, inoltre,
l'organismo deve proporre la designazione e ha il compito di sorvegliare l'operato di quest'ultimo e di
riferire ai creditori. I poteri pubblicistici dell'Organismo sono confermati anche dalla previsione della
possibilità di accesso alle banche dati.
Fiscalità internazionale
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Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La “frode castello” quale nuovo
meccanismo di frode fiscale
transnazionale di Marco Bargagli, Alberta Gavasso e Marco Thione – Guardia di Finanza1
Quando si parla di “meccanismi di frode fiscale” il pensiero, spesso, va quasi
automaticamente alla celebre “frode carosello”, un vorticoso giro di fatture false che prende
vita grazie a un gruppo, più o meno strutturato, di società fittizie (le c.d. “cartiere” o “filtro”)
che, scambiandosi vicendevolmente documenti fiscali attestanti operazioni inesistenti, fanno
sorgere fraudolentemente diritti di detrazione dell’Iva sugli acquisti di fatto non spettanti. Il
“carosello” di fatture false, tuttavia, è un “meccanismo di frode” ormai noto - anche in virtù
delle misure preventive e repressive adottate dai diversi ordinamenti giuridici nazionali per
contrastarlo – tanto da risultare oggi quasi “inflazionato” agli occhi della moderna
criminalità economico-finanziaria. Da qui l’evoluzione della “frode carosello” in “frode
castello”. Un’evoluzione del meccanismo fraudolento resasi necessaria per continuare a
perpetrare, senza “dare troppo nell’occhio”, frodi fiscali basate sull’ormai consolidato e
“soddisfacente” meccanismo delle fatture fittizie. Nel presente intervento saranno quindi
descritti, sotto il profilo fenomenico e giuridico, i tratti essenziali della nuova “frode castello”,
per capirne il funzionamento, conoscerne i protagonisti (con uno specifico focus sul possibile
coinvolgimento di professionisti) e comprendere i profili di potenziale rilevanza penale
eventualmente ravvisabili.
Premessa
La “frode castello”2 costituisce oggi la nuova frontiera dell’evasione fiscale (sovente di rilevanza
internazionale) perpetrata attraverso l’emissione e l’utilizzo di documenti contabili falsi.
Sfruttando l’oliato meccanismo di fatturazione fittizia tra società di fatto inesistenti (le imprese
“cartiere”/“filtro”), la “frode castello”, da un lato, giustifica formalmente l’immissione nel mercato di una
rilevante quantità di merce compravenduta “in nero” fra operatori economici reali; dall’altro, apporta
1 Il contributo viene redatto a titolo personale e non impegna l’Amministrazione di appartenenza. 2 Il tema della “frode castello” è stata affrontata da chi scrive, unitamente ad altri Autori, in un’organica monografia interamente dedicata
all’argomento de quo, ovvero “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei nuovi meccanismi di frode fiscale transnazionale. Dalla ‘frode carosello’
alla ‘frode castello’”, 2020, Euroconference, a cura di M. Bargagli, A. Gavasso, F. Micia, M. Thione, L. Vaccaro. Per ogni approfondimento si
rimanda a tale testo, cui verrà operato più volte specifico rinvio nel presente intervento.
Fiscalità internazionale
67 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
numerosi vantaggi (più o meno immediati e/o tangibili) a tutti i “castellani” che danno vita alla frode
stessa, primo fra tutti la possibilità di monetizzare in tempi molto rapidi (ottenendo cash che alimenta
fondi “neri”) il profitto dell’evasione fiscale.
Diventa allora fondamentale individuare le caratteristiche peculiari di questo moderno meccanismo
fraudolento, soprattutto nell’ottica di comprenderne il funzionamento e, conseguentemente, approntare
idonee ed efficaci misure per prevenirne e contrastarne la diffusione.
Benché, infatti, ogni castellum abbia una sua propria particolare fisionomia, è possibile individuare
alcuni elementi comuni a tutte le “frodi castello”, che consentono di tracciare uno “schema classico” e di
operare, dunque, un “battesimo” da un punto di vista fenomenico.
Al “battesimo fenomenico” segue inevitabilmente il “battesimo giuridico”, ossia le necessarie e
opportune riflessioni non solo sulle eventuali responsabilità penali delle persone fisiche coinvolte nella
frode, ma anche sulla possibilità di aggredire il profitto dei reati potenzialmente ravvisabili alla luce
del vigente quadro normativo di riferimento.
Da ultimo (ma non per importanza), è significativo soffermarsi a meditare sul ruolo e sulle eventuali
responsabilità imputabili ai “colletti bianchi” (italiani o stranieri) che partecipano alla frode,
coinvolgimento che potrebbe registrarsi nel momento in cui l’architettura del castellum sia
particolarmente complessa e/o travalichi i confini nazionali.
La “frode castello”: il funzionamento
La nozione di “frode fiscale” - che non è oggetto di specifica formalizzazione nell’ambito del lessico
giuridico tributario nazionale, non esistendone (infatti) un’espressa definizione - costituisce
essenzialmente una consuetudine di linguaggio che indica specifiche condotte di evasione fiscale,
attuate con modalità o comportamenti fraudolenti.
Sovente, il concetto di “frode fiscale” viene automaticamente ricondotto al settore dell’Iva, forse perché
associato a quello di “frode carosello” (che ne costituisce una species) tipica di tale comparto impositivo.
In realtà, le frodi fiscali possono essere realizzate per ottenere indebiti vantaggi a danno dell’Erario
anche (o anche solo) nel settore delle imposte dirette, allorquando (ad esempio) nel settore
commerciale in cui operano gli artefici del sistema fraudolento trova applicazione il c.d. reverse charge,
un meccanismo fiscale di “inversione contabile” introdotto proprio al fine di prevenire l’evasione
dell’Iva.
In tale contesto si inserisce la “frode castello” che, come anticipato in “Premessa”, rappresenta oggi una
sorta di “nuova frontiera” dell’evasione fiscale perpetrata attraverso l’emissione e l’utilizzo di fatture
Fiscalità internazionale
68 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
false: infatti, attraverso la costruzione di veri e propri “castelli di carta transnazionali” a copertura di
compravendite “in nero”, il meccanismo fraudolento in parola consente di monetizzare in tempi molto
rapidi il profitto dell’evasione fiscale perpetrata tanto nel settore delle imposte dirette, quanto in quello
dell’Iva.
La possibilità, da un lato, di avere prontamente a disposizione il “tesoretto cash” frutto della frode fiscale
(facilmente distribuibile, nelle proporzioni previamente stabilite, tra i diversi “attori” della frode), così
come, dall’altro lato, la praticabilità del meccanismo fraudolento in diversi settori impositivi, rendono
la “frode castello” certamente molto appetibile per gli operatori commerciali disonesti e irrispettosi dei
principi e delle norme che disciplinano il mercato.
Come detto, in linea generale il sistema fraudolento alla base della “frode castello” appare riconducibile
a uno “schema classico” ben definito, ove operano più distinti soggetti economici, ciascuno dei quali
con funzioni ed esigenze diverse3.
All’interno di tale meccanismo è possibile distinguere almeno 4 livelli:
− il primo livello è quello in cui si colloca il fornitore “in nero” della merce.
Si tratta di un soggetto in possesso di beni che intende vendere “in nero”, in modo tale da evitare di
documentare i ricavi derivanti da tale cessione. Sono, tradizionalmente, soggetti economici che
dispongono di beni da immettere nel circuito economico. Sul punto, appare opportuno precisare che
taluni settori commerciali si prestano meglio di altri a tale re-immissione specie nei casi di materie
prime riutilizzabili e reimpiegabili. La re-immissione attraverso il meccanismo fraudolento consente di
ottenere significativi benefici, garantendo un introito “esentasse” e decisamente più cospicuo rispetto
al circuito legale;
− il secondo livello è quello ove si collocano le “cartiere”.
Prive di struttura aziendale e contabilità, sono imprese esistenti solo “sulla carta” allo scopo precipuo
di emettere le fatture per operazioni inesistenti “a copertura” delle cessioni “in nero” effettuate dai
fornitori sopra citati. È opportuno evidenziare che le “cartiere” costituiscono fondamentali tasselli dei
“castelli di carta transazionali”. Esse sono elementi strutturali irrinunciabili della “frode castello”, una
sorta di “chiave di volta”4.
3 Quanto illustrato infra rappresenta la sintesi di una più ampia e approfondita ricostruzione operata da chi scrive in altra sede. Circa la
ricostruzione “fenomenica” della “frode castello”, si rimanda a “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei nuovi meccanismi di frode fiscale
transnazionale. Dalla “frode carosello” alla “frode castello””, op.cit., con particolare riguardo al Capitolo 2., “IPCF-International Paper Castle Fraud:
profili fenomenici”, a cura di M. Thione. In tale contesto i diversi profili (fisici, economici e finanziari) della frode in esame vengono illustrati
anche con l’ausilio di schemi e grafici esemplificativi, oltre che attraverso la ricostruzione di un’ipotesi concreta di “frode castello”, che permette
di apprezzare con semplicità e chiarezza il fenomeno in trattazione. 4 Circa le caratteristiche tipiche delle società cartiere si rimanda a “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei nuovi meccanismi di frode
fiscale transnazionale. Dalla “frode carosello” alla “frode castello””, op. cit.. In particolare, il tema delle cartiere e dei loro tratti più caratterizzanti
è trattato al capitolo 1, § 4.4., pag. 20, a cura di L. Vaccaro.
Fiscalità internazionale
69 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Per rendere più difficile la ricostruzione della “filiera fraudolenta”, le “cartiere” emettono le fatture
fittizie non nei confronti dell’acquirente finale della merce, bensì nei confronti di soggetti “filtro”
appositamente interposti, ossia i soggetti del terzo livello;
− il terzo livello è quello in cui si collocano le società “filtro”.
A differenza delle “cartiere”, le società “filtro” sono dotate di una struttura aziendale e di un impianto
contabile, ma (come le “cartiere”) sono dedite all’emissione di fatture false.
Le società “filtro” sono una sorta di “faccia pulita” del “castello”; le “cartiere”, invece, sono la “faccia
sporca”. La loro contabilità è, apparentemente, impeccabile, correttamente conservata e aggiornata. I
pagamenti effettuati e ricevuti avvengono sempre tramite bonifico bancario, per lasciare (finta) traccia
delle operazioni e creare una parvenza di legalità e “ortodossia commerciale”.
L’acquirente reale della merce (di cui dirà infra), dunque, potrà comprare da una “faccia pulita”, evitando
di intrattenere rapporti con il secondo livello.
Sono proprio le società “filtro” che, di norma, intrattengono i rapporti economico-commerciali con
l’acquirente della merce “in nero” (quarto livello di cui infra). Le società filtro emettono nei confronti
dell’acquirente finale fatture fittizie per consentirgli di avere a disposizione documenti contabili:
• a “copertura” degli acquisti della merce “in nero” (di fatto provenienti dal fornitore “in nero”, ovvero
dal livello 1);
• attestanti costi da portare in deduzione per abbattere la base imponibile;
− il quarto livello è quello ove si collocano gli acquirenti reali della merce, ossia gli utilizzatori delle
fatture soggettivamente inesistenti emesse (da ultimo dalle società “filtro”).
Capire in che modo è tradizionalmente strutturato il castellum (che, di base, è articolato nei 4 livelli
sopra descritti) è fondamentale per comprendere quali sono i passaggi fisici (ossia l’effettiva cessione
della merce), quelli economici (ossia le fatturazioni tra i soggetti coinvolti) e quelli finanziari (ossia i
flussi di denaro e la loro destinazione) della “frode castello”.
Da un punto di vista “fisico” esiste un unico passaggio effettivo, che va dal primo al quarto livello: il
primo livello del “castello”, infatti, invia materialmente la merce al destinatario finale, ossia il quarto
livello.
Il “castello” di carta esiste proprio per nascondere tale passaggio, “cartolarizzandolo” attraverso le
fatture per operazioni inesistenti (ossia attraverso il “castello di carta” creato ad hoc). Dal punto di vista
“economico”, infatti, entrano in gioco le “cartiere”, che creano le “carte” (le fatture false) a sostegno
dell’acquisto. Le “cartiere” spesso hanno sede all’estero e, in ogni caso, sono intestate a prestanome.
Tali “cartiere” possono avere sede in Paesi diversi ed essere anche ulteriormente “stratificate”, creando
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70 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
così altri “sottolivelli” e rendendo davvero difficoltosa la ricostruzione investigativa dei passaggi
“economici” da parte degli investigatori. Da ultimo, la “faccia pulita”, ossia la società “filtro”, emette
fattura all’acquirente finale.
In questo modo l’utilizzatore finale (quarto livello) riceve la fattura a copertura della merce “nera” e si
crea la “pezza d’appoggio” apparentemente legittimante. La provenienza della merce assume una
parvenza del tutto regolare: i beni non provengono dal fornitore “in nero”, ma da una società (la società
“filtro”). Né l’utilizzare finale è tenuto a sapere da dove si è approvvigionata la società “filtro” e, in caso
di controlli dell’Amministrazione finanziaria, potrà fingere di non conoscere la reale provenienza.
Percorso inverso, ovviamente, rispetto alle fatturazioni è quello dei pagamenti delle fatture medesime.
I pagamenti costituiscono un aspetto fondamentale della frode. Essi sono apparentemente
“impeccabili”. Ognuno “paga chi deve pagare” con bonifico bancario, a comprova dell’apparente
effettuazione dell’operazione. Tali pagamenti, di fatto, servono solo a trasferire all’estero (spesso la
destinazione ultima dei bonifici è oltreconfine, su conti correnti intestati alle “cartiere”) la liquidità e ivi
monetizzarla.
La destinazione ultima del denaro è, dunque, una o più “cartiere a monte” o “a valle” a seconda del
punto di vista.
È qui che avverrà la monetizzazione, attraverso il prelievo di denaro contante. “Qui” deve essere inteso
come segue: presso la filiale ove è acceso il conto corrente di tale “cartiera”, ovvero, spesso, come detto
più volte, presso una filiale sita in uno Stato estero.
Il “ritorno” del contante conseguente al suo prelievo dopo l’effettuazione di bonifici formalmente
regolari costituisce il “nocciolo” della frode, che consente di disporre di cash facilmente distribuibile
(nelle proporzioni previamente stabilite) tra i diversi “castellani” coinvolti.
La “monetizzazione” - che rappresenta al contempo sia il momento più “pericoloso” del meccanismo
fraudolento (perché è quello in cui i “castellani” più si espongono), sia quello più efficace (dato che
consente di ottenere subito significativa liquidità da occultare) - è un’operazione indubbiamente
“atipica” rispetto alla normale prassi commerciale di un operatore sano. Non è consueto, infatti, che
un’impresa svuoti le proprie disponibilità bancarie per incassare significativi quantitativi di denaro
contante.
Tale operazione “stonata” deve, dunque, essere resa il più possibile meno evidente e, soprattutto, non
riconducibile ai reali dominus della frode. Ecco il motivo della scelta di filiali bancarie estere così da
ostacolare la ricostruzione investigativa che, inevitabilmente, dovrà basarsi su forme di cooperazione
di polizia e/o giudiziaria tra Stati diversi. Le misure di “difesa” non si esauriscono nella mera apertura
Fiscalità internazionale
71 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
dei conti correnti oltreconfine. Il prelievo in contanti (veri e propri svuotamenti dei conti correnti per
milioni di euro) avviene a opera dei prestanomi, i quali saranno gli unici a esporsi. Non solo. Le somme
di denaro prelevate potranno essere anche affidate a ulteriori (e diversi) cash courier “di professione”,
veri e propri “spalloni” di banconote che trasporteranno (a fronte del riconoscimento di una provvigione
per il “servizio” prestato) il cash alle destinazioni previste (destinazioni specificatamente illustrate infra).
In termini più giuridici, tali “spalloni” costituiscono dei riciclatori che trasferiscono denaro delittuoso al
fine di ostacolare la ricostruzione della provenienza illecita.
Il nominativo dell’amministratore di fatto della “costellazione di cartiere” rimarrà sempre nell’ombra e
potrà emergere solo grazie al lavoro degli investigatori che - attraverso idoneo materiale probatorio -
dovranno dimostrare il ruolo di deus ex machina dell’uomo “occulto”. Tale “uomo occulto”, quale dominus
del secondo e terzo livello, è il vero “sovrano del castello”.
“Che fine fa”, alla fine, il denaro “monetizzato”, ossia prelevato a monte, dopo l’effettuazione degli
(apparentemente regolari) bonifici a saldo delle fatture (false)?
Il cash realizzato mediante l’attuazione del meccanismo fraudolento ha essenzialmente 4 destinazioni,
in quanto viene impiegato per:
− pagare “in nero” il fornitore reale della merce;
− coprire i costi del “castello di carta transnazionale” (remunerazione degli amministratori di diritto
delle società “cartiere”/“filtro”, costi di apertura/gestione dei conti correnti utilizzati, costi di
costituzione/gestione delle imprese “di comodo”, etc.);
− restituire all’acquirente reale della merce quella quota-parte del prezzo d’acquisto:
• formalmente indicato nelle fatture fittizie emesse nei suoi confronti a “copertura” degli acquisti
effettuati (in quanto, come detto, tali documenti recano prezzi sostanzialmente in linea con quelli di
mercato);
• effettivamente da lui risparmiata attraverso il ricorso alla “frode castello”;
− remunerare gli amministratori di fatto delle società “cartiere”/“filtro” per il servizio reso.
Concretamente, l’esperienza operativa ha permesso di appurare che la monetizzazione dei “castelli di
carta transnazionali” avviene per mano dell’amministratore di fatto delle società “di comodo” (il quale,
se del caso, può anche avvalersi a tal fine dell’opera del suo “prestanome” che provvede materialmente
al prelievo).
L’acquirente reale della merce, infatti, ottenuto il materiale acquistato e la relativa fattura fittizia,
effettua il pagamento (spesso mediante bonifico bancario) in favore del soggetto emittente il falso
Fiscalità internazionale
72 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
documento contabile (la società “filtro”), in modo che non traspaia all’esterno l’artificiosità del
meccanismo fraudolento posto in essere.
Una volta ottenuta la disponibilità (dopo i vari passaggi fino al conto corrente finale) del denaro sul
conto corrente destinatario di tale pagamento, l’amministratore di fatto del secondo e terzo livello
provvede (in prima persona o, eventualmente, come detto, attraverso il proprio “prestanome”) a
svuotarlo, prelevando il denaro contante e costituendo, in tal modo, quel “bacino di liquidità” necessario
per procedere alle restituzioni sopra schematizzate.
Il “ciclo di monetizzazione dei castelli di carta” sin qui descritto5 si consuma in tempi spesso molto
rapidi, per conferire periodicità alle transazioni fittizie e permettere di impiegare prontamente la
provvista “restituita”.
La “frode castello”: natura e vantaggi dei singoli “castellani”
I diversi “attori” della “frode castello”, ciascuno dei quali (come detto) si colloca in uno dei diversi livelli
che costituiscono lo “schema classico” di frode (in virtù delle sue funzioni e delle esigenze che intende
soddisfare attraverso il meccanismo fraudolento), possono essere distinti anche in base al criterio della
“(non) concretezza operativa”.
Ovvero: tra tutti questi “attori”, chi è concretamente operativo, chi lavora effettivamente e chi, invece,
è solo una mera “scatola vuota”?
In tal senso, è possibile individuare 2 macro-categorie di imprese all’interno dello schema in commento:
− soggetti effettivamente operativi, ossia realtà imprenditoriali realmente esistenti e fattivamente
impegnate nel proprio settore commerciale.
In tale categoria vanno ricondotti tanto i fornitori “in nero” della merce (primo livello), quanto gli
acquirenti reali della merce (quarto livello);
− soggetti “di comodo”, artatamente costituiti per creare e mantenere in vita i “castelli di carta
transazionali” necessari a coprire cartolarmente le cessioni “in nero” realizzate, in ultima istanza, dai
soggetti effettivamente operativi.
Si tratta di imprese “di comodo” che sovente presentano le medesime ricorrenti caratteristiche, quali:
• vita aziendale di breve durata (pochi mesi o qualche anno);
5 Ossia il c.d. “ciclo breve di monetizzazione”, che presuppone l’interposizione di un’unica società “di comodo” fra l’acquirente reale della merce
e il fornitore “in nero”. In verità, l’esperienza operativa dimostra che la realtà può essere ben più complessa, dato che gli “attori” della frode, al
fine di rendere più difficile la ricostruzione della “filiera fraudolenta” e dei connessi flussi monetari-finanziari, sovente creano più livelli
intermedi e si appoggiano su più conti correnti, avvalendosi anche e soprattutto di imprese (più o meno fittizie) e istituti di credito esteri.
Fiscalità internazionale
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• struttura aziendale inesistente o minima e di mera facciata (ad esempio un capannone, un ufficio,
1 o 2 dipendenti, un mezzo di trasporto), così da sembrare imprese effettivamente operative e
apparire più credibili in relazione ai documenti fiscali emessi;
• amministratori di diritto spesso senza alcuna esperienza nel settore merceologico in cui “operano”
le aziende da loro rappresentate, che in realtà si rivelano essere meri “prestanome” degli
amministratori di fatto (ossia di coloro che effettivamente detengono il potere di gestione aziendale),
ricompensati per il proprio servizio;
• omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali obbligatorie ovvero, qualora presentate, riportanti
debiti d’imposta minimi o nulli;
• occultamento o mancata istituzione delle scritture contabili;
• costi solitamente documentati da fatture ricevute da imprese qualificabili come “cartiere”;
• ricavi solitamente documentati da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.
Ciascuno dei “castellani”, naturalmente, partecipa alla frode per trarne un vantaggio, più o meno
immediato e/o tangibile, contribuendo a dar vita a un meccanismo fraudolento che:
− prima facie, non presenta particolari elementi di anomalia per un osservatore esterno, in quanto le
fatture per operazioni inesistenti utilizzate per realizzare la frode recano sovente prezzi
sostanzialmente in linea con quelli di mercato (quindi, non “danno nell’occhio”);
− consente di monetizzare in tempi rapidi il profitto generato dalla frode;
− è caratterizzato, in ultima istanza, da una ciclicità replicabile all’infinito.
In realtà, è più corretto parlare di scopi della frode (al plurale), in quanto ciascuno degli “attori” dello
“schema classico” sopra descritto mira a soddisfare proprie finalità, diverse rispetto a quelle degli altri
sodali.
Più in dettaglio:
− il fornitore “in nero” della merce ha interesse a cedere il materiale in suo possesso, ottenendone il
relativo controvalore monetario, senza emettere alcun documento fiscale che attesti tale cessione, in
modo da non dover contabilizzare ricavi (che andrebbero ad aumentare la sua base imponibile);
− l’acquirente reale della merce ha interesse a comprare effettivamente il materiale in possesso del
fornitore “in nero” (in quanto utile ai suoi processi lavorativi) a un prezzo estremamente competitivo, in
modo da poter:
• contenere i propri costi di produzione, risparmiando sulle materie acquistate dai fornitori;
• collocare sul mercato i beni di propria produzione a prezzi molto concorrenziali ovvero ottenendo
un margine di guadagno superiore;
Fiscalità internazionale
74 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
• documentare sotto il profilo contabile (maggiori) costi (solo apparentemente) sostenuti, per
abbattere la propria base imponibile;
− l’amministratore di fatto del secondo e terzo livello (ovvero delle società “cartiere”/“filtro”) ha
interesse a guadagnare attraverso la creazione e la gestione del complesso sistema di imprese “di
comodo” da lui costituite e amministrate, facendosi corrispondere un compenso per il “servizio di
cartolarizzazione” offerto;
− gli amministratori di diritto del secondo e terzo livello (ovvero delle società “cartiere”/“filtro”), meri
“prestanome” del gestore “di fatto” di tali imprese “di comodo”, hanno interesse a ricevere quel
compenso minimo loro offerto per rendersi disponibili a comparire “di facciata” in luogo di quest’ultimo.
È chiaro, dunque, che sono molteplici i vantaggi derivanti dalla “cartolarizzazione delle vendite in nero”,
benefici che possono tradursi:
− nell’immediato, in compensi monetari, profitti “in nero” e contenimento dei costi di
acquisto/produzione;
− nel medio/lungo periodo, in risparmi d’imposta (derivanti dal contenimento/abbattimento della base
imponibile) e nella possibilità di acquisire una miglior posizione nel mercato di riferimento, agendo in
maniera più concorrenziale. Tali fondi “neri”, inoltre, ben potranno essere successivamente immessi nel
circuito legale dell’economia, attraverso insidiose condotte riconducibili, a seconda dei casi, alle ipotesi
penalmente rilevanti ex articolo 648-bis (“Riciclaggio”), articolo 648-ter.1 (“Autoriciclaggio”) e articolo
648-ter (“Reimpiego”) c.p., come ulteriormente illustrato nel paragrafo successivo.
Corollari giuridici: le responsabilità penali degli “attori” della frode
Si è fatto cenno, da ultimo, ad alcune fattispecie di reato previste dal codice penale vigente che
potrebbero ravvisarsi nell’ambito di una “frode castello”.
D’altra parte, però, i concetti di “frode fiscale” ed “emissione/utilizzo di fatture fittizie”, più che al codice
penale, vengono con facilità ricondotti alla disciplina dettata dal D.Lgs. 74/2000 (“Nuova disciplina dei
reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9, L. 205/1999”).
Si tratta allora di interrogarsi su quali siano i profili di potenziale rilevanza penale connessi alla “frode
castello” e su quali strumenti previsti dall’ordinamento si possa contare per prevenire e/o reprimere tali
ipotesi delittuose.
Come detto in “Premessa”, al “battesimo fenomenico” segue necessariamente il “battesimo giuridico” -
cui è dedicato il presente paragrafo - essenziale per comprendere se e in che termini l’attuale
ordinamento giuridico sia in grado di contrastare efficacemente il meccanismo fraudolento in esame.
Fiscalità internazionale
75 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Le norme di riferimento per effettuare tale interpretazione esegetica – con specifico riguardo alla “frode
castello” – sono, essenzialmente, quelle di seguito elencate:
− articoli 2 (“Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”),
8 (“Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) e 9 (“Concorso di persone nei casi di
emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) D.Lgs. 74/2000 per quanto
attiene ai profili connessi all’emissione e all’utilizzo di documenti contabili attestanti operazioni
inesistenti;
− articoli 110 (“Pena per coloro che concorrono nel reato”) e 416 (“Associazione per delinquere”) c.p. al fine
di operare una corretta qualificazione del “gruppo” di sodali che danno vita alla frode;
− articoli 648-bis (“Riciclaggio”), 648-ter.1 (“Autoriciclaggio”) e 648-ter (“Reimpiego”) c.p. e con riguardo a
tutte le condotte successive alla “materializzazione” del profitto dell’evasione fiscale;
− articolo 61-bis (“Circostanza aggravante del reato transnazionale”) c.p. posto che, come detto, molto
spesso la “frode castello” travalica i confini nazionali;
− la disciplina dettata dal D.Lgs. 231/2001, come recentemente novellato dal D.L. 124/2019 (c.d.
“Decreto Fiscale”)6, che ha inserito nel novero dei reati presupposto l’applicazione della “Responsabilità
amministrativa da reato delle società e degli enti” i delitti di cui agli articoli 2, 3, 8, 10 e 11, D.Lgs. 74/2000.
Tralasciando in questa sede la disamina, da un punto di vista dottrinale e giurisprudenziale, del quadro
normativo dianzi tratteggiato7, appare significativo in questa sede vedere, all’atto pratico, come lo
stesso possa trovare concreta attuazione nell’ambito di una “frode castello”.
Si tratta, in altri termini, di rispondere alla seguente domanda: quali sono i reati specificatamente
riferibili ai singoli “castellani”? Quali illeciti penali commettono i diversi “attori” della frode?
È evidente che si tratterà di fornire una risposta “orientativa”, una sorta di “prototipo”, in quanto ogni
singolo caso di specie potrebbe essere costituito da elementi di peculiarità, che potrebbero assumere
valore dirimente ai fini dell’inquadramento giuridico.
Per il “battesimo giuridico”, tuttavia, viene in ausilio lo “schema classico” in precedenza descritto, al
quale ogni “frode castello” è di fatto riconducibile.
All’interno di tale schema, si è visto, operano più distinti soggetti economici (ciascuno dei quali con
funzioni ed esigenze diverse), che sono stati classificati in almeno 4 livelli.
6 Convertito con modificazioni nella L. 157/2019. 7 Tale tema è approfonditamente trattato in “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei nuovi meccanismi di frode fiscale transnazionale. Dalla
‘frode carosello’ alla ‘frode castello’”, op.cit., con particolare riguardo al Capitolo 3., “IPCF-International Paper Castle Fraud: profili giuridici in tema
di responsabilità penali”, pag. 53, a cura di A. Gavasso.
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76 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Anche ai fini dell’individuazione delle responsabilità penali appare efficace mantenere tale
quadripartizione. In tale ottica, quindi, è possibile tracciare:
− i profili di responsabilità degli “attori” del primo livello.
Il primo livello è quello in cui si colloca il fornitore “in nero” della merce.
Si tratta di un soggetto in possesso di beni che intende vendere “in nero”, in modo tale da evitare di
documentare i ricavi derivanti da tale cessione.
Quali le responsabilità penali in capo alle persone fisiche del primo livello?
La prassi operativa dimostra che il primo livello è, per certi versi, quello più “misterioso”.
Non sempre per gli investigatori è facile individuare l’esatta provenienza della merce e, dunque,
puntualmente chi abbia immesso tale merce “in nero”, al fine di “cartolarizzarla” attraverso la “frode
castello”.
Ipotizzando che le indagini abbiano consentito di individuare tale figura, è possibile che lo stesso
coincida con un “commerciante di settore”, ovvero un soggetto economico della quota di mercato
industriale/commerciale di riferimento che si trova a disporre di significative quantità di merce “da
piazzare”.
Emerge, dunque, una responsabilità penale, in primis, per l’omessa dichiarazione dei redditi conseguiti
dalla cessione in nero (ex articolo 3, ovvero 4, ovvero 5, D.Lgs. 74/2000, a seconda del caso di specie).
In secundis, appare evidente che il fornitore “in nero” potrebbe essere, se non l’ideatore, quanto meno
un attore del tutto consapevole della frode strutturata.
In tal caso, quale “castellano” a tutti gli effetti, ne deriverebbe una responsabilità penale ex articolo
110, c.p. nei reati commessi dai livelli successivi;
− i profili di responsabilità degli “attori” del secondo livello.
Il secondo livello è quello ove si collocano le “cartiere”.
Prive di struttura aziendale e contabilità, sono imprese esistenti solo “sulla carta” allo scopo precipuo
di emettere le fatture per operazioni soggettivamente inesistenti “a copertura” delle cessioni “in nero”
effettuate dai fornitori del primo livello.
Quali le responsabilità penali in capo alle persone fisiche del secondo livello?
In questo caso, l’individuazione della fattispecie di riferimento appare agevole.
Le “cartiere” esistono per annotare ed emettere fatture false, al fine di “cartolarizzare”, appunto, la
cessione di merci in nero.
L’applicazione, pertanto, degli articoli 2 e 8, D.Lgs. 74/2000 risulta evidente.
Fiscalità internazionale
77 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Appare opportuno sottolineare, tuttavia, che spesso le “cartiere” sono prive di un assetto contabile e
non presentano dichiarazioni, con la conseguenza che non sarà configurabile il reato ex articolo 2 (non
essendo stata presentata la dichiarazione), potendo però, d’altra parte, emergere la fattispecie ex
articolo 5, D.Lgs. 74/2000 per omessa dichiarazione;
− i profili di responsabilità degli “attori” del terzo livello.
Il terzo livello è quello in cui si collocano le società “filtro”.
A differenza delle “cartiere”, le società “filtro” sono dotate di una struttura aziendale e di un impianto
contabile, ma (come le “cartiere”) sono dedite all’emissione di fatture fittizie.
Le società “filtro” sono una sorta di “faccia pulita” del “castello”.
Le “cartiere”, invece, sono la “faccia sporca”.
Quali le responsabilità penali in capo alle persone fisiche del terzo livello?
Anche in questo caso, come riportato per il secondo livello, l’individuazione della fattispecie di
riferimento non appare complessa.
Le società “filtro” esistono per ricevere le fatture dalla “cartiere” del secondo livello ed emettere ulteriori
fatture agli utilizzatori finali. In questo modo, questi ultimi non “si sporcano le mani”, evitando di entrare
in contatto con le “cartiere”, le “facce sporche” del “castello”.
Anche in questo caso, dunque, l’applicazione degli articoli 2 e 8, D.Lgs. 74/2000 risulta evidente;
− i profili di responsabilità degli “attori” del quarto livello.
Il quarto livello è quello ove si collocano gli acquirenti reali della merce, ossia gli utilizzatori delle
fatture inesistenti.
Quali le responsabilità penali in capo alle persone fisiche del quarto livello?
Al fine di determinare la responsabilità penale degli utilizzatori sarà dirimente stabilire la
consapevolezza degli stessi di beneficiare del meccanismo “a monte”.
Le attività investigative spesso dimostrano che gli utilizzatori finali sono ben consapevoli della frode,
godendo del “famoso” “ritorno” in contanti. Dopo aver annotato la fattura passiva attestante l’acquisto
di merci dalla società “filtro”, l’utilizzatore finale effettua il bonifico a favore di quest’ultima.
Successivamente, “a monte”, il “sovrano del castello” (solitamente l’amministratore di fatto di tutte le
“cartiere”/“filtro”) si occupa della monetizzazione (spesso all’estero) e, dunque, della restituzione di una
parte del corrispettivo all’utilizzatore finale.
In questo modo, l’utilizzatore sosterrà un prezzo inferiore a quello formalmente indicato in fattura,
deducendo (indebitamente) l’intero ammontare e beneficiando (altrettanto indebitamente) di un “fondo
nero”, ossia del cash oggetto di restituzione.
Fiscalità internazionale
78 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Si ricorda, del resto, che la monetizzazione (nelle varie forme che può assumere) è il fulcro della “frode
castello”.
In tal caso, appare evidente la responsabilità ex articolo 2, D.Lgs. 74/2000.
Diverso potrebbe essere il caso di quell’utilizzatore che non si vede restituire alcuna “fetta” di
corrispettivo e che, semplicemente, è attirato dai prezzi vantaggiosi offerti dalla società filtro.
In assenza di consapevolezza dell’esistenza di un meccanismo fraudolento “a monte”, appare di difficile
definizione la responsabilità penale dell’utilizzatore, con conseguente possibilità di non integrazione
della fattispecie incriminatrice dianzi richiamata
Oltre a quanto sin qui evidenziato, nell’ambito di una “frode castello” sono potenzialmente ravvisabili
ulteriori profili di potenziale rilevanza penale: si pensi, ad esempio, alle condotte dei cash courier,
all’impiego del denaro contante di “ritorno” dalla monetizzazione, alla natura del “patto” che i sodali
stringono per dare vita alla frode, finanche alla responsabilità “parapenale” delle persone giuridiche
che, grazie alla novella normativa recentemente intervenuta8, oggi consente di applicare la confisca
“per equivalente” del prezzo o del profitto del reato (ex articolo 19, D.Lgs. 231/2001), nonché il
sequestro preventivo prodromico a tale confisca (ex articolo 53, D.Lgs. 231/2001) anche sui beni sociali9.
L’eventuale coinvolgimento dei professionisti
Un tema di particolare delicatezza riguarda la valutazione delle responsabilità penali ascrivibili al
consulente fiscale che “suggerisce” schemi riferibili a fenomeni di evasione fiscale10.
Sotto il profilo penale, il Legislatore ha voluto arginare tale fenomeno prevedendo una particolare
circostanza aggravante del reato (ex articolo 13-bis, D.Lgs. 74/2000), che contempla un aumento delle
pene per alcuni delitti tributari, qualora il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività
di consulenza fiscale svolta da un professionista ossia da un intermediario finanziario o bancario
attraverso l'elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale.
Tuttavia, per circoscrivere l’eventuale responsabilità del professionista, è necessario che lo stesso
consulente abbia fornito un apporto determinante nella realizzazione dell’illecito tributario, ideando e
simmetricamente agevolando lo schema evasivo.
8 Si fa riferimento al D.L. 124/2019 (c.d. “Decreto Fiscale”), convertito con modificazioni nella L. 157/2019. 9 Per l’approfondimento di tali ulteriori conseguenze penali connesse alla “frode castello”, si rimanda al § 8.5, pag. 79, del già citato Capitolo
3 della “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei nuovi meccanismi di frode fiscale transnazionale. Dalla “frode carosello” alla “frode castello””,
a cura di A. Gavasso. 10 Tale tema è approfonditamente trattato in “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei nuovi meccanismi di frode fiscale transnazionale.
Dalla “frode carosello” alla “frode castello””, op.cit., con particolare riguardo al Capitolo 5., “Responsabilità del professionista nella frode fiscale e
casi giurisprudenziali afferenti alle fatture per operazioni inesistenti”, pag. 117, a cura di M. Bargagli.
Fiscalità internazionale
79 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
In estrema sintesi, per potersi individuare una responsabilità a carico del fiscalista lo stesso deve avere
contribuito in modo determinante nella realizzazione della frode fiscale.
Sullo specifico punto, la giurisprudenza di legittimità ha nel tempo fornito importanti principi di diritto
che illustrano in quali casi al consulente fiscale può essere attribuita una responsabilità penale in
concorso con il proprio cliente. A titolo esemplificativo, la Corte di Cassazione, con sentenza n.
28158/2019, ha affermato che il consulente fiscale può rispondere, in concorso con il proprio cliente,
del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti qualora emerga che, anche sulla scorta di intercettazioni telefoniche, lo stesso era a
conoscenza della frode fiscale. Precedentemente gli Ermellini, con sentenza n. 17418/2016, avevano
affermato che risponde di concorso nel reato di emissione di fatture false il professionista che
suggerisce ai clienti di utilizzare i documenti fittizi al fine di abbattere il carico fiscale.
Anche la prassi operativa si è occupata del concorso del professionista nell’illecito tributario (cfr.
“Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale
della Guardia di Finanza”, Volume I, Parte II, Capitolo 3 “L’attività investigativa”, pag. 232 e ss.).
In particolare, il citato documento di prassi ha ribadito che i consulenti fiscali possono concorrere nel
reato proprio tributario. In merito, la giurisprudenza ritiene applicabile al professionista concorrente nel
reato la confisca di valore in base ad un “principio solidaristico proprio del concorso di persone nel reato”,
prescindendo dal beneficio economico effettivamente conseguito da tale soggetto.
Il professionista potrà avere precise responsabilità laddove, oltre ad aver predisposto e trasmesso la
dichiarazione tributaria, l’abbia sottoscritta come rappresentante negoziale del soggetto passivo, anche
in mancanza di qualsiasi coinvolgimento del cliente, ferma restando la possibilità di un suo concorso
eventuale nel reato commesso dal professionista.
Al consulente fiscale possono essere altresì ravvisabili ulteriori reati a sfondo economico-finanziario
connessi a quelli fiscali. Si pensi, ad esempio, al riciclaggio del profitto di una frode fiscale attuata dal
proprio assistito (ipotizzando la mancanza del concorso del professionista nel reato presupposto),
ovvero all’appropriazione indebita aggravata in relazione al mancato versamento di somme affidate dai
clienti o in caso rifiuto di restituzione dei libri sociali e delle scritture contabili, omettendo
contestualmente di presentare la dichiarazione fiscale (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n.
39881/2015).
Inoltre, circa la responsabilità penale in tema di delitti dichiarativi, l’affidamento a un professionista
dell’incarico di predisporre e presentare le dichiarazioni fiscali penalmente rilevanti non solleva il
Fiscalità internazionale
80 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
contribuente dall’assolvimento degli obblighi tributari, non potendosi assegnare sic et simpliciter alla
delega valenza esimente rispetto al delitto omissivo.
Infatti, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e non
delegabile il relativo onere tributario.
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come la prova del dolo specifico di evasione
non derivi dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo, né da una culpa in vigilando sull’operato
del professionista, che trasformerebbe l’elemento psicologico connesso all’atteggiamento antigiuridico
da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi del fatto che il soggetto
obbligato abbia consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all’evasione dell’imposta per
importi superiori alla soglia di rilevanza penale (cfr. ex multis, Corte di Cassazione, sentenza n.
18845/2016; Corte di Cassazione sentenza n. 38335/2013).
Il citato documento di prassi ha osservato che:
− risulta certamente configurabile il concorso del professionista laddove, verificatisi i presupposti sopra
descritti, egli, seppur a ciò delegato, non abbia adempiuto all’obbligo di presentazione della
dichiarazione; vieppiù, se la mancata presentazione della dichiarazione stessa sia stata determinata
dall’inganno del consulente, potrebbe ravvisarsi a suo carico un’ipotesi di punibilità quale “autore
mediato” ai sensi dell’articolo 48, c.p., con esclusione della sanzione in capo al contribuente;
− rispetto al delitto di dichiarazione mendace è configurabile il concorso in capo al consulente tributario
che, pur essendo estraneo e non ricoprendo cariche nella società a cui si riferisce la dichiarazione,
andando oltre i propri doveri deontologici, abbia in qualsiasi modo istigato o determinato il soggetto
tenuto alla presentazione della stessa a realizzare l’azione tipica (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n.
24967/2015);
− risponde, quale concorrente nel reato di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, sussistendone
gli elementi oggettivo e soggettivo, il consulente fiscale che, ancorché consapevole del fatto che una
fattura abbia tali caratteristiche, rediga ugualmente la dichiarazione dei redditi (cfr. Corte di Cassazione,
sentenza n. 19335/2015);
− risponde di concorso nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti il professionista che
suggerisca ai propri clienti di utilizzare tali documenti per abbattere il carico fiscale (cfr. Corte di
Cassazione, sentenza n. 17418/2016).
Infine, con riguardo al profilo soggettivo, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, per la
configurabilità del concorso nei reati a dolo specifico (come per la maggior parte dei reati tributari), sia
Fiscalità internazionale
81 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
sufficiente che la finalità specifica venga perseguita da almeno uno dei concorrenti (cfr. Corte di
Cassazione, sentenza n. 19335/2015).
Pertanto, laddove sia dimostrato che il contribuente/cliente abbia agito per evadere le imposte, risulterà
ininfluente la finalità che abbia animato il consulente nella sua condotta agevolativa, rilevando
esclusivamente che questi sia stato cosciente del proprio comportamento e del fatto di interagire con
la condotta illecita del proprio assistito.
Il profitto del reato
Come si legge nel già citato
“Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando
Generale della Guardia di Finanza”
“una risposta particolarmente efficace e dissuasiva a fronte di condotte penalmente rilevanti finalizzate,
a vario titolo, all’acquisizione di proventi illeciti - anche mediante le fattispecie volte indebitamente a
sottrarsi all’obbligazione tributaria - è rappresentata dall’aggressione dei patrimoni dei responsabili”11.
In tale ottica, la comprensione del funzionamento della “frode castello” deve essere funzionale (anche)
alla corretta individuazione degli strumenti previsti dal vigente ordinamento giuridico che consentano
di apprendere al patrimonio dello Stato il profitto dei reati potenzialmente ravvisabili.
L’aggressione patrimoniale dei proventi illeciti, difatti, costituisce indubbiamente un’efficace misura di
prevenzione e contrasto alla diffusione dei meccanismi fraudolenti, ivi compresa la novella “frode
castello” ove - non si dimentichi - la monetizzazione del profitto generato dalla frode stessa assume un
ruolo di primaria importanza.
A tal fine, sono essenzialmente 2 gli interrogativi che devono trovare risposta: “come” aggredire e “cosa”
aggredire12.
Con riguardo al primo profilo, la risposta si rinviene (evidentemente) guardando agli strumenti di
aggressione patrimoniale attualmente previsti dall’ordinamento giuridico nazionale.
Ci si riferisce, in particolare:
− al sequestro preventivo ex articolo 321, c.p.p., attivabile sin nella fase delle indagini preliminari in
chiave propedeutica a una successiva confisca;
11 Comando Generale G. di F., “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali”, circolare n. 1/2018, Volume I, Parte II,
Capitolo 4 “L’aggressione patrimoniale all’evasione fiscale e alle frodi”, pag. 261. Il grassetto riportato è a cura degli Autori del presente intervento. 12 Il tema dell’aggressione dei profitti della “frode castello” è approfonditamente trattato in “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei nuovi
meccanismi di frode fiscale transnazionale. Dalla “frode carosello” alla “frode castello””, op.cit., con particolare riguardo al Capitolo 4., pag. 85,
“IPCF-International Paper Castle Fraud: profili giuridici in tema di provento del reato”, a cura di F. Micia.
Fiscalità internazionale
82 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− alla confisca ex articolo 240, c.p., declinata nelle 2 ipotesi di confisca obbligatoria (comma 2) e
confisca facoltativa (comma 1);
− alle ipotesi speciali di confisca penale obbligatoria, prima fra tutte quella prevista dall’articolo 416-
bis, comma 7, c.p.;
− alla confisca “di valore” (o “per equivalente”);
− alla cosiddetta confisca “allargata” ex articolo 240-bis, c.p.;
− alle misure di prevenzione patrimoniali di cui al D.Lgs. 159/2011 (“Codice delle leggi antimafia e delle
misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia”).
Tuttavia, la “vera” criticità connessa all’aggressione patrimoniale della “frode castello” non risiede tanto
nell’individuazione del più corretto o idoneo strumento giuridico previsto dall’ordinamento, quanto
piuttosto nell’individuazione di “cosa e quanto” aggredire.
Uno dei principali problemi connessi alla “frode castello”, infatti, è proprio la quantificazione del profitto
del reato.
Se, da un lato, capita talvolta che gli investigatori abbiano la fortuna di acquisire, già in seno alle
indagini svolte, elementi utili a determinare tale profitto, dall’altro lato l’esperienza operativa dimostra
che spesso ciò non accade: nella maggior parte dei casi, difatti, gli approfondimenti investigativi non
forniscono informazioni o dettagli validi a quantificare il provento illecito da aggredire
patrimonialmente.
Questo gap investigativo potrebbe essere “superato” avvalendosi di tecniche di analisi statistica che
consentono di stimare, con metodo scientifico, il quantum ricercato. Si pensi alle procedure tipiche del
transfer pricing, che potrebbero costituire un valido strumento di determinazione del profitto del reato
conseguito da ciascuno dei “castellani” coinvolti nella frode13. Evidentemente, trattandosi di un
procedimento statistico-analogico, le relative risultanze saranno comunque sottoposte alla libera
valutazione del giudice (insieme a tutti gli altri elementi di riscontro raccolti nel corso delle indagini),
in aderenza ai principi dettati, in tema di prove nel procedimento penale, dagli articoli 189 e 192, c.p.p..
Come affermato in più occasioni dalla Suprema Corte di Cassazione, infatti,
“le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova
della commissione dei reati […] assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere
13 Per un concreto esempio di applicazione di tali tecniche al tema del presente intervento cfr. “Guida operativa per lo studio e il contrasto dei
nuovi meccanismi di frode fiscale transnazionale. Dalla “frode carosello” alla “frode castello””, op.cit., con particolare riguardo al Capitolo 4., § 4.2,
pag. 103, “IPCF-International Paper Castle Fraud: profili giuridici in tema di provento del reato”, a cura di F. Micia.
Fiscalità internazionale
83 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza
dell’esistenza della condotta criminosa”14.
Ciò non significa, d’altra parte, che tali presunzioni non possano in alcun modo fare ingresso nel
procedimento penale, ma che vi possano confluire con valore indiziario e, in quanto tali, soggette al
libero convincimento del giudice unitamente al complesso degli altri elementi acquisiti nel corso delle
investigazioni.
Conclusioni
In qualsiasi contesto, la capacità di adattamento è sicuramente una chiave di successo. La “frode
castello”, quale moderna evoluzione della più antica “frode carosello”, probabilmente oggi rappresenta
una delle più fervide e tangibili espressioni della validità universale di tale principio, dimostrando come
lo stesso venga applicato anche da chi non opera entro il perimetro della legalità.
Si potrebbe dire che la “frode castello” non è altro che il frutto del progresso perseguito dalla criminalità
economico-finanziaria al fine di eludere le modifiche normative introdotte dai vari ordinamenti giuridici
nazionali per prevenire e contrastare il suo “antenato” (la “frode carosello”, appunto).
Comprendere appieno il funzionamento di questi “castelli di carta transnazionali” costruiti per
mascherare compravendite “in nero” - a parere di chi scrive - costituisce il primo, fondamentale tassello
per approntare un’idonea ed efficace strategia di prevenzione e repressione dei risvolti illeciti che il
castellum porta inevitabilmente con sé.
Soltanto il tempo potrà dire, invece, se gli strumenti che l’attuale legislazione nazionale e
sovranazionale mettono a disposizione hanno già la forza necessaria per fronteggiare adeguatamente
tale evoluzione dei meccanismi di frode, ovvero se potrebbe essere opportuno valutare, in futuro, di
adeguarli alla nuova criminalità economico-finanziaria.
14 Cassazione sentenze n. 7242/2019; n. 26274/2018; n. 30890/2015e n. 7078/2013.
Fiscalità internazionale
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Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La creazione della holding estera di Ennio Vial – dottore commercialista
Il contesto di incertezza in cui ci troviamo a operare in questi periodi spinge molti gruppi a
orientarsi verso l’implementazione di una holding estera. Nel presente intervento si analizza
una possibile ipotesi di riorganizzazione di un gruppo al fine di consentire la gestione della
liquidità nelle varie società, attraverso una holding di gruppo che nasce in Italia e si
trasferisce in un Paese estero, oppure nasce direttamente all’estero, in modo da contrastare
il rischio-Paese Italia che viene oggi giorno percepito come particolarmente rilevante.
L’operazione deve ovviamente risultare in linea con le previsioni normative italiane e con
quelle del Paese di approdo.
La scelta del Paese estero
Chi scrive ritiene opportuno valutare un Paese appartenente alla Unione Europea per una serie di
ragioni che di seguito si propone in modo sintetico:
− in ambito UE vi è la libertà di circolazione delle persone e dei capitali per cui l’operazione di
allocazione della liquidità o anche della società all’estero non può costituire una scelta contestabile al
contribuente;
− la scelta di un Paese UE risponde inoltre all’esigenza di poter effettuare il trasferimento di sede della
società in continuità giuridica. In tal senso, infatti, si pongono le sentenze della Corte di Giustizia
Europea1;
− i Paesi dell’Unione Europea non possono essere considerati paradisiaci in tema di dividendi ai sensi
dell’articolo 47-bis, Tuir;
− le società di capitali residenti in Paesi UE, oltre a beneficiare delle convenzioni contro le doppie
imposizioni, beneficiano anche delle Direttive comunitarie2;
1 La Corte di Giustizia UE ha sancito in diverse occasioni che il trasferimento di sede in continuità giuridica in ambito comunitario deve sempre
essere riconosciuto.
L’interpretazione di tali disposizioni ha subito un’evoluzione che di fatto va ad incidere sulla legislazione degli Stati membri in materia di
trasferimento della sede sociale da e per l’estero e le cui tappe principali sono contenute nelle note sentenze della Corte di Giustizia:
- Daily Mail and General Trust del 27 settembre 1988, causa 81/87;
- Centros del 9 marzo 1999, causa C-212/97;
- Überseering del 5 novembre 2002, causa C-208/00;
- Inspire Art del 30 settembre 2003, causa C-167/01;
- Cartesio del 16 dicembre 2008 causa C-210/06;
- Vale del 12 luglio 2012, causa C-378/10;
- Polbund del 25.10.2017, causa C-106/16. 2 In questa sede interessa in particolare la direttiva madre figlia n. 96/2011.
Fiscalità internazionale
85 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− il trasferimento in un Paese UE non “impensierisce” l’Agenzia delle entrate italiana atteso che tutti i
Paesi UE scambiano regolarmente le informazioni a seguito dell’obbligata adesione al sistema del
common reporting standard (CRS).
Una volta concentrata l’attenzione nella UE, si tratta di valutare il Paese più idoneo. Generalmente, ma
saranno opportune ulteriori valutazioni, il Paese che rappresenta un efficiente polo finanziario è il
Lussemburgo3.
Le opportunità dell’intermediate holding
Questioni preliminari
Può essere interessante valutare di collocare in Lussemburgo una intermediate holding per ottenere una
struttura più efficiente sotto il profilo fiscale e per garantire un potere di direzione e coordinamento da
parte di una top holding italiana4.
Inoltre, la holding intermedia permette di perseguire le seguenti finalità:
− si applica la direttiva madre figlia sia nel passaggio dei dividendi dalle controllate operative italiane
alla holding, sia dalla holding estera alla top holding italiana. Ovviamente bisogna valutare che la società
lussemburghese non sia un mero veicolo conduit5;
− i soci della società italiana evitano la compilazione del quadro RW in quanto l’investimento
lussemburghese è detenuto attraverso la società holding italiana6;
− i dividendi distribuiti dalla top holding italiana ai soci sconteranno a regime la tassazione alla fonte
del 26%. Diversamente, se i dividendi fossero corrisposti dalla società comunitaria lussemburghese al
socio persona fisica italiano privato, alla tassazione del 26% si sommerebbe anche una ulteriore ritenuta
in uscita del 15% dal Lussemburgo7;
− l’utilizzo di una top holding estera determina la necessità di gestire la successione delle quote in caso
di morte improvvisa di uno dei soci tenendo conto di regole (generalmente poco note) di un Paese
estero;
3 Vi sono delle perplessità in merito al Regno Unito in considerazione della prossima fuoriuscita dall’Unione Europea come pure in relazione
a Paesi come Cipro e Malta che sono percepiti (forse ingiustamente) come dei sistemi finanziari meno stabili di altri. 4 L’attività di direzione e coordinamento è volta a imprimere la linea di indirizzo del gruppo e non deve essere confusa con l’amministrazione
di fatto della società estera che porta a un evidente problema di esterovestizione. 5 Con “conduit” si individuano quelle società che sono un mero schermo rispetto al socio effettivo. In ambito internazionale, infatti, è necessario
risalire al “beneficiario effettivo” per scongiurare ipotesi di costruzioni artificiose, volte a eludere le normative fiscali. Un soggetto di uno Stato
membro è considerato quale “beneficiario effettivo” di dividendi, interessi o canoni, unicamente nel caso in cui li percepisca per conto proprio
e non quale rappresentante, ad esempio quale amministratore fiduciario o firmatario autorizzato, di un altro soggetto. Uno strumento utile ai
fini dell’interpretazione del concetto di “beneficiario effettivo” è sicuramente il Commentario OCSE. 6 Si veda in tal senso l’esempio n. 3 della circolare n. 38/E/2013 che risulta ancora attuale. 7 In questo caso, infatti, non troverebbe applicazione la direttiva madre-figlia che opera solo se sono coinvolte società di capitali.
Fiscalità internazionale
86 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
− eventuali conflitti che dovessero sorgere tra i soci o tra alcuni di essi e gli eredi di un fratello defunto
verrebbero gestiti con le regole civilistiche di un Paese straniero8.
Le vie per giungere alla nuova configurazione del gruppo
Vi sono diverse strade che permettono di giungere alla struttura della subholding estera. In particolare,
segnaliamo queste 2 vie:
− il conferimento delle partecipazioni e di liquidità in una società lussemburghese da parte della holding
italiana del gruppo;
− la creazione delle intermediate holding in Italia ad esempio mediante il conferimento della holding
italiana in un’altra società (ad esempio in una società immobiliare) da parte dei soci persone fisiche e il
successivo trasferimento in Lussemburgo della holding italiana conferita.
Il conferimento delle partecipazioni e di liquidità in una società lussemburghese da parte della holding
italiana
Seguendo questo approccio, la holding italiana conferisce in una figlia lussemburghese nuova tutte le
partecipazioni che detiene nelle società operative e della liquidità.
La struttura di approdo è quella illustrata nella successiva figura n. 1
Figura n. 1 – il conferimento nella newco lussemburghese
La creazione della società lussemburghese potrà avvenire con un’operazione di conferimento di
partecipazioni. In questo caso trova applicazione il regime del conferimento intracomunitario che si
caratterizza per un regime di neutralità fiscale. Le norme di riferimento sono l’articolo 178 e 179, Tuir.
È richiesto, per beneficiare del regime di neutralità fiscale, che la holding acquisisca il controllo delle
8 In estrema sintesi possiamo affermare che, se dobbiamo litigare, è meglio farlo con regole a noi note.
Fiscalità internazionale
87 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
società conferite e che tutte le società coinvolte (conferitaria e conferite) siano società di capitali
residenti nella UE.
La conferitaria deve risiedere in un Paese comunitario diverso rispetto alle conferite.
Una variante potrebbe essere rappresentata dalla creazione di una holding lussemburghese sopra la
holding italiana. L’operazione verrebbe implementata da parte dei soci persone fisiche che
costituirebbero una newco lussemburghese attraverso il conferimento delle sole quote della holding
italiana.
In questo caso, la struttura, che rappresentiamo nella successiva figura n. 2, presente taluni dei problemi
già evidenziati in precedenza connessi al mancato utilizzo della holding intermedia.
Figura n. 2 – la lussemburghese come top holding
In estrema sintesi, nella figura n. 2 la posizione della holding Italia e di quella lussemburghese sono
invertite.
Il conferimento della holding italiana in una società immobiliare italiana già esistente da parte dei soci
persone fisiche, e il successivo trasferimento in Lussemburgo della holding italiana
La seconda via da valutare è quella che comporta i seguenti steps:
− i soci persone fisiche conferiscono le quote della holding italiana in una altra società come ad esempio
in una immobiliare dagli stessi posseduta;
− successivamente, la holding italiana (che diventa in questo modo una holding intermedia) si trasferisce
all’estero e, segnatamente, in Lussemburgo.
Il conferimento della partecipazione nella holding, nella società immobiliare, può avvenire con il regime
del realizzo controllato di cui all’articolo 177, comma 2, Tuir.
Fiscalità internazionale
88 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
A differenza del conferimento intracomunitario che, come abbiamo avuto modo di vedere, rappresenta
un vero e proprio regime di neutralità fiscale, il comma 2, articolo 177, Tuir è piuttosto un regime di
neutralità indotta.
Senza indugiare in questa sede in eccessivi tecnicismi, ci preme sottolineare che a ogni modo sarà
possibile effettuare il conferimento senza che siano dovute imposte.
Il passaggio successivo è rappresentato dal trasferimento in Lussemburgo della holding intermedia. La
società è destinata a diventare una SA o una SARL lussemburghese.
La nuova struttura risulterebbe essere quella rappresentata nella successiva figura n. 3.
Figura n. 3 – la struttura di approdo
Si deve tuttavia tenere presente che il trasferimento di sede all’estero di una società italiana, pur
essendo una operazione puntualmente disciplinata dal nostro testo unico, non risulta essere
fiscalmente neutra. Infatti, ai sensi dell’articolo 166, Tuir, il trasferimento di sede all’estero con perdita
della residenza fiscale in Italia, determina l’emersione dei plusvalori latenti.
In sostanza, è necessario valutare la differenza tra il valore di mercato dei beni della società,
comprendendo l’avviamento, e confrontarlo con il costo storico.
La differenza tra detto valore e il costo fiscalmente riconosciuto dei beni determinerà una plusvalenza
imponibile soggetta a Ires eventualmente rateizzabile.
Il prelievo non dovrebbe essere particolarmente significativo atteso che:
− sul presupposto che le società partecipate siano tutte società operative, le plusvalenze connesse alle
partecipazioni in tali società beneficiano della partecipation exemption di cui all’articolo 87, Tuir per cui
sono imponibili solo sul 5% del loro ammontare;
− la liquidità pura (conti correnti bancari) non genera plusvalori;
− i crediti non generano plusvalori.
Fiscalità internazionale
89 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Il trasferimento di sede all’estero crea problemi anche in relazione alle riserve in sospensione di imposta
iscritte nel patrimonio netto e alle perdite fiscali della società.
Secondo la normativa italiana, infatti, le perdite fiscali sono ordinariamente riportabili senza limiti di
tempo, ai sensi dell’articolo 84, Tuir, e sono compensabili solo nei limiti dell’80% del reddito imponibile
salvo il caso particolare in cui siano riferite ai primi 3 esercizi sociali. Solo in questa ultima ipotesi,
infatti, le stesse sono compensabili senza particolari limitazioni.
La normativa di cui all’articolo 84, Tuir subisce però delle integrazioni/specificazioni nell’ipotesi in cui
la società di capitali che le ha generate si trasferisca all’estero. La questione è disciplinata dal comma
6, articolo 166, Tuir.
Le ipotesi possibili sono 2:
1. successivamente al trasferimento della residenza all’estero, non rimane in Italia alcuna stabile
organizzazione;
2. successivamente al trasferimento della residenza all’estero, rimane in Italia una stabile
organizzazione.
La casistica di maggior interesse nel caso della holding è sicuramente la prima, in quanto, è evidente
che se trasferisco una holding all’estero, non permane in Italia una stabile organizzazione per il solo
fatto che detiene esclusivamente partecipazioni in altre società. In questo caso, quindi, le perdite
saranno, in prima battuta, compensate senza il limite dell’80%, con il reddito dell’ultimo periodo di
residenza. La ratio della norma, volta ad evitare il limite dell’80%, è quello di consentire la maggior
compensazione possibile in considerazione del fatto che poi, a seguito del trasferimento, non vi sarà
più reddito d’impresa in Italia. Qualora, invece, a seguito della compensazione del reddito dell’ultimo
esercizio residuasse ancora una eccedenza di perdite, la stessa risulterebbe compensata anche in questo
caso senza il limite dell’80%, con la plusvalenza da assoggettare a exit tax.
Ulteriore perdita residua, dopo questa seconda compensazione, risulterebbe irrimediabilmente persa.
Indichiamo, per completezza, il regime fiscale nell’ipotesi n. 2 anche se, come già segnalato, si tratta di
una casistica meno frequente in relazione alle holding. Il principio che ispira il Legislatore è il seguente:
poiché a seguito del trasferimento di residenza rimane comunque un’attività di impresa in Italia, le
perdite potrebbero ancora essere compensate dalla stabile organizzazione.
Questo fa sì che il Legislatore preveda che il primo utilizzo delle perdite con il reddito di ultimo periodo
di residenza fiscale, dovrà avvenire regolarmente nei limiti dell’80% del reddito imponibile.
Fiscalità internazionale
90 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
A differenza del caso precedente, tuttavia, la quota residua della perdita dovrà essere ripartita in 2 parti.
Una parte, in relazione al patrimonio della società che rimane nella stabile organizzazione, e una parte
relativa al patrimonio della società che viene trasferito all’estero.
La quota relativa alla stabile organizzazione sarà riportabile in avanti secondo le regole ordinarie e
compensabile con i redditi futuri della stabile ai sensi dell’articolo 181, Tuir. La quota residua, non
relativa alla stabile, risulterà interamente compensabile con la plusvalenza da exit tax.
Si veda la seguente tabella riassuntiva n. 1.
Tabella n. 1
Successivamente al
trasferimento della
residenza non rimane in
Italia una stabile
Compensate senza il limite del 80% col reddito dell’ultimo periodo di residenza
(Per la quota residua)
Compensate senza limiti con la plusvalenza da assoggettare a exit tax
Successivamente al
trasferimento della
residenza rimane in Italia
una stabile
Compensate nel limite del 80% col reddito dell’ultimo periodo di residenza
Quota
residua
Per la parte imputata alla
stabile organizzazione ai
sensi dell’articolo 181, Tuir
Compensate con i successivi redditi della
stabile
Per la parte residua non
relativa alla stabile
Compensate senza limiti con la
plusvalenza da assoggettare a exit tax
Operatività e criticità della holding estera
Considerazioni introduttive
L’utilizzo di una holding estera offre diversi punti di pregio ma presenta anche diversi punti di criticità
che devono essere attentamente vagliati e sui quali faremo qualche veloce considerazione di seguito.
I temi maggiormente sensibili nel nostro caso sono:
− la disciplina relativa alle controlled foreign companies;
− il transfer price;
− l’esterovestizione9.
9 Per approfondimenti sul tema si rinvia a E. Vial, “Le criticità della holding estera”, in Patrimoni, Finanza, Internazionalizzazione n. 26/2020 pag.
54.
In quell’occasione sono state esaminate anche le criticità connesse al rimpatrio dei dividendi e alla gestione dei rapporti con i consulenti
locali. Nel nostro caso la questione degli utili non dovrebbe assumere una particolare criticità atteso che si tratta di una holding intermedia
per cui si applica la direttiva madre figlia.
Rinviamo al precedente intervento anche per approfondimenti sul transfer price. Ripercorriamo in questa sede i temi della disciplina controlled
foreign companies e della disciplina dell’esterovestizione in quanto le adattiamo al caso concreto.
Fiscalità internazionale
91 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La disciplina controlled foreign companies
Il primo profilo di criticità connesso alla detenzione di una partecipazione estera è collegato alla
disciplina relativa alle controlled foreign companies, di cui all’articolo 167, Tuir.
La disciplina trova applicazione al verificarsi congiunto di 3 condizioni:
− un soggetto italiano controlla la società estera;
− questa svolge una attività passiva;
− il livello impositivo effettivo risulta essere inferiore al 50% di quello italiano (considerando solo l’Ires).
Nel caso di specie, le prime 2 condizioni sono sicuramente soddisfatte perché il concetto di controllo
ex articolo 167, comma 2, Tuir include sicuramente la detenzione della partecipazione totalitaria come
è il vostro caso. Inoltre, tra le attività passive di cui al comma 4 rientra anche quella della holding.
La questione critica è rappresentata dalla valutazione del livello impositivo atteso che il comma 4 fa
riferimento a un provvedimento del Direttore dell’Agenzia che potrebbe fornire una serie di indicazioni
utili nel caso della holding.
Al momento il provvedimento non è ancora stato emanato per cui utili spunti potrebbero essere
rinvenuti nel provvedimento 16 settembre 2016 emanato in relazione all’allora in vigore articolo 167
comma 8-bis relativo alla CFC white.
I rendimenti finanziari scontano in Lussemburgo l’aliquota locale dell’imposta sui redditi delle società
che si aggira attorno al 25%. I dividendi, al contrario, sono totalmente esenti.
Ragionevolmente, il livello impositivo non dovrebbe essere sostanzialmente inferiore a quello italiano
per cui la tassazione per trasparenza non dovrebbe operare.
Non potendo escludere, tuttavia, che la disciplina possa trovare applicazione, vediamo quali sono i 2
casi possibili sulla scorta di un esempio.
Si ipotizzi che la società lussemburghese abbia conseguito dividendi dalle partecipate e rendimenti
dalle attività finanziarie.
I dividendi imputati per trasparenza alla BA comporteranno in Italia un imponibile pari al 5% del loro
ammontare.
In sostanza, quando la holding lussemburghese percepisce dividendi dalle società italiane emerge un
reddito imponibile del 5% in capo alla top holding immobiliare italiana.
Tale circostanza non appare particolarmente problematica e non si fa riferimento al fatto che
l’imponibile è contenuto, quanto al fatto che la successiva distribuzione di dividendi dalla holding lux
Fiscalità internazionale
92 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
alla controllante italiana avrebbe comunque comportato una tassazione degli stessi sul 5% del loro
ammontare. Ebbene, essendo intervenuta una preventiva tassazione per trasparenza, la top holding
italiana riceverà i dividendi in esenzione.
Analoghi discorsi vanno proposti in relazione alle rendite finanziarie del portafoglio investito.
La società italiana tasserà al 24% per trasparenza detti redditi scomputando l’imposta assolta in
Lussemburgo.
Anche in questo caso si tratta di una mera anticipazione della tassazione in quanto i dividendi
successivamente distribuiti dalla subholding lussemburghese saranno esenti da tassazione in Italia.
Si ipotizzi che non intervenga la tassazione per trasparenza. L’ipotesi è più semplice in quanto la holding
italiana tasserà i dividendi provenienti dal Lussemburgo sul 5% del loro ammontare.
In ogni caso, ossia sia in ipotesi di tassazione per trasparenza sia nel caso in cui detta tassazione non
intervenga, la società lussemburghese non applicherà la ritenuta del 15%.
Il transfer price
Una ulteriore questione con la quale ci si deve confrontare è quella del transfer price. Rinviamo, per
approfondimenti, a quanto illustrato in un precedente intervento10.
In questa sede ci limitiamo a ricordare che l’articolo 110, comma 7, Tuir prevede che le società che
operano in Paesi differenti ma che appartengono al medesimo gruppo, devono applicare i prezzi che
sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in
circostanze comparabili.
La questione sembrerebbe prima facie non interessare la holding o, più precisamente, i rapporti tra la
holding e le controllate italiane, ma così non è. Infatti, la holding potrebbe fornire (o ricevere) al (dal)
gruppo servizi di carattere amministrativo o, più banalmente, anche servizi di finanziamento.
L’esterovestizione
Un ulteriore profilo di criticità connesso alla detenzione di una società estera e quindi anche in relazione
alla holding, attiene ai problemi connessi al tema dell’esterovestizione. Si deve, infatti, ricordare che in
base all’articolo 73, comma 3, Tuir una società risulta essere fiscalmente residente in Italia quando
soddisfa uno dei seguenti 3 requisiti:
10 Ennio Vial, “Le criticità della holding estera”, in Patrimoni, Finanza, Internazionalizzazione n. 26/2020.
Fiscalità internazionale
93 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
1. la presenza della sede legale in Italia;
2. la sede dell'amministrazione in Italia;
3. l'oggetto principale nel territorio dello Stato.
I 3 requisiti sono alternativi e devono essere soddisfatti per la maggior parte del periodo di imposta.
Generalmente la sede legale si trova all’estero ma problemi possono nascere in relazione alla sede
dell’amministrazione o alla ubicazione dell’oggetto dell’attività.
Su questo ultimo punto, in particolare, si segnala che la circolare n. 48/E/2007 ha affermato che in
relazione alla attività immobiliare, l’oggetto dell’attività si trova in Italia se gli immobili sono
prevalentemente in Italia.
Il tema dell’esterovestizione, tuttavia, emerge per le holding anche a causa dei successivi commi 5-bis
e 5-ter. In comma 5-bis, in particolare, introduce una inversione dell’onere della prova a carico del
contribuente in tema di residenza fiscale.
È, infatti, previsto che, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede
dell'amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell'articolo
2359, comma 1, cod. civ., nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell'articolo 2359, comma 1, cod. civ., da soggetti
residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione,
composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
In sostanza, il punto di partenza è che la società estera controlli una società italiana. Si tratta, invero,
del caso tipico della holding estera. L’inversione dell’onere della prova, tuttavia, opera solo se risulta
soddisfatta una delle 2 condizioni alternative previste dalla norma ossia o un controllo della holding da
parte di soggetti fiscalmente residenti in Italia oppure dalla presenza nella holding di un consiglio di
amministrazione prevalentemente composto da soggetti fiscalmente residenti in Italia.
Ora, ipotizzando che questa seconda condizione non si verifichi, rimane pressoché insoluta la prima
condizione in quanto risulterebbe allo scopo irrilevante intestare la partecipazione a persone fisiche o
a una società.
La valutazione, in base al successivo comma 5-ter, deve essere fatta alla data di chiusura dell'esercizio
o periodo di gestione del soggetto estero controllato. Inoltre, al fine di evitare manovre elusive
attraverso il frazionamento delle quote in ambito familiare, il medesimo comma prevede che per le
persone fisiche si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari di cui all'articolo 5, comma 5.
Sul punto tuttavia si devono segnalare 2 aspetti.
Fiscalità internazionale
94 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Innanzitutto, l’inversione dell’onere della prova non rappresenta un significativo appesantimento della
posizione del contribuente in quanto, la previsione è stata oggetto di denuncia dalla Commissione
Europea perché limiterebbe la libertà di stabilimento dei soggetti nell’ambito della UE.
L’Amministrazione finanziaria italiana, sentita sul punto dalle autorità europee, ha avuto modo di
chiarire che la norma non può legittimare un avviso di accertamento automatico in capo al contribuente,
e che l’ufficio sarà comunque tenuto a svolgere delle opportune analisi nonostante l’inversione
dell’onere della prova.
Sotto un altro punto di vista, possiamo inoltre rilevare che la questione dell’esterovestizione potrebbe
essere mitigata affidando effettivamente la gestione ad amministratori non residenti in Italia e,
quand’anche si verificasse la contestazione da parte dell’Agenzia, sussistono margini di discussione in
merito alla possibilità di scomputare le imposte pagate in Lussemburgo.
La Soparfi lussemburghese
Le holding lussemburghesi sono definite “SO PAR FI” (Sociétés de Participation Financière).
Le stesse possono assumere la forma di SA, assimilabile alla nostra Spa, e devono avere un capitale
sociale minimo di 31.000 euro. Oppure la forma di SARL, che corrisponde alla nostra Srl, con un capitale
sociale minimo di 12.500 euro.
Le Soparfi beneficiano, nel rispetto di determinati requisiti, dell’esenzione da tassazione sulle
plusvalenze derivanti da alienazione di partecipazioni e sui dividendi da queste percepiti.
L’aliquota ordinaria che ragionevolmente troverà applicazione sui rendimenti derivanti dall’attività
finanziaria si aggira intorno al 25%.
A differenza delle società italiane tuttavia, le stesse sono soggette ad una imposta sul patrimonio pari
allo 0,5%. Da tale imposta possono essere escluse le partecipazioni nelle società figlie ma sono
sicuramente incluse le gestioni di liquidità (trattasi del patrimonio liquido).
Il prelievo non è trascurabile, ma si deve ricordare che anche in Italia esiste un’imposta di bollo dello
0,2% sui prodotti finanziari.
La soluzione della SPF lussemburghese
Un veicolo alternativo alla Soparfi, invero meno utilizzato all’interno dei gruppi, è quello della SPF
(Société de gestion de Patrimoine Familial).
La SPF è esente dalle imposte sul reddito, dall'imposta patrimoniale e dalle ritenute in uscita sui
dividendi.
Fiscalità internazionale
95 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La stessa paga solo una "tassa di abbonamento" annua pari allo 0,25% del capitale.
Si tratta di un prelievo che non deve esser inteso come la metà dell’imposta patrimoniale ma di un
prelievo ben più ridotto in quanto applicabile su una base imponibile determinata, in modo un po’
complesso, ma ad ogni buon conto decisamente più contenuta dell’imposta sul patrimonio.
La SPF non è però coperta dai trattati contro le doppie imposizioni e non può ottenere un certificato di
residenza fiscale dall'Amministrazione lussemburghese.
Queste caratteristiche non sono scevre di conseguenze.
Innanzitutto, l’impossibilità di applicare i trattati contro le doppie imposizioni comporta
necessariamente che la SPF non possa detenere le partecipazioni nelle società figlie italiane, ciò in
quanto una eventuale distribuzione di dividendi dalle italiane alla SPF sconterebbe la ritenuta ordinaria
del 26% prevista dall’articolo 27, comma 3, D.P.R. 600/1973.
La struttura in questo caso ipotizzabile potrebbe, quindi, essere quella della successiva figura n. 4.
Figura n. 4 – la struttura con la SPF
La SPF non sconta imposte in Lussemburgo. Ciò comporta che, in base ai ragionamenti svolti in
precedenza, la stessa sarà assoggettata a tassazione per trasparenza in Italia in base alla disciplina cfc
precedentemente illustrata.
In altre parole, i rendimenti finanziari saranno ordinariamente tassati in capo alla holding italiana
controllante, e saranno pertanto assoggettati alla tassazione del 24%.
In sostanza, la SPF rispetto alla holding, presenta il vantaggio di non scontare l’imposta sui patrimoni
pari allo 0,5%.
Infatti, l’ulteriore vantaggio connesso alla esenzione dall’imposta sui redditi, viene di fatto azzerato
dalla tassazione per trasparenza in capo alla holding domestica.
L’utilizzo della SPF necessità però di ulteriori approfondimenti con un consulente locale. Infatti, deve
essere detenuta, salvo qualche eccezione, da persone fisiche. Ci possono essere aperture per trust e
holding familiari.
Finanza
96 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Le modifiche apportate al Decreto
“Liquidità” in sede di conversione: come
cambia il c.d. “bazooka di liquidità” di Giuseppe Rodighiero – dottore commercialista, revisore legale
Lo scorso 6 giugno, con la conversione in legge del Decreto “Liquidità”, sono state recepite
molte delle modifiche inserite nell’iter di approvazione alle Camere: dalle novità relative ai
finanziamenti garantiti dal Fondo di garanzia per le pmi, all’autocertificazione da allegare
alle richieste di nuovi finanziamenti per accelerare l’erogazione dei prestiti garantiti da Sace
Spa, all’estensione dei beneficiari del Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della
prima casa.
Con la L. 40/2020 si assiste, quindi, al potenziamento del quadro di strumenti di sostegno a
famiglie, imprese e lavoratori autonomi per fronteggiare le difficoltà legate all'emergenza
sanitaria da Covid-19.
Premessa
Per fronteggiare l’impatto economico derivante dalle necessarie disposizioni di contenimento
conseguenti all’emergenza sanitaria in corso, il Governo italiano ha varato dapprima il D.L. 18/2020
(Decreto “Cura Italia”) e dopo nemmeno un mese il D.L. 23/2020 (Decreto “Liquidità”). Entrambi i
provvedimenti contengono misure di ammontare pari a circa il 40% del PIL nazionale, 400 miliardi
riguardanti soltanto l’ultimo dei 2 Decreti. Per tale motivo, l’entità degli interventi a sostegno di
imprese, lavoratori autonomi, professionisti e cittadini è stata definita nella comunicazione politica
nazionale come un “bazooka di liquidità”.
L’enfasi dell’espressione, però, al momento non si è tradotta in una marcata iniezione di liquidità nel
sistema produttivo del Paese.
Vuoi per i processi di istruttoria delle pratiche di affidamento più lenti di quanto si pensasse, vuoi per
lo spauracchio di una potenziale nuova crisi dei crediti deteriorati, vuoi per il timore delle banche di
avere difficoltà a escutere in futuro le garanzie pubbliche sugli affidamenti concessi, vuoi per altro, la
realtà è che, purtroppo, il “Bazooka di liquidità” non sta ancora sortendo i risultati sperati.
Finanza
97 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
A tal proposito, in sede di conversione in Legge del Decreto “Liquidità” sono state però introdotte talune
importanti novità, dando seguito alle segnalazioni di soggetti inizialmente esclusi dalle misure in
questione, come pure dando riscontro all’emerse necessità di prevedere ulteriori ambiti di intervento
nonché un sensibile snellimento burocratico.
Gli interventi principali del D.L. 23/2020, potenziato in sede di conversione in Legge, per iniettare
liquidità nel sistema riguardano principalmente le garanzie pubbliche prestate da Sace Spa su
affidamenti concessi soprattutto a grandi imprese, nonché le garanzie prestate dal Fondo di Garanzia
per le pmi per le imprese fino a 499 dipendenti.
Di seguito verranno approfondite le misure di sostegno della liquidità ritenute di maggiore interesse
nell’ambito del rapporto con le banche, illustrando le modifiche apportate dalla Legge di conversione
del Decreto “liquidità”.
La garanzia Sace a sostegno della liquidità delle imprese
In forza del D.L. 23/2020, il ruolo di Sace Spa, nel sostenere le imprese nel loro percorso di export e
internazionalizzazione attraverso servizi assicurativi e finanziari, viene a essere integrato con quello di
garante di finanziamenti alle imprese danneggiate dall’epidemia da Covid-19.
Infatti, con l’articolo 1, D.L. 23/2020 la società controllata da Cassa depositi e prestiti Spa avrà un ruolo
di primaria importanza nel processo di valutazione delle aziende a cui accordare la garanzia statale fino
al 31 dicembre 2020 per il rilascio di finanziamenti alle imprese con sede in Italia, danneggiate
dall’emergenza sanitaria in corso.
Peraltro, vengono interessate da questa garanzia anche quelle imprese sotto i 500 addetti, ma in tal
caso solo dopo aver interamente esaurito le linee di credito garantite dal Fondo di Garanzia per le pmi
ex articolo 2, comma 100, L. 662/1996, le quali saranno oggetto di approfondimento nel prosieguo della
trattazione.
Trattasi di finanziamenti di durata massima di 6 anni, con la possibilità di avvalersi di un
preammortamento per un periodo fino a 36 mesi, in luogo dei precedenti 24 mesi previsti prima
dell’entrata in vigore della Legge di conversione del Decreto “Liquidità”.
L’impegno assunto in tal senso da Sace è pari a 200 miliardi di euro, almeno 30 dei quali da destinarsi
a garanzie a favore delle pmi, così come definite dall’articolo 2 dell’Allegato alla Raccomandazione
della Commissione Europea 2003/361/CE1, dei lavoratori autonomi, dei liberi professionisti titolari di
1 Trattasi di quelle imprese che non superano il limite di 250 occupati e un fatturato annuo, o in alternativa un totale attivo di bilancio annuo,
non superiore rispettivamente a 50 milioni e 43 milioni di euro. Per il combinato disposto degli articoli 3 e 6 della Raccomandazione della
Commissione Europea 2003/361/CE, detti parametri dimensionali devono tenere conto anzitutto dei dati delle imprese associate situate
Finanza
98 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
partita Iva e, come previsto in sede di conversione dalla L. 40/2020, anche a favore delle associazioni
professionali e delle società tra professionisti.
Dette garanzie devono essere prestate a imprese con sede in Italia che, secondo il comma 1-ter)
aggiunto all’articolo 1, D.L. 23/2020 in sede di conversione in Legge, non controllano né sono
controllate (direttamente o indirettamente) da società residenti in Paesi o territori non cooperativi ai
fini fiscali, salvo la società richiedente la garanzia non dimostri che “il soggetto non residente svolge
un’attività economica effettiva, mediante l’impego di personale, attrezzature, attivi e locali”.
Altresì, ai fini dell’individuazione dell’impresa o dei lavoratori autonomi beneficiari della garanzia Sace,
occorre fare riferimento alle sole posizioni “in bonis”, rectius quelle che non appartengono alla categoria
dei “non performing” (esposizioni scadute e/o sconfinanti deteriorate, inadempienze probabili e
sofferenze)2.
In più, restano escluse le “imprese in difficoltà” secondo la definizione comunitaria fornita dall’articolo
2, punto 18), Regolamento (UE) 615/2014 il quale, tra le condizioni per identificarle riporta quella che
prevede, nel caso di un'impresa diversa da una pmi, il rapporto debito/patrimonio netto contabile negli
ultimi 2 anni non superiore a 7,5.
In sede di conversione si è aggiunto al comma 2 dell’articolo 1, D.L. 23/2020 la lettera b-bis) che
evidenzia come debbano comprendersi nel calcolo del patrimonio in questione “i crediti non prescritti,
certi, liquidi ed esigibili, maturati nei confronti delle Amministrazioni pubbliche”.
Per fruire della garanzia statale in commento, i beneficiari, e ogni altra impresa con sede in Italia che
faccia parte del medesimo gruppo cui essi appartengono, non dovrebbero distribuire dividendi né
procedere con operazioni di buyback per tutto il 2020, oppure dovrebbero impegnarsi a non farlo nei 12
mesi successivi alla data della richiesta, qualora la distribuzione dei dividendi o il riacquistato delle
azioni sia già avvenuto al momento della richiesta del finanziamento.
In più, in sede di conversione la L. 40/2020 ha introdotto l’impegno del richiedente fido di non
delocalizzare la produzione.
immediatamente a monte o a valle dell’impresa interessata (ovvero quelle rispetto alle quali un’impresa a monte detiene, da sola o insieme a
una o più imprese collegate, almeno il 25% del capitale o dei diritti di voto dell’impresa a valle), in proporzione alla percentuale di
partecipazione al capitale o alla percentuale di diritti di voto detenuti (se più elevata). Nel calcolo del numero di dipendenti, del fatturato e
del totale attivo occorre fare riferimento anche ai dati delle imprese direttamente o indirettamente collegate all’impresa in questione (cioè
quelle fra le quali esiste una relazione in cui una impresa detiene il controllo di diritto, di fatto o contrattuale dell’altra) nella misura del 100%. 2 A tal proposito, risulta opportuno evidenziare che a livello esclusivamente nazionale un intermediario creditizio, nell’attività di classificazione
di un’esposizione debitoria come credito deteriorato a seguito di una valutazione oggettiva dello sconfino in essere, oppure compiendo una
valutazione sulle capacità di rimborso del debitore, si trova a ad avere a che fare con i seguenti status: esposizioni scadute e/o sconfinanti
deteriorate, inadempienze probabili e sofferenze. (cfr. Banca d’Italia, circolare n. 272 del 30 luglio 2008, Fascicolo «Matrice dei conti», 12°
aggiornamento del 17 settembre 2019).
Finanza
99 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
La medesima Legge, però, non ha chiarito la portata della lettera i) dell’articolo 1, comma 2, D.L.
23/2020 in quanto le condizioni summenzionate non vengono indicate come elementi ostativi al
rilascio della garanzia, oppure per la revoca della stessa, bensì come meri “impegni”. Quindi, in caso
venissero disattesi?
Caratteristiche della garanzia e del finanziamento
La garanzia pubblica, prestata alle imprese e ai lavoratori autonomi che hanno avuto difficoltà in seguito
all’emergenza Coronavirus, impegna Sace in maniera autonoma rispetto al debitore (trattasi infatti di
garanzia a prima richiesta e non di fideiussione) e ha un valore modulato sul personale e sul fatturato,
in particolare:
a) 90% per i beneficiari con numero di dipendenti in Italia < 5.000 unità e fatturato < 1,5 miliardi di
euro;
b) 80% per i beneficiari con numero di dipendenti in Italia > 5.000 unità e fatturato fino a 5 miliardi di
euro;
c) 70% per i beneficiari con fatturato > 5 miliardi di euro;
D’altra parte, circa il limite di importo del finanziamento da garantire, invece, esso non deve essere
superiore al maggiore tra il 25% del fatturato del 2019 e il doppio della spesa salariale annua 2019
dell’impresa beneficiaria.
Se l’impresa appartiene a un gruppo, si deve fare riferimento ai dati su base consolidata.
Per quanto riguarda le commissioni annuali dovute per il rilascio della garanzia, la lettera e) del comma
2 dell’articolo 1, D.L. 23/2020 indica lo 0,25% per il primo anno, lo 0,50% per il secondo e il terzo anno,
l’1% per quelli successivi per le pmi e le Mid cap (le imprese con numero di dipendenti tra 250 e 499,
non rientrati tra le pmi).
Mentre per le grandi imprese, lo 0.50% il primo anno, l’1,00% il secondo e il terzo anno, il 2% gli anni
successivi.
Invece, per quanto concerne le finalità dell’affidamento, a quelle dapprima previste dal D.L. 23/2020
(per il sostenimento dei costi del personale, degli investimenti, o del capitale circolante), la L. 40/2020
ha aggiunto le spese sostenute per i canoni di locazione o di affitto di ramo d’azienda.
Ma per scongiurare il potenziale utilizzo della garanzia pubblica per consolidare esposizioni debitorie
in essere, la legge di conversione ha introdotto la lettera n-bis), comma 2, articolo 1 del Decreto
“Liquidità”, specificando che la linea di credito garantita da Sace non può essere utilizzata per onorare
Finanza
100 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
rate morose o in scadenza tra il 1° marzo e il 31 dicembre 2020, se non nella misura non superiore al
20% dell’ammontare erogato.
Infine, con il nuovo comma 1-bis) la garanzia pubblica in questione può essere rilasciata anche a fronte
della cessione di crediti pro solvendo.
Iter istruttorio
Con la L. 40/2020 il rilascio della garanzia di Sace e la conseguenziale l'erogazione del mutuo da parte
della banca affidante segue le medesime procedure stabilite nel Decreto “Liquidità”, diversificate a
seconda si tratti di entità con un numero di dipendenti in Italia fino a 5.000 unità e fatturato non
superiore 1,5 miliardi di euro e imprese diverse da queste.
Nel primo caso, il richiedente fido presenta apposita richiesta alla banca, la quale, a seguito di
valutazione positiva del merito creditizio, può inoltrare a Sace la richiesta di emissione della garanzia
pubblica, la quale, dopo un iter valutativo, emette un codice unico identificativo del finanziamento e
della garanzia.
Diversamente dalla prima categoria di imprese, nelle altre vi è anche la necessità di ottenimento del
parere favorevole, a mezzo decreto del Mef, sentito il Mise.
D’altronde, con l’aggiunta dell’articolo 1-bis, la L. 40/2020 stabilisce che a corredo della richiesta alle
banche di nuova finanza garantita da Sace debba essere presentata un’autocertificazione, valida anche
ai fini antimafia, attestante in particolare il danno subito dall’emergenza sanitaria in corso, la veridicità
dei dati riportati nella documentazione allegata alla richiesta, le finalità del finanziamento.
La previsione normativa di un’autodichiarazione sostitutiva di atto notorio del richiedente o del legale
rappresentante ha l’evidente intento di snellire l’iter nella fase di istruttoria della pratica, cercando
quindi di rendere più celeri i tempi di erogazione del mutuo.
Il “Fondo Gasparrini” per i mutui per l’acquisto della prima casa
Altresì, la Legge di conversione del Decreto Liquidità ha integrato la disciplina del Fondo di solidarietà
per i mutui per l’acquisto della prima casa (c.d. “Fondo Gasparrini”), istituito con l’articolo 2, comma 475
e ss., L. 244/2007, la cui operatività aveva subito a propria volta delle modifiche a opera dell’articolo
54, D.L. 18/2020 (c.d. “Cura Italia).
Inizialmente, quest’ultimo aveva ampliato la platea dei beneficiari del Fondo di solidarietà, la cui
disciplina stabilisce il diritto per i titolari di un mutuo contratto per l’acquisto della prima casa, in
situazione di temporanea difficoltà finanziaria, di beneficiare della sospensione del pagamento delle
Finanza
101 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
rate e di un contributo sul costo del debito, estendendo il presupposto soggettivo anche ai lavoratori
autonomi e ai liberi professionisti, quali parti mutuatarie nei contratti di acquisto di unità immobiliari
da adibire ad abitazione principale, i quali avessero subito una diminuzione del proprio fatturato nel
trimestre successivo al 21 febbraio 2020, ovvero nel minor periodo intercorrente tra la data della
domanda e il 21 febbraio 2020, in misura superiore al 33% rispetto al fatturato dell’ultimo trimestre
2019. Sulla scorta di quanto disciplinato dall’articolo menzionato, l’estensione del beneficio in
commento è stata ribadita dal Decreto attuativo dell’articolo 54, D.L. 18/2020 firmato il 25 marzo
scorso3, con il quale il Mef ha integrato la disciplina del fondo.
Il Decreto Ministeriale chiarisce che per lavoratore autonomo si debba intendere quello di cui
all’articolo 1, L. 81/207, escludendovi quindi l’imprenditore, ivi compreso il piccolo imprenditore di cui
all'articolo 2083, cod. civ.. D’altra parte, il Decreto “Liquidità” interviene su chi tra i lavoratori autonomi
debba farsi riferimento ai fini agevolativi in commento, menzionando quelli di cui all’articolo 27, comma
1 del “Cura Italia”, ovvero i beneficiari del bonus di 600 euro, quindi i liberi professionisti titolari di
partita Iva attiva alla data del 23 febbraio 2020, i lavoratori titolari di rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa iscritti alla gestione separata Inps, i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni
speciali dell’AGO (Assicurazione generale obbligatoria), quindi artigiani, commercianti, coltivatori
diretti, mezzadri e coloni, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie.
In sede di conversione del D.L. 23/2020 il Legislatore fa proprie le indicazioni del Mef, ma ampliando
ancora la platea dei beneficiari, stabilendone l’estensione anche agli imprenditori individuali e al
piccolo imprenditore ex articolo 2083, cod. civ.. Per di più, si segnala un’altra modifica apportata dalla
Legge di conversione all’elenco dei beneficiari dell’agevolazione in questione, con l’aggiunta all’articolo
12, D.L. 23/2020 del comma 2-ter che estende il beneficio in commento anche alle cooperative con
oggetto sociale l'acquisto o la costruzione di case destinate a restare di proprietà della cooperativa e a
essere assegnate ai soci in godimento o in uso (cooperative edilizie a proprietà indivisa).
Modifiche alle condizioni di accesso al fondo
Per comprendere come i predetti soggetti possono accedere all’agevolazione prevista dal Fondo di
solidarietà per i mutui “prima casa”, occorre fare riferimento al disposto del D.M. 132/2010,4 da
coordinarsi con il D.M. 37/20135. Quindi, il richiedente potrà presentare presso l’istituto di credito
3 Decreto del Mef 25 marzo 2020 “Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, ai sensi dell’articolo 54, D.L. 18/2020”. 4 Decreto del Mef n. 132/2020 “Regolamento recante norme di attuazione del Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, ai
sensi dell’articolo 2, comma 475, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.” 5 Decreto del Mef n. 37/2013 “Regolamento recante modifiche al decreto 21 giugno 2010, n. 132 concernente norme di attuazione del Fondo di
solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, ai sensi dell’articolo 2, comma 475 e seguenti della legge 24 dicembre 2007, n. 244.”
Finanza
102 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
mutuante la domanda per accedere al Fondo di solidarietà, scaricabile sul sito del Mef, di Consap Spa
(Concessionaria servizi assicurativi pubblici) e dell’A.B.I.
http://www.dt.mef.gov.it/export/sites/sitodt/modules/documenti_it/interventi_finanziari/interventi_fin
anziari/ModuloSospensioneMutui2020.pdf, a condizione egli sia titolare di un mutuo per l’acquisto della
prima casa, adibita ad abitazione principale, non censita con le categorie catastali A/1, A/8, A/9 e che il
mutuo sia in ammortamento anche da meno di un anno. A tal proposito si evidenzia che con l’articolo
12, comma 2, Decreto “Liquidità” si è ammesso l’accesso ai benefici del fondo anche in detta ipotesi,
diversamente da quanto previsto antecedentemente dall’articolo 2, comma 1, lettera b), D.M. 132/2010
(in tal caso il mutuo doveva essere in ammortamento da almeno un anno), ma solo per 9 mesi
dall’entrata in vigore del citato decreto, quindi a partire dal 9 aprile 2020.
Oltre a ciò, occorre che il mutuatario nella richiesta dichiari che, successivamente alla data di stipula
del contratto di mutuo, si sia verificato nei 3 anni antecedenti alla richiesta di ammissione al beneficio
la cessazione del rapporto di lavoro subordinato, a seguito di licenziamento o dimissioni per giusta
causa nei contratti di lavoro a tempo indeterminato o di interruzione dei rapporti di lavoro nei contratti
a tempo determinato, come pure la cessazione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa,
oppure la morte o il riconoscimento al titolare del mutuo di un handicap grave.
In aggiunta agli eventi testé menzionati di cui all’articolo 2, commi 1, lettera a), 2 e 3, D.M. 132/2010,
l’articolo 1, D.M. del 25 marzo 2020 ammette il beneficio in questione anche nelle circostanze nelle
quali per almeno 30 giorni consecutivi vi sia stata la sospensione, oppure la riduzione dell’orario di
lavoro per almeno il 20% dell’orario complessivo, fruibile per massimo:
- 6 mesi, se detta sospensione o riduzione ha una durata compresa tra 30 giorni e 150 giorni lavorativi
consecutivi;
- 12 mesi, in presenza di sospensione o di riduzione tra 151 giorni e 302 giorni lavorativi consecutivi;
- 18 mesi, con una durata superiore a 302 giorni lavorativi consecutivi.
Dal 29 aprile 2020 sono ammessi alla sospensione ex articolo 2, comma 475 e ss., L. 244/2007 i mutui
concessi per un importo non superiore ad originari euro 400.000, in luogo del precedente limite di
250.000 euro, così come era stabilito dalla L. 27/2020 di conversione del Decreto “Cura Italia”.
Con il medesimo Decreto Ministeriale, peraltro, è stata introdotta un’altra modifica alla disciplina
previgente del fondo, ossia l’abolizione dell’obbligo di allegare alla domanda l’ISEE (il quale ai sensi
dell’articolo 2, comma 1 del precedente D.M. 132/2010 non doveva essere superiore a 30.000 euro).
Altresì, è opportuno ricordare che, anche a seguito dell’entrata in vigore del “Cura Italia”, rimane vigente
il requisito stabilito dall’articolo 2, comma 5, D.M. 132/2010 dell’assenza di morosità superiore a 90
Finanza
103 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
giorni consecutivi alla data della richiesta, come pure dell’assenza di agevolazioni pubbliche (diverse
dalla garanzia del Fondo per la prima casa)6 e di polizze a copertura del rischio in grado di provvedere
al pagamento delle rate del mutuo durante il periodo di sospensione.
Da ultimo, ai sensi dell’articolo 5, comma 3, D.M. del 25 marzo 2020 ora risulta possibile beneficiare
della misura agevolativa anche se in passato si è già fruito della sospensione del mutuo (purché
l’ammortamento sia ripreso da 3 mesi). Ciò, a differenza del disposto previgente7, il quale stabiliva che,
ai fini dell’agevolazione in commento, il mutuatario non poteva aver beneficato della misura di
sospensione per più di due volte.
Iter istruttorio
Oltre a un allargamento del raggio d’azione del Fondo di solidarietà, in modo da garantire un aiuto a
chi si trova in difficoltà col mutuo della prima casa a seguito dell’epidemia da Covid-19, altresì con
l’articolo 54, comma 2, D.L. 18/2020 è stato modificato l’intervento del fondo, stabilendo che a fronte
della moratoria del mutuo il fondo stesso intervenga rimborsando alla mutuante gli interessi delle rate
oggetto di sospensione nella misura del 50%. Nella normativa previgente si parlava di “pagamento dei
costi delle procedure bancarie e degli onorari notarili necessari per la sospensione del pagamento delle rate
del mutuo”8.
Ma per l’operatività del fondo, con conseguente sospensione del pagamento delle rate del mutuo per
un periodo massimo di 18 mesi (fruibili in non più di 2 periodi, salvo nelle circostanze di sospensione e
riduzione dell’orario di lavoro rispetto ai quali la fruizione può avvenire anche in più periodi) e
pagamento del 50% degli interessi, bisogna tenere presente che l’iter di richiesta ha dei tempi tecnici,
disciplinati dall’articolo 6, D.M. 25 novembre 2020. L’articolo in questione anzitutto prevede il limite di
10 giorni dalla presentazione della richiesta di accesso all’agevolazione affinché la banca, una volta
verificata la completezza e la regolarità della domanda di moratoria, inoltri alla Consap, che è il gestore
del Fondo ex L. 244/2007, la dichiarazione sostitutiva unitamente alla documentazione a corredo.
A tal proposito si segnala un’importante modifica apportata dalla legge di conversione, la quale,
all’articolo 12, D.L. 23/2020 aggiunge il comma 2-bis che stabilisce l’avvio da parte della banca
mutuante della sospensione della prima rata in scadenza successiva alla data di presentazione della
domanda una volta verificatane la “completezza e regolarità formale”, senza che l’intermediario creditizio
attendi l’esito da Consap.
6 Fondo per la prima casa ex articolo 1, comma 48, lettera c), L. 147/2013. 7 Cfr. articolo 2, comma 476, L. 244/2007. 8 Cfr. articolo 2, comma 478, L. 244/2007.
Finanza
104 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Lo stesso comma 2-bis ha stabilito il termine perentorio di 20 giorni (in luogo dei 15 giorni stabiliti
dall’articolo 6, comma 2, D.M. 132/2010) dal ricevimento della citata documentazione affinché Consap
rilasci il nulla osta alla moratoria, oppure respinga la richiesta in ragione di una possibile mancanza dei
requisiti o di insufficiente dotazione nel Fondo di solidarietà. Decorsi i 20 giorni ricorre l’istituto del
silenzio-assenso.
Della risposta di Consap la banca mutuante deve dare debita informazione al beneficiario nel limite
massimo di 5 giorni lavorativi, così come stabilito dall’articolo 6, comma 3, D.M. 132/2010.
Il Fondo di garanzia per le pmi
La L. 40/2020, nell’ampliare le caratteristiche delle misure introdotte dal Decreto “Liquidità”, interviene
anche in merito all'accesso alla garanzia pubblica del Fondo ex articolo 2, comma 100, L. 662/1996, al
fine di incrementare le opportunità di accesso al credito per far fronte all’emergenza sanitaria in corso
a chi svolge attività d’impresa e di lavoro autonomo.
Anzitutto, l’articolo 13, comma 1, D.L. 23/2020 estende la garanzia del Fondo in questione, per le
garanzie dirette fino al 90% del finanziamento concesso, mentre per le controgaranzie fino al 100%
dell’importo del finanziamento garantito dai Confidi o da altro fondo di garanzia (esclusivamente per
garanzie rilasciate da questi ultimi nella misura massima del 90%).
In ogni caso la garanzia non deve superare i 5.000.000 di euro, quale ammontare massimo garantito dal
Fondo per ogni singola impresa, e deve riferirsi ad affidamenti con durata non superiore ai 72 mesi.
I beneficiari della garanzia diretta o della controgaranzia in commento sono le imprese con un numero
non superiore a 499 U.L.A. (unità lavorative anno) e, come introdotto dalla Legge di conversione del
Decreto “Liquidità”, anche qualora le medesime avessero il 25% o più del capitale o dei diritti di voto
detenuti direttamente o indirettamente da un ente pubblico, o congiuntamente da più enti pubblici (cfr.
articolo 13, comma 1, lettera b), D.L. 23/2020).
D’altra parte, la lettera c) dello stesso comma indica che gli importi di questi finanziamenti non devono
superare in alternativa:
- il doppio della spesa salariale annua per il 2019 (o quella previsto per i primi 2 anni di attività se
l’impresa è costituita dal 1° gennaio 2019);
- il 25% del fatturato del 2019;
- “il fabbisogno per costi del capitale di esercizio e per costi di investimento” nei successivi 12 mesi, se
autocertificato dalle imprese diverse dalle pmi con meno di 500 occupati, o nei successivi 18 mesi con
Finanza
105 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
riguardo alle pmi così come definite dall’articolo 2 dell’allegato alla Raccomandazione della
Commissione europea 2003/361/CE.
Altresì, in sede di conversione del D.L. 23/2020 è stata aggiunta la lettera 3-bis), con la quale si è
previsto un ulteriore limite alternativo riservato alle sole imprese caratterizzate da cicli produttivi
annuali, ovvero la somma delle voci A1) e A2) di Conto economico relative all’anno 2019.
D’altra parte, l’articolo 13, comma 1, lettera n), D.L. 23/2020 ha previsto, già prima della sua conversione
in Legge, che si possa arrivare con la garanzia di un confidi o di un altro fondo dal 90 al 100% di
copertura su operazioni finanziarie rivolte ad imprese con fatturato fino a 3.200.000 euro se detti
finanziamenti non superano anch’essi il limite del 25% del fatturato, quindi l’importo massimo di
800.000 euro. Ma in sede di conversione del Decreto “Liquidità” si è modificata la lettera n)
introducendo, al fine di determinare l’importo massimo del finanziamento da garantire, l’alternativa tra
il summenzionato 25% del fatturato ed il doppio della spesa salariale annua del beneficiario per il 2019.
D’altro canto, si evidenzia che per operazioni con limiti di importo e di durata massima diversi da quelli
relativi a finanziamenti con copertura al 90% di cui all’articolo 13, comma 1, lettera c), la garanzia del
Fondo in questione può essere estesa fino all’80% del finanziamento concesso per le garanzie dirette,
e per le controgaranzie fino al 90% dell’importo del finanziamento garantito dai Confidi o da altro fondo
di garanzia, come già previsto dal comma 1, lettera d) dell’articolo in commento, interessando però, in
ragione della modifica apportata in sede di conversione, anche operazioni finanziarie con durata
superiore a 10 anni. Per quanto riguarda, invece, le operazioni di rinegoziazione del debito, il comma 1,
lettera e), dell’articolo 13 ammette l’intervento del fondo in misura variabile, a seconda che si tratti di
garanzia diretta (in tal caso ammissibile per l’80%), oppure di controgaranzia, con copertura massima al
90% dell’importo del finanziamento garantito dai Confidi o da altro fondo di garanzia (esclusivamente
per garanzie rilasciate da questi ultimi nella misura massima dell’80%), se dette rinegoziazioni vengono
accompagnate dall’erogazione di nuova finanza per un ammontare almeno pari al 25% del debito
oggetto di ristrutturazione, così come previsto dalla L. 40/2020, in luogo del precedente 10% stabilito
in principio dal Decreto “Liquidità”.
Standing creditizio del beneficiario
Ad ogni buon conto, anche a seguito della conversione nella L. 40/2020 del D.L. 23/2020, sono ammessi
ad accedere al Fondo di garanzia per le pmi anche i beneficiari classificati dalla banca affidante, alla
Finanza
106 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
data della richiesta, come esposizioni creditizie deteriorate, con eccezione di quelle appostate a
“Sofferenza”9, quindi quelle il cui credito è passato a contenzioso.
Ma la L. 40/2020, confermando che la predetta classificazione non debba essere stata effettuata prima
del 31 gennaio 2020, ha disposto con la nuova lettera g-ter), articolo 13, comma 1, che possono
ammettersi ai fini della garanzia anche i debitori la cui esposizione ha l’attributo di “Non performing
exposures with forbearance measures”10 antecedentemente a quella data.
Dunque, per le operazioni finanziarie afferenti a beneficiari di misure di concessione (moratorie,
abbassamento dei tassi, consolidi, per esempio), accordate dalle banche prima del 31 gennaio 2020 ai
debitori medesimi in stato di difficoltà finanziaria “con l’obiettivo chiave di porre le basi per il rientro in
bonis delle esposizioni deteriorate … e che dovrebbero essere sempre finalizzate a riportare l’esposizione in
una situazione di rimborso sostenibile”, può essere concessa la garanzia diretta o la controgaranzia del
Fondo ex L. 662/1996. Ciò purché al 7 giugno 2020 (data di entrata in vigore del Decreto) dette
esposizioni debitorie presentano le condizioni di uscita dal c.d. “Cure period”: trattasi di un periodo di
almeno 12 mesi, durante il quale, per almeno metà dello stesso ed in maniera continuativa, le
esposizioni debitorie oggetto di misure di concessione, per poter essere rimesse “in bonis” dalla banca,
non devono presentare uno scaduto maggiore di 30 giorni e non devono essere interessate da ulteriori
misure di concessione.
Quindi, sono ammessi alla garanzia del Fondo ex L. 662/1996, nei tempi e nelle misure disciplinati
dall’articolo 13, D.L. 23/2020, i beneficiari che, dopo un anno dalla concessione (avvenuta prima del 31
gennaio 2020), presentano al 7 giugno 2020 le condizioni di regolarità per essere rimessi “in bonis”.
La L. 40/2020 conferma, invece, che la garanzia in commento può afferire anche a quelle imprese che
dopo il 31 dicembre 2019 si trovano ad aver presentato un piano attestato ex articolo 67, L.F., oppure
ad aver stipulato un accordo ex articolo 182-bis, L.F., oppure quando, dopo la predetta data, siano state
ammesse al concordato in continuità ex articolo 186-bis, L.F., purché al 9 aprile 2020 le loro esposizioni
debitorie non presentino anomalie come morosità, deterioramento della posizione, o comunque
situazioni tali da far presumere l’esistenza di un pregiudizio all’integrale pagamento del debito a
scadenza.
9 Quindi sono ammessi quei beneficiari classificati dalla banca come “Esposizioni scadute e/o sconfinanti deteriorate” oppure come U.T.P. (i.e.
“Unlikely to pay” o inadempienza probabile), per la definizione dei quali cfr. Banca d’Italia, circolare n. 272 del 30 luglio 2008, Fascicolo «Matrice
dei conti», 12° aggiornamento del 17 settembre 2019. 10 Cfr. European Banking Authority, “EBA Final draft Implementing Technical Standards”, 27 luglio 2014.
Finanza
107 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Finanziamenti con garanzia diretta del 100% senza valutazione del merito creditizio
Tra le misure per il sostegno finanziario di imprese e professionisti, il D.L. 23/2020 ha previsto una
modalità per incentivare l’erogazione da parte delle banche di finanziamenti pressoché “immediati”
nell’erogazione, mirati alle imprese che non superano il limite dei 499 occupati, nonché ai liberi
professionisti iscritti agli ordini professionali ed ai lavoratori autonomi, (con la L. 40/2020 anche alle
associazioni professionali, alle STP, agli agenti e subagenti di assicurazione, come pure ai broker
assicurativi) che autocertifichino che la propria attività sia stata danneggiata dall’emergenza sanitaria
da Covid-19.
Nello specifico, l’intervento in questione, disciplinato dall’articolo 13, comma 1, lettera m) del citato
Decreto, punta ad offrire agli enti affidanti una garanzia diretta da parte del Fondo di garanzia per le
P.M.I. nella misura del 100% per assistere finanziamenti chirografari di ammontare massimo pari a
30.000 euro, in luogo dei 25.000 euro stabiliti dal Decreto “Liquidità” ante modifica apportata in sede
di conversione in legge, e tale da non superare, in alternativa, i seguenti limiti:
- il 25% del fatturato del beneficiario del 2019 (come da ultimo bilancio depositato o da ultima
dichiarazione fiscale presentata, nonché come risultante da autocertificazione per i beneficiari costituiti
dopo il 1° gennaio 2019);
- il doppio della spesa salariale annua per il 2019 (o quello previsto per i primi 2 anni di attività se
l’impresa è costituita dal 1° gennaio 2019).
Quest’ultimo limite all’importo da finanziare è stato introdotto dalla L. 40/2020, in alternativa all’altro
limite del 25% del fatturato già previsto dal D.L. 23/2020.
Il termine massimo di restituzione del prestito con la L. 40/2020 è di 10 anni, in luogo dei 6 stabiliti
inizialmente dal Decreto, con preammortamento possibile fino a 2 anni.
Le modifiche più importanti, ovvero quelle afferenti all’innalzamento a 30.000 euro dell’importo
massimo del finanziamento, nonché all’allungamento del periodo di ammortamento massimo, possono
essere fatte valere dal beneficiario già affidato per chiedere alla banca affidante la modifica dei criteri
che regolano il rapporto di mutuo in ordine alla durata ed all’ammontare del prestito già concesso ex
D.L. 23/2020. È questo quanto previsto dalla lettera m-bis) aggiunta al comma 1 dell’articolo 13 del
Decreto “Liquidità” in sede di conversione in legge.
A detti finanziamenti, oltre alle spese d’istruttoria e ad altri eventuali oneri bancari, si applica un tasso,
il cui limite massimo si è semplificato grazie alla L. 40/2020. Nello specifico, il tasso di interesse risulta
pari al Rendistato (il rendimento medio ponderato di un paniere di titoli di Stato) con durata analoga al
periodo di ammortamento del mutuo, maggiorato dello 0,2%.
Finanza
108 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Dapprima, questo tasso limite si determinava ben più difficilmente, sommando al Rendistato con vita
residua da 4 anni e 7 mesi a 6 anni e 6 mesi la differenza tra il CDS banche a 5 anni e il CDS ITA a 5
anni, maggiorato dello 0,2%.
Detta modifica, però, non si può dire si traduca necessariamente in un abbassamento del tasso limite
che, anche nella precedente versione, rimane comunque a livelli più bassi rispetto ad un normale
finanziamento chirografario.
Detto chirografo viene assistito dalla garanzia del Fondo centrale di garanzia pmi senza che il Gestore
(Mediocredito Centrale Spa) valuti il merito del credito del beneficiario (mentre la banca si dovrebbe
attivare in tal senso), previa verifica da parte del Richiedente (la banca affidante) e del Gestore dei
requisiti e della veridicità dei dati contenuti nel modulo di richiesta presentato alla banca richiedente
del Fondo di garanzia (modulo scaricabile su https://www.fondidigaranzia.it/normativa-e-
modulistica/modulistica/ ) ai fini dell’ammissibilità al Fondo.
Il rilascio della garanzia è quindi automatico, come anche gratuito, consentendo alle banche di erogare
i prestiti senza attendere il via libera del Fondo di Garanzia.
Resta il fatto che nemmeno la conversione nella L. 40/2020 ha sancito obbligo alcuno alle banche di
accordare queste linee di credito, la concessione delle quali rimane a discrezione delle stesse.
Osservatorio giurisprudenziale
109 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Osservatorio di giurisprudenza sul trust di Sergio Pellegrino – Dottore Commercialista e Amministratore Consulta Delta Erre Trust company
Nella revocatoria non conta il lasso temporale in cui il disponente ha posseduto gli
immobili poi disposti in trust
Corte d’Appello Lecce, sentenza n. 605/2020
Una società che ha acquisito i crediti di una banca ha presentato una domanda di revocatoria nei
confronti dell’atto con il quale una donna, debitrice dell’istituto di credito quale fideiussore a favore del
coniuge, ha istituito un trust, segregando gli immobili di proprietà, individuando come trustee lo stesso
coniuge e beneficiari 3 figli.
Genitori e figli si erano costituiti in giudizio, eccependo la prescrizione decennale del diritto di credito
e il fatto che la donna avesse posseduto i beni soltanto per pochi minuti, fungendo da tramite per il
trasferimento da parte di una figlia in favore dei fratelli e questo con l’obiettivo di evitare una tassazione
più onerosa.
La Corte ha respinto l’appello ritenendo irrilevante l’asserito breve lasso temporale in cui la disponente
ha posseduto gli immobili: ricorre infatti sia l’eventus damni, avendo resa più difficoltosa l’azione di
recupero della creditrice, sia la scientia damni, consistente nella generica consapevolezza di arrecare
danno alle ragioni del credito, che non può essere messa evidentemente in discussione nel caso di
specie, atteso che fra l’altro il debitore principale era il coniuge trustee.
Revocati gli atti di costituzione di un fondo patrimoniale e di disposizione di beni in
trust da parte dei soci fideiussori
Tribunale Bari, sentenza n. 1833/2020
Due coniugi, soci fideiussori di una società debitrice di una banca, nel 2012 hanno prima costituito un
fondo patrimoniale, conferendo la totalità dei loro beni immobili, e dopo pochi mesi hanno istituito un
trust, disponendo in esso gli stessi immobili oltre a un ulteriore bene.
Ricorrono le condizioni richieste dalla norma per pronunciare la revocatoria sia dell’atto con il quale è
stato costituito il fondo patrimoniale, sia quello con i quali beni sono stati successivamente segregati
in trust.
Osservatorio giurisprudenziale
110 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Non merita invece accoglimento l’azione revocatoria finalizzata alla declaratoria di inefficacia relativa
alla scrittura privata autenticata con la quale nel 2014 era stato sostituito l’originario trustee: non rientra
tale fattispecie fra gli atti suscettibili di revocatoria non avendo l’atto in questione alcun contenuto
patrimoniale.
Revocata la disposizione di beni in trust da parte del datore di lavoro debitore
dell’assicurazione che ha pagato l’indennizzo ai familiari del dipendente morto
Corte d’Appello Torino, sentenza n. 631/2020
Viene chiesta da parte degli appellanti la riforma della sentenza del Tribunale di Alessandria del 2018,
che ha accolto la domanda revocatoria ordinaria proposta da una società assicuratrice nei confronti
dell’atto istitutivo e di dotazione di un trust istituito da un proprio debitore, individuando quale trustee
il coniuge e beneficiari dei familiari.
L’assicurazione aveva pagato degli indennizzi ai congiunti di un dipendente del disponente deceduto
a seguito di un infortunio sul lavoro e aveva quindi agito per surroga ex articolo 1916, cod. civ. dei
diritti dell’assicurato e per il regresso esercitabile ex articolo 2055, cod. civ. nei rapporti tra
corresponsabili.
La Corte d’Appello ritiene sussistano i presupposti per l’azione revocatoria e quindi rigetta l’appello.
Non sconta l’imposizione proporzionale la disposizione di beni in un trust istituito da
una disponente che è anche beneficiaria dello stesso
Corte di Cassazione, ordinanza n. 10261/2020
La controversia riguarda l’impugnazione di un avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle entrate
aveva richiesto l’imposta di successione donazione e le imposte ipocatastali in misura proporzionale in
relazione a un atto con il quale una signora aveva istituito un trust, destinandovi con successivo atto di
dotazione una serie di beni, individuando se stessa come beneficiaria e, dopo la sua morte, i figli.
In primo grado era stato rigettato il ricorso, ma la decisione era stata riformata in appello a favore della
contribuente.
La Corte respinge il ricorso dell’Agenzia delle entrate richiamando i propri precedenti, ritenendo che la
tassazione proporzionale debba avvenire soltanto al momento dell’eventuale trasferimento finale dei
beni ai beneficiari.
Osservatorio giurisprudenziale
111 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Non sconta l’imposizione proporzionale la disposizione di beni in un trust autodichiarato
Corte di Cassazione, ordinanza n. 10259/2020
La controversia riguarda l’impugnazione di un avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle entrate
aveva richiesto l’imposta di successione donazione e le imposte ipocatastali in misura proporzionale in
relazione a un atto con il quale era stato istituito un trust autodichiarato, destinato ai bisogni del
disponente e della famiglia.
In primo grado era stato rigettato il ricorso, ma la decisione era stata riformata in appello a favore del
contribuente.
La Corte respinge il ricorso dell’Agenzia delle entrate richiamando i propri precedenti, ritenendo che la
tassazione proporzionale debba avvenire soltanto al momento dell’eventuale trasferimento finale dei
beni ai beneficiari.
Non sconta l’imposizione proporzionale la disposizione di beni in un trust istituito da
una disponente che è anche beneficiaria dello stesso
Corte di Cassazione, ordinanza n. 10256/2020
La controversia riguarda l’impugnazione di un avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle entrate
aveva richiesto l’imposta di successione donazione in misura proporzionale in relazione a un atto con
il quale una signora aveva istituito un trust, destinandovi con successivo atto di dotazione una serie di
beni, individuando se stessa come beneficiaria e, dopo la sua morte, i figli.
In primo grado era stato rigettato il ricorso, ma la decisione era stata riformata in appello a favore della
contribuente.
La Corte respinge il ricorso dell’Agenzia delle entrate richiamando i propri precedenti, ritenendo che la
tassazione proporzionale debba avvenire soltanto al momento dell’eventuale trasferimento finale dei
beni ai beneficiari.
Non sconta l’imposizione proporzionale la disposizione di beni in un trust istituito da un
disponente che è anche beneficiario dello stesso
Corte di Cassazione, ordinanza n. 10254/2020
La controversia riguarda l’impugnazione di un avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle entrate
aveva richiesto l’imposta di successione e donazione in misura proporzionale in relazione a un atto con
Osservatorio giurisprudenziale
112 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
il quale il disponente aveva disposto in trust beni, destinandovi con successivo atto di dotazione una
serie di beni, individuando se stesso come beneficiario e, dopo la sua morte, i figli.
Sia in primo grado sia in secondo grado aveva avuto la meglio il contribuente.
La Corte respinge il ricorso dell’Agenzia delle entrate richiamando i propri precedenti, ritenendo che la
tassazione proporzionale debba avvenire soltanto al momento dell’eventuale trasferimento finale dei
beni ai beneficiari.
Il trustee (ma non il beneficiario) è litisconsorte necessario nella revocatoria dell’atto di
dotazione del trust
Corte di Cassazione, ordinanza n. 9648/2020
Un istituto di credito, creditore nei confronti di 2 coniugi quali fideiussori della società partecipata, ha
chiesto la revocatoria dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale con il quale avevano vincolato 2
immobili di proprietà e dell’atto con il quale erano stati disposti in trust 2 appartamenti.
Il Tribunale ha accolto la domanda e la Corte d’Appello di Firenze ha confermato la sussistenza dei
requisiti per la proposizione dell’azione.
I coniugi hanno proposto ricorso in Cassazione lamentando il fatto che la Corte non abbia ordinato
l’integrazione del contraddittorio nei confronti del trustee e della beneficiaria, contumaci in primo grado
e non evocati nel giudizio in appello.
In particolare, i ricorrenti evidenziano come il trustee sia l’unico soggetto nei confronti del quale può
essere promossa l’azione revocatoria relativa ai beni disposti in trust con conseguente litisconsorzio
necessario e inscindibilità delle cause ex articolo 331, c.p.c..
La Cassazione ritiene il ricorso parzialmente fondato in relazione alla revocatoria dell’atto di dotazione
del trust per omessa notifica dell’atto d’appello nei confronti del trustee, contumace in primo grado, e
per il successivo mancato ordine di integrazione del contraddittorio nei confronti di quest’ultimo da
considerarsi litisconsorte necessario. Viene invece escluso che la beneficiaria del trust, non titolare di
diritti attuali sui beni, debba essere considerata litisconsorte necessario. Il ricorso viene ritenuto invece
infondato in relazione alla revocatoria dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale.
Sono fisse le ipocatastali sulla disposizione di un immobile in trust
Corte di Cassazione, ordinanza n. 9601/2020
L’Agenzia delle entrate ha presentato ricorso per la cassazione della sentenza della CTR della Puglia in
relazione a una controversia sull’impugnazione dell’avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle
Osservatorio giurisprudenziale
113 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
entrate aveva applicato le imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale in relazione alla
disposizione in trust di un appartamento a uso abitazione civile affidato a una società quale trustee
affinché lo gestisse fino al 31 dicembre 2060 a favore della beneficiaria del trust.
La Cassazione respinge il ricorso dell’Agenzia delle entrate ritenendo che solo il trasferimento definitivo
di ricchezza, con il trasferimento finale ai beneficiari, debba scontare l’imposizione proporzionalmente.
Il decreto ingiuntivo deve essere emesso nei confronti del trustee (e non del trust in
persona del trustee)
Tribunale Termini Imerese, sentenza n. 305/2020
Il trustee di un trust ha proposto opposizione contro il decreto ingiuntivo con il quale era stato intimato
di pagare un determinato importo in favore del ricorrente.
Il trustee aveva, fra le altre cose, lamentato il fatto che il decreto ingiuntivo opposto era stato emesso
nei confronti del trust, in persona del trustee, ovvero nei riguardi di un soggetto privo di personalità di
soggettività giuridica.
I giudici ritengono condivisibile l’assunto e il fatto che le obbligazioni contrattuali poste a carico del
trust in persona del trustee determinano la nascita dell’obbligazione in capo a un soggetto inesistente,
con conseguente inesistenza della stessa obbligazione.
Revocabili le disposizioni in trust di immobili da parte dei soci fideiussori di una società
inadempiente
Tribunale Pisa, sentenza n. 513/2020
Sono revocabili le disposizioni in 2 trust di immobili realizzate da parte dei soci e fideiussori di una Spa,
realizzate quando era risultata evidente l’impossibilità da parte della società debitrice di far fronte alle
proprie obbligazioni.
Guardiano e beneficiari non sono litisconsorti necessari nella revocatoria di un
conferimento in trust
Corte d’Appello Torino, sentenza n. 631/2020
Nell’ambito di un’azione revocatoria promossa da un istituto di credito per ottenere la dichiarazione di
inefficacia dell’atto istitutivo di trust con il quale 2 coniugi suoi debitori avevano conferito al trustee la
nuda proprietà dei loro immobili, né il guardiano, né i beneficiari sono litisconsorti necessari.
Osservatorio giurisprudenziale
114 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
Il debito erariale è collegato all’insorgenza dell’obbligazione (e non al momento della
pronuncia della commissione tributaria)
Corte d’Appello Bolzano, ordinanza n. 69/2020
Il Tribunale di Bolzano ha accolto la revocatoria richiesta dall’agente della riscossione nei confronti
dell’atto istitutivo di un trust nel quale un soggetto, gravato di debiti tributari, aveva conferito il proprio
patrimonio immobiliare, individuando quale trustee la moglie e beneficiari i figli.
I giudici della Corte d’Appello, nel rigettarlo, ritengono che l’attrice abbia del tutto legittimamente
evocato in giudizio i figli del disponente, poiché, nella veste di beneficiari del trust, subiscono un effetto
pregiudizievole della declaratoria di inefficacia dell’atto costitutivo ed è quindi interesse di chi agisce
rendere loro opponibile la sentenza.
Quanto al fatto che la prova del credito erariale è desunta dalla pronuncia della Commissione Tributaria
del 2013, successiva quindi alla disposizione dei beni in trust, i giudici osservano come il diritto
all’esazione non è differito o condizionato al momento in cui viene definitivamente liquidato il tributo,
ma resta collegato a quello di insorgenza dell’obbligazione, nel caso di specie individuato nella
produzione del reddito nell’anno di imposta 2004.
Il credito erariale è quindi sicuramente anteriore alla disposizione dei beni in trust avvenuta nel 2010.
115 Patrimoni, finanza e internazionalizzazione n. 27/2020
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