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Edoardo Puglielli Percorsi per la didattica della storia, della filosofia e delle scienze umane MARX E LETÀ MODERNA Società Filosofica Italiana Sezione di Sulmona ‘Giuseppe Capograssi’ 2015

Percorsi per la didattica della storia, della filosofia e ... · differenza tra lo schiavo dell’epoca antica e il salariato moderno risiede nel fatto che «la continuità del rapporto

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Edoardo Puglielli

Percorsi per la didattica della storia, della filosofia e delle scienze umane

MARX E L’ETÀ MODERNA

Società Filosofica Italiana

Sezione di Sulmona ‘Giuseppe Capograssi’ 2015

Società Filosofica Italiana Sezione di Sulmona Giuseppe Capograssi [online] ISSN 2281-6569 novembre 2015 Edoardo Puglielli (1977) è docente di filosofia e scienze umane In copertina: Sulmona, sciopero ferroviario I maggio 1920

«Ogni cosa oggi sembra portare in se stessa la sua contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo trasforma le nuove sorgenti della ricchezza in fonti di miseria. Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Sembra che l’uomo, nella misura in cui assoggetta la natura, si assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso istupidire la vita umana, riducendola ad una forza materiale»:.

Karl Marx Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper» [1856]

«La storia è sì una serie dolorosamente interminabile di miserie; il lavoro, che è la nota distintiva del vivere umano, è diventato il tormento e la maledizione della maggioranza degli uomini; il lavoro, che è la premessa di ogni umana esistenza, è diventato il titolo alla soggezione del più gran numero degli uomini; il lavoro, che è la condizione di ogni progresso, ha messo le sofferenze, le privazioni, i travagli e i patimenti del maggior numero degli uomini in servizio della comodità di pochi. Dunque la storia è un inferno; anzi potrebb’essere rappresentata, un lugubre dramma, come la tragedia del lavoro!»

Antonio Labriola

Discorrendo di socialismo e di filosofia [1897]

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La «schiavitù del salario»

«Con ciò veniva tolta anche l’ultima base a tutta l’ipocrita retorica delle classi

possidenti, che affermavano esservi nell’attuale ordinamento sociale diritto e

giustizia, eguaglianza dei diritti e dei doveri e una generale armonia degli interessi; e

l’attuale società borghese, non meno di quelle precedenti, veniva smascherata come

una grandiosa istituzione per lo sfruttamento dell’enorme maggioranza del

popolo a opera di una piccola minoranza sempre decrescente».

Friedrich Engels, Karl Marx [1878]

«Se le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra», aveva affermato Aristotele, «i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi»1. Nell’età moderna i telai vanno da soli e le cetre suonano senza citaristi, eppure servi e padroni esistono ancora. Già Rousseau aveva denunciato che «l’uomo è nato libero e dappertutto è in catene»2. E mentre gli intellettuali organici alla nuova classe dominante vanno presentando la modernità come epoca finalmente in grado di garantire agli uomini quella libertà che sempre gli è stata negata, Marx, da parte sua, dimostra che quella stessa società è ancora fondata sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e che in essa la schiavitù non si è affatto estinta. Quella che Marx scopre è la «schiavitù del salario»3, una forma di asservimento che impedisce agli uomini di condurre un’esistenza davvero libera e autonoma e che accomuna il lavoratore moderno agli schiavi delle epoche passate: «lo schiavo romano era legato da catene al suo proprietario, il salariato è legato al suo da fila invisibili. L’apparenza della sua autonomia viene mantenuta dal costante variare del padrone individuale e dalla fictio juris del

1 Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 9. 2 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale [1762], in Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 279. 3 K. Marx, Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper» [1856], in Id., L’alienazione, a cura di M. Musto, Donzelli, Roma 2010, p. 41.

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contratto»4. Osserviamo le cose più da vicino. Nel mondo capitalistico-borghese, il lavoro, trasformato in merce, viene venduto dal suo possessore al proprietario dei mezzi di produzione. A prima vista sembra trattarsi di un libero accordo tra le due parti: da cittadino giuridicamente uguale a tutti gli altri il lavoratore decide liberamente di scambiare la sua merce (forza-lavoro) in cambio di altra merce (salario). In realtà, dietro l’apparenza Marx scopre che quella che pesa sul salariato non è tanto una coercizione politica o giuridica (come avveniva nella schiavitù del mondo antico e nella servitù del sistema feudale) quanto una costrizione di natura esclusivamente economica. Per non morir letteralmente di fame, infatti, il lavoratore moderno deve necessariamente alienare la propria capacità lavorativa. Il «libero» salariato moderno è «schiavo completo del mercato del lavoro, poiché la forza lavorativa da lui venduta è l’unica cosa che in realtà egli possiede, e che deve alienare per poter esistere»5. La differenza tra lo schiavo dell’epoca antica e il salariato moderno risiede nel fatto che «la continuità del rapporto fra schiavo e schiavista era assicurata dalla costrizione diretta di cui lo schiavo era vittima. Il lavoratore libero è invece costretto ad assicurarla egli stesso, poiché l’esistenza sua e della sua famiglia dipende dal continuo ripetersi della vendita ai capitalisti della propria capacità lavorativa»6. Il proprietario dei mezzi di produzione, inoltre, si appropria dei prodotti del lavoro pagando l’operaio con un salario che non corrisponde affatto al valore dell’intera attività da egli svolta. Il tempo lavorativo da questi prestato «include una determinata quantità di lavoro non retribuito» (pluslavoro) che per il capitalista costituisce «la fonte normale del suo guadagno» (plusvalore)7. Il prezzo pagato per la forza-lavoro, in altre parole, viene tenuto «entro limiti giovevoli allo sfruttamento capitalistico» e non

4 K. Marx, Il capitale. Libro I [1867], Editori Riuniti, Roma 1967, p. 629. 5 K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo [1941], Einaudi, Torino 1979, pp. 235-236. 6 K. Marx, Il capitale, Libro I, capitolo VI inedito [1863-1864], in Id., L’alienazione, cit., p. 95. 7 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 600.

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corrisponde al tempo lavorativo realmente svolto (se così non fosse non ci sarebbe profitto per il capitalista). «La gran bellezza della produzione capitalistica», spiega Marx, «consiste nel fatto ch’essa non solo riproduce costantemente l’operaio salariato come operaio salariato, ma inoltre produce sempre una sovrappopolazione relativa di operai salariati in proporzione dell’accumulazione del capitale. Così la legge della domanda e dell’offerta del lavoro viene tenuta sul binario giusto, l’oscillazione dei salari viene tenuta entro limiti giovevoli allo sfruttamento capitalistico, e infine è garantita la tanto indispensabile dipendenza sociale dell’operaio dal capitalista»8. Il costo del salario, dunque, essendo soggetto come tutte le altre merci alle leggi della concorrenza, tende automaticamente a comprimersi, fino a corrispondere al «valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro»9, ovverosia al valore dei costi degli alimenti indispensabili al mantenimento in vita del salariato e alla riproduzione della sua capacità lavorativa. «Quello dunque che l’operaio salariato si appropria con la sua attività gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza»10 e per non interrompere il ciclo produttivo:

«Con ciò era stato dimostrato che l’arricchimento dei capitalisti odierni consiste nell’appropriazione del lavoro altrui non pagato, esattamente come avveniva con l’arricchimento dei proprietari di schiavi o dei signori feudali che sfruttavano il lavoro servile, e che tutte queste forme di sfruttamento si distinguono unicamente per la diversa maniera con cui avviene l’appropriazione del lavoro non pagato. Ma con ciò veniva tolta anche l’ultima base a tutta l’ipocrita retorica delle classi possidenti, che affermavano esservi nell’attuale ordinamento sociale diritto e giustizia, eguaglianza dei diritti e dei doveri e una generale armonia degli interessi; e l’attuale società borghese, non meno di quelle precedenti, veniva smascherata come una grandiosa istituzione per lo sfruttamento dell’enorme maggioranza del popolo a opera di una piccola minoranza sempre decrescente»11.

8 Ivi, p. 831. 9 Ivi, p. 203. 10 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista [1848], in Id., Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 307. 11 F. Engels, Karl Marx [1878], ora in K. Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, a cura di E. Donaggio, P. Kammerer, Feltrinelli, Milano 2007, p. 23.

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Per il salariato moderno «tutta quanta la sua vita viene ad essere trasformata in un mezzo per vivere, poiché il lavoro non impedisce più che la perdita della pura esistenza»12. Egli «vende per un salario la propria capacità lavorativa o forza-lavoro come suo unico mezzo di sostentamento»13, vende cioè se stesso «per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari»14 e non è affatto libero.

«Si è messo in chiaro che l’operaio salariato ha il permesso di lavorare per la sua propria vita, cioè di vivere, solo in quanto lavora, per un certo tempo, gratuitamente, per il capitalista (e quindi anche per quelli che insieme col capitalista consumano il plusvalore); che tutto il sistema di produzione capitalistico si aggira attorno al problema di prolungare questo lavoro gratuito prolungando la giornata di lavoro o sviluppando la produttività cioè con una maggiore tensione della forza-lavoro, ecc.; che dunque il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa sempre più dura nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro»15.

12 K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo, cit., p. 410. 13 M. Dobb, La critica dell’economia politica, in Storia del marxismo, 4 voll., I, Il Marxismo ai tempi di Marx, Einaudi, Torino 1978, p. 97. 14 «Il lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere. Il lavoro è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per se è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto»: K. Marx, Lavoro salariato e capitale [1849], Editori Riuniti, Roma 2006, p. 19. 15 K. Marx, Critica al programma di Gotha [1875], in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p. 967.

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Attraverso il proprio lavoro, dunque, il salariato non crea ricchezza per se stesso ma crea «il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato»16. Ciò che viene a determinarsi è «un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto»17. A ben vedere, la libertà conquistata con l’avvento della modernità sembra corrispondere unicamente all’estensione alla forza-lavoro (cioè agli uomini) della libertà delle merci di circolare senza vincoli etici e senza restrizioni sul mercato. «Per libertà», spiega Marx, «si intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il commercio libero, la libera compra e vendita»18. Sicché il salariato, per tutta la sua vita, «esiste soltanto per accrescere il capitale e vive quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante»19. In un tale assetto «cresce la massa dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento»20, e «tutta la storia dell’industria

16 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 306. 17 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 706. 18 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 307. La classe borghese «ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli» (Ivi, p. 295). Tutto ciò che il lavoratore è al di fuori della compravendita lavoro-salario viene ignorato dall’economia politica. «Essa abbandona questo residuo umano ai medici e ai tribunali, alla religione e alla politica. I bisogni dei lavoratori si riducono per essa soltanto al bisogno di mantenerlo atto al lavoro, affinché egli produca delle merci. Il salario fa quindi parte dei costi necessari del capitale e non può superare il bisogno che questo ha di un certo lavoro. L’economia politica, questa scienza della ricchezza, è al tempo stesso una scienza del risparmio, o, per dirla in breve dell’economia. La sua massima ascetica fondamentale consiste nel rinunziare a tutti i bisogni che non servano all’accrescimento del capitale» (K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo, cit., p. 411). 19 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 307. 20 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 825. «Entro il sistema capitalistico tutti i metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese dell’operaio individuo; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano l’operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui a quest’ultimo la scienza

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moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione»21. Questa classe sociale, infatti, altro non è che forza-lavoro costantemente al servizio delle esigenze del capitale, la cui essenza schiavistica e violenta è paragonata alla «voracità» di pluslavoro di un «lupo mannaro»:

«Che cos’è una giornata lavorativa? Qual è la quantità del tempo durante il quale il capitale può consumare la forza-lavoro della quale esso paga il valore d’una giornata? Fino a che punto la giornata lavorativa può essere prolungata al di là del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro stessa? S’è visto che a queste domande il capitale risponde: la giornata lavorativa conta ventiquattro ore complete al giorno, detratte le poche ore di riposo senza le quali la forza-lavoro ricusa assolutamente di rinnovare il suo servizio. In primo luogo è evidente che l’operaio, durante tutto il tempo della sua vita, non è altro che forza-lavoro e perciò che tutto il suo tempo disponibile è, per natura e per diritto, tempo di lavoro, e dunque appartiene alla autovalorizzazione del capitale. Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero giuoco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari –: fronzoli puri e semplici! Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei

viene incorporata come potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli lavora, durante il processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella maniera più meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro, gli gettano moglie e figli sotto la ruota di Juggernaut del capitale. Ma tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono al tempo stesso metodi dell’accumulazione e ogni estensione dell’accumulazione diventa, viceversa, mezzo per lo sviluppo di quei metodi. Ne consegue quindi, che nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che equilibra costantemente sovrappopolazione relativa, ossia l’esercito industriale di riserva da una parte e volume e energia dell’accumulazione dall’altra, incatena l’operaio al capitale in maniera più salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto» (Ivi, p. 706). 21 K. Marx, Salario, prezzo e profitto [1865], Editori Riuniti, Roma 2006, p. 82.

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pasti e lo incorpora, dove è possibile, nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore vien dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio alle macchine. Riduce il sonno sano che serve a raccogliere, rinnovare, rinfrescare le energie vitali, a tante ore di torpore quante ne rende indispensabili il ravvivamento di un organismo assolutamente esaurito. Qui non è la normale conservazione della forza-lavoro a determinare il limite della giornata lavorativa, ma, viceversa, è il massimo possibile dispendio giornaliero di forza-lavoro, per quanto morbosamente coatto e penoso, a determinare il limite del tempo di riposo dell’operaio. Il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro. Quel che gli interessa è unicamente e soltanto il massimo di forza-lavoro che può essere resa liquida in una giornata lavorativa»22.

Dunque, mentre gli intellettuali organici alla classe borghese proclamano trionfalisticamente che con la transizione al capitalismo la schiavitù è stata definitivamente spazzata via dalla storia, Marx, al contrario, scopre all’interno di quella stessa società l’esistenza di nuovi schiavi, di individui dichiarati formalmente liberi ma in realtà costretti perennemente a vendersi per poter sopravvivere23. Marx può così «riunire l’epoca storica precapitalistica e quella capitalistica: in entrambe le epoche l’uomo

22 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., pp. 300-301. 23 «Il lavoro non è sempre stato salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva il suo lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme col suo lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma il lavoro non è merce sua. Il servo della gleba vende una parte soltanto del suo lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra. L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al miglior offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè al capitalista. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera. L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo licenzia quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che si prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita del lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese, ma alla borghesia, alla classe borghese; ed è affar suo disporre di se stesso, cioè trovarsi in questa classe borghese un compratore»: K. Marx, Lavoro salariato e capitale, cit., pp. 20-21.

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non è libero»24. Ai suoi occhi l’avvento della modernità non rappresenta un momento di rottura con un violento e tetro passato ma rappresenta un’epoca in cui, in forma diversa, continua a dispiegarsi lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo25. L’elemento schiavistico che dà continuità all’avvicendarsi dei modi di produzione (antico, feudale, capitalistico) è definito da Marx «pluslavoro». «Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia questo proprietario bello e buono, cioè nobile ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista»26. In ogni epoca, quindi, la classe dominante vive del «pluslavoro» estorto ai dominati. Cambia la forma (schiavitù, servitù, lavoro salariato) ma non la sostanza: «solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato»27. Alla luce di tali scoperte, presente e passato costituiscono per Marx l’uno la diretta continuazione dell’altro. Proprio come «le lingue più sviluppate hanno in comune leggi e determinazioni con le meno sviluppate»28, nei passaggi dal modo di produzione antico a quello feudale e poi da questo a quello capitalistico vi sono degli elementi che trapassano invariati da un assetto all’altro. «Tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune»29 e

24 W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, Marietti, Genova 1987, p. 132. 25 «Al posto dello sfruttamento celato dalle illusioni religiose e politiche», la classe borghese «ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido»: K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 295. 26 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., pp. 269-270. 27 Ivi, p. 250. 28 K. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica [1857], a cura di M. Musto, Quodlibet, Macerata 2010, p. 13. 29 Ibidem

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alcune determinazioni risultano essere «comuni all’epoca più moderna e alla più antica»30. Tra queste vi è lo sfruttamento del lavoro umano, nelle differenti forme di schiavitù, servitù e lavoro salariato:

«La schiavitù è la prima forma dello sfruttamento, specifica del mondo antico; ad essa seguono la servitù della gleba medievale e il lavoro salariato dell’epoca moderna. Si tratta delle tre grandi forme del servaggio che caratterizzano le tre grandi epoche della civiltà; la schiavitù, prima manifesta poi occulta, le accompagna sempre»31.

L’età moderna, pertanto, si presenta agli occhi di Marx ancora come «preistoria della società umana»32, come epoca ancora carica di contraddizioni e di violenza, ancora macchiata dal dominio dell’uomo sull’uomo e dall’oppressione. Questa preistoria potrà dirsi conclusa quando «al posto della società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe» subentrerà «un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti»33. Ciò sarà possibile solo attraverso l’intervento dell’uomo: «la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del capitale avviene per l’uomo non dall’esterno, ma in quanto egli capisce la situazione storica, riconoscendo il suo intollerabile condizionamento. In tal modo egli viene sollecitato a mutare la propria situazione e ad assumere con consapevolezza la sua stessa storia. Che gli uomini divengano soggetti della storia, ossia aboliscano l’alienazione, è dunque qualcosa di condizionato dall’alienazione e, a questo riguardo, dal dato economico. Ma la liberazione in quanto tale può essere soltanto opera propria dell’uomo»34.

30 Ivi, pp. 13-14. 31 F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato [1884], Newton Compton, Roma 2006, pp. 208-209. 32 K. Marx, Prefazione, in Per la critica dell’economia politica [1859], Editori Riuniti, Roma 1969, p. 6. 33 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 314. 34 W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, cit., p. 136.

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Una «teoria dello sviluppo sociale di tipo dicotomico»

«La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi,

patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in

una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno

sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì

sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la

rovina comune delle classi in lotta».

Karl Marx, Friedrich Engels Manifesto del partito comunista [1848]

Marx, come sappiamo, mostra che la scomparsa delle antiche forme di schiavitù non implica l’estinzione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che tutta la storia umana «procede in uno stato di conflitto permanente»35. Fino ai giorni nostri la società si è sviluppata «nel quadro di un antagonismo che presso gli antichi era l’antagonismo tra liberi e schiavi, nel medioevo tra nobiltà e servi della gleba, e nell’età moderna è l’antagonismo tra borghesia e proletariato»36. In altre parole, se «per ben giudicare la produzione feudale è necessario considerarla come un modo di produzione fondato sull’antagonismo»37, allo stesso modo il capitalismo costituisce una «forma antagonistica del processo di produzione sociale»38. Poiché «lo sfruttamento di una parte della società per opera di un’altra è un fatto comune a tutti i secoli passati»39, in ogni epoca storica presa in esame è possibile rintracciare una «guerra degli

35 F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cit., p. 210. 36 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti [1846], Editori Riuniti, Roma 1969, p. 423. 37 K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla ‘Filosofia della miseria’ del signor Proudhon [1847], Rinascita, Roma 1949, p. 99. 38 K. Marx, Prefazione, in Per la critica dell’economia politica, cit., p. 6. 39 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 312.

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schiavi contro i loro asservitori»40, un conflitto rivoluzionario potenzialmente in grado di far avanzare la storia. In questo senso «le rivoluzioni sono le locomotive della storia»41. Queste battaglie «degli schiavi contro i loro asservitori», spesso «lasciate nell’oscurità e passate sotto il silenzio degli storici borghesi»42, vengono considerate da Marx come vere e proprie «locomotive» in grado di far progredire la storia. «È il lato cattivo» (costituito in ogni epoca dalle classi sottomesse) «a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta»43 che apre le possibilità per il passaggio ad una nuova forma di organizzazione sociale:

«Questa nuova interpretazione della storia fu della massima importanza. Essa dimostrò che, fino ad oggi, tutta la storia si muove in contrasti e lotte di classe, che sono sempre esistite classi dominanti e classi oppresse, classi sfruttatrici e classi sfruttate, e che la grande maggioranza degli uomini è sempre stata condannata a duro lavoro e scarso godimento. Perché tutto ciò? Semplicemente perché, in tutte le precedenti fasi di sviluppo dell’umanità, la produzione era ancora così poco sviluppata che lo sviluppo storico non poteva avvenire se non in questa forma di contrasti; e il progresso storico era in linea di massima affidato all’attività di una piccola minoranza privilegiata, mentre le grandi masse erano condannate a procurare col lavoro i mezzi per il loro misero sostentamento e inoltre quelli sempre più abbondanti per i privilegiati. Ma la stessa analisi della storia – che spiega in modo ragionevole e naturale il dominio di classe, mentre sinora era spiegabile soltanto con la cattiveria umana – porta anche alla convinzione che, grazie ai mezzi di produzione oggi aumentati in misura così colossale, è sparito fin l’ultimo pretesto per una divisione degli uomini in dominatori e dominati, in sfruttatori e sfruttati, per lo meno nei paesi più progrediti; e pure alla convinzione che la grande borghesia dominante ha compiuto la sua missione storica e non è più in grado di dirigere la società, ma è anzi diventata un ostacolo per lo sviluppo della produzione, come provato dalle crisi commerciali, particolarmente dall’ultimo grande crollo, e dalla depressione industriale in tutti i paesi; essa porta inoltre alla convinzione che la direzione storica è passata al proletariato, una classe che in virtù della sua posizione

40 K. Marx, La guerra civile in Francia [1871], in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p. 928. 41 K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 [1850], in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p. 458. 42 K. Marx, Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper», cit., p. 41. 43 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., pp. 98-99.

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sociale può liberarsi unicamente abolendo una volta per tutte qualsiasi dominio di classe, qualsiasi servitù e sfruttamento; e che le forze produttive della società, sfuggite al controllo della borghesia, attendono soltanto che il proletariato unito se ne impadronisca per creare una situazione in cui ad ogni membro della società sia possibile partecipare non solo alla produzione, ma anche alla distribuzione e all’amministrazione delle ricchezze sociali, e in cui le forze produttive sociali e il loro rendimento vengano talmente accresciute, attraverso la pianificazione dell’intera produzione, da assicurare ad ognuno in misura sempre crescente il soddisfacimento di tutti i bisogni ragionevoli»44.

Quella di Marx è stata definita una «teoria dello sviluppo sociale di tipo dicotomico»45 formulabile in questi termini: «nella ‘proprietà antica’, la dicotomia tra chi possiede la proprietà e chi ne è privo sussiste come polarità tra padroni e schiavi, mentre nella ‘proprietà feudale’ essa si incarna nelle due classi contrapposte dei signori e dei servi della gleba, che hanno in comune con la forma precedente l’antagonismo e l’assoggettamento a cui la classe dominante sottopone quella dominata, sfruttandone il lavoro. Infine, nella società capitalistica la divisione si ripropone nella forma di una dicotomia tra i capitalisti, che detengono i mezzi di produzione, e gli operai, che non hanno null’altro all’infuori delle loro braccia»46. Nel ricostruire la transizione dal modo di produzione feudale a quello capitalistico, Marx mostra come la borghesia, che fino ad allora aveva rappresentato il «lato cattivo» nell’ambito della società signorile, s’impose come nuova classe dominante sullo scenario storico:

«Il regime feudale del medioevo si basava sull’economia autosufficiente di piccole comunità contadine che producevano pressoché tutto ciò che ad esse occorreva, facendo quasi a meno di ogni scambio, e a cui la nobiltà agguerrita offriva protezione verso l’esterno e una coesione nazionale o per lo meno politica; quando, ancora nel medioevo, sorsero le città – e con esse una particolare industria artigiana e un traffico commerciale dapprima

44 F. Engels, Karl Marx, cit., pp. 21-22. 45 G. Bedeschi, Introduzione a Marx [1981], Laterza, Roma-Bari 2008, p. 100. 46 D. Fusaro, Marx e l’infuturamento della filosofia della storia di Hegel, in R. Mordacci (a cura di), Prospettive di filosofia della storia, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 149.

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interno e poi internazionale – la borghesia cittadina si sviluppò e si conquistò, lottando contro la nobiltà, ancora nel medioevo, l’immissione nell’ordinamento feudale come stato anch’esso privilegiato. Ma con la scoperta del mondo extraeuropeo, a partire dalla metà del XV secolo, questa borghesia ebbe un territorio commerciale più esteso e con ciò un nuovo impulso per la sua industria; nei suoi rami più importanti l’artigianato venne soppiantato dalla manifattura che assumeva già carattere di fabbrica, e questa a sua volta dalla grande industria, resa possibile con le invenzioni del secolo passato, particolarmente con quella della macchina a vapore; la grande industria ebbe a sua volta delle ripercussioni sul commercio soppiantando nei paesi arretrati il lavoro manuale d’una volta e creando in quelli più progrediti gli attuali mezzi di comunicazione: la macchina a vapore, le ferrovie, il telegrafo elettrico. In tal modo la borghesia concentrò sempre più nelle proprie mani le ricchezze sociali e il potere sociale, mentre per lungo tempo ancora rimase esclusa dal potere politico, il quale si trovava in mano alla nobiltà e alla monarchia che si appoggiava alla nobiltà. Ma arrivata a un certo punto – in Francia dopo la grande rivoluzione – essa conquistò anche il potere politico e divenne ora a sua volta classe dominante di fronte al proletariato e ai piccoli contadini»47.

Svolta la sua «missione storica», dunque, «da classe rivoluzionaria» la borghesia «diviene conservatrice»48, portando alla luce nuove contraddizioni che costituiscono «altrettante mine per farla saltare»49. Prima, tra queste, l’esistenza di «una classe che deve sopportare tutti i pesi della società», una classe che «forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada a fondo»50. Col tempo, infatti, diventa sempre più chiaro «che i rapporti di produzione entro i quali si muove la borghesia non

47 F. Engels, Karl Marx, cit., pp. 20-21. La borghesia ha avuto nella storia «una funzione sommamente rivoluzionaria»; unificando il globo e rendendo «cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi» essa ha mostrato di cosa l’attività umana sia possibile, realizzando «meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle cattedrali gotiche» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 295). In questo senso, «il Manifesto dei comunisti» è anche un «inno alla borghesia produttrice, creatrice di scienza, di tecnica, di ricchezza» (A. Gramsci, Sotto la mole 1916-1920, Einaudi, Torino 1975, p. 348). 48 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 99. 49 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [1857-1858], La Nuova Italia, Firenze 1969, vol. I, p. 101. 50 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., pp. 28-29.

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hanno un carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice; che negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza, si produce altresì la miseria; che entro gli stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produttive, si sviluppa anche una forza produttrice di repressione; che questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza di alcuni membri di questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato ognora crescente»51. La borghesia, «che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate»52. Le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione diventano nel tempo sempre più ingovernabili, fino al punto da aprire una fase rivoluzionaria e la possibilità di un passaggio ad un modo diverso di produrre e di esistere. A questo evento, come sappiamo, concorreranno due fattori: la spinta delle contraddizioni materiali e la lotta dei moderni schiavi contro i moderni sfruttatori, una lotta capace di «abbreviare e attenuare le doglie del parto»53 nel passaggio ad una società definitivamente giusta. In sintesi: lungi dal rappresentare il tempo storico della libertà pienamente ottenuta, l’era del capitalismo «ha soltanto creato nuove classi e con ciò nuove condizioni di sfruttamento e di oppressione»54. Nell’ambito dell’antagonismo moderno il ruolo di «lato cattivo» della storia passa dalla borghesia alla classe proletaria, che in Marx «appare come l’ultima classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti»55.

51 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 100. 52 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 297. 53 K. Marx, Prefazione alla prima edizione, in Il capitale. Libro I, cit., p. 33. 54 K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia [1949], Il Saggiatore, Milano 2010, p. 58. 55 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia [1940], in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p. 79.

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«Questa opera d’arte della storia moderna»

«Il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da

un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i

nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi

neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di

tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle

antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta

negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco».

Karl Marx, Il capitale. Libro I [1867]

Sulle cause storiche della nascita del capitalismo e della modernità disponiamo di diverse teorie. Per Dobb, ad esempio, tali cause sono ‘interne’, vale a dire che esse vanno ricercate nella progressiva introduzione in Inghilterra di nuovi metodi di sfruttamento del lavoro e delle risorse nel settore dell’agricoltura. Sweezy, invece, mostra come a determinare la transizione dal feudalesimo al capitalismo siano state soprattutto cause ‘esterne’, da lui individuate nell’accumulazione di ricchezza scaturente dal ‘commercio triangolare’ tra Europa, Africa e America poggiante sull’espropriazione colonialistica, lo schiavismo e il razzismo56. Al di là delle differenze, le diverse teorie collocano il sorgere del nuovo modo di produzione tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo: «se è vero che il capitalismo moderno, come noi lo conosciamo oggi, è diventato visibile, per così dire, in modo idealtipico e si è imposto come formazione economica dominante

56 Si vedano: P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico [1942], Einaudi, Torino 1951; M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo [1946], Editori Riuniti, Roma 1958; L. Pellicani, Saggio sulla genesi del capitalismo: alle origini della modernità, SugarCO, Milano 1988; J. Bidet, Teoria della modernità: Marx e il mercato [1990], Editori Riuniti, Roma 1992; A.R. Calabrò (a cura di), I caratteri della modernità: parlano i classici. Marx, Engels, Durkheim, Simmel, Weber, Elias, Liguori, Napoli 2004; J. Goody, Capitalismo e modernità. Il grande dibattito, Raffaello Cortina, Milano 2005.

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solo nel XIX secolo, è anche vero che esso è stato preparato nei secoli XVI, XVII e XVIII»57. Gli intellettuali organici alla classe borghese, spiega Marx, danno del capitalismo spiegazioni ideologiche, presentandolo come modo di produrre eterno e conforme a presunte leggi di natura razionali e immutabili58. L’accumulazione capitalistica, secondo questi pensatori, si sarebbe avviata a partire dal risparmio e dal sudore di un virtuoso gruppo di individui parsimoniosi, proprio come Robinson Crusoe, «il self-made-man» che «solo nella sua isola tropicale» avrebbe intrapreso «una vera e propria accumulazione originaria»59. Contro queste spiegazioni ideologiche e destoricizzanti, Marx ricostruisce la genesi del mondo moderno e mostra che, ben lungi dall’essere «secondo natura» ed eterno, «il processo di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del processo di produzione sociale»60. Il suo presupposto – l’esistenza dei due poli opposti di capitale e masse lavoratrici prive di tutto fuorché delle braccia per lavorare – è dunque un prodotto storico che deve essere spiegato, perché «delle fantasie sentimentali, in accordo con le quali il capitalista e l’operaio si associano, la storia non ne sa nulla»61. Nel capitalismo «debbono trovarsi di fronte, e mettersi in

57 O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, Massari, Bolsena 2005, p. 89. 58 «Dicendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più. C’è stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si trovano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni» (K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 98). «La legge dell’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura» esprime solo il fatto che «la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro» tale da «esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata» (Karl Marx, Il capitale. Libro I, cit., pp. 679-680). 59 L. Krader, Evoluzione, rivoluzione e Stato: Marx e il pensiero etnologico, in Storia del marxismo, 4 voll., I, Il Marxismo ai tempi di Marx, cit., p. 224. 60 K. Marx, Il capitale. Libro III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 931. 61 K. Marx, Forme di produzione precapitalistiche [1857-1858], Bompiani, Milano 2009, p. 221.

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contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba, né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica»62. Proletari e proprietari, dunque, possono incontrarsi sul mercato e scambiare senza apparenti costrizioni le loro merci (salario e lavoro) solo dopo che il capitalismo si è affermato storicamente come modo di produzione specifico. Per poter giungere a questo risultato occorreva perciò creare una massa di individui formalmente liberi ma nullatenenti costretti in quanto tali a vendere la propria forza-lavoro per poter sopravvivere. «Finché il lavoratore può accumulare per se stesso – e lo può finché rimane proprietario dei suoi mezzi di produzione – sono impossibili l’accumulazione capitalistica e il modo di produzione capitalistico»63. È quindi nella separazione del «libero» lavoratore dalle condizioni del suo lavoro e dai mezzi di sussistenza, nel distacco «fra le condizioni oggettive del lavoro e la forza lavorativa soggettiva» che deve essere individuato il «fondamento realmente dato, il punto di partenza del processo di produzione capitalistico»64 da cui non è possibile fare astrazione. Si tratta, com’è noto, di studiare il feroce processo di «accumulazione originaria del capitale, cioè la sua genesi storica»65, la fase di inaudita violenza esercitata contro i «produttori immediati», prima

62 Karl Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 778. 63 Ivi, p. 800. 64 Ivi, p. 625. 65 Ivi, p. 823. Si vedano anche: K. Marx, L’accumulazione originaria, Editori Riuniti, Roma 1991; J. Robinson, L’accumulazione del capitale [1958], Edizioni di comunità, Milano 1969; D. Sacchetto, Massimiliano Tomba, La lunga accumulazione originaria: politica e lavoro nel mercato mondiale, Ombre Corte, Verona 2008.

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espropriati dei mezzi di lavoro e di sussistenza e poi costretti in massa a vendere la propria forza-lavoro. «Quel che chiedeva il sistema capitalistico» nascente «era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale»66. Agli albori del XVI secolo Tommaso Moro scrisse: «le pecore, che di solito sono così docili e si nutrono di così poco, cominciano ad essere così voraci ed indomabili da mangiarsi financo gli uomini»67. Ricorrendo ad una tale immagine, l’umanista inglese testimoniò un fenomeno ben preciso. Quando nei mercati europei iniziò a verificarsi un aumento della richiesta dei manufatti in lana l’allevamento delle pecore divenne particolarmente redditizio. La lana rendeva molto più del grano, ragion per cui, al fine di introdurre l’allevamento, la nobiltà agraria inglese recintò abusivamente le terre comuni (incolte o coltivate in comune, demaniali, boschi, foreste, campi aperti per il pascolo, etc…) e cacciò servi e contadini che sempre avevano vissuto usufruendo dei terreni appartenenti alla comunità. Costoro si ritrovarono espropriati dei mezzi di sostentamento e senza lavoro, perché un solo guardiano era sufficiente per le terre tenute a pascolo che, se invece coltivate, avrebbero richiesto più braccia e più denaro. In Scozia, ad esempio, «per produrre la lana su vasta scala, era necessario trasformare i campi coltivabili in pascoli; per effettuare questa trasformazione, era necessario concentrare le proprietà; per concentrare le proprietà era necessario abolire le piccole tenute, cacciare migliaia di piccoli coltivatori dal loro paese natale e mettere al loro posto qualche pastore che sorvegliasse milioni di montoni»68. La «parola d’ordine fu: trasformare i campi in pascoli da pecore», spiega Marx; «le abitazioni dei contadini e i cottages degli operai agricoli vennero abbattuti con la violenza»; di «città e villaggi distrutti per farne pasture per le pecore, e dove rimangono solo ancora le case dei signori, potrei dire parecchio»69.

66 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., pp. 783-784. 67 T. Moro, L’Utopia [1516], Armando, Roma 2005, p. 21. 68 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 97. 69 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 782.

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Con l’espressione usata da Marx, «tantae molis erat il parto delle eterne leggi di natura del modo di produzione capitalistico, il portare a termine il processo di separazione fra lavoratori e condizioni di lavoro, il trasformare a un polo i mezzi sociali di produzione e di sussistenza in capitale, e il trasformare al polo opposto la massa popolare in operai salariati, in liberi poveri che lavorano»70. I due grandi presupposti necessari alla nascita del modo di produzione capitalistico, dunque, furono: 1) l’imporsi di una nuova prospettiva per cui il fine della produzione divenne la «valorizzazione del valore» fine a se stessa; 2) la separazione del lavoratore dalle condizioni oggettive di lavoro, «l’espropriazione della gran massa della popolazione, che viene privata della terra, dei mezzi di sussistenza e degli strumenti di lavoro [attraverso] tutt’una serie di metodi violenti»71. Separati brutalmente dalle terre e dalle proprietà comuni, i lavoratori si ritrovarono gettati «sul mercato del lavoro come proletariato eslege»72, ossia come uomini che, non disponendo di altre risorse all’infuori delle proprie braccia, per poter sopravvivere si ritrovarono costretti a vendersi ai nuovi proprietari dei mezzi di produzione. Senza «l’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre»73, dunque, il nuovo modo di produzione non sarebbe potuto nascere. «Il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà dei clan in proprietà privata moderna: ecco altrettanti metodi idillici dell’accumulazione originaria. Questi metodi conquistarono il campo all’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege»74.

70 Ivi, pp. 822-823. 71 Ivi, p. 824. 72 Ivi, p. 780. 73 Ivi, p. 780. 74 Ivi, p. 796.

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È in questo processo che deve essere colta storicamente la liberazione dei servi della gleba e la loro trasformazione in liberi individui che non potevano far nient’altro che vendersi a chi disponeva dei mezzi di produzione. Tale liberazione, infatti, implica non solo l’affrancamento dai vincoli feudali e dalla servitù ma anche la perdita dei mezzi di produzione e sussistenza, nonché l’abolizione delle garanzie per l’esistenza che al produttore feudale erano assicurate per legge dal suo status («la proprietà che la legge garantiva agli agricoltori impoveriti di una parte delle decime ecclesiastiche», ad esempio, «venne tacitamente confiscata»75). Pertanto, «il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco»76. Scacciati in massa dalla terra, espropriati dei mezzi di sussistenza e di lavoro ed essendo numericamente superiori rispetto a quanto la nascente manifattura poteva assorbire, molti individui si trasformarono in mendicanti e vagabondi. «Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione

75 Ivi, p. 785. 76 Ivi, p. 779.

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delle circostanze»77. Al fenomeno della mendicità si rispose con una «legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio»78. Ovunque non si fece altro che emettere «leggi fra il grottesco e il terroristico»79 che imponevano a chi era stato espropriato di tutto di sottomettersi «a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture»80, alla ferrea disciplina della schiavitù salariata81. La legislazione trattò i

77 Ivi, p. 797. 78 Ibidem 79 Ivi, p. 800. 80 Ibidem 81 In Inghilterra, sotto Enrico VIII (1491-1547), «i mendicanti vecchi e incapaci di lavorare ricevono una licenza di mendicità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e prigione. Debbono esser legati dietro a un carro e frustati finché il sangue scorra dal loro corpo; poi giurare solennemente di tornare al loro luogo di nascita oppure là dove hanno abitato gli ultimi tre anni e ‘mettersi al lavoro’». Se «un vagabondo viene colto sul fatto una seconda volta, la pena della frustata deve essere ripetuta e sarà reciso mezzo orecchio; alla terza ricaduta invece il vagabondo dev’essere considerato criminale indurito e nemico della comunità e giustiziato come tale» (Ivi, p. 798). Uno statuto di Edoardo VI (1537-1553) «ordina che se qualcuno rifiuta di lavorare dev’essere aggiudicato come schiavo alla persona che l’ha denunciato come fannullone. Il padrone deve nutrire il suo schiavo a pane e acqua, bevande deboli e scarti di carne a suo arbitrio. Ha il diritto di costringerlo a qualunque lavoro, anche al più ripugnante, con la frusta e con la catena. Se lo schiavo si allontana per 15 giorni, viene condannato alla schiavitù a vita e dev’essere bollato a fuoco sulla fronte o sulla guancia con la lettera S; se fugge per la terza volta, dev’essere giustiziato come traditore dello Stato. Il padrone lo può vendere, lasciare in eredità, affittarlo a terze persone come schiavo, alla stregua di ogni altro bene mobile o capo di bestiame. Se gli schiavi intraprendono qualcosa contro il padrone, anche in tal caso saranno giustiziati. I giudici di pace hanno il compito di far cercare e perseguire i bricconi, su denuncia. Se si trova che un vagabondo ha oziato per tre giorni, sarà portato al suo luogo di nascita, bollato a fuoco con ferro rovente con il segno V sul petto, e adoprato quivi, in catene, a pulire la strada o ad altri servizi. Se il vagabondo dà un luogo di nascita falso, rimarrà per punizione schiavo a vita di quel luogo, dei suoi abitanti o della sua corporazione, e sarà marchiato con una S. Tutte le persone hanno il diritto di togliere ai vagabondi i loro figlioli e di tenerli come apprendisti, i ragazzi fino ai 24 anni, le ragazze fino ai 20. Se scappano, dovranno essere schiavi, fino a quell’età, dei maestri artigiani che possono incatenarli, frustarli, ecc., ad arbitrio. Ogni padrone può metter al collo, alle braccia o alle gambe del suo schiavo un anello di ferro per poterlo conoscere meglio e per esserne più sicuro» (Ibidem). Con Elisabetta I (1533-1603) «i mendicanti senza licenza e di più di 14 anni di età debbono essere frustati duramente e bollati a fuoco al lobo dell’orecchio sinistro, se nessuno li vuol prendere a servizio per due anni; in caso di recidiva e quando siano al di sopra dei diciotto anni debbono esser.., giustiziati, se nessuno li vuol prendere a servizio per due anni; ma alla terza recidiva debbono essere giustiziati come traditori dello Stato, senza grazia» (Ivi, p. 799). Sotto Giacomo I (1566-1625), «una persona che va chiedendo in giro elemosina viene dichiarata briccone e vagabondo. I

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mendicanti «come delinquenti volontari e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti»82. Contestualmente, il progressivo sgretolamento delle antiche forme di assistenza (fino ad allora prestate dalle parrocchie e dalle comunità) concorse a svuotare le strade dalla massa di emarginati e a spingerli ad accettare il sistema del lavoro salariato83. In questa fase, a ben vedere, le masse lavoratrici sono in tutto e per tutto schiave dirette del capitale. «Non basta», infatti, «che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente»84. Occorre anche la violenza diretta, ragion per cui «la borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato […]. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria»85. Solo successivamente il

giudici di pace nelle Petty sessions sono autorizzati a farla frustare in pubblico e a incarcerarla, la prima volta per sei mesi, la seconda per due anni. Durante l’incarceramento sarà frustata quante volte e nella misura che i giudici di pace riterranno giusta... I vagabondi incorreggibili e pericolosi debbono essere bollati a fuoco con una R sulla spalla sinistra e messi ai lavori forzati; se vengono sorpresi ancora a mendicare, debbono essere giustiziati, senza grazia» (Ivi, pp. 799-800). «Leggi simili in Francia, dove alla metà del secolo XVII si era stabilito a Parigi un reame dei vagabondi (royaume des truands). Ancora nel primo periodo di Luigi XVI (ordinanza del 13 luglio 1777) ogni uomo di sana costituzione dai sedici ai sessant’anni, se era senza mezzi per vivere e senza esercizio di professione, doveva essere mandato in galera. Analogamente lo statuto di Carlo V dell’ottobre 1537 per i Paesi Bassi, il primo editto degli stati e delle città d’Olanda del 19 marzo 1614, il manifesto delle Province Unite del 25 giugno 1649, ecc. Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato» (Ivi, p. 800). 82 Ivi, p. 797. 83 La Poor Law, ad esempio, approvata in Inghilterra nel 1834, abolì ogni sovvenzione ed assistenza ai poveri imponendo condizioni di vita durissime. Il gran numero di nullatenenti generato dallo sfaldamento delle forme economiche tradizionali andò così a gonfiare quell’immenso «esercito industriale di riserva», un grande serbatoio cui gli imprenditori potevano ricorre qualora i dipendenti avessero elevato le proprie pretese salariali o si fossero coalizzati in una qualche forma di lotta. 84 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 800. 85 Ivi, pp. 800-801.

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capitalismo può iniziare a trasformare il mondo a propria immagine e somiglianza, generando un modo di esistere pienamente corrispondente alle sue esigenze. «Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione»86. Assuefatto dal capitalismo, il salariato non è più in grado di opporgli resistenza, vivendolo sempre più come destino inevitabile a cui non può sottrarsi. Solo dopo può venirgli concessa la libertà formale, libertà che gli intellettuali e gli storici organici alla classe borghese pongono invece ideologicamente come aspetto che contraddistinse il capitalismo fin dalle origini. Per rafforzare la tesi per cui fu l’asservimento diretto e non la sua dissoluzione alle origini del capitalismo, Marx ricostruisce anche la diffusione di altri fenomeni, tra cui la «strage erodiana degli innocenti». La cosiddetta «strage erodiana degli innocenti» consisteva nel rapimento di numerosi ragazzi costretti a lavorare nelle fabbriche in condizioni di schiavitù. «Molte e molte migliaia di queste creaturine derelitte, dai sette ai tredici o quattordici anni, vennero così spedite al nord. Era costume che il padrone (cioè il ladro di ragazzi) vestisse e nutrisse i suoi apprendisti e li alloggiasse in una casa degli apprendisti vicino alla fabbrica. Venivano nominati dei guardiani per sorvegliare il loro lavoro. Era interesse di questi aguzzini di far sgobbare i ragazzi fino all’estremo, perché la loro paga era in proporzione della quantità di prodotto che si poteva estorcere al ragazzo. La conseguenza di ciò fu naturalmente la crudeltà... In molti distretti industriali, specialmente del Lancashire, queste creature innocenti e prive d’amici, consegnate al padrone della fabbrica, venivano sottoposte alle torture più strazianti. Venivano affaticati a morte con gli eccessi di lavoro… venivano frustati, incatenati e torturati coi più squisiti raffinamenti di crudeltà; in molti casi venivano affamati fino a ridurli pelle e ossa, mentre la frusta li manteneva al lavoro... E in alcuni casi venivano perfino spinti al suicidio!... Le belle e romantiche vallate

86 Ivi, p. 800.

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del Derbyshire, del Nottinghamshire e del Lancashire, lontane dall’occhio del pubblico, divennero raccapriccianti deserti di tortura... e spesso di assassinio!... I profitti dei fabbricanti erano enormi. Ma questo non faceva che acuire la loro fame da lupi mannari, ed essi dettero inizio alla prassi del ‘lavoro notturno’, cioè dopo aver paralizzato col lavoro diurno un gruppo di braccia, ne tenevano pronto un altro gruppo per il lavoro notturno; il gruppo diurno entrava nei letti che il gruppo notturno aveva appena lasciato, e viceversa»87. «Gli inizi della fabbrica meccanizzata», dunque, «furono caratterizzati da atti tutt’altro che filantropici. I fanciulli erano mantenuti al lavoro a colpi di frusta; se ne fece un oggetto di traffico, e si stipularono contratti con gli orfanotrofi»88. Per sottolineare in maniera efficace la base terroristica e dispotica da cui sorse l’ordine moderno, Marx afferma che «il capitale viene al mondo grondante di sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro»89: 1. alle sue origini vi è «l’espropriazione della gran massa della

popolazione», compiuta «con il vandalismo più spietato e sotto la spinta delle passioni più infami, più sordide e meschinamente odiose»90; vi è l’asservimento diretto e brutale e non l’abolizione della servitù, come invece si legge nelle pagine degli storici borghesi, per i quali l’accumulazione originaria si sarebbe avviata a partire dal risparmio e dal sudore di un gruppo di individui virtuosi e parsimoniosi;

2. «man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di

87 Ivi, p. 821. 88 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 113. 89 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 823. 90 Ivi, pp. 824-825.

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valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio»91;

3. una volta autonoma, infine, «la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione» – tra lavoratori e proprietà dei mezzi di produzione – «ma la riproduce su scala sempre crescente»92.

Alla luce della sua genesi storica e del suo funzionamento logico si comprende come il rapporto capitalistico ad altro non corrisponda se non ad una continuazione dello sfruttamento del lavoro umano. «Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista», afferma Marx, «è stata la servitù del lavoratore. La sua continuazione è consistita in un cambiamento di forma di tale asservimento, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico»93. La teoria «al servizio della storia»

«Le forze produttive che si sviluppano nel

seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la

soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque

la preistoria della società umana».

Karl Marx Per la critica dell’economia politica [1859]

Intesa come critica radicale di una società che così com’è umilia anziché sviluppare l’umanità dei suoi membri, in Marx la teoria è «operante al servizio della storia»94. Essa non si limita ad interpretare il corso degli eventi ma pretende soprattutto di

91 Ivi, p. 800. 92 Ivi, p. 778. 93 Ivi, p. 779. 94 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p. 58.

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cambiarlo («non solo interpretare il mondo, ma trasformarlo e interpretarlo per trasformarlo»95), smascherando le forme dell’alienazione dell’uomo moderno individuandone le cause nell’attività produttiva della presente epoca della produzione. Marx, è stato fatto notare, sembra concepire una «filosofia universalistica della storia e della libertà»96. Telos della storia umana è l’edificazione di una nuova era («il regno della libertà»), che avrà inizio con la soppressione della proprietà privata (scopo esterno estraniante cui il lavoro umano è assoggettato), con l’istante storico in cui gli individui, fino a quel momento oggetti e prodotti della storia, si porranno come soggetti e produttori coscienti:

«Il comunismo in quanto effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però, in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo; la verace soluzione del conflitto fra esistenza e essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione. L’intero movimento della storia è, quindi, tanto il reale atto di generazione del comunismo – l’atto di nascita della sua empirica esistenza – quanto è, per la sua coscienza pensante, il movimento concepito e saputo del proprio divenire»97.

In quanto stadio del compimento, il comunismo è per Marx «il superamento della storia come si è svolta sino ad ora. Questa appare ora la preistoria in rapporto alla vera storia che deve cominciare con la società senza classi»98. Nel futuro viene quindi proiettato il pieno senso della storia, il riscatto di passato e

95 M. Löwy, Il giovane Marx [1970], Massari, Bolsena 2001, p. 32. 96 C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra idealismo e materialismo, Il Prato, Padova 2007, p. 29. 97 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p. 130. 98 W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, cit., p. 138.

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presente letti in continuità come epoche in cui si è dispiegato ininterrottamente lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel seguente brano Marx illustra la scansione dialettica dei «modi di produzione»99 (antico, feudale, capitalistico) che nel corso della storia si succedono caratterizzando le diverse formazioni economico-sociali:

«Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione

99 Per «modo di produzione» si intende «un’entità periodica». Il modo di produzione «non è la società nella sua totalità, ma la sua base economica, dove la base è collegata alla sovrastruttura della società. Non ci sono inoltre più modi di produzione all’interno di una data società, se non in periodi di transizione o di caos provocato dalla guerra, dalla conquista, dalla rivoluzione; analogamente una società è un tutto unitario, se non quando viene lacerata dagli stessi processi di trasformazione rivoluzionaria»: L. Krader, Evoluzione, rivoluzione e Stato: Marx e il pensiero etnologico, cit., p. 218.

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sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana»100.

Il movimento della storia raffigurato da Marx è un processo scandito dallo sviluppo delle forze produttive e dal conflitto tra queste e i rapporti di produzione, per cui mutando le prime mutano per via rivoluzionaria anche i secondi. Nella sua totalità, il decorso storico è un dirigersi verso un fine rispetto a cui tutta la storia fino a quel momento trascorsa assume l’aspetto di una lunga «preistoria» costituita da tappe preparatorie e transeunti. Il comunismo, a sua volta, sembra essere inteso non tanto quale stazione d’arrivo della storia umana ma come un suo necessario momento di rottura oltre il quale si pone l’ingresso nella vera storia:

«Il comunismo è, in quanto negazione della negazione, affermazione; perciò è il momento reale, e necessario per il prossimo svolgimento storico, dell’emancipazione e della riconquista dell’uomo. Il comunismo è la struttura necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro; ma il comunismo non è come tale la meta dello svolgimento storico»101.

La concezione di Marx della storia, come sappiamo, si basa sulla dimostrazione che la modernità non coincide con l’epoca della

100 K. Marx, Prefazione, in Per la critica dell’economia politica, cit., pp. 5-6. 101 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 140.

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libertà finalmente ottenuta (in essa, infatti, continua a sussistere tra gli uomini la massima disuguaglianza e dunque l’assenza di libertà) e sull’idea che esista un soggetto (il proletariato) che tramite il suo agire permette alla storia di poter avanzare. Più che un gruppo caratterizzabile con precisione sociologica, in Marx il proletariato rappresenta l’incarnazione dei dominati della modernità, l’«emblema della ‘miseria oggettiva’ creata dal capitalismo, cioè della separazione dei soggetti dalle condizioni materiali della propria realizzazione»102. Il capitalismo, infatti, non costituisce una totalità armonica ma un insieme dialettico che alberga al suo interno insanabili contraddizioni. Prima, fra queste, l’esistenza del proletariato, una classe sociale asservita e costretta a generare ricchezza di cui non può fruire e che esiste solo in funzione della logica di illimitata «valorizzazione del valore»103. Il lavoro, per questa classe, equivale alla creazione di proprietà per il capitalista, e la proprietà, per il capitalista, equivale al comando dispotico sul lavoro della classe proletaria. In questa totalità oppositiva ognuno dei due termini mantiene in vita il suo opposto ma mentre la classe proprietaria aspira ad avvilire il proletariato per conservare la proprietà privata il proletariato vuole distruggere la proprietà privata e, con essa, la sua condizione di proletariato; la prima classe mira a eliminare il conflitto conservando l’opposizione, la seconda (il «partito della distruzione», il lato negativo dell’antitesi, il soggetto in grado di far avanzare il processo storico ingaggiando la lotta) aspira ad annientare, insieme al conflitto, anche l’opposizione104.

102 E. Donaggio, P. Kammerer, Introduzione, in K. Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, cit., p. XIII. 103 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 185. 104 «La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezze, è costretta a mantenere in essere se stessa e con ciò il suo termine antitetico, il proletariato. Questo è il lato positivo dell’antitesi; la proprietà privata che ha in sé il suo appagamento. Invece il proletariato, come proletariato, è costretto a negare se stesso e con ciò il termine antitetico che lo condiziona e lo fa proletariato, e cioè la proprietà privata. Esso è il lato negativo della antitesi, la sua irrequietezza in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi. La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraniazione, sa che la estraniazione è la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di una esistenza umana; la seconda si sente annientata nell’estraniazione, vede in essa la sua impotenza e la realtà di

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La classe proletaria, spiega Marx, è «nell’abiezione la ribellione contro questa abiezione», ribellione cui è necessariamente spinta dalla disumana condizione cui è costretta. «L’uomo nel proletariato ha perduto se stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è stato spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa – dall’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione»105. Per emanciparsi dalla condizione di proletariato, in altre parole, il proletariato non può che intraprendere una lotta volta a sopprimere le cause che lo generano in quanto classe che nell’epoca moderna rappresenta «la perdita completa dell’uomo»106. In questa battaglia, pertanto, il proletariato non può emancipare se stesso senza emancipare «completamente l’uomo»107 cioè l’intera umanità: «nell’ora storica del mondo, che è la sua ora, la classe proletaria rappresenta tutto il genere umano. L’alienazione è divenuta totale, e quando la classe del proletariato abolisce la propria alienazione, allora essa, in quanto rappresentante dell’alienazione totale, abolisce l’alienazione in generale e così la divisione in classi in quanto tale»108.

una esistenza non umana. Essa, per usare un’espressione di Hegel, è nell’abiezione la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita e che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura. In seno all’antitesi, dunque, il proprietario privato è il partito della conservazione, ed il proletariato il partito della distruzione. Il primo lavora alla conservazione dell’antitesi, il secondo alla sua distruzione»: K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia. Ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e consorti [1845], in Id., Opere scelte, cit., pp. 165-166. 105 Ivi, pp. 166-167. 106 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, cit., p. 70. 107 Ibidem 108 W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, Marietti, cit., p. 137.

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La modernità, come sappiamo, è letta da Marx come un’ulteriore tappa di una lunga preistoria ancora macchiata dal dominio dell’uomo sull’uomo, dall’oppressione sociale e dall’assenza di libertà. A differenza di Hegel, è stato fatto notare, il movimento storico in Marx è «aperto nelle sue conclusioni, e il suo intento di fondo è sovversivo, non conciliativo»109. Per Hegel «si trattava di giustificare e di mantenere, per mezzo della sua dialettica, come in ultima istanza razionali, i rapporti di potere e di proprietà dominanti. Utilizzando la stessa dialettica, Marx voleva dimostrare il carattere transitorio e fragile dello status quo, ma soprattutto la necessità e l’inevitabilità di un futuro perfetto»110. Quella di Hegel, com’è noto, è una metafisica della libertà: «la libertà ne è infatti il filo conduttore, dalla libertà di uno solo (antico Oriente), alla libertà di pochi (mondo antico greco-romano), fino alla libertà di tutti (mondo moderno protestante caratterizzato dal libero esame religioso e dallo stato etico)»111. La triade hegeliana, composta dalla successione della libertà di uno, poi di pochi e infine di tutti, si capovolge in triade marxiana, che «mette in scena sul palcoscenico della storia prima la dipendenza personale (società variamente precapitalistiche), poi l’indipendenza personale (società borghese-capitalistica), ed infine la libera individualità, che è la sua connotazione antropologica della futura società comunista»112. L’età del capitalismo, in questa triade, costituisce lo stadio caratterizzato da una forma di «indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale», una fase cioè in cui «il nesso sociale degli individui si presenta come un nesso solo materiale, al quale essi sono subordinati restando tra loro nella reciproca indifferenza»113. Nel contesto di questa «indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale» gli individui risultano «liberi»

109 I. Mészáros, Marx «filosofo», in Storia del marxismo, 4 voll., I, Il Marxismo ai tempi di Marx, cit., p. 147. 110 O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, cit., p. 24. 111 C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra idealismo e materialismo, cit., p. 26. 112 Ivi, pp. 27-28. 113 G.A. Di Marco, Dalla soggezione all’emancipazione umana. Proletariato, individuo sociale, libera individualità in Karl Marx, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 50.

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nel senso di reciprocamente indifferenti, ma in realtà sono materialmente assoggettati ai meccanismi di una logica riproduttiva che essi non governano affatto114. La libertà che si considera conquistata nell’era del capitalismo (lo stadio storico caratterizzato da una forma di «indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale») è perciò illusoria, essendo gli uomini in balìa di dinamiche impersonali ed autoreferenziali, di forze prodotte dagli uomini stessi che «si sono staccate e oggettivate»115 ed hanno preso a condurre un’esistenza autonoma:

«I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambiente ristretto e in punti isolati [modi di produzione antico e feudale]. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità [modo di produzione capitalistico]. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio [comunismo]. Il secondo crea le condizioni del terzo»116.

114 «Ogni cosa oggi sembra portare in se stessa la sua contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo trasforma le nuove sorgenti della ricchezza in fonti di miseria. Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Sembra che l’uomo, nella misura in cui assoggetta la natura, si assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso istupidire la vita umana, riducendola ad una forza materiale»: K. Marx, Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper», cit., p. 40. 115 L’età del capitalismo, da questo punto di vista, è «ancora preistoria umana, cioè, non è una storia costruita in modo consapevole. Essa presenta la umana autoalienazione in forme diverse e diversamente violente, è in gran parte ancora ‘natura’ nel significato hegeliano, nel senso di un essere-esterno-a-se-stesso, in cui le forze prodotte dall’uomo, ma non comprese come tali, si sono staccate e oggettivate. Per cui esse appaiono come destino ineluttabile, e lo sono infatti nella storia sino ad ora trascorsa»: E. Bloch, Estratti da «Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel», in Id., Dialettica e speranza, a cura di L. Sichirollo, Vallecchi, Firenze 1967, p. 163. 116 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, pp. 98-99.

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Il «terzo stadio», che emergerà dal superamento delle contraddizioni che dilaniano il secondo, coincide con l’epoca del pieno e libero sviluppo delle capacità umane. In questo senso, «la filosofia della storia di Marx è la tendenza dell’umanità alla realizzazione dell’uomo totale»117, risultato nei confronti del quale passato e presente si configurano come forme transitorie e strutturalmente in tensione verso l’avvenire. Per Marx, infatti, «il processo storico è tutt’altro che una semplice concatenazione causale che da un passato morto conduce a un oscuro futuro; la storia dell’umanità gli sembra essere piuttosto una risoluta totalità che racchiude passato e futuro in una unità vivente, in cui ogni precedente stadio di sviluppo contiene già ‘organicamente’ in sé il futuro»118. Il presente, da questa prospettiva, è inteso come «porta verso il futuro» e il futuro, a sua volta, come «il compimento e il completamento di tutto il passato»119. Intesa quale luogo di emancipazione universalistica, la storia è in Marx un processo orientato verso «un fine ultimo dotato di senso»120: «il vero regno della libertà», dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna e comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso. Questo stadio, tuttavia, può fiorire solo sulle basi del «regno della necessità», luogo ancora carico di contraddizioni e di violenza:

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in

117 L. Goldmann, Dibattito con Lucien Sebag (sui manoscritti del 1844), aprile 1962, ora in S. Naïr, M. Lowy, Goldmann, Erre Emme, Roma 1990, p. 116. 118 O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, cit., p. 25. 119 Ivi, p. 27. 120 K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, cit., p. 65.

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questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità»121.

Per questa ragione, anziché dipingere immagini astratte sul futuro o prescrivere «ricette per l’osteria dell’avvenire»122, Marx si propone soprattutto di «svelare la legge economica del movimento della società moderna»123, nella convinzione che «solo lo studio paziente delle fondamenta economiche del sistema di dominio borghese crea le condizioni teoriche per poterlo rovesciare praticamente»124.

121 K. Marx, Il capitale. Libro III, cit., p. 933. 122 K. Marx, Poscritto alla seconda edizione, in Il capitale. Libro I, cit., p. 42. 123 K. Marx, Prefazione alla prima edizione, in Il capitale. Libro I, cit., p. 33. 124 O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, cit., p. 88.