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PERCORSI - · PDF file– Pietro Ciucci, ... – Francesco Antonio Musolino, prefetto di Reggio ... Spa, Enel Spa, Falck Spa, Impregilo Spa, Terna Spa e Sorgenia Spa

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PERCORSI

I lettori che desiderano informarsisui libri e sull’insieme delle attività

della Società editrice il Mulinopossono consultare il sito Internet:

www.mulino.it

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO

ITALIADECIDE

RAPPORTO 2009

Infrastrutture e territorio

ISBN 978-88-15-13453-0

Copyright © 2009 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i di-ritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsia-si forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INFRASTRUTTURE E TERRITORIO

Premessa. Perché le infrastrutture p. 9

Parte prima: I problemi

I. I dati quantitativi del gap infrastrutturale italiano 17

II. Le cause di contesto che ostacolano la rea- lizzazione delle infrastrutture 27

III. I principali problemi specifici del settore delle infrastrutture 45

Parte seconda: Le possibili soluzioni

IV. Governare il territorio 61

V. Gli interventi specifici nel settore delle in- frastrutture di interesse nazionale 81

VI. Conclusioni 115

INDICE

5

6

LE RELAZIONI DEI GRUPPI DI LAVORO

1. Relazione sulla realizzazione delle infra- strutture in Italia p. 129

2. Questioni di governance 149

3. Decisione economico-finanziaria pubblica e spesa per investimenti in grandi infrastrut-

ture 161

4. Partecipazione popolare, progettazione ed esecuzione di grandi infrastrutture 187

5. Politiche infrastrutturali e Pubblica ammi- nistrazione: il ruolo della dirigenza 223

6. Infrastrutture e legalità: il contenzioso am- ministrativo e altri controlli giurisdizionali 269

APPENDICE

Documento della Società Geografica Italiana Onlus 305

INFRASTRUTTURE E TERRITORIO

Il problema delle grandi infrastrutture di interesse nazionale è stato scelto come primo argomento di lavoro dall’Associazione Italiadecide per una serie di ragioni che ne fanno il tema di maggiore portata per un’analisi dei processi di governo nel medio e lungo periodo in questa fase storica:

a) la carenza di un’adeguata dotazione infrastrutturale costituisce uno dei più gravi handicap competitivi del no-stro paese;

b) le grandi infrastrutture richiedono l’impegno di in-genti risorse pubbliche per lunghi periodi di tempo; esse si intrecciano perciò all’altra grande questione nazionale di questa fase storica, costituita dall’esigenza di rientrare dagli attuali livelli di debito pubblico nell’ambito della di-sciplina fiscale connessa alla moneta unica europea;

c) la realizzazione delle grandi infrastrutture impegna un vasto arco di poteri pubblici e privati, forse il più am-pio in assoluto, e si intreccia con il compimento del fede-ralismo;

d ) la questione infrastrutturale rivela le vecchie e nuove fratture che attraversano il paese (in termini di tasso di legalità, esternalità negative e positive alla realiz-zazione delle opere, dotazione di capitale sociale) e allo stesso tempo rappresenta un passaggio obbligato per qualsiasi strategia di riduzione di questi divari;

e) si tratta di un settore attraversato da almeno un quarto di secolo da un intensissimo flusso di interventi regolatorii, su impulso interno ed europeo; le troppo fre-quenti riforme delle procedure riguardanti ogni fase della realizzazione delle infrastrutture (finanziamento, localizza-zione, appalti, contenzioso) non hanno portato a risultati apprezzabili, ma hanno prodotto una continua destabiliz-

PREMESSA

PERCHÉ LE INFRASTRUTTURE

9

10

zazione normativa, cui ha fatto seguito una parallela de-responsabilizzazione di pubbliche istituzioni e di imprese private.

Articolazione dei gruppi di ricerca e metodo di lavoro

Il Rapporto si sviluppa sulla base di sei ricerche volte sia a individuare gli ostacoli materiali e procedurali che impediscono la progettazione e la realizzazione delle grandi opere pubbliche, sia a delineare i possibili rimedi.

Le sei relazioni, pubblicate nella sezione intitolata Le relazioni dei gruppi di lavoro, sono le seguenti:

1) Relazione sulla realizzazione delle infrastrutture in Italia

Direttori: Giuliano Amato, Vincenzo Cerulli Irelli, Paolo Urbani

Ricercatori: Mariangela Di Giandomenico, Michele Ferrante, Angelo Lalli, Gabriele Mazzantini.

2) Questioni di governanceDirettore: Alessandro CampiRicercatori: Alessia Damonte, Luigi Di Gregorio.3) Decisione economico-finanziaria pubblica e spesa per

investimenti in grandi infrastruttureDirettori: Paolo De Ioanna, Pier Carlo PadoanRicercatori: Nicola Curci, Sonja Levstik, Sergio Nico-

letti Altimari.4) Partecipazione popolare, progettazione ed esecuzione

di grandi infrastruttureDirettore: Massimo LucianiRicercatori: Piermassimo Chirulli, Massimo Togna.5) Politiche infrastrutturali e Pubblica amministrazione:

il ruolo della dirigenzaDirettore: Angelo Maria PetroniRicercatori: Luigi Fiorentino, Alberto Vannucci.6) Infrastrutture e legalità: il contenzioso amministra-

tivo e altri controlli giurisdizionaliDirettore: Nicolò ZanonRicercatori: Francesca Biondi, Giuseppe Arconzo.

11

La Società Geografica Italiana Onlus ha predisposto, a seguito della sua audizione da parte dei gruppi di ricerca, un proprio contributo che è riportato in Appendice al volume.

Nell’ambito dell’Amministrazione della Camera dei deputati, ai fini della redazione del Rapporto, è stato costituito, sotto la direzione del vice segretario generale competente per le attività di documentazione Alessandro Palanza, un Comitato di redazione. Il Comitato di reda-zione è costituito da: Giovanni Rizzoni (coordinatore); Si-monetta Bigazzi; Elisa Guarducci; Adele Magro; Sabrina Petrucci; Enrico Seta; Paolo Visca.

Alla documentazione allegata hanno inoltre contri-buito il Servizio studi, il Servizio biblioteca, l’Ufficio rap-porti con l’Unione europea e il Servizio commissioni.

Audizioni

L’Associazione Italiadecide e i gruppi di ricerca hanno inoltre ascoltato, per l’approfondimento dei temi legati alla loro attività, esponenti di vertice della Pubblica am-ministrazione, del mondo accademico, delle autonomie territoriali, delle principali società operanti in materia di infrastrutture. In particolare nel corso dello studio sono stati auditi:

– Giuseppe Amoroso, capo Dipartimento per le po-litiche del personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie; ministero dell’Interno;

– Antonio Bargone, presidente Società Autostrada Tirrenica;

– Guido Bertolaso, sottosegretario di Stato, direttore Dipartimento protezione civile della presidenza del Con-siglio;

– Andrea Bianchi, capo Dipartimento per la regola-zione del mercato; ministero dello sviluppo economico;

– Aldo Bonomi, sociologo e direttore Consorzio A.A.Ster;

– Paolo Buzzetti, presidente Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance);

12

– Ennio Cascetta, assessore ai trasporti e viabilità della Regione Campania;

– Giovanni Castellucci, Amministratore delegato Au-tostrade Spa;

– Attilio Celant, professore ordinario di Geografia Economica Università degli studi di Roma «La Sapienza»;

– Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, presidente f.f. dell’Anci;

– Pietro Ciucci, presidente Anas Spa;– Fulvio Conti, Amministratore delegato Enel Spa;– Alessandra Dal Verme, ispettore generale capo;

Ispettorato per gli affari economici; Ragioneria generale dello Stato; ministero dell’Economia;

– Luigi Giampaolino, presidente dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forni-ture;

– Aldo Mancurti, capo Dipartimento per le politiche dello sviluppo; ministero dello Sviluppo economico;

– Maria Mautone, professore ordinario di Geografia, Università di Napoli «Federico II»;

– Mauro Moretti, Amministratore delegato Ferrovie dello Stato Spa;

– Francesco Antonio Musolino, prefetto di Reggio Calabria;

– Carlo Olmo, professore ordinario di Storia dell’ar-chitettura, Politecnico di Torino;

– Paolo Padoin, prefetto di Torino;– Giuseppe Procaccini, capo di Gabinetto ministero

dell’Interno;– Franco Salvatori, presidente Società Geografica Ita-

liana;– Carlo Schilardi, prefetto di Bari; – Emilio Signorini, direttore Servizio centrale di se-

greteria del Cipe; capo dipartimento per la programma-zione e il coordinamento della politica economica presso la presidenza del Consiglio dei ministri;

– Giuseppe Zamberletti, presidente Istituto Grandi Infrastrutture (Igi).

13

Seminario di approfondimento

Nel corso dello studio si è tenuto un seminario di approfondimento con gli imprenditori, cui hanno parte-cipato amministratori e dirigenti di Apinovaenergia Srl, Autocamionabile della Cisa Spa, Autostrade Spa, Edison Spa, Enel Spa, Falck Spa, Impregilo Spa, Terna Spa e Sorgenia Spa

Il Comitato di redazione si è inoltre avvalso dei con-tributi di:

– Giovanni Barbieri, direttore centrale per le esigenze degli utilizzatori, integrazione e territorio dell’Istat;

– Gaetano Fontana, direttore generale dell’Ance;– Ercole Incalza, capo della Struttura tecnica di mis-

sione del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti;– Federico Titomanlio, Segretario generale Istituto

Grandi Infrastrutture (Igi).

Il Rapporto intermedio

Il Rapporto è stato presentato, in una versione inter-media, il 21 aprile 2009, nel corso di un incontro con i maggiori esperti, pubblici e privati, in materia di infra-strutture, cui hanno partecipato ministri, vertici delle ma-gistrature e della Pubblica amministrazione, rappresen-tanti delle Autonomie territoriali, i vertici di Autorità am-ministrative indipendenti, nonché esponenti del sistema creditizio e imprenditoriale.

PARTE PRIMA

I PROBLEMI

1. Il gap infrastrutturale

Uno dei più gravi handicap competitivi per l’Italia è rappresentato dal ritardo infrastrutturale.

In base alla classifica stilata dal World Economic Fo-rum per il 2008-2009, tra 134 ordinamenti, l’Italia si si-tua al 54o posto nel comparto delle infrastrutture. Inoltre, con riferimento specifico alla qualità infrastrutturale, il nostro paese scende addirittura al 73o posto, ben lontano sia dalla Germania e dalla Francia (che ricoprono, rispet-tivamente, il terzo e il quarto posto), che da paesi quali la Spagna, la Grecia o l’Irlanda.

Il distacco non sembra diminuire nel corso degli anni; anzi, è visibile un progressivo peggioramento e una cre-scente divaricazione tra la situazione italiana e quella de-gli altri principali Stati comunitari. La Spagna, ad esem-pio, partendo da una situazione di ritardo infrastrutturale rispetto al nostro paese, impegnandosi duramente nel corso dell’ultimo decennio, è riuscita a sopravanzarci di ben trentadue posizioni.

Nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea Ordinaria dei partecipanti (29 maggio 2009) si sottolinea che «Il divario tra la dota-zione infrastrutturale dell’Italia e quella media degli altri principali paesi dell’Unione europea è più che triplicato negli ultimi vent’anni».

L’inadeguatezza della nostra dotazione infrastrutturale incide gravemente sull’efficienza del sistema dei trasporti, proprio quando quest’ultimo, per effetto della rivoluzione logistica e dell’introduzione su vasta scala dell’informatica e della telematica, assume un ruolo decisivo nella com-petizione tra territori. Basti pensare, come emerge dal

CAPITOLO PRIMO

I DATI QUANTITATIVI DEL GAP INFRASTRUTTURALE ITALIANO

17

18

Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) 2009-2013, che la produzione industriale italiana nel 2007 è stata pari a 903,8 miliardi di euro: l’incidenza del trasporto e della logistica su tale valore è pari al 20-22%, cioè pari a 186 miliardi di euro. Qualsiasi miglio-ramento in tale settore è quindi in grado di incidere in modo significativo sul costo complessivo della produ-zione, per non parlare dei tempi.

TAB. 1. Livello di dotazioni di infrastrutture in rapporto al Pil

Paesi Trasporti

1985 1999 2005

LussemburgoOlandaBelgioGermaniaRegno UnitoFranciaItaliaDanimarcaSpagnaPortogallo

Cee

268,1244,7203,6163,1152119105,180,571,147,1

100

273260224,7226210187109,610794,751,8

100

290282240,2261245,320212011913168

100

Numeri indici Ce = 100.

Fonte: Dpef 2009-2013 – Allegato Infrastrutture.

Il ritardo infrastrutturale, almeno negli ultimi anni, non deriva da una carenza di risorse. Dal 2005 al 2008 si sono spesi in Italia, in opere del genio civile, circa 169 miliardi di euro, poco meno della Francia (circa 179 mi-liardi) e della Germania (circa 189 miliardi), mentre solo la Spagna ha investito significativamente di più (218 mi-liardi circa).

Ma l’Italia mostra una particolarità: investiamo molto in manutenzione straordinaria, anziché in nuove opere. Solo il 46% degli investimenti in opere del genio ci-vile del 2006 è andato per opere di nuova realizzazione, contro il 60% della Germania, il 67,5% della Francia e l’82,2% della Spagna.

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20

Un elemento innovativo è costituito dal crescente ri-corso, negli anni recenti, allo strumento del Partenariato pubblico e privato (Ppp) per la realizzazione delle opere pubbliche. In particolare, dal 2005, si è ricorsi al Ppp per circa il 20% delle opere pubbliche in Italia; la maggiore utilizzazione è venuta dagli Enti locali per il reperimento di finanziamenti per opere di carattere locale, importanti, ma prive di carattere strategico.

Secondo i dati Ance, dal 2003 al 2008 sono state ban-dite 1.950 gare in project financing per un importo com-plessivo di 26.695 milioni di euro, di cui 16.489 milioni per gare a iniziativa del promotore e 10.205 milioni per gare a iniziativa pubblica.

Nello stesso periodo sono state aggiudicate 1.033 opere di finanza di progetto per un importo totale di 17.581 milioni di euro, di cui 11.800 per gare su proposta del promotore e 5.781 milioni di euro per gare a iniziativa pubblica.

Per quanto concerne i soggetti concedenti, gli Enti lo-cali continuano, nel 2008, a rivestire un’assoluta predomi-nanza sia per numero di gare pubblicate (90%), che per importo (53%).

Le categorie di opere maggiormente aggiudicate per le gare a iniziativa privata sono stati i cimiteri (22), per un valore medio di 7,6 milioni di euro, seguiti da inter-venti di impiantistica varia (21, per un valore medio di 2 milioni), da impianti sportivi (15, per un valore medio di 6 milioni di euro) e da parcheggi (14, per un importo medio di 5 milioni di euro).

Per quanto riguarda gli indicatori di utilizzo delle in-frastrutture, si osserva che in Italia insistono su ogni chi-lometro di autostrada oltre 53 mila vetture contro le 37 mila della media europea (meno di 18 mila in Spagna).

Le infrastrutture ferroviarie, invece, hanno un grado di utilizzazione non differente dalla media europea; ma nel 2007 l’Italia disponeva di 16.667 km di rete ferroviaria, solo il 4% in più di quelli presenti nel 1970, mentre, nello stesso periodo, il numero dei passeggeri è aumentato più del 50%1.

1 Ance, Secondo Rapporto sulle Infrastrutture in Italia, 2009.

21

Le differenze tornano a essere significative se si guarda alla quota servita dall’Alta velocità e al suo ef-fettivo utilizzo. Se, infatti, l’Italia si pone in linea con la dotazione media europea, – circa il 3,5% della linea è ad alta velocità sul totale –, si colloca invece abbondan-temente sotto come utilizzo, visto che solo il 19% dei passeggeri totali usufruisce di questo servizio, contro il 23,4% della media europea, il 38,3% della Spagna e il 57,2% della Francia.

TAB. 3. L’alta velocità in Europa 1990-2007 (km)

Be De Es Fr It Uk Eu

2007 120 1.300 1.552 1.893 580 113 5.4272006 120 1.291 1.225 1.573 562 74 4.7712005 120 1.202 1.043 1.573 468 74 4.4062004 120 1.202 1.021 1.573 248 74 4.1642003 120 875 1.021 1.573 248 74 3.8372002 120 833 471 1.573 248 – 3.2452001 58 636 471 1.573 248 – 2.9862000 58 636 471 1.278 248 – 2.6911990 – 90 – 699 224 – 1.013

Fonte: Elaborazione Cresme su dati Dg Energy and Transport, Ferrovie dello Stato.

Un altro dato sul quale occorre riflettere, riguarda il forte congestionamento della nostra rete autostradale e ferroviaria, che originariamente non era stata progettata per sopportare l’attuale intensità di traffico; di qui le co-stanti interruzioni per lavori di manutenzione che provo-cano rallentamenti e, in qualche caso, prolungate paralisi dello scorrimento.

Un ragionamento analogo può essere proposto per quanto riguarda le infrastrutture per il trasporto marit-timo, uno dei comparti più vivaci in termini di domanda, che però non viene adeguatamente supportato dall’offerta di infrastrutture portuali. Secondo una recente ricerca condotta dal gruppo Intesa-San Paolo, pur essendo l’Italia il secondo paese europeo per traffico merci, il suo princi-pale porto commerciale, quello di Taranto, si colloca al-

22

l’undicesimo posto, con un traffico annuo pari a un de-cimo di quello veicolato dal porto di Rotterdam. Secondo il citato rapporto Ance, negli ultimi 5 anni, tutti i porti italiani, tranne Trieste, hanno conseguito una crescita tra le più basse del Continente.

Quanto al sistema aeroportuale, da più parti si segnala la mancanza di un piano di integrazione tra i diversi scali nazionali e di politiche di sviluppo coordinate: se da una parte, infatti, il traffico di passeggeri soffre della mancanza di aeroporti di grandezza medio-piccola ed è caratterizzato da scarsi collegamenti con i tessuti urbani, dall’altra, il traf-fico merci risulta sottodimensionato rispetto ai principali paesi europei, nonostante l’Italia sia il paese che, per il periodo che va dal 2000 al 2007, ha registrato il maggior incremento dei traffici (+53%). Sempre il rapporto Ance mostra, per quanto riguarda il trasporto passeggeri, che l’Italia presenta un numero di aeroporti di medio-grandi dimensioni in linea con i partner europei: gli hub con un traffico passeggeri superiore a 5 milioni sono 8, inferiori a quelli del Regno Unito (13) ma superiori a quelli di Francia (6) e in linea con quelli di Germania e Spagna (9).

Secondo una recente indagine di Unioncamere (agosto 2008), nel nostro paese sono presenti solo 230 km di rete metropolitana (di cui 75 a Milano, 52 a Napoli, 38 a Roma e 39 a Palermo). Negli altri paesi europei, la sola Madrid ne ha 310, Parigi 213, Berlino 152, Stoccolma 100, Barcellona 105, per non parlare dei 408 km di Londra.

TAB. 4. Indicatori di utilizzo delle reti metropolitane di alcune grandi città mon-diali (2006)

Traffico medio giornaliero(milioni di passeggeri)

Densità(1.000 passeggeri/km)

Tokyo 7,80 26,62Mosca 6,80 23,29Parigi 4,50 21,13Roma 0,75 19,74New York 5,08 13,79Milano 0,82 11,02Londra 3,00 7,35Madrid 1,68 5,44

23

TAB. 5. Spostamenti con mezzi pubblici/privati nelle principali aree metropolitane europee

Spostamenti mezzi privati (%)

Spostamenti mezzi pubblici (%)

Madrid 46 54Barcellona 56,9 43,1Londra 66 34Vienna 70 30Parigi 71 29Milano 72 28Roma 75,5 24,5

2. I costi della Tav

La costruzione della Tav ha comportato i costi per chilometro più alti d’Europa (dai 20,3 ai 96,4 milioni a chilometro a seconda delle tratte, contro i 10,2 della Francia e i 9,8 della Spagna). A titolo di esempio, se-condo i dati forniti da Ferrovie dello Stato Spa, il costo chilometrico della Napoli-Salerno sarebbe di 11 milioni di euro, della Bologna-Firenze di 68, della Torino-Milano di 54 e della Roma-Napoli di 24.

Si ricorda che gli extra costi non sembrano dovuti allo svolgimento di lavori accessori (opere civili o ferroviarie di collegamento), che sono in linea con quelli degli altri paesi, né alla complessità orografica del territorio, ma alla necessità di costose compensazioni per ottenere l’assenso delle comunità locali in sede di conferenza di servizi e al-l’incapacità di svolgere una funzione di programmazione e definizione delle priorità.

In Francia, ad esempio, le comunità locali, a partire dalle regioni, partecipano al finanziamento del progetto in misura significativa: forse proprio questa partecipa-zione degli Enti locali in veste di finanziatori contribuisce alla moderazione delle spese. Un ulteriore fattore di in-cremento dei costi – ma anche di rallentamento nella rea-lizzazione delle opere – riguarda le frequenti modifiche della normativa, anche tecnica, che costringe a continui aggiornamenti dei progetti in corso d’opera.

24

3. I costi delle autostrade

Le cose non migliorano se si passa ad analizzare il di-vario di costo di realizzazione delle infrastrutture stradali. Da una stima basata sui chilometri realizzati di autostrade e sui relativi investimenti prodotti, emergerebbe per la Spagna un costo sostenuto per chilometro di autostrada pari a 14,6 milioni di euro2.

Dai dati disponibili per le nostre opere autostradali a uno stadio più avanzato di realizzazione, invece, il costo medio per la realizzazione di un chilometro di autostrada ammonterebbe a circa 32 milioni di euro, riproponendo lo stesso divario registrato nel caso dell’Alta velocità.

Non stupisce, quindi, che mentre in Spagna sono en-trati in esercizio nel periodo 2000-2005 oltre 2.300 chilo-metri di autostrade, in Italia nello stesso periodo il parco autostradale si è accresciuto di soli 64 chilometri.

Per rendersi conto dell’entità di tali fenomeni, un’in-dagine svolta dall’Associazione dei costruttori edili (Ance) mostra come, nel settore delle autostrade, gli incrementi medi dei valori di aggiudicazione si collocano intorno al 15% e sono in grado di far riassorbire circa il 64% dei risparmi conseguiti con i ribassi d’asta, segnalando ap-punto come esistano gravi insufficienze nel disegno delle gare, che consentono forti ribassi d’asta per aggiudicarsi gli appalti, incentivati dalla consapevolezza di un inade-guato monitoraggio e controllo sull’esecuzione dei lavori, i quali consentiranno di recuperare con le varianti di pro-getto buona parte dei ribassi offerti per vincere la gara.

4. Il divario Nord-Sud

Oltre alle criticità illustrate, sotto il profilo delle infra-strutture permangono in Italia due questioni specifiche – valutate di rilevanza nazionale ed evidenziate negli ultimi

2 Intesa San Paolo, Servizio Studi e Ricerche, Reti infrastrutturali e territorio: stato dell’arte e strumenti attivabili, Ottobre 2008.

25

Dpef – che richiedono di essere considerate all’interno del quadro generale:

− la questione settentrionale, rappresentata da un ter-ritorio urbanizzato sempre più esteso, fitto e irregolare, a cui si accompagna una domanda di accessibilità e di mo-bilità – per persone e merci – debolmente soddisfatta da un’offerta infrastrutturale con rilevanti deficit qualitativi e quantitativi, relativi sia alle connessioni con le «reti lun-ghe» – corridoi europei, rotte aeree, rotte marittime ecc. – sia alla mobilità interna dei territori regionali e dei si-stemi urbani. Il potenziamento di questi territori passa per la necessità di affrontare e risolvere i problemi della congestione e del complesso delle diseconomie esterne da essa derivate;

− la questione meridionale, caratterizzata da un forte ritardo infrastrutturale, in una situazione nazionale già di per sé precaria; gli indicatori di dotazione infrastrutturale elaborati nel 2008 dall’Istituto Tagliacarne documentano il persistere di forti differenziali territoriali: le prime province per indice di dotazione stradale sono tutte in Italia setten-trionale (Savona, Vercelli, Novara, Alessandria e Imperia). Nella classifica, la prima provincia dell’Italia centrale che compare è Frosinone al 7o posto; mentre del Sud Italia è Teramo al 10o. Situazione similare si rileva osservando l’in-dice di dotazione ferroviario. Secondo un recente rapporto di Confindustria3, il divario infrastrutturale del Sud sarebbe di 25 punti al di sotto della media nazionale, esattamente come avveniva all’inizio di questo decennio.

In un rapporto del 2004, lo Studio Ambrosetti aveva già valutato in 200 miliardi di euro gli investimenti infra-strutturali che permetterebbero di recuperare il reddito pro capite dei residenti nel Sud rispetto alla popolazione del resto d’Italia. L’analisi partiva dall’ipotesi che per ade-guare il reddito pro capite regionale alle media nazionale fosse necessaria una dotazione di infrastrutture allineata alla media nazionale.

3 Confindustria, Check up Mezzogiorno, 2009, disponibile on line all’indirizzo www.confindustria.it.

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In tale contesto, secondo quanto emerge dalla citata ricerca del gruppo Intesa San Paolo, circa la metà degli investimenti in infrastrutture realizzati dalle Amministra-zioni locali sono concentrati al Nord, mentre la restante parte è quasi equamente divisa tra Centro e Mezzogiorno. In termini pro capite, il Trentino genera una spesa per investimenti più che doppia rispetto alla media nazionale, ma sono le Amministrazioni del Centro nel complesso a spendere maggiormente per ciascun cittadino, con un va-lore pro capite del 20% superiore alla media nazionale. Al Sud, invece, la spesa pro capite per investimenti è in-feriore del 20% rispetto alla media nazionale.

TAB. 6. La spesa per investimenti in infrastrutture locali (2006)

mln euro

euro pro capite

euro pro capite:Italia = 100

Composizione %

della spesa

Abruzzo 356 254 73,5 2Basilicata 218 347 100,5 1Calabria 368 182 52,8 2Campania 1.833 342 98,9 9Emilia-Romagna 1.370 326 94,5 7Friuli V. Giulia 534 445 129,0 3Lazio 2.776 532 154,0 14Liguria 426 273 78,9 2Lombardia 3.778 397 114,9 19Marche 449 298 86,2 2Molise 115 410 118,6 1Piemonte 1.323 307 88,9 7Puglia 771 209 60,4 4Sardegna 750 536 155,3 4Sicilia 938 209 60,4 5Toscana 1.042 290 83,9 5Trentino Alto Adige 851 881 255,0 4Umbria 386 440 127,4 2Valle D’Aosta 63 476 137,9 0Veneto 1.389 291 84,3 7

Italia 19.736 345 100,0 100

Nord 9.735 365 105,7 49

Centro 4.653 415 120,3 24

Sud 5.348 277 80,3 27

Fonte: Elaborazione Ref (Ricerche per l’economia e la finanza) su dati mi-nistero dell’Economia e delle Finanze e ministero dell’Interno.

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I problemi esemplificati nel capitolo precedente non sono frutto di distorsioni contingenti o di comportamenti soggettivi. Sono in parte causati e in parte aggravati da alcune caratteristiche di fondo del nostro paese che ri-spondono a ragioni storiche: si tratta di caratteri non im-modificabili, ma il cui cambiamento si colloca necessaria-mente nella prospettiva del lungo periodo.

Il nostro paese convive con essi sin dalle origini del-l’unità nazionale e ha dunque sviluppato una notevole capacità di gestirli. Questa capacità – soprattutto grazie a un uso intensivo della strumentazione politica, istituzio-nale e legislativa – è servita per un lungo periodo a com-pensare i fattori negativi e ad assicurare coesione e svi-luppo.

Molti segnali indicano che questa fase è finita. La ca-pacità di adattamento, protrattasi per un periodo assai lungo, evidenzia da alcuni anni la sua manifesta insuffi-cienza e, come la coperta troppo stretta, se copre la coe-sione/sviluppo scopre la cura degli interessi parziali e vi-ceversa.

L’esasperata azione di continuo adattamento si è av-valsa di un ricorso intensivo a decreti legge, legge finan-ziaria e grandi deleghe. Si tratta di tre potenti procedure legislative di iniziativa e impronta governativa, ma sostan-zialmente basate sulla somma e l’integrazione dei poteri del Governo e del Parlamento. Questi poteri oggi si rive-lano logorati dall’abuso e risultano insufficienti a gestire il nuovo sistema di governo, basato sull’articolazione delle politiche pubbliche tra i diversi livelli territoriali.

Nel campo della finanza pubblica – particolarmente sensibile perché sottoposto a rigidi vincoli esterni – il processo di trasformazione è cominciato nei fatti, senza

CAPITOLO SECONDO

LE CAUSE DI CONTESTO CHE OSTACOLANOLA REALIZZAZIONE DELLE INFRASTRUTTURE

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attendere il riassetto del sistema, adoperando in modo nuovo i vecchi strumenti. Le linee di un cambiamento strutturale si iniziano infatti a intravedere nelle nuove lo-giche del federalismo fiscale e nelle nuove prospettive di coordinamento della finanza pubblica tra Stato, Autono-mie e Unione europea.

Nel campo della realizzazione delle infrastrutture stra-tegiche i sintomi di insufficienza dell’attuale sistema dei rapporti tra i pubblici poteri si sono manifestati con anti-cipo e con la massima evidenza, a causa del carattere ma-teriale di queste politiche.

Gli scarsi risultati ottenuti dal nutrito succedersi di ri-forme legislative dimostrano che ai problemi del settore si aggiungono problemi crescenti derivanti dall’aggravarsi delle cause di contesto.

Per queste ragioni un’analisi effettuale dei problemi delle infrastrutture strategiche non si può disgiungere da un esame delle problematiche di carattere generale che agiscono in questo settore con maggiore evidenza e inci-denza. Per le stesse ragioni questo studio può condurci a scoprire i punti di forza su cui occorre fare leva per riat-tivare un’evoluzione positiva di tali problematiche e resti-tuire efficacia agli interventi di sblocco nel settore delle infrastrutture.

1. La densità territoriale dell’Italia

Nell’analisi dei problemi strutturali del nostro paese viene in primo piano il territorio, per la sua conformazione e soprattutto per la sua intensa e differenziata storia.

L’irriducibile complessità del territorio italiano risulta da una somma di fattori che possono essere così sintetiz-zati: a) la conformazione fisica e idrogeologica; b) l’elevata e stratificata antropizzazione; c) la preesistente e persi-stente forza delle comunità locali e delle loro storie e tra-dizioni; d ) la pluralità e la forza dei sistemi urbani; e) le fratture determinate dalle differenze in termini di reddito e da quelle di tipo sociale e culturale. L’Italia è una realtà

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multipolare, segmentata in una molteplicità di aree definite da particolari caratteristiche fisiche, sociali, economiche, spesso ad altissimo grado di intensità e diversificazione.

Si tratta di un insieme di fattori caratterizzati da un’elevata eterogeneità, dalla propensione al conflitto, da una ridotta capacità di coordinamento reciproco, da una bassa propensione alla sinergia.

L’articolazione delle istituzioni locali appare una con-seguenza della complessità territoriale, che esprime anche gli aspetti patologici della frammentazione territoriale.

Conseguentemente, i poli di attrazione del territorio tendono a essere molteplici e differenziati per diverse ca-tegorie di attività e senza gerarchie univoche. Funzionano poco gli assetti istituzionali accentratori dal momento che le relazioni tendono piuttosto a ordinarsi in termini di competizione e rivalità (si ricordino i conflitti per i ca-poluoghi di regione, la tensione intorno alla formazione di nuove province, fino ai fenomeni di moltiplicazione di università, aeroporti, centri congressi ecc., senza alcun ricorso a sufficienti bacini di riferimento). In particolare, a differenza di quanto accade in altri paesi europei, non si riscontra in Italia alcun polo dotato di sufficiente forza per imporre la realizzazione di opere che rispondano al-l’interesse nazionale. Anche le aree economicamente più attive e orientate all’esterno tendono a muoversi in una prospettiva circoscritta, per cui la domanda di nuove in-frastrutture si riferisce generalmente a emergenze territo-rialmente limitate all’ambito regionale. Risulta difficile in-dividuare gli effettivi poteri di governo sul territorio che variano settore per settore e si differenziano anche gran-demente nelle diverse zone.

Mancano forme adeguate di conoscenza della com-plessità territoriale: esistono molteplici sistemi informativi settoriali con abbondanza di dati, ma mancano sistemi in-tegrati di informazione che consentano di riconoscere la molteplicità delle situazioni di contesto che si verificano anche all’interno della stessa regione.

Anche l’indebolimento delle forme di rappresentanza politica all’interno dei partiti e delle assemblee elettive

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concorre a determinare una diminuzione della conoscenza necessaria al complessivo governo del territorio.

Insomma, la complessa geografia del paese, la sua di-mensione longitudinale dal centro dell’Europa al centro del Mediterraneo, la difficile situazione idrogeologica, sono seriamente aggravate da un insieme di fattori storici, economici, sociali e istituzionali.

Il territorio riassume fisicamente queste difficoltà, ma anche l’immensa vitalità e ricchezza che l’insieme di que-sti fattori esprime.

Rispetto a questa fortissima densità territoriale e alle pulsioni che ne derivano, si manifesta una crescente dif-ficoltà delle amministrazioni pubbliche, in ogni campo, di agire con strumenti e metodologie adeguate alla crescente complessità.

2. La complessità del paese

2.1. Un paese segmentato in tanti sottosistemi

Anche le fratture che caratterizzano l’Italia sono di natura e intensità difficilmente riscontrabili in altri paesi europei. Le diverse aree sono caratterizzate da divari che si esprimono attraverso una serie di indicatori cruciali quali il reddito, l’efficienza della Pubblica amministra-zione, la presenza di economie esterne, il tasso di legalità, la dotazione del c.d. «capitale sociale». Si tratta di frat-ture che influiscono in misura determinante sull’efficacia delle politiche pubbliche perché determinano la frammen-tazione del paese in tanti sottosistemi, innalzando barriere di accesso spesso informali, ma non meno resistenti, an-che quando si è in presenza di una legislazione uniforme sul piano nazionale.

Questi divari si riflettono nella difficoltà di varare politiche pubbliche con un respiro nazionale e nell’assi-curare un loro omogeneo svolgimento sul territorio, che da zona a zona reagisce in modo differenziato sullo svol-gimento di ciascuna politica, determinando problematiche

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peculiari per ognuna di esse. Allo stesso tempo il disegno e l’attuazione di tali politiche sono cruciali proprio per superare la frammentazione e rilanciare il valore dell’unità nazionale su basi concrete e tangibili, e non solo politico-culturali o simboliche.

2.2. La frammentazione istituzionale e della rappresentanza

Il gruppo di ricerca coordinato dal prof. Campi ha evidenziato che l’analisi della governance delle infrastrut-ture strategiche fotografa un sistema istituzionale fram-mentato e conflittuale, caratterizzato da una costruzione continua e incrementale dei mandati da parte di livelli di governo differenti. Con questo mondo deve confrontarsi un sistema industriale articolato e diffuso che in vasti seg-menti è dotato di notevole dinamismo e progettualità.

Si deve tener conto che questi processi si sono accen-tuati in presenza di una rilevante trasformazione dell’in-tero settore pubblico dell’economia con la privatizzazione e la forte autonomizzazione dei principali attori della po-litica delle infrastrutture quali Anas, Ferrovie, Enel, Eni, Partecipazioni statali, Cassa per il Mezzogiorno, oltre al sistema bancario.

ll sistema istituzionale si è andato evolvendo con pari intensità negli anni Novanta attraverso riforme che hanno potenziato i livelli di governo locali e regionali e attra-verso il decentramento di importanti competenze gestio-nali. La riforma del Titolo V della Costituzione ha seguito e poi accompagnato questi processi senza riuscire a gui-darli nonostante le importanti sentenze della Corte costi-tuzionale; il Titolo V infatti è rimasto inattuato per alcuni importanti aspetti: definizione dei livelli essenziali, princi-pio di sussidiarietà, federalismo fiscale e coordinamento della finanza pubblica. Di conseguenza un considerevole potenziamento delle autonomie ha avuto luogo al di fuori di una cornice e di chiare procedure di coordinamento. Il mancato compimento della riforma costituzionale deter-mina un assetto non ordinato delle pubbliche istituzioni

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che si riflette nella generalità delle politiche pubbliche e in particolare in quelle relative al territorio, per loro na-tura trasversali rispetto ai diversi livelli territoriali.

In questa situazione la conflittualità rappresenta, in altri termini, la cifra delle relazioni riferite al territorio tanto fra diverse autorità amministrative quanto fra le im-prese, ed è una conflittualità che la decisione formale non risolve, anzi sembra contribuire ad alimentare.

Più che come un’ordinata divisione del lavoro per il conseguimento di un obiettivo comune, l’implementa-zione delle politiche pubbliche riferite al territorio è ge-neralmente raffigurabile come un gioco fra più attori stra-tegici, ciascuno dei quali persegue un proprio obiettivo, ma che insieme ruotano attorno a una «posta» comune: la definizione degli strumenti di intervento.

A livello territoriale, la frammentazione si riflette an-che sul piano istituzionale, soprattutto nel modo di at-teggiarsi delle istituzioni del territorio. Ognuno dei livelli territoriali individuati dall’articolo 114 della Costituzione è presidiato da centri di rappresentanza politica dotati di forte legittimazione popolare e di crescenti competenze, costituzionalmente tutelate, su aspetti fondamentali quali la pianificazione territoriale, l’ambiente, il sostegno allo sviluppo.

Ciascuno di questi centri, nel momento in cui sono investiti di una decisione relativa alle infrastrutture, è og-getto da parte delle rispettive constituencies di fortissime domande che, se non trovano risposta tradotte nell’azione istituzionale, tendono a costituirsi in forme alternative di espressione nel territorio (comitati spontanei, iniziative re-ferendarie, accesso al contenzioso amministrativo, ecc.).

La microregolazione locale viene utilizzata per dare corpo al conflitto distributivo innescato più o meno di-rettamente dalla regolazione nazionale. Il fatto inoltre che i «proprietari» degli strumenti regolativi siano profonda-mente legati ai cicli elettorali che si susseguono con parti-colare frequenza, fornisce sempre nuove ragioni di insod-disfazione per i bilanciamenti tra efficacia e distribuzione raggiunti in precedenza. Anche per non essere scavalcati

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da queste istanze, gli Enti locali sono molto attivi nel condizionare la realizzazione delle opere attraverso l’eser-cizio di poteri di veto e la richiesta di compensazioni che tendono a innalzare il costo degli interventi e che spesso variano in seguito al variare del colore delle diverse am-ministrazioni.

2.3. La frammentazione delle imprese operanti nel settore delle infrastrutture

La frammentazione riguarda anche gli operatori eco-nomici e si manifesta, nonostante la presenza di alcuni grandi operatori, attraverso la polverizzazione delle im-prese del settore edile, che costituisce uno dei dati di più evidente scostamento rispetto al panorama europeo.

Nonostante si sia registrata negli anni più recenti una certa crescita della dimensione media delle imprese, tale tendenza rimane lenta e la struttura complessiva del set-tore è caratterizzata da un livello dimensionale difficil-mente compatibile con le ambizioni di un programma ac-celerato di recupero del gap infrastrutturale.

Il fenomeno della polverizzazione è particolarmente accentuato nel Meridione e costituisce quindi una ulte-riore componente del dualismo che caratterizza il tessuto produttivo del paese.

A questi elementi va aggiunta la diffusa pratica del subappalto, che risponde a una duplice esigenza: per un verso, quella di assicurare la sopravvivenza di numerose imprese di ridotta dimensione che non posseggono i re-quisiti per accedere direttamente a commesse pubbliche; per altro verso, quella di rimediare all’indisponibilità, an-che da parte delle imprese di maggiori dimensioni, quali ad esempio i general contractors, di adeguate competenze tecnico-operative, per lo svolgimento di specifiche attività.

Nel settore dei lavori pubblici questa debolezza strut-turale produce una accentuazione della competizione ba-sata unicamente su prezzi al ribasso, anziché sul livello qualitativo delle dotazioni tecniche, sulla migliore orga-

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nizzazione dei fattori d’impresa, sulla capacità di accesso al credito.

Eventuali carenze progettuali non sono infatti segnalate dalle imprese concorrenti in sede di gara d’appalto, nel mo-mento della formulazione delle offerte, poiché il loro obiet-tivo prioritario è di aggiudicarsi i lavori; anzi l’imperfezione dei progetti consente loro di ritagliarsi successivamente margini di recupero sui ribassi offerti (vedi par. 3.3).

Tali difetti gravano però sulla procedura in una fase successiva, alimentando il contenzioso e determinando così una lievitazione dei costi. La distorsione è infatti una delle cause più significative dell’altissimo livello del contenzioso in materia di offerta anomala e della pratica abituale di con-tinue revisioni dell’appalto in corso d’opera (sul punto si ri-tornerà più avanti, nei paragrafi 4 e 5.4 del cap. quinto).

3. Le Pubbliche amministrazioni

3.1. La complessiva insufficienza delle Pubbliche ammini-strazioni rispetto alle difficoltà derivanti dal territorio e dal sistema delle imprese

L’analisi svolta dal gruppo di ricerca coordinato dal prof. Petroni, pone in evidenza come una causa ricor-rente delle molteplici criticità riscontrate nelle diverse fasi di programmazione e realizzazione delle grandi opere sia da individuare nella complessiva insufficienza delle Pub-bliche amministrazioni quanto ad articolazione, procedi-mentalizzazione e capacità tecnica istruttoria, rispetto alle difficoltà derivanti dalle peculiari caratteristiche del rap-porto con il territorio e con il sistema delle imprese indi-cate nei paragrafi precedenti.

3.2. I rapporti tra politica e amministrazione

I rapporti tra politica e amministrazione, oggetto di continue e incisive riforme nell’ultimo decennio, sono lon-

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ta ni da una stabile e soddisfacente definizione. Il princi-pio di separazione delle responsabilità amministrative da quelle politiche, una volta enunciato in termini normativi, si è accompagnato a ulteriori misure volte ad assicurare un rapporto fiduciario, o comunque di piena responsa-bilità dei vertici amministrativi verso l’autorità politica; l’effetto complessivo è stato diametralmente rovesciato ri-spetto a quello che si intendeva conseguire con la separa-zione delle responsabilità.

In questa stessa direzione va il potenziamento del ruolo degli uffici di gabinetto e degli uffici legislativi, alle dirette dipendenze del ministro, nei quali prevalgono rap-porti fiduciari e una cultura giuridico-politica generale, slegata dalle competenze specifiche delle singole ammini-strazioni.

La ciclicità dei vertici amministrativi e la loro sottopo-sizione al potere politico finisce inoltre per creare instabi-lità delle linee strategiche e dell’azione amministrativa.

Vi è pertanto il rischio di innescare un processo di «selezione al contrario» dei dirigenti, premiati in base alla loro rapidità nell’aderire agli impulsi del vertice politico, piuttosto che per la capacità organizzativa, di analisi cri-tica, di attuazione delle linee programmatiche, di conse-guimento dei risultati.

C’è poi da considerare, a monte della gestione dei processi amministrativi, l’esistenza di problemi di in-coerenza, vaghezza e complessità nella definizione degli obiettivi e delle priorità di medio e lungo periodo delle politiche infrastrutturali, i cui effetti ricadono sulla diri-genza amministrativa.

3.3. Lo svuotamento delle competenze tecniche

I processi di trasferimento di competenze alle auto-nomie territoriali e i fenomeni di outsourcing hanno inol-tre determinato un sensibile svuotamento del capitale di expertise tecnica interno agli apparati, in passato di livello assai elevato, accentuandone la debolezza nei confronti

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sia degli enti territoriali che del sistema delle imprese. È quanto accaduto ad esempio con le strutture tecniche del Genio civile.

Come evidenziato dal gruppo di ricerca coordinato dal prof. Petroni, l’indice di copertura del personale tec-nico su tutto il territorio nazionale non supera il 50% della pianta organica (dati Corte dei conti). Questa situa-zione determina un indebolimento dell’apparato tecnico dello Stato, che, conseguentemente, non appare più in grado di realizzare direttamente la progettazione prelimi-nare, né di controllare e verificare la qualità della proget-tazione affidata a soggetti esterni.

3.4. La forza dei singoli comparti amministrativi e la debo-lezza delle sedi di coordinamento

I corpi amministrativi tendono per propria natura a fare blocco con il sistema degli interessi sociali che rap-presentano. Queste caratteristiche si accentuano in pre-senza di un corpo sociale fortemente segmentato e pola-rizzato verso gli interessi parziali più forti. Ne derivano una permanente debolezza delle funzioni di coordina-mento che presidiano alla coerenza del sistema e la fra-gilità delle strategie unificanti di ordine politico; queste ultime riescono a rafforzarsi solo in presenza di situazioni di emergenza o di vincoli esterni largamente condivisi.

Di conseguenza, le diverse amministrazioni presentano nei loro nuclei portanti notevoli capacità di conoscenza e gestione settoriale dei problemi, ma tendono a operare in modo isolato con evidenti difficoltà a istituire moduli di coordinamento efficaci e mirati al raggiungimento del ri-sultato.

Anche quando impegnata al massimo delle sue poten-zialità, l’amministrazione si dimostra spesso inadeguata ad affrontare specifici problemi di coordinamento con altre amministrazioni o questioni che richiedano comunque un approccio integrato con soggetti esterni. Nel confronto tra le diverse amministrazioni, quelle di sintesi o coordi-

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namento appaiono regolarmente più deboli di quelle do-tate di proprie specifiche competenze materiali.

4. I problemi del sistema normativo e giurisdizionale

4.1. L’eccesso normativo

L’insieme dei problemi generati dalla forte frammen-tazione e polarizzazione della società italiana, dalla con-seguente forza degli interessi parziali e dalla difficoltà di riportarli a sintesi, nonché da un basso tasso di etica pubblica, da forme di illegalità diffusa e, infine, in molte aree, dalla presenza delle organizzazioni mafiose, hanno generato la necessità di rispondere con continui interventi per la mediazione dei conflitti o per il contrasto a feno-meni degenerativi. Tutto ciò si è tradotto in una continua e intensa produzione normativa, a volte frutto di necessità contingenti, altre volte necessitata per l’esigenza di aggiu-stamento di corpi normativi più organici.

I rimedi ai problemi originari si sono così trasformati in problemi ancora più gravi rispetto a quelli che avreb-bero dovuto risolvere.

L’iperproduzione normativa quando tutela valori di interesse generale, tende di volta in volta a massimizzare uno di essi senza adeguanti bilanciamenti con i valori concorrenti; altre volte introduce deroghe, continui adat-tamenti e precisazioni senza tener conto delle esigenze di sistema, sotto la pressione di esigenze immediate.

L’accumulazione di norme in ogni settore e il carat-tere sempre più trasversale delle normative rispetto ai singoli settori hanno raggiunto limiti insopportabili e pa-radossalmente generano nuove normative, mentre gli stru-menti di riordino non riescono a produrre concreti effetti di semplificazione.

La relazione del gruppo di ricerca coordinato dal prof. Petroni evidenzia come l’inflazione delle norme, il basso profilo qualitativo dei loro contenuti specifici, il mancato coordinamento di ciascun complesso di norme

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con altri complessi normativi che operano sulla stessa materia, l’anarchia interpretativa, alimentino nei soggetti chiamati ad attuarle una radicale incertezza su quali re-gole siano da applicare nei casi specifici e con quali ri-percussioni.

Questa incertezza si verifica in modo particolare nel-l’attività contrattuale, regolata da leggi generali, cui si af-fiancano molteplici norme – di diverso livello – che stabi-liscono deroghe, eccezioni, integrazioni.

Dimensioni eccessive e complessità della regolazione normativa rappresentano, da un lato, un vincolo all’ef-fettiva capacità dei dirigenti pubblici di operare efficace-mente nella fase di formulazione e attuazione delle poli-tiche pubbliche; dall’altro, accentuano le difficoltà per le imprese a operare in un ambiente caratterizzato da una patologica complessità e instabilità del quadro giuridico di riferimento.

L’eccesso di regolazione accentua le difficoltà, dal mo-mento che:

a) gli operatori devono raccogliere un maggior nu-mero di informazioni sulla regolazione vigente nella pro-grammazione delle politiche infrastrutturali e nella con-seguente attuazione; i decisori sono costretti a spendere più tempo per apprendere, elaborare e dirimere eventuali contrasti e controversie con altri attori, aventi a oggetto il rispetto delle procedure oppure i termini di validità della regolazione;

b) in questo clima di incertezza aumentano anche i rischi di incorrere in errori, incontrare vincoli procedurali imprevisti o andare incontro a conseguenze indesiderate nelle scelte;

c) gli alti livelli di contenzioso che ne conseguono sono un ulteriore fattore di ostacolo alla celerità dei pro-cessi decisionali: l’incerta formulazione delle norme pro-duce un’elevata litigiosità, i processi durano a lungo, e l’amministrazione trova una ragione in più per «decidere di non decidere», in attesa di interpretazioni definitive o di ulteriori riforme della regolazione. In definitiva, risulta rafforzato l’atteggiamento passivo e legalistico dell’alta

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burocrazia, cui consegue l’allungamento dei tempi delle procedure, denunciato in numerose audizioni;

d ) si avvia un processo di selezione sia nel settore pubblico che in quello privato che premia gli operatori dotati delle competenze specialistiche necessarie a gestire non tanto gli aspetti tecnici dei complessi programmi in-frastrutturali, quanto la dimensione normativa, procedi-mentale e infine giudiziaria;

e) in alcuni casi a queste condizioni di incertezza re-golativa corrisponde un incremento dei poteri esercitati di fatto – ma in forme potenzialmente arbitrarie – dai diri-genti, i quali potranno interpretare in un modo o nell’al-tro una disposizione normativa, ipotizzarne (o meno) la violazione, applicare l’una o l’altra norma nei casi incerti;

f ) nascono vere e proprie rendite professionali che si alimentano per l’oscurità delle norme applicabili ai casi concreti, l’aleatorietà delle interpretazioni giurispruden-ziali, il carattere prevalente delle questioni legali rispetto a quelle tecniche.

4.2. La rigidità della regolazione

Nell’individuazione degli strumenti di regolazione l’autorità politica può scegliere tra il renderli uniformi e vincolanti per legge e il renderli flessibili, suscettibili di negoziazione fra parti. La preferenza nel nostro sistema è accordata alla rigidità e uniformità.

Il processo di definizione degli strumenti viene ten-denzialmente cristallizzato in un output normativo (ad esempio il decreto legge) che costringe a comportamenti «tipici» anche destinatari di forme regolative di matrice contrattuale. L’effetto è quello di proiettare nelle relazioni economiche vincoli rigidi e standard di comportamento che rispondono più alla logica dell’esecuzione burocratica e al bisogno di certezza sul modo di operare, che non alla logica dell’orientamento all’efficacia.

Questo carattere appare evidente soprattutto nel con-fronto con le eccezioni, tra cui la Protezione civile e il

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Dipartimento per le politiche di sviluppo presso il mini-stero per lo Sviluppo economico. In questi casi, le «agen-zie» ricevono un mandato organizzato attorno a obiettivi e resta nella loro discrezionalità la calibratura degli stru-menti loro affidati per conseguire, o far conseguire, i ri-sultati.

In altri settori si registra invece l’intenzione di ridurre la discrezionalità degli attori a valle, e la regolazione si trasforma in prescrizioni stringenti che, tutte insieme, in-gabbiano le relazioni economiche.

La rigidità appare peraltro un modo per garantire una qualche certezza quando i molti «proprietari» degli stru-menti non possano presidiare l’intero processo di imple-mentazione per assicurarsi che le «loro» preoccupazioni vengano tutte fatte proprie dagli attori in campo.

4.3. I profili critici della funzione giurisdizionale

Di fronte all’alluvione normativa, il giudice ammini-strativo è spesso chiamato a una funzione ricostruttiva dell’ordinamento che deve supplire alla mancanza di un sistema normativo chiaro e informato ad alcuni principi generali che possano orientare sia l’azione amministrativa che la funzione giurisdizionale.

L’effetto complessivo di questa situazione patologica va nel senso di una sostanziale imprevedibilità dei com-portamenti degli operatori giuridici. Parte delle responsa-bilità ricadono, come si è già rilevato, sul legislatore: le continue modifiche che esso apporta alle già complicate norme che regolano la materia delle opere pubbliche, così come le peculiari caratteristiche di ciascun singolo caso, rendono difficile prevedere, al momento dell’instau-razione del ricorso, quale potrà esserne l’esito.

Parte della responsabilità ricade invece sulla stessa magistratura, nel senso che a essa sono «imputabili» orientamenti giurisprudenziali anche molto differenti, sia con riguardo alle questioni procedurali (particolarmente significativa – per il tema qui in esame – è la vicenda re-

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lativa alla sorte del contratto successiva all’annullamento della gara di aggiudicazione), sia nell’applicazione del di-ritto sostanziale.

Anche se un certo margine di incertezza giurispru-denziale è fisiologico in qualunque ordinamento, sarebbe certamente utile che, per ridurne gli effetti patologici, il massimario del Consiglio di Stato, che pur esiste, fosse maggiormente valorizzato e utilizzato.

Un sistema condiviso di massimario delle pronunce adottate dai giudici amministrativi potrebbe incentivare una stabilizzazione degli orientamenti della giurisprudenza amministrativa, contribuendo a costruire un quadro di maggiori certezze per gli operatori del settore.

In proposito, il contributo del gruppo di ricerca coordinato dal prof. Zanon evidenzia che la particolare complessità delle procedure per la progettazione e l’affi-damento delle opere e la possibilità di instaurare ricorsi in ciascuna fase del procedimento, forniscono l’occasione per invocare l’intervento del magistrato per i più diversi motivi e, se è vero che il contenzioso giudiziario com-porta una sospensione dei lavori solo nel 5% dei casi, esso concorre in modo determinante a causare un au-mento dei costi (più 30%) e dei tempi di realizzazione dell’opera (più 96%).

Peraltro, affrontando il tema del ruolo che il conten-zioso riveste nell’ampio quadro della realizzazione delle opere pubbliche, pare più in generale opportuno inter-rogarsi sull’orientamento fondamentale della giustizia am-ministrativa, chiedendosi se questa si ponga ancora, come prioritario, l’interesse pubblico, o se invece sia ormai larga-mente diffusa, anche nella giurisprudenza amministrativa, l’idea, culturalmente maggioritaria nella riflessione della dottrina, che considera essenziale la tutela della posizione del soggetto privato, considerato «debole» per definizione, e la necessità costituzionale di garantirlo rispetto alla P.A. E ciò anche oggi, quando sempre più spesso, il «privato» che si contrappone alla P.A. non è il singolo cittadino, bensì un gruppo economico «forte», di modo che il sog-getto debole, da tutelare, diventa proprio la P.A.

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5. I limiti dell’attuale cultura giuridica

L’origine di una rilevante quota delle difficoltà elen-cate nei paragrafi precedenti è da rinvenire in alcune ca-ratteristiche, in parte originarie e in parte derivate dal-l’ipertrofia normativa, della cultura giuridica alla base dell’azione dei legislatori, della Pubblica amministrazione, delle autorità giurisdizionali e degli stessi operatori privati del settore.

Come evidenziato nell’analisi svolta dal gruppo di ri-cerca coordinato dal prof. Petroni, nell’amministrazione italiana appare tuttora largamente predominante una cultura giuridica di tipo formalistico, sedimentatasi nel tempo attraverso percorsi di accesso e di carriera basati essenzialmente sull’acquisizione di competenze improntate all’attenzione pressoché esclusiva al rispetto dei vincoli di legge, dominata da una concezione dell’agire amministra-tivo come adesione più al dato normativo e procedurale che agli esiti dei processi decisionali.

Alcune delle più evidenti disfunzioni che incidono sul sistema decisionale pubblico (ipertrofia legislativa, altissimo contenzioso, mancanza di orientamenti giuri-sprudenziali univoci) derivano, infatti, dall’uso estremo del mezzo normativo che spesso è necessitato dai singoli problemi da affrontare, ma che a lungo andare crea un circolo vizioso che porta la stratificazione normativa che ne risulta ad andare molto oltre ogni ragionevole criterio di garanzia ispirato al principio di legalità. In questo con-testo, di fronte a specifici problemi operativi, si preferisce ricorrere all’adozione di nuove norme ad hoc, piuttosto che interpretare, semplificare o abolire quelle vigenti ed esercitare le responsabilità che derivano dall’ordinaria at-tribuzione delle funzioni amministrative.

In un ambiente normativo così saturo, è evidente che ogni nuova esigenza o modalità politica richiede nuove norme. Nelle stesse condizioni i diversi comparti della Pub blica amministrazione tendono a utilizzare innanzi-tutto il mezzo normativo e legale nel loro particolare set-tore a protezione dei propri spazi di azione, come presi-

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dio della legalità formale dei loro atti assunto come fine principale in relazione alle diverse forme di responsabilità giuridica incombenti o a presidio delle prerogative degli apparati, più che a effettiva tutela degli interessi pubblici loro affidati.

Le imprese hanno dovuto imparare a sopravvivere in questo ambiente normativo, sviluppando apparati legali spesso più forti e attrezzati di quelli tecnico-operativi. La necessità di operare in contesti ad alta densità di regola-zione genera, infatti, incentivi che inducono a privilegiare la gestione del contenzioso, più che la qualità tecnica delle offerte, investendo nell’acquisizione e nella valoriz-zazione di competenze giuridiche.

Il principale risultato negativo di queste tendenze è una sorta di oggettiva indifferenza al risultato dell’attività complessiva. Si registrano una generale dequalificazione degli strumenti legislativi, una crisi dei principi costituzio-nali di legalità dell’azione amministrativa e di buon anda-mento della medesima; un onere normativo e burocratico fra i più alti fra i paesi sviluppati e un’elevata incertezza nella regolazione dei rapporti fra gli operatori pubblici e privati.

6. Il debito pubblico e la spesa per investimenti

Il debito pubblico è una delle manifestazioni più evi-denti della difficoltà dei processi di governo nel nostro paese ed è anche il terreno del massimo sforzo di risana-mento e razionalizzazione in corso.

Tuttavia, le esigenze del risanamento finanziario si contrappongono alle esigenze di certezza e stabilità ri-chieste dalla programmazione e dal finanziamento delle grandi opere pubbliche, che richiedono la mobilitazione e la pianificazione di risorse ingenti e certe da distribuire in un lungo arco di tempo.

L’ammontare del debito pubblico italiano costituisce nel lungo periodo uno dei vincoli strutturali più stringenti che gravano sul disegno delle politiche pubbliche del no-

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stro paese nel confronto con i maggiori partner europei. La politica delle grandi infrastrutture deve dunque più di ogni altra fare i conti con i vincoli e le condizioni che un così alto debito proietta sulle procedure politiche e am-ministrative (cfr. par. 3 del cap. terzo).

La progressiva crescita del debito pubblico soprat-tutto dagli anni Ottanta ha determinato l’accumulazione di un onere rilevantissimo a medio e lungo termine, sol-tanto parzialmente attenuato dalla possibilità di ricorrere a periodiche svalutazioni. Con l’adozione dell’euro la peculiarità del nostro paese rispetto ai maggiori partner si è tradotta nel drastico ridimensionamento dei margini di manovra a disposizione in senso espansivo della spesa pubblica, ivi compresa quella per il finanziamento di in-frastrutture. L’esigenza di avviare un percorso di rientro del debito alla luce dei parametri previsti per l’appar-tenenza all’Uem ha indotto i governi via via succedutisi ad adottare politiche di forte contenimento della spesa. I vantaggi assicurati dalla riduzione della spesa per inte-ressi sul debito, in relazione al tendenziale allineamento dei tassi rispetto a quelli medi dei partner europei, non si sono dimostrati sufficienti a garantire il conseguimento degli obiettivi concordati con le autorità europee. Ne consegue che, accanto alla spesa corrente, hanno subito una significativa decurtazione anche la spesa in conto ca-pitale e le spese per investimenti.

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1. Programmazione, individuazione delle priorità e diffi-coltà di elaborazione di una visione strategica

Nel disordinato quadro della produzione normativa descritto nel capitolo precedente in materia di opere pubbliche, si sono succeduti negli ultimi due decenni un’enorme quantità di interventi. Spiccano in particolare una successione di riforme ciascuna delle quali ha tentato un organico sforzo di razionalizzazione del corpo nor-mativo. Questi interventi hanno dovuto conciliare la cre-scente complessità della disciplina – in grandissima parte di origine comunitaria – in materia di legalità dei rap-porti tra P.A. e imprese, di tutela della concorrenza, di ambiente e di finanza pubblica, con l’obiettivo di sempli-ficare lo svolgimento delle procedure di programmazione e attuazione delle opere pubbliche.

Questo considerevole sforzo normativo non ha pro-dotto risultati e, anzi, è stato causa di nuovi interventi normativi sempre più mirati a semplificare e accelerare le procedure. Se ne deduce che i problemi maggiori dipen-dono dalle diverse problematiche di contesto analizzate nel capitolo precedente e dalla incompiutezza del sistema dei rapporti tra i livelli territoriali.

Nel 2001, quasi contemporaneamente all’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione in mate-ria di rapporti tra i livelli territoriali, la Legge obiettivo (l. n. 443 del 2001), da un lato ha mirato a enucleare una specifica categoria di opere infrastrutturali, le cosiddette «opere strategiche» e, dall’altro, ha cercato di riordinare i rapporti tra i livelli territoriali in maniera adeguata a un programma per la realizzazione di grandi infrastrut-ture prioritarie. Tale legge si è concentrata sugli ostacoli

CAPITOLO TERZO

I PRINCIPALI PROBLEMI SPECIFICI DEL SETTORE DELLE INFRASTRUTTURE

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giuridico-burocratici, proponendo una procedura di in-dividuazione e selezione delle opere «strategiche» e sot-traendo queste opere alla disciplina ordinaria – in ter-mini di approvazione dei finanziamenti e dei progetti di localizzazione sul territorio, di procedure autorizzative e di aggiudicazione, di monitoraggio delle fasi realizzative e anche di contenzioso – per assoggettarle, invece, a una disciplina speciale improntata a criteri di semplificazione procedurale e centralizzazione decisionale.

L’attuazione della Legge obiettivo si intreccia con i problemi di faticosa interpretazione della riforma costitu-zionale relativa al Titolo V della Costituzione e ha dato luogo alla più importante sentenza della Corte costituzio-nale in questa materia (n. 303 del 2003) che apre la via a una nuova lettura dell’intera riforma del Titolo V.

Alla legge ha fatto seguito una serie cospicua di atti at-tuativi (oltre che di alcune modifiche normative) che consen-tono oggi di registrare certamente una maggiore corrispon-denza del nostro ordinamento rispetto all’obiettivo di uno specifico, prolungato e sistematico sforzo per recuperare il gap infrastrutturale. La progressiva attuazione della Legge obiettivo ha prodotto anche alcuni importanti effetti di con-vergenza dell’azione dei pubblici poteri, o per lo meno ha messo in forte risalto l’esigenza di tale convergenza.

Tuttavia tale processo attuativo e, soprattutto, le aspettative da esso alimentate, hanno anche messo in luce perduranti carenze e squilibri dell’apparato normativo e dei sistemi organizzativi impegnati nell’attuazione della disciplina speciale.

Lo sforzo iniziato nel 2001 va dunque proseguito e approfondito, affinché i nuovi istituti si radichino meglio nel tessuto normativo e istituzionale del paese.

Occorre in primo luogo valutare come l’insieme dei problemi rappresentati nel Rapporto si sia intrecciato con l’attuazione di questa legge che è stata fin dall’origine espressamente mirata a porre rimedio a molti di essi, at-traverso la concentrazione decisionale, la semplificazione normativa, l’accelerazione e la finalizzazione al risultato delle procedure.

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2. Le procedure relative all’individuazione delle opere stra-tegiche

La Legge obiettivo e gli interventi normativi successivi hanno indicato la direzione giusta e hanno cominciato a incidere su problemi di ordine strutturale. Tuttavia questi processi si sono svolti in un ambito specifico e settoriale; inoltre, per l’altissima interdipendenza tra le politiche pubbliche, sono emerse nuove criticità.

Secondo l’analisi svolta dal gruppo di ricerca coordi-nato dai professori De Ioanna e Padoan, si riscontrano ancora carenze sotto diversi profili.

a) Valutazione: spesso i progetti sono valutati in forma isolata, non all’interno di un piano programmatico che as-suma a riferimento il territorio interessato dall’opera, in-teso sia in termini fisici, sia relativamente alle attività che sullo stesso insistono, in modo da stabilire precise priorità sulla base di un’analisi dettagliata delle alternative proget-tuali o delle possibili politiche che possano incidere sulla domanda che l’investimento intende soddisfare. Mancano ancora procedure di valutazione che garantiscano l’alloca-zione efficiente delle risorse tra i diversi impieghi.

b) Selezione: in assenza di un processo organico di valutazione, le decisioni di investimento sono assunte abi-tualmente sulla base di accordi tra amministrazioni, piut-tosto che con il supporto di una valutazione economica. Manca quindi un chiaro ordine di priorità, fattore ovvia-mente cruciale in un contesto di scarsità di risorse quale quello italiano. In proposito, nella Relazione Annuale 2008, la Banca d’Italia ha rilevato come «nelle grandi opere la mancata individuazione delle priorità di lungo periodo ha generato la discontinuità e dispersione dei fi-nanziamenti su una molteplicità di lavori: il numero di in-frastrutture strategiche prioritarie è passato dagli originali 21 progetti a oltre 200».

c) Esecuzione: appare in generale insufficiente il si-stema di incentivi/disincentivi che caratterizza il processo di realizzazione degli investimenti pubblici e carente la capacità di decidere dei diversi livelli istituzionali.

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d ) Monitoraggio: l’assenza di precise informazioni, in aggregato e sullo stato di attuazione dei singoli progetti, e quindi di statistiche consolidate e specifiche sulle di-verse categorie di opere (tempi, costi, requisiti di qualità), rende difficile elaborare chiari benchmarks di riferimento sulla base dei quali stabilire requisiti standard, deter-minare in maniera più precisa e stringente il sistema di incentivi e penalità e chiamare i diversi attori a rendere conto del proprio operato.

3. Vincoli finanziari, debito pubblico, regole contabili e in-vestimenti infrastrutturali

Debito e politica delle grandi infrastrutture dovrebbero collegarsi in positivo, in base alla regola aurea che vede il debito finanziare in modo fisiologico l’investimento. L’ec-cesso di spesa corrente accumulatosi nel nostro paese nei passati decenni rovescia questa relazione positiva nel suo contrario. Ne deriva un conflitto immanente tra le ragioni del debito e quelle di un’adeguata politica infrastrutturale.

A sua volta, il rallentamento delle maggiori opere frena lo sviluppo economico del paese, che è l’unica stra-tegia valida nel medio lungo periodo quale soluzione del problema del debito, determinando il più preoccupante circolo vizioso della nostra politica economica.

3.1. L’instabilità delle risorse disponibili per le infrastrutture

La questione cruciale non riguarda soltanto l’insuffi-cienza, in valore assoluto, delle risorse complessivamente disponibili rispetto all’obiettivo di superare il gap infra-strutturale; ma riguarda altrettanto l’assenza di un qua-dro finanziario tendenzialmente certo e duraturo per la realizzazione delle infrastrutture strategiche per il paese. La disponibilità di risorse limitate dovrebbe in effetti di-mostrarsi un fattore idoneo a indurre una più severa sele-zione nella scelta delle opere da realizzare.

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Il primo elemento di criticità in proposito è costituito dal fatto che la dimensione finanziaria non è sufficiente-mente integrata nel processo decisionale. Emerge quasi costantemente una sottovalutazione del vincolo finanziario che dovrebbe invece entrare stabilmente nel percorso di individuazione e realizzazione delle opere. Questa sotto-valutazione – che si combina e viene accentuata dalla de-bolezza dei meccanismi di selezione – è presente sin dalla fase iniziale di individuazione degli interventi infrastrut-turali di carattere strategico, prosegue con le decisioni di riparto delle risorse a disposizione tra i diversi progetti, si protrae sino alla fase esecutiva.

Il vincolo finanziario dovrebbe invece essere utiliz-zato per definire le infrastrutture effettivamente strategi-che e l’impatto finanziario di ciascuna di esse. In questo modo si potrebbe evitare la spirale viziosa dei cronici ritardi e differimenti che alimentano il grave incremento dei costi.

Il tentativo di correlare la definizione del quadro delle infrastrutture strategiche al processo di decisione di bilan-cio attraverso l’allegato al Dpef non è apparso sufficiente allo scopo.

Quanto alle fasi successive, l’esperienza italiana dimo-stra che la scarsa accuratezza dei profili finanziari è uno dei difetti più frequenti nella progettazione delle opere pubbliche, insieme a una non corretta valutazione dei co-sti preventivati.

3.2. Le problematiche finanziarie nel rapporto con l’Unio-ne europea

Le problematiche finanziarie chiamano immediata-mente in causa la dimensione europea per due ordini di motivi. Per un verso, in considerazione dell’incidenza dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Ue per un settore che assorbe una quota tanto significativa di spesa qual è quella delle infrastrutture. Per altro verso, in quanto la politica europea dovrebbe costituire la cornice entro la

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quale inserire le decisioni fondamentali assunte in materia di grandi infrastrutture a livello nazionale.

L’Europa ha offerto un metodo di lavoro per gover-nare processi complessi che coinvolgono una pluralità di soggetti e competenze diverse, individuando nelle Reti transeuropee di trasporto (reti Ten), sia per le infrastrut-ture che per l’energia, lo strumento strategico intorno al quale costruire una gerarchia delle opere da realizzare.

La revisione delle priorità e degli obiettivi della politica europea in materia di reti Ten, preannunciata dalle istitu-zioni europee e per la quale è stata avviata una procedura di consultazione con gli Stati membri, può costituire un’oc-casione preziosa per il nostro paese per riordinare secondo chiare linee prioritarie l’elenco delle opere strategiche.

Più in generale, si può osservare che il tema delle infra-strutture costituisce davvero un caso esemplare dell’impor-tanza che riveste per il nostro paese il rapporto con l’Unione europea e della necessità di cogliere tutti gli elementi di sti-molo e di progresso che potenzialmente possono derivare dall’Europa, anche attraverso un ruolo più attivo nella rap-presentazione in sede europea delle istanze nazionali.

Tali considerazioni assumono particolare rilievo nell’at-tuale fase di crisi economica, il cui progressivo aggrava-mento ha sollecitato le autorità politiche, sia nazionali che comunitarie, a compiere uno sforzo gravoso per il reperi-mento di risorse aggiuntive da destinare al sostegno della domanda, anche attraverso il ricorso alla leva costituita dalla velocizzazione nella realizzazione di opere pubbliche.

Come anche evidenziato nella recente Relazione An-nuale 2008 della Banca d’Italia, a partire dalla seconda metà del 2008 l’aggravarsi della crisi ha indotto i paesi dell’area dell’euro a intervenire con azioni di bilancio espansive e larga parte delle risorse viene destinata a in-vestimenti pubblici e a settori strategici per la crescita economica, con il potenziamento o la rimodulazione dei programmi di investimento in infrastrutture.

L’Italia, a causa del livello elevato del debito pub-blico, si trova nella difficile condizione di non poter mettere in campo finanziamenti di entità paragonabile a

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quelli attivati da altri paesi membri. Ne consegue che il nostro paese, più ancora degli altri maggiori partner, ha tutto l’interesse per valorizzare il ruolo di impulso e di riferimento dell’Unione europea nella definizione della programmazione territoriale e ambientale, con particolare riferimento alle grandi reti materiali e immateriali.

Il rafforzamento degli strumenti per una coerente po-litica economica e territoriale condivisa a livello europeo, ispirato all’obiettivo di invertire la fase negativa dell’eco-nomia e di promuoverne lo sviluppo, appare la sola al-ternativa all’arretramento della tenuta concorrenziale del continente e al progressivo svuotamento del valore posi-tivo delle regole comunitarie in materia di patto di stabi-lità e di aiuti di Stato.

Nella prospettiva europea, la dotazione di una rete infrastrutturale integrata ed efficiente implica la valorizza-zione di tutte le potenzialità del coordinamento sia nella selezione degli interventi prioritari (trattandosi di opere che attraversano i territori di più Stati), che sotto il pro-filo della dotazione finanziaria. A quest’ultimo proposito, la strategia europea propone il coinvolgimento di risorse provenienti dal mercato, oltre che di finanziamenti pub-blici, cui possono aggiungersi le risorse attivabili attraverso i prestiti della Banca europea degli investimenti (Bei). Un finanziamento totalmente pubblico rischia di essere insuf-ficiente a causa degli stringenti vincoli di bilancio gravanti sugli Stati membri dell’Uem; un finanziamento interamente privato si scontra con i rischi che presenta la realizzazione di opere di notevole impatto per la lunga durata dell’am-mortamento e l’aleatorietà della redditività. Per questi motivi il modello europeo propone un quadro articolato ispirato alla cooperazione tra pubblico e privato.

Da questo punto di vista, però, l’esperienza italiana risulta contraddittoria: nonostante che, come rilevato nel capitolo primo, la percentuale dei lavori affidati in project financing abbia raggiunto circa il 20% dell’importo delle gare aggiudicate, la composizione delle gare bandite nel 2008 segnala una scarsa presenza di opere infrastruttu-rali di carattere strategico, limitata sostanzialmente a due:

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l’Autostrada regionale Cispadana (1.095 milioni) e la Tan-genziale Est esterna di Milano (1.579 milioni). Ciò sem-bra dipendere dalla indisponibilità di un quadro di riferi-mento sufficientemente attendibile dal punto di vista dei costi effettivi dei progetti e della tempistica del loro com-pletamento, che rende incerta la prospettiva di coprire anche parzialmente i costi con i flussi di cassa assicurati dai proventi derivanti dalla gestione dell’opera.

È peraltro positivo che nel nostro paese si sia recente-mente avviata una seria valutazione delle potenzialità che possono offrirsi dalla combinazione di risorse attivabili me-diante prestiti Bei e l’utilizzo di altri strumenti quali la Cassa depositi e prestiti. Naturalmente non si può sottovalutare l’estrema difficoltà di interventi di tale natura, che devono conciliarsi con la complessità della disciplina vigente e l’in-sopprimibile varietà di fattispecie previste (concessione di lavori pubblici; concessione di servizi; concessione a terzi per la gestione di un servizio pubblico locale; project finan-cing propriamente inteso; general contractor; società mista; società di trasformazione urbana, leasing).

Va da ultimo considerato che nella prospettiva euro-pea, a differenza di quanto è avvenuto in alcuni casi nel nostro paese, l’intervento del privato deve essere effettivo, senza garanzie dirette o indirette dello Stato che compor-tino la classificazione dell’operazione all’interno del de-bito pubblico.

In assenza di tali profili la politica delle infrastrutture finisce per dipendere in larga misura dai ristretti margini di manovra a disposizione della finanza pubblica. In parti-colare, trattandosi per lo più di interventi da realizzare in un arco temporale pluriennale, un valore decisivo è assunto dal debito pubblico, anche in relazione alla sua variazione annuale in base all’andamento dell’indebitamento netto della P.A.

La discussione in corso a livello europeo verte, ap-punto, sulla possibilità di consentire un’attenuazione dei vincoli relativi ai saldi rilevanti (debito e indebitamento netto) per la realizzazione di opere infrastrutturali, in considerazione della simmetria temporale tra gli effetti

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che ne deriverebbero per la finanza pubblica e l’utilità che dalle opere stesse potrebbe trarsi nel tempo.

3.3. L’assenza di un quadro contabile chiaro

Alle oggettive carenze di stabili e certi finanziamenti per le grandi opere in una situazione obbligata di rientro da alto debito, si aggiungono le difficoltà derivanti dalla insufficiente chiarezza sull’entità delle risorse effettiva-mente disponibili nel bilancio dello Stato per la realizza-zione delle stesse opere.

Le risorse sono infatti affidate alla responsabilità di diverse amministrazioni e iscritte a titolo diverso.

Neppure il processo di riclassificazione del bilancio sembra aver apportato significativi miglioramenti quanto alla rintracciabilità delle risorse finalizzate per il potenzia-mento e l’ammodernamento delle infrastrutture.

Un ulteriore elemento di criticità è costituito dalla in-sufficiente armonizzazione che contraddistingue le regole e le convenzioni contabili applicate per le diverse tipolo-gie di interventi. Si applicano, infatti, regimi tra loro assai differenti, sia in relazione all’inclusione del soggetto com-mittente nel perimetro della P.A., sia riguardo al titolo della spesa (concorso alla ricapitalizzazione, contributo agli investimenti, contributo alle spese di manutenzione), sia con riferimento al fatto che si tratti di un’opera nuova ovvero della prosecuzione di un intervento già avviato.

Nel nostro paese, un ulteriore elemento di complica-zione è costituito dalla sovrapposizione di diversi saldi: oltre al saldo europeo dell’indebitamento netto della P.A. (espresso in termini di competenza economica), si continua a fare riferimento al saldo netto da finanziare (espresso in termini di competenza giuridica). Tale secondo saldo, con-sistendo in una autorizzazione di spesa annuale o plurien-nale, finisce per amplificare gli effetti delle spese in conto capitale – e in particolare per le infrastrutture – sul bilancio pubblico, in quanto determina la coesistenza di vincoli di compensazione e di vera e propria copertura finanziaria.

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Emerge dunque un difetto di coordinamento e armo-nizzazione tra i principi e le regole europee, determinate dal Patto di stabilità, con quelle interne, derivanti dalle prassi interpretative relative all’obbligo di copertura fi-nanziaria e alla classificazione contabile delle spese plu-riennali per investimento.

4. Bilanciamento degli interessi e rispetto dei tempi del procedimento: procedure insoddisfacenti e non rispettate

Dall’analisi svolta dal gruppo di ricerca coordinato dai professori Amato, Cerulli Irelli e Urbani emerge come di fronte alla complessa dialettica di interessi, «positivi» e «oppositivi», che entrano in gioco nel processo decisio-nale in materia di infrastrutture, si sia registrata l’insuf-ficienza dello strumento ordinario previsto per la com-posizione degli interessi pubblici coinvolti in un procedi-mento amministrativo, ovvero della conferenza di servizi. Da parte degli operatori del settore si lamenta inoltre il carente rispetto dei tempi di definizione dei procedimenti da parte delle amministrazioni competenti (in particolare per quanto riguarda la Via).

Concepita quale modulo di esame e confronto con-testuale dei diversi interessi in gioco, tendenzialmente equiordinati rispetto alla definizione dell’assetto decisio-nale conclusivo, e di coordinamento delle direttrici di azione, la conferenza di servizi presenta un aspetto for-temente critico laddove le amministrazioni preposte alla cura di interessi tendenzialmente «oppositivi» (attinenti alla tutela di valori e beni giuridici di rilevanza costitu-zionale quali la salute, il paesaggio, la difesa del suolo e delle risorse naturali, la promozione culturale, l’ambiente, di per se stessi incidenti con qualsiasi scelta di utilizzo del territorio), siano contrarie alla realizzazione dell’opera. In tal caso, infatti, l’operatività dei meccanismi di supera-mento del dissenso, che prevedono la rimessione della de-cisione finale a un organo politico di livello governativo, non ha trovato pressoché alcuna applicazione.

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E ciò in ragione della circostanza che difficilmente l’autorità politica di governo intende assumersi la re-sponsabilità di decisioni che si pongono in contrasto con considerazioni di carattere tecnico, legate alla tutela di interessi considerati primari nel nostro ordinamento (ad esempio la salute), e che comunque non sono condivise.

Nel tempo, il legislatore ha affiancato alla disciplina appena sintetizzata alcune discipline speciali, dichiarata-mente orientate alla semplificazione e accelerazione delle procedure, in una direzione derogatoria delle ordinarie modalità di acquisizione degli atti di assenso da parte dei diversi centri di interesse di livello locale.

Si tratta delle procedure dettate dalla citata Legge obiettivo (oggi confluite nel Codice dei contratti pubblici) per le infrastrutture di carattere strategico, che attribui-scono un ruolo centrale, e tendenzialmente assorbente delle competenze ordinariamente ripartite tra diversi li-velli amministrativi, al ministero proponente e al Cipe (pur con l’intesa della Regione interessata), con un con-testuale declassamento del ruolo delle amministrazioni lo-cali che devono attenersi alla decisione presa.

Tuttavia, il riprodursi di situazioni di blocco è da adde-bitare per lo più alla circostanza che gli Enti locali, e segna-tamente i Comuni, sono privati di fatto di ogni possibilità di incidere sul processo decisionale in ordine alla program-mazione e localizzazione dell’opera. Ciò dimostra come la soluzione adottata sia ancora insoddisfacente: la privazione degli Enti locali di ogni potere relativo alla localizzazione dell’opera, senza preventive procedure di adeguata istrut-toria, negoziato e persuasione, ha l’effetto di sospingere gli Enti stessi verso l’opposizione alla realizzazione dell’inter-vento, che di fatto viene bloccato, pur non avendo gli Enti locali, in base alla disciplina speciale, il potere di impedire che l’infrastruttura programmata sia realizzata.

Le vicende attuative di una normativa drasticamente semplificatrice dimostrano che una ridefinizione e una differente gradazione delle rispettive sfere di competenza fra i livelli territoriali, a seconda del rilievo dell’interesse pubblico servito dalle diverse infrastrutture, è un requi-

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sito essenziale di qualità dell’ordinamento normativo. Re-quisito tanto più necessario quanto più andrà assestandosi il sistema della governance multilivello delle grandi poli-tiche pubbliche. In tal senso la legislazione del 2001 ha ribadito alcuni criteri, se non alcuni veri e propri principi normativi (alcuni peraltro già presenti nell’ordinamento): le prerogative comunali sull’uso del territorio di compe-tenza non possono valere con la stessa intensità rispetto a opere destinate a servire la comunità locale e ad altre da cui può dipendere la salvaguardia di vitali interessi del-l’intera comunità nazionale.

Tuttavia, tale processo di differenziazione deve accom-pagnarsi all’introduzione di procedure di partecipazione in-formata, consultazione, codecisione in grado di costruire la convergenza e il consenso. Sotto questo profilo, invece, la normativa introdotta sembra ancora insufficiente e quindi poco integrata in un sistema politico istituzionale come il nostro, nel quale risulta inefficace qualsiasi strumento che, in virtù di un potere decisionale affidato a singoli organi-smi, pretenda di prescindere dal consenso.

Il quadro di accelerazione decisionale si completa con la previsione della possibilità, in capo al ministro compe-tente, di proporre al presidente del Consiglio dei ministri, sentiti i ministri competenti, nonché i presidenti delle Re-gioni interessate, la nomina di Commissari straordinari che seguano l’andamento delle opere, promuovendo anche le intese necessarie alla realizzazione dell’opera tra i soggetti pubblici e privati. Tali figure operano per lo più come or-gani di supervisione e coordinamento istruttorio e opera-tivo, anche se all’atto della nomina si sono a essi comun-que attribuiti effettivi poteri emergenziali e derogatori.

Alcune recenti innovazioni legislative sulla semplifi-cazione procedimentale in materia di infrastrutture stra-tegiche (articolo 20, comma 1, del d.l. n. 185/2008, con-vertito dalla legge n. 2/2009) hanno inoltre previsto una procedura straordinaria, e dichiaratamente sostitutiva del-l’ordinario assetto di competenze decisionali, basata su un procedimento di localizzazione ad hoc e dai contorni non prefissati, determinato direttamente con decreto del presi-

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dente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente, con un commissario, dotato di competenze e poteri emergenziali, che vigila sul rispetto dei tempi di tutte le fasi di realizzazione dell’investimento.

Al di là dei sistemi normativi testé sommariamente descritti, si pongono poi le procedure di carattere emer-genziale (ai sensi della l. n. 225/1992 sulla protezione ci-vile), nelle quali l’obiettivo della realizzazione dell’opera si persegue mediante la deroga a tutte le disposizioni ordinamentali vigenti e l’affidamento dello stesso a un unico soggetto (il commissario delegato, nominato dal presidente del Consiglio), con pieni poteri, anche di or-dinanza.

Tale ultima disciplina, estesa anche alla gestione dei «grandi eventi» (G8, Torino 2006, Expo 2015, ecc.) e, in un caso, alla realizzazione di infrastrutture strategiche (Passante di Mestre), ha dimostrato un maggiore tasso di efficacia nel raggiungimento del risultato, ma denuncia (e accentua) una patologia del sistema che perde in tal modo un criterio di distinzione fra risposta a situazioni eccezionali e non prevedibili e gestione di competenze or-dinarie. Inoltre, tale soluzione presenta un inconveniente specifico: essa rischia di escludere dal processo decisio-nale – con prevedibili ricadute sul livello di consenso e sulla responsabilizzazione di tutti i soggetti pubblici coin-volti – gli Enti locali e le amministrazioni preposte ai sin-goli interventi. Un correttivo efficace si è rivelato il coin-volgere, in ogni caso, tutte le amministrazioni procedenti, come accaduto con l’Osservatorio per la Val di Susa, o nominando tra di esse un commissario come nel caso po-sitivo del Passante di Mestre.

5. Bassa legittimazione delle opere pubbliche

Rispetto all’ampia esperienza sviluppatasi in altri paesi, in Italia si riscontra l’assenza di adeguate procedure di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini nella rea-lizzazione delle opere pubbliche.

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Nel passato la politica è stata capace di coprire tutti gli spazi di rappresentanza e di saldare efficacemente in-teressi locali, regionali e nazionali. Oggi questa forma di politica ad ampia capacità di rappresentanza è venuta meno e non è stata sostituita da procedure di partecipa-zione adeguate.

Di conseguenza, i cittadini sembrano sempre più pronti a mobilitarsi contro le infrastrutture piuttosto che per favorire la loro realizzazione. Le resistenze si accen-tuano man mano che ci si avvicina al territorio e alla fase attuativa. I cittadini si trovano a dover e poter intervenire in fasi assai avanzate di attuazione e hanno così svilup-pato una domanda di partecipazione ai procedimenti de-cisionali in senso meramente oppositivo.

Il problema della decisione amministrativa non è sol-tanto quello della rapidità, ma anche quello della sua le-gittimazione: una decisione amministrativa, anche se as-sunta in tempi rapidi, non diventa efficace se non è con-divisa dai destinatari o almeno legittimata da un consenso «procedurale» sulle modalità seguite per la sua adozione.

L’esperienza insegna che senza un’adeguata legittima-zione l’attuazione di qualunque decisione diventa molto difficoltosa, vuoi per la possibile resistenza passiva degli apparati e degli interessati, vuoi per il maggior rischio di un contenzioso giudiziario e di un conseguente travolgi-mento della decisione stessa, Le modalità attuali di parte-cipazione ai processi decisionali rappresentano, anche per le ragioni già illustrate, un punto di debolezza dell’attuale assetto dei rapporti tra cittadino e Pubblica amministra-zione, soprattutto per il profilo della legittimazione del-l’azione dei pubblici poteri. La relazione del gruppo di ricerca coordinato dal prof. Luciani, sottolinea come una partecipazione correttamente regolata potrebbe costituire uno strumento importante di legittimazione e di defla-zione del contenzioso (e, quindi, di maggiore efficienza dell’azione pubblica).

PARTE SECONDA

LE POSSIBILI SOLUZIONI

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Nella seconda parte del Rapporto si prospettano le pos-sibili linee di azione per rispondere all’insieme dei problemi passati in rassegna nella prima parte. Come la prima parte, an-che la seconda si articola in capitoli, corrispondenti rispettiva-mente agli interventi relativi alle questioni di carattere generale e a quelli relativi alle specifiche problematiche del settore.

Il capitolo quarto è diretto a considerare la politica delle infrastrutture di interesse nazionale nel quadro del compi-mento dei processi di riforma dei rapporti tra i livelli territo-riali e dell’adeguamento delle capacità tecniche e istruttorie delle Pubbliche amministrazioni. Si punta a ridurre l’eccesso normativo, burocratico e giurisdizionale attraverso una plu-ralità di interventi diretti a migliorare strumenti, metodi e comportamenti, piuttosto che a introdurre nuove norme. Questo insieme di interventi mira a costituire le condizioni per una forte e autorevole politica generale di governo del territorio, come contenitore per coordinare un insieme di politiche pubbliche tra le amministrazioni e tra i livelli ter-ritoriali, ricollocando il tema delle infrastrutture di interesse nazionale al centro di un discorso che tocca i grandi nodi strutturali del nostro paese (governo del territorio, articola-zione della Pubblica amministrazione, policentrismo politico e istituzionale, legittimazione dei poteri pubblici).

Nel capitolo quinto si prospettano interventi mirati a ridurre il contenzioso e a migliorare la strumentazione pro-cedurale, tecnica e partecipativa a supporto della program-mazione e realizzazione delle infrastrutture di interesse na-zionale, in correlazione con le procedure di programmazione finanziaria. Il quadro di questi interventi si ordina a partire dall’architettura istituzionale delineata dalla Legge obiettivo, da riformulare come legge pilota nella riarticolazione delle politiche pubbliche tra i livelli territoriali.

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I problemi evidenziati nella prima parte di questo Rapporto sono radicati nella realtà del paese. A problemi di questa portata si può rispondere solo nell’ambito di li-nee evolutive che la stessa realtà del paese – grazie alla sua persistente vitalità e dinamica – esprime.

Mettere il territorio al centro di una politica generale che colleghi le diverse amministrazioni dello Stato e i li-velli di governo è la risposta più importante – individua-bile nelle linee di tendenza già in atto – per affrontare l’insieme dei problemi che incidono nella realizzazione delle grandi infrastrutture di interesse nazionale.

Nel concetto di territorio convergono due profili: quello della conformazione fisico-geografica di una certa area (dal punto di vista orografico, idrografico, ecc.) e quello del campo di forze. Un territorio è il risultato delle forze espresse dalle attività economiche, dai centri poli-tici, dalle istanze sociali che lo interessano in diverse di-rezioni: alcune di esse sono endogene, altre esogene, inte-ragendo le une sulle altre secondo modalità che possono essere di rafforzamento reciproco, conflitto, elisione (ma vi può essere anche il caso che queste forze non si incro-cino mai e che la loro interazione in senso positivo possa essere resa possibile solo attraverso la creazione delle op-portune infrastrutture). Per queste sue caratteristiche un territorio è per definizione una realtà in movimento, né statica né passiva.

È proprio il territorio che ci permette in primo luogo di tenere conto della natura profondamente plurale del nostro paese. Come si è evidenziato nella prima parte del Rapporto, l’Italia è una realtà multipolare, segmentata in una molteplicità di aree definite da particolari caratteristi-che fisiche, sociali, economiche, spesso ad altissimo grado

CAPITOLO QUARTO

GOVERNARE IL TERRITORIO

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di intensità e diversificazione. Ciascuno di questi «terri-tori» (che non necessariamente coincidono con le arti-colazioni istituzionali-amministrative previste per queste aree), esprime particolari esigenze di sviluppo, mobilità, interrelazione con gli altri, che vanno adeguatamente co-nosciute e interpretate nel momento in cui si progettano le grandi opere. Questo schema ci consente di vedere, d’altro canto, il nostro paese nel suo insieme e a sua volta come un territorio attraversato da campi di forze che sono generati dai sottosistemi territoriali.

La prospettiva del territorio offre quello di cui il no-stro paese ha forse più bisogno, un progetto di autorico-noscimento delle proprie caratteristiche reali e di lunga durata, decisivo per un paese che oscilla continuamente fra retorica delle riforme (che spesso rimangono all’ef-fetto annuncio), atteggiamenti fatalistici rispetto a una si-tuazione che si ritiene immodificabile e meccanismi finali di autogiustificazione per ciò che non è stato fatto.

Una politica pubblica delle infrastrutture è capace di porre in relazione le opere con il territorio. Una politica di questo genere è all’opposto della concezione secondo la quale le infrastrutture si sovrappongono a un territorio che viene concepito come «passivo», o addirittura come un ostacolo da superare per la realizzazione delle opere.

Mettere in relazione le infrastrutture con il territorio significa invece adottare una diversa strategia articolata in una serie di azioni ben precise.

Le principali sono le seguenti:a) Conoscere il territorio. La realizzazione delle infra-

strutture deve basarsi su un’adeguata conoscenza di tutte le caratteristiche geografiche, demografiche, sociali ed economiche espresse dai territori interessati dagli inter-venti. Questa conoscenza si consegue mettendo a frutto in primo luogo le basi di dati esistenti, ad esempio di tipo statistico, e quelle provviste della necessaria «ter-zietà» rispetto agli interessi in campo.

b) Ascoltare il territorio. La pianificazione degli inter-venti deve essere preceduta da un’accurata istruttoria in grado di fare emergere le istanze espresse dai territori.

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L’istruttoria deve essere sufficientemente aperta, ampia e flessibile, in modo da tenere adeguatamente conto di tutti gli interlocutori significativi. Queste procedure devono es-sere in grado di innescare sin dagli inizi un atteggiamento di corresponsabilizzazione e di fiducia rispetto alla realiz-zazione degli interventi, anche attraverso la presentazione di opzioni alternative. È evidente che, per essere credi-bile, l’istruttoria deve essere svolta con congruo anticipo rispetto alla progettazione definitiva, in modo da prospet-tare una situazione ancora realmente aperta per alcuni profili fondamentali.

c) Associare il territorio. Occorre associare il territorio alla realizzazione dell’opera, facendolo sentire protago-nista e non vittima dell’infrastruttura. È pertanto oppor-tuno introdurre forme di partecipazione regolata quale strumento fondamentale di legittimazione della decisione concernente le grandi opere e di deflazione del conten-zioso (e, quindi, di maggiore efficienza dell’azione pub-blica).

d ) Assicurare un’adeguata pianificazione del territorio. Gli interventi riguardanti le infrastrutture si sono rivelati difficili da progettare e realizzare anche per la mancanza di indirizzi strategici di medio termine e di un’adeguata pianificazione territoriale in grado di offrire un quadro di riferimento su una prospettiva territoriale e temporale sufficientemente ampia.

e) Applicare il principio di sussidiarietà nella realizza-zione delle grandi opere. La prospettiva del territorio ap-pare quella più in sintonia con il principio europeo – e ora costituzionalizzato anche dalla nostra Carta – della sussidiarietà. Nella realizzazione delle grandi infrastrut-ture strategiche si attua in modo reale quell’azione di unificazione del paese che è compito permanente della Repubblica e alla quale sono chiamate a concorrere con lo Stato le autonomie territoriali e funzionali e gli stessi soggetti privati, quali le grandi imprese che operano nel settore. Tale concorso deve tuttavia avvenire secondo un disegno ordinato in grado di identificare le rispettive re-sponsabilità.

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f ) Decidere le infrastrutture necessarie per il territorio. Una volta effettuata l’istruttoria e stabilito il quadro di ri-ferimento territoriale e urbanistico, la decisione da parte degli organi politici deve avvenire in modo da stabilire in modo chiaro e argomentato quali sono gli obiettivi per-seguiti dalla realizzazione delle opere. Queste ultime non possono infatti essere presentate come un obiettivo in sé, ma come uno strumento per raggiungere determinati ri-sultati in termini di sviluppo, miglioramento della mobi-lità, decongestione, offerta di nuove opportunità di vita, di lavoro e di sviluppo. Questo tipo di decisione presup-pone un’adeguata prospettiva di «visione» sul futuro e una piena assunzione di responsabilità da parte degli or-gani di governo.

g) Garantire una buona progettazione delle opere. In-dividuate le opere da realizzare, è fondamentale assicu-rare una buona progettazione delle stesse, sia sul piano strettamente tecnico, in maniera da anticipare, nel modo più preciso possibile, tutti gli aspetti operativi e i costi attesi dalla realizzazione delle opere; sia sul piano della qualità degli interventi, che devono essere all’altezza del grado di complessità e densità storico-culturale del ter-ritorio italiano, concepito come risorsa scarsa da gestire con estrema accortezza.

Questa parte del Rapporto propone le azioni di me-dio-breve periodo che paiono le più idonee a raggiungere queste grandi finalità.

1. Conoscere il territorio

Le caratteristiche di alta intensità storica, geografica e umana del territorio italiano, la sua collocazione europea e mediterranea, i differenziali socio-economici, la confor-mazione fisica e idrogeologica, la forte antropizzazione, la complessità della pianificazione territoriale, rendono indi-spensabili procedure istruttorie capaci di concentrare la co-noscenza del territorio nazionale, per tutti i profili sopra ricordati, fino a farne la forza trainante di una proposta.

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A partire dalla conoscenza di tutti gli aspetti del ter-ritorio italiano, si può ricostruire un’analisi del fabbiso-gno di infrastrutture volto a garantire le esigenze dello sviluppo, non schiacciando, ma curando e proteggendo il territorio stesso.

Questo sforzo di recupero di una visione d’insieme è alla portata del nostro paese: il mondo della ricerca e le amministrazioni – congiuntamente – sono riusciti in più di un’occasione a mettere in campo capacità originali di ela-borazione. Questo sforzo deve diventare elemento perma-nente dei processi decisionali per porre al livello adeguato i rapporti fra i diversi livelli di governo e per raggiungere il grado di consenso politico e sociale necessario ad ac-compagnare processi di trasformazione del territorio.

Il punto cruciale sembra quindi collocarsi nel raffor-zamento dei momenti di studio e di istruttoria preliminari sia nella fase degli indirizzi strategici, sia nella fase di se-lezione delle opere di interesse nazionale.

È evidente che tale capacità istruttoria dovrebbe rag-giungere un grado tale da prendere in considerazione e bilanciare i più fondati argomenti contrari. Tale metodo deve portare a distinguere con chiarezza le questioni che – per la loro evidenza o per il fatto che sono già state de-cise in altri ambiti – non appaiono contestabili, da quelle che restano controverse. Su questa base si può creare una piattaforma chiara per la discussione, il bilanciamento e il necessario ed equilibrato compromesso tra diversi inte-ressi. Solo l’effettiva e approfondita conoscenza di tutti gli aspetti di un territorio come quello italiano può fornire gli argomenti necessari a un metodo di motivata programma-zione delle opere pubbliche e di «oggettiva» persuasione.

Questo è un terreno su cui è particolarmente evidente l’esigenza di una netta discontinuità allo scopo di:

a) aggiornare la strumentazione attivabile per una corretta rappresentazione delle reali condizioni del terri-torio sia sotto il profilo fisico, che relativamente alle atti-vità che sullo stesso insistono;

b) inserire stabilmente le opere che si intende realiz-zare all’interno di una programmazione meno casuale e

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frammentaria delle prospettive di utilizzo del territorio, che assuma tutte le variabili significative.

Non stupisce che la carenza, nel nostro paese, di una base di informazioni attendibili e sufficientemente aggiornate sulle condizioni del territorio, con partico-lare riguardo al sottosuolo e alle risorse idriche, sia stata sanzionata dalle autorità comunitarie. Le informazioni, attualmente detenute da singoli enti e istituti di ricerca, non vengono condivise né utilizzate sistematicamente per arrivare a una rappresentazione tendenzialmente esaustiva delle condizioni delle differenti realtà territoriali.

La disponibilità di una strumentazione tecnologica evoluta, quale in particolare la rilevazione satellitare, può consentire di ottenere significativi progressi. In questo senso, appaiono evidenti i vantaggi che il nostro paese può trarre da progetti articolati in corso di definizione a livello europeo, quali quello per lo sviluppo del sistema di trasporti intelligenti, che prevedono l’utilizzo della tecnologia satellitare per monitorare le condizioni del traffico e indicare possibili percorsi o modalità alterna-tive.

Allo stesso tempo, i dati fisici relativi alle condizioni del territorio devono essere incrociati con quelli relativi alla dimensione socio-economica. A questo specifico pro-posito si può osservare che le rilevazioni Istat, pur assai dettagliate e potenzialmente molto utili, non compren-dono i profili più specificamente geografici.

Quanto alla carenza di adeguati strumenti di program-mazione, è sufficiente ricordare come la proliferazione di varianti ai piani regolatori costituisca il segnale più indi-cativo della crescente difficoltà di mantenere nell’ambito delle procedure esistenti la molteplicità delle istanze e delle sollecitazioni che si propongono.

Il risultato è che il nostro paese registra un sempre più intenso utilizzo del territorio al di fuori di logiche coerenti e di una puntuale valutazione delle ricadute delle opere e dei manufatti realizzati sia dal punto di vista della compatibilità ambientale, sia relativamente alla capacità di prevenire l’emergere di situazioni di congestione.

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A tale scopo, si è riproposta l’ipotesi di assumere a riferimento, ai fini della pianificazione territoriale, un am-bito più ampio di quello attuale, coincidente con il co-mune, eventualmente facendo ricorso al concetto di «area vasta». Va peraltro osservato che l’attuale dimensione della pianificazione territoriale non coincide neanche con la dimensione assunta a fini di statistiche del territo-rio dall’Istat (i c.d. sistemi locali di lavoro) il cui numero (686) è largamente inferiore a quello dei comuni, ma su-periore alle province. In sostanza, il parametro assunto a fini statistici non trova riscontro nell’articolazione delle competenze dal punto di vista amministrativo.

Si pone l’esigenza di valorizzare tutte le possibilità che la strumentazione a disposizione offre; in particolare, occorre che le competenze distribuite tra varie amministrazioni governative (ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti, dell’Ambiente, dell’Economia, dell’Interno, per i Beni e le Attività culturali) e le informazioni disponibili presso le numerose banche dati sul territorio, trovino il modo di in-crociarsi e di assumere le diverse dimensioni dei problemi che la realizzazione di infrastrutture complesse pone.

Anche nell’ambito politico parlamentare emergono analoghe esigenze di rafforzare forme di conoscenza inte-grata e articolata del territorio nazionale. La minore forza dell’organizzazione dei partiti e l’affievolimento della con-nessione fra parlamentari e territori di elezione (in rela-zione al modo di essere dei partiti e dei sistemi elettorali) indebolisce il Parlamento come partner essenziale del Governo e degli Enti territoriali nella capacità di sintesi ai fini dell’individuazione delle priorità e nel loro perse-guimento. A questo difetto può porsi rimedio in primo luogo attivando forme, anche innovative, di sistematica interlocuzione degli organi parlamentari con i territori. Si potrebbe prevedere non soltanto la consultazione, ma il coinvolgimento attivo degli Enti territoriali nei proce-dimenti complessi che si svolgono in Parlamento, a co-minciare dall’esame dell’allegato infrastrutture al Dpef, nonché un rafforzamento degli strumenti di conoscenza e analisi a disposizione dell’istituzione parlamentare.

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Le infrastrutture incidono in misura assai rilevante sulla geografia fisica, economica e sociale del territorio e dunque richiedono studi basati sulla conoscenza delle specificità delle diverse parti del territorio in un quadro di sintesi.

È perciò necessaria una base di dati approfondita della situazione, sotto il profilo del fabbisogno infrastrut-turale delle diverse aree del territorio, che tenga conto di tutti gli aspetti di elevata complessità in precedenza indi-viduati.

Un sistema informativo di questo tipo può nascere solo dall’integrazione degli archivi attualmente disponi-bili e dalla formazione di una base di dati omogenei e tra loro comparabili. È la stessa esigenza emersa nel corso della discussione parlamentare sul federalismo fiscale, con riferimento ai dati economico finanziari e ai costi delle prestazioni per le principali politiche pubbliche.

Questa base di dati sul territorio dovrebbe essere condivisa tra i diversi livelli territoriali e da tutte le isti-tuzioni del paese in modo da costituire un patrimonio co-mune per gli attori pubblici e per le parti politiche che rivestono ruoli diversi nelle istituzioni rappresentative, di maggioranza e opposizione.

Il Parlamento, insieme alle Assemblee regionali e agli Esecutivi, potrebbe concorrere a realizzare questa base di dati, svolgendo uno specifico ruolo di garanzia nel pro-muovere e controllarne i metodi di formazione e le tecni-che di monitoraggio e valutazione.

Il Parlamento, nell’ambito della consolidata area di cooperazione con le Assemblee regionali, potrebbe rap-presentare il luogo più idoneo per la costituzione di un Osservatorio territoriale interistituzionale, da istituire con l’Istat e con la rete dei centri statistici delle autonomie territoriali, insieme ai sistemi informativi articolati su base territoriale sugli aspetti geografici e idrogeologici.

L’Osservatorio dovrebbe fungere da polo di attrazione delle conoscenze della comunità nazionale e da luogo di sintesi, su basi condivise da tutte le istituzioni parte-cipanti (già oggi la Camera dei deputati sta progettando

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un’area informativa comune con le Assemblee regionali sulla legislazione e sulle politiche pubbliche).

Si tratta, infatti, di associare le competenze, cono-scenze e capacità già esistenti presso i diversi livelli ter-ritoriali, le amministrazioni pubbliche, le università e gli istituti di analisi e ricerca, compresi quelli legati alle asso-ciazioni politiche, sindacali e del terzo settore. Allo stesso Osservatorio andrebbe affidata la raccolta e l’elaborazione di piattaforme conoscitive sulle problematiche territoriali nelle diverse zone del paese.

Parallelamente, dovrebbe costituirsi presso il Cipe un Centro di analisi strategica, analogo a quello costituito in Francia nel 2006, che, da un lato, concorrerebbe con l’Osservatorio interistituzionale alla formazione delle basi dati e delle piattaforme conoscitive e, dall’altro, costitui-rebbe il supporto istruttorio per la definizione degli indi-rizzi strategici, al più alto livello politico fra Parlamento, Governo e sistema delle Conferenze Stato-autonomie, con particolare riferimento alle grandi infrastrutture e all’esi-genza di ripartire in modo equilibrato costi e benefici sul territorio nazionale. Inoltre il Centro provvederebbe al-l’istruttoria per la selezione delle opere da considerare di interesse nazionale e all’individuazione delle priorità.

Il Centro dovrebbe unificare le diverse linee istrutto-rie all’interno del Governo (ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ministero dell’Ambiente, Attività pro-duttive, Economia-Ragioneria Generale dello Stato per i profili finanziari ecc.), realizzando un luogo di reale de-finizione della proposta tecnica, che la stabilizzi e lasci al Cipe la scelta delle sole, ristrette, autentiche, opzioni politiche. Una buona politica rafforza e stabilizza la pro-grammazione, mettendola al riparo, per quanto possibile, da cambi radicali di indirizzo politico. Dall’altro lato il Centro dovrebbe costituire la sede di acquisizione delle istanze espresse dai territori, con la partecipazione di una componente tecnica rappresentativa delle autonomie ter-ritoriali attraverso le Conferenze Stato-autonomie (cfr. il par. 6 del cap. quinto).

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2. Articolare le politiche pubbliche in senso territoriale fra Europa, Stato e autonomie

Il tema delle infrastrutture si presta a misurare in con-creto la possibilità di accelerare l’evoluzione del sistema istituzionale e dei rapporti tra l’insieme dei poteri pub-blici, che è ancora incompiuta dopo la riforma del Titolo V e le riforme legislative delle maggiori politiche pubbli-che che si sono succedute partire dagli anni Novanta. La persistente mancanza di una cornice unitaria essenziale – come il sistema di coordinamento della finanza pubblica e il federalismo fiscale – oltre alla mancanza di un ramo del Parlamento dedicato alla rappresentanza territoriale, ha finora impedito il pieno svolgimento di un sistema ordinato di rapporti e ha finito talvolta per incoraggiare forme di autonomia più autoreferenziali che relazionali.

L’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione con-figura, a questo proposito, un vero e proprio «secondo tempo» di attuazione dell’intero impianto della riforma, che troverà ancora negli interventi sulle infrastrutture uno dei suoi test cruciali.

Il «terzo tempo» potrà essere costituito dal completa-mento del processo di riforma costituzionale, con riferi-mento agli aggiustamenti nella distribuzione delle compe-tenze che l’esperienza abbia reso necessari, e alla riforma del Parlamento con la creazione di una Camera delle Re-gioni, che concorra a fare del Parlamento la sede delle scelte politiche strategiche capaci di impegnare i diversi livelli territoriali.

Nell’immediato, l’attuazione di un quadro di coordi-namento della finanza pubblica e del federalismo fiscale offre l’occasione per completare la complessiva armoniz-zazione del nostro ordinamento e per un generale rior-dino dei rapporti tra i poteri pubblici nel senso della leale cooperazione e della reciproca responsabilità tra i poteri stessi e verso i cittadini. In pratica, ciò consentirà di riar-ticolare le politiche pubbliche in modo più coerente e li-neare tra Stato, Autonomie e Unione europea, superando una situazione nella quale diverse procedure si sono stra-

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tificate per l’accumulo, disordinato e privo di una cornice unitaria, di diversi fattori di ordine normativo, negoziale o giurisprudenziale.

La Legge obiettivo – concepita in una fase ancora iniziale di applicazione delle nuove norme costituzionali, successivamente più volte modificata in via legislativa e attraverso interventi di carattere giurisprudenziale, poi interpretata in sede amministrativa e ancora di più nelle sedi negoziali – costituisce forse il più avanzato ed emble-matico caso di una legge procedimentale di collegamento tra i diversi livelli territoriali. La sua attuazione risente tuttavia di tutte le problematiche ancora aperte e, più di tutto, della mancanza di un quadro unitario, ordinato e sistematico dell’insieme dei rapporti.

Non è un caso se, proprio con riferimento alla Legge obiettivo, la giurisprudenza della Corte costituzionale (a partire dalla sentenza n. 303 del 2003) ha enucleato al-cuni principi guida per assicurare un’interpretazione evo-lutiva del riparto di competenze fra lo Stato e i diversi livelli territoriali definito dal nuovo Titolo V della Costi-tuzione. Quella giurisprudenza richiama la necessità di in-dividuare procedure di leale cooperazione tra lo Stato e le autonomie in grado di pervenire a decisioni condivise sulla realizzazione delle grandi infrastrutture.

A partire da qui, le infrastrutture possono costituire ancora una volta il punto critico di concreta verifica, ade-guamento e avanzamento dei processi di riforma tra i li-velli territoriali. Su questo tema agisce la forza trainante generata dal ritardo infrastrutturale, che mette ormai a ri-schio la risposta a bisogni vitali dei cittadini (trasporti, lo-gistica, energia, rifiuti, acqua ecc.) delle diverse comunità territoriali e dell’intero paese.

La vicenda della Legge obiettivo si ripropone quindi come il terreno più concreto per migliorare le procedure di raccordo, in modo da distinguere e non confondere i diversi ruoli al fine di assicurare l’articolazione delle re-sponsabilità, la trasparenza e il controllo democratico.

È forse venuto il momento di andare oltre la pur fondamentale sentenza n. 303, che agiva in via di adat-

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tamento successivo, e di costruire in via legislativa un quadro più ordinato nel quale la leale collaborazione tra i livelli territoriali possa svilupparsi attraverso procedure adeguate alla complessità della decisione. In particolare occorre distinguere con chiarezza i compiti, le diverse responsabilità e anche i doveri reciproci, evitando forme di coordinamento e di intesa in cui la quota che spetta a ciascuno si confonde con le altre. Anche grazie ad ade-guate procedure istruttorie, conoscitive e di elaborazione aperta e partecipata, come quelle definite nel paragrafo precedente, dovrebbe restare distinto e ben articolato in capo allo Stato il compito di promuovere processi di con-sultazione preventiva, di organizzare piattaforme conosci-tive condivise e di decidere – su queste basi – gli obiet-tivi e i vincoli che corrispondono a bisogni vitali della comunità nazionale o di parti del suo territorio. Si può, infatti, ritenere che tali obiettivi corrispondano – in parte – all’individuazione di quei livelli essenziali delle presta-zioni concernenti «i diritti civili e sociali» per i quali la Costituzione prevede una competenza esclusiva dello Stato (legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, art. 13, comma 1, lettere c e g, art. 16, comma 1, lettera c, artt. 22 e 23, comma 6, lettera f ), ma – per un’altra parte – debbano discendere da una visione complessiva di me-dio-lungo periodo dello sviluppo economico e territoriale del paese. L’elaborazione di un tale quadro programma-tico è – allo stesso tempo – precondizione e componente essenziale di un insieme di politiche pubbliche, alle quali tutti i livelli di governo sono chiamati a concorrere e che si interconnette saldamente al contesto europeo.

Questo insieme di politiche pubbliche – tra le quali spiccano l’energia, la viabilità, i sistemi urbani, la portua-lità e la logistica, il ciclo dei rifiuti e la sostenibilità am-bientale, le reti immateriali, la telematica, ecc. – hanno per loro natura una portata più ampia delle competenze attribuite a qualsiasi livello di Governo e devono quindi collegarli e farli convergere tutti.

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3. Fare giocare in sinergia il complesso dei poteri che inci-dono sul territorio

La ricca articolazione della rappresentanza politica sul territorio presenta aspetti problematici, come si è detto in precedenza. Tale articolazione va tuttavia confrontata con la già descritta complessità originaria della questione ter-ritoriale nel nostro paese. In questa prospettiva i diversi livelli della rappresentanza possono essere impegnati in modo più intenso per conoscere e governare la comples-sità del territorio rispetto all’opacità delle soluzioni buro-cratiche.

La complessità del territorio appare infatti così elevata da rendere illusoria la possibilità di una semplificazione mediante interventi di centralizzazione dall’alto, che si presentano semplificatori sulla carta, ma che risultano in definitiva improduttivi in quanto non in grado di assor-bire i veri punti di problematicità. L’esperienza dimostra che i problemi di consenso non si risolvono in termini di potere, ma solo in termini di sensibilità, coinvolgimento e di motivata conoscenza capace di mettere in moto pro-cessi oggettivi di persuasione.

Dall’altra parte, la molteplicità dei poteri locali, in assenza di un approfondito quadro conoscitivo del ter-ritorio, che leghi tra loro le diverse parti e di un conse-guente disegno strategico che fornisca una nuova ragione di scambio tra di esse, tende a produrre un «effetto fram-mentazione», che è emerso nei commenti di alcuni osser-vatori della realtà italiana e produce autoreferenzialità e localismo invece che autonomia e responsabilità.

Nella definizione e attuazione delle politiche pubbli-che gli enti che, ai sensi dell’articolo 114 della Costitu-zione, compongono la Repubblica (Stato, Regioni, Pro-vince, Comuni, Città metropolitane), sembrano spesso giocare ciascuno una partita propria, accentuando la com-plessità del sistema che può senz’altro ritenersi patologica perché declinata in senso anomico.

Per un paese come l’Italia diventa allora vitale riu-scire a ridurre questa parte della complessità attraverso

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l’individuazione di forme di governance in grado di fare giocare in sinergia le risorse messe in campo dai diversi livelli istituzionali. Per raggiungere questo scopo vi è bi-sogno di un principio ordinatore costituito da politiche nazionali dotate della sufficiente ampiezza e fondate su solidi elementi conoscitivi e istruttori capaci di offrire una base dimostrativa efficace della necessità degli interventi da realizzare.

Questi elementi possono essere acquisiti dagli organi di governo nazionali solo attraverso le opportune proce-dure di consultazione con tutti gli altri livelli istituzionali e sfruttando a fondo la funzione di elaborazione strategica della conoscenza da parte della Pubblica amministrazione.

Procedure di consultazione e acquisizioni delle basi tecnico-informative non possono tuttavia sostituire il do-vere di adottare le decisioni che spettano a ciascun livello di governo assumendone pienamente la responsabilità po-litica e amministrativa.

4. Rafforzare la capacità delle Pubbliche amministrazioni di operare in senso territoriale e sostenere la realizza-zione dei grandi progetti

Come evidenziato dall’analisi svolta dal gruppo di ri-cerca coordinato dal prof. Petroni, riveste un ruolo fon-damentale ai fini dell’abbattimento dei tempi di realizza-zione delle opere infrastrutturali, nonché dei relativi costi, il rafforzamento delle capacità conoscitive e delle com-petenze tecniche degli apparati ministeriali, e non solo, caratterizzati da un eccessivo peso relativo della compo-nente giuridica. Occorrerebbe dunque investire nella ri-qualificazione delle capacità tecniche e organizzative delle amministrazioni, ponendo così le basi per la definizione di bandi di gara che consentano un sollecito avanzamento delle diverse fasi di realizzazione delle opere. È una strada già percorsa con successo in alcuni paesi stranieri.

Emerge una domanda, in larga misura ancora inevasa, di adeguamento professionale e culturale alle nuove esi-

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genze gestionali della dirigenza, in cerca di risposta in termini di appropriate politiche formative. La predispo-sizione di efficaci percorsi di formazione e qualificazione professionale potrebbe attivare processi di apprendimento tra i dirigenti operanti in amministrazioni attive nel set-tore delle politiche infrastrutturali, in un contesto orga-nizzativo aperto e concorrenziale entro il quale siano in-coraggiati l’acquisizione e lo scambio di esperienze e best practices.

Il perseguimento della qualità e della coerenza proget-tuale dovrebbe essere assunto dalla dirigenza come uno dei parametri imprescindibili, per poter fornire la «garan-zia» di progetti dai contenuti qualitativamente elevati.

È necessario dunque un rilancio delle capacità proget-tuali interne delle amministrazioni: per quanto la proget-tazione di grandi infrastrutture non sia più alla portata di nessuna amministrazione contemporanea, è tuttavia neces-sario domandarsi quali competenze siano irrinunciabili e quale percorso occorra delineare per dotare l’amministra-zione italiana di queste competenze.

Sotto questo profilo, si possono distinguere almeno due aree critiche, che rappresentano possibili campi di intervento e di riforma.

Da un lato, un allentamento dei vincoli che regolano le politiche per la gestione del personale, a giudizio degli stessi dirigenti uno dei fattori che più grava sull’efficacia dei processi decisionali. Esiste, in altri termini, una fri-zione tra il disegno delle riforme avviate negli anni No-vanta, che assegnano crescenti responsabilità ai vertici amministrativi, e le difficoltà – nel peggiore dei casi l’im-possibilità – per i dirigenti di coordinare con piena au-tonomia l’organizzazione del personale, in termini di se-lezione, valorizzazione di competenze e merito, sanzioni. Questo determina ricadute negative anche sulla qualità del contributo dei vertici amministrativi alla formulazione e implementazione delle politiche infrastrutturali. Non è sufficiente, infatti, l’introduzione di criteri privatistici di valutazione sul merito, se per i vertici amministrativi per-mane l’impossibilità di selezionare e valorizzare dipen-

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denti e funzionari in base alle loro capacità tecniche e or-ganizzative.

In secondo luogo, attraverso opportuni meccanismi di selezione, valorizzazione e formazione, sembra necessario integrare il genere di competenze professionali fin qui pre-valenti a livello di dirigenza amministrativa, in particolare nelle strutture coinvolte a diverso titolo nella formulazione e attuazione delle politiche relative alle infrastrutture.

La diffusione di un tipo di cultura amministrativa di-retta alla valorizzazione del conseguimento dei risultati, infatti, è una premessa per l’adesione dei dirigenti am-ministrativi a un ruolo più attivo di stimolo e coordina-mento dei processi decisionali.

In questo contesto rileva la recente approvazione della legge 15/2009, contenente misure per l’ottimizzazione e la razionalizzazione della Pubblica amministrazione, avve-nuta il 25 febbraio 2009, che prevede:

– la rilevazione degli obiettivi effettivamente conse-guiti dall’amministrazione, assicurandone la pubblicità ai cittadini;

– l’introduzione nell’organizzazione delle Pubbliche amministrazioni di strumenti di valorizzazione del merito e metodi di incentivazione della produttività e della qua-lità della prestazione lavorativa;

– il divieto di corrispondere al dirigente il tratta-mento economico accessorio qualora abbia omesso di vigilare sull’effettiva produttività delle risorse umane allo stesso assegnate, nonché sull’efficienza della struttura che dirige;

– la previsione che la retribuzione dei dirigenti legata al risultato non possa essere inferiore al 30% della retri-buzione complessiva.

Orientata in questo senso, la dirigenza amministrativa potrebbe assumere maggiori responsabilità anche entro le strutture di supporto al vertice politico dei ministeri (ga-binetti e uffici legislativi), nelle quali attualmente prevale la presenza di personale proveniente dalla magistratura amministrativa, la cui formazione professionale tende na-turalmente a privilegiare il profilo giuridico-normativo.

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5. Rafforzare l’orientamento alla responsabilità sociale del le imprese rispetto al territorio

Agli interventi per migliorare l’efficienza della Pub-blica amministrazione, semplificare i procedimenti deci-sionali, rendere più certe nel tempo le risorse investite, accorciare i tempi delle decisioni pubbliche nel settore delle infrastrutture, deve corrispondere un rafforzato im-pegno da parte delle grandi imprese operanti nel settore a mettere in atto comportamenti coerenti con le respon-sabilità a esse affidate dalla collettività. La realizzazione delle infrastrutture di interesse nazionale richiede imprese adeguate al livello degli interventi dal punto di vista della dotazione tecnica e finanziaria e delle dimensioni opera-tive, ma anche in grado di governare in modo trasparente ed efficace l’intero complesso operativo implicato da que-sto tipo di opere. Si tratta dell’attenzione verso la qualità e l’affidabilità delle imprese subappaltanti, della cura dei rapporti con il territorio, della comunicazione con i citta-dini. Settore pubblico e settore privato devono, in defini-tiva, porre in atto parallelamente comportamenti virtuosi che spezzino la tendenza spesso oggi prevalente all’adat-tamento alle patologie del sistema.

6. Ampliare gli strumenti di partecipazione alle decisioni pubbliche

La legittimazione delle decisioni pubbliche attraverso la consultazione popolare è un’esigenza diffusamente av-vertita non solo da chi ha a cuore il principio democra-tico, ma anche da chi tiene in conto l’efficienza e il buon andamento dell’Amministrazione.

Come si evince dall’analisi svolta in materia dal gruppo di ricerca coordinato dal prof. Luciani, garanzie partecipa-tive e strumenti per il dialogo tra cittadini e Amministra-zione non mancano nella legislazione in vigore. Il sistema italiano del diritto e della giustizia amministrativa, anzi, pare caratterizzato da quella che si potrebbe definire una

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circolarità tra diritto dei cittadini all’informazione e do-vere pubblico di comunicazione, diritto di partecipazione ai procedimenti e dovere di completezza dell’istruttoria, obbligo di motivazione e presupposti per l’impugnabilità giurisdizionale, che consente di escludere la necessità di ricorrere a interventi innovativi sul piano dei principi.

Per dare corpo a un procedimento partecipato e co-municativo, capace di generare legittimazione e quindi efficienza, dunque, non pare necessario tanto individuare strumenti e principi innovativi, quanto integrare in un approccio complessivo tutti gli strumenti sin qui messi a disposizione dall’ordinamento per lo scambio di dati e di opinioni tra l’Amministrazione e il cittadino. È necessa-rio, in particolare, chiarire la tipologia dei modelli parte-cipativi e comunicativi, lasciando all’Amministrazione un margine di scelta tra l’uno e l’altro, ma all’interno di cri-teri prefissati dal legislatore. Da questo punto di vista le questioni cruciali appaiono le seguenti:

a) occorre individuare la fase del procedimento am-ministrativo nella quale inserire la partecipazione dei cittadini interessati; una partecipazione che sopravviene quando la decisione è già stata adottata, presenta rischi di disaffezione e di contrapposizione, che ne fanno uno strumento inefficiente e addirittura dannoso;

b) la partecipazione nella fase iniziale funziona al me-glio se il confronto si sviluppa non su una, ma su una plu-ralità di soluzioni alternative; è infatti retorico il quesito sul se sia meglio scegliere una soluzione realizzativa di una grande opera (per poi, a causa dell’opposizione delle po-polazioni interessate, essere costretti ad abbandonarla in fa-vore di un’altra ipotesi, per la quale ricominciare da capo) o formulare sin dall’inizio più alternative con il vantaggio di un’immissione sincrona anziché asincrona degli interessi;

c) sembra preferibile optare per una pluralità di mo-delli e non per un solo modello partecipativo, evitando le rigidità connesse a scelte aprioristiche e troppo nette.

In questa prospettiva, tutti i modelli partecipativi presentano vantaggi e svantaggi: la legislazione di alcuni paesi europei, offre un’ampia casistica in tal senso.

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Per quanto riguarda il caso italiano, è indispensabile mettere in luce le insufficienze dei tre modelli principali conosciuti dal nostro ordinamento: a) l’immissione degli interessi nel procedimento, b) la consultazione delle cate-gorie o delle istituzioni locali; c) il referendum consultivo locale.

Pur senza abbandonare questi tre modelli tradizional-mente cari al nostro ordinamento, vale dunque la pena di riflettere, sia pure con cautela, anche sugli altri, a partire dal «sondaggio deliberativo». Si tratta di prevedere l’iden-tificazione (in genere con un sorteggio) di un gruppo piuttosto numeroso (alcune centinaia) di cittadini che si impegnano a discutere di una certa politica pubblica. Al-l’esito della discussione non è prevista una decisione, ma solo la registrazione delle varie opinioni, che dovrebbero mutare rispetto alle posizioni di partenza proprio grazie al reciproco confronto e allo scambio di informazioni e di argomentazioni.

La concreta realizzazione di tale strumento richiede tuttavia alcuni requisiti indispensabili: una corretta iden-tificazione della platea dei consultabili; la chiara enuncia-zione da parte dell’amministrazione responsabile della na-tura dell’interesse pubblico primario sotteso all’opera, nel confronto con gli interessi pubblici secondari; la discus-sione concreta relativa alla singola opera che non deve es-sere gravata da un’astratta contrapposizione ideologica.

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1. La conferma di una normativa speciale per le infrastrut-ture strategiche di interesse nazionale

La Legge obiettivo n. 443 del 2001, che prevede di introdurre una normativa speciale relativa a una categoria di interventi «strategici» ai fini dello sviluppo del paese, rappresenta un valido punto di partenza. L’esperienza at-tuativa è stata particolarmente intensa e, nonostante gli esiti alterni quanto ai risultati, ha confermato la validità della scelta di un apposito quadro normativo per inter-venti di interesse nazionale in ragione della priorità poli-tica attribuita.

Si è inoltre già sottolineato come la Legge obiettivo – anche sulla base delle sentenze della Corte costituzionale – costituisce forse il più avanzato ed emblematico caso di una legge procedimentale di collegamento tra i diversi li-velli territoriali anche se la sua attuazione risente di tutte le problematiche ancora aperte e, più di tutte, della man-canza di un quadro unitario, ordinato e sistematico del-l’insieme dei rapporti tra i livelli territoriali stessi.

Rispetto all’intensa esperienza attuativa della Legge obiettivo viene in evidenza la necessità di arricchire il quadro normativo con percorsi procedurali che – inver-tendo la direzione oggi prevalente – facciano partire dal territorio o riportino al territorio (e non solo alle giunte regionali) alcuni passaggi cruciali: a partire dall’individua-zione stessa delle opere strategiche, per proseguire poi nella fase progettuale ed esecutiva. Va inoltre rafforzato un unico polo di autorità in seno al Governo e in parti-colare in seno al Cipe in grado di unificare in via funzio-nale diverse amministrazioni e competenze per le politi-che territoriali.

CAPITOLO QUINTO

GLI INTERVENTI SPECIFICI NEL SETTOREDELLE INFRASTRUTTURE

DI INTERESSE NAZIONALE

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Infine, viene in evidenza la necessità di valorizzare il ruolo attribuito al Parlamento, che è la sede nella quale i processi di ricerca dell’interesse nazionale – in un quadro di pluralismo territoriale e di prospettive di medio-lungo periodo – possono meglio integrarsi e concludersi.

Il dibattito parlamentare è infatti in grado di fare emergere con la massima pubblicità tutti gli elementi in-formativi e i diversi punti di vista sui programmi di inter-venti proposti. I governi succedutisi dal 2001 hanno pro-gressivamente preso atto della centralità di tale dibattito parlamentare ai fini degli effettivi risultati nell’attuazione del programma e hanno attuato la previsione normativa relativa alla pubblicità del programma che ne è l’origine (programma allegato al Dpef) secondo forme sempre più ricche di contenuti.

2. La consultazione delle popolazioni e le compensazioni

In un paese densamente popolato, che ha elaborato in termini di «perdita» del proprio paesaggio un’intera fase storica di sviluppo accelerato e che soffre – in buona parte del proprio territorio – di uno scarso radicamento di tradizioni civiche, la localizzazione di interventi infra-strutturali di interesse generale non può che rappresen-tare una delle fasi più critiche.

Vengono qui in evidenza due nodi problematici che non hanno trovato ancora una soluzione felice nelle norme sulle infrastrutture strategiche.

Il primo è quello delle procedure di consultazione delle popolazioni che vivono sul territorio (cfr. il par. 6 del cap. quarto). Rispetto alle parallele esperienze stra-niere, le norme vigenti risultano – sotto questo profilo – ancora povere, poco articolate e giustapposte a un ordi-namento che – nei suoi assi portanti – non riconosce al-cuni elementi fondativi della cittadinanza attiva: senso di appartenenza a un territorio, esigenza di tutelarne le ri-sorse naturali (su cui si rivendicano anche diritti speciali: tipico l’esempio delle risorse idriche nei territori mon-

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tani), pretesa di non subire passivamente le trasformazioni di questo territorio e di contribuire attivamente a deter-minarne il destino. L’urgenza di chiudere iter burocratici e amministrativi spesso patologicamente lunghi induce i decisori pubblici a sottovalutare questo aspetto che – al contrario – può rivelarsi cruciale. L’opinione delle popo-lazioni insediate sul territorio, se affrontata sin dalle fasi iniziali e secondo procedure appropriate, potrebbe invece diventare un fattore di convergenza e di rafforzamento della fase realizzativa. Nuove norme in materia di consul-tazione pubblica – delle quali già esistono modelli assai efficaci in ordinamenti stranieri – devono investire di più sull’informazione preventiva e sulla capacità propositiva che si forma nel territorio. È questa una delle premesse affinché le norme stesse – e l’azione coerente dei poteri pubblici – possano distinguere e separare nettamente (an-che in termini di risposta) l’espressione di valori costrut-tivi di appartenenza a una comunità, dalle forme (anche collettive) di egoismo sociale e dal rifiuto individualistico di riconoscere la dimensione dei «doveri di cittadinanza».

Questa confusione, oggi marcatissima, fra piani appa-rentemente contigui, ma invece orientati da logiche con-trapposte, è ben visibile in un secondo elemento patolo-gico che si è massicciamente rilevato nella casistica esami-nata. Si tratta del problema delle compensazioni che rap-presenta oggi la spia di uno sviamento dalle finalità origi-narie di parti significative dell’intero sistema normativo in materia di opere pubbliche e infrastrutture strategiche.

C’è una ratio profonda nell’istituto della compensa-zione, che invece si smarrisce nella diffusa pratica di ne-goziato senza limiti e senza regole. Tale ratio è basata su principi chiari e ben definibili. Il primo principio è che alcune infrastrutture di interesse nazionale (o che comun-que recano vantaggi non localizzati) necessariamente pre-sentano invece costi (anche pesanti) a carico di un terri-torio e di una popolazione circoscritti. Tipico è il caso di un impianto di incenerimento di rifiuti. Gli effetti di un tale intervento, se non bilanciati e governati, rischiano di essere molto più pesanti, diffusi e protratti nel tempo, di

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quanto previsto (degrado dei valori immobiliari, trasferi-mento altrove dei nuclei familiari appartenenti alle fasce sociali più alte, crisi degli esercizi commerciali, calo delle entrate derivanti dalla tassazione locale, caduta del livello dei servizi, ecc.). Per evitare tali effetti non voluti, ma prevedibili, occorre riconsiderare la vocazione del terri-torio interessato e realizzare interventi finalizzati a intro-durre efficaci contrappesi o ad aprire nuove linee di svi-luppo territoriale e nuove vocazioni.

In questo contesto si inquadra l’intervento di compen-sazione: esso è il risultato di un vero e proprio processo di pianificazione territoriale, quindi – fra l’altro – aperto alla consultazione pubblica.

Oggi la compensazione è invece pretesa quasi sempre, anche per opere che in realtà assecondano – e non alte-rano – la vocazione di un territorio. In secondo luogo, essa si concretizza spesso in interventi che non hanno alcuna relazione, né funzionale né logica, con l’infra-struttura che deve essere realizzata. Il termine «com-pensazione» ha perso ogni nesso con il contesto a cui si riferisce (il destino di un territorio), per assumere un’ac-cezione semplicemente mercantile: una sorta di sovrap-prezzo pagato dal realizzatore dell’opera per neutralizzare un potere di veto che comunque può essere esercitato dall’ente territoriale. L’istituto, che nasce da un’esigenza di arricchimento e articolazione della pianificazione del territorio, si è convertito in uno strumento di cattiva am-ministrazione.

Appare in questo caso evidente l’inadeguatezza e la superficialità della disciplina della materia. Tale inadegua-tezza risulta poi accentuata nel caso di infrastrutture di interesse nazionale, dove un processo che è partito mobi-litando e responsabilizzando le massime istituzioni di go-verno, finisce poi con il dover fare i conti – in fase realiz-zativa – con angusti ma durissimi negoziati locali.

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3. Sciogliere il groviglio autorizzativo

Fra i tanti grovigli normativi di cui è ricco il nostro ordinamento in materia di opere pubbliche, uno dei più evidenti e intricati è quello in cui finiscono tutte le norme che disciplinano i procedimenti autorizzativi. Almeno per la normativa speciale sulle opere strategiche esso do-vrebbe essere oggetto di una accurata verifica e potatura.

Da alcuni anni – e la Legge obiettivo ha contribuito in modo significativo – sembra essere in atto una accen-tuata divaricazione: da un lato si verifica una crescente produzione di norme che in modo sempre più perento-rio riducono i termini a disposizione di soggetti titolari di poteri autorizzatori, dall’altro si allarga il divario fra quanto previsto in queste norme e quanto avviene nella realtà, con un generale slittamento del contenuto di tali termini (da perentorio a ordinatorio) e un conseguente abbassamento del livello di certezza del diritto.

In questo quadro risulta indicativo della profondità della patologia il fatto che la stessa introduzione di norme – apparentemente risolutive – quali quelle che attribuiscono a un organo di direzione politica poteri sostitutivi definitivi, si siano rivelate – per lo più – inapplicate, e quindi inutili.

Una delle cause di questo «fallimento normativo» ri-siede evidentemente nel fatto che solo alcuni inadempi-menti possono trovare rimedio nell’esercizio di poteri so-stitutivi da parte di soggetti politicamente responsabili. In molti altri casi l’oggettiva complessità tecnica e normativa della fase istruttoria e la potenziale incidenza di una deci-sione e dei suoi effetti su principi di rango costituzionale o comunitario (salute, incolumità dei cittadini, ambiente naturale e informazione ambientale, patrimonio culturale, tutela della concorrenza, ecc.) rendono impercorribile la scorciatoia immaginata dal legislatore.

La casistica esaminata solleva comunque il fondato so-spetto che tale «blocco» del sistema funzioni anche come ombrello protettivo per ritardi non giustificati, inadempi-menti amministrativi e veri e propri comportamenti inter-dittivi e abusi.

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Quest’ultimo dato rinvia poi a una caratteristica più generale del sistema che appare carente di dispositivi in grado di scoraggiare i comportamenti interdittivi e omis-sivi da parte della Pubblica amministrazione. Compor-tamenti che sembrano invece assai diffusi, anche se ri-conducibili a cause differenti, che possono andare dalla semplice inefficienza e irresponsabilità all’alto rischio giu-ridico a cui è esposto l’amministratore in un sistema di controlli improntato al formalismo giuridico.

Il legislatore stesso appare spesso intrappolato nel gro-viglio autorizzativo, con oscillazioni fra tentazioni opposte: da quella dell’infittimento di norme di comando ultimativo (potere sostitutivo, restringimento irrealistico di termini, super-norma decisionista di chiusura), a quella di una de-regulation modernizzante, frutto del vagheggiamento di un’amministrazione e di un privato che si autodisciplinano nel razionale riconoscimento delle rispettive sfere.

4. Superare le difficoltà della fase realizzativa

Una volta superato il difficile guado dell’autorizza-zione, l’opera strategica entra nella fase realizzativa. Ma anche qui il percorso non è privo di insidie.

Un’area tematica nella quale il sistema mostra una debolezza strutturale è quella della qualità della proget-tazione.

Vi sono qui due fenomeni, distinti, ma fra loro colle-gati. Il primo è la già citata tendenza regressiva nel livello complessivo di capacità tecnica presente nella Pubblica amministrazione (e quindi anche nelle stazioni appaltanti), quale risultante di una difficoltà generale dell’intero si-stema italiano a incentivare adeguatamente la formazione e la riproduzione del sapere scientifico. Ma questo feno-meno ha evidentemente implicazioni tali da esulare dal-l’oggetto di questa ricerca.

Vi è invece una dimensione più specifica del settore dei lavori pubblici, dove si scaricano sulla qualità della progettazione gli effetti di un’interazione viziosa fra de-

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bolezza e opacità della Pubblica amministrazione e bassi livelli di produttività delle imprese nel settore delle costru-zioni. L’intreccio di norme giuridiche e tecniche non riesce a impedire la convergenza di interessi fra impresa appal-tatrice improduttiva (che risulterebbe incapace di creare profitto in presenza di commesse dettagliate, rigorose e trasparenti) e amministrazione appaltante cui non è impu-tata la responsabilità del risultato finale.

È sbagliato ritenere che sull’amministrazione non gra vi alcuna responsabilità: al contrario, sempre più spes so, l’am-ministrazione è costretta a operare sotto una forte pres-sione – di natura politica – affinché l’opera sia avviata, o sia ripresa dopo una lunga interruzione. Vi è poi una pres-sione – di natura giuridica – affinché i lavori siano aggiu-dicati al costo minore. Ma tali pressioni sono concentrate solo su momenti circoscritti e non riescono ad abbracciare l’intero arco realizzativo (dalla progettazione preliminare al collaudo) e a scandire in modo puntuale tutti gli snodi critici: è in questi vuoti che si produce la patologia delle varianti in corso d’opera che rappresentano il segno evi-dente dell’insufficienza del sistema dei controlli. Questo meccanismo è – a sua volta – all’origine del dilagare del fenomeno dell’offerta anomala, che alimenta in modo si-gnificativo l’ammontare complessivo di contenzioso. Ne consegue la penalizzazione delle imprese più efficienti e produttive determinata da una incontrollata gara al ri-basso; tutti i comportamenti successivi, invece di ispirarsi al principio di trasparente rapporto con la committenza, tenderanno a cogliere ogni opportunità, legittima o meno, di recupero di quanto ceduto in sede di offerta.

Insomma, in questo nodo, tra progettazione carente, offerta anomala e varianti, si realizza uno dei punti di fuga del sistema attraverso il quale debolezze sistemiche (delle imprese, della Pubblica amministrazione) trovano la strada per riprodursi, intrecciarsi e amplificarsi.

Norme che sappiano pazientemente dipanare questi nodi avrebbero la valenza più generale di promuovere un processo combinato di recupero dei valori etici dell’im-presa (responsabilità sociale, responsabilità e trasparenza

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verso la committenza) e dei valori etici della Pubblica amministrazione (cura e responsabilità del servizio finale reso alla comunità).

Sempre nell’area della realizzazione si colloca una nor-mativa il cui rendimento si sta dimostrando inadeguato e che un legislatore che intendesse porre mano a una ri-forma non potrebbe tralasciare: quella che disciplina la qualificazione delle imprese. A prescindere dai rimedi proposti, sembra largamente condivisa la valutazione che il sistema attuato con il regolamento n. 34 del 2000 non abbia corrisposto alle molte aspettative che l’abolizione del vecchio Albo aveva suscitato e non soddisfi non solo l’interesse pubblico, ma anche i segmenti più produttivi e concorrenziali del settore industriale di riferimento.

5. La riduzione del contenzioso

Dall’analisi svolta dal gruppo di ricerca coordinato dal prof. Zanon, emerge con chiarezza come molto spesso il contenzioso che interessa la realizzazione di opere pub-bliche costituisce la sede in cui si «scaricano» le disfun-zioni che riguardano il procedimento di realizzazione del-l’opera. Laddove, infatti, vi è stato il coinvolgimento degli Enti locali e delle popolazioni interessate, la progettazione (sia ingegneristica sia territoriale) è stata realizzata bene e il bando di gara è stato redatto in modo preciso, il con-tenzioso si riduce numericamente e, dunque, non è in grado di incidere in modo sostanziale sulla realizzazione dell’opera.

Si è altresì rilevato che l’attività precontenziosa svolta dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di la-vori, servizi e forniture ha sin qui prodotto buoni risul-tati, contribuendo alla riduzione numerica del conten-zioso: si potrebbe pertanto implementare e valorizzare l’utilizzo di questo strumento.

In ogni caso, è possibile anche agire direttamente sulla disciplina del contenzioso.

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5.1. La partecipazione al procedimento come limite all’ac-cesso alla giustizia amministrativa

Un ampio coinvolgimento fin dalla fase iniziale del procedimento dei soggetti pubblici e privati portatori di interessi oppositivi (gruppi di cittadini, associazioni am-bientaliste, Enti locali) potrebbe già di fatto ridurre il loro interesse a ricorrere avverso la decisione relativa alla realizzazione dell’opera.

In aggiunta, per limitare anche giuridicamente l’ac-cesso alla giustizia amministrativa da parte di questi sog-getti si potrebbe ipotizzare:

a) di porre come condizione di ammissibilità del ri-corso l’aver partecipato al procedimento (onere di parte-cipazione preventiva);

b) di escludere i ricorsi per la mancata considerazione di elementi che sarebbe stato possibile chiedere di acqui-sire nella fase istruttoria del procedimento.

5.2. L’introduzione di preclusioni temporali ai ricorsi

Pur nella consapevolezza che gli artt. 24 e 113 Cost. non consentono di incidere significativamente sulla ricor-ribilità a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, si potrebbe, tuttavia, ipotizzare di introdurre qualche limite alla possibilità di instaurare ricorsi.

Ad esempio, nell’ambito di un procedimento complesso (come quello che porta alla realizzazione di un’infrastruttura strategica), articolato in più subprocedimenti autonomi, si potrebbe prevedere che, decorsi i termini per l’instaurazione dei giudizi con riferimento all’atto finale di ciascun sub-pro-cedimento, non sia più possibile ricorrere avverso quegli atti. Non si ignora che la giurisprudenza amministrativa ragiona già così in relazione ai ricorsi di coloro che, partecipando ai singoli subprocedimenti, subiscano lesioni nell’ambito di questi, ma potrebbe essere opportuno estendere in via espli-cita e generale questo regime per tutte le procedure che ri-guardano le infrastrutture di particolare interesse pubblico.

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5.3. Gli interventi sul contenzioso relativo all’aggiudicazione

Con riferimento al contenzioso relativo alla procedura di aggiudicazione degli appalti di opere, attribuito alla competenza del giudice amministrativo, risulta necessario valorizzare il termine minimo che, anche secondo quanto imposto dalla normativa comunitaria, deve intercorrere tra l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto (c.d. standstill period ).

Si ricorda, infatti, che la direttiva 2007/66/Ce, c.d. direttiva ricorsi, prescrive agli Stati – tra la comunica-zione dell’aggiudicazione e la stipula del contratto – il rispetto di un termine sospensivo minimo (fissato in 10 o 15 giorni, a seconda delle modalità di comunicazione dell’aggiudicazione agli interessati), la cui durata potrà essere prolungata dagli Stati in sede di recepimento (da realizzare entro il 20 dicembre 2009). Peraltro, nel caso in cui entro il citato termine venga presentato un ricorso, la direttiva introduce un altro termine sospensivo, che im-pedisce all’amministrazione aggiudicatrice di stipulare il contratto prima che «l’organo di ricorso abbia preso una decisione sulla domanda di provvedimenti cautelari o sul merito del ricorso».

In questo contesto, appare dunque quanto mai oppor-tuno che il legislatore stabilisca che, nei casi in cui un ri-corso venga presentato durante questo termine di sospen-sione, non si possa stipulare il relativo contratto fino alla decisione dell’autorità giudiziaria. Tuttavia, per impedire l’uso dilatorio del ricorso, è anche necessario prevedere che il divieto di stipulare il contratto cessi con la deci-sione cautelare, da rendersi in tempi necessariamente ra-pidi.

In tal modo, da una parte, chi ritiene di essere stato illegittimamente escluso può essere efficacemente tutelato – con il risarcimento in forma specifica – in tempi brevi; dall’altra, ciò consentirebbe di disporre il risarcimento per equivalente, che comporta un doppio danno per la P.A., solo in quei pochi casi in cui la decisione di merito contraddica la decisione cautelare.

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In merito, si può guardare con interesse al c.d. référé précontractuel previsto dall’ordinamento francese (l. 551-1 Cod. Giust. Adm.): in tale ordinamento, infatti, è possi-bile, a seguito dell’aggiudicazione e prima della conclu-sione del contratto, presentare un ricorso al giudice am-ministrativo per violazione dei principi di pubblicità e concorrenza. Il presidente del Tribunale si pronuncia in sede cautelare, con un provvedimento non impugnabile, con il quale può sospendere l’aggiudicazione o l’esecu-zione di ogni decisione che ne consegue, ovvero ingiun-gere di differire la firma del contratto fino alla decisione nel merito, e per una durata massima di 20 giorni.

Proprio nell’ottica della valorizzazione del periodo intercorrente tra la comunicazione ai controinteressati del provvedimento di aggiudicazione e la stipula del con-tratto, appare opportuno rivedere la recente disposizione (art. 20, comma 8-bis, d.l. n. 185/2008) che esclude, per le opere inserite nel quadro strategico nazionale, il ri-spetto del termine cautelare di 30 giorni. Se è vero, in-fatti, che l’intenzione di abbreviare i termini per la rea-lizzazione dell’opera è apprezzabile, va osservato che in questo caso essa non si rivela ragionevole.

Infine, vista l’incertezza sui confini della giurisdizione amministrativa e ordinaria, e ben consapevoli della com-plessità del dibattito che si è sviluppato su questo tema, si potrebbe valutare la possibilità di concentrare in capo al giudice amministrativo (anche in considerazione della maggiore rapidità con cui si pronuncia) la competenza a conoscere delle controversie relative tanto alla gara di aggiudicazione, quanto alla sorte del contratto successiva all’annullamento della gara. Peraltro, sia l’istituto della pregiudizialità amministrativa, sia la competenza del giu-dice amministrativo, trovano conforto nella citata direttiva comunitaria 2007/66/Ce.

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5.4. Gli interventi sul contenzioso in sede di esecuzione

La riduzione del contenzioso sull’esecuzione, di com-petenza del giudice civile, notoriamente molto più lento di quello amministrativo, dovrebbe preliminarmente pas-sare da una più ponderata formulazione dei bandi, so-prattutto nella parte economica (che determina tutta la problematica delle offerte anomale).

Attualmente, a tale contenzioso prova a rimediare la pratica degli accordi bonari. Nella prassi, però, tali ac-cordi si sono rilevati poco funzionali e sono stati per lo più utilizzati dalle imprese allo scopo di correggere la for-mulazione di offerte non pienamente ponderate in sede di appalto, o per recuperare parte del ribasso offerto.

In altri casi, si ricorre all’arbitrato. Il legislatore ha di-mostrato l’intenzione di bloccare il ricorso all’arbitrato in cui è coinvolta la P.A. Tuttavia, vista la lentezza del giu-dizio civile, appare difficile «rinunciare» a questo istituto. Affinché questo strumento sia efficacemente alternativo al giudizio civile, evitando però costi eccessivi per la P.A., si potrebbe prevedere che già nei bandi o negli avvisi di gara sia stabilito se il contratto conterrà la clausola arbi-trale, introdurre limiti ai costi del giudizio, e favorire il ricorso all’arbitrato amministrato (e non a quello libero).

5.5. Difesa dei lavori dalle imprese mafiose

La realizzazione dell’opera pubblica può essere og-getto di interventi del giudice penale. Si tratta di casi non frequenti, ma dagli esiti incisivi, poiché determinano una vera e propria sospensione dei lavori.

Poiché, nella maggioranza dei casi, le indagini hanno a oggetto l’infiltrazione di imprese contigue a gruppi crimi-nali, e visto il sostanziale fallimento della certificazione an-timafia, si potrebbe pensare all’introduzione di uno stru-mento che consenta di sapere con certezza su quali im-prese contare per la realizzazione dell’opera. La Direzione Nazionale Antimafia ha proposto di creare una white list,

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cioè un elenco di fornitori e prestatori di servizi, ai quali le imprese possano rivolgersi senza il rischio di stringere rapporti con soggetti e imprese collusi con le organizza-zioni criminali (in questo senso sembra peraltro già andare l’art. 45 del Codice dei contratti pubblici). Questo elenco dovrebbe comprendere tutti i fornitori di prestazioni e ser-vizi di una determinata area geografica, ivi compresi quelli di dimensioni ridotte, divisi per settore.

Tale proposta lascia però insoluti due problemi: an-zitutto, individuare il soggetto idoneo a redigere questo elenco, poiché si dovrebbe trattare di un soggetto impar-ziale, profondo conoscitore della realtà locale e dotato di penetranti poteri istruttori; inoltre, non si può non con-siderare che tale elenco potrebbe essere facilmente con-testato in sede giudiziaria da parte dell’imprenditore che ritenesse di esserne rimasto ingiustificatamente escluso.

Rispetto, invece, alle conseguenze sull’andamento dei lavori dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria in sede penale, si potrebbe ipotizzare una riduzione degli effetti dei sequestri, quantomeno introducendo dei limiti di du-rata.

5.6. La valorizzazione, nel giudizio amministrativo, dell’in-teresse pubblico alla realizzazione dell’opera

Se anche da parte dei giudici amministrativi la tutela della posizione del soggetto privato è avvertita come es-senziale, si potrebbe tuttavia valorizzare la recente ten-denza del legislatore (cfr. art. 246 del Codice dei contratti pubblici) che, con specifico riferimento ai giudizi ammi-nistrativi riguardanti le grandi opere, ha invitato i giudici amministrativi a tener conto, in sede cautelare, non solo di tutti gli interessi che possono essere lesi, ma anche del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera. Inoltre, il legislatore ha chiarito che nel con-cedere la misura cautelare, il giudice, non potendo pre-scindere dal valutare l’irreparabilità del pregiudizio al-l’impresa del ricorrente, dovrà comunque comparare tale

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interesse privato con quello del soggetto pubblico aggiu-dicatore alla celere prosecuzione delle procedure.

Tali disposizioni costituiscono un indubbio segnale del fatto che il legislatore ha sentito la necessità di riba-dire che nel giudizio amministrativo l’interesse pubblico deve avere una rilevanza primaria.

6. La stabilizzazione delle risorse finanziarie

Alla luce delle considerazioni svolte, sulla base del contributo del gruppo di ricerca coordinato dai professori De Ioanna e Padoan, si può concludere che l’esigenza prioritaria in materia finanziaria non sia tanto il reperi-mento di maggiori risorse da destinare alla realizzazione di infrastrutture, quanto la garanzia che non si determi-nino divaricazioni tra la decisione economico-finanziaria e i procedimenti di selezione e realizzazione delle opere.

L’attuale situazione per cui, di fatto, non esiste un mo-mento specifico e riconoscibile in cui al massimo livello po-litico si assumono le decisioni definitive quanto alle opere da realizzare prioritariamente in relazione alle risorse atti-vabili, alimenta una condizione di incertezza e precarietà. Ne deriva una generale deresponsabilizzazione e uno svili-mento della qualità dell’istruttoria che le singole istituzioni o amministrazioni pubbliche sono tenute a compiere, nella consapevolezza che qualunque decisione adottata è esposta al rischio di essere smentita, in via di fatto, in una fase suc-cessiva ovvero di essere revocata a seguito di cambiamenti nella composizione della maggioranza governativa.

Gli investimenti in opere infrastrutturali richiedono invece un elevato livello di certezza quanto alla reale pos-sibilità di essere realizzate in tempi ragionevoli sui terri-tori su cui insistono e all’effettiva disponibilità di finan-ziamenti adeguati.

Per questo motivo, programmazione finanziaria e pro-grammazione territoriale dovrebbero procedere parallela-mente e dovrebbero entrambe partire dalla definizione di un orizzonte di medio termine.

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Un obiettivo dei processi di riforma in corso in ma-teria di finanza pubblica è infatti quello di rafforzare la capacità di programmazione a medio termine unitamente a un maggiore coinvolgimento degli enti territoriali nella definizione della politica economica nazionale. In questo quadro si dovrebbe approntare una strumentazione pa-rallela in materia di infrastrutture di interesse nazionale idonea a definire gli indirizzi strategici di medio termine da cui fare discendere criteri, parametri e obiettivi per la programmazione e il finanziamento delle opere.

Coerentemente con questo approccio, anche la fase successiva della selezione, a livello politico, delle opere prioritarie deve essere collocata nel momento in cui si stabiliscono le grandezze, gli obiettivi e le compatibilità generali in materia di finanza pubblica, sia con riferi-mento allo Stato, che relativamente agli enti territoriali e locali, in ragione della loro corresponsabilizzazione nel re-perimento delle risorse necessarie alla realizzazione delle infrastrutture.

Pertanto si potrebbe immaginare che nell’ipotesi in esame di una decisione quadro di finanza pubblica che fissi risorse, regole e obiettivi per i diversi livelli terri-toriali e definisca le somme da assegnare alle finalità di comune interesse, siano riservati fondi alle infrastrutture di interesse nazionale accompagnati da una lista di opere prioritarie e dei relativi quadri finanziari, come sviluppo di quanto avviene già oggi con l’allegato al Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef).

Il documento dovrebbe essere redatto dal Governo in termini tali da fornire tutti gli elementi di informazione utili a motivare le ragioni per l’inclusione delle opere in tale lista. A tal fine sarebbe necessaria un’accurata istrut-toria condotta dal Cipe avvalendosi del contributo of-ferto dal dialogo con gli enti territoriali e delle strutture di supporto cui si è detto in precedenza, con particolare riferimento al Centro di analisi strategica.

Più in generale, gli elementi di conoscenza acquisiti consentono di evidenziare la necessità di modificare sotto vari profili il sistema di gestione finanziaria delle opere

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di interesse nazionale, anche prendendo ad esempio la strada già intrapresa da altri paesi.

Il dato di fondo, come già precedentemente si è evi-denziato, è l’esigenza di assumere pienamente il vincolo finanziario in tutto il processo decisionale dell’individua-zione e della realizzazione delle opere. In sostanza, non dovrebbe più determinarsi quella sistematica divaricazione tra la scelta delle opere e la fase della determinazione dei finanziamenti, che non è circoscritta alla sola fase della definizione del programma delle infrastrutture strategiche, ma si verifica anche allorché il Cipe approva progetti pur in assenza delle necessarie disponibilità. Il difetto diventa poi evidente in tutti i casi in cui tra le diverse fasi di pro-gettazione e la conclusione dell’opera si determina una continua revisione dei costi preventivati con un continuo incremento degli oneri.

È inoltre necessario cogliere tutte le possibilità che offre l’Unione europea non soltanto ricorrendo più inten-samente al finanziamento della Bei, ma anche elaborando una strategia coordinata di collaborazione sistematica tra organismi europei e strutture, quali la Cassa depositi e prestiti, che già hanno accumulato una lunga esperienza di collaborazione con gli Enti locali per il finanziamento di spese di investimento.

Quanto agli aspetti più strettamente attinenti alla ge-stione finanziaria, è stata prospettata l’ipotesi di istituire un apposito fondo, e contestualmente una specifica Upb (Unità previsionale di base), nell’ambito del bilancio dello Stato, denominati con riferimento alla realizzazione delle infrastrutture di interesse nazionale, in cui far confluire gli stanziamenti attualmente distribuiti in più voci di spesa. In questo modo si otterrebbe l’indubbio vantaggio di disporre di un quadro complessivo delle risorse a di-sposizione e di assicurare piena coerenza nel processo de-cisionale tra la fase programmatica dell’allegato al Dpef, in cui si individuano le opere prioritarie e i relativi costi, e quella gestionale dell’impiego delle risorse assegnate. Il fondo offrirebbe l’ulteriore vantaggio di favorire un uso flessibile delle disponibilità per cui le stesse potrebbero

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essere impiegate a seconda dello stato di avanzamento dei lavori e dell’effettiva impegnabilità.

Si eviterebbe, quindi, il rischio che stanziamenti di-sponibili, in quanto connessi a specifici interventi, vadano in economia in relazione ai ritardi.

Tale ipotesi dovrebbe in ogni caso distinguere tra opere già parzialmente realizzate, per le quali si tratta di reperire le risorse necessarie per la definitiva conclusione, e opere ancora da avviare, in modo da evitare il rischio di far prevalere esclusivamente il criterio del completa-mento delle opere già iniziate anche a prescindere dalla loro importanza. Né si può trascurare quanto è recente-mente avvenuto con il Fondo aree sottoutilizzate (Fas), anch’esso istituito allo scopo specifico di favorire una ge-stione flessibile delle risorse complessivamente destinate al Mezzogiorno e alle altre aree in ritardo di sviluppo, le cui disponibilità, per necessità sopravvenute e indilazio-nabili, sono state ampiamente decurtate per far fronte ad altri obbiettivi, estranei rispetto a quelli propri del fondo.

L’istituzione del fondo andrebbe valutata alla luce del contributo a sostegno di questo disegno di razionalizza-zione che può essere offerto dal progressivo affinamento della riclassificazione del bilancio sulla base di grandi missioni e, al loro interno, di un numero limitato di pro-grammi di spesa, accorpando per finalità chiare le tipolo-gie di interventi in materia infrastrutturale.

Un ulteriore elemento è costituito dalla necessità di procedere a una rivisitazione della disciplina relativa al partenariato pubblico-privato e al project financing che nella sua attuale versione non assicura sufficiente chia-rezza quanto alle modalità e ai termini del concorso dei privati.

Occorre poi verificare la possibilità di pervenire a una tendenziale uniformità, dal punto di vista contabile, delle risorse complessivamente stanziate per la realizzazione di opere infrastrutturali e garantire una più agevole ricogni-zione, all’interno del bilancio dello Stato, della loro con-sistenza, utilizzando a tal fine le possibilità offerte dalla riclassificazione delle voci di spesa per missioni e obiet-

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tivi. Va inoltre chiaramente affermato che la spesa per infrastrutture deve essere classificata come spesa in conto investimento.

Appare infine opportuno assumere pienamente i cri-teri europei nella rappresentazione contabile delle spese, eventualmente rinunciando a mantenere il riferimento al saldo netto da finanziare (bilancio dello Stato – compe-tenza giuridica) che implica inevitabilmente l’allocazione di risorse a copertura, quando potrebbe risultare suffi-ciente la puntuale registrazione del saldo di cassa e del-l’indebitamento netto della P.A.

Per la spesa per infrastrutture è invece essenziale un ac-curato e costante monitoraggio dei flussi di cassa che tenga conto dell’effettiva cantierabilità e della tempistica di ese-cuzione, sulla base degli stati di avanzamento, delle opere.

7. Aggiornare e rilanciare la Legge obiettivo

In una materia caratterizzata da un livello altissimo di interdipendenza fra vincoli finanziari, assetti costituzionali dei poteri, cultura amministrativa, conoscenza scientifica del territorio, l’esperienza attuativa della Legge obiettivo ha consentito di raccogliere una enorme quantità di in-dicazioni sulle reali opportunità per apportare migliora-menti alla realizzazione pratica delle infrastrutture strate-giche di interesse nazionale nel nostro paese.

Per questa ragione proseguire – attraverso un pro-cesso di raffinamento e arricchimento – il percorso nor-mativo avviato dalla legge del 2001 è una strada obbligata in quanto è la sola fondata su una solida esperienza.

Al tempo stesso, data la profondità e la complessità delle problematiche emerse e analizzate nei precedenti ca-pitoli, il mero adeguamento normativo alla luce dell’espe-rienza non basterebbe, se non potesse collegarsi, in questa nuova fase, al completarsi di un processo di trasformazione dei rapporti tra i livelli territoriali da tempo avviato.

L’aggiornamento della Legge obiettivo potrebbe infatti inquadrarsi entro gli schemi delle riforme per il coordina-

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mento della finanza pubblica in connessione con il fede-ralismo fiscale.

Le procedure decisionali in tema di infrastrutture strategiche potrebbero combinarsi con gli aspetti di coor-dinamento connessi alle principali spese di investimento di interesse dell’intera comunità nazionale e dunque assu-mere lo stesso grado di capacità decisionale e di vincolati-vità quanto agli obiettivi propri delle decisioni in materia di finanza pubblica.

Per procedere in questa direzione si propone di ap-prontare e varare tempestivamente, nei prossimi mesi, una legge delega che affianchi – nei tempi di attuazione, nei contenuti e nelle procedure di consultazione e di collega-mento – la legge delega n. 42 del 6 maggio 2009 in tema di federalismo fiscale e di coordinamento della finanza pubblica. In una legge delega di revisione della Legge obiettivo potrebbero anche inserirsi norme di delega in tema di semplificazione e consolidamento della normativa in materia di opere pubbliche.

La legge delega sul federalismo fiscale di recente ap-provata (art. 13, comma 1, lettere c e g, art. 16, comma 1, lettera c, artt. 22 e 23, comma 6, lettera f ), contiene principi che tendono a prefigurare un nuovo disegno che è stato definito federalismo infrastrutturale.

In questa prospettiva le autonomie dovrebbero svol-gere un ruolo attivo di proposta e di rappresentazione e di iniziativa nella fase istruttoria. Si recupera così un’in-tuizione originaria, contenuta nei testi iniziali elaborati in preparazione della Legge obiettivo, che prefiguravano le istituzioni del territorio come protagoniste nelle fasi ini-ziali della proposta e dell’istruttoria.

Le decisioni in ordine alle infrastrutture di interesse nazionale potrebbero collocarsi nella stessa sequenza de-cisionale delle decisioni di finanza pubblica, dalla defi-nizione degli indirizzi strategici, fino a quelle relative al finanziamento delle opere prioritarie.

La definizione di indirizzi strategici e, su questa base, la deliberazione sulle priorità infrastrutturali – con la rela-tiva destinazione di risorse finanziarie – costituirebbero le

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due fasi in cui le distinte responsabilità facenti capo allo Stato e alle autonomie vanno articolate in corrispondenza di analoghe fasi delle procedure di finanza pubblica.

In questo quadro, vincoli, procedure e forme di ap-provazione della decisione sulle priorità infrastrutturali in connessione con la programmazione finanziaria, dovreb-bero costituire, nel loro insieme, un sistema in grado di assicurare certezza di finanziamento, fino al completa-mento dell’intervento assunto come prioritario, e conti-nuità dell’impegno pubblico, anche in presenza di muta-menti degli indirizzi di governo di singoli enti.

Il potenziamento del ruolo delle autonomie che ab-biamo definito con l’espressione «federalismo infrastrut-turale» dovrebbe corrispondere a un altrettanto forte potenziamento dell’autorità di Governo che presiede ai processi di decisione in tema di infrastrutture strategiche ai sensi della Legge obiettivo. Il rafforzamento del Cipe si potrebbe ottenere attraverso:

– l’individuazione di una autorità di governo capace di guidare l’azione integrata e congiunta di diverse ammi-nistrazioni con competenze in materia territoriale;

– il collegamento con le rappresentanze delle autono-mie, che potrebbero costituire un versante specializzato della Conferenza unificata per la programmazione delle infrastrutture;

– la trasformazione della struttura di supporto nel Centro di analisi strategica (cfr. par. 1 del cap. quarto) che faccia convergere l’istruttoria interna alle diverse am-ministrazioni centrali e quella delle corrispondenti strut-ture tecniche delle autonomie. Il Centro opererebbe come struttura integrata nella quale si raccordano le risorse e le competenze provenienti dalle amministrazioni centrali, e in particolare quelle già operanti presso il ministero delle Infrastrutture e presso la Struttura tecnica di missione (istituita dal d.m. 10 febbraio 2003), che ne potrebbero rappresentare il centro di coordinamento.

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7.1. Indirizzi strategici e selezione delle opere prioritarie

La deliberazione del carattere strategico di un inter-vento si sta dimostrando, nella prassi attuativa della legge n. 443, come un riconoscimento rituale non sufficiente ad attivare il processo attuativo.

Il passaggio decisivo è in realtà – già oggi – quello che si connette alla programmazione finanziaria quando dal-l’insieme degli interventi strategici emerge un numero as-sai più ristretto (e allo stesso tempo finanziariamente più sostenibile) di opere che assumono, di fatto, un carattere di priorità. Questa vicenda si segue con chiarezza attra-verso la lettura degli allegati infrastrutturali al Dpef succe-dutisi dal 2002 a oggi ed è da tempo all’attenzione degli organi parlamentari che ne svolgono annualmente l’esame. È proprio in questo passaggio che il sistema dimostra una complessiva carenza di motivazione e trasparenza.

È qui che il difficile equilibrio fra pianificazione su scala nazionale ed espressioni istituzionali dei territori si perde. Il sistema rivela un’incapacità di produrre una «se-lezione governata» e «ragionata» delle priorità.

Occorre quindi uscire da un’emergenza che riproduce continuamente se stessa, in cui l’individuazione delle prio-rità solo in minima parte discende dalla strumentazione di analisi e pianificazione territoriale ed è invece determi-nata da fattori contingenti: dall’opportunità di completare opere già iniziate, dal risultato di negoziati interamente politici, da improvvisi vincoli di bilancio, dai freni che bloccano talune opere e favoriscono altre come l’esercizio di poteri di veto, da decisioni giudiziarie, da nuovi inter-venti normativi, ecc.

Il punto più debole si rivela quindi un’insufficiente definizione dei percorsi istruttori che conducono alla stessa individuazione delle opere da considerare di rilievo strategico o di interesse nazionale e – successivamente – alla selezione di un numero più ristretto di interventi sui quali, per un determinato arco temporale, il sistema riesce a produrre e a garantire un impegno finanziario adeguato.

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Le proposte contenute in questo Rapporto mirano a rafforzare l’intero percorso istruttorio, raccordandovi tutti i livelli di governo e chiedendo alle autonomie di operare come «sistema», cioè di intervenire su un terreno parita-rio con gli organi statali, facendosi pienamente carico del raggiungimento di obiettivi di «interesse nazionale».

Tale cooperazione riguarda in primo luogo la raccolta di elementi conoscitivi sul territorio e l’elaborazione di indirizzi strategici che possono servire a fondare la cate-goria delle infrastrutture di interesse nazionale e le con-seguenti scelte prioritarie su un substrato di conoscenze e conseguenti criteri e parametri adeguati alla complessità territoriale italiana.

La definizione del quadro degli indirizzi strategici per lo sviluppo infrastrutturale deve derivare da procedure istruttorie nelle quali si realizzi una effettiva condivisione e convergenza non solo delle amministrazioni centrali, ma di queste con l’intero sistema delle autonomie, e nel quale le politiche europee sono assunte quale quadro di rife-rimento costante. Tale fase dovrebbe trovare nel Centro di analisi strategica – struttura nella quale operano anche le componenti tecniche del sistema delle autonomie – la sede di preparazione ed elaborazione, mentre gli indirizzi sono consolidati a livello politico in ambito Cipe nel con-fronto con le autonomie e infine approvati con voto par-lamentare.

Lo sviluppo di strumenti conoscitivi e di valutazione tecnica non è sufficiente. Lo sviluppo della comunità na-zionale in termini di infrastrutture è in massima parte frutto di scelte fra varie opzioni possibili, e quindi risul-tato di un processo la cui natura politica è essenziale e non confinabile solo in una iniziale fase di indirizzo.

Il fattore che collega le proposte qui presentate ri-guarda la formazione di una volontà politica basata su una visione organica e motivata che sorregge la definizione de-gli indirizzi strategici e conduce all’individuazione delle in-frastrutture di interesse nazionale e delle relative priorità.

Occorre superare l’idea che per sbloccare i processi decisionali basti una volontà che dalle istituzioni del go-

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verno centrale – al massimo mediando e negoziando con gli esecutivi regionali – muove verso il territorio. Questa logica unidirezionale è ormai estranea alla profonda evo-luzione istituzionale in corso nel paese e alla quale oc-corre attingere per trovare risposte adeguate ai problemi di contesto generale che abbiamo analizzato. Né si può ammettere che di fronte a un quadro organico e motivato di scelte sussistano irriducibili poteri di veto.

È perciò necessaria una procedura agile ma sufficien-temente articolata che conduca infine a una decisione e nella quale le diverse istituzioni e i diversi livelli territo-riali interessati possano giocare ciascuno con piena di-gnità il proprio ruolo.

7.2. La localizzazione delle opere

C’è poi il livello della localizzazione dell’opera sul territorio. Qui il sistema non può che prevedere alcune variabili, in quanto la localizzazione ha margini di scelta e impatti territoriali molto diversi, a seconda del tipo di opera. Si propongono, comunque, alcuni principi-guida:

a) per quanto riguarda l’articolazione delle compe-tenze fra diversi livelli di governo in materia di localizza-zione, le norme relative alle opere infrastrutturali strategi-che di interesse nazionale non possono limitarsi a richia-mare le procedure e le competenze ordinarie sulla localiz-zazione delle opere pubbliche: ne uscirebbe contraddetto lo stesso principio originario dell’interesse nazionale; né è sufficiente la previsione di alcune puntuali deroghe (quasi sempre aggirabili e troppo deboli per resistere a smentite giurisprudenziali). È invece necessario radicare nell’ordi-namento il principio secondo il quale l’acquisito carattere di strategicità nazionale dell’intervento (attraverso proce-dure che ne rafforzino la legittimazione territoriale e che abbiamo riassunto nella formula del «federalismo infra-strutturale») relativizza in modo netto, ma non cancella, le competenze ordinarie degli Enti locali in merito alla sua localizzazione (alle medesime finalità risponde anche

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la soluzione della «struttura di missione», illustrata più avanti al par. 8);

b) nei casi in cui gli impatti sul territorio appaiano particolarmente pesanti, è necessario ampliare e antici-pare tutte le procedure di consultazione delle popola-zioni e degli enti territoriali (che prevedano la possibilità di proporre soluzioni alternative), nonché lo studio di un insieme organico di interventi compensativi (anche questi attraverso procedure aperte al pubblico). Tale anticipa-zione – in casi particolarmente rilevanti, si pensi al depo-sito di scorie nucleari – va svolta anche rispetto alla fase di decisione parlamentare e a essa può essere attribuito anche un potere di veto, purché circoscritto e procedu-ralizzato. Affinché ciò sia possibile occorre comunque – come evidenziato dal gruppo di ricerca coordinato dal prof. Campi – che il progetto renda espliciti i costi e i benefici diretti e indiretti dell’opera e i rischi a essa asso-ciati entro un orizzonte temporale significativo, e indichi tempi di realizzazione e modalità di copertura finanziaria, giustificando la necessità di spesa pubblica. Il progetto preliminare così redatto dovrebbe quindi essere reso ac-cessibile, anche per via elettronica, dai siti delle istituzioni promotrici, del ministero, e dei privati coinvolti;

c) quanto maggiore è la legittimazione di cui il pro-gramma gode a monte – in termini di iter approvativo, consultazione di apparati tecnici e conoscitivi, procedure di consultazione pubblica, voto parlamentare – tanto più nettamente può essere delineata una normativa innova-tiva sul punto delicatissimo della localizzazione. In que-sta prospettiva possono anche essere superate anomalie – oggi necessarie a bilanciare un deficit di legittimazione a monte – quale quella per cui la regione mantiene un potere di veto in sede di delibera Cipe.

Una revisione organica dell’istituto della compensa-zione e una sua riconduzione alla ratio originaria – al-meno limitatamente alle opere strategiche di interesse nazionale – andrebbero comunque messe in cantiere. È peraltro da segnalare che esiste anche un patrimonio di buone pratiche (vedi, da ultimo, le opere relative alla Pe-

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demontana Lombarda) nelle quali l’istituto della compen-sazione ha assunto la coerenza di una vera e propria pro-gettazione territoriale, riuscendo anche a suscitare forme di partecipazione e condivisione e ad avvalersi di esse: è da qui che occorre ripartire per una ridefinizione anche di carattere normativo.

7.3. Un moderno sistema di autorizzazioni

Il percorso che si propone per uscire dal groviglio au-torizzativo sopra descritto non è quello della ricerca della norma che faccia giustizia di ogni lentezza: questa ricerca è un esercizio destinato a deludere sempre le aspettative, almeno finché permarranno i caratteri di stratificazione, di-sordine e bassa qualità di molte discipline amministrative.

Sembra, invece, che in materia di infrastrutture strate-giche possa dare migliori risultati un lavoro più paziente di raccolta di elementi conoscitivi e definizione di regole puntuali. L’obiettivo prioritario è quello di individuare e spezzare quei meccanismi attraverso cui parti di ammini-strazione pubblica traducono continuamente distorsioni dell’ordinamento giuridico e ritardi culturali e sociali in nuove forme di deresponsabilizzazione.

L’amministrazione italiana soffre non tanto di po-vertà di competenze, quanto di povertà di standard e di procedure responsabilizzanti per la realizzazione dei risultati. Ciò fa sì che nella maggior parte dei casi il le-gislatore semplicemente non sia in grado di sapere quale dovrebbe essere la durata di un iter e fissi i termini senza una sufficiente base di informazioni. Nella concreta realtà amministrativa (tanto diversa dai processi descritti da alcune norme semplificatrici) la trama di procedimenti e atti principali e procedimenti e atti subordinati o paralleli non è protetta ed è spesso lacerata da iter anomali che possono essere avviati secondo una discrezionalità troppo ampia (tipico il caso della richiesta di integrazione dei documenti progettuali), o è attraversata da sub procedi-menti apparentemente innocui, che in realtà detengono

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la forza potenziale di un veto assoluto o si riferiscono ad adempimenti che materialmente non possono essere com-pressi (si pensi ad alcuni monitoraggi ambientali e fauni-stici che, a termini di legge, devono protrarsi per almeno un anno).

Un’efficace normativa straordinaria sulle infrastrutture strategiche di interesse nazionale non può tollerare al suo interno un groviglio autorizzativo come quello descritto, pena una progressiva perdita di credibilità. La proposta di partenza è quella di dare vita a un moderno sistema di autorizzazioni, basato su standard, misurazione dei risul-tati, sanzioni.

Verifica puntuale dei processi conoscitivi che devono supportare gli atti autorizzativi, definizione preventiva di standard, individuazione delle responsabilità connesse e adeguato corredo di sanzioni sono le componenti essen-ziali di un lavoro preventivo finalizzato a circoscrivere situazioni di cattiva amministrazione che non appaiono compatibili con le ambizioni di un’efficace normativa sulle infrastrutture strategiche di interesse nazionale.

Infine, nell’intero sistema dei controlli, a partire da quelli esercitati dalla Corte dei conti, dovrebbe essere im-messo in modo più riconoscibile un principio finalistico di valutazione della capacità e della volontà di conseguire il risultato.

7.4. Qualità della progettazione, sistema di qualificazione e riscrittura delle regole sull’aggiudicazione

A parte il nodo problematico dei flussi finanziari – svolto in altra parte di questo Rapporto – si assume qui che le principali distorsioni normative in grado di riper-cuotersi su tutte le fasi realizzative, riguardino la qualità della progettazione, la qualificazione delle imprese e le regole di aggiudicazione.

Sul primo punto occorre fare tesoro dell’esperienza. Con la legge Merloni del 1994 si provò a dare una

risposta legislativa alla perdita di competenze progettuali

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interne alla P.A., aumentando da due a tre i livelli di pro-gettazione e incentivando in ogni modo lo spostamento di tutta la fase progettuale all’interno della stazione ap-paltante. Le vicende attuative della legge n. 109 del 1994 hanno dimostrato l’insufficienza di questo percorso: la perdita di competenze tecniche nella P.A. è purtroppo un fenomeno assai più profondo e sistemico rispetto alla portata oggettiva di una norma in materia di appalti pub-blici. La stessa introduzione di un ulteriore livello di pro-gettazione non si è tradotto in un generale miglioramento qualitativo del risultato complessivo ma – spesso – solo in un aggravio procedurale e in un aumento significativo delle procedure di evidenza pubblica.

Occorre poi considerare che nessuna amministrazione contemporanea può essere in grado di mantenere – al proprio interno – le capacità progettuali oggi richieste per la realizzazione di una grande infrastruttura.

Il problema va quindi affrontato operando in più di-rezioni:

a) salvaguardare e valorizzare i nuclei di competenza tecnica tuttora esistenti all’interno delle amministrazioni, interrompendo un pericoloso trend di depauperamento in atto da anni;

b) ridurre il numero complessivo delle stazioni appal-tanti (circa 18.000, un numero anomalo rispetto agli altri paesi di riferimento), premessa per una maggiore qualifi-cazione tecnica e organizzativa;

c) ridare un ruolo a strutture pubbliche altamente qua-lificate di verifica e di controllo di qualità dei progetti (ri-pensando e riqualificando il Consiglio Superiore dei La-vori Pubblici, eventualmente prevedendone l’evoluzione verso il modello dell’autorità indipendente) e ricollocare il loro intervento negli snodi cruciali del processo;

d ) rivedere tutti i raccordi normativi fra la fase del controllo di qualità della progettazione, il momento di av-vio dei lavori, e la responsabilità del progettista, della P.A. e dell’impresa esecutrice al fine della massima corrispon-denza fra progettazione, costi finali e qualità dell’opera. Occorre, cioè costruire, in tutta quest’area, soggetti giuri-

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dicamente responsabili e controllabili sulla base di un pa-rametro molto chiaro: il progetto esecutivo.

Quanto alla qualificazione delle imprese – in attesa che maturi una revisione più profonda della vigente nor-mativa incentrata sul sistema di qualificazione attuato da organismi di diritto privato di attestazione (Soa), ancora non sufficientemente assestata, ma che rivela limiti evi-denti – nelle gare relative a opere di interesse straordi-nario (strategico, nazionale) le amministrazioni appaltanti dovrebbero poter effettuare una qualificazione aggiuntiva (attualmente prevista solo per i c.d. «settori speciali», cioè nei settori del gas, dell’energia, dell’acqua e dei trasporti) che le tuteli maggiormente durante un percorso nel quale saranno chiamate a un livello di responsabilità anch’esso straordinario.

Sul terzo punto – le procedure di aggiudicazione – la nostra disciplina ordinaria sulle opere pubbliche risulta oggi un intarsio di norme europee e norme nazionali, queste ultime derivate da un alternarsi di strette moraliz-zatrici e ondate di deregulation non sempre ben armoniz-zate fra loro.

Questa sovrabbondanza normativa apre spazi eccessivi al contenzioso che ha finito con l’incoraggiare il ricorso purchessia, con la crescita di una vera e propria «econo-mia del contenzioso» che ha dato luogo a rendite paras-sitarie.

Per tutte le opere a carattere strategico, può essere opportuno prevedere un vaglio preventivo da parte del-l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (art. 6 d.lgs. 163/2006) relativamente alle procedure di aggiudi-cazione. Potrebbero inoltre essere implementate e valoriz-zate le funzioni consultive già attualmente svolte dall’Au-torità, al fine di prevenire a monte i contrasti che altri-menti, fatalmente, sfociano a valle nel contenzioso.

Una disciplina speciale per le opere strategiche di interesse nazionale potrebbe offrire l’occasione per una verifica-riscrittura-semplificazione di tutto il complesso normativo in materia di aggiudicazione sulla base del modello europeo, che ha caratteri di linearità, semplicità

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e coerenza largamente riconosciuti, riducendo drastica-mente gli spazi di discrezionalità e variabilità creati dal-l’eccesso del contenzioso e dalla mancata sanzione del ri-corso temerario.

In tale quadro si potrebbe – fra l’altro – procedere all’attuazione del «dialogo competitivo» – attualmente «congelato» in attesa dell’entrata in vigore del regola-mento di attuazione del Codice appalti, ai sensi dell’art. 253 del Codice –, una procedura nella quale la stazione appaltante, in caso di appalti particolarmente complessi, avvia un dialogo con i candidati ammessi a tale proce-dura, al fine di elaborare una o più soluzioni atte a sod-disfare le sue necessità e sulla base della quale o delle quali i candidati selezionati saranno invitati a presentare le offerte.

L’interazione virtuosa fra miglioramento della qualità della progettazione per le infrastrutture di interesse nazio-nale – sulla base di un sistema di responsabilità più strut-turato –, un meccanismo di qualificazione più adeguato e selettivo, la semplificazione delle norme sull’aggiudi-cazione dovrebbero contribuire a ridurre drasticamente il fenomeno dell’offerta anomala per questa tipologia di opere.

Si ipotizzano, inoltre, alcune modifiche di portata minore sulla procedura di valutazione delle offerte ano-male – che presenta oggi elementi di irrazionalità (divieto di comparazione preventiva fra le offerte) – ed eventuali disposizioni speciali e ben calibrate che operino da forte disincentivo verso il ricorso temerario.

Nel loro insieme queste misure potrebbero rendere realistico l’obiettivo di una riduzione complessiva del con-tenzioso nell’area delle opere infrastrutturali di interesse nazionale.

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7.5. Facilitare il dialogo fra Pubblica amministrazione e imprese

Con riferimento al rapporto tra amministrazione e impresa, nel corso del lavoro si è svolto un seminario tra i gruppi di ricerca e rappresentanti di vertice di alcune grandi imprese nazionali in relazione ai casi di blocco della realizzazione di opere assai significative, per complessivi 16 miliardi di euro, tutti di provenienza privata, le cui cause sono sinteticamente classificate nella tabella 1.

TAB. 1.

MOTIVAZIONE RITARDO/BLOCCO ITER N. REGIONI

Soprintendenze: parere negativo o non espresso

4 Sicilia

Conferenza di servizi 9 Campania, Marche, Puglia, Sicilia

Interferenza con altra opera 1 Marche

Via o procedura di assoggettabilità a Via

9 Basilicata, Calabria, Sicilia, Cam-pania, Lombardia, Veneto

Introduzione di nuove norme o nuo-vi vincoli ambientali non esistenti al momento della presentazione dei progetti con prescrizioni eccessive o troppo onerose

12 Basilicata, Marche, Molise, Sar-degna, Sicilia

Procedura infrazione Ue 3 Calabria, Veneto

Rallentamento burocratico (anche per perfezionamento formale di pro-cedure già concluse a livello centrale o locale)

3 Emilia-Romagna, Puglia, Toscana

Necessità di integrazione del proget-to da parte dell’impresa

1 Calabria

Opposizione dei comuni o delle co-munità locali

3 Basilicata, Puglia, Sicilia

Ufficio attività estrattive (parere ne-gativo)

1 Veneto

Totale 46

Senza particolari questioni da risol-vere o con iter appena avviati

14 Emilia-Romagna, Marche, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Mar-che, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana

Totale generale 60

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In proposito, nel corso del seminario sono emerse le seguenti considerazioni:

– l’iter risulta agevolato in presenza di tavoli tecnici incaricati di individuare accordi a livello locale o regio-nale;

– si lamenta l’impossibilità da parte dell’azienda di instaurare un contraddittorio con le PP.AA. (alcune delle quali non si esprimono o non partecipano alle conferenze dei servizi);

– alcune amministrazioni preposte al rilascio di pa-reri/autorizzazioni si concentrano su aspetti specifici e non valutano il progetto nel suo complesso;

– alcune regioni prescrivono il rispetto di norme o re-golamenti superati da normativa successiva e/o di ordine superiore, richiedendo pareri non previsti dalla normativa vigente;

– per alcune attività (concessioni elettriche) vi sono norme e iter diversi non solo da regione a regione ma an-che da comune a comune.

Più in generale, dall’esame della casistica è risultato che servirebbe un soggetto «facilitatore», di carattere pubblico, al quale le imprese possano rivolgersi per com-prendere le ragioni del ritardo e individuare soluzioni. In questo modo le imprese risparmierebbero costi e tempo; inoltre la P.A., disponendo di un quadro generale delle cause dei rallentamenti, sarebbe in grado di individuare i punti di crisi della propria funzionalità, ponendovi rime-dio, oppure di individuare le cattive pratiche private che rendono difficile il conseguimento dei risultati.

8. La struttura di missione: un modulo flessibile per la progettazione e realizzazione delle opere

Un versante di intervento (in parte assorbente rispetto ad alcune delle proposte su esposte, in parte variamente combinabile con queste) e che riassume i principi e le fi-nalità della revisione normativa auspicata nel Rapporto, consiste in una radicale revisione dei moduli di funziona-

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mento della Pubblica amministrazione. È evidente come i menzionati strumenti di carattere emergenziale (cfr. par. 4 del cap. terzo) non si possano assumere come modello: la realizzazione di opere pubbliche è, infatti, attività or-dinaria. Tuttavia, dall’esperienza di carattere emergenziale si possono trarre degli elementi di efficienza procedimen-tale che devono essere acquisti e valorizzati in una legisla-zione speciale destinata a interventi che devono avere una particolare preminenza politica e forti impatti economici e sociali.

La proposta – tratta proprio dall’esperienza delle pro-cedure di emergenza – consiste nell’introdurre un vero e proprio modello di funzionamento delle Pubbliche am-ministrazioni da adottare in tutte le fasi procedurali nelle quali convergenza e cooperazione, nonché preminenza da assegnare all’obiettivo assunto nelle sedi politicamente più qualificate, possono costituire i fattori decisivi per risol-vere situazioni di «stallo» decisionale.

Tale modello è quello della «struttura di missione», proposto dal gruppo di ricerca coordinato dai professori Amato, Cerulli Irelli e Urbani, nella quale sono presenti i rappresentanti (politici e tecnici) di tutte le amministra-zioni portatrici dei diversi interessi (positivi e oppositivi) coinvolti dalla realizzazione dell’opera medesima (con personale comandato presso la struttura), ivi compresi gli Enti locali.

Detta struttura di missione sarebbe funzionalmente pre posta alla composizione degli interessi centrali e peri-ferici e allo svolgimento di un complesso di attività pro-dromiche alla realizzazione dell’opera (che, a seconda degli specifici casi, vanno dall’elaborazione degli studi di prefattibilità e di fattibilità, alla progettazione preli-minare, alle consultazioni e udienze pubbliche), nonché al monitoraggio e controllo durante la fase realizzativa. A seconda delle effettive esigenze, la fase di attivazione della struttura di missione potrebbe variare: in alcuni casi la sua costituzione potrebbe essere necessaria già per lo svolgere studi di fattibilità dell’opera, a staff del Centro di analisi strategica; in tutti gli altri casi essa dovrebbe

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entrare in funzione nella fase più strettamente realizzativa delle opere assunte nella lista delle priorità approvata se-condo le modalità di cui al paragrafo 7.1 di questo capi-tolo. In ogni caso, la struttura di missione riprenderebbe l’istruttoria per la singola opera a partire dal punto in cui è arrivato il Centro di analisi strategica ai fini della sele-zione tra una pluralità di opere.

Essa inoltre potrebbe assumere per intero la respon-sabilità di gestire sia i progressivi approfondimenti pro-gettuali, sia le varie fasi di localizzazione sul territorio e di istruttoria partecipata e consultazione pubblica.

Nell’ambito della struttura si provvederebbe alla re-dazione di uno strumento di pianificazione finalizzato al-l’integrazione dell’opera principale e delle opere connesse nell’area territoriale corrispondente alla dimensione del-l’intervento. Tale piano avrebbe una dimensione territo-riale variabile in rapporto alla dimensione dell’intervento principale e delle c.d. opere connesse, costituito da una parte cartografica e una parte normativa, contenente in-dirizzi e prescrizioni, nonché la localizzazione dell’opera principale e di quelle connesse. L’opera risulterebbe così inserita nel territorio e coordinata con gli insediamenti e le infrastrutture esistenti, consentendo anche di integrare gli interventi di compensazione all’interno di un quadro coerente di assetto del territorio.

Documenti progettuali e strumento di pianificazione verrebbero sottoposti all’approvazione della struttura di missione, nella sua componente politica e trasmessi al Cipe per la loro approvazione definitiva. La deliberazione del Cipe potrebbe avvenire acquisito il parere delle com-petenti Commissioni parlamentari, introducendo – in tal modo – anche un concorso parlamentare più strutturato e articolato durante le fasi cruciali dell’iter (e quindi un rafforzamento della complessiva legittimazione politica).

Il contributo del gruppo di ricerca guidato dai profes-sori Amato, Cerulli Irelli e Urbani ha approfondito tale ipotesi normativa e le relazioni che si instaurerebbero con le competenze ordinarie degli organi che ne fanno parte, illustrandone il carattere innovativo e di oggettivo supera-

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mento dei modelli finora sperimentati (in primis, Confe-renza dei servizi) in relazione ai concreti problemi che si sono manifestati nel loro funzionamento.

Ai fini attuativi, particolare rilievo assume la defini-zione degli aspetti organizzativi di una tale struttura, che andrà concepita secondo un modulo organizzativo flessi-bile, che risponde a una logica di organizzazione funzio-nale, per obiettivi.

Sotto questo profilo, si potrebbero individuare al-l’interno della struttura, come evidenziato dal gruppo di ricerca coordinato dal prof. Petroni, due distinte figure dirigenziali che assumano una posizione saliente – con le corrispondenti responsabilità nelle gestione dei processi decisionali – per un verso nell’azione di raccordo inter-istituzionale, costruzione del consenso e accelerazione delle relative procedure, per un altro nella garanzia dei contenuti qualitativamente elevati del progetto di realizza-zione.

Le azioni delle due figure di dirigenti-responsabili nella struttura di missione andrebbero naturalmente a intrec-ciarsi: l’accordo si costruisce, infatti, attorno a un progetto, i cui vincoli tecnici definiscono la gamma di opzioni alter-native realizzabili e i rispettivi costi/benefici, mentre la de-finizione di tali contenuti risente a sua volta dell’esigenza di aggregare il consenso. Per questo le due figure – pur nella distinzione delle rispettive responsabilità – dovrebbero ope-rare sinergicamente: questa sintonia può realizzarsi «spon-taneamente», a seguito della condivisione della «missione» comune, ma sarebbe comunque opportuno predisporre una struttura di incentivi e disincentivi economici e di carriera adeguatamente collegati alla natura degli obiettivi prefissati e quindi al risultato come asse di orientamento dell’intero modello organizzativo.

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Il presente Rapporto dell’Associazione Italiadecide, il primo, tratta il tema delle infrastrutture strategiche di inte-resse nazionale legandole al più generale contesto del fun-zionamento dei pubblici poteri e dei loro modi di rappor-tarsi con il territorio.

L’originalità di questa ricerca – rispetto ad altri studi specialistici – sta nell’ipotesi che siano problemi generali nel funzionamento del sistema pubblico e dei rapporti tra i livelli territoriali a creare il differenziale rispetto ad altri paesi nella realizzazione delle grandi opere a partire dagli ultimi due decenni.

Questa ipotesi è stata verificata alla luce dell’analisi svol ta dai diversi gruppi di ricerca su altrettanti versanti del sistema pubblico (istituzionale, finanziario, ammini-strativo, giurisdizionale, di conoscenza e capacità di rap-portarsi con il territorio e i cittadini).

Pertanto la risposta a questo ordine di problemi va cer-cata con il necessario realismo a un livello altrettanto alto.

Si tratta di riconoscere e conoscere meglio la mag-giore complessità territoriale dell’Italia rispetto ad altri paesi e gestirla coerentemente.

Inoltre, poiché l’eccesso di produzione e innovazione normativa è causa di gravi disfunzioni in campo ammini-strativo e giurisidizionale, la risposta deve essere misurata e deve mirare al consolidamento e al compimento dei processi già in atto.

Non bisogna perciò ricominciare da capo e aggiun-gere ancora soluzioni del tutto nuove, ma riconoscere, as-sestare e completare le tendenze evolutive già in atto nel sistema istituzionale.

Da questo punto di vista appare chiaro che, in primo luogo, occorre porre fine a una lunga e confusa fase di

CONCLUSIONI

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transizione nei rapporti tra i livelli territoriali, che ormai minaccia la coesione nazionale e dunque anche la pro-grammazione e realizzazione delle infrastrutture di inte-resse nazionale. L’esame della casistica sul campo ha di-mostrato che capacità di realizzare sintesi e coesione na-zionale su un determinato tema e capacità di individuare l’interesse nazionale sullo stesso tema sono sinonimi. La stessa definizione delle grandi opere richiede uno sta-bile e solido punto di vista capace di generare una vi-sione unitaria del paese e del suo territorio. In ragione del suo rapporto con il territorio, la politica delle grandi infrastrutture chiama necessariamente in causa l’insieme probabilmente più vasto di poteri e centri di intervento pubblici e privati e pone il tema del loro coordinamento. Perciò il compimento del processo di trasformazione dei rapporti tra Stato, autonomie e Unione europea è il cuore di un vero e netto cambiamento di passo in questa area, che può considerarsi la più cruciale per il rilancio del si-stema paese e dei suoi territori.

La prima parte del Rapporto riassume l’analisi sulle cause profonde del divario infrastrutturale. Nella seconda parte il Rapporto individua le seguenti principali linee di azione:

1) Rafforzare la capacità di governo del territorio. In ambito istituzionale, la prima esigenza è «conoscere il territorio» nell’alto grado di articolazione e di interdipen-denza di tutti i suoi aspetti, uscendo da analisi settoriali. Questo compito può essere svolto in primo luogo dalle maggiori istituzioni in campo nazionale. Parlamento e Go-verno potrebbero rafforzare in via di fatto il loro modo di operare in senso territoriale, anche in attesa di riforme di ordine costituzionale. Il Parlamento potrebbe orien-tare le procedure delle Commissioni parlamentari verso il territorio, nonché concorrere a costituire e garantire una base di dati condivisa e articolata in senso territoriale at-traverso la cooperazione di tutte le istituzioni e delle au-tonomie (vedi infra). Al Governo spetta il compito di raf-forzare al proprio interno un unico polo di autorità sui temi territoriali – come già esiste in tema di economia

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– riunificando in via funzionale le competenze sparse in una pluralità di ministeri: un’autorità di governo con ca-pacità di guidare il già articolato versante territoriale del Cipe e di coordinare verso analisi e obiettivi convergenti sui temi infrastrutturali le diverse amministrazioni conno-tate da interessi contrapposti.

Per le Pubbliche amministrazioni, avvicinarsi al terri-torio significa soprattutto migliorare strumenti, metodi di lavoro e competenze tecnico professionali, nell’ambito di ciascuna amministrazione. Inoltre, sul piano amministra-tivo, sono necessarie forme risolute di integrazione ope-rativa tra le diverse amministrazioni impegnate sui sin-goli progetti e obiettivi interdipendenti. In particolare, in tema di infrastrutture di interesse nazionale, è necessario unificare le diverse competenze di analisi istruttoria in re-lazione all’ampiezza della funzione di governo riferita al territorio sia a livello di vertice (rafforzando la struttura di supporto del Cipe nella forma di un Centro di analisi strategica aperto al rapporto con le autonomie), sia nelle modalità operative (per esempio strutture di missione per obiettivo). Le amministrazioni parlamentari attraverso lo sviluppo dell’area informativa comune (già in via di for-mazione sui dati legislativi) tra Parlamento e Assemblee regionali – da estendere agli Enti locali – potranno con-correre a costituire l’Osservatorio interistituzionale dei dati sul territorio in cooperazione tra le Amministrazioni pubbliche creando una base di dati oggettiva, accessibile e condivisa.

2) Puntare sulla cooperazione fra Stato e autonomie ter-ritoriali nel quadro del sistema-paese. Il rilevante rafforza-mento delle autonomie territoriali avvenuto a cavallo del passaggio di secolo ha reso inevitabilmente più complesse le procedure in tema di infrastrutture che hanno sul ter-ritorio la loro dimensione principale di svolgimento. Le autonomie sono diventate più forti sia in termini di ca-pacità propositiva che di poteri di veto. Ciò ha portato a una situazione in cui, alle tendenze alla frammentazione, fanno riscontro i tentativi di riportare al centro le deci-sioni fondamentali riguardanti le opere di interesse nazio-

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nale. Un cambiamento in senso centralista di un sistema, che si è fatto molto più articolato rispetto al passato, non sembra una soluzione risolutiva in questa fase. La chiave di svolta viene quindi individuata in direzione opposta, nel compiere e portare fino in fondo il processo di tra-sformazione istituzionale restato a metà strada e attuare il nuovo Titolo V della Costituzione, in particolare quelle norme – da sempre ampiamente condivise – che assicu-rano, insieme a un maggior grado di autonomia, anche un maggior grado di coordinamento e di responsabilità di tutti gli attori per la coerenza complessiva del sistema e il conseguimento degli obiettivi di interesse nazionale (art. 114 responsabilità degli enti territoriali come parte della Repubblica, art. 118 principio di sussidiarietà, art. 119 fe-deralismo fiscale e coordinamento della finanza pubblica, art. 120 poteri sostitutivi a salvaguardia dell’unità giuri-dica ed economia della Repubblica). Il Rapporto assume come cornice fondamentale del suo discorso la necessità di accelerare questo percorso che ha la possibilità – se ben guidato – di imprimere una svolta e far evolvere in senso positivo tutte le problematiche di contesto.

3) Contenere l’eccesso normativo, burocratico e giuri-sdizionale. Il Rapporto assume come necessità prioritaria quella di non accrescere la selva di norme, procedure, or-gani e più in generale la dimensione della sfera giuridica e ordinamentale che avvolge le attività pubbliche, emar-ginando la questione cruciale dei risultati. In particolare, l’analisi svolta dai gruppi di ricerca in materia di conten-zioso e attività amministrative relativi alle opere pubbli-che ha accertato che l’eccesso di norme e procedure giu-ridiche (corrispondentemente alla carenza di strumenti e comportamenti sostanziali di ordine tecnico, partecipativo e cooperativo) sono le cause primarie delle disfunzioni nel campo della giustizia amministrativa e delle Pubbliche amministrazioni.

Pertanto, tutte le proposte avanzate nel Rapporto ri-spondono a una esigenza di massima economia del mezzo legislativo o normativo, che si vorrebbe assumere come criterio generale dell’attività di governo.

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Le proposte di nuovi interventi vanno in tre direzioni: – o si inquadrano dentro processi di riforma già in

corso; – o riguardano forme di coordinamento e integra-

zione di attività pubbliche già esistenti;– o sono relative allo sviluppo, nell’ambito delle at-

tività pubbliche, di metodi, strumenti, specialismi tecnici o a carattere non giuridico con l’intento di modificare i comportamenti degli operatori orientandoli al risultato.

Infatti le proposte di nuovi organismi (Centro di ana-lisi strategica, osservatorio territoriale, struttura di mis-sione) sono tutte ispirate al fine di ridurre le procedure, in quanto sono tese a realizzare la massima integrazione funzionale e operativa tra le Pubbliche amministrazioni e derivano da strutture già esistenti (per esempio per lo svolgimento di attività conoscitive di comune interesse, ovvero per il perseguimento di obiettivi dell’azione di go-verno attraverso modalità di unione funzionali).

Un altro aspetto fondamentale è tornare a rafforzare – rispetto alla diffusione di forme polivalenti e pervasive di competenze giuridico formali – le capacità tecniche specifiche di ciascuna amministrazione che si sono andate indebolendo in questi anni per una serie di fattori (spoil system generalizzato, esternalizzazione delle funzioni tec-niche a vantaggio di quelle di analisi formale-giuridica, mancanza di una adeguata formazione dei dirigenti a operare secondo moduli flessibili e orientati al risultato ecc.).

Quanto all’eccesso di contenzioso giurisdizionale, una maggiore qualità tecnica e partecipativa delle attività am-ministrative, la semplificazione e la stabilizzazione del quadro normativo e il mutamento degli approcci culturali che possono derivarne, unitamente al miglioramento di alcuni strumenti organizzativi interni alla giustizia ammi-nistrativa, sono le strategie utili a ridurre la quantità del contenzioso e l’elevato margine di incertezza quanto agli esiti che esso oggi presenta. In tal senso si propongono alcuni specifici correttivi al processo amministrativo e strumenti deflativi del contenzioso.

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4) Partecipazione, consenso, legittimazione e defla-zione del contenzioso. Il problema della decisione in tema di grandi infrastrutture non è soltanto quello della rapi-dità, ma anche di un’adeguata base tecnica, istruttoria e di partecipazione degli interessati, da cui discende la vera legittimazione dell’opera. Una decisione in questo campo, anche se assunta in tempi rapidi, non diventa efficace se non è condivisa dai destinatari o almeno legittimata da un consenso «procedurale» sulle modalità seguite per la sua adozione. Le modalità attuali di partecipazione ai processi decisionali rappresentano un punto di debolezza dell’assetto dei rapporti tra cittadino e Pubblica ammini-strazione. In particolare, è risultata grave e determinante l’assenza di questo tipo di consultazione nelle fasi iniziali della fattibilità e della progettazione. Questa carenza com-promette la legittimazione dell’azione dei pubblici poteri e determina maggiori resistenze, portando a un elevato tasso di conflittualità anche a livello giurisdizionale. I maggiori paesi europei adottano infatti precise e obbliga-torie metodologie di consultazione dei cittadini interessati nelle fasi primarie di impostazione delle opere. È neces-sario quindi aprire sin dalle prime fasi il procedimento di realizzazione delle opere alla partecipazione dei cittadini e dei portatori di interessi con strumenti adeguati (pre-sentazione dei progetti in alternativa, dibattiti pubblici, sondaggi deliberativi ecc.). Gli istituti di partecipazione non sono inutili complicazioni; al contrario, sono forme approfondite di istruttoria e di partecipazione e sono an-che nella pratica le più potenti misure di deflazione del contenzioso in sede giurisdizionale e delle difficoltà bu-rocratiche. Il problema della legittimazione esige anche la migliore integrazione delle autonomie nei processi de-cisionali, soprattutto nelle fasi conoscitive e istruttorie e inoltre trasparenza, «dimostrabilità» e responsabilità nei rapporti tra esecutivi e assemblee.

5) Puntare ancora una volta sulla ripresa e il rafforza-mento delle politiche comuni nell’Unione europea. Per ge-stire meglio i problemi strutturali dell’Italia il Rapporto punta decisamente sull’altro costante punto di forza nella

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storia recente del nostro paese: la speciale e reciproca re-lazione positiva che lega l’Italia all’Unione europea, so-prattutto nei momenti di crisi.

Lo sviluppo delle grandi reti materiali e immateriali, le politiche riguardanti l’energia e i rifiuti costituiscono le principali risposte alla crisi economica, finanziaria e isti-tuzionale in atto nell’ambito dell’Unione europea. Sono infatti questi i contenuti primari di un possibile rafforza-mento di una politica economica e territoriale comune, al-meno tra i paesi dell’euro. Un impulso alle grandi strate-gie di modernizzazione del territorio e di salvaguardia dei suoi bisogni essenziali su scala continentale appare la sola alternativa a un drammatico arretramento, in relazione alle conseguenze della crisi economica e finanziaria che incidono sui pilastri del sistema europeo (crisi del patto di stabilità e della disciplina sugli aiuti di Stato). Un ri-lancio della politica europea delle grandi infrastrutture di interesse comune (anche attraverso semplificazioni conta-bili, finanziarie e procedurali) può venire anche dai sin-goli Stati nazionali. L’Italia, nel risolvere i suoi problemi di divario, può dunque giocare un ruolo di impulso col-legandosi e anche stimolando nuove direttrici in questo campo per la ripresa e lo sviluppo dell’Unione europea. Va in questo senso la proposta degli Euro bond, che può essere un fortissimo volano per una ripresa della politica delle grandi infrastrutture su scala continentale. Per que-ste ragioni il problema delle grandi infrastrutture arriva a toccare l’evoluzione dell’intero sistema dei rapporti tra comunità nazionali e Unione europea.

6) Unire programmazione finanziaria e programmazione infrastrutturale. L’esigenza prioritaria in materia finanzia-ria, oltre e forse più del reperimento di ulteriori risorse da destinare alla realizzazione di infrastrutture, richiede che non si determinino divaricazioni tra finanziamento, selezione e realizzazione delle opere, a maggior ragione in una situazione di prolungata scarsità di risorse.

Pertanto, programmazione finanziaria e programma-zione infrastrutturale vanno legate in tutti i passaggi, a cominciare dall’impostazione delle strategie di medio ter-

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mine nell’ambito dei futuri strumenti di coordinamento di finanza pubblica (sviluppando un principio già oggi implicito nell’allegare il programma delle infrastrutture strategiche al Dpef, che viene poi approvato dal Parla-mento). Occorre dunque rafforzare le procedure di pro-grammazione finanziaria a medio termine e unire a esse le decisioni relative agli indirizzi strategici per le grandi infrastrutture, che devono essere assunte in un quadro di convergenza fra i diversi livelli territoriali di governo.

A tal fine deve essere unica la sede in cui – al mas-simo livello politico – si assumono contestualmente le decisioni sulla ripartizione delle risorse tra i livelli terri-toriali e quelle relative al finanziamento delle maggiori infrastrutture di interesse nazionale. A questa fase va as-sociata anche la decisione in ordine alle opere prioritarie. La realizzazione di grandi infrastrutture implica infatti un impegno prolungato – non solo di natura finanziaria – che non può essere esposto a cambiamenti continui e non adeguatamente motivati. La decisione sarà tanto più impegnativa e tendenzialmente stabile, quanto più pog-gerà su un’istruttoria accurata e basata su elementi ogget-tivi, che abbia tenuto in considerazione tutti gli elementi rilevanti, compresi gli aspetti finanziari, e che risulti coe-rente con gli indirizzi strategici precedentemente assunti.

L’essenziale corresponsabilizzazione di tutti i livelli di governo nell’elaborazione delle direttrici di sviluppo della comunità nazionale si lega anche a un’altrettanto essenziale corresponsabilizzazione finanziaria con l’at-tivazione di risorse di provenienza locale, regionale e comunitaria.

Per quanto riguarda le risorse provenienti dallo Stato, il progressivo affinamento della riclassificazione del bilan-cio sulla base di grandi missioni e, al loro interno, di un numero limitato di programmi di spesa, potrebbe con-tribuire a sostenere questo disegno di razionalizzazione, accorpando per finalità chiare le tipologie di interventi in materia infrastrutturale, eventualmente mediante la creazione di vasti programmi o di un fondo unico (per i grandi comparti di investimento) che potrebbe anche

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garantire maggiore flessibilità nell’impiego delle risorse in relazione all’effettivo avanzamento della fase realizzativa.

Allo stesso tempo, una modifica della disciplina sul partenariato pubblico privato potrebbe favorire una signi-ficativa crescita del contributo di risorse private (ancora insufficiente). Inoltre, occorre completare l’affinamento dei nuovi strumenti di finanziamento nell’ambito della Cassa depositi e prestiti, anche in collaborazione con la Bei.

7) Aggiornare e rilanciare la Legge obiettivo. L’insieme delle proposte avanzate nel Rapporto può in larga misura confluire – a Costituzione vigente – in un’unica ipotesi di lavoro mirata al rilancio e all’aggiornamento della Legge obiettivo, nel nuovo quadro istituzionale del federalismo fiscale e, in particolare, del coordinamento della finanza pubblica. L’intensa esperienza maturata nel primo pe-riodo di attuazione di questa normativa costituisce oggi la migliore traccia per il suo aggiornamento nel nuovo si-stema. Il Rapporto propone di inserirsi con decisione nel solco già tracciato dalla recente approvazione della legge delega in tema di federalismo fiscale e dal prossimo varo di nuove norme per il coordinamento della finanza pub-blica tra Stato, autonomie e Unione europea.

In materia di infrastrutture di interesse nazionale e di finanza pubblica, si manifesta la stessa esigenza di conci-liare, nell’ambito di una politica generale, obiettivi e vin-coli di interesse nazionale con uno spazio crescente di autonomia e responsabilizzazione degli enti territoriali. In entrambi i casi, occorre assicurare il massimo grado di conseguimento degli obiettivi vitali per la comunità nazio-nale (anche il coordinamento della finanza pubblica rien-tra tra le competenze di carattere concorrente secondo l’articolo 117, comma 3, della Costituzione).

La nuova Legge obiettivo dovrebbe dunque inqua-drarsi entro le procedure finanziarie e recare ulteriori fasi conoscitive e istruttorie, per le sue specifiche finalità di programmazione territoriale. Le procedure decisionali do-vrebbero avere la stessa dignità delle massime decisioni di bilancio di medio termine prefigurando impegni, anche fi-nanziari, che possono protrarsi anche per molti anni. An-

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che in materia di grandi opere, può dunque irrobustirsi, attraverso adeguate procedure di collegamento tra i livelli territoriali, a cominciare dall’Unione europea, un vero e proprio «patto di stabilità infrastrutturale», in grado di superare i cicli politici e dare un quadro tendenzialmente stabile – ai cittadini, alle amministrazioni e alle imprese – sull’ammontare delle risorse attivabili e sulle opere da realizzare in via prioritaria.

Sul piano decisionale, è prima di tutto necessario di-sporre di indirizzi strategici di medio termine ampiamente condivisi tra i livelli di governo in cui gli aspetti territo-riali ed economici si legano a obiettivi di medio termine di finanza pubblica. Gli indirizzi strategici dovrebbero integrare, in una visione nazionale, le strategie derivanti dalle diverse piattaforme di sviluppo in cui si ripartisce il territorio. Gli indirizzi sarebbero elaborati dal Cipe, in rapporto con le autonomie con il supporto del Centro di analisi strategica, e approvati dal Parlamento sulla base di procedure ancora più aperte al contributo dei terri-tori rispetto a quelle seguite per la decisione delle opere prioritarie. Le proposte relative agli indirizzi strategici po-trebbero provenire in larga misura dai territori come era previsto nei primi schemi di Legge obiettivo, elaborati tra il 2000 e il 2001.

La conduzione del processo istruttorio e di fattibilità con l’individuazione delle opere spetterebbe al Governo. L’attività conoscitiva e istruttoria dovrebbe essere con-dotta dal Cipe, grazie al supporto del Centro di analisi strategica e con modalità aperte al contributo e alle pro-poste del sistema delle autonomie (si propone una Confe-renza delle autonomie ad hoc aggregata al Cipe, analoga a quella già costituita dalla legge n. 42 per il coordina-mento della finanza pubblica). Nel Centro andrebbero in-tegrate competenze tecniche provenienti dal sistema delle autonomie e delle amministrazioni centrali, con il coordi-namento del ministero delle infrastrutture e delle strut-ture specializzate operanti presso di esso.

In questi termini, la nuova Legge obiettivo si propor-rebbe non solo come una legge quadro di settore, ma an-

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che come una grande legge ordinamentale di sistema che fondi su una base stabile e densa di reciproche garanzie il sistema dei rapporti tra Stato e autonomie.

La via per collegare la riforma della Legge obiettivo al processo di attuazione del federalismo fiscale potrebbe essere quella di ricorrere a una legge delega, che affian-chi anche nei tempi la legge 6 maggio 2009, n. 42 appena approvata. La delega potrebbe anche costituire il veicolo per realizzare un compiuto disegno di razionalizzazione, consolidamento e semplificazione di alcuni aspetti tut-tora controversi (localizzazione, compensazioni, ecc.), ri-ducendo elementi ridondanti rispetto alla disciplina co-munitaria, spesso non adeguatamente attuata nel nostro ordinamento e introducendo il metodo della struttura di missione quale modalità operativa ordinaria di collega-mento e cooperazione fra le amministrazioni pubbliche in presenza di grandi obiettivi di interesse nazionale.

In tal modo, pur proponendo, in conclusione, una nuova legge di delega, come veicolo delle sue principali proposte, il Rapporto non smentirebbe la fondamentale e prioritaria esigenza di economia, semplificazione e conso-lidamento normativo, fortemente segnalata in precedenza (vedi punto 2).

LE RELAZIONI DEI GRUPPI DI LAVORO

1. Premessa. La frammentazione istituzionale quale dato problematico di partenza nell’analisi dei processi deci-sionali relativi alle infrastrutture

In Italia si riscontra una forte difficoltà nella realizza-zione delle grandi infrastrutture derivante dai difficili rap-porti fra i diversi livelli di governo e dall’esigenza di un loro efficace coordinamento, fino a oggi assente.

Sul punto si deve premettere che la materia della pro-gettazione e realizzazione delle infrastrutture (dalle strade alle ferrovie ai porti alle linee di telecomunicazioni e così via) è, sul piano dell’allocazione della potestà legislativa tra diversi livelli di governo, di competenza concorrente. Ciò significa che le Regioni non solo sono titolari di pro-pri poteri amministrativi in materia, determinati dalla legi-slazione nazionale, ma sono anche titolari di una propria potestà legislativa, la quale consente di allocare la titola-rità e l’esercizio dei poteri in detta materia, in capo a se stesse, ovvero in capo a enti sub-regionali, e segnatamente a enti territoriali locali, a prescindere da ogni determina-zione legislativa nazionale.

D’altra parte, la forte «configurazione costituzionale» degli Enti locali, come titolari per regola di tutte le fun-zioni amministrative facenti riferimento a interessi di di-mensione territoriale, fa sì che, anche a prescindere da specifiche disposizioni legislative, questi, e segnatamente il comune, siano titolari, si direbbe in proprio, di funzioni amministrative rilevanti in ordine a ogni interesse che ha

1. RELAZIONE SULLA REALIZZAZIONEDELLE INFRASTRUTTURE IN ITALIA

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Relazione del gruppo di ricerca diretto da G. Amato, V. Cerulli Irelli e P. Urbani. Ricercatori: M. Di Giandomenico, M. Ferrante, A. Lalli, G. Mazzantini.

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attinenza col proprio territorio, e quindi certamente con quelli coinvolti nella progettazione, localizzazione e realiz-zazione delle grandi infrastrutture. Ciò da luogo, al di là degli aspetti politici rilevanti e ben noti, anche sul piano istituzionale, a una frammentazione molto incisiva dei poteri decisionali, tra i diversi livelli di governo relativa-mente alla materia in esame.

La progettazione di ogni opera, che incide significati-vamente su singoli territori, non solo richiede una nego-ziazione politica con i rappresentanti locali, il che è ovvio perché in democrazia ogni intervento di rilevante impatto sociale richiede il consenso delle parti coinvolte, ma si scontra altresì con la presenza, in capo alle organizzazioni locali, di un rilevante potere in ordine a ogni scelta re-lativa all’opera, derivante dal fatto che a tali enti si im-putano poteri giuridici il cui esercizio, in termini positivi, è in concreto necessario per la realizzazione dell’opera stessa.

La ricomposizione di tale dialettica di interessi, e di corrispondenti centri di potere (o anche di influenza) de-cisionale, secondo le indicazioni della Corte costituzionale già intervenuta in materia di conflitti tra diversi livelli istituzionali coinvolti nel medesimo contesto decisionale1, deve necessariamente perseguire il canone della leale e fattiva collaborazione tra i diversi soggetti istituzionali ed esponenziali.

In tale prospettiva, allora, i nodi da sciogliere nella gestione di siffatti procedimenti complessi attengono es-senzialmente alle modalità di tale collaborazione e, segna-tamente, all’individuazione di moduli collaborativi che riescano nel contemperamento dell’esigenza di considerare i contributi provenienti dai diversi centri d’interesse coin-volti e di quella di contestuale garanzia del raggiungimento

1 In particolare si veda la sentenza n. 303 del 1o ottobre 2003, avente a oggetto la legge n. 443 del 21 dicembre 2001 (Delega al Go-verno in materia di infrastrutture e insediamenti produttivi strategici e altri interventi per il rilancio delle attività produttive), la cui imposta-zione di fondo è stata poi confermata dalle sentenze nn. 307 e 362 del 2003, n. 196/2004 e n. 383/2005.

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dell’obiettivo decisionale ultimo, ossia la definitiva localiz-zazione e realizzazione delle infrastrutture pubbliche.

2. Quadro positivo della dialettica tra gli interessi e delle rispettive modalità di coordinamento nei procedimenti di localizzazione delle infrastrutture

2.1. Interessi «positivi» e «oppositivi» nel processo decisio-nale

Ai nostri fini è preliminarmente necessario verificare, sul piano positivo, la consistenza dei poteri attribuiti in capo ai diversi livelli di governo, corrispondenti a diversi centri d’interessi di cui ciascun livello politico-amministra-tivo assume funzione rappresentativa – secondo modalità e con incidenza diverse – nell’ambito del complesso pro-cedimento di localizzazione delle infrastrutture.

Ai fini descrittivi della rispettiva valenza «dialettica» nel processo decisionale, si possono distinguere interessi, e corrispondenti funzioni amministrative «di segno posi-tivo», ovvero che concorrono alla realizzazione dell’opera, esprimendo il principale impulso decisionale al consegui-mento dell’obiettivo realizzativo (tra i quali si annoverano principalmente i poteri di pianificazione urbanistica e lo-calizzazione dell’opera); e funzioni di «segno negativo», ovvero interessi, e corrispondenti funzioni amministrative di rappresentanza e tutela, ipoteticamente contrapposti, o comunque ostativi rispetto all’impulso decisionale di realizzazione dell’opera (principalmente la tutela dei beni culturali e del paesaggio, la tutela dell’ambiente e delle aree protette, la tutela della salute, la difesa del suolo e delle coste e la tutela dell’assetto idrogeologico).

Senza poi trascurare l’incidenza degli interessi col-lettivi (aggregati attraverso associazioni, comitati e altre forme organizzative esponenziali) e quelli privati (di na-tura proprietaria, ma anche imprenditoriale), anch’essi de-stinati – per loro stessa propensione – a trovare voce nei processi decisionali, talvolta attraverso canali istituzionali

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ufficiali che ne sfruttano la forza oppositiva per motivi sostanzialmente politici.

2.2. (segue) Loro composizione nel procedimento «ordina-rio» per la localizzazione delle infrastrutture pubbliche d’interesse statale

La dialettica di tali interessi si svolge tutta nel conte-sto dell’azione di governo territoriale di pertinenza degli Enti locali, titolari originari dei poteri di pianificazione urbanistica e territoriale, tra i cui contenuti necessari (cfr. art. 7 l. n. 1150/1942) rientra appunto la programmazione e realizzazione di infrastrutture pubbliche.

Il processo decisionale di localizzazione delle infra-strutture di interesse statale, dunque, trova la sua prima e principale interferenza proprio nell’impatto – e nella con-seguente sovrapposizione – con la programmazione terri-toriale di livello locale, rispetto alla quale deve in primo luogo risolvere i profili di conformità urbanistica del pro-getto infrastrutturale con le scelte pianificatorie locali.

A tale problema di conformità urbanistica si aggiunge – nella prassi dirimente – la necessaria compatibilità con quegli interessi differenziati, prima definiti «oppositivi», attinenti alla tutela di valori e beni giuridici di rilevanza costituzionale (la salute, il paesaggio e la difesa del suolo e delle risorse naturali, la promozione culturale, l’ambiente) e oggetto di specifiche discipline di tutela, di per se stessi incidenti con qualsiasi scelta di utilizzo del territorio.

Per quanto attiene le infrastrutture pubbliche di in-teresse statale, il procedimento ordinario vede l’applica-zione del d.p.r. 383/1994 (artt. 2 e 3) e delle disposizioni della l. 241/1990 in tema di conferenza di servizi.

In particolare, il d.p.r. 383/1994, stabilisce la proce-dura di localizzazione delle opere di interesse statale, sta-bilendo, innanzitutto, che l’accertamento di conformità ai piani urbanistici ed edilizi «è fatto dallo Stato di intesa con la regione interessata» (art. 2). In caso di fallimento dell’intesa si prevede la convocazione di una conferenza

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di servizi alla quale partecipano tutti i livelli amministra-tivi coinvolti e, in generale, tutti gli enti e le amministra-zioni che a vario titolo sono chiamati a esprimere atti di assenso sul progetto infrastrutturale, destinati a essere assorbiti e sostituiti dalla determinazione conclusiva del procedimento.

Il raggiungimento di tale determinazione, che sino a oggi richiedeva la convergenza unanime delle posi-zioni espresse, a seguito della recentissima modifica in-trodotta dal d.l. 185/2008 (c.d. Decreto anticrisi) conv. in l. 2/2009, può conseguire anche all’assunzione della posizione che ha registrato la maggioranza dei consensi, a eccezione che vi sia il dissenso di un’amministrazione preposta «alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità» o della «regione interessata». In tal caso, il superamento del dissenso è rimesso alla de-terminazione finale «sostitutiva» del decisore politico di livello governativo (nel caso di interventi di interesse sta-tale, il Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 81, comma 4, d.p.r. 616/1977).

Si tratta di meccanismi di superamento del dissenso già previsti dalla l. 241/1990, che ha delineato la disci-plina generale dello strumento ordinario di composizione degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento am-ministrativo, che è la conferenza di servizi. In sintesi, la conferenza di servizi è un modulo di esame e confronto contestuale dei diversi interessi pubblici, tendenzialmente equiordinati rispetto alla definizione dell’assetto decisio-nale conclusivo.

La conferenza di servizi ha l’indubbio vantaggio (lad-dove sia funzionante) di essere un’occasione di ricompo-sizione contestuale dei vari interessi in gioco e di coordi-namento delle direttrici di azione. E difatti: a) consente di verificare in via preliminare (conferenza dei servizi prelimi-nare – art. 14-bis) le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo, tutti gli atti di assenso necessari, con l’eventuale indicazione di diverse soluzioni progettuali e le condizioni e gli elementi necessari per ottenere, in sede di presentazione

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del progetto definitivo, gli atti di consenso; b) impone la necessaria puntuale motivazione del dissenso espresso, con l’indicazione delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell’assenso; c) prevede, come detto, l’introduzione di mec-canismi di superamento del dissenso delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, con l’affidamento della decisione finale a un soggetto «terzo» (Consiglio dei ministri, Confe-renza Stato-Regioni, Conferenza unificata).

2.3. Le procedure speciali della c.d. Legge obiettivo e del d.l. n. 185/2008. I moduli decisionali straordinari o emer genziali

2.3.1. Nel tempo il legislatore ha affiancato alla di-sciplina appena sintetizzata, alcune discipline speciali, dichiaratamente orientate alla semplificazione e accelera-zione delle procedure, in una direzione decisamente de-rogatoria alle ordinarie modalità di acquisizione degli atti di assenso da parte dei diversi centri di interesse di livello locale.

2.3.2. Con la legge n. 443/2001 (c.d. Legge obiettivo) e la successiva normativa di attuazione (adesso contenuta nel Titolo IV del Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006) si è introdotta una nuova categoria di opere pubbliche, definite «strategiche di preminente interesse na-zionale», assistita da una disciplina speciale sia per quanto attiene alle modalità di programmazione e finanziamento, sia per quanto riguarda il procedimento di localizzazione.

In particolare, si attribuisce un ruolo centrale e ten-denzialmente assorbente delle competenze ordinariamente ripartite tra diversi livelli amministrativi, al ministero pro-ponente e al Cipe.

La fase di programmazione degli interventi passa at-traverso delle intese-quadro tra ministero e Regioni inte-ressate, concentrando, poi, le sedi decisionali per la lo-

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calizzazione appunto nel Cipe, che sul progetto decide a maggioranza con il consenso dei presidenti delle Regioni interessate, i quali, a loro volta, si pronunciano «sentiti i comuni nel cui territorio si realizza l’opera». Il parere istruttorio sul progetto preliminare ai fini urbanistici ed edilizi è reso dalle sole Regioni, sentiti i Comuni. La pro-nuncia deve tuttavia intervenire entro un determinato ter-mine, «anche nel caso in cui i comuni interessati non si siano tempestivamente espressi».

La decisione del Cipe determina anche l’accertamento della compatibilità ambientale dell’opera, acquisita defini-tivamente già nel livello preliminare della progettazione. L’approvazione del progetto preliminare in sede di Cipe perfeziona altresì, a ogni fine urbanistico ed edilizio, l’in-tesa Stato-Regione sulla sua localizzazione, comportando l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti e adottati (art. 165 Codice contratti).

In caso di dissenso della Regione sull’approvazione del progetto preliminare, è previsto un articolato procedi-mento per il superamento dello stesso, comunque basato sulla dialettica interna al Cipe e, in ultima istanza al Con-siglio dei ministri.

La conferenza di servizi si svolge solo «a valle», ossia sul progetto definitivo, seguendo regole diverse da quelle ordinarie e improntate alla riduzione dei tempi e dell’ag-gravio motivazionale per l’espressione dei pareri di compe-tenza di ciascun ente coinvolto (art. 168 Codice contratti), sui quali, peraltro, interviene comunque il Cipe, anche in questo caso titolare esclusivo del potere di approvazione e di dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Il modello della conferenza di servizi, dunque, nella fase di indivi-duazione dei siti e di definizione dei contenuti progettuali caratterizzanti, è del tutto superato, con una contestuale degradazione delle manifestazioni di assenso delle ammini-strazioni locali a meri pareri istruttori, peraltro solo even-tuali e comunque surrogabili dalla decisione statale. Gli Enti locali non possono che attenersi alla decisione presa, provvedendo «all’adeguamento definitivo degli elaborati urbanistici di competenza» (art. 166).

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Gli Enti locali e gli altri enti e organismi di settore preposti alla cura di interessi ambientali, paesaggistico-ter-ritoriali, sanitari ecc., potranno far sentire la loro «voce» anche in sede di istruttoria per la Valutazione di impatto ambientale dell’opera. Ma in tale sede si attribuisce la competenza decisionale definitiva ai ministeri competenti, i quali devono solo «tener conto» di dette osservazioni. In sede di Via, in caso di dissenso motivato del ministero dell’Ambiente o del ministero per i Beni culturali, l’ado-zione del provvedimento di compatibilità ambientale è demandato al Consiglio dei ministri.

Il quadro di accelerazione decisionale si completa con la previsione della possibilità, sempre in capo al ministero competente, di proporre al presidente del Consiglio dei ministri, sentiti i ministri competenti, nonché i presidenti delle Regioni interessate, la nomina di Commissari straor-dinari che seguano l’andamento delle opere, promuo-vendo anche le intese necessarie alla realizzazione del-l’opera tra i soggetti pubblici e privati.

Sebbene tale figura commissariale richiami l’esercizio dei poteri emergenziali di protezione civile, più volte uti-lizzati proprio nella materia delle infrastrutture (tra i ri-ferimenti più recenti si rammenta l’organo commissariale previsto dall’art. 13 del d.l. n. 67/1997, c.d. Sblocca can-tieri), essa viene di fatto configurata per lo più come or-gano di supervisione e coordinamento istruttorio e opera-tivo, anche se nella prassi (si veda la vicenda del Passante di Mestre) all’atto della nomina si sono comunque attri-buiti effettivi poteri emergenziali e derogatori.

2.3.3. Il richiamo del diritto dell’emergenza permette di introdurre la disamina delle più recenti innovazioni le-gislative sulla semplificazione procedimentale in materia di infrastrutture strategiche. Proprio in questi ultimi mesi, difatti, il legislatore è ritornato sul tema, stavolta moti-vando espressamente il suo intervento con riferimento alla contingente crisi economico-finanziaria globale e l’esi-genza di sostenere lo sviluppo con investimenti in infra-strutture.

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È questa la intentio legis espressamente dichiarata dell’articolo 20, comma 1, del d.l. n. 185/2008 (conv. dalla l. n. 2/2009 e modificato dal d.l. 5/2009, conv. in l. 33/2009) per giustificare la previsione di una proce-dura di implementazione delle infrastrutture del tutto straordinaria e dichiaratamente sostitutiva dell’ordinario assetto di competenze decisionali. Si prefigura, infatti, senza particolari sforzi di specificazione, la possibilità di determinare un procedimento di localizzazione ad hoc e dai contorni non prefissati, direttamente con decreto del presidente del Consiglio di ministri, su proposta del mini-stro competente. Tale atto governativo deve accogliere la determinazione (non definita a priori con riferimento ad alcuno dei modelli procedimentali sin qui riportati) de «i tempi di tutte le fasi di realizzazione dell’investimento e il quadro finanziario dello stesso». Con la precisazione che «Sul rispetto dei suddetti tempi vigilano commissari straor-dinari delegati, nominati con i medesimi provvedimenti».

L’organo commissariale effettua il monitoraggio sul-l’adozione degli atti e dei provvedimenti necessari per l’esecuzione dell’investimento; vigila sull’espletamento delle procedure realizzative e su quelle autorizzative, sulla stipula dei contratti e sulla cura delle attività occorrenti al finanziamento, utilizzando le risorse disponibili assegnate, e a tal fine esercita ogni potere di impulso, attraverso il più ampio coinvolgimento degli enti e dei soggetti coin-volti, per assicurare il coordinamento degli stessi e il ri-spetto dei tempi. A seguito della modifica della norma in-tervenuta con il citato d.l. 5/2009, sono emersi con forza i caratteri emergenziali della disposizione, avendo il com-missario «con riferimento a ogni fase dell’investimento e a ogni atto necessario per la sua esecuzione, i poteri, anche sostitutivi, degli organi ordinari o straordinari». Il commissario può derogare a ogni disposizione vigente nel rispetto della normativa comunitaria sull’affidamento dei contatti pubblici, nonché dei principi generali del-l’ordinamento giuridico. I singoli decreti contengono l’in-dicazione delle principali norme cui si intende derogare (comma 4).

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2.3.4. Al di là dei sistemi normativi sommariamente descritti, si pongono poi le procedure di carattere emer-genziale (ai sensi della legge 225/1992 sulla protezione ci-vile), nelle quali l’obiettivo della realizzazione dell’opera si persegue mediante la deroga a tutte le disposizioni or-dinamentali vigenti e l’affidamento dello stesso a un unico soggetto (il commissario delegato di nomina del presi-dente del Consiglio), con pieni poteri anche di ordinanza.

3. Criticità del sistema normativo

3.1. La disciplina normativa vigente, sia quella ordinaria che quella speciale, sopra esaminata, che regola il procedi-mento teso alla realizzazione delle opere pubbliche, presenta aspetti critici, che hanno determinato, oltre ad altri fattori di carattere non giuridico, lo «stallo» decisionale in materia di infrastrutture che a oggi si registra nel nostro paese.

In primo luogo, lo strumento della conferenza di ser-vizi, così come disciplinata dalla legge 241/1990, presenta un aspetto fortemente critico laddove le amministrazioni preposte agli interessi, che abbiamo definito come ten-denzialmente «oppositivi» (culturale, ambientale, della sa-lute ecc.), siano contrarie alla realizzazione dell’opera. In tal caso operano dei meccanismi di superamento del dis-senso, che rimettono la decisione finale a un organo poli-tico di livello governativo.

Detti meccanismi non hanno trovato pressoché alcuna applicazione. E ciò in ragione della circostanza che diffi-cilmente l’autorità politica di governo intende assumersi la responsabilità di decisioni che si pongano in contrasto con considerazioni di carattere tecnico, legate alla tutela di interessi considerati primari nel nostro ordinamento (ad esempio la salute), e che comunque non sono condivise.

3.2. Per quanto attiene poi alle procedure dettate dalla c.d. legge Lunardi (oggi confluite nel Codice dei contratti pubblici) per le infrastrutture di carattere strategico, il «fal-limento» delle stesse, registrato nei casi esaminati (vedi Tav

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Torino-Lione) è da addebitare per lo più alla circostanza che gli Enti locali, e segnatamente i Comuni, sono comple-tamente esautorati e privati di fatto di ogni possibilità di incidere sul processo decisionale in ordine alla programma-zione e localizzazione dell’opera. E dunque i soggetti che rappresentano le collettività territoriali, su cui va a incidere l’opera stessa, nonché detentori dei poteri di pianificazione urbanistica, si trovano a dover in sostanza «subire» inter-venti che vanno a impattare sul proprio territorio. Di qui «l’opposizione» degli stessi alla realizzazione dell’intervento che di fatto viene bloccato, pur non avendo gli Enti locali, in base alla disciplina speciale in questione, il potere di im-pedire che l’infrastruttura programmata sia approvata.

D’altra parte, in un sistema politico istituzionale come il nostro, risulta inefficace qualsiasi strumento che, in virtù di un potere decisionale affidato a singoli organismi, pretende di imporre la necessità del consenso.

3.3. Quanto poi agli strumenti di carattere emergen-ziale, è evidente che non si possano assumere come mo-dello. La realizzazione di opere pubbliche è infatti attività ordinaria. Tuttavia, dall’esperienza di carattere emergen-ziale si possono trarre degli elementi di efficienza proce-dimentale che possono essere acquisti e valorizzati nelle procedure ordinarie.

4. Alcune indicazioni di prospettiva. Un progetto, una missione

4.1. A fronte delle descritte criticità emerse dal qua-dro positivo dei meccanismi decisionali in materia di in-frastrutture pubbliche, in coerenza con gli obiettivi di-chiarati nel presente rapporto, si possono ora fornire al-cune indicazioni di prospettiva, di carattere giuridico, ma in un’ottica strettamente operativa.

Al riguardo si deve comunque premettere che, a parte la portata e il contesto dei possibili rimedi agli stalli deci-sionali, il principale fattore critico che resta sullo sfondo

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è probabilmente di natura politica e socio-culturale. Nel nostro paese scontiamo, da un lato, la persistenza di una cultura politico-istituzionale di fondo, di per sé poco in-cline al raggiungimento del risultato decisionale, e, dal-l’altro lato, una tendenza a polarizzare i contrasti tra in-teressi opposti, in maniera così netta da determinare una rinuncia pregiudiziale da parte dei decisori alla possibilità di componimento.

Rispetto a tale dato di fondo, allora, le principali ri-cette per un «sano» decisionismo, attengono sì ad alcuni profili strutturali (quali l’assetto costituzionale delle com-petenze legislative e amministrative tra livelli di governo, ovvero la revisione della conferenza di servizi), ma so-prattutto passano attraverso la creazione di una «cultura del consenso», preventiva rispetto alla decisione di loca-lizzazione e che coinvolge necessariamente tutti gli attori e le comunità territoriali interessate, evitando di imporre la decisione con l’utilizzo costante di formule eccessiva-mente semplificate quando non emergenziali.

4.2. Tra i rimedi strutturali, con riferimento speci-fico ai conflitti interistituzionali di competenze legislative e amministrative, si è in più occasioni riflettuto sull’op-portunità di rivedere, sul piano costituzionale, l’attribu-zione alla potestà legislativa concorrente di materie quali le grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, l’ordina-mento della comunicazione, i porti e gli aeroporti.

In questo senso, si potrebbe attribuire allo Stato, in via esclusiva, per ovvie esigenze di coordinamento e di-sciplina unitaria, la materia delle opere infrastrutturali di interesse nazionale; restando in ogni caso allo Stato la determinazione dei principi fondamentali in materia di opere infrastrutturali a ogni livello. In tal modo, almeno una parte delle occasioni di conflittualità interistituzionale manifestatasi dovrebbe auspicabilmente ridursi.

4.3. Resterebbe, tuttavia, da risolvere il problema de-gli stalli decisionali manifestati nelle sedi amministrative

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di coordinamento, che vedrà sempre protagonisti gli Enti locali, in quanto titolari di competenza generale – natu-rale – in materia di assetto del proprio territorio ed espo-nenziali delle collettività interessate.

Una delle possibili soluzioni, che si trae dall’espe-rienza delle procedure di emergenza, è quella di affidare la definizione del progetto, della localizzazione sul terri-torio e dell’attività di «acquisizione del consenso» circa l’opera strategica o di interesse nazionale che si è delibe-rato di finanziare, a una struttura di missione, la cui strut-tura e operatività, come di seguito descritta, rende, tra l’altro, non necessario ricorrere alla conferenza di servizi e all’applicazione della relativa disciplina.

5. La struttura di missione e l’iter di approvazione e loca-lizzazione dell’opera

5.1. La struttura di missione è un organismo funzio-nalmente preposto alla composizione degli interessi cen-trali e periferici e all’elaborazione di un complesso di at-tività prodromiche alla realizzazione dell’opera, articolato in una sequenza procedimentale pluristrutturata. Fun-zioni, compiti e strutture sono disciplinati da apposito accordo, in quanto amministrazione «di durata», ai sensi dell’art. 15 l. 241/1990.

La struttura di missione si articola secondo due livelli. Del primo livello, propriamente politico, fanno parte tutte le amministrazioni d’apice coinvolte dall’opera, e in ogni caso, l’amministrazione delle infrastrutture, quella dei beni culturali, dell’ambiente e della tutela della salute e, se del caso, quella dello sviluppo economico, attraverso i rispettivi rappresentanti (ministri, presidenti di Regione, di Provincia, sindaci o assessori delegati).

Al secondo livello, propriamente tecnico, vi parteci-pano tecnici a livello dirigenziale delle amministrazioni interessate, ivi comandati dalle amministrazioni di prove-nienza. A tale livello possono partecipare anche soggetti esterni, con specifiche qualifiche tecniche, laddove neces-

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sario in relazione a particolari esigenze che non possono essere compiutamente soddisfatte dai rappresentanti tec-nici interni all’amministrazione.

Il coordinamento e la direzione della struttura sono affidati a un soggetto avente competenze tecniche, ap-partenente all’amministrazione titolare dell’opera (o al ministero delle Infrastrutture, visto che il Codice degli appalti, all’art. 163, comma 3, per le opere strategiche, prevede una similare struttura tecnica di missione presso il detto ministero), designato dai rappresentanti politici della struttura medesima, che può essere definito «Com-missario per la missione».

La struttura di missione la cui sede va precisata, ha comunque carattere mobile, dovendo avere uno stretto col-legamento con il territorio interessato dall’infrastruttura.

Nell’ambito dell’attività della struttura di missione sono svolte tutte le necessarie mediazioni tecniche e po-litiche tra gli interessi coinvolti, al fine di addivenire a un progetto dell’opera che tenga conto delle esigenze poste dalla tutela degli interessi medesimi, in una ragionevole e proporzionata strategia di composizione «in nome» del-l’interesse alla realizzazione dell’opera.

Nella stessa sede, attraverso l’inserimento dell’opera in uno strumento di pianificazione elaborato ad hoc, sono definite modalità e limiti dell’erogazione, ove necessarie, di misure compensative, a carattere ambientale-territoriale o a carattere economico-finanziario, o anche attraverso l’approvazione di opere accessorie e complementari, che assicurino il coordinamento dell’infrastruttura strategica con le esigenze del territorio (l’istituto delle compensa-zioni avrebbe comunque bisogno di un intervento norma-tivo, che ne definisca i limiti generali, poiché non sem-bra sufficiente quanto disposto all’art. 165 del Codice dei contratti che limita al 5% dell’intero costo dell’opera, gli oneri compensativi).

5.2. Nel dettaglio, il procedimento di approvazione dell’opera si dovrebbe articolare secondo le seguenti fasi.

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Fase A. La decisione politica. La prima fase, di carattere eminentemente politico, riguarda la «scelta» dell’opera di carattere strategico o di interesse nazionale che il «deci-sore» politico ritiene necessario realizzare per la collettività. Si tratta di scelta frutto delle valutazioni e dell’istruttoria svolta a livello governativo dal «Centro di analisi strate-gica» allocato presso la presidenza del Consiglio (Cipe) cui sono affidati compiti di studio sul programma delle opere pubbliche nazionali che valuti la priorità delle opere da realizzare. Le funzioni del centro di analisi strategica ai fini di supporto alle decisioni del Cipe per la selezione delle opere e l’individuazione delle priorità da sottoporre al Parlamento, saranno precisate nel rapporto finale insieme ai necessari coordinamenti con il seguito del procedimento istruttorio per l’attuazione di ciascuna opera.

La scelta quindi è già supportata da un documento pro-grammatico che descriva in linea generale l’intervento con riferimento al territorio considerato e ne indichi le ragioni strategiche. La decisione è del Governo, e segnatamente del Cipe, che tuttavia deve recepire, in tale fase, le istanze che gli pervengono dal territorio. Ossia, recuperando lo spirito originario della Legge obiettivo (si veda il disegno di legge A.S. n. 374, presentato il 3 luglio 2001, primo fir-matario on. Tremonti), gli Enti locali e le Regioni possono far pervenire le loro proposte al Governo, il quale dovrà tenerne conto nella predisposizione dell’elenco delle opere di cui alla medesima Legge obiettivo, con connessa pre-visione del relativo finanziamento, ferma restando l’intesa Stato-Regione sull’opera da realizzare. Al momento del-l’inserimento delle opere in elenco, viene anche deliberata l’istituzione dell’apposita struttura di missione, con l’indica-zione dei soggetti che, in rapporto alle competenze e alla dimensione territoriale dell’opera, devono necessariamente farne parte, salvo le integrazioni che dovessero successiva-mente rivelarsi utili ai fini della «missione».

Fase B. L’elaborazione dello studio di fattibilità prodro-mico all’elaborazione del progetto preliminare. La struttura di missione, nella sua componente tecnica, elabora lo stu-

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dio di fattibilità già previsto dalla disciplina vigente (per le opere di carattere strategico, si veda art. 161, comma 1-bis del Codice dei contratti pubblici) che, sulla base del documento programmatico approvato dal Cipe, si articola in due fasi distinte.

B.1) La prima fase, detta di pre-fattibilità, è volta alla verifica della compatibilità dell’idea progettuale con i documenti di programmazione e pianificazione di livello regionale e locale, nonché al confronto con gli interessi pubblici e privati (di categoria) e le politiche di sviluppo locale esistenti, di programmi comunitari in atto. Ciò al fine di acquisire un consenso preliminare, attraverso i ne-cessari aggiustamenti di tracciato e di contenuto o, al li-mite, di verificarne sin da ora l’impraticabilità politica e sociale della proposta progettuale.

B.2) La seconda fase, della fattibilità vera e propria, valuta la fattibilità dell’opera sul piano costi/benefici, ov-vero la sostenibilità finanziaria, economica e amministra-tiva, con la previsione anche delle possibili compensa-zioni, in opere, in sovvenzioni o finanziarie, che si siano eventualmente evidenziate nell’ambito della pre-fattibilità. Lo schema definitivo dello studio di fattibilità, nel suo complesso, è a questo punto sottoposto all’effettiva con-sultazione pubblica ai fini dell’acquisizione del consenso definitivo circa l’intervento sul territorio interessato.

La struttura di missione procede, quindi, mediante la convocazione formale di una o più udienze pubbliche (le hearings dell’esperienza anglosassone o le enquêtes publi-ques dell’esperienza francese), cui sono invitati a parteci-pare le collettività locali su cui incide l’intervento, i pri-vati, le associazioni di categoria, le imprese e comunque tutti i soggetti interessati dall’opera stessa o che ne trag-gono vantaggio (stakeholder e shareholder).

Detti soggetti, avvertiti mediante appositi strumenti pubblicitari, solo in quella sede, eventualmente reiterata, potranno far valere le loro ragioni, delle quali il progetto dell’opera e le sue compensazioni territoriali dovranno te-nere conto. In questa fase saranno anche stabilite in via definitiva le compensazioni, la loro composizione, nonché

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il relativo fabbisogno finanziario. Nella stessa fase, deve essere esperito anche il procedimento di valutazione di impatto ambientale dell’opera, la quale è espressa dall’ap-posita Commissione Via del ministero dell’Ambiente, nel-l’ambito della struttura di missione e tenendo conto del-l’interesse nazionale alla realizzazione dell’opera.

La sede organizzativa di tale partecipazione, ovvero di più generali funzioni di «istruttoria territoriale parte-cipata», potrebbe individuarsi nelle (o comunque coinvol-gere le) Prefetture, le quali già oggi, in diversi contesti, rappresentano l’interlocutore istituzionale di ascendenza statale percepito come più «rassicurante» e aperto a un contraddittorio costruttivo verso il basso.

La redazione dello studio di fattibilità non è affidata a terzi, ma è compiuta dalla stessa struttura di missione, eventualmente integrata da componenti esperti.

Lo studio di fattibilità, unitamente all’istruttoria, è portato all’esame della struttura di missione nel suo li-vello politico, che lo invia, per la relativa validazione agli organi competenti (Nucleo tecnico di valutazione e ve-rifica degli investimenti pubblici presso il ministero del-l’Economia).

Fase C. Redazione e approvazione del progetto prelimi-nare e del piano d’area e suo recepimento negli strumenti urbanistici.

C.1) La struttura di missione, nella sua componente tecnica, una volta definita la fattibilità dell’opera e acqui-sito il parere di conformità del Nuval (Nucleo di valuta-zione e verifica degli investimenti pubblici), ottenuto il consenso sulla stessa e definita la compatibilità ambien-tale del progetto, nonché le relative compensazioni, re-dige il progetto preliminare dell’opera inserita nell’elenco, predisposto secondo le disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici (art. 165), in quanto compatibili con le presenti prospettazioni.

Contemporaneamente alla redazione del progetto preliminare, la struttura di missione redige uno specifico strumento di pianificazione, la cui dimensione territoriale

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varia in rapporto alla dimensione dell’intervento princi-pale e delle c.d. opere connesse, che possiamo definire d’area o strategico, costituito da una parte cartografica e una parte normativa, contenente indirizzi e prescrizioni, nonché la localizzazione dell’opera principale e di quelle connesse. Mediante detto piano l’opera viene inserita nel territorio e coordinata con gli insediamenti e le infrastrut-ture esistenti (in modo tale da rendere l’intervento fun-zionale al territorio in cui si inserisce) e sono altresì indi-viduate anche le opere a carattere secondario o di com-pensazione, sulle quali si è avuto il consenso.

Il progetto preliminare e il piano d’area sono sottopo-sti all’approvazione della struttura di missione, nella sua componente politica (nella quale sono già presenti tutte le amministrazioni aventi titolo sul territorio) e sono tra-smessi al Cipe per la loro approvazione definitiva, che presuppone la positiva valutazione di impatto ambientale dell’opera stessa, precedentemente svolta. Con il progetto preliminare, infatti, il Cipe approva anche la dichiarazione di compatibilità ambientale dell’opera medesima.

Successivamente, il piano con le sue previsioni circa l’opera principale e la sistemazione del territorio inte-ressato, viene recepito dalle amministrazioni locali (an-ch’esse, come detto, facenti parte della struttura di mis-sione), determinando la variazione automatica dei propri strumenti urbanistici.

Fase D. La realizzazione dell’opera. A questa fase di localizzazione e di approvazione del progetto preliminare dell’opera, seguono le ulteriori fasi di approvazione del progetto definitivo e di esecuzione dei lavori.

La realizzazione di queste fasi viene affidata al con-cessionario di costruzione e gestione o al contraente ge-nerale, secondo le modalità previste dagli artt. 173 e ss. del Codice dei contratti pubblici.

In particolare, a questi soggetti viene affidata la pre-disposizione della progettazione definitiva, che viene ve-rificata, dal punto di vista tecnico e circa la rispondenza con il progetto preliminare, dalla struttura di missione e

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poi approvata dal Cipe, con conseguente dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.

In queste fasi, dunque, la struttura di missione conti-nua la sua azione con funzioni di monitoraggio e controllo circa gli aspetti progettuali, intervenendo ogni qual volta sono proposte modifiche o varianti progettuali. Mentre, per quanto riguarda l’aspetto relativo ai rapporti contrat-tuali tra la stazione appaltante e i soggetti esecutori, la risoluzione delle problematiche che discendono da detti rapporti può essere affidata a una direzione lavori «raf-forzata», con competenze tecnico-giuridiche (si è fatto riferimento nelle audizioni a un «comitato direttivo»), in grado di risolvere con rapidità le predette problematiche. Ferma restando la necessità della redazione dei capitolati d’appalto con previsione di clausole più stringenti per le imprese in ordine ai tempi di esecuzione e limitatrici della possibilità di avanzare ulteriori richieste economiche in corso di esecuzione (anche mediante una più attenta e vincolante costruzione del bando di gara). E a tal fine, andrebbe «rafforzata» e «implementata» la funzione rego-latoria e deflattiva dell’Autorità di vigilanza per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.

5.3. La prima fase dell’attività della struttura di mis-sione, così come sopra delineata, si deve concludere in un tempo massimo di 10 mesi, pena lo scioglimento della stessa commissione e la perdita del finanziamento dispo-sto dal Cipe, nonché «decurtazioni» stipendiali per il personale dirigenziale facente parte della struttura, per il quale il perseguimento della missione potrebbe essere im-posto come risultato, valutabile dagli organi di controllo interni.

5.4. Lo schema sopra delineato dovrebbe essere ap-plicato in relazione a ogni intervento, inserito nel citato elenco approvato dal Cipe, anche nel caso di opere rea-lizzate da soggetti privati e dovrebbe confluire in una normativa di carattere generale e di principi, vincolante anche per la legislazione regionale.

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1. Introduzione

La messa in cantiere di grandi opere e infrastrutture è, in Italia ma non solo, un’operazione complessa. Qui, però, il decentramento politico ha aumentato nel tempo il numero dei regolatori e delle constituency di cui i pro-getti devono tenere conto. Inoltre, un deciso e compren-sibile principio prudenziale e prescrizioni europee, hanno distribuito poteri autorizzativi a un numero rilevante di attori posti a diversi livelli di governo. Via contenzioso e veto, questo pluralismo istituzionale si manifesta abitual-mente nelle fasi «post-legislative» della regulation, dove le regole del gioco vengono continuamente trasformate.

L’effetto complessivo è forse quello dell’intelligenza incrementale della democrazia, à la Lindblom, ma certo anche di rallentamento, se non di blocco, degli interventi. Questo effetto preoccupa non soltanto in termini di «oc-casioni perdute», ma anche per la dimensione europea che le infrastrutture hanno da tempo e nella quale i ritardi di-ventano finanziamenti non trasferiti e calo di credibilità.

Il problema di riuscire a ottenere risultati in tempi più contenuti nasce dunque in primis per le opere concordate in sede europea di politica dei trasporti – soprattutto gli ormai famosi «corridoi» delle reti transeuropee (Ten), oggi in continua espansione; ma anche le linee metropolitane delle grandi città e, rapidamente, si estende ai progetti di rafforzamento delle reti energetiche e idriche.

Per risolverlo, la legge 443/2001 è intervenuta nel pluralismo istituzionale dei decisori delegando al Go-

2. QUESTIONI DI GOVERNANCE

Relazione del gruppo di ricerca diretto da A. Campi. Ricercatori: A. Damonte e L. Di Gregorio.

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verno il compito di elaborare, per alcune infrastrutture rilevanti, un regime autorizzativo temporaneo più snello. Così facendo, la legge «stralcia» una serie di opere dalla programmazione ordinaria degli interventi per lo sviluppo e le affida a una diversa governance. Questa architettura istituzionale si è rivelata però, nel tempo e con l’uso, meno semplificatrice del previsto. Non solo la legge e il successivo decreto attuativo 190/2002 sono stati letti come un tentativo di costruire una competenza esclusiva nazionale sulle infrastrutture, generando un numero signi-ficativo di ricorsi, dichiarati poi inammissibili o infondati dalla sentenza 303/2003 della Corte costituzionale. So-prattutto, le norme non hanno evitato che i ritardi si ri-presentassero, anche nella forma, particolarmente delicata e visibile, della mobilitazione e del conflitto locale.

Le resistenze dei territori si spiegano facilmente, come reazione alla riduzione del loro peso decisionale delibe-rata in legge e ancor più per decreto. L’analisi delle at-tribuzioni del testo e le testimonianze di molti degli at-tori coinvolti negli interventi, rivelano però come questa marginalizzazione rappresenti solo un lato del disegno di governance cui le norme, con l’intenzione dell’effi-cienza, hanno affidato il processo. La successiva revisione della regulation non ha peraltro modificato la distribu-zione dei poteri e delle capacità e quindi le ragioni del conflitto. Paradossalmente, ciò che è mutata nel tempo è invece l’attenzione da parte delle società incaricate della messa in opera verso il consenso del territorio come con-dizione chiave di «legittimità pratica» e viabilità dell’in-frastruttura. Oggi è infatti da loro che spesso proviene la domanda di strumenti per l’e-democracy e loro è il tema della scarsa legittimità delle infrastrutture promosse attra-verso la Legge obiettivo.

Questo contributo si propone di analizzare la posi-zione degli Enti locali, inserirle nel disegno istituzionale definito dalla Legge obiettivo e dai decreti attuativi per le scelte infrastrutturali e di avanzare sulla base di questa analisi alcune proposte, con l’intento di aumentare la via-bilità di questi interventi di policy senza costose revisioni.

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2. La marginalizzazione degli interessi locali

La Legge obiettivo impone per disegno una significa-tiva riduzione delle capacità di azione strategica di enti e soggetti sub-regionali in tre modi.

Primo, il testo costruisce una speciale categoria di opere, definite «di preminente interesse nazionale», alle quali prevede si applichino procedure riformate di valuta-zione di impatto ambientale, autorizzazione integrata am-bientale, concessione, aggiudicazione e realizzazione dei lavori pubblici; e delega al governo il compito di definire queste nuove procedure via decreto. Le nuove procedure impattano quindi negativamente sulla discrezionalità dei soggetti locali che «ordinariamente» utilizzano il potere di autorizzazione e valutazione come diritto di veto, anche per far pesare le proprie ragioni – più o meno legittime – sul disegno o la ratio dell’opera.

Secondo, la legge predispone anche una modifica delle conferenze dei servizi in modo che, in quella sede, «tutte le amministrazioni competenti a rilasciare permessi e autorizzazioni comunque denominate» siano autorizzate a prendere visione del progetto preliminare, ma per pro-porre «prescrizioni e varianti migliorative che non modi-ficano la localizzazione e le caratteristiche essenziali delle opere» (comma 2, d; corsivo aggiunto). Queste «varianti migliorative» si configurano dunque come aggiustamenti a margine di un intervento già determinato; peraltro, ven-gono inserite nel progetto definitivo non in modo auto-matico, ma a seguito di decisione del Comitato intermi-nisteriale per la programmazione economica «integrato dai presidenti delle regioni interessate» (comma 2, c). Il decreto 190/2002 aggiungerà peraltro alla procedura un nuovo progetto, quello «esecutivo», in cui il soggetto in-caricato della messa in opera può rifiutare di incorporare le varianti non legate alla localizzazione e che compor-tano un incremento dei costi. Lo stesso decreto imporrà agli Enti locali, una volta chiusa la progettazione, sempli-cemente di «provvedere all’adeguamento degli elaborati urbanistici» (capo I, art. 4, comma 5).

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Un simile top-down si giustificherebbe entro un pro-cesso decisionale in cui le ragioni di resistenza siano già state affrontate, così che l’implementazione sia davvero la mera traduzione operativa di un solido consenso. Ma, ri-spetto alla parte di «fase ascendente» che include gli Enti locali, la legge richiede invece che il progetto preliminare sia solo corredato di «quanto necessario per la localiz-zazione dell’opera d’intesa con la regione o la provincia autonoma competente che, a tal fine, provvede a sentire preventivamente i comuni interessati» (comma 2, b). Il decreto 190 irrigidirà ulteriormente il coinvolgimento lo-cale su entrambi i fronti, decidendo che alla conferenza dei servizi vada sottoposto solo il progetto definitivo e ri-badendo il carattere non vincolante del parere che i co-muni presentano ai governi regionali. È qui il terzo ele-mento di compressione delle dinamiche multilivello.

A norma di legge, il territorio si confronta dunque con un’opera già definita e non modificabile nei suoi tratti portanti, ma che può trasformarlo in modo signifi-cativo. La posta più ampia giocata a questo livello è la compensazione per i costi di localizzazione che dà forma all’intero eventuale conflitto, e di conseguenza converte ogni espressione di resistenza in una sindrome Nimby (Not In My Backyard).

Nel disegno della Legge obiettivo, e ancor più nel de-creto attuativo del 2002, le possibili ragioni e opposizioni del territorio vengono dunque depotenziate, sulla carta, a favore di un peso maggiore dei governi regionali. Un secondo sguardo al cuore del disegno istituzionale rivela come il rapporto tra governi regionali e nazionale in tema di opere strategiche sia molto più articolato.

3. Il cuore nazionale della governance

L’inclusione dei presidenti di regione nel gruppo ri-stretto di decisori centrali sembra dunque ridefinire le coalizioni nei giochi tra centro e periferia e spostare la cesura rilevante verso il basso, fra governi regionali e ter-

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ritorio. In realtà, la storia della regulation successiva alla legge e dei conflitti sorti attorno a essa, rivela come go-verno centrale e governi regionali mantengano nel pro-cesso regolativo priorità distinte, difficilmente integrate; mentre la delega a migliorare l’efficienza del processo concentra nel governo nazionale le risorse necessarie ad avviare l’attuazione e nei partner privati le risorse ne-cessarie a definire e costruire l’opera. La conseguenza è quella di un disegno istituzionale che genera:

1) la dipendenza dell’esecutivo nazionale dagli stake-holders privati, in ragione dell’asimmetria di competenze e informazione, e

2) la subordinazione delle preferenze regionali a quel le dell’esecutivo nazionale, attraverso potere di veto sull’at-tuazione.

3.1. Dalla logica di programma a quella di mercato

Si è già ricordato come la legge deleghi al governo il compito di identificare infrastrutture e insediamenti produttivi «strategici e di rilevante interesse nazionale», per i quali si giustifichi lo stralcio. Questo status viene riconosciuto alle opere attraverso un atto formale – l’in-serimento in un programma – che segue all’iniziativa o dei ministri competenti «sentite le regioni interessate», o delle Regioni «sentiti i ministri competenti», e comunque «sentita la Conferenza unificata» (comma 1). Il primum movens è dunque un accordo, di massima e distributivo, su una «lista della spesa» in cui le preferenze del governo nazionale possono, ma non necessariamente debbono, in-tegrarsi con quelle dei governi regionali. Le due iniziative procedono parallele e parallele entrano nel Documento di programmazione economica e finanziaria, dove vengono esplicitate «le risorse necessarie, che integrano i finanzia-menti pubblici, comunitari e privati allo scopo disponi-bili» (comma 1). Nonostante i ristretti margini di bilancio nazionale, per la costruzione del «programma» la Legge obiettivo non prevede alcun criterio né di selezione, né

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di attribuzione di una priorità, anche solo cronologica. Lo stesso Programma infrastrutture strategiche del 2007 ribadisce come «nel momento in cui si è vicini al blocco reale della mobilità … è davvero gratuito parlare di scelte prioritarie» (p. 16). All’atto pratico, la copertura assegnata nel Dpef si rivela perciò un esercizio simbolico, che ha portato la Corte dei conti a ricusare alcune opere (Cipe, 30).

Il problema del ridotto finanziamento pubblico è co-munque presente in legge, che si propone di risolverlo attraverso la figura del general contractor. Distinto dal concessionario che poi gestirà l’opera e dal responsabile del progetto preliminare o «soggetto aggiudicatore», il contraente generale è un privato che si assume il rischio d’impresa, anticipando il finanziamento pubblico e repe-rendone altri, in cambio della «libertà nella realizzazione dell’infrastruttura» (art. 1, comma 2, f ). Questo istituto, che costituisce un incentivo alla concentrazione e al-l’emergere di «campioni nazionali» nelle infrastrutture, ha suscitato diverse preoccupazioni nella stessa Associazione Nazionale Costruttori, in ragione dell’implicita riserva di mercato. Il decreto 9/2005 provvederà poi a permettere l’accesso alla qualifica di general contractors anche a coo-perative e consorzi, distinguendo per classi dimensionali e abilitando ciascuna ad affidamenti di portata diversa, dunque, segmentando il mercato per livelli territoriali, in rapporto all’ambizione dell’infrastruttura da costruire. Ma è probabilmente per far fronte alla mancanza di imprese dotate di tutte le competenze e risorse richieste dalla legge nei diversi settori d’intervento che, nel decreto 190, le distinzioni tra aggiudicatore, contraente generale e con-cessionario si annacquano (art. 4 comma 3).

È nell’insieme di questi progettisti ed esecutori pri-vati che – per capacità tecniche, risorse finanziarie, pro-gettualità – risiede l’autentico fattore di spinta delle in-frastrutture. Più che dalla domanda proveniente dai go-verni, la strategia di infrastrutturazione finisce così per essere guidata dall’offerta. Con un’inversione significativa rispetto alla programmazione implicita nella Legge obiet-

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tivo, il decreto 190 prevede infatti che i soggetti aggiu-dicatori possano sollecitare la proposta di un promotore attraverso offerte pubblicate on-line e «acquistabili» entro quattro mesi (capo I, art. 8). Le infrastrutture diventano così ufficialmente una soluzione industriale alla ricerca di uno sponsor con un problema territoriale.

La sede, o meglio le molte sedi in cui le opere si agganciano alle questioni dello sviluppo, sono dunque esterne ai processi identificati dalla legge e ai suoi decreti attuativi e rientrano in questo spazio normativo solo come domanda e offerta.

3.2. L’esecutivo nazionale e i partner privati: poteri senza accountability

L’assenza di criteri selettivi, o di agganci espliciti a programmazioni già esistenti, genera dunque per le in-frastrutture la logica tipica degli scambi di mercato. In questo mercato esiste però un nucleo chiave, che agisce sul «brodo primordiale» delle agende di fornitori e con-sumatori di opere strategiche, facilitando o rallentando la concretizzazione dei loro scambi.

Questo nucleo è, in legge, dato dal rapporto fra Cipe e ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Per la Legge obiettivo, il primo valuta le proposte dei promo-tori, approva i progetti nelle diverse redazioni e vigila sulla loro esecuzione; il secondo cura le istruttorie, dà forma alle proposte e assicura il supporto necessario al-l’attività del Cipe. A questo proposito, il testo conferisce al ministero anche la possibilità di dotarsi «di un’appo-sita struttura tecnica» e «di advisor», nonché di «com-missari straordinari» (comma 2, c). Attraverso il decreto 190/2002, il ministero ordina e definisce queste compe-tenze squilibrando il rapporto a favore di se stesso. Attri-buendosi esplicitamente il compito di ricevere le propo-ste degli altri ministeri e delle Regioni, formulare il pro-gramma strategico, proporre le intese quadro per il coor-dinamento delle infrastrutture, proporre la redazione dei

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progetti preliminari, raccogliere i pareri e curare l’istrut-toria per il Cipe, il ministero si colloca nella posizione di gate-keeper rispetto a tutti gli altri decisori pubblici. È in questa concentrazione di competenze autoritative, soste-nuta dalla possibilità di acquisire competenze tecniche, che il ministero costruisce la sua autonomia decisionale, e sovraordinazione, sul Cipe come sulle agende regionali. Questa autonomia, peraltro, non viene bilanciata da parti-colari obblighi di trasparenza o accountability, anche per-ché, essendo la Legge obiettivo finalizzata all’efficienza di processo, l’unico criterio per stabilire se si sia fatto buon uso della delega diventa l’accorciamento dei tempi di ap-provazione dei progetti, indipendentemente dalla loro provenienza o dai risultati che ne conseguono.

I commissari straordinari, destinati a seguire l’anda-mento delle opere e – secondo i decreti attuativi – a pro-muovere eventuali intese istituzionali, diventano poi i re-sponsabili dell’attivazione delle gare per l’individuazione dei general contractor sulle proposte delle regioni. La nomina del commissario assurge così a passaggio chiave della procedura e costruisce di fatto un potere di veto da parte del ministero sulle proposte regionali, che non manca di generare conflitto. La crucialità della nomina diventa visibile nelle modifiche, apportate ancora una volta via decreto alla regulation nel 2005, che stabiliranno la possibilità di affiancare al commissario individuato dal ministero un sub-commissario nominato su proposta dei presidenti delle regioni coinvolte, sebbene con oneri a loro carico. È così nella fase di attuazione che il dualismo delle agende regionale e nazionale e la logica distributiva seguita dal programma strategico e dal Dpef, si confronta con la realtà di risorse comunque scarse e con il bisogno di assegnare priorità, che di fatto si realizzano attraverso veti più o meno estemporanei.

Sempre nel decreto 190, infine, anche le attività di sorveglianza destinate al Cipe dalla legge vengono svuo-tate in seguito all’assegnazione al soggetto aggiudicatore di compiti di «alta sorveglianza» sul contraente generale. L’accountability sulle realizzazioni, e la loro rispondenza a

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un qualche criterio di pubblica rilevanza, è quindi tutta risolta nella sfera dei privati. Soprattutto per carenza di competenze interne esperte e in assenza di priorità o di-mensioni sostanziali rispetto a cui valutare l’operato dei partner privati, Cipe e ministero dipendono di fatto dalle informazioni che vengono fornite loro dal soggetto aggiu-dicatore e prima ancora dal contraente generale.

D’altra parte, il tentativo di sviluppare strumenti alter-nativi di indirizzo utilizzando le informazioni sulla com-partecipazione alla spesa appare molto più complicato. Dal 2003, con l’intento di dare conto in modo puntuale delle difficoltà di implementazione soprattutto lungo la dimensione finanziaria e di incentivare con «premi di ri-sultato» i comportamenti virtuosi, è stata siglata un’in-tesa secondo la quale gli Accordi di Programma Quadro, entro cui prendono forma anche le agende regionali di infrastrutturazione, avrebbero dovuto essere monitorati da una rete di centri regionali, coordinati da un Comi-tato di gestione presso il Dipartimento di Sviluppo – al-l’epoca, del ministero dell’Economia e Finanze, oggi dello Sviluppo economico –. Nel progetto del Comitato di ge-stione, le regioni e le provincie autonome avrebbero do-vuto rafforzare e standardizzare le modalità di raccolta dei dati sui flussi degli investimenti non solo europei, ma anche nazionali e dei diversi livelli di governo. La strate-gia del Comitato, descritta nella relazione annuale 2006, è stata quella di identificare un modello ottimale di mo-nitoraggio, rispetto al quale misurare il gap delle diverse situazioni regionali ed elaborare una strategia di allinea-mento. L’action plan prevedeva dunque una rilevazione «oggettiva» dello stato dei monitoraggi regionali, che rendeva necessario il ricorso a una società esterna. A due anni di distanza, non solo il monitoraggio non era partito, ma neppure l’action plan si era ancora concluso, bloccato da un contenzioso sugli esiti della gara per individuare la società di rilevazione e da una sentenza che faticava a es-sere pronunciata.

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4. Sintesi e indicazioni

L’analisi della governance delle infrastrutture strategi-che restituisce così l’immagine di un sistema istituzionale frammentato e conflittuale, contrapposto a un sistema industriale dotato invece in alcuni suoi segmenti di una progettualità di ampio respiro. In un simile contesto, le regole pensate per favorire l’efficienza finiscono per far coincidere i progetti di sviluppo del paese con i progetti delle imprese incaricate dell’opera. Nulla di male in sé, se non che queste imprese per prime lamentano come la loro azione soffra, non a caso, di un forte deficit di legittimità.

La via d’uscita immediatamente praticabile e quindi modesta, si ritiene vada cercata in un diverso aggancio delle soluzioni prodotte dai privati alla dimensione pub-blica, un aggancio che, nello spirito della Legge obiet-tivo, non passi per nuove procedure amministrative, ma permetta egualmente una legittimazione dell’opera, resti-tuendo agli affected interests diritto di incidere sulla de-cisione. Questa modalità viene individuata nell’istituzione di una valutazione ex ante e argomentativa di progetti che abbiano già trovato sponsor istituzionali, e si basa su due elementi:

1) l’onere della prova di utilità, a carico del progetto e dei suoi proponenti pubblici e privati; e

2) la pubblicità e contestabilità del progetto stesso.1) Onere della prova. Utilizzando dati attendibili e

specificando i metodi usati, il progetto dovrebbe rendere espliciti e comparabili i costi e i benefici diretti e indiretti dell’opera e della rete che ne risulta, nonché dei rischi a essa associati entro un orizzonte temporale significativo, rispetto ai problemi di crescita e competitività, di valoriz-zazione del territorio e di diseguaglianza sociale. Per es-sere credibile, dovrebbe anche indicare tempi di realizza-zione e le modalità di copertura finanziaria e giustificare la necessità di spesa pubblica come il rapporto tra spesa pubblica e privata.

2) Pubblicità e contestabilità. Il progetto preliminare, corredato dalle informazioni sui suoi costi, benefici, rischi

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e copertura finanziaria, dovrebbe essere reso accessibile per via elettronica e per alcune settimane dai siti delle istituzioni promotrici, del ministero e dei privati coinvolti. Il sito del progetto dovrebbe contenere un applicativo che permetta di raccogliere on-line le obiezioni sollevate da soggetti pubblici e privati, da lasciare altrettanto visi-bili. Le obiezioni sollevate dovrebbero poi pubblicamente trovare una risposta nel progetto definitivo, attraverso un rifiuto argomentato, o indicando come i cambiamenti in-trodotti nel progetto risolvono le obiezioni. Il progetto definitivo dovrebbe essere pubblicato a sua volta on-line e, possibilmente, fornire la base del monitoraggio.

Tanto la costruzione della valutazione ex ante, quanto la fase di argomentazione, dovrebbero rappresentare un incentivo per progetti più ancorati tanto alle programma-zioni regionali già esistenti, quanto alle preoccupazioni del territorio, oltre a promuovere l’internalizzazione dei costi. La documentazione così prodotta potrebbe inoltre essere utilizzata per restituire al Cipe la centralità nella programmazione economica e nella valutazione delle in-frastrutture, supportandolo nelle decisioni allocative, che a quel punto diventerebbero possibili sulla base di un cri-terio di utilità. Perciò il Cipe dovrebbe essere dotato di una struttura tecnica, autonoma rispetto al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in grado di definire le linee guida e i criteri minimi della valutazione ex ante e di ve-rificare se il progetto definitivo risolve in modo convin-cente le obiezioni o è irricevibile e quindi non può essere cofinanziato. Il Cipe avrebbe inoltre l’obbligo di pubbli-care il progetto definitivo e la sua versione esecutiva. An-cora, il progetto così definito potrebbe essere l’oggetto di accordo vincolante tra i finanziatori.

La convinzione non è che questa innovazione possa risolvere i molti conflitti e giochi strategici che le infra-strutture generano inevitabilmente, o davvero dare ordine al pluralismo istituzionale. Piuttosto, si ritiene che essa possa migliorare la qualità dei progetti, restituire carattere pubblico all’opera dimostrandone e promuovendone la capacità di risolvere problemi rilevanti e aumentare l’ac-

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countability democratica dell’intervento e della spesa rela-tiva, tre elementi senza i quali qualunque efficienza perde di significato.

Il progetto così definito, quindi, non è garantito dai giochi «post-legislativi» che comunque si realizzano nel-l’implementazione. La raccomandazione al proposito non è però di comprimerli o di eliminarli, magari facendo se-guire la revisione argomentata del progetto da un impro-babile enforcement coercitivo. Nessun contratto o accordo può mai essere considerato perfetto e chiuso, soprattutto nel momento in cui gli obblighi prendono corpo in un arco significativo di tempo come nel caso dei progetti in-frastrutturali, quantomeno perché il contesto evolve e il contratto richiede un adattamento delle condizioni pat-tuite ai cambiamenti ambientali per mantenersi efficace. Inoltre, nonostante la segmentazione di fatto del mercato delle infrastrutture per livelli di governo (o «interessi pre-minenti») introdotta via decreto, i progetti infrastrutturali per loro natura coinvolgono inevitabilmente governi di-versi a tutti i livelli, sia per impatto territoriale che per connessione con progettualità e reti già presenti.

Di fronte a queste condizioni, non è possibile impu-tare ai giochi post-legislativi un carattere meramente ne-gativo, poiché essi permettono anche gli aggiustamenti necessari a mantenere la soluzione infrastrutturale efficace rispetto al problema originario e alle sue evoluzioni.

L’implementazione ha dunque bisogno di conservare una flessibilità regolativa. L’istituzione di una struttura amministrativa nodale, «di proprietà» dei diversi governi coinvolti e da questi incaricata del compito di adeguare in maniera trasparente i termini istituzionali del progetto esecutivo ai cambiamenti di contesto, senza perdere di vista gli obiettivi di policy, potrebbe completare il nuovo disegno di governance anche sulla «fase discendente» del progetto e rappresentare un partner e un contrappeso ef-ficace agli stakeholders privati.

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1. Quadro di contesto

Vi è largo accordo sul fatto che l’inadeguatezza della dotazione di infrastrutture e soprattutto il forte rallenta-mento del processo di adeguamento e modernizzazione di questa dotazione, sia uno dei fattori chiave alla base della scarsa performance dell’economia italiana negli ultimi quindici anni. Le statistiche internazionali pongono l’Ita-lia in posizioni poco lusinghiere, sia in termini di livello, sia di qualità della nostra dotazione infrastrutturale.

La quota di risorse pubbliche destinate alla spesa per investimenti infrastrutturali ha subito un declino a partire dai primi anni Novanta. Il calo ha colpito soprattutto il Mezzogiorno (la quota della spesa in conto capitale desti-nata al Sud è passata dal 41% nel 2001 al 36-37% del 2006). Esso, inoltre, non è stato compensato da un aumento degli investimenti del settore privato. Appare comunque con-fermato da tutte le analisi che il Mezzogiorno presenta un quadro sistemico segnato da livelli di efficienza nettamente inferiori rispetto al resto del paese e questo ha certamente causato la crescente incapacità di trasformare le risorse economiche ricevute in opere finite ed economicamente significative. In particolare, è stato posto in rilievo1 il netto vantaggio del Nord rispetto al Sud per quanto riguarda le infrastrutture core: rete autostradale, rete ferroviaria elet-trificata, reti di trasmissione elettrica e rete secondaria di trasporto del gas, reti di distribuzione dell’acqua.

3. DECISIONE ECONOMICO-FINANZIARIA PUBBLICA E SPESA PER INVESTIMENTI

IN GRANDI INFRASTRUTTURE

Relazione del gruppo di ricerca diretto da P. De Ioanna e P.C. Pa-doan. Ricercatori: N. Curci, S. Levstik, S. Nicoletti Altimari.

1 Istat, Le infrastrutture in Italia. Un’analisi provinciale della dota-zione e della funzionalità, Roma, Istat, 2006.

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A livello internazionale, la grave crisi economica sta aprendo una nuova stagione di intervento pubblico nel-l’economia. Nei piani di intervento approvati o annun-ciati dai governi dei maggiori paesi (Stati Uniti, Germa-nia, Francia e Inghilterra) gli investimenti in infrastrut-ture hanno un peso di rilievo. Rispetto ad altre misure di sostegno all’economia, le spese per investimenti, se ben indirizzate, presentano vantaggi sia in termini di im-patto di breve periodo, sia in termini di potenziamento delle prospettive di crescita e di competitività del paese nel medio e lungo termine. Come ricorda l’Ocse2, l’effica-cia delle spese per infrastrutture è accresciuta se avviene in un contesto regolatorio efficace. Inoltre l’esperienza dei paesi Ocse conferma che è determinante il grado di rapidità amministrativa e operativa, affinché gli investi-menti in infrastrutture abbiano un effetto durevole sulla crescita potenziale. In Italia, a parte il tentativo di velo-cizzare l’utilizzo di risorse già stanziate, non si rileva an-cora il cambio di marcia che sarebbe auspicabile. Chiara-mente le condizioni di finanza pubblica e, in particolare, l’elevato debito pubblico, sono fattori imprescindibili che limitano enormemente le possibilità di azione. Oltre a ciò, appare largamente condivisa nell’opinione pubblica e negli operatori economici del settore, una diffusa sfidu-cia nella capacità degli apparati pubblici di indirizzare in tempi ragionevoli e in maniera efficiente eventuali risorse aggiuntive. Tempi lunghi di realizzazione e costi sostan-zialmente maggiori che in altri paesi avanzati affliggono la realizzazione delle opere pubbliche in Italia, in particolare quelle di grandi dimensioni che richiedono l’integrazione e il governo di processi tecnico finanziari complessi.

2. Il valore aggiunto di questa riflessione

L’osservazione e l’esperienza degli ultimi quindici anni costituiscono il valore aggiunto di questa riflessione che

2 Oecd, Going for growth, Paris, Oecd, 2009.

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intende mettere a fuoco e fornire indicazioni per alcune criticità che appaiono nel panorama europeo come tipica-mente italiane.

Le economie contemporanee competono anche (e forse soprattutto) attraverso le politiche pubbliche; e le politiche pubbliche coincidono in larga misura con la loro strumentazione tecnico-organizzativa: ma questa stru-mentazione, alla prova dei fatti, esprime in sé un valore normativo, cognitivo, conformativo (dimostrativo) che trascende – spesso – le intenzioni incorporate negli stessi strumenti. Costituiscono strumenti delle politiche pubbli-che: le procedure; le fonti normative; gli organismi; gli specialismi necessari a farle operare, le prassi che danno corpo a queste politiche.

Nella competizione prevale il sistema più idoneo a gestire e controllare sistemi complessi. Ora, al fondo di questa riflessione, vi è la convinzione che l’anomalia ita-liana è più frutto di nodi e vincoli tecnico-organizzativi, espressione della maniera in cui i diversi strumenti si sono venuti intrecciando e hanno dispiegato in concreto i loro effetti, che di un disegno politico esplicito nei fini e nei mezzi; in altri termini, si tratterebbe di sciogliere un nodo tecnico-organizzativo (a monte anche culturale), più che politico. Naturalmente si è ben consapevoli che gli strumenti non sono neutrali e incorporano scelte di indi-rizzo e di valore politico; e tuttavia ci sembra che nella fase attuale della vita italiana prevalgano carenze e criti-cità di ordine tecnico-organizzativo e valga la pena con-centrarsi su queste.

La decisione allocativa sulle risorse (prelievo/spesa/in-debitamento) è la madre di tutte le politiche pubbliche. Ma la necessità di integrare, in modo trasparente, le regole europee con quelle interne – ovvero il Patto di stabilità con la strumentazione ex art. 81 Cost., la legge quadro sulla contabilità e i Regolamenti parlamentari – è il tema che dal 1988 permea, al fondo, il processo (troppo lento) di razionalizzazione della nostra democrazia parlamentare.

Le principali criticità si identificano, ad avviso di chi scrive, nella difficoltà a gestire le complessità:

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a) a integrare specialismi diversi (rispetto dei profili di legalità formale; esigenze di tipo organizzativo; analisi economica pubblica sul trattamento di alcune componenti macro e micro delle operazioni di finanziamento degli in-vestimenti; ecc.);

b) a realizzare nella tempistica programmata le inno-vazioni (di processo, nel Governo e nel Parlamento, e di prodotto: struttura e semplificazione dei documenti) ne-cessarie a rendere trasparente e performante il processo.

Il tempo spesso rende obsolete le soluzioni: pensiamo allo strumento dei progetti e programmi pensati già con l’art. 6 della l. 468 del 1978 o alle unità previsionali di bilancio (upb) introdotte nel 1997: solo nel 2008 le mis-sioni e i programmi sono stati introdotti per la prima volta nella struttura del bilancio dello Stato; prendiamo il caso del Siope (Sistema informativo sulle operazioni de-gli enti pubblici): dopo oltre dieci anni di preparazione questo sistema di rilevazione telematica degli incassi e dei pagamenti sta diventando, finalmente, operativo.

È un problema – a nostro avviso – non solo e non tanto della politica; è un nodo che ha a che fare con le strutture culturali profonde dei nostri gruppi dirigenti. Le innovazioni vengono sistematicamente piegate a una lo-gica di mera legalità formale, di mero procedimento, che le rende controfattuali rispetto agli obiettivi iniziali. Così, se riflettiamo sulla recente applicazione dello strumento dei «programmi», introdotti nel bilancio dello Stato nel 2008, ci rendiamo conto che sono stati utilizzati come leva per dissimulare politiche restrittive, di marca conta-bile, ma erano stati pensati come una linea di innovazione progettuale, gestionale e di controllo della spesa.

Al cuore di tutto c’è il tema, cruciale nelle democra-zie contemporanee, della visibilità e, ancora, della moni-torabilità delle tecniche di governo e quindi del rapporto tra scelta politica e sua traduzione tecnica; ma le tecniche di governo hanno molto a che fare con la strumentazione delle politiche pubbliche e con il loro modo di operare.

Il cammino da fare è lungo e l’osservazione del passato non rende particolarmente ottimisti. Eppure è un tema ti-

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picamente istituzionale e bipartisan che attende risposte, non illusoriamente risolutive, ma almeno pragmaticamente orientate. È vero, c’è una certa confusione nelle nostre isti-tuzioni, a partire dalla decisione di bilancio, nella defini-zione del confine tra politica e tecnica: la politica non rende esplicite le sue vere priorità e spesso è prigioniera di una cattiva tecnica; la tecnica spesso è opaca, perché opera in un contesto di sistema che non premia la trasparenza e l’inno-vazione. Da dove e come rompere questo gioco di specchi? Gli strumenti per la programmazione, decisione, gestione e monitoraggio delle politiche di infrastrutturazione del paese potrebbero rappresentare un contesto stimolante da cui ri-partire per provare a superare queste criticità generali.

3. Criticità generali del settore

La Legge obiettivo, varata nel 2001 con l’intento di creare un canale privilegiato per il finanziamento e la rea-lizzazione delle grandi opere a rilevanza strategica, ha in parte mancato il suo scopo anche se partiva da una dia-gnosi corretta delle criticità. Nel 2007 solo circa il 7% delle opere previste risultava completata (8 opere per un valore complessivo appena superiore ai due miliardi di euro). Tempi e costi appaiono spesso dilatati rispetto a opere non incluse nel piano di intervento straordinario.

Il processo decisionale degli investimenti pubblici, in generale e in particolare per le opere comprese nella Legge obiettivo, appare soffrire di importanti criticità che affliggono tutte le sue fasi: valutazione (ex ante, in itenere ed ex post), selezione, esecuzione e monitoraggio.

a) Valutazione: spesso i progetti sono valutati in iso-lamento, non all’interno di un piano programmatico che permetta di stabilire precise priorità e in assenza di un’analisi dettagliata delle alternative progettuali o delle possibili politiche che possano incidere sulla domanda che l’investimento intende soddisfare. Mancano, in so-stanza, vere procedure di valutazione che garantiscano l’allocazione efficiente delle risorse tra i diversi impieghi.

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b) Selezione: in assenza di un processo organico di valutazione, le decisioni di investimento sono assunte abi-tualmente sulla base di accordi tra amministrazioni, piut-tosto che con il supporto di una valutazione economica. Manca quindi un chiaro ordine di priorità, fattore ovvia-mente cruciale in un contesto di scarsità di risorse quale quello italiano.

c) Esecuzione: appare in generale insufficiente il si-stema di incentivi/disincentivi che caratterizza il processo di realizzazione degli investimenti pubblici e carente l’ac-countability dei diversi livelli decisionali.

d) Monitoraggio: l’assenza di precise informazioni, in aggregato e sullo stato di attuazione dei singoli progetti, e quindi di statistiche consolidate e specifiche sulle di-verse categorie di opere (tempi, costi, requisiti di qualità), rende difficile elaborare chiari benchmarks di riferimento sulla base dei quali si possano stabilire requisiti standard, determinare in maniera più precisa e stringente il sistema di incentivi e penalità e chiamare i diversi attori a rendere conto del proprio operato.

Le evidenze raccolte convergono nella conclusione che al centro delle criticità rilevate nel nostro sistema paese si colloca uno specifico problema organizzativo: di strumen-tazione del coordinamento e di chiara imputazione delle responsabilità.

Il luogo istituzionale dove queste due linee, del coor-dinamento e dell’imputazione delle responsabilità, dovreb-bero pervenire a un punto di sintesi è costituito dal Cipe.

Le riforme intervenute negli ultimi dieci anni hanno cercato di rafforzare la fase istruttoria e l’integrazione delle diverse linee di competenze istituzionali, chiamate in gioco nella realizzazione delle opere infrastrutturali di rilievo na-zionale. Tuttavia, non possiamo che constatare che i risultati non hanno modificato in modo significativo la situazione.

Occorre dunque, ad avviso di chi scrive, affrontare in modo specifico questo nodo organizzativo, secondo un’ottica che riconduca all’interno di schemi di ordinaria amministrazione le migliori esperienze fatte in questi anni con strumenti straordinari.

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La via sembra essere quella di una rivisitazione orga-nizzativa dei supporti di cui si avvale il Cipe: si tratta di realizzare – rafforzando la collocazione di questo orga-nismo presso la presidenza del Consiglio – un centro di coordinamento e di «decisione istruttoria» che sciolga e integri le diverse linee di competenze statali. Occorrono, in altre parole:

a) un forte rafforzamento della componente tecnica in tutte le fasi istruttorie;

b) una stretta integrazione della progettazione tecnica e della progettazione – attuazione del quadro finanziario;

c) una unificazione delle convenzioni contabili utiliz-zate in tutte le fasi della progettazione – gestione – attua-zione delle opere;

d) una revisione della disciplina contabile e gestionale per le spese di investimento;

e) un innesto di questi schemi nella documentazione a supporto dell’indirizzo (Dpef) e a supporto della deci-sone di bilancio (programmi);

f ) una revisione degli schemi di imputazione della re-sponsabilità dei dirigenti e della misurazione dei risultati conseguiti.

Lo scopo di questa proposta è quello di rafforzare, approfondire e stabilizzare la fase di integrazione delle diverse linee istruttorie (ministero delle Infrastrutture, mi-nistero dell’Economia-Rgs, ministero dell’Ambiente) che preparino e supportino la decisione politica, lasciando al Cipe la scelta delle sole, ristrette, autentiche opzioni politiche. Non si tratta quindi di mescolare in un’unica sede, istruttoria e scelta politica, ma di rafforzare la fase dell’istruttoria tecnica, restringendo al massimo l’area delle opzioni; una buona politica rafforza e stabilizza la programmazione finanziaria, la integra con la scelta dei progetti strategici e la mette al riparo, per quanto possibile, da cambi radicali di indirizzo politico. E ciò sot-tolinea l’importanza cruciale dell’effettiva partecipazione al processo decisionale di tutte le soggettività, politiche, istituzionali e sociali coinvolte nella fase di scelta dei progetti.

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Sciogliere i nodi strutturali (tecnico-organizzativi) degli strumenti delle politiche di investimento in opere strategiche non significa, ovviamente, stabilizzare l’oscilla-zione legata al succedersi delle maggioranze e degli indi-rizzi politici; significa, tuttavia, voler affrontare in modo deciso un problema che, ad avviso di chi scrive, assume nel nostro sistema economico un peso specifico cruciale, che appanna e appesantisce la fase della scelta politica.

Non vi è dubbio che le questioni tecniche e politi-che sono strettamente intrecciate, ma il problema italiano sembra essere quello della delega a una fase politica an-che di profili che dovrebbero trovare una soluzione ap-propriata in sede tecnica.

In questo senso, la copiosa normativa sui commissari straordinari succedutasi in questi anni andrebbe recuperata e ricondotta entro schemi ordinari. Il commissario deve es-sere espressione di una struttura di riferimento unica che guidi, coordini e monitori tutta la fase attuativa dei progetti.

4. Il nodo del finanziamento

Nel contesto di queste criticità gioca un ruolo spe-cifico il sistema di finanziamento delle opere pubbliche. Nell’esperienza di molti paesi la riforma del sistema di finanziamento è stato un fattore di svolta per giungere a un processo di spesa per investimenti (e – più in ge-nerale – per il complesso della spesa pubblica) idoneo a orientare il controllo e la gestione del bilancio pubblico al conseguimento dei risultati, piuttosto che al mero con-trollo contabile e finanziario. Non si tratta, ovviamente, di evocare risorse che non ci sono, ma di utilizzare in modo razionale ed efficiente quelle che ci sono. E, soprattutto, di evitare continui stop and go e rimodulazioni pluriennali nelle linee di alimentazione delle autorizzazioni di spesa sulla base di esigenze di controllo della dinamica dell’in-debitamento netto della P.A., opache e disomogenee.

Nel caso italiano, il sistema di finanziamento delle opere strategiche si presenta «incerto, frammentario e

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parziale, senza un disegno razionale di programmazione finanziaria e con seri problemi di sostenibilità»3. Certezza e stabilità del quadro finanziario, da un lato, e moltepli-cità delle fonti, dall’altro, sono elementi di particolare cri-ticità, che devono essere ricondotti a un ragionevole con-testo di trasparenza e controllo.

Tra i finanziamenti delle opere della Legge obiettivo fi-gurano, oltre ai fondi specificatamente destinati allo scopo (l. 166/2002 e successivi rifinanziamenti) e alle risorse del Fas, numerose altre poste esistenti sul bilancio dello Stato, stanziamenti a favore dell’Anas e Fs, finanziamenti Ue e finanziamenti di operatori privati. La copertura finanziaria delle opere approvate in sede Cipe è, tuttavia, parziale. A febbraio 2008, per quanto riguarda il piano nel periodo 2008-2012, escludendo gli interventi cofinanziati a vario ti-tolo dalla Ue, il costo complessivo delle opere strategiche era pari a 105 miliardi, le risorse disponibili circa 44 mi-liardi, e il fabbisogno di risorse da reperire pari a quasi 53 miliardi (cfr. tab. 12 allegata al rapporto della Commissione tecnica per la finanza pubblica). L’analisi di dettaglio delle fonti indica inoltre che esiste un’area «grigia» di risorse «da confermare» pari a circa 10 miliardi (cfr. tab. 11 allegata al rapporto della Commissione tecnica per la finanza pub-blica), di risorse censite ma non ancora confermate. Se la copertura finanziaria parziale delle opere è fenomeno che si riscontra in tutti i paesi avanzati, è chiaro che esso assume in Italia un’estensione allarmante. Inoltre, esempi anche re-centi (cfr. legge finanziaria per il 2006) hanno evidenziato come i fondi per l’attuazione di opere infrastrutturali di primaria importanza (ad esempio quelli destinati agli inve-stimenti di Fs e Anas) hanno subito pesanti tagli.

La coesistenza di più fonti di finanziamento rappre-senta ovviamente un elemento critico dal punto di vista gestionale. L’eccessivo numero di amministrazioni coin-volte, le interrelazioni esistenti tra i finanziamenti di

3 Ministero dell’Economia e delle Finanze, Commissione tecni-ca per la finanza pubblica, La missione della spesa pubblica. Rapporto 2008, Roma, 12 giugno 2008.

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programmi diversi possono generare effetti negativi dal punto di vista della responsabilità in merito all’attuazione dei progetti e della trasparenza.

I fondi sono gestiti da soggetti diversi e con moda-lità diverse: si crea quindi uno scollamento tra fase di ge-stione finanziaria e fasi di attivazione, realizzazione e con-trollo dei progetti. Si limita inoltre la possibilità di utiliz-zare flessibilmente i finanziamenti per le diverse opere in modo da impiegare le risorse efficientemente in base ai diversi stati effettivi di avanzamento delle opere.

Variabilità, incertezza e dispersione delle fonti di fi-nanziamento e diverse modalità di attivazione delle stesse, rendono quindi più difficile un disegno razionale di pro-grammazione e attuazione del programma di opere strate-giche. Possono inoltre disincentivare la partecipazione dei privati alla realizzazione delle opere, oltre che danneg-giare le sinergie con i fondi comunitari.

Appare quindi chiara la necessità di riportare a una concezione unitaria la gestione finanziaria delle risorse pubbliche destinate alle grandi opere, anche prendendo a esempio la strada già intrapresa da altri paesi (cfr. il rap-porto Ocse che considera il caso dell’Australia una best practice a livello internazionale). Una modifica del sistema di gestione finanziaria, per lo meno per quello che con-cerne il settore degli interventi infrastrutturali strategici in Italia, potrebbe essere adottata, utilizzando anche moda-lità già intraprese da altri paesi.

Gli elementi di analisi disponibili sembrano inoltre dimostrare che la stretta finanziaria avviata, per ragioni di equilibrio di bilancio, a partire dal 2005 e proseguita fino alla fine del 2006, è stata, poi, riproposta con la manovra 2009-2011; questa esigenza di controllo dei saldi, rilevanti ai fini del rispetto dei criteri di convergenza Ue, si scarica in modo rilevante e spesso indiscriminato sulla spesa in conto capitale gestita dal centro (Tav/Ac; Anas; ecc.).

In un certo senso è la conferma di ciò che si sapeva da sempre: l’effetto di restrizione sul bilancio frena subito la spesa di investimento e moltiplica l’effetto negativo sulla crescita. La c.d. programmazione finanziaria degli inve-

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stimenti (delibere Cipe, ecc.) viene travolta dall’annuale reimpostazione della manovra di bilancio e deve essere, di conseguenza, continuamente risistemata. Si tratta, per-tanto, di mettere a punto un meccanismo di scelta priorita-ria che consenta di far convergere sui progetti «essenziali» le risorse disponibili nelle fasi di stretta. Probabilmente il punto sta nel ricalibrare il meccanismo delle grandi opere che passano per la Legge obiettivo, circoscrivendo la scelta sulla base di poche, vere e certificate priorità, da tenere ferme per un periodo sufficientemente lungo.

Il trattamento giuridico contabile delle spese di in-vestimento dovrebbe essere oggetto di una radicale rivi-sitazione. Infatti, a prescindere dai problemi analitici e definitori che pone la stessa configurazione di una spesa che deve esser classificata e trattata come in conto inve-stimento, va svolto un discorso a sé per le spese (intese come erogazioni finanziarie a carico dei bilanci pubblici) che entrano a comporre gli schemi di finanziamento di infrastrutture fisse, la cui realizzazione copre un arco di anni pluriennale (a fecondità differita).

La priorità, oggi, è quella di realizzare strumenti che consentano di gestire, monitorare e controllare i flussi di cassa che vengono immessi dal bilancio pubblico negli schemi di finanziamento delle opere; una risposta a que-sta esigenza dovrebbe essere costituita dalla realizzazione, come prima accennato, di un unico centro di imputazione e di responsabilità tecnica, idoneo a superare le frammen-tazioni da più parti lamentate.

Si potrebbe riprendere l’idea di un unico centro cui af-fidare la gestione, il controllo e il monitoraggio di tutti gli schemi di finanziamento, comunitari e nazionali, relativi a un gruppo di progetti selezionati: questo centro dovrebbe essere intestatario di tutti i poteri necessari a gestire i flussi e a canalizzare sulle opere prioritarie le risorse necessarie a mantenere in tensione il quadro finanziario programmato, in linea con l’avanzamento dei lavori.

Non dovrebbe trattarsi di una nuova struttura, quanto piuttosto del potenziamento degli organismi che operano a supporto del Cipe presso la presidenza del Consiglio.

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Un’idea simile è già stata sperimentata presso l’allora mi-nistero del Bilancio, con scarso successo, a partire dal 1997, per i programmi comunitari dell’Obiettivo 2; ma il fallimento sembra in larga misura da addebitare alla scarsa volontà di spostare sul centro (si chiamava Cabina di regia) poteri che risultavano allora e sono ancora oggi intestati a una pluralità di altri organismi.

Il punto sta nell’imputare con chiarezza a questo centro, poteri e responsabilità che ora sono dispersi tra più filiere amministrative; o, comunque, di intestare al centro il potere di chiudere – comunque – la fase istruttoria con una deci-sione amministrativa che non demandi alla scelta politica questioni e profili di ordine tecnico che non si è stati capaci di definire in modo plausibile nel confronto-conflitto tra strutture burocratiche. Il rapporto tra queste strutture deve essere improntato a regole di trasparenza e controllabilità, soprattutto in ordine ai profili finanziari e contabili.

Le norme contabili, relative alla responsabilità dei dirigenti, alla misurazione dei risultati, al monitoraggio e alla rappresentazione delle autorizzazioni di spesa in bilancio (per programmi), dovrebbero tutte essere rivi-sitate, riordinate e ricollocate in un unico corpus dedi-cato al ciclo: finanziamento – progettazione – esecuzione – monitoraggio della realizzazione delle grandi opere in-frastrutturali; tutta la strumentazione di questo segmento cruciale delle politiche pubbliche dovrebbe essere rimessa a punto, resa trasparente e imputata a un unico centro fi-nale di responsabilità.

Ciò che è cruciale è la finanziabiltà per cassa del-l’opera nell’ambito dei vincoli europei (in particolare: in-debitamento netto della P.A.); ora questa verifica avviene sia a monte, al momento della verifica del vincolo di co-pertura, ai sensi dell’art. 81 Cost. (le c.d. compensazioni), che a valle, in sede di chiusura dei conti, ai fini del ri-spetto del Patto di stabilità.

Le convenzioni contabili che vengono utilizzate in questa fase (e, poi, nella loro proiezione sulla costruzione dei conti tendenziali della Pubblica amministrazione) sono molto opache. E questa opacità disorienta non solo

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i decisori politici ma soprattutto i soggetti (Anas; Ferro-vie Spa, Enti territoriali, ecc.) – pubblici e privati – che devono concorrere a realizzare le opere.

Il punto sta nell’organizzare una verifica ex ante, ai sensi dell’art. 81 Cost., coerente e non controproducente, rispetto al vincolo europeo. Doppiare il vincolo ex ante (sia sul saldo netto di competenza, che sull’indebitamento netto) significa doppiare le complicazioni previsionali ap-pesantendo inutilmente i conti.

Se è vero che l’adozione di una modalità di finanzia-mento rispetto a un’altra (limiti di impegno, contributi pluriennali, ecc.) non assume particolare rilievo dal punto di vista dell’indebitamento netto (nel senso che i contri-buti vengono attualizzati e la spesa ripartita dovrebbe es-sere iscritta per un ammontare pari all’effettivo tiraggio), non ha molto senso trattare in modo differente queste di-verse modalità dal punto di vista del saldo netto da finan-ziare e, quindi, della copertura, ai sensi dell’art. 81 Cost.

In altri termini, sembrerebbe necessario ottimizzare il trattamento delle forme e dei modi di finanziamento delle opere infrastrutturali, rendendoli subito coerenti col vin-colo ex post dell’indebitamento netto, che è poi il vincolo che viene utilizzato (o dovrebbe essere utilizzato) per co-struire il c.d. bilancio tendenziale.

In particolare, le stesse caratteristiche dei saldi sui quali si parametra il meccanismo di copertura ex ante (saldo netto di bilancio, fabbisogno del settore statale e indebita-mento netto), spesso rischiano di innescare duplicazioni in-congrue delle risorse evocate come copertura. Soprattutto per le spese di investimento è dunque necessario valutare con estrema cura la coerenza interna di tale modalità di compensazione – copertura che si snoda attraverso tre saldi di riferimento e spesso impone, ex post, rivisitazioni drasti-che delle autorizzazioni annuali per cercare di riprendere la rotta (fuori controllo) dei criteri di convergenza europei.

La questione è di un certo rilievo ai nostri fini: l’Anas, seppure organizzata in forma di Spa, fa parte del settore delle pubbliche amministrazioni; per le Ferrovie occorre valutare la natura delle singole operazioni di finanzia-

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mento per cifrare l’eventuale impatto sul conto della P.A. Ogni singola operazione di finanziamento presenta un va-lore diversificato di retroazione sul conto della P.A. che va analizzato in modo specifico; ma una tale situazione espone tutto ilquadro degli schemi finanziari a continui ripensamenti e rimaneggiamenti; essi emergono, in modo documentale, in sede di legge finanziaria, ma in realtà provocano già in corso di gestione rallentamenti e fermi dello stato di avanzamento delle opere.

Questa situazione di difficoltà a controllare gli ef-fetti sui saldi emerge anche dal recente decreto legge n. 185/2008 che all’art. 20, comma 6, stabilisce che le ordi-nanze dei commissari straordinari delegati «non possono comportare oneri privi di copertura finanziaria in viola-zione dell’art. 81 Cost. e determinare effetti peggiorativi sui saldi di finanza pubblica, in contrasto con gli obiettivi correlati con il Patto di stabilità dell’Unione europea».

Dunque i commissari dovrebbero disporre delle com-petenze per valutare tali complessi effetti sui saldi; è chiaro che essi chiederanno la consulenza degli uffici de-putati al rispetto del controllo sui saldi (leggi Rgs); e dun-que tutto il processo di attuazione delle opere si ritroverà esattamente con gli stessi nodi fin qui evidenziati.

Il fatto che il presidente del Consiglio, con proprio de-creto, individua i progetti prioritari, definendo il crono pro-gramma di attuazione e il quadro finanziario di riferimento, è un dato molto interessante; tuttavia, se non vi è una sede di gestione e controllo unica per seguire e monitorare la connessione tra crono programma e quadro finanziario, si rischia di riprodurre tutte le criticità fin qui rilevate.

Il punto è capire se la soluzione sta nella predisposi-zione di strutture emergenziali (i commissari straordinari), ovvero nella ridefinizione più nitida e compatta di un unico centro di responsabilità che riprenda, con gli op-portuni correttivi, l’idea della programmazione integrata: finanziaria e fisica; e questo centro è il Cipe, opportuna-mente supportato; in questo disegno i commissari si por-rebbero come i soggetti che seguono e attuano un dise-gno le cui priorità sono governate da un unico centro.

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Emerge in modo nitido che le esperienze migliori, a livello comparato, sono proprio quelle nelle quali la sta-bilità del quadro finanziario di riferimento è ragionevol-mente garantita nei documenti di bilancio dalla previa, accurata, ricostruzione dei tempi di realizzazione delle opere (c.d. cronoprogramma). Le opere prioritarie de-vono dunque caratterizzarsi per una forte integrazione tra analisi della tempistica di esecuzione e risorse messe a di-sposizione per cassa, anche attraverso operazioni di finan-ziamento sul mercato.

Vi deve quindi essere un documento (la sede naturale è il Dpef) dove lo schema di finanziamento dell’opera, lo stato dei lavori e la proiezione del rapporto tra risorse di-sponibili e tempi per la conclusione siano resi coerenti. Per il ristretto numero di opere dichiarate prioritarie que-sto contesto di programmazione finanziaria e fisica deve essere mantenuto sempre coerente e monitorabile.

Si potrebbe far coincidere la verifica ex ante della co-pertura delle infrastrutture con una previsione di cassa che proietti sul primo anno e sul triennio solo gli effetti delle operazioni di finanziamento già poste in essere e perfezionate e quelle che si prevede saranno chiuse nel corso del primo anno della nuova previsione; in questo caso si autorizza il netto ricavato dell’operazione che si prevede affluirà nelle casse dell’ente titolare dell’opera entro l’esercizio di riferimento e solo questa risorsa verrà rilevata anche ai fini della costruzione del bilancio trien-nale e del tendenziale.

La scheda di finanziamento dell’opera dovrebbe poi essere trattata con la stessa tecnica sia dall’amministra-zione che la propone, che dal centro di coordinamento che la istruisce e decide e dalle Camere, ai fini della co-pertura e del controllo successivo sull’attuazione dei pro-grammi. Questa impostazione, peraltro, appare coerente con i criteri del Sec 95.

L’istituendo centro di coordinamento dovrebbe essere l’organismo che canalizza e gestisce i flussi e consente di monitorare il volume effettivo dell’indebitamento netto (flusso) e del debito (stock) associabili a ogni schema di

176

finanziamento di ciascuna opera. La questione centrale re-sta quella di una programmazione finanziaria che segua in modo preciso la programmazione fisica dell’opera ed eviti dispersioni di risorse; dunque il nodo è quello di una programmazione integrata (stato di avanzamento delle opere e relativo quadro di finanziamento) che stringa su un quadro effettivo e ben selezionato di priorità, man-tenga fermo tale quadro e sia dotata di strumenti ido-nei a segnalare le effettive ragioni che impongono cambi nelle priorità; in questo caso il centro deve essere in con-dizione di attivare strumenti che ricollocano rapidamente le risorse spostandole dalle precedenti alle nuove priorità.

Questo quadro di programmazione integrata (fisica e finanziaria), costruito con tecniche e convenzioni da te-nere ferme in tutte le fasi del processo, dovrebbe essere parte sia dei documenti a corredo del piano infrastrutture che accompagna il Dpef, che del programma che entra a comporre l’annuale decisione di bilancio (bilancio di pre-visione e legge finanziaria). Il quantum di copertura ag-giuntiva che si ritiene di finanziare e coprire con la legge finanziaria dovrebbe corrispondere esattamente all’effet-tivo nuovo tiraggio che per cassa si prevede di realizzare sul mercato.

5. Linee di lavoro

– Riunire le diverse fonti di finanziamento in un Fondo unico per il finanziamento delle opere ad alta priorità strategica.

– Blindare le risorse destinate a questo scopo per fa-vorire la programmazione di medio termine in un quadro di certezza.

– Affidare il controllo di questo fondo a un unico or-ganismo centrale che diventi il responsabile in toto della programmazione finanziaria delle opere a più alto con-tenuto strategico. È evidente che questo segmento della programmazione finanziaria deve mantenere uno stretto legame con la sede della formazione dell’indirizzo politico

177

e, precisamente, con il Consiglio dei ministri; quindi la scelta di collocare il Cipe presso la presidenza del Con-siglio appare molto corretta e va rafforzata; questo raffor-zamento dovrebbe essere realizzato proprio introducendo tra le strutture di supporto questo centro di responsabi-lità tecnico istruttoria; probabilmente, si tratta di operare attraverso un opportuno riesame delle competenze (e delle strutture) che già oggi supportano l’azione del Cipe, riorganizzando e integrando le risorse e le competenze funzionali oggi in essere.

Tale organismo dovrebbe avere il controllo completo dell’attivazione di cassa delle risorse del Fondo unico e la possibilità di riallocare i fondi tra i diversi progetti in base allo stato di effettivo tiraggio.

I compiti di tale organismo comprenderebbero: – la selezione di un numero ridotto di opere ad alta

priorità (un sottoinsieme di quelle ora previste dalla Legge obiettivo) e di interesse nazionale sulla base del quadro delineato nei principali documenti di programma-zione; Qsn – Piano nazionale dei Trasporti ecc.

La selezione corredata da dettagliata valutazione dei costi e benefici economico-sociali e dall’analisi delle al-ternative possibili dovrebbe essere sottoposta all’approva-zione del Consiglio dei ministri e trasmessa alle Camere con il Dpef;

– l’elaborazione del piano finanziario, la gestione finan-ziaria dei progetti approvati e la determinazione del sistema di incentivi e penalità sulla base di standard o bench marks basati sul confronto storico e internazionale;

– la formulazione degli standard e delle convenzioni contabili con cui vanno trattate le operazioni finanziarie;

– la predisposizione di un sistema di monitoraggio e di informazione sullo stato di avanzamento dei lavori.

178

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180

Appendice

FIG. 1. Spesa in conto capitale e investimenti fissi lordi della Pubblica ammini-strazione (in percentuale del Pil).

Fonte: Istat.

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TAB. 1. Graduatoria dei paesi europei per dotazione fisica di strade e ferrovie

Strade/Pil Ferrovie/Pil Strade/sup. Ferrovie/sup.

Belgio 5 6 1 1Danimarca 7 11 3 8Germania 15 8 11 3Grecia 9 13 13 13Spagna 11 7 12 10Francia 2 4 5 7Irlanda 1 – 6 –Italia 13 10 9 6Lussemburgo 14 5 8 2Olanda 10 12 2 4Austria 6 3 7 5Portogallo 4 9 10 11Finlandia 3 2 14 12Svezia 8 1 15 9Inghilterra 12 – 4 –

Fonte: Centro Studi Confindustria, 2003.

TAB. 2. Fabbisogno di infrastrutture in Italia (Italia = 100)

Abruzzo 100,4 Molise 96,0Basilicata 71,6 Piemonte 76,3Calabria 80,1 Puglia 168,3Campania 171,1 Sardegna 116,4Emilia-Romagna 87,4 Sicilia 220,0Friuli-Venezia Giulia 87,8 Toscana 83,4Lazio 142,5 Trentino Alto-Adige 68,9Liguria 98,5 Umbria 87,4Lombardia 110,9 Valle d’Aosta 88,0Marche 84,1 Veneto 112,9

Italia 100,0

Nord 91,8Centro 101,7Sud 133,7

Fonte: Banca Intesa-San Paolo, Reti infrastrutturali e territorio: stato dell’arte e strumenti attivabili, 2008.

185

TAB. 3. Qualità delle infrastrutture: indice di competitività del World Economic Forum

Indicatore Posizione in graduatoria dell’Italia (su 134 paesi)

Qualità delle infrastrutture in generale 73Qualità delle strade 55Qualità delle infrastrutture ferroviarie 52Qualità delle infrastrutture portuali 95Qualità delle infrastrutture aeroportuali 78Qualità del sistema di fornitura dell’elettricità 48Qualità delle linee telefoniche 20

Indice di competitività globale dell’Italia a 49

a Basato su 12 aree di valutazione.

Fonte: World Economic Forum, The Global Competitiveness Report 2008-2009.

TAB. 4. Legge obiettivo: quadro dei costi e dei finanziamenti per tipologia di in-terventi del Dpef infrastrutture 2008-2012 (milioni di euro)

Numerointerventi

Costo Risorse disponibili

Risorse da reperire

Opere ultimate 8 2.172 2.172 –

Opere in corso integralmente coperte

53 13.696 13.696 –

Opere in corso con copertura parziale

16 21.384 12.790 8.594

Opere da avviare entro il 2012

84 55.907 36.091 19.816

Opere da inserire nella Legge obiettivo

9 4.971 1.231 3.740

Totale 170 98.130 65.980 32.149

Opere prioritarie reti Ten

3 13.425 832 12.593

Programmazione Pon e Pnm «Reti e mobilità»

n.d. 6.680 6.680 –

Totale 173 118.235 73.492 44.742

Fonte: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

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TAB. 5. Stima delle fonti di finanziamento disponibili per il programma delle opere strategiche relative al periodo 2001-2010 (milioni di euro)

Fonti di finanziamento disponibili Investimenti attivabili

1.1. Fondo opere strategiche (Fos)a 16.3241.2. Interventi infrastrutturali (incluso opere strategiche) Legge

finanziaria 2006b 2.2371.3. Definanziamenti Fos – 4731.4. Utilizzi per interventi esterni al programma – 2.1401. Totale Fos al netto definanziamenti e interventi esterni al

programma 15.9482. Fondo aree sottoutilizzate (Fas) per opere strategiche 2.3503. Risorse per opere strategiche in d.l. 159/2007c 9704. Fondo centrale di garanzia per Autostrada Salerno-Reggio

Calabriad 6635. Progettazione e avvio opere Legge finanziaria 2008 42Totale risorse specificamente destinate al programma (A) 19.9736. Risorse finanziarie disponibili preesistenti al programma

censite con delibera 121/2001 11.8667. Altre risorse disponibili censite con delibera 130/2006 37.625Totale altre risorse disponibili stimate (B) 49.4918. Altre risorse pubbliche assegnate con delibere Cipe

(escluse risorse specificamente destinate al programmae 16.8359. Altre risorse (private) 12.268Totale altre risorse assegnate dal Cipe (C) 29.10310. Altre disponibilità da confermare 8.860Disponibilità da confermare (stima Cipe) (D) 8.860Disponibilità complessive (A) + (B) 69.464Disponibilità complessive (A) + (C) + (D) 57.936Disponibilità complessive (A) + (C) 49.076

a L’importo comprende le assegnazioni dirette per Pedemontana Lom barda e Metro M4 di Milano disposte nella Legge finanziaria 2007 a valere sul Fos (l. 296/2006, art. 1, c. 979).

b L. 266/2005, art. 1, c. 78, come quantificato nella delibera Cipe 75/2006, tabella 1 allegata. Si tratta di un contributo quindicennale di 200 milioni a de-correre dal 2007.

c Contributi assegnati dal d.l. 159/2007 per i sistemi metropolitani di Roma, Milano e Napoli, e per il Mose.

d Fondo centrale di garanzia che la Legge finanziaria 2007 ha destinato al lotto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria approvati dal Cipe. Le disponibi-lità del fondo ammontano a 663 milioni di crediti nei confronti dei concessio-nari autostradali.

e Dalle risorse pubbliche complessive sono stati sottratti: i fondi della l. 166/2002, il Fas per opere strategiche, 158,5 milioni assegnati dal Cipe a valere sui contributi della Legge finanziaria 2006 e 889 milioni assegnati dal Cipe e derivanti dal d.l. 159/2007.

Fonte: Commissione tecnica per la spesa pubblica, Rapporto 2008.

187

1. La questione generale della partecipazione ai processi decisionali pubblici

Un’analisi funzionale della partecipazione popolare ai processi decisionali pubblici, in astratto, può assumere la prospettiva dei cittadini o quella delle istituzioni. Nella prospettiva dei cittadini, la partecipazione è uno stru-mento di esercizio dei poteri sovrani riconosciuti dall’art. 1 della Costituzione e di realizzazione della personalità secondo il modello dell’art. 3, comma 2, Cost. Nella pro-spettiva delle istituzioni, è uno strumento di garanzia di legittimazione della decisione e di efficienza della mac-china pubblica, così come richiesto dall’art. 97 Cost.

È evidente che le due prospettive si intersecano e che in entrambi i casi la partecipazione ha una specifica co-pertura costituzionale. Non è meno evidente, però, che spesso la discussione pubblica (e talvolta anche quella teorica) sulla partecipazione è stata unidirezionale e che la partecipazione è stata sostenuta o avversata tenendo in considerazione solo una delle prestazioni funzionali ch’essa è in grado di rendere. Il convincimento ferma-mente condiviso dal gruppo di ricerca, invece, è che de-mocraticità ed efficienza della decisione pubblica siano strettamente interconnesse.

Questa connessione, nella prospettiva delle ammi-nistrazioni e dei gestori delle opere pubbliche è emersa con chiarezza proprio dalle audizioni, promosse da Ita-

4. PARTECIPAZIONE POPOLARE, PROGETTAZIONE ED ESECUZIONE

DI GRANDI INFRASTRUTTURE

Relazione del gruppo di ricerca diretto da M. Luciani. Ricercatori: P. Chirulli, M. Togna. La ricerca è frutto della elaborazione comune degli autori. Nondimeno, i paragrafi 1 e 7 sono riconducibili a M. Luciani; i paragrafi 2, 3 e 4 a P. Chirulli; i paragrafi 5 e 6 a M. Togna.

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liadecide, dei soggetti che in vario modo compartecipano alla realizzazione di grandi opere. Nella prospettiva dei cittadini, poi, può essere agevolmente ritrovata in molti documenti o interventi pubblici. Ricordiamo, per sempli-cità, solo i due seguenti: 1) una Indagine sugli operatori dell’Urp per individuare le aree di insoddisfazione del citta-dino curata nell’ottobre 2001 dal Dipartimento della Fun-zione pubblica già riportava che

è sentita anche l’esigenza di aumentare la partecipazione del cittadino alle decisioni della P.A. locale attraverso maggiori in-formazioni sui procedimenti amministrativi (26% dei consensi) e poter partecipare in maniera attiva alle attività degli organi di vertice attraverso gruppi di interesse, comitati di gestione, fo-rum telematici, ecc. (33% dei consensi);

2) la Premessa al documento Punti di accordo per la pro-gettazione della nuova linea e per le nuove politiche di trasporto per il territorio, licenziato il 28 giugno 2008 dall’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione, dato atto che

questa esperienza, nata per fronteggiare una emergenza, ha via via assunto i connotati di un possibile modello partecipativo ed elaborativo in grado di costruire ipotesi condivise su cui fondare un percorso progettuale ragionevolmente accettabile dai territori, nel rispetto degli obiettivi e dei vincoli nazionali e internazionali,

si conclude con il proposito

di prospettare al Governo l’opportunità di inserire nell’ordi-namento giuridico italiano procedure idonee a garantire per la realizzazione delle infrastrutture più rilevanti il confronto ex ante con le Comunità locali (e con le molteplici articolazioni della società), anziché ex post come è avvenuto nel caso della Torino-Lione,

mentre il Documento stesso si chiude con il richiamo alle

garanzie da fornire alle Comunità locali circa il rispetto degli impegni che verranno assunti a partire dai tempi di attuazione,

189

delle risorse messe a disposizione e dal coinvolgimento degli Enti locali e territoriali nel processo decisionale, nel controllo dell’attuazione e nel monitoraggio degli effetti, anche attraverso l’individuazione di un apposito organismo.

Questi rapidi riferimenti confermano quanto sia so-stanzialmente condivisa l’opinione che le modalità attuali di partecipazione ai processi decisionali siano un punto di debolezza dell’attuale assetto dei rapporti tra cittadino e Pubblica amministrazione, soprattutto nel profilo della legittimazione dell’azione dei pubblici poteri, laddove – al contrario – una partecipazione correttamente regolata po-trebbe costituire uno strumento importante di legittima-zione di deflazione del contenzioso (e, quindi, di mag-giore efficienza dell’azione pubblica).

Limitando l’attenzione al processo decisionale ammini-strativo (e lasciando quindi da canto il processo decisionale legislativo, che coinvolge la diversa tematica del legislative bargaining), si può dunque dire che il problema della de-cisione amministrativa non è soltanto quello della rapidità, ma anche quello della sua legittimazione: una decisione amministrativa, anche se assunta in tempi rapidi, non può essere realmente efficace se non è condivisa dai destinatari o almeno legittimata da un consenso «procedurale» sulle modalità seguite per la sua adozione. È chiaro che senza un’adeguata legittimazione l’attuazione di qualunque deci-sione diventa molto difficoltosa, vuoi per la possibile resi-stenza passiva degli apparati e degli interessati, vuoi per il maggior rischio di un contenzioso giudiziario e di un travol-gimento in forza della specifica pronuncia di un giudice.

Quanto ai modelli partecipativi, essi possono essere i più vari (e, ovviamente, sono possibili contaminazioni tra i vari modelli che ora si elencano, come avviene, ad esempio, nell’esperienza francese che poi si analizzerà più in dettaglio):

a) immissione degli interessi nel procedimento ammi-nistrativo secondo i canoni classici (tutto sommato perfe-zionati, non rivoluzionati, dalla l. n. 241 del 1990) della definizione degli interessi giuridicamente qualificati (in

190

quanto tali distinti da tutti gli altri, che restano non am-messi) e dell’arricchimento della fase dell’istruttoria am-ministrativa;

b) consultazione di soggetti organizzati o di istituzioni locali. Anche questo è un modello classico che, sulla base dell’implicito presupposto che quei soggetti e quelle isti-tuzioni siano rappresentativi degli assetti di preferenze di larghi strati di popolazione, semplifica il procedimento escludendo la consultazione diretta dei cittadini;

c) referendum o iniziativa popolare. Il referendum, a sua volta, può essere decisorio o consultivo, mentre l’ini-ziativa popolare (in senso proprio, da non confondere con l’iniziativa delle leggi prevista dall’art. 70 Cost.) può es-sere diretta o indiretta (a seconda che il pronunciamento popolare consegua automaticamente all’iniziativa, o inter-venga solo nel caso in cui le autorità normalmente com-petenti all’adozione della misura non abbiano provveduto conformemente alla volontà dei promotori popolari);

d ) sondaggio deliberativo. È il modello notoriamente proposto da James Fishkin e Bruce Ackermann, che, ri-voluzionando le tecniche di sondaggio pionieristicamente elaborate da Gallup (anzi: ribaltandone la logica), prevede l’identificazione (in genere con un sorteggio) di un gruppo piuttosto numeroso (alcune centinaia) di cittadini che, a fronte della corresponsione di un gettone di presenza, si impegnano, per due o tre giorni, a discutere di una certa politica pubblica. All’esito della discussione non è previ-sta una decisione, ma solo la registrazione delle varie opi-nioni, che – è questo l’assunto principale della dottrina – dovrebbero frequentemente mutare rispetto alle posizioni di partenza proprio grazie al reciproco confronto e allo scambio di informazioni e di argomentazioni;

e) giurie civiche e conferenze di cittadini. Anche que-ste hanno funzioni consultive, ma sono composte da un numero molto ridotto di cittadini, selezionati non per sorteggio, ma in ragione della loro rappresentatività. Le conferenze di cittadini, secondo la ricostruzione della dottrina, hanno la particolarità di essere chiamate a occu-parsi di questioni squisitamente tecniche.

191

Tutti questi modelli presentano aspetti di interesse, così come nessuno sfugge a obiezioni. Si vedrà più avanti in base a quali criteri si dovrebbe optare per l’uno o per l’altro, ma prima è necessario esaminare alcuni importanti dati normativi, anche in chiave comparata.

2. La Convenzione di Aarhus

A livello internazionale è di particolare interesse la «Convenzione sull’accesso all’informazione, sulla parteci-pazione del pubblico al processo decisionale e sull’accesso alla giustizia in materia ambientale», fatta a Aarhus il 25 giugno 1998, la quale afferma nel preambolo, tra l’altro,

che al fine di esercitare i propri diritti e di adempiere ai pro-pri doveri, i cittadini devono avere accesso all’informazione, essere abilitati a partecipare al processo decisionale […]; che, in materia di ambiente, un miglior accesso all’informazione e la partecipazione maggiore del pubblico al processo decisionale possono migliorare la qualità e l’applicazione delle decisioni, contribuire alla diffusione della consapevolezza dei cittadini riguardo le tematiche ambientali, fornire all’opinione pubblica l’opportunità di esprimere le proprie preoccupazioni e consen-tire alle autorità pubbliche di tenerle in debito conto […]1;

e già all’art. 1 sancisce che

Al fine di contribuire a tutelare il diritto di ciascuno, nelle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente adatto a garantire la salute e il benessere di ciascuno, ogni Parte garan-tisce i diritti […] di partecipazione del pubblico al processo decisionale […].

La Convenzione, poi, dà una definizione abbastanza ampia sia di «autorità pubblica», sia di «pubblico», com-

1 Il testo della Convenzione è tratto dalla versione non ufficiale a cura del Servizio per lo sviluppo sostenibile presso il ministero del-l’Ambiente, scaricabile dal sito dello stesso ministero www.minambien-te.it; le versioni ufficiali, in inglese, francese e russo, sono disponibili sul sito www.unece.org.

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prendendovi non solo le organizzazioni (che in qualche modo si occupano di tutela ambientale), ma anche i sin-goli cittadini.

La Convenzione si fonda su tre pilastri: 1) garantire ai cittadini l’accesso alle informazioni ambientali; 2) favorire la partecipazione dei cittadini alle attività decisionali che possano avere effetti sull’ambiente; 3) estendere le condi-zioni per l’accesso alla giustizia.

Si sofferma diffusamente sulla partecipazione a sin-gole decisioni l’art. 6, avente come rubrica «partecipa-zione del pubblico alle decisioni relative ad attività spe-cifiche», mentre gli artt. 7 e 8 riguardano rispettivamente la partecipazione del pubblico «all’elaborazione dei piani e dei programmi relativi all’ambiente» e «durante la fase di elaborazione da parte delle autorità pubbliche delle di-sposizioni regolamentari e di altre norme giuridicamente vincolanti di applicazione generale».

I paragrafi 2 e 3 del cit. art. 6 riguardano il sistema di informazione, che deve essere «adeguato, efficace e a tempo debito», e la richiesta di «termini ragionevoli» per consentire al pubblico di informarsi e poter partecipare adeguatamente alle decisioni.

Particolarmente interessanti appaiono alcuni paragrafi successivi: il 4, dove si stabilisce che

Ogni Parte prende delle disposizioni affinché la parteci-pazione del pubblico cominci dall’inizio della procedura, ossia quando tutte le opzioni e le soluzioni sono ancora possibili e quando il pubblico può esercitare una vera e propria influenza;

il 7, nel quale si afferma che

La procedura di partecipazione del pubblico prevede la possibilità per quest’ultimo di sottoporre per iscritto o, secondo quanto conviene, in occasione di un’udienza o di un’inchiesta pubblica che implichi l’intervento del richiedente, tutte le os-servazioni, le informazioni, le analisi o le opinioni che ritiene pertinenti in merito all’attività proposta;

infine il paragrafo 8, dove si legge che «Ogni Parte con-trolla affinché, al momento di prendere la decisione, i

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risultati della procedura di partecipazione del pubblico siano dovutamente presi in considerazione».

Le «attività specifiche» cui fa riferimento l’art. 6 sono descritte dettagliatamente nell’Allegato 1: vi sono inserite sostanzialmente tutte le grandi opere (ferrovie di lunga di-stanza, autostrade e strade con più di quattro corsie, porti e aeroporti di una certa dimensione, centrali termiche e nucleari, impianti di «gassificazione» e liquefazione, raf-finerie di petrolio e gas, discariche e termovalorizzatori, impianti per la produzione di ghisa e acciaio, impianti chi-mici variamente classificati, ecc.). Si può quindi affermare che la Convenzione ha un ambito applicativo assai più am-pio di quello che pare emergere dal suo titolo, toccando addirittura tutte le esigenze di vita delle generazioni pre-senti e anche di quelle future, cui fa esplicito riferimento l’art. 1. Ciò del resto, accade fatalmente a causa della na-tura «trasversale» della materia ambientale, che, come ha chiarito la nostra Corte costituzionale sin dalle sentt. nn. 407 e 536 del 2002 e ancor più nettamente dalla sent. n. 303 del 2003, si interseca con una vastissima molteplicità di singoli ambiti materiali (dal governo del territorio alla salute, dai trasporti all’energia, ecc.).

2.1. Esecuzione in Italia della Convenzione di Aarhus

La Convenzione di Aarhus è stata ratificata in Ita-lia (senza riserve) in forza della legge 16 marzo 2001, n. 108, ma non sembra che tutte le sue disposizioni abbiano avuto un concreto e proficuo svolgimento.

Lo dimostra lo stesso Rapporto nazionale sull’attuazione della Convenzione di Aarhus2, predisposto dal ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e presentato alla Conferenza delle Parti, svoltasi in Kazakhstan nel maggio 2005. In tale rapporto si legge, in riferimento alla partecipa-zione, che «Il più rilevante campo di applicazione dell’art. 6 (par. 2-6) è rappresentato dalla procedura di valutazione

2 Il rapporto può essere letto sul sito www.minambiente.it.

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di impatto ambientale, regolata a livello nazionale e regio-nale». Il relativo procedimento è così descritto:

La legislazione in materia di Via prevede che il pubblico sia informato nello stadio iniziale della procedura. Il propo-nente dell’attività soggetta a Via deve quindi informare le auto-rità pubbliche e il pubblico allo stesso tempo. Un avviso, ripor-tante le informazioni generali sull’attività proposta e indicante in quale luogo e per quanto tempo la documentazione sarà di-sponibile, come pure le informazioni pratiche riguardo la par-tecipazione del pubblico, devono essere pubblicati a cura del proponente sia in una testata nazionale sia in una testata locale

aggiungendo in riferimento ai «termini per inviare com-menti» che

la norma prevede un tempo limite di 30 giorni dal giorno che la documentazione è resa disponibile, ma questo termine è in-terpretato in maniera flessibile, cosicché commenti ricevuti dopo la scadenza sono pure tenuti in considerazione

e, in riferimento ai soggetti che possono partecipare, che

qualsiasi persona [può] presentare dei commenti. I commenti devono essere inviati per iscritto alle autorità competenti indi-cate nel bando pubblicato sui quotidiani. Nel caso di impianti per la produzione di energia elettrica sono organizzate anche audizioni pubbliche.

A completare il quadro delle misure considerate ido-nee a ottemperare a quanto previsto dalla Convenzione viene citata genericamente la l. n. 241 del 1990. Anche in relazione all’adeguamento all’art. 7 della Convenzione (partecipazione a piani, programmi, politiche), si fa rife-rimento a progetti pilota regionali oppure genericamente agli istituti di partecipazione previsti dal t.u.e.l. (d.lgs. n. 267 del 2000) in ambito locale.

In realtà, lo stesso Rapporto, nella parte in cui non può fare a meno di segnalare le criticità dell’esecuzione della Convenzione, afferma chiaramente che

deve essere fatto notare che le modalità correnti per la consul-tazione pubblica nella procedura Via, consistenti in osservazioni

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inviate dal pubblico per iscritto, non permettono un dibattito effettivo tra gli attori interessati.

E centra perfettamente il punto. Non pare che, se non la lettera, quanto meno l’ispirazione profonda della Convenzione di Aarhus sia stata effettivamente recepita nella normativa italiana sulla partecipazione del pubblico alle decisioni amministrative. Oltre alla già rilevata as-senza di un autentico dibattito pubblico (che logicamente prevede la circolarità delle informazioni e il confronto tra i soggetti interessati), appaiono poco confacenti anche i ridottissimi tempi consentiti per l’invio dei commenti (30 giorni) e la mancata previsione dell’obbligo, sia da parte dei soggetti abilitati a rilasciare il decreto di «compatibi-lità ambientale», sia da parte del soggetto che ha propo-sto l’opera da realizzare, di dar conto in modo formale di aver «seriamente» preso in considerazione i commenti pervenuti (nel decreto di compatibilità ambientale di so-lito si fa un elenco dei commenti pervenuti citando solo il giorno di arrivo e i proponenti, non facendo riferimento neppure a macrogruppi di argomentazioni).

2.2. Esecuzione a livello comunitario

La Convenzione di Aarhus è stata approvata dal Con-siglio della Ce con decisione del 17 febbraio 2005, ma la Comunità già in precedenza si era impegnata a introdurre nel diritto comunitario i principi ivi sanciti. Infatti con la Direttiva 2003/4/Ce «sull’accesso del pubblico all’in-formazione ambientale» aveva già in qualche modo fatto propri i principi sanciti nel primo pilastro della Conven-zione. Successivamente, con la Direttiva 2003/35/Ce

che prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale e modifica le direttive del Consiglio 85/337/Cee e 96/61/Ce relativamente alla partecipazione del pubblico e all’accesso alla giustizia

aveva sostanzialmente completato tale operazione.

196

Per quanto qui interessa, va segnalato soprattutto l’art. 3 (che sostanzialmente modifica in molte parti la Di-rettiva 85/337/Cee), il quale stabilisce che

Al pubblico interessato vengono offerte tempestive ed ef-fettive opportunità di partecipazione alle procedure decisionali […]. A tal fine, esso ha il diritto di esprimere osservazioni e pareri alla o alle autorità competenti quando tutte le opzioni sono aperte prima che venga adottata la decisione sulla do-manda di autorizzazione.

In realtà, la Direttiva riprende molti passaggi della Convenzione di Aarhus in modo quasi letterale, pur la-sciando discreti margini di manovra agli Stati membri per approntare gli strumenti concreti di partecipazione del pubblico.

3. La legge francese n. 2002-276 del 27 febbraio 2002 re-lativa alla «démocratie de proximité»

Tra le esperienze straniere (pur molto ricche: si pensi alle giurie civiche di Berlino o ai bilanci partecipati di Porto Alegre) spicca, nel campo specifico delle grandi opere, quella francese. In Francia, il contenuto della Con-venzione di Aarhus è stato reso operativo con la legge n. 2002-276 del 27 febbraio 2002 relativa alla c.d. «dé-mocratie de proximité». In realtà, questa legge si occupa di temi assai diversificati e produce modificazioni di vari preesistenti complessi normativi (codice del lavoro, codice delle costruzioni, codice dell’educazione, codice generale delle imposte, ecc.), mentre il Titolo IV (artt. 132 ss.), avente rubrica Participation du public à l’élaboration des grands projets, modifica soprattutto (ma non solo) il code de l’environnement.

Tra le innovazioni che qui più interessano vi sono senza dubbio la previsione del débat public (in realtà già abbozzato in una legge del 1995, che aveva introdotto nell’ordinamento francese il principio di partecipazione) e il rafforzamento del ruolo e dei poteri della Commission

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nationale du débat public (Cndp), trasformata in Auto-rità indipendente. Composta da ventuno membri di varia provenienza (nomina governativa, elezione parlamentare e delle autonomie locali, magistratura, organizzazioni varie), quindi tendenzialmente non subordinata al Governo3, funge da terzo garante tra il pubblico e il committente dell’opera (si usa questo termine riassuntivamente e in senso non strettamente tecnico: in realtà la legge francese menziona promiscuamente ed equiparandoli, pur concet-tualmente distinguendoli, «le maître d’ouvrage ou la per-sonne publique responsable du projet»).

Il decreto attuativo della legge ha distinto le opere, sia quelle a localizzazione puntuale (discariche, centrali elet-triche, porti e aeroporti, ecc.), sia quelle a localizzazione lineare (ferrovie, autostrade, linee elettriche ad altissima tensione, gasdotti, ecc.), in tre categorie a seconda del-l’impatto e del valore dei lavori, prevedendo due soglie: al di sopra di quella più alta il committente è obbligato a sottoporre l’opera alla Cndp; nella fascia intermedia è obbligato a rendere pubbliche le caratteristiche del pro-getto, che potrà essere sottoposto alla Cndp su richiesta dello stesso committente o di altri soggetti4.

Una volta investita della questione, la Cndp può de-cidere discrezionalmente se sia necessaria o meno l’orga-nizzazione di un dibattito pubblico (quindi non c’è alcun automatismo), sulla base dei criteri indicati dalla legge (interesse nazionale del progetto, sua incidenza territo-riale, portata dei problemi socio-economici che solleva, ecc.). In caso affermativo, può decidere di approntarlo

3 Critico sulla composizione della Cndp, perché troppo legata allo Stato (e al Governo), M.F. Delhoste, Démocratie partecipative: de l’échec de l’organisation étatique à l’avenir du projet citoyen, in «Revue française de droit administratif», 5, 2007, p. 1062, ritenendo più con-facente al suo ruolo una presenza paritaria di membri designati dallo Stato e da organizzazioni indipendenti.

4 A titolo esemplificativo, nel caso di progetti ferroviari o autostra-dali il limite superiore è fissato in una lunghezza lineare di più di 40 km o in un costo superiore ai 300 milioni di euro, mentre quello infe-riore corrisponde alla metà di entrambi i parametri.

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direttamente, affidandolo a una commissione territoriale istituita appositamente (la Commission particulière du dé-bat public, Cpdp), oppure al committente stesso; in caso negativo, può comunque richiedere al committente di av-viare una concertazione, proponendo alcune modalità di svolgimento.

Il dibattito pubblico (e questo è un punto da sotto-lineare con specifica enfasi) deve svolgersi nella fase ini-ziale del progetto, quando tutte le opzioni e le soluzioni sono ancora possibili (proprio come richiesto espressa-mente dalla Convenzione di Aarhus), sicché, in primo luogo, riguarda l’opportunità (o meno) della costruzione dell’opera stessa, oltre che le modalità e le caratteristiche della sua realizzazione. Al dibattito può partecipare tutta la popolazione interessata, senza alcuna esclusione, poi-ché esso è finalizzato sia a informare sui vari aspetti del-l’opera, sia a consentire al pubblico di esprimersi; i costi relativi all’organizzazione del dibattito pubblico sono a carico del committente dell’opera.

Il dibattito pubblico è suddiviso in fasi. Una volta che la Cndp ha deciso che esso si debba effettuare e, per esempio, ne affidi l’organizzazione a una Cpdp, viene as-segnato al committente un termine massimo di sei mesi per predisporre la documentazione completa relativa al progetto. Successivamente, la Cndp predispone un calen-dario preciso, con le modalità di espletamento e la durata del dibattito, incaricando in concreto la Cpdp di attuare tale programma, che deve avere una durata massima di quattro mesi (prorogabili eccezionalmente di altri due). In concreto, il dibattito pubblico può svolgersi nei modi più disparati. Innanzitutto, vi è la necessità di portare a conoscenza del pubblico le principali caratteristiche del progetto e a tal fine solitamente vengono inviati opuscoli riassuntivi a tutte le famiglie e alle organizzazioni della zona interessata, mentre la documentazione completa è a disposizione di chi ne dovesse fare richiesta. È inoltre at-tivato un sito internet ad hoc, continuamente aggiornato. È interessante segnalare che i dossier (cahiers d’acteurs) predisposti dagli attori istituzionali del dibattito (Enti

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locali, associazioni di cittadini, ecc.), vengono spesso di-stribuiti nell’ambito del dibattito stesso. Vengono organiz-zate assemblee e riunioni pubbliche, nel corso delle quali sono esposte le varie posizioni. I cittadini, però, hanno anche altri strumenti a disposizione per far conoscere le loro idee, come l’invio di domande o commenti per po-sta cartacea o elettronica. In definitiva: si cerca in ogni modo, con strumenti flessibili e di volta in volta adattati alle necessità della fattispecie, di informare al meglio il pubblico, di far circolare le opinioni del maggior numero di soggetti possibile, di stimolare e agevolare la partecipa-zione delle singole persone alle discussioni, di raccogliere un gran numero di commenti, domande, suggerimenti.

Al termine del dibattito, la Commissione ha due mesi di tempo per predisporre una propria relazione (anch’essa portata a conoscenza del pubblico), nella quale non si prende posizione sulla sostanza del progetto, ma si dà conto dello svolgimento del dibattito stesso e si rendono note le posizioni espresse dalla popolazione.

Nei tre mesi successivi alla pubblicazione della rela-zione, il committente deve rendere nota la sua decisione sulla realizzazione del progetto. È importante notare che in tale decisione deve essere ben chiaro che sono state prese in considerazione le posizioni emerse dal dibattito e le motivazioni per le quali esse sono state (e in che mi-sura) accolte o respinte. Peraltro, è da segnalare (a dimo-strazione dell’importanza che ha assunto lo strumento del dibattito pubblico) che la giurisprudenza amministrativa ha affermato che il committente non può prendere una decisione prima che il procedimento di confronto sia con-cluso, dovendo attendere la relazione della Commissione per poter tener conto delle risultanze del dibattito5.

5 Così Tribunal administratif de Bourdeaux, 2e chambre, 1er mars 2007, in «Revue française de droit administratif», 4, 2007, p. 755 ss. Il Tribunale, su ricorso di alcune associazioni di cittadini, ha annullato l’atto con il quale il Comité interministériél d’aménagement et de développement du territoire (Ciadt) aveva deciso di realizzare il raccordo autostradale di Bordeaux prima che terminasse il dibattito pubblico regolarmente av-viato, in relazione alla stessa opera, dalla Cndp. Peraltro la decisione del

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È da sottolineare che il dibattito pubblico non è una sede di decisione, la quale rimane appannaggio dell’auto-rità legittima, e che il committente non è vincolato dalle conclusioni del dibattito. È, invece, una sede di ascolto e di dialogo, che dovrebbe rispondere a due obiettivi prin-cipali: consentire a un’autorità, meglio informata delle attese della popolazione, di prendere una decisione con piena cognizione di causa; «democratizzare e legittimare la decisione a venire, in modo che, seppur non accettata da tutti, risulti accettabile, precisamente perché tutti sono stati ascoltati»6. Auspicabilmente, tutto questo dovrebbe consentire anche una diminuzione del contenzioso7. Non concludendosi con una decisione, al dibattito non si ap-plica il principio di maggioranza: a essere valorizzata è «la qualità degli argomenti utilizzati», mentre non conta (almeno, non direttamente) la forza numerica delle varie posizioni in campo8.

Da notare, infine, che si tratta di uno strumento ec-cezionale (si pensi che in Francia si organizzano circa 10

Comitato interministeriale aveva suscitato anche le forti proteste della stessa Cndp, causando le dimissioni di alcuni suoi membri.

6 Così Y. Mansillon, L’esperienza del «débat public» in Francia, in «Democrazia e diritto», 3, 2006, p. 107; l’A. sembra peraltro partico-larmente entusiasta dello strumento del dibattito pubblico, anche se avvertito del fatto che «da solo non può certo bastare a risolvere quel-la che talvolta è stata definita crisi della rappresentanza; ma, introdu-cendo nel sistema francese una componente di democrazia partecipati-va, contribuisce ad arricchire il funzionamento della vita democratica del paese» (p. 114). Per una lettura più critica dell’intera legge cfr. M. Verpeaux, La loi relative à la démocratie de proximité ou la proximité, une solution pour la démocratie locale?, in «Revue française de droit administratif», 2, 2003, pp. 261 ss., il quale arriva ad affermare che «les citoyens sont sans doute [..] le plus grands absents de cette loi».

7 Non sembra convinta di tale potenzialità S. Rui, Débat public et politique des grands projets: la performance délibérative en question, in La participation des citoyens et l’action publique, Rapporto del Centre d’analyse stratégique, 2008, pp. 100 ss., la quale però afferma che non è escluso che la partecipazione abbia quanto meno rallentato la cresci-ta della conflittualità.

8 Sottolinea questo aspetto Y. Mansillon, L’esperienza del «débat pu-blic» in Francia, cit., p. 111.

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dibattiti pubblici all’anno9, a fronte di più di diecimila inchieste pubbliche su progetti infrastrutturali), che viene utilizzato solo in circostanze particolari; inoltre è da se-gnalare la grande versatilità dello strumento, che non ha una struttura definita nella sua configurazione (tranne che nei tempi e nella scansione delle fasi), potendosi adattare alle diverse realtà locali e ai diversi progetti.

4. Gli istituti di partecipazione previsti dall’ordinamento italiano: i referendum locali

Venendo ora all’Italia, abbiamo già visto che nella re-lazione predisposta dal ministero dell’Ambiente in ordine all’attuazione dei principi contenuti nella Convenzione di Aarhus sono citati espressamente gli istituti di partecipa-zione popolare previsti dal d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico sugli Enti locali, t.u.e.l.). Tra questi è di primaria importanza il referendum comunale10.

Il referendum consultivo locale sta vivendo un indi-scutibile nuovo slancio, o almeno così appare dai mezzi di comunicazione. A puro titolo esemplificativo, si pos-sono ricordare:

– il referendum consultivo svoltosi a Firenze il 17 febbraio 2008 riguardante il percorso di una tramvia: i residenti di Firenze che hanno risposto alla chiamata re-

9 Dei vari dibattiti pubblici si può trovare notizia e documentazio-ne sul sito internet della Cndp all’indirizzo www.debatpublic.fr.

10 Sulla possibilità, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del 2000, di aversi referendum comunali, oltre che consultivi, anche di altro tipo (propositivi, abrogativi, ecc.) la dottrina ha assunto posizioni diverse: cfr., fra i tanti, E. Maggiora, Il diritto degli Enti locali, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 114 ss., il quale ritiene che possano aversi sia re-ferendum consultivi sia referendum abrogativi e propositivi; di avviso contrario D. D’Alessandro, Procedimento, trasparenza e partecipazione, in S. Gambino (a cura di), Diritto regionale e degli Enti locali, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 311 ss., e E. Mele, Manuale di diritto degli Enti lo-cali, Milano, Giuffrè, 20072, pp. 96 ss., il quale, pur non sottovalutan-do la portata politica del referendum, ritiene che «l’amministrazione locale resta sempre titolare dei poteri di scelta».

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ferendaria sono stati il 39,35% degli aventi diritto, di cui il 52% circa contrari alla tramvia, a fronte di un 47% di favorevoli. Il mancato raggiungimento del quorum di par-tecipazione previsto dallo Statuto fa sì che per il Consi-glio comunale non sorga neppure l’obbligo di discutere gli esiti del voto;

– il discusso e contestato referendum sull’ampliamento della Base militare americana presso l’aeroporto Dal Molin a Vicenza (tale referendum è stato indetto con delibera-zione consiliare dell’8 luglio 2008; è stato fissato con prov-vedimento del sindaco del 6 agosto 2008 per il 5 ottobre 2008; è poi intervenuta l’ord. 5067 del Consiglio di Stato, sez. IV, del 1o ottobre 2008 con la quale si è sospesa la delibera che indiceva la consultazione popolare; di conse-guenza il 2 ottobre il Sindaco ha revocato il proprio prov-vedimento riferito alla consultazione; contestualmente, un gruppo di cittadini ha organizzato comunque una consul-tazione – informale – in cui è stato prospettato lo stesso quesito e cui hanno partecipato circa 23.000 cittadini).

Questo strumento, quanto a logica, efficacia e tipo di risultato, non può essere paragonato all’istituto del débat public francese.

Anzitutto, occorre considerare l’ambito di operatività dell’istituto. Com’è noto, il comma 4 del cit. art. 8 t.u.e.l. prevede, tra l’altro, che «i referendum di cui al presente articolo devono riguardare materie di esclusiva compe-tenza locale», il che pone un ostacolo significativo a che tale istituto possa realmente incidere su scelte di una certa rilevanza per la collettività. Infatti, è abbastanza evi-dente che la realizzazione della maggior parte delle grandi opere travalica le (esclusive) competenze comunali. L’osta-colo, inoltre, è stato interpretato dalla giurisprudenza am-ministrativa in modo assolutamente restrittivo. Gli esempi sono tanti.

Nel caso di un referendum locale in merito alla vi-cenda della realizzazione di un impianto di rigassifica-zione di gas naturale liquefatto (Gnl) all’interno dell’in-sediamento industriale Solvay, nel Comune di Rosignano Marittimo, il Tar ha ritenuto che,

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in ragione delle diverse amministrazioni coinvolte nella com-plessa procedura in questione nonché, conseguentemente in virtù dei distinti interessi che si agitano nell’ambito dell’intera operazione, non possa considerarsi la materia oggetto dei que-siti referendari come esclusiva del Comune

e di conseguenza sono stati annullati gli atti del Comune con cui sono stati dichiarati ammissibili i due quesiti re-ferendari locali (Tar Toscana, sez. II, 21 febbraio 2008, n. 181). Ma già in precedenza i giudici amministrativi si erano orientati in tal modo: v. Tar Puglia, Bari, sez. I, 21 gennaio 2004, n. 171, che ha ribadito l’inammissibilità di un referendum consultivo relativo all’apertura di centrale termoelettrica, perché non previsto dalla l. n. 55 del 2002 che regola le autorizzazioni all’apertura di centrali elettri-che; Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2004, n. 3263, che ha ribadito come un referendum consultivo indetto dal Comune di Ascoli Satriano quanto alla scelta del combu-stibile da usare in una centrale elettrica non potesse co-munque incidere «su scelte rimesse ad amministrazioni diverse sia per competenza territoriale che per livello de-cisionale»; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 26 settembre 2002, n. 3815, che ha dichiarato inammissibile una richie-sta di referendum su una variante al Prg, in quanto sog-getta ad approvazione e modifiche regionali; Tar Puglia, Lecce, sez. I, n. 350 del 2001, che ha seguito il medesimo indirizzo in relazione a un referendum sulla chiusura di una centrale termoelettrica. Si conferma, dunque, che siamo in presenza di un orientamento giurisprudenziale che depotenzia notevolmente l’istituto referendario, es-sendo molto raro che un’opera di una certa importanza ricada nell’esclusiva competenza comunale.

Altro aspetto rilevante è il valore da assegnare al ri-sultato del referendum consultivo. La giurisprudenza am-ministrativa sembra orientata, anche sotto questo profilo, a depotenziarne la portata, affermando che

il referendum consultivo impone all’amministrazione che lo ha indetto di tener conto della volontà popolare ma non esplica alcun effetto sull’azione amministrativa che ne è stata oggetto

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[...] né la volontà popolare espressa con il referendum è ido-nea ad attribuire all’ente locale poteri estranei alla sfera di at-tribuzioni fissate dalla legge (Tar Puglia, Bari, sez. II, 10 marzo 2003, n. 1098).

Soprattutto, la giurisprudenza è attenta a garantire il mantenimento del carattere consultivo del referendum, tanto che ha stigmatizzato l’uso dello strumento referen-dario (formalmente solo consultivo) quando si trattava di mettere a raffronto una decisione già assunta (che, quindi, avrebbe potuto essere revocata) con altre alterna-tive (Tar Veneto, Venezia, sez. II, 21 marzo 2007, n. 807, che precisa anche che il referendum può essere indetto dal Comune solo se prima è approvato il Regolamento at-tuativo previsto dallo Statuto dell’Ente). Un principio di particolare interesse, poi, è quello secondo il quale «un momento partecipativo in funzione consultiva si giusti-fica solo se precede l’attività decisionale vera e propria» (Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3769, che ha con-fermato la sentenza del Tar Veneto ora menzionata).

5. Il presupposto della partecipazione: il dovere di comuni-cazione a carico dell’amministrazione

Nessuno strumento partecipativo, peraltro, può con-cretamente funzionare, è evidente, se i cittadini non sono in grado di conoscere le intenzioni, le finalità, le azioni, le motivazioni dell’amministrazione. Questo è addirittura essenziale per gli interventi relativi a grandi opere, a causa dell’ampiezza del gruppo dei soggetti interessati e della tendenziale illimitatezza del gruppo di quelli che interes-sati lo sono solo indirettamente. Si pone, dunque, prelimi-narmente, la questione della comunicazione pubblica.

È bene precisare che qui si parla di comunicazione pubblica solo per semplicità, poiché, in effetti, il dovere di comunicazione grava su tutti gli attori incaricati della progettazione e della realizzazione dell’intervento infra-strutturale, non solo dei soggetti che hanno natura giu-

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ridica pubblicistica11. Ai nostri fini, pertanto, si può util-mente parlare di amministrazione in senso generico (così come sovente si fa, ad esempio, nel diritto comunitario), in quanto soggetto o insieme di soggetti che si fa carico dell’opera e che ha di fronte l’insieme degli interessati alla realizzazione dell’opera stessa.

Un’efficace comunicazione pubblica ha evidenti van-taggi, ma anche costi. Tanto gli uni quanto gli altri va-riano al variare dei mezzi di comunicazione che di volta in volta si scelgono.

Quanto ai mezzi, appunto, abbiamo non solo «gli strumenti tradizionali (dalle vecchie alle nuove tecnologie dell’informazione)», ma anche le

strutture od uffici (organizzazioni in senso sociologico) che hanno per missione l’attivazione della circolazione delle infor-mazioni e dei dati in uno o in più degli ambiti di comunica-zione extra, inter o intraistituzionale12.

È ben possibile, poi, elaborare modalità di comunica-zione specificamente concepite per la fase istruttoria del procedimento di progettazione e realizzazione degli inter-venti infrastrutturali.

Anche in ragione della varietà e (come vedremo) ne-cessaria flessibilità delle forme partecipative, non è ne-cessario, qui, proporre una tassonomia di tutte le possi-bili forme di comunicazione e di scambio di informazioni con gli interessati, tassonomia che del resto può rinvenirsi

11 Non è questa la sede per approfondire i casi e i limiti nei qua-li la qualifica di pubblico può trasmettersi ai soggetti privati che par-tecipino di pubbliche funzioni. Per un inquadramento del tema, M. Mazzamuto, La riduzione della sfera pubblica, Torino, Giappichelli, 2000; magari con il contrappunto di S. Cassese, Le privatizzazioni: ar-retramento o riorganizzazione dello Stato?, in «Rivista italiana di diritto pubblico comunitario», 1996. Per quanto specificamente di nostro in-teresse, in particolare, è acquisizione ormai consolidata l’applicabilità delle disposizioni della l. n. 241 del 1990, ad esempio in materia di accesso agli atti, ai soggetti formalmente privati che svolgano attività di pubblico interesse.

12 P. Marsocci, Poteri e pubblicità. Per una teoria giuridica della co-municazione istituzionale, Padova, Cedam, 2002, p. 215.

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in numerosi, recenti studi sul tema della comunicazione pubblica e della partecipazione al procedimento ammini-strativo13. Dal punto di vista operativo, poi, non sembra necessario immaginare particolari e originali strumenti di comunicazione, quanto – semmai – curare il razionale e proficuo uso dell’intero strumentario già messo a dispo-sizione dalla legislazione vigente, come considerato e re-golato in particolare nella l. n. 241 del 1990 sul proce-dimento amministrativo e nella l. n. 150 del 2000 sulla comunicazione pubblica. Al proposito, gli strumenti e i principi introdotti dalle fonti in vigore sembrano offrire un arsenale più che adeguato, il quale richiede semmai di essere usato con un approccio organico e con uno spi-rito funzionale che non sembra siano stati sinora seguiti in modo soddisfacente nelle varie, concrete esperienze di procedimento partecipato.

Il dovere di comunicazione nei procedimenti di rea-lizzazione dei grandi interventi infrastrutturali, invero, si radica in numerose e puntuali previsioni, distribuite in diversi ambiti normativi di riferimento. Sarebbe necessa-rio pensare, pertanto, all’integrazione in una complessiva, unitaria strategia comunicativa, delle forme di pubblicità legale e obbligatoria degli atti pubblici (Gazzetta Ufficiale, Bollettini, ecc.), volte ad assicurare la conoscibilità, in astratto, dei provvedimenti e, in alcuni casi, delle fasi pro-

13 Per inquadrare il tema e per opportune indicazioni, anche biblio-grafiche, può vedersi P. Marsocci, Poteri e pubblicità, cit. Una casistica relativa a 18 esperienze concrete di amministrazione partecipata, a vari livelli, in L. Bobbio (a cura di), Amministrare con i cittadini. Viaggio tra le politiche di partecipazione in Italia, Roma, Dipartimento della Fun-zione pubblica, 2007. Un’ampia analisi delle possibili forme di coinvol-gimento degli interessati nei procedimenti amministrativi e in generale nelle politiche pubbliche è stata compiuta nel progetto di ricerca dal titolo Fondamenti, strumenti e procedure della democrazia partecipativa tra Stato, regioni, Enti locali e Unione europea, coordinato da U. Alle-gretti e conclusosi nel corso del 2008, i cui risultati sono stati sintetiz-zati nell’introduzione al Convegno di Cagliari, 1-2 aprile 2008, i cui atti sono in corso di pubblicazione (v., comunque, in dattiloscritto, l’intro-duzione al Convegno dello stesso Allegretti, dal titolo La democrazia partecipativa nella «società liquida» e nella crisi della democrazia).

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cedimentali (come per le procedure concorsuali), anche su supporti informatici e telematici; dei compiti affidati agli Uffici per le relazioni con il pubblico e agli Uffici stampa delle varie amministrazioni coinvolte; degli obblighi di individuazione del responsabile del procedimento e della struttura di imputazione di ciascuna fase procedimentale; del dovere di dare riscontro alle istanze di accesso agli atti del procedimento; del dovere di acquisire tutti gli ele-menti informativi utili all’elaborazione di un’azione razio-nale ed efficiente, con particolare riferimento alle osserva-zioni degli interessati, e di tenerne conto nell’adozione del provvedimento finale ovvero di dare conto dei motivi per i quali si è ritenuto di non darvi seguito.

Più in particolare, la l. n. 150 del 2000 prevede espressamente la distinzione tra le attività di informazione e quelle di comunicazione, assegnando le prime agli uf-fici stampa e le seconde agli Urp. Questa separazione, cui pure si è ascritto il merito di aver posto un argine alla possibile improvvisazione che avrebbe potuto «inflazio-nare» l’area delle relazioni esterne14, pare debba essere superata, nella diversa ottica di un’integrazione tra le pos-sibili occasioni e i possibili strumenti per lo scambio di informazioni con il pubblico, che renda possibile definire una vera e propria campagna di comunicazione.

In effetti, il punto di debolezza delle esperienze di consultazione pubblica sin qui registrate o – meglio – il profilo che le rende nel complesso inadeguate al livello di pubblicità del dibattito che sarebbe necessario, è, in al-cuni casi, la tendenziale limitatezza della platea dei sog-getti ai quali la comunicazione pubblica è indirizzata, che ne fa in definitiva esperienze di settore. Si pensi, in mate-rie diverse dalla realizzazione delle grandi opere, alla fase di consultazione che l’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, apre per l’elaborazione degli interventi di regolazione del prezzo dei farmaci e della spesa sanitaria15, oppure alle

14 P. Marsocci, Poteri e pubblicità, cit., p. 231.15 Sul tema si veda il recente studio dell’Associazione Astrid, a cura

di F. Pammolli e N.C. Salerno, La regolazione del ciclo e dei prezzi dei

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procedure di consultazione condotte dall’Enac, Ente na-zionale per l’Aviazione civile, nell’ambito degli interventi sulle tariffe per i servizi aeroportuali.

In altri casi, al contrario, alla notevole ampiezza della platea dei soggetti cui si comunicano informazioni sul-l’avvio e sullo stato del procedimento è corrisposta una stretta tipicità delle forme di pubblicazione delle rispet-tive notizie che, di fatto, ha finito per limitare l’effettiva informazione del pubblico e l’effettiva comunicazione tra cittadini e amministrazione. È il caso, in particolare, delle esperienze di pianificazione paesaggistica e urbanistica, che, pur assicurando in astratto le necessarie garanzie del contraddittorio con gli interessati, non sono affatto avver-tite, né dall’opinione pubblica, né dagli operatori auditi nel corso della ricerca, come esempi di best practice per il profilo della comunicazione pubblica.

6. Comunicazione pubblica e regolarità del procedimento

C’è un indubbio legame tra i princìpi che regolano il contraddittorio nel procedimento amministrativo e i princìpi che regolano il contraddittorio nel diritto proces-suale.

In questo senso, ad esempio, tra le varie prescrizioni contenute nell’art. 163 cod. proc. civ. rileva ai nostri fini l’onere di includervi l’invito al convenuto a costituirsi nei termini di legge, con l’avviso delle decadenze nelle quali incorrerebbe in difetto. Mentre, infatti, l’omissione di tali indicazioni nella formula di citazione determina la nullità della vocatio in ius, la loro rituale indicazione, per contro, determina la regolarità del procedimento, anche nel caso in cui il contraddittorio con il convenuto non si instauri effettivamente.

prodotti farmaceutici e il sostegno dell’innovazione e della ricerca. Con-fronti europei e proposte di riforma, in www.astridonline.it. Degli stessi autori, il volume La sanità in Italia. Federalismo, regolazione dei merca-ti, sostenibilità delle finanze pubbliche, Bologna, Il Mulino, 2009.

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Analoghe esigenze di economia processuale, del resto, sono alla base della regola, vigente nel processo ammi-nistrativo, per la quale la notifica del ricorso ad almeno uno dei potenziali controinteressati impone al Giudice di considerare regolarmente instaurato il contraddittorio, salva la sua facoltà di disporne l’integrazione nei con-fronti degli altri, eventualmente anche attraverso pubblici proclami16.

Ora, poiché il processo è una species del genus pro-cedimento, sembra ben possibile ritenere che regole ana-loghe si possano applicare quanto alla regolarità (sotto il profilo del contraddittorio e della partecipazione) del procedimento di realizzazione di grandi interventi infra-strutturali, quando possa considerarsi assolto il connesso dovere di comunicazione, che ipotizziamo di porre a ca-rico delle amministrazioni procedenti17. Il rispetto del dovere di comunicazione, si badi, non è una garanzia unicamente per i cittadini, ma anche per la stessa ammi-nistrazione: se il dovere è correttamente assolto, nessuno degli interessati potrà mai lamentare l’indebita esclusione dal procedimento. L’assoggettamento al dovere comunica-tivo, in definitiva, non deve essere inteso come un peso, ma come una chance per l’amministrazione, con funzioni deflattive del contenzioso e – comunque – riduttive delle eventuali soccombenze.

16 Dispone al proposito l’art. 14 r.d. n. 642 del 1907 che «Quando la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia sommamente diffici-le per il numero delle persone da chiamarsi in giudizio, il Presidente della sezione può disporre che sia fatta per pubblici proclami autoriz-zando il ricorrente a far inserire, nel foglio degli annunzi della Provin-cia ove ha sede l’autorità che emise il provvedimento e nella Gazzetta Ufficiale del Regno, un sunto del ricorso e le sue conclusioni, con le cautele consigliate dalle circostanze, e designando, se sia possibile, al-cuni fra gli interessati ai quali la notificazione debba farsi nei modi or-dinari», mentre il successivo art. 16 dispone che «La sezione nell’ordi-nare l’integrazione del giudizio, indica le persone a cui il ricorso deve notificarsi, e, ove ne sia il caso, autorizza la notificazione per pubblici proclami».

17 Per la classificazione del processo come procedimento, ad esem-pio, v. S. Satta e C. Punzi, Manuale di diritto processuale civile, Pado-va, Cedam, 2000.

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Altra ratio idonea a giustificare la limitazione della possibilità, dopo che si sia concluso il dibattito pubblico regolarmente instaurato, di far valere censure relative al merito delle determinazioni adottate, sta in ciò che, come si vedrà, se si afferma a carico delle amministrazioni pro-cedenti un dovere di comunicazione, e non semplicemente di informazione, è proprio perché si parte dal presuppo-sto che si siano instaurate le condizioni necessarie e suf-ficienti per l’acquisizione e la valutazione degli interessi privati nel procedimento.

Non a caso si parla, qui, di un dovere di comunica-zione, e non semplicemente di informazione. Il primo in-fatti, a differenza del secondo, postula l’instaurazione di un flusso bidirezionale, nel quale l’amministrazione non si limiti al rilascio di informazioni sul proprio operato, ma si occupi di acquisire, a sua volta, le valutazioni e le istanze degli interessati18.

Tale rapporto comunicativo, come avvertito dalla dottrina, che ha da tempo visto il contraddittorio come possibilità di «contrapporre in tempo utile argomento su argomento»19 tra l’interessato e l’amministrazione, collega dunque direttamente l’obbligo dell’amministrazione di ac-quisire le fonti di conoscenza necessarie per le valutazioni da compiere (e il connesso obbligo di darne conto nella motivazione del provvedimento finale) con l’obbligo di «render manifesti fatti, situazioni o giudizi considerati si-gnificativi, almeno in via d’ipotesi, rispetto a un problema che impegna l’amministrazione pubblica»20. In questo senso (ragionando in particolare dell’ambito dei servizi pubblici), si è notato che

la chiave di lettura del passaggio per le strutture pubbliche dal dovere di informazione al dovere di comunicazione sta nell’intro-

18 Per tale distinzione tra comunicazione e informazione, con indica-zioni bibliografiche, v. P. Marsocci, Poteri e pubblicità, cit., pp. 38 ss.

19 C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordina-mento italiano, Milano, Giuffrè, 1958, p. 364.

20 F. Ledda, Problema amministrativo e partecipazione al procedi-mento, in «Diritto amministrativo», 1993, p. 134.

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duzione di concreti obblighi di considerazione della volontà dei destinatari del servizio a cui deve seguire la riconsiderazione e la correzione dell’organizzazione della funzione amministrativa21

e si è rinvenuta la prova «che la determinazione di precisi obblighi in capo alle P.A. si sia resa necessaria per l’affer-mazione del principio di partecipazione» nella

desuetudine che ha riguardato l’art. 3 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sull’abolizione del contenzioso ammini-strativo, laddove ci si limitava ad ammettere le deduzioni e le osservazioni dei privati22.

Una volta assicurate le condizioni per una effettiva co-municazione, dunque, ammettere il successivo reclamo co-stituirebbe una non necessaria duplicazione di tutele. Ciò, naturalmente, con riferimento alle censure con le quali si intendesse far valere, successivamente alla chiusura del di-battito, la mancata considerazione di elementi che sarebbe stato possibile chiedere di acquisire nella fase istruttoria.

Ancora una volta, conforta tali conclusioni il parallelo con la logica processuale, le cui esigenze di concentra-zione, celerità e certezza giustificano, ad esempio, il rigo-roso regime di decadenze e preclusioni che scandisce il rito del lavoro; mentre nel processo amministrativo è ac-quisito il principio che vieta di far valere in sede di inter-vento le doglianze che non si siano fatte valere tempesti-vamente con un’impugnazione autonoma.

A questo punto del nostro percorso logico, del resto, siamo già rientrati sul terreno più saldo delle tradizionali acquisizioni sulla logica della partecipazione al procedi-mento amministrativo23, che senza dubbio comprendono

21 Così P. Marsocci, Poteri e pubblicità, cit., p. 296, con un richia-mo a P. Vesperini, L’attuazione della carta dei servizi, in «Rivista trime-strale di diritto pubblico», 1, 1998, p. 179.

22 P. Marsocci, Poteri e pubblicità, cit., p. 252.23 Per l’esposizione e la giustificazione delle quali, alla luce dei sot-

tostanti principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario, ri-ferimento fondamentale resta M. Cartabia, La tutela dei diritti nel pro-cedimento amministrativo. La legge n. 241 del 1990 alla luce dei proce-dimenti comunitari, Milano, Giuffrè, 1991.

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anche il riconoscimento della legittimità dell’elisione delle tutele successive alla chiusura del procedimento che ab-bia garantito le necessarie opportunità di partecipazione. Tale elisione, naturalmente, non si manifesta attraverso la limitazione dell’accesso alla giustizia (che costituirebbe una inaccettabile limitazione del diritto costituzionale alla difesa, di cui all’art. 24 Cost.), bensì nel processo ammi-nistrativo, attraverso il controllo sulla sufficienza e con-gruità della motivazione del provvedimento impugnato, quando esso dia conto dei motivi per i quali alle istanze emerse in sede di partecipazione non si sia ritenuto di dare seguito.

Resta dunque da collegare, sul piano teorico, il dovere di comunicazione con le medesime radici costituzionali e legislative che stanno alla base di queste acquisizioni.

Collegamento che, a ben vedere, è stato da tempo evi-denziato dalla dottrina, che ha sottolineato ad esempio come l’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi, risolvendosi nella comunicazione agli interessati dei mo-tivi alla base delle decisioni assunte dall’amministrazione, renda possibile la loro impugnazione in sede amministra-tiva o giurisdizionale24, mentre gli studi condotti dalla prospettiva delle garanzie dei diritti nel procedimento25 lo hanno radicato, con argomenti convincenti, nel principio del contradditorio quale principio generale dell’ordina-mento giuridico italiano e comunitario. Essenziale, in que-sto senso, è la considerazione unitaria delle diverse tutele accordate dalla legge sul procedimento amministrativo.

Così, rientrano in un disegno complessivo, l’art. 3 della l. n. 241 del 1990, il quale ha introdotto, accanto e sullo stesso piano dell’indicazione

dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche – componenti strutturali della motivazione anche nella legislazione straniera

24 Per tutti, M.S. Giannini, nella voce Motivazione nel diritto am-ministrativo, in «Enciclopedia del diritto», XXVII, Milano, Giuffrè, 1977.

25 M. Cartabia, La tutela dei diritti nel procedimento amministrativo, cit., passim.

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– l’obbligatoria correlazione con le risultanze dell’istruttoria, a consacrazione del legame tra provvedimento e risultanze proce-dimentali26;

gli artt. 4 e seguenti, che impongono all’amministrazione l’indicazione della struttura e della persona responsabili del procedimento, destinati a fungere da interfaccia tra l’amministrazione e gli interessati; gli artt. 7 e seguenti, che hanno sancito l’obbligo di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento; l’art. 9, che ha riconosciuto a qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o pri-vati, nonché ai portatori di interessi diffusi costituiti in as-sociazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, la facoltà di intervenire nel procedimento; l’art. 10, che ha sancito il diritto degli interessati di far pervenire le proprie osservazioni e il dovere dell’ammini-strazione di tenerne conto; l’art. 10-bis, introdotto dalla l. n. 15 del 2005, che ha stabilito, nei procedimenti a istanza di parte, l’obbligo per l’amministrazione di comunicare agli interessati, prima della formale adozione di un prov-vedimento negativo, i motivi che ostano all’accoglimento della domanda, con il corrispettivo diritto degli istanti di presentare per iscritto osservazioni, del cui eventuale man-cato accoglimento deve esser data ragione nella motiva-zione del provvedimento finale; l’art. 11, che ha previsto la possibilità di concludere, in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’articolo 10, accordi tra l’amministrazione e gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, ovvero in sostituzione di questo27.

26 R. Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo. Profili rico-struttivi e analisi comparatistica, Milano, Giuffrè, 1999, p. 4.

27 Pare opportuno, qui, limitarsi a ricordare che garanzie proce-dimentali in tutto analoghe, specialmente sotto il punto di vista del diritto di accesso, erano offerte dalla l. n. 142 del 1990, di riforma dell’ordinamento delle autonomie locali, le cui disposizioni sono ora confluite nel t.u.e.l. (d.lgs. n. 267 del 2000), non a caso richiamato, ac-canto alla l. n. 241, nell’accennato «Rapporto nazionale sull’attuazione della Convenzione di Aarhus» predisposto dal ministero dell’Ambiente nel 2005.

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Non si saprebbe indicare il fondamento costituzionale di queste statuizioni, funzionali, tutte, all’attuazione del principio del giusto procedimento, meglio che con il ri-chiamo al commento di Vezio Crisafulli alla sentenza n. 13 del 1962, nel quale, pur ragionando ancora dell’appli-cazione delle limitatissime concessioni fatte dal richiamato art. 3 della legge del 1865 sull’abolizione del contenzioso amministrativo, si prefigurava la possibile ricostruzione del diritto di partecipazione al procedimento amministra-tivo come componente essenziale del principio del giusto procedimento; se ne prefigurava il radicamento nei prin-cìpi di imparzialità e di buon andamento dell’ammini-strazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost.; se ne indicava il legame con il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e, pur dubitandosi ancora se il principio del giusto procedi-mento non restasse rilevante sul solo piano del procedi-mento legislativo, si sottolineava «quanto suggestive pro-spettive di ricerca» si aprissero «nell’ordine problematico sollevato dalla sentenza annotata», che offriva serii spunti per affermare l’applicabilità diretta del principio di parte-cipazione anche sul piano dei rapporti tra cittadino e am-ministrazione28.

Lungo quella linea di ricerca si è mossa la dottrina degli anni successivi, che dapprima, pur limitandosi a riconoscere al principio del contraddittorio la natura di principio generale dell’ordinamento (e negandone ancora la natura certa di principio costituzionale), ha ricono-sciuto che «i principi stabiliti dalla legge n. 241 del 1990 possono essere considerati funzionali ai principi stabiliti in Costituzione», anche se «non si identificano con essi, né esauriscono il loro significato»; ha ammesso

che il contraddittorio favorisca sia il buon andamento che l’im-parzialità dell’azione amministrativa, e che esso realizza una mi-glior tutela delle posizioni soggettive, in armonia con lo spirito della costituzione,

28 Il commento, dal titolo Principio di legalità e «giusto procedimen-to», è in «Giurisprudenza costituzionale», 1962, pp. 131 ss.

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anche se «non si può dire che esso costituisca la prima, l’unica o l’indispensabile attuazione di questi valori co-stituzionali»; ha, soprattutto, sottolineato che, seppure il principio del contraddittorio dovesse tuttora considerarsi introdotto con legge ordinaria,

in seguito all’introduzione del contraddittorio come principio generale, ogni deroga e ogni eccezione a tale principio posta dal legislatore dovrebbe essere sindacabile dalla Corte costitu-zionale, quanto meno sotto il profilo della ragionevolezza29.

La dottrina più recente, infine, facendo leva anche sull’introduzione, all’art. 111 Cost., del principio costitu-zionale del giusto processo, ha esplicitamente affermato che si dovrebbe ormai considerare chiuso il percorso di ricerca additato da Crisafulli e che dunque si dovrebbe ormai riconoscere il fondamento costituzionale dei diritti di partecipazione sanciti nella legge sul procedimento am-ministrativo30.

Se nella l. n. 241 del 1990, con le successive integra-zioni e modificazioni, si rinvengono dunque i principi fondamentali all’attuazione dei quali sarebbe funzionale il dovere di comunicazione ipotizzato, un complesso di strumenti, che pare potenzialmente adeguato, si trova nel-l’accennata legge n. 150 del 2000, recante Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni. Rileva, in particolare, l’art. 2, rubricato «Forme, strumenti e prodotti», il quale stabilisce che

Le attività di informazione e di comunicazione delle pub-bliche amministrazioni si esplicano, oltre che per mezzo di pro-grammi previsti per la comunicazione istituzionale non pubbli-citaria, anche attraverso la pubblicità, le distribuzioni o vendite promozionali, le affissioni, l’organizzazione di manifestazioni e la partecipazione a rassegne specialistiche, fiere e congressi

29 M. Cartabia, La tutela dei diritti nel procedimento amministrativo, cit., pp. 49-50.

30 In tal senso, ad esempio, G. Colavitti, Il «giusto procedimento» come principio di rango costituzionale, in www.associazionedeicostitu-zionalisti.it., con essenziali indicazioni bibliografiche.

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e, ciò che più interessa,

Le attività di informazione e di comunicazione sono attuate con ogni mezzo di trasmissione idoneo ad assicurare la neces-saria diffusione di messaggi, anche attraverso la strumentazione grafico-editoriale, le strutture informatiche, le funzioni di spor-tello, le reti civiche, le iniziative di comunicazione integrata e i sistemi telematici multimediali

(e si tratta, come si vede, di un elenco esemplificativo). Agli articoli 6 e seguenti, poi, sono individuate le strut-ture competenti, stabilendosi che

le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce e l’ufficio stampa e quelle di comunicazione attraverso l’uffi-cio per le relazioni con il pubblico, nonché attraverso analoghe strutture quali gli sportelli per il cittadino, gli sportelli unici della Pubblica amministrazione, gli sportelli polifunzionali e gli sportelli per le imprese.

Garanzie partecipative e strumenti per il dialogo tra cittadini e amministrazione, in conclusione, non mancano nella legislazione in vigore. Il sistema italiano del diritto e della giustizia amministrativa, anzi, pare caratterizzato, tra l’altro, da quella che diremmo una circolarità tra di-ritto dei cittadini all’informazione e dovere pubblico di comunicazione, diritto di partecipazione ai procedimenti e dovere di completezza dell’istruttoria, obbligo di moti-vazione e presupposti per l’impugnabilità giurisdizionale, che consente di escludere la necessità di ricorrere a inter-venti innovativi sul piano dei principi.

Per dare corpo a un procedimento partecipato e co-municativo, capace di generare legittimazione e quindi efficienza, dunque, non pare necessario tanto individuare strumenti e principi innovativi, quanto integrare in un approccio complessivo tutti gli strumenti sin qui messi a disposizione dall’ordinamento per lo scambio di dati e di opinioni tra l’amministrazione e il cittadino. È necessario, in particolare, chiarire la tipologia dei modelli partecipa-tivi e comunicativi, lasciando all’amministrazione un mar-

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gine di scelta tra l’uno e l’altro, ma all’interno di criteri prefissati dal legislatore.

Per quanto riguarda proprio la comunicazione, tut-tavia, almeno un principio innovativo andrebbe fissato: quello che si potrebbe dire dell’effettività della comuni-cazione, da affermare quale clausola generale cui commi-surare il rispetto del principio del giusto procedimento. Proprio sulla base di questo principio, i mezzi comuni-cativi da scegliere sono quelli che maggiormente garan-tiscono l’effettiva interazione tra amministrazione e cit-tadini e impediscono il successivo, eventualmente prete-stuoso, ricorso a doglianze basato su qualche difetto di informazione.

Può essere opportuno, comunque, prescrivere un mi-nimo di misure da adottare necessariamente, quali, a mero titolo di esempio: l’indizione, da parte di ciascuna delle amministrazioni interessate, di una conferenza stampa nella quale comunicare in anticipo il prossimo avvio del procedimento; il successivo acquisto, indipendentemente dagli esiti della conferenza stampa, di un apposito spa-zio a pagamento sui quotidiani nazionali, sulle rispettive edizioni locali e sui quotidiani e periodici locali; la pro-mozione, da parte degli Uffici stampa, di servizi giorna-listici sui telegiornali e giornali radio locali e nazionali che diano conto, in momenti successivi, dello stato del dibattito; l’adozione di una campagna di affissioni sia in occasione dell’avvio del procedimento (con l’indicazione dei termini di apertura e di chiusura della fase istrutto-ria), sia nel corso del termine per l’acquisizione delle os-servazioni e dei contributi; l’individuazione o l’istituzione di una struttura appositamente deputata alle relazioni con il pubblico nell’ambito del dibattito.

Tali obblighi minimi di comunicazione, eventualmente, potrebbero essere posti a carico dei soggetti privati coin-volti nell’intervento.

Ovviamente, da simili prescrizioni deriva un aggrava-mento degli adempimenti a carico delle amministrazioni e dei soggetti coinvolti nella realizzazione degli interventi; tale aggravamento, tuttavia, sarà ampiamente ripagato dal-

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l’incremento della certezza del procedimento e, quindi, in definitiva, della sua complessiva celerità. Che questa sarà la conseguenza è probabilmente dimostrato, in negativo, dalle vicende della l. n. 443 del 2001 (cosiddetta Legge obiettivo), legge che, improntata alla massima riduzione degli obblighi di comunicazione di avvio del procedi-mento e delle garanzie di partecipazione degli interessati (come pure degli stessi momenti di confronto dialettico tra le diverse amministrazioni)31, non sembra aver pro-dotto il risultato desiderato.

7. Alcune possibili indicazioni operative

Dai dati così esposti sembra di poter desumere, in sintesi, almeno le seguenti indicazioni:

31 Numerosi gli esempi della complessiva logica di quella legge che si possono desumere dalla giurisprudenza: il Giudice amministrativo, ad esempio, ha riconosciuto che «La norma dell’articolo 22-bis del d.p.r. n. 327/2001 al comma 1, ha disposto che qualora l’avvio dei la-vori rivesta carattere di particolare urgenza – tale da non consentire, in relazione alla particolare natura delle opere, l’applicazione delle di-sposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 20, relative alla partecipa-zione dei soggetti interessati dall’esproprio – può essere emanato, sen-za particolari indagini e formalità, decreto motivato che dispone anche l’occupazione anticipata dei beni immobili necessari. Al comma 2 ha poi aggiunto che il decreto di occupazione di urgenza può altresì esse-re emanato, senza alcuna motivazione, nei casi di: a) interventi di cui alla l. 21 dicembre 2001, n. 443; b) numero dei destinatari della pro-cedura espropriativa sia superiore a 50» (Tar Puglia, Lecce, sez. I, 29 settembre 2006, n. 4681), o che «L’art. 3, d.lgs. 20 agosto 2002 n. 190 (disposizioni di attuazione della l. 21 dicembre 2001 n. 443, c.d. Leg-ge obiettivo), ai sensi del quale il progetto preliminare non è sottopo-sto a conferenza di servizi e che l’intesa sulla localizzazione è acquisita con la pronuncia (favorevole) dei presidenti delle Regioni interessate, è norma statale di natura speciale recante la disciplina delle opere di rilevanza strategica, pertanto la previsione della legge regionale ordi-naria (nella specie l’art. 16, l. rg. Calabria n. 19 del 2002), contenente analoga disciplina per le opere pubbliche statali e di interesse statale, ma che prevede la convocazione di una conferenza di servizi alla quale partecipano gli Enti locali interessati è, per il principio di specialità, recessiva» (Cons. Stato, sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3917).

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a) la legittimazione delle decisioni pubbliche attra-verso la consultazione popolare è un’esigenza diffusa-mente avvertita non solo da chi ha a cuore il principio democratico, ma anche da chi tiene in conto l’efficienza e il buon andamento dell’amministrazione;

b) è centrale la questione della dimensione temporale dell’inserimento della partecipazione popolare nel proce-dimento amministrativo. Una partecipazione post festum, che sopravviene quando la decisione è già stata adottata, presenta rischi di disaffezione e di contrapposizione, che ne fanno uno strumento alquanto inefficiente;

c) la partecipazione nella fase iniziale funziona al me-glio se il confronto si sviluppa non su una, ma su una pluralità di soluzioni alternative. È infatti retorico il que-sito sul se sia meglio scegliere una soluzione realizzativa di una grande opera (per poi, a causa dell’opposizione delle popolazioni interessate, essere costretti ad abbando-narla in favore di un’altra ipotesi, per la quale ricomin-ciare da capo) o formulare sin dall’inizio più alternative con il vantaggio di un’immissione sincrona anziché asin-crona degli interessi;

d ) sembra preferibile optare per una pluralità di mo-delli e non per un solo modello partecipativo, evitando le rigidità connesse a scelte aprioristiche e troppo nette.

In questa prospettiva, come già accennato, tutti i mo-delli partecipativi presentano vantaggi e svantaggi. Poiché ragioniamo sul caso italiano, peraltro, è indispensabile mettere in luce le insufficienze dei tre modelli principali conosciuti dal nostro ordinamento: l’immissione degli in-teressi nel procedimento; la consultazione delle categorie o delle istituzioni locali; il referendum consultivo locale.

Quanto al primo modello, la sua più grave insuffi-cienza sta nell’incertezza sulla nozione di interesse meri-tevole di rappresentazione nel procedimento. Una defi-nizione troppo restrittiva riduce la platea dei soggetti cui imputare l’eventuale consenso e rende – dunque – debole la legittimazione della decisione pubblica; una definizione troppo ampia fa correre il rischio di rendere il procedi-mento sostanzialmente ingestibile.

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Quanto al secondo, la crisi delle identità collettive in-duce alla prudenza sull’effettiva rappresentatività dei sog-getti consultati e sulla loro capacità di garantire l’effettivo consenso di ampie fasce di popolazione.

Quanto all’opzione referendaria, la sua rigidità è du-plice: perché consultazioni popolari di questo tipo rara-mente attivano un dibattito razionale e informato e per-ché – come si è visto – la giurisprudenza esalta la natura decisoria del voto popolare e – conseguentemente – lo drammatizza.

Pur senza abbandonare questi tre modelli tradizional-mente cari al nostro ordinamento, vale dunque la pena di riflettere, sia pure con cautela, anche sugli altri.

Per la sua capacità produttiva di consenso e per l’af-fidabilità dei dati che ne emergono – dimostrata dalle esperienze già svoltesi un po’ in tutto il mondo – sem-bra meritevole di attenzione soprattutto il modello del sondaggio deliberativo. Esso, come è stato detto efficace-mente (da Bosetti e Maffettone), usa «un campione tradi-zionale [...] in modo non tradizionale». Al contrario dei sondaggi classici, non chiede risposte immediate e non meditate, ma sollecita la riflessione comune, il confronto, il dialogo. La tecnica del sorteggio (magari da operare al-l’interno di categorie determinate, per essere ancor più si-curi della rappresentatività del campione), poi, rende più difficili l’arbitrio e la distorsione della rappresentazione «in scala» del gruppo sociale di riferimento.

Come è stato giustamente rilevato in dottrina, il son-daggio deliberativo funziona correttamente solo se ricor-rono alcune condizioni. In particolare:

a) è fondamentale la corretta identificazione della platea dei consultabili. Nell’ambito delle grandi opere, in questa prospettiva, deve essere tenuta in particolare con-siderazione la dimensione spaziale, perché sovente tali opere (soprattutto quelle spazialmente «lineari», come una strada ferrata o un canale di navigazione) interessano un ambito spaziale – e quindi personale – vastissimo. È probabile che l’ampliamento della platea, pur rendendo più complessa la fase della deliberazione (il termine, ov-

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viamente, va inteso in senso anglosassone, come discus-sione e confronto razionale, non come decisione, che re-sta riservata alla mano pubblica), sia la soluzione migliore, poiché riduce le facoltà di veto dei soggetti c.d. Nimby (Not in my Backyard). Si può anche pensare, poi, a una pluralità di sondaggi deliberativi, per zone di territorio potenzialmente interessate dall’opera;

b) l’amministrazione deve mettere correttamente in luce, nella fase comunicativa, l’oggetto della consultazione e – in particolare – la natura dell’interesse pubblico pri-mario sotteso all’opera, nel confronto con gli interessi pubblici secondari. Una corretta identificazione degli uni e degli altri consente anche di definire la prospettiva fondamentale di tutto il procedimento (quella – appunto – dell’interesse pubblico primario) e, conseguentemente, di selezionare con maggiore precisione la platea dei con-sultabili (da scegliere proprio in ragione della connessione dei loro interessi privati con l’interesse pubblico primario e/o con quelli secondari);

c) sulla discussione concreta relativa alla singola opera non deve gravare un’astratta contrapposizione ideologica di eccessiva profondità. In caso contrario, il confronto razionale si trasformerebbe in contrapposizione e la pro-cedura di consultazione sarebbe sostanzialmente inutile. L’attuale situazione socio-politica italiana presenta ele-menti contraddittori quanto alla possibilità di una simile, astratta, contrapposizione. Se, infatti, il bipolarismo (o forzato – e ancora tutt’altro che assestato – bipartitismo) italiano ha assunto connotazioni ben diverse da quelle rinvenibili in altri sistemi, perché la debolezza dello «spi-rito repubblicano» fa prevalere le ragioni di parte su quelle comuni, il già segnalato indebolimento delle appar-tenenze collettive rende gran parte della popolazione di-sponibile al ragionamento deideologizzato e al confronto con le idee altrui (con la possibilità, dunque, di cambiare le proprie);

d ) i rischi ora messi in luce si riducono in propor-zione all’anticipazione dei tempi della consultazione: prima si invitano i cittadini al confronto, meno hanno

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avuto modo di assestarsi le posizioni dei soggetti collet-tivi (istituzioni, partiti, sindacati, associazioni varie) e più i cittadini sono disponibili al libero confronto.

Ogni singolo procedimento realizzativo di una grande opera presenta esigenze e caratteri suoi propri. Si è già accennato al fatto che – conseguentemente – non è op-portuno immaginare modelli partecipativi astratti e gene-ralizzati, essendo di molto preferibile una struttura proce-dimentale flessibile e adattabile. È da auspicare, dunque, un intervento legislativo-quadro che identifichi i vari mo-delli partecipativi, ma lasci all’amministrazione la scelta fra l’uno e l’altro, guidandola e limitandola – ovviamente – con l’indicazione di alcuni criteri generali (che tengano conto, ad esempio, della dimensione spaziale dell’opera, dell’ampiezza del gruppo di popolazione interessato, del-l’urgenza o meno della realizzazione, ecc.).

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1. Una premessa

Uno dei più preoccupanti fattori di deficit competi-tivo per l’Italia è rappresentato dall’inadeguato sviluppo del sistema infrastrutturale rispetto ai principali paesi oc-cidentali, messo in evidenza da diverse analisi. Ad esem-pio, nella classifica stilata dal World Economic Forum per il 2008-2009, comprendente 134 paesi, l’Italia si col-loca al 54o posto nel comparto delle infrastrutture. Con riferimento specifico all’indice di qualità infrastrutturale l’Italia scende al 73o posto, ben lontano sia da Germa-nia e Francia (che ricoprono, rispettivamente, il terzo e il quarto posto), che da paesi quali Spagna, Grecia o Ir-landa. Questo distacco, inoltre, non sembra diminuire nel corso degli anni. Al contrario, si manifesta un progressivo peggioramento, una crescente divaricazione tra la situa-zione italiana e quella degli altri principali paesi euro-pei. Si può prendere come esempio il caso della Spagna che, partendo da una situazione di marcato ritardo infra-strutturale, nel corso dell’ultimo decennio si è progressi-vamente avvicinata all’Italia fino a sopravanzarla di ben trentadue posizioni1. Dall’analisi del World Economic Fo-

5. POLITICHE INFRASTRUTTURALI E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE:

IL RUOLO DELLA DIRIGENZA

Relazione del gruppo di ricerca diretto da A.M. Petroni. Ricercatori: L. Fiorentino e A. Vannucci.

1 Cfr. World Economic Forum, The global competitiveness report 2008-2009, ottobre 2008, pubblicato in www.weforum.org. In par-ticolare, gli indici relativi all’Italia sono reperibili alle pp. 209 e 210, mentre la classifica generale relativa alla qualità infrastrutturale è con-sultabile a p. 384. Per il confronto con la realtà spagnola si veda p. 304 per la situazione attuale, mentre, con riferimento al suo ritardo infrastrutturale rispetto all’Italia negli anni 2000-2001 si veda Cnel, Dotazione infrastrutturale in Italia e nei principali paesi europei, Roma,

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rum emerge altresì che il fattore avvertito come maggiore vincolo nella promozione della crescita e della competi-tività del sistema economico è costituito dall’inefficienza dell’amministrazione pubblica, che supera di gran lunga anche i fattori relativi all’imposizione e alla regolazione fiscale2.

In questo contributo prendiamo in esame i princi-pali fattori di disfunzionalità dell’apparato amministra-tivo, facendo specifico riferimento al ruolo della dirigenza pubblica nelle diverse fasi – dalla progettazione degli interventi fino alla valutazione dei loro esiti – che carat-terizzano le politiche infrastrutturali. Senza limitarci agli aspetti formali relativi ai ruoli e alle funzioni attribuite ai dirigenti, prendiamo in esame gli elementi critici e le proposte di riforma per la qualità degli interventi nel set-tore delle infrastrutture nei termini della loro sostenibilità istituzionale e organizzativa. L’azione dei dirigenti, infatti, non va intesa come rispondente alla ricerca di quelle con-dizioni di adempimento procedurale capaci di per sé di as-sicurare una scelta pubblica in astratto ottimale, secondo la logica sottesa – ad esempio – ad alcuni meccanismi automatici di aggiudicazione degli appalti e alla messa in atto di controlli di processo. Occorre invece prospettare l’attività dei dirigenti amministrativi come un processo di scoperta che attraverso scambi, interazioni e feedback con decisori politici, destinatari e interpreti delle scelte rela-tive alle politiche infrastrutturali, può permettere all’orga-nizzazione pubblica di coordinare le proprie attività e di arricchire il patrimonio di informazioni e di conoscenze da cui attingere per rispondere al conseguimento degli obiettivi istituzionalmente prefissati. Un percorso, in altri termini, aperto in una certa misura alla creatività e all’in-novazione che, se ben orientato e valorizzato, può trasfor-mare i poteri e le responsabilità gestionali dei vertici di-

2000, e Id., Il finanziamento delle opere pubbliche: il project financing, 28 febbraio 2002, pp. 32 ss.

2 Cfr. World Economic Forum, The global competitiveness report 2008-2009, cit. p. 209.

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rigenziali da problema (come ancora oggi vengono spesso di fatto percepiti, in base alla logica dei controlli e alla cultura amministrativa prevalente) in risorsa per le politi-che pubbliche.

Alla radice dell’insoddisfacente funzionamento del-l’amministrazione pubblica – nell’opinione degli stessi dirigenti – vi sono molteplici fattori tra loro collegati3: l’impossibilità di attuare adeguate politiche del personale per selezionare e premiare i dipendenti in base alle loro capacità; la conseguente perdita di qualità degli uffici tecnici cui sono delegati i compiti di progettazione e di supervisione delle realizzazioni; il peso eccessivo dei vin-coli normativi e procedurali nei processi decisionali; il ri-schio della corruzione e di infiltrazioni criminali nell’ag-giudicazione degli appalti; i nodi irrisolti nel rapporto tra politica e vertici amministrativi, che si traducono per un verso nella mancanza di chiari indirizzi strategici, per un altro nell’intromissione dei politici in attività gestionali; il peso defatigante dei negoziati che si rendono necessari tra i politici o tra questi ultimi e i gruppi di interesse.

Ne consegue che gli interventi programmati e i pro-getti approvati non si traducono in scelte amministrative coerenti, o vedono allungare a dismisura i loro tempi di realizzazione, a seguito di diversi fattori: il venir meno dell’impulso politico; l’indicazione di obiettivi formali e non sostanziali (il superamento di ostacoli normativi e procedurali piuttosto che l’esecuzione dell’opera, ad esem-pio); i tempi dilatati a dismisura; la persistenza di «com-partimenti stagni» (amministrazioni che non si parlano e non si ascoltano); l’approvazione di progetti carenti nella dimensione esecutiva. Di qui anche la frammentazione dei corrispondenti processi decisionali tra i diversi assetti

3 Cfr. G. Capano e S. Vassallo, La dirigenza pubblica: il mercato e le competenze dei ruoli dirigenziali, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p 110; Sspa – Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, Ricerca sulle competenze distintive dei dirigenti pubblici, a cura di D. Duccoli, S. Fabiano, R. Giovanetti e R. Ruffini, coordinata da R. Ruffini, dispo-nibile all’indirizzo www.sspa.it/share/progetti/29/29_Ricerca/Compe-tenze_SSPA_def.pdf, p. 116.

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organizzativi chiamati in causa, con fenomeni di duplica-zione, intreccio, sovrapposizione e reciproco impedimento tra le attività di soggetti coinvolti a vario titolo nella com-plessa vicenda procedimentale.

2. La complessità della cornice normativa e procedurale

Un primo elemento, di carattere generale, che condi-ziona negativamente l’azione della dirigenza amministra-tiva nelle diverse fasi in cui si articolano le politiche in-frastrutturali, è la complessità del sistema di vincoli nor-mativi e procedurali. L’inflazione delle disposizioni nor-mative, stratificatesi disordinatamente nel corso dei de-cenni, e il basso profilo qualitativo dei loro contenuti – in termini di coordinamento con altre norme e di univocità interpretativa – producono nei soggetti chiamati ad appli-carle una radicale incertezza su quali regole siano da ap-plicare nei casi specifici, e con quali prevedibili ricadute. Questo si verifica in particolare nell’attività contrattuale, regolata da norme generali cui si affiancano molteplici di-sposizioni – di diverso livello – che stabiliscono deroghe, eccezioni, integrazioni.

C’è stata una produzione infinita di norme che, con l’obiet-tivo di risanare il settore, hanno finito per sovrapporsi a quello straordinario impianto legislativo sulle opere pubbliche di de-rivazione napoleonica che, comunque, era fatto bene e che aveva dei meccanismi molto chiari; invece di sostituirlo con un nuovo disegno normativo, però, ci sono state una serie di ag-giunte fatte nel tempo, una serie di provvedimenti che, di volta in volta, miravano a rendere ferreo il controllo e il meccanismo di aggiudicazione, ma che hanno prodotto una grande confu-sione. Sono stati, così, necessari continui correttivi, rendendo la normativa così complessa che oggi devi essere un avvocato – e molto bravo – per muoverti nella materia; a noi imprenditori viene chiesto sempre più di essere avvocati, e svolgiamo sempre meno la nostra attività, che è quella di fare impresa4.

4 Paolo Buzzetti (Presidente Ance), in occasione della sua audizio-ne per Italiadecide, 20 gennaio 2009.

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Ampiezza eccessiva, opacità della regolazione e far-raginosità procedurali rappresentano un serio vincolo alla capacità dei dirigenti pubblici di operare con effica-cia nella fase di formulazione e attuazione delle politiche pubbliche.

La complessità normativa incide senz’altro sulla realizza-zione delle opere e costituisce un elemento di grave ritardo: le procedure sono spesso lunghissime. Ho avuto frequentemente occasione di dire che in Italia uno dei compiti più compli-cati e pesanti da svolgere è proprio quello della realizzazione di un’opera pubblica, di una strada, di un’autostrada, perché veramente è una corsa a ostacoli, dove i problemi da superare non finiscono mai5.

Anche gli interlocutori privati scontano le conse-guenze negative dell’instabilità normativa.

Il nostro è un settore che ha dei tempi di reazione estre-mamente lunghi, già solo fare una gara d’appalto richiede più di un anno e, quindi, in generale, ogni volta che si modifica qualcosa, se non migliora in maniera sostanziale, vuol dire che peggiora. La iper-attività legislativa è comunque un problema per noi che abbiamo dei tempi così lunghi, pensate che ci sono delle procedure che durano anni e anni. Dal 2001, anno in cui si è conclusa la Conferenza dei Servizi della variante di valico, a oggi ci sono stati 12 interventi legislativi che hanno richie-sto la parziale riprogettazione… la normativa sugli impianti in galleria, la normativa di sicurezza sui cantieri, la normativa sul-l’appalto, sulle Autorità di bacino ..., ogni volta che cambia un progetto, se non altro, bisogna andare dagli Enti locali per farsi approvare quella variazione e questo attiva un ulteriore iter di negoziazione. Toccare, quindi, il meno possibile, questa sicura-mente è una regola aurea, in un settore così complicato, con tempi di reazione così lunghi e processi che rimangono aperti per un tempo così lungo6.

5 Pietro Ciucci (Presidente Anas), in occasione della sua audizione per Italiadecide, 20 gennaio 2009.

6 Giovanni Castellucci (amministratore delegato Autostrade), in oc-casione della sua audizione per Italiadecide, 20 gennaio 2009.

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In un simile contesto l’instabilità normativa o le diver-genze interpretative accrescono, tanto sul versante ammi-nistrativo che su quello imprenditoriale, l’incertezza orga-nizzativa e i rischi che insorgano dispute, aumentando di conseguenza anche i costi, in termini di tempo, energie, denaro, necessari per avviare e gestire i relativi processi decisionali.

L’eccesso di regolazione accentua dunque la vischio-sità delle procedure, cui concorrono diversi meccanismi:

a) i dirigenti devono raccogliere un maggiore ammon-tare di informazioni sulle caratteristiche della regolazione vigente nella programmazione e attuazione delle politiche infrastrutturali. I decisori sono costretti a spendere un maggiore ammontare di tempo per apprendere ed elabo-rare il dato normativo, così da prevenire o dirimere ra-pidamente dissidi e controversie con altri attori, aventi a oggetto il rispetto delle procedure o i termini di validità della regolazione;

b) in questo clima di incertezza, aumentano per i di-rigenti i rischi di incorrere in errori, incontrare vincoli imprevisti o andare incontro a conseguenze indesiderate (blocchi, ricorsi, contenziosi, ecc.);

c) gli alti livelli di contenzioso che ne conseguono sono un ostacolo ulteriore alla celerità dei processi de-cisionali. L’incerta formulazione delle norme genera in-fatti un’elevata litigiosità, mentre i dirigenti trovano una ragione in più per «decidere di non decidere», in attesa di interpretazioni definitive o di ulteriori riforme sempli-ficatrici. In definitiva, ne risulta rafforzato l’atteggiamento passivo e legalistico dell’alta burocrazia, cui consegue l’al-lungamento dei tempi;

d ) si avvia un processo di «selezione avversa», che nel settore pubblico premia i dirigenti in possesso delle com-petenze tecniche necessarie a gestire non tanto gli aspetti operativi e gestionali dei programmi infrastrutturali, quanto la dimensione normativa e procedimentale, rafforzando ul-teriormente l’orientamento formalistico dell’alta dirigenza;

e) analogamente, anche nel settore privato la necessità di operare in contesto ad alta densità di regolazione genera

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incentivi a privilegiare la gestione del contenzioso, più che la qualità tecnica delle offerte, investendo nell’acquisizione e nella valorizzazione di competenze giuridiche:

C’è, da ultimo, e non dico nessuna novità, ma è un dato di fatto, una qualche tendenza delle imprese di costruzione a ricorrere al contenzioso quale strumento «tattico», a prescin-dere dalla solidità delle tesi sostenute. Dobbiamo, come Anas, gestire un pesante contenzioso amministrativo. Qualcuno scher-zando – ma non troppo – dice che le imprese di costruzioni hanno «più avvocati che non ingegneri in organico!»7

Qualche impresa, negli anni Novanta, si è dedicata con mag-gior impegno al contenzioso piuttosto che a fare il costruttore, guadagnando forse di più che a fare le opere, questo è certo. È così che tutte le imprese hanno, oggi, avvocati agguerritissimi o esterni o interni all’impresa, anche per esigenze di difesa, per-ché i problemi sono quotidiani, dai ricorsi alle contestazioni, e quindi questa parte dell’attività è diventata macroscopica8.

f ) in alcuni casi a queste condizioni di incertezza re-golativa corrisponde un incremento dei poteri esercitati di fatto – ma in forme potenzialmente arbitrarie – dai diri-genti, i quali potranno interpretare in un modo o nell’altro una disposizione normativa ambigua, ipotizzarne (o meno) la violazione, applicare l’una o l’altra norma nei casi incerti. Ne consegue allora una crescita di abusi e corruzione.

3. L’instabilità degli obiettivi e le ambiguità nel rapporto politica-amministrazione

Un profilo generale di criticità è rappresentato dal-l’instabilità o dall’ambiguità degli obiettivi perseguiti nel-l’azione amministrativa, sotto la responsabilità della diri-genza amministrativa. Questo aspetto, infatti, determina impedimenti e contraddittorietà nella definizione degli

7 Dall’audizione di P. Ciucci, cit.8 Dall’audizione di P. Buzzetti, cit.

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obiettivi di lungo periodo delle politiche strategiche e di sviluppo, tra cui anche quelle infrastrutturali.

Questo ulteriore elemento di incertezza è determinato, in primo luogo, dalla possibile incoerenza tra le poste fi-nanziarie definite dai bilanci e i budget a disposizione dei dirigenti per programmare l’impiego dei fattori produttivi (personale, locali, mezzi strumentali, non sempre nella disponibilità immediata dell’amministrazione). Le risorse economiche assegnate ai dirigenti sono la variabile cru-ciale su cui incentrare la valutazione di opportunità e co-sti delle loro decisioni, in relazione ai risultati conseguiti rispetto agli obiettivi prefissati; le grandezze finanziarie pongono invece dei vincoli, rappresentando il quadro di compatibilità da rispettare, il limite esterno per garantire la fattibilità delle scelte. Ne conseguirebbe logicamente una costruzione dei budget contestuale rispetto alla for-mazione dei bilanci, nonostante la loro adozione defini-tiva sia solo successiva9. La non-unitarietà dei processi di adozione dei due tipi di atti comporta invece ricadute problematiche sulla coerenza e sulla sostenibilità delle scelte. Nella prassi si è determinata una discrasia tra la programmazione strategica e la programmazione finanzia-ria. Il processo di programmazione strategica – con la fis-sazione di finalità generali, la loro articolazione in obiet-tivi operativi, la traduzione in programmi di azione e la costruzione di indicatori di performance – in alcuni casi ha inizio dopo l’approvazione del bilancio dello Stato, con la conseguenza che la ripartizione iniziale delle risorse viene effettuata in assenza di una chiara definizione degli obiettivi strategici da conseguire10.

9 Cfr. A. Brancasi, Autonomia budgetaria dei dirigenti e riforma del bilancio, in G. D’Alessio (a cura di), L’amministrazione come professio-ne. I dirigenti pubblici tra spoils system e servizio ai cittadini, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 75-91, spec. p. 90.

10 Cfr. F. Gagliarducci e A. Tardiola, Verifica dei risultati dell’azione amministrativa e valutazione dei dirigenti: profili strutturali, funzionali e retributivi, in G. D’Alessio (a cura di), L’amministrazione come profes-sione. I dirigenti pubblici tra spoils system e servizio ai cittadini, Bolo-gna, Il Mulino, 2008, pp. 159-199, spec. p. 164.

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Un ulteriore fattore di instabilità è rappresentato dalla ciclicità dei vertici amministrativi, connessa al cam-biamento delle maggioranze politiche, che talora induce i decisori a privilegiare obiettivi di breve periodo inter-rompendo, o sottoponendo a modifiche in corso d’opera, interventi strategici di medio e lungo termine, tra i quali, appunto, si annoverano quelli infrastrutturali.

Il sistema amministrativo italiano, del resto, è stato storicamente caratterizzato da una tendenziale ingerenza del potere politico. Questa confusione di ruoli è stata una delle cause della crisi che ha investito l’amministrazione pubblica negli anni Ottanta11 e che le riforme degli anni Novanta hanno cercato di arginare, attraverso una se-rie di provvedimenti finalizzati a realizzare una riforma istituzionale e amministrativa, nonché di ammodernare l’architettura dello Stato12. Uno degli strumenti più evi-denti di questa ingerenza, emerso nella fase più recente della vicenda normativa della dirigenza, è l’introduzione di meccanismi di selezione dell’alta burocrazia caratteriz-zati dal cosiddetto spoil system, istituto caratterizzante il rapporto tra amministrazione e politica negli Stati Uniti d’America13. Pur se introdotto in Italia in forma affievo-lita, allo scopo di incrementare il grado di fiduciarietà del rapporto tra organo politico e organo burocratico, con le modifiche operate dalla legge n. 145/2002 (c.d. legge Frattini)14, questo meccanismo è stato esteso a quote sem-

11 Si veda M.S. Giannini, Rapporto sui principali problemi dell’Am-ministrazione dello Stato, Roma, presentato alle Camere il novembre 1979. Sul c.d. Rapporto Giannini e il relativo contesto amministrati-vo italiano, si veda G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana 1861-1993, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 501 ss.

12 Si pensi, ad esempio, alla l. n. 241/1990, al d.lgs. n. 29/1993, al d.lgs. n. 267/2000.

13 Si veda sul tema M. Rusciano, Dirigenze pubbliche e spoil system, in www.astrid-online.it.

14 La novella del 2002 prevedeva tre forme di spoil system, delle quali una transitoria (o una tantum) e due «a regime» (cessazione auto-matica degli incarichi apicali decorsi novanta giorni dal voto di fiducia del Governo, assoggettamento a conferma, revoca, o modifica, entro sei mesi dal voto di fiducia, delle nomine di organi di vertice e consiglieri

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pre più estese della dirigenza statale15, fino a investire, sia pure in modi e tempi diversi, anche i dirigenti delle am-ministrazioni regionali e locali.

Tali riforme hanno introdotto alcune innovazioni so-stanziali, concedendo maggiore autonomia ai dirigenti, peraltro soggetti a una più intensa pressione competitiva a causa della possibilità di accesso dall’esterno ai ruoli di vertice e di una rafforzata discrezionalità delle nomine. È stata delineata con maggiore precisione la differenziazione tra funzioni di indirizzo e di controllo, affidate ai politici, e di gestione da parte dei dirigenti. La pianificazione per obiettivi prevede infatti la scomposizione delle politiche in una catena che vede la successione di programmazione (definizione degli obiettivi), gestione, controllo e valu-tazione. Il dirigente pubblico si vede così attribuire un ruolo di amministratore dotato di autonomo potere deci-sionale, titolare della gestione di una quota di bilancio e dell’organizzazione delle risorse umane e strumentali, in quanto responsabile del conseguimento dei risultati pre-fissati, oltre che del rispetto delle procedure previste.

I provvedimenti che hanno scandito i passi della ri-forma, e le sue oscillazioni, non sembrano però fornire una cornice adeguata a consolidare la pretesa separazione tra funzioni di indirizzo politico e di gestione amministrativa. In diversi casi il dirigente non acquisisce un effettivo po-tere decisionale, anche quando il vertice politico gli delega formalmente la conduzione di una trattativa o la realiz-zazione di un progetto. Non sembra infatti scongiurato il rischio che si inneschi un processo di «selezione avversa»

di amministrazione di società ed enti pubblici, conferite dall’esecutivo uscente nei sei mesi antecedenti la scadenza della legislatura).

15 Si veda la lettura in senso critico della riforma da parte di S. Cas-sese, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione co-stituzionale, in «Giornale di diritto amministrativo», 2002, pp. 1341 ss., che lamenta il rischio per l’amministrazione di una condizione precaria e destinata ad abdicare al suo ruolo di neutralità rispetto alla politica. Sul tema, si veda anche G. D’Auria, La politica alla (ri)conquista dell’am-ministrazione, in A. Zoppoli (a cura di), La dirigenza pubblica rivisitata: politiche, regole, modelli, Napoli, Jovene, 2004, pp. 95 ss.

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dei dirigenti, premiati in base alla loro rapidità nell’aderire passivamente agli input del vertice politico, piuttosto che per la capacità organizzativa, di analisi critica e di attua-zione delle linee programmatiche. I dirigenti, posti in una condizione di insicurezza e di debolezza contrattuale nei confronti dell’autorità politica, vedrebbero allora in con-creto attenuate le condizioni di autonomia decisionale e gestionale, precondizione all’esercizio efficace dei poteri loro istituzionalmente conferiti. La possibilità di attribuire incarichi dirigenziali di corto respiro e il venir meno del ruolo unico – «mercato» di competenze da cui avrebbero potuto attingere le diverse amministrazioni, ampliando le possibilità di reimpiego delle qualifiche professionali da parte degli stessi dirigenti – contribuiscono ad accrescere il potere negoziale dei vertici politici. C’è poi la possibilità, paventata da più parti, che la politicizzazione delle nomine risulti in definitiva uno strumento per la diffusione a più livelli, con un effetto a cascata, del patronage degli uffici.

La ciclicità dei vertici amministrativi e la loro soggezione di fatto al potere politico finiscono dunque per creare in-stabilità delle linee strategiche e dell’azione amministrativa. Analoghe preoccupazioni sono state rilevate anche dalla Corte costituzionale che, nel dichiarare l’incostituzionalità delle disposizioni della legge n. 145 in tema di spoils system una tantum, di cui all’art. 3, comma 7, in quanto in contra-sto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione, ha evidenziato che esse, determinando un’interruzione automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine prestabilito, vengono meno, in particolare, al prin-cipio di continuità dell’azione amministrativa, strettamente collegato a quello di buon andamento dell’azione stessa16.

16 Cfr. Corte costituzionale, sentenza 23 marzo 2007, n. 103. Su di essa, nonché sulla sentenza n. 104/2007 si veda: F. Jorio, Lo spoil sy-stem viene nuovamente ridisegnato dal giudice delle leggi con le senten-ze n. 103 e 104 del 2007, in www.federalismi.it, aprile 2007; M. Cla-rich, Corte costituzionale e spoil system, ovvero il ripristino di un rap-porto più corretto tra politica e amministrazione, in www.astrid-online.it; G. Corso e G. Fares, Quale spoil system dopo la sentenza 103 della Corte costituzionale?, in www.giustamm.it.

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C’è poi da considerare, a monte della gestione dei processi amministrativi, l’esistenza di problemi di incoe-renza, vaghezza e opacità nella definizione degli obiettivi e delle priorità di medio e lungo periodo delle politiche infrastrutturali, i cui effetti finiscono inevitabilmente per ricadere sulla dirigenza amministrativa, che della loro at-tuazione è responsabile.

Il primo problema che noi abbiamo in Italia è la disartico-lazione pianificatoria: non esiste un piano di lungo termine che dica quali strade si faranno nei prossimi 10, 15, 20 o 30 anni. Questo vuol dire che non esistono più corridoi disponibili e ogni nuova strada deve andare a incidere su insediamenti abi-tativi o industriali, nati nel frattempo, al contrario di quello che avviene in altri paesi che, avendo una pianificazione di lungo termine, hanno normalmente se non l’autostrada, almeno il cor-ridoio lasciato libero per una eventuale autostrada. Abbiamo, poi, il problema della pianificazione, a volte disarticolata, tra ministero centrale, regioni, province, comuni, con la complica-zione che alcune strade sono addirittura di proprietà del dema-nio in gestione alle regioni o alle province… La prima cosa che manca in Italia è una pianificazione di lungo termine integrata, con una definizione di priorità uniche e non, invece, disartico-lata tra i vari livelli pianificatori oggi utilizzati17.

Incertezze e ambiguità accompagnano la stessa pro-grammazione degli obiettivi infrastrutturali, mutevoli a seconda di contingenze imprevedibili, di strozzature nei finanziamenti o dell’altalenante salienza politica delle questioni. Come rilevato anche nell’ultimo rapporto della Banca d’Italia:

Nelle grandi opere la mancata individuazione delle priorità di lungo periodo ha generato la discontinuità e dispersione dei finanziamenti su una molteplicità di lavori: il numero di infra-strutture strategiche prioritarie è passato dagli originali 21 pro-getti a oltre 200. I tempi e i costi di completamento delle linee ferroviarie ad alta velocità, di ampliamento delle autostrade, ma anche di brevi raccordi e passanti sono largamente superiori

17 Dall’audizione di G. Castellucci, cit.

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a quelli degli altri paesi europei: in Italia un km di autostrada può costare il doppio che in Francia o in Spagna. Ne sono causa l’incerta attribuzione di competenze tra il livello decisio-nale nazionale e quello regionale, carenze nelle valutazioni ex ante e nei rendiconti, continui cambiamenti di progetto18.

Nel caso delle politiche infrastrutturali, la cui formu-lazione dovrebbe riflettere interessi collettivi di lungo pe-riodo, in effetti si sono osservati mutamenti significativi di orientamento generale conseguenti al cambiamento degli equilibri politici.

In tutti i governi che si sono succeduti i piani di priorità degli investimenti hanno sempre avuto un valore nettamente superiore alle disponibilità finanziarie e sono stati sviluppati su criteri piuttosto evanescenti. Quando parlo di criteri non mi ri-ferisco a quelli economici e finanziari, ma a quelli politici. Solo scelte politiche coerenti e dichiarate potranno generare piani di investimenti efficaci cui poter dar seguito19.

Se la dirigenza è chiamata a tradurre in politiche e in risultati le indicazioni programmatiche e strategiche dei vertici politici, organizzando in modo efficiente le risorse che le sono assegnate, il circuito si inceppa nel momento in cui viene meno la definizione chiara, univoca e valu-tabile degli obiettivi da perseguire e delle rispettive prio-rità, nonché la predisposizione di indicatori quantitativi della rispettiva performance, condizioni preliminari per la successiva attività di valutazione e per il miglioramento qualitativo di attività, processi e prestazioni.

4. L’assenza di una cultura orientata al risultato

Un ulteriore profilo di analisi, strettamente connesso ai precedenti, riguarda l’assenza di una cultura orientata

18 Cfr. Banca d’Italia, Considerazioni finali, Assemblea ordinaria dei partecipanti, Roma, Banca d’Italia, 2009, pp. 15-16.

19 Cfr. Mauro Moretti (Amministratore delegato Ferrovie dello Stato), in occasione della sua audizione per Italiadecide, 2 dicembre 2008.

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al risultato. La soggezione della dirigenza pubblica nei confronti dei referenti politici dovrebbe, infatti, essere superata anche al fine di riorientare l’agire amministra-tivo al servizio dei cittadini, intesi anche nell’espressione delle loro varie organizzazioni di interessi, e al soddisfa-cimento delle istanze che emergono nelle diverse sedi di confronto. Ciò implica una valorizzazione del profilo ma-nageriale del ruolo del dirigente pubblico, che passa, in primo luogo, attraverso l’attivazione di meccanismi di va-lutazione delle prestazioni dirigenziali, idonei a verificare la capacità di conseguire o meno gli obiettivi assegnati, nonché di monitorare in modo tempestivo ed efficace le relative performance.

Per «attività di valutazione» generalmente si fa riferi-mento a quella realizzata internamente alla struttura am-ministrativa, come uno strumento che le stesse organizza-zioni dovrebbero utilizzare al fine di dirigere al meglio il proprio operato, secondo criteri manageriali20. In realtà, essa dovrebbe essere integrata anche da una valutazione esterna, che, pur se non contempla i processi gestionali preliminari che hanno condotto a un determinato risul-tato, evidenzia la capacità dell’amministrazione di soddi-sfare le istanze della collettività21.

Secondo un giudizio pressoché unanime, la non atti-vazione o il cattivo funzionamento di organismi e mecca-nismi di controllo e valutazione del conseguimento degli obiettivi da parte dai dirigenti, ha rappresentato finora

20 Questa concezione deriva dalle analisi sul funzionamento delle amministrazioni pubbliche orientate dalla scuola del New public mana-gement. La prospettiva, infatti, è quella di trasformazione di apparati burocratici pesanti e governati rigidamente da regole in organizzazio-ni concorrenziali, orientate ai risultati nel perseguimento di obiettivi dettati dalle esigenze degli utenti: «le amministrazioni guidate da una missione lasciano ai propri dipendenti piena libertà nel perseguire la missione dell’organizzazione con i metodi che ritengono più opportu-ni». Si veda D. Osborne e T. Gaebler, Dirigere e governare, Milano, Garzanti, 1995, p. 175.

21 Si pensi, ad esempio, alle indagini di customer satisfaction, previste espressamente dalla Direttiva del ministro della Funzione pubblica sulla rilevazione della qualità percepita dai cittadini, del 24 marzo 2004.

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l’ostacolo più serio alla realizzazione del disegno di ri-forma finalizzato a introdurre nella burocrazia tradizio-nale elementi riconducibili a un moderno management pubblico e, dunque, a una progressiva trasformazione della vecchia burocrazia, basata su procedure e controlli di legittimità, in un soggetto orientato al risultato22. La recente riforma del sistema di controlli e incentivi per i dirigenti cerca di ovviare a queste distorsioni, come la di-stribuzione «a pioggia» degli incentivi, il monopolio del personale interno nei nuclei di valutazione, l’accettazione formale di nuove regole e metodologie, di fatto depo-tenziate dalla loro sostanziale elusione. Ma in assenza di strumenti gestionali coi quali i dirigenti possano tradurre in reale autonomia d’azione i poteri loro attribuiti, si fanno incerti anche i parametri in base ai quali si dovreb-bero valutare i risultati della loro gestione. Per superare simili resistenze appare dunque necessario promuovere la diffusione della cultura del merito, della qualità e dei ri-sultati23.

Competenze e attribuzioni dei dirigenti, in questo qua-dro, diventano al contrario più sfumate, rendendo proble-matica la loro valutazione in base al grado di consegui-mento degli obiettivi. Nel settore delle politiche infrastrut-turali la presenza di una cornice organizzativa che distri-buisce in modo frammentario ruoli dirigenziali per materie o «settori» funzionali, piuttosto che per obiettivi, rende la realizzazione di questi ultimi dipendente dall’azione con-giunta e coordinata di una pluralità di soggetti. Ma se ogni amministrazione procede autonomamente, senza che per i soggetti pubblici coinvolti nel medesimo programma valga una cornice procedimentale unitaria, diventa impos-sibile o del tutto arbitraria anche l’individuazione e la va-lutazione delle singole responsabilità.

22 G. D’Alessio (a cura di), L’amministrazione come professione, Bo-logna, Il Mulino, 2008, p. 26.

23 Cfr. F. Bassanini, I principi costituzionali e il quadro istituziona-le: distinzione fra politica e amministrazione, autonomia e responsabili-tà della dirigenza, in G. D’Alessio (a cura di), L’amministrazione come professione, cit., p. 56.

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In generale, nelle politiche di riforma degli anni No-vanta i tentativi di sviluppare un orientamento manage-riale nella dirigenza pubblica, mediante meccanismi di valorizzazione di competenze professionali e specialisti-che, hanno prodotto risultati a oggi deludenti: mobilità, flessibilità degli organici dirigenziali e sistema di incen-tivazione sono stati ridimensionati in modo significativo, anche a seguito della negoziazione con i soggetti politici e sociali interessati, i sindacati in particolare.

In questo contesto rileva la recente approvazione della legge 15/2009, contenente misure per l’ottimizzazione e la razionalizzazione della Pubblica amministrazione, avve-nuta il 25 febbraio 2009, che prevede anche la rilevazione degli obiettivi effettivamente conseguiti dall’amministra-zione, assicurandone la pubblicità ai cittadini; l’introdu-zione nell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni di strumenti di valorizzazione del merito e metodi di in-centivazione della produttività e della qualità della presta-zione lavorativa; il divieto di corrispondere al dirigente il trattamento economico accessorio qualora abbia omesso di vigilare sull’effettiva produttività delle risorse umane allo stesso assegnate, nonché sull’efficienza della struttura che dirige; infine, la previsione che la retribuzione dei dirigenti legata al risultato non possa essere inferiore al 30% della retribuzione complessiva.

5. L’assenza di una cultura del coordinamento

La moltiplicazione in «orizzontale» e in «verticale» – anche su scala sovranazionale – di enti e organizzazioni pubbliche aventi competenze e funzioni coordinate o par-zialmente sovrapposte nel settore infrastrutturale, conse-guente all’affermarsi di un modello di multi-level gover-nance, determina una stratificazione dei piani di spesa e può finire per appannare le responsabilità individuali nei processi decisionali, rendendo più incerta e sfumata l’at-tribuzione di poteri nelle corrispondenti scelte pubbli-che. Si realizza così una tendenza alla separazione e alla

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«compartimentazione» di settori dell’amministrazione, che non avvertono più l’esigenza di comunicare regolarmente, scambiare esperienze e collaborare con altre organizza-zioni pubbliche nella realizzazione di obiettivi di carattere generale. Di qui un ulteriore fattore di incertezza nella definizione di obiettivi strategici di lungo periodo, tanto nelle politiche per le infrastrutture che in quelle, stretta-mente collegate, dei trasporti:

La frammentazione amministrativa ha però determinato l’assenza di una strategia comune ispirata alla coerenza tra pia-nificazione urbana e politiche dei trasporti, con il risultato che sul territorio trovano risposta oggi soprattutto in una mobilità individuale legata all’utilizzo delle vetture24.

Un profilo rilevante di analisi riguarda dunque la necessità di garantire un adeguato coordinamento tra la molteplicità dei soggetti coinvolti nel settore delle grandi infrastrutture. Accanto ai già numerosi soggetti compe-tenti in materia nell’ambito dell’amministrazione centrale, ovvero il Cipe, il ministero delle Infrastrutture e dei Tra-sporti, il ministero dell’Economia e delle Finanze, il mi-nistero dell’Ambiente, coloro che sono portatori di com-petenze settoriali, quali l’Anas, Ferrovie dello Stato e la Società Autostrade25, devono essere contemplati, infatti, anche gli enti territoriali, ovvero le Regioni e gli Enti lo-cali. La vischiosità dei processi decisionali in questo caso consegue alle difficoltà di comunicazione e di coordina-mento tra i diversi livelli di governo, indotti dell’indebo-lirsi dei meccanismi di reciproco contrappeso, controllo e responsabilità tra i poteri e tra le amministrazioni locali26.

24 Cfr. Ance, Secondo Rapporto sulle Infrastrutture in Italia, Roma, Ance, 2009, vol. I, p. 9.

25 Cfr. A. Mari, Le infrastrutture, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Milano, Giuf-frè, 2003, tomo II, pp. 1861 ss.

26 Una delle soluzioni prospettate chiama in causa le istituzioni co-munitarie come soggetto che fornisca, almeno per quanto riguarda le realizzazioni di respiro europeo, una comune cornice di regolazione sottratta a instabilità normativa e ritardi imputabili ai singoli paesi sul-

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Un primo livello di coordinamento deve realizzarsi nell’ambito dell’apparato amministrativo centrale, nel quale la maggiore criticità è relativa ai modelli operativi di raccordo tra le amministrazioni competenti, il mini-stero dell’Economia e delle Finanze e il Cipe. Il collega-mento tra questi soggetti è, infatti, puramente formale e si innesta in un contesto caratterizzato da strutture che, nel corso del tempo, sono state oggetto di successivi interventi normativi finalizzati alla semplificazione am-ministrativa, ma che non hanno, nella maggioranza dei casi, condotto ai risultati sperati. Le strutture di volta in volta previste dalle leggi settoriali, infatti, raramente sono andate a sostituire quelle preesistenti, ma si sono a esse affiancate o sovrapposte, contribuendo a creare un quadro confuso e disomogeneo. Spesso la pluralità di assetti e moduli organizzativi esistenti, a diversi livelli, all’interno dell’amministrazione pubblica è il frutto di una stratificazione più o meno accidentale di interventi di manutenzione normativa, piuttosto che di un disegno coerente, in assenza di una chiara ripartizione di compiti e mansioni per materie e settori omogenei, nonché di una condivisione di «missioni» e obiettivi di carattere generali.

Paradossalmente, in un quadro di questo tipo, l’oppo-sizione a programmi avviati da altri diventa un’occasione a disposizione di alcuni attori per acquisire un potere di fatto, sebbene solo in qualità di veto-players, all’interno di processi decisionali dai quali sarebbero stati altrimenti ta-gliati fuori, oltre che per conseguire legittimazione e cre-dibilità presso soggetti esterni che si oppongono ai pro-

la base del principio di sussidarietà: «C’è disuniformità tra le diverse aree dell’Ue quanto alla capacità in concreto di attuare gli obblighi co-munitari in materia di infrastrutture», dunque è opportuno «considera-to il ritardo di alcuni paesi sulle infrastrutture di coesione» approvare una disciplina comunitaria quadro « che sottragga ai paesi membri la giurisdizione in materia, favorendo la realizzazione delle infrastrutture di coesione» (Unicredit, Aiscat e Slala, Rapporto infrastrutture strategi-che 2009, citato in http://shippingonline.ilsecoloxix.it/p/porti_e_logisti-ca/2009/06/02/AMAVWPdC-infrastrutture_italia_assente.shtml).

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getti. In alcuni casi vi sono addirittura incentivi econo-mici al blocco dei lavori – è il caso, ad esempio, dei mo-nitoraggi realizzati dalle Arpa – che rendono conveniente allearsi con gli oppositori del progetto, piuttosto che con gli altri attori istituzionali:

ad opere iniziate molto spesso intervengono Enti locali, attra-verso soggetti strumentali, vedi l’Arpa, che sono chiamati a svolgere attività di controllo e monitoraggio, a volte anche su richiesta dell’autorità giudiziaria ordinaria, con costi altissimi. È sufficiente dire che l’Arpa Puglia, intervenuta a Bari per effet-tuare il monitoraggio della qualità dell’aria a seguito dell’ino-pinato rinvenimento di una limitata quantità di amianto, nel corso dei lavori di natura emergenziale per il rafforzamento di un argine in località Cavo di Maso, ha chiesto il pagamento di 1.104,73 euro die. Ciò ha comportato una lunga sospensione dei lavori per l’approvazione di una perizia di variante, la lievi-tazione dei costi (da 2 a 3 milioni di euro) e la contestuale at-tivazione del monitoraggio Arpa, che al termine dell’operazione è venuto a costare ben 79.540 euro27.

Occorre inoltre evidenziare che nella loro configura-zione tradizionale gli uffici vengono ordinati secondo una piramide gerarchica, facente ognuna capo a un ministro; in tal modo, gli uffici, mancando di autonomia, sono, di fatto, ordinati e non coordinati. Il ministero delle Infra-strutture, in particolare, ha mantenuto un assetto orga-nizzativo strutturato mediante una direzione generale, che tende ad accrescere il grado di specializzazione funzio-nale (e quindi di frammentazione), deresponsabilizzando i direttori e accentrando le decisioni al vertice28. Il rischio di questo modello organizzativo, infatti, è che le linee di responsabilità siano definite in modo poco chiaro e non univoco, senza che né i direttori generali, i quali non eser-citano un controllo effettivo delle risorse, né il segretario generale, non necessariamente dotato di professionalità e

27 Cfr. Carlo Schilardi (Prefetto di Bari), in occasione della sua au-dizione per Italiadecide, 1 dicembre 2008.

28 Cfr. E. Gualmini, L’amministrazione nelle democrazie contempora-nee, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 53.

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competenze adeguate, si assumano piena responsabilità dell’efficacia delle politiche e dei risultati conseguiti29.

L’attività di coordinamento, che garantisce una mag-giore autonomia ai decisori pubblici senza precludere un indirizzo unitario verso missioni condivise, appare invece maggiormente coerente con un diverso assetto organizza-tivo, presente in un numero circoscritto di strutture mi-nisteriali, di tipo divisionale30. La differenziazione del la-voro si realizza in questo caso in base al «prodotto» (o servizio) da realizzare, invece che in rapporto alla fun-zione svolta e si affianca, pur senza sostituirli integral-mente, ai tradizionali schemi gerarchici. Il modello divi-sionale, in quanto trasposizione nel settore pubblico di moduli organizzativi affermatisi nel settore privato, attri-buisce un’estesa autonomia ai dirigenti, cui spetta la re-sponsabilità delle risorse umane ed economiche, accom-pagnata da un marcato orientamento al risultato. A livello ministeriale la sua applicazione si traduce strutturalmente nei dipartimenti, cioè in aree di aggregazione di materie e settori omogenei, che impongono autonomia gestionale e responsabilizzazione dei dirigenti nelle politiche di rife-rimento. Si tratta di assetti «reticolari», che alla sempli-ficazione dei livelli gerarchici assommano una maggiore contiguità al territorio, così da recepire più da vicino le istanze sociali.

Un modello di questo tipo sembra indicato a svilup-pare occasioni di cooperazione interistituzionale, partico-larmente auspicabili nei più estesi programmi di natura infrastrutturale. Solo garantendo l’autonomia dei diversi soggetti, nell’ambito di un comune indirizzo di vertice, è del resto possibile conseguire uno sviluppo armonico del-l’ordinamento giuridico, in modo che le singole disposi-zioni siano interpretate come componenti di un sistema normativo ordinato, attenuando gli effetti negativi di dise-conomie, discrepanze e lacune. Attualmente, invece, all’in-

29 Cfr. B. Dente, In un diverso Stato, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 138.30 Cfr. V. Bachelet, Coordinamento, in Enciclopedia del diritto, vol.

XI, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 630-635.

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terno delle medesime amministrazioni coesistono spesso elementi della logica manageriale, fondata sul persegui-mento di progetti più o meno chiaramente definiti e aspetti rispondenti alla logica della verticalizzazione burocratica, con un adattamento a geometria variabile: da un lato una frammentazione interna ai diversi ambiti organizzativi, dal-l’altro l’impiego di differenti logiche di funzionamento an-che all’interno della medesima struttura pubblica31.

Una delle conseguenze più rilevanti della mancanza di coordinamento è la dilatazione dei tempi procedurali necessari per avviare operativamente la realizzazione di grandi opere, per la quale anche la c.d. legge Lunardi non ha saputo trovare una soluzione efficace. Secondo il primo Rapporto sulle grandi infrastrutture realizzato dal-l’Ance, infatti, il tempo mediamente necessario per giun-gere al progetto preliminare è di 671 giorni, il doppio di quanto occorrente per le procedure ordinarie (precedenti alla legge Lunardi); anche per quanto attiene al raggiun-gimento del progetto definitivo, oggi sono necessari 1071 giorni, contro i 642 previsti precedentemente32. Persino l’individuazione del Cipe quale soggetto competente per l’approvazione delle opere strategiche non ha condotto ai risultati auspicati: a fronte dei 180 giorni previsti dalla legge, quelli effettivamente occorrenti sono 721. Alla ra-dice di questa vischiosità procedurale, tra l’altro, è il mancato adeguamento dei meccanismi di funzionamento del Cipe alle modifiche necessarie per garantire l’assolvi-mento dei nuovi compiti attribuiti, determinando quello che è stato definito «l’effetto imbuto»33.

I reiterati tentativi di introdurre una figura di riferi-mento per coordinare l’attuazione delle politiche per le infrastrutture strategiche di interesse nazionale hanno portato, nel febbraio 2007, all’istituzione della figura dei

31 Cfr. M. Cotta e L. Verzichelli, Il sistema politico italiano, Bolo-gna, Il Mulino, 2008, pp. 231-232.

32 Cfr. Ance, Rapporto sulle infrastrutture in Italia, Roma, Ance, 2005.33 G. Alberghetti, Il libro nero del Governo Berlusconi, Roma, Nu-

trimenti Srl, 2005, p. 44.

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Commissari straordinari, con nomina dei Provveditori interregionali alle opere pubbliche. Ai Commissari sono attribuite funzioni di impulso e di coordinamento, attra-verso attività istruttorie e di collaborazione con i soggetti aggiudicatari e gli enti interessati. Promuovendo intese tra i diversi soggetti pubblici e privati e seguendo l’anda-mento delle opere nelle diverse fasi realizzative, i Com-missari acquisiscono – in caso di inerzia o d’inadempi-mento dei soggetti titolari delle responsabilità corrispon-denti – il potere di adottare provvedimenti e atti neces-sari alle fasi di progettazione, istruttoria, affidamento e realizzazione delle opere. In generale, il ministro delle in-frastrutture può conferire ai Commissari obiettivi puntuali volti a individuare e superare, formulando proposte e av-viando iniziative conseguenti, eventuali criticità riscontrate nella realizzazione delle opere.

Il conferimento ai provveditori interregionali di re-sponsabilità di impulso e di coordinamento nelle politiche per le grandi opere, riflette il tentativo da parte dei ver-tici politici di valorizzare le professionalità dirigenziali e le competenze tecniche esistenti presso le strutture decen-trate del ministero delle Infrastrutture, peraltro in sinto-nia con l’obiettivo di contenimento della spesa pubblica, trattandosi di interventi a costo nullo. Non vi sono ancora riscontri significativi sull’efficacia dei Commissari straordi-nari, in termini di successi nella negoziazione di accordi o di riduzione dei tempi di realizzazione, che nel caso delle grandi opere pubbliche rimangono particolarmente ele-vati34. È stato sottolineato come questi risultati insoddisfa-centi siano riconducibili anche alla mancata attribuzione di

34 Secondo uno studio del Dipartimento per le politiche dello svi-luppo del ministero dello Sviluppo economico, in Italia per realizzare un’opera pubblica dal valore superiore ai 50 milioni di euro occorrono in media 3.942 giorni (10 anni, 9 mesi e 15 giorni); per la progettazio-ne occorrono 1.204 giorni (3 anni e 4 mesi); tra gara e aggiudicazione circa un anno, mentre i restanti 2.372 giorni (6 anni e mezzo) sono necessari per la realizzazione materiale (Cfr. A. Boitani, Perché le gran-di opere non servono contro la recessione, in http://www.lavoce.info/ar-ticoli/-300parole/pagina1000786.html).

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poteri di ordinanza ai Commissari, che dunque si trovano con le armi spuntate di fronte alle resistenze di chi «non si vuole far coordinare»35. La precedente esperienza dei commissari straordinari – strada già tentata tra il 2002 e il 2006 – non risulta degna di nota, anche perché le qualità professionali dei soggetti istituzionali cui sono state dele-gate queste nuove mansioni e poteri non sembrano rispon-dere alle necessità organizzative e alle nuove competenze negoziali, necessarie per svolgere efficacemente le funzioni di coordinamento e di supervisione.

Neppure l’istituzione di una segreteria tecnica di mis-sione nell’ambito del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha determinato miglioramenti significativi nei tempi delle procedure, soprattutto a seguito delle criticità riscontrate nel raccordarsi con le altre amministrazioni e, in particolare, con il ministero dell’Economia e delle Finanze, a causa dell’assenza di procedure consolidate e di un si-stema informativo unitario che permettessero un coordina-mento e un’interconnessione tra le diverse strutture36.

L’elemento che, pertanto, appare più di ogni altro ca-rente nell’attuale quadro organizzativo relativo alle grandi opere è la presenza di uffici ad hoc, idonei a superare l’attuale approccio meramente procedurale, fungendo da snodo di coordinamento tra i centri decisionali coinvolti. Simili strutture presentano però due rischi, ossia 1) di raccogliere personale inadeguato sotto il profilo di com-petenze e capacità, visto che i diversi enti tendono a trat-tenere presso di sé i soggetti più qualificati 2), di creare assetti organizzativi «rigidi» e autoreferenziali, dal mo-mento che, una volta costituire, tali strutture sono inevita-

35 Cfr. Antonio Bargone (Presidente della Società Autostrada Tirre-nica Spa), in occasione della sia audizione per Italiadecide, 1 dicembre 2008.

36 La Corte dei conti, nella Relazione n. 8/2005 concernente «Lo stato di attuazione della Legge obiettivo», ha evidenziato che «detti strumenti – sovente esternalizzati – comportano costi rilevanti … ma non sono idonei a rappresentare scenari globali di dialogo e integra-zione con altri sistemi … Ciò comporta la moltiplicazione dei costi di raccolta del dato».

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bilmente difficili da smantellare, così come problematico risulta reintegrare il personale comandato nelle proprie sedi originarie.

Affinché questo passaggio possa realmente produrre i risultati auspicati è necessario allora che tali uffici siano concepiti con una struttura adeguata alla gestione delle politiche dei grandi lavori pubblici, ovvero che conten-gano in sé le risorse umane e finanziarie necessarie per lo svolgimento di tale compito. In caso contrario, le nuove strutture rischiano di accrescere ulteriormente la già ele-vata vischiosità dei procedimenti:

bisogna usare con prudenza la figura del Commissario straordi-nario, perché se con il commissariamento si attribuiscono poteri straordinari, quindi di semplificazione sul piano amministra-tivo a un soggetto tecnicamente dotato per la realizzazione di un’opera, reputo che ciò sia utile. È il caso di un’opera stradale, già affidata all’Anas, per la quale si concede allo stesso Direttore regionale di accelerare le procedure con poteri commissariali. Se invece si creano strutture ex novo, con personale raccogliticcio proveniente da più uffici (magari nemmeno il personale migliore, perché ciascun Ente tende a trattenerlo), di fatto si istituisce una struttura culturalmente e tecnicamente non ben dotata e, quel che è peggio, complessa poi da smantellare, perché risulta diffi-cile dopo anni far ritornare le persone ai rispettivi uffici37.

Il Commissario … deve essere il responsabile del proce-dimento, non deve essere uno che affianca e controlla chi poi deve realizzare il procedimento, sia nel discorso di progetta-zione che di esecuzione, altrimenti rischiamo di creare due fi-gure che in qualche modo si guardano in cagnesco… Il Com-missario, che può benissimo essere un presidente di Regione, un Sindaco, un Provveditore alle opere pubbliche di quella de-terminata Regione, un Prefetto in sede, ecc., deve potersi avva-lere di quelle che sono le strutture pubbliche già esistenti38.

Nel corso delle audizioni è stata richiamata in modo particolare l’esperienza dei Prefetti, quali possibili collet-

37 Dall’audizione di C. Schilardi, cit.38 Cfr. Guido Bertolaso (Direttore Dipartimento protezione civile),

in occasione della sua audizione per Italiadecide, 2 dicembre 2008.

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tori di istanze e strumento di raccordo tra i diversi sog-getti istituzionali:

Se il Commissario straordinario è un organismo che è in carica, in questo caso il prefetto della sede che assume anche questa qualità può funzionare, e generalmente funziona piutto-sto bene, se si crea un Commissario diverso, esterno, le cose non vanno più così bene perché credo che manchi la spinta che l’essere Prefetto in sede dà alla stessa autorevolezza, alla stessa capacità di intervento del Prefetto sui singoli temi… In realtà la gente vede ancora il Prefetto … come un interlocutore affidabile e un’interfaccia indispensabile nei rapporti con gli al-tri livelli istituzionali39.

Non è tanto l’attribuzione di poteri straordinari a qua-lificare il possibile contributo dei Prefetti, quanto piutto-sto l’attribuzione di una specifica funzione di coordina-mento per facilitare il consolidarsi di rapporti cooperativi tra gli interlocutori istituzionali e privati. In questo qua-dro i Prefetti possono contare, oltre che sulla loro auto-revolezza, su un patrimonio di capitale relazionale, deri-vante dalla loro posizione strategica nel reticolo di orga-nismi e connessioni interistituzionali:

attraverso il complesso degli organismi che presiedono – Co-mitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, Con-ferenza permanente, Comitato di Protezione civile, Consiglio territoriale per l’immigrazione – i Prefetti cercano di realizzare una visione complessiva dei problemi. Con l’ausilio di tutti gli organismi e gli Enti interessati cercano poi di individuare la migliore soluzione o quanto meno il percorso da seguire per la migliore soluzione del problema, lasciando agli organismi ordi-nari il compito di procedere secondo i binari consueti per la concreta realizzazione della soluzione individuata40.

In questa attività i Prefetti sono utilmente coadiuvati negli aspetti specialistici da Osservatori tecnici. Si prenda

39 Cfr. Franco Musolino (Prefetto di Reggio Calabria), in occasione della sua audizione per Italiadecide, 1 dicembre 2008.

40 Cfr. Paolo Padoin (Prefetto di Torino), in occasione della sua au-dizione per Italiadecide, 1 dicembre 2008.

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ad esempio l’esperienza della Val di Susa, per la quale l’osservatorio:

è un organismo tecnico, che ha sede in Prefettura, ed è presie-duto da un commissario governativo e a cui partecipa anche il Prefetto o un suo delegato. Parallelamente a quest’organismo è stata attivata anche una distinta conferenza locale, alla quale par-tecipano il Prefetto, il Presidente e i principali membri tecnici dell’Osservatorio, i Sindaci, la Regione, la Provincia, nell’ambito della quale si attiva il necessario dialogo tecnico/amministrativo con i Sindaci, che sono così posti in grado di essere compiuta-mente informati e d’informare a loro volta la popolazione41.

L’opera di coordinamento trova realizzazione non sol-tanto tra i diversi soggetti coinvolti a livello centrale, ma anche tra questi ultimi e gli enti territoriali. Molto spesso, infatti, le problematiche locali che non sono state tenute in debita considerazione a livello centrale hanno costituito in seguito motivo di rallentamento, se non addirittura di blocco, nella realizzazione delle opere pubbliche. Risulta quindi determinante approntare canali di dialogo, adot-tando un orientamento cooperativo che porti a contem-perare le esigenze contrapposte privilegiando l’assunzione di decisioni condivise.

Ciò dovrà realizzarsi anche nel rapporto con i privati, cercando di ridurre i contrasti, sovente aspri, che possono condurre a rallentamenti delle procedure di progettazione e a una lievitazione considerevole dei costi. Una soluzione auspicabile è l’introduzione di politiche orientate alla tra-sparenza, tali da accrescere la fiducia dei privati nei con-fronti dell’agire amministrativo, smorzando la conflittua-lità sul terreno dei problemi concreti:

per creare un circolo virtuoso occorreva avere un’analisi di progetto che tenesse conto di tutti i fattori geografici, ambien-tali, sociali, di sviluppo, tenuto conto dei problemi derivanti dall’esistenza di tante infrastrutture concentrate in una ridotta realtà territoriale, e che soprattutto offrisse soluzioni tecniche compatibili con le esigenze delle collettività locali. A tal fine

41 Dall’audizione di P. Padoin, cit.

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sono stati coinvolti i tecnici delle amministrazioni locali per ar-rivare a una scelta di percorso condiviso42.

Per garantire una maggiore accessibilità alla procedura e prevenire successivi contenziosi occorre dunque favorire un contraddittorio e un’analisi approfondita delle istanze dei privati e delle collettività locali, particolarmente sensi-bili a interventi che incidono su interessi ambientali, che maggiormente suscitano l’opposizione delle comunità lo-cali, sull’esempio di quanto previsto dalla normativa di paesi con una più efficiente dotazione infrastrutturale43.

6. L’impoverimento delle competenze tecniche e l’inadegua-tezza dei processi di selezione e formazione dei dirigenti

Il problema dell’inadeguatezza e dell’insufficiente do-tazione delle competenze tecniche è generalizzato nel si-stema amministrativo italiano: infatti, secondo dati della Corte dei conti, l’indice di copertura del personale tec-nico su tutto il territorio nazionale non supera il 50% della pianta organica. Questa situazione determina un in-debolimento dell’apparato tecnico dello Stato, che, conse-guentemente, non appare più in grado di realizzare diret-tamente la progettazione preliminare, né di controllare e verificare in modo puntuale la qualità della progettazione affidata a soggetti esterni. La lentezza delle procedure di progettazione delle opere produce conseguenze partico-larmente negative sui tempi, sui costi e sull’efficacia delle politiche infrastrutturali, in particolare su quelle che ri-chiedono profili più elevati di competenze nei campi della progettazione e della pianificazione del territorio.

42 Dall’audizione di P. Padoin, cit.43 Si considerino, ad esempio, gli istituti del débat public francese,

o al public inquiry inglese. Sul punto, cfr. S. Cassese, La partecipazio-ne dei privati alle decisioni pubbliche. Saggio di diritto comparato, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2007, pp. 3 ss., e L. Casini, L’inchiesta pubblica. Analisi comparata, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2007, pp. 43 ss.

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Eventuali carenze progettuali non sono di norma se-gnalate dalle imprese concorrenti in sede di gara d’ap-palto, nel momento della formulazione delle offerte, poi-ché il loro obiettivo prioritario è di aggiudicarsi i lavori, e l’imperfezione dei progetti consente loro di ritagliarsi suc-cessivamente margini di recupero sui ribassi offerti. Tali difetti gravano però sulla procedura in una fase succes-siva, alimentando il contenzioso e determinando così una lievitazione dei costi:

A volte ho l’impressione che le imprese, nel partecipare al le gare, non abbiano un approccio razionale nell’esame dei diversi aspetti, delle quantità e dei prezzi, ovviamente ancora prima della progettazione, per vedere se ci sono dei problemi rispetto al progetto che mettiamo in gara; non riceviamo quasi mai dalle imprese contestazioni tecniche nella fase di gara per dire, ad esempio, che quel viadotto non tiene, quella galleria ha una copertura troppo bassa o cose di questo genere. Quindi il sospetto è che il numero del ribasso che si mette nella busta di offerta venga deciso soltanto valutando con l’esperienza quanto è necessario offrire per aggiudicarsi il lavoro. La fase vera di contrasto inizia dopo l’aggiudicazione e si chiama contenzioso, o comunque pre-contenzioso, dovendo magari l’impresa recupe-rare delle perdite potenziali connesse a un ribasso d’asta troppo elevato. Una buona progettazione è un punto di partenza es-senziale anche per contenere le occasioni di contenzioso con le imprese, più la qualità del progetto è buona, più si riduce lo spazio anche per chi vuole fare del contenzioso strumentale44.

Come testimoniato da alcuni studi45, del resto, oltre la metà degli interventi di realizzazione di opere pubbli-che (il 53% per le opere strategiche e il 57% per i la-vori ordinari) è interessata da varianti in corso d’opera, che comportano non soltanto un allungamento dei tempi di realizzazione del progetto, ma anche una lievitazione di costi. Queste modifiche sono causate, in primo luogo, dalla scarsa qualità della progettazione, riconducibile in

44 Dall’audizione di P. Ciucci, cit.45 Cfr. Ance-Agi Rapporto sulle infrastrutture in Italia, Roma, Edil-

stampa, 2005.

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ultima analisi alla crisi degli apparati tecnici che da sem-pre fanno capo al ministero delle Infrastrutture. Un tratto che accomuna paesi come Germania, Francia, Gran Bre-tagna e Spagna, tra le prime al mondo per qualità delle politiche infrastrutturali, è, al contrario, la grande atten-zione prestata alla completezza e alla precisione dei pro-getti e degli atti tecnici a esso correlati, oltre al controllo dell’esecuzione46.

A questi fattori si sommano i disorganici interventi nella fase di definizione dei contenuti progettuali, che riflettono aggiustamenti contingenti e modifiche conse-guenti all’intervento disorganico dei differenti soggetti istituzionali coinvolti:

Sebbene esista un generalizzato problema di perdita di ca-pacità progettuale, il dato non è legato tanto a una mancanza di capacità tecnica, quanto a come viene il progetto costruito … la verità è che non c’è un responsabile unico del progetto; una volta realizzato un progetto, prima che sia approvato e si proceda alla gara, viene rimaneggiato più volte nel corso degli anni, sia per interventi degli Enti locali interessati dall’opera, sia perché, comunque, nel lungo periodo, si rendono sempre necessari rimaneggiamenti di vario genere. Benché, apparente-mente, possa sembrare un vantaggio per le imprese, perché di fronte a un progetto fatto male si possono chiedere dei miglio-ramenti anche in corso d’opera, alla lunga sta diventando un disastro, perché poi ci sono contenziosi e i problemi nell’ese-cuzione. La perdita di capacità di progettazione sta proprio in questo: bisognerebbe nella fase di progettazione responsabiliz-zare la Pubblica amministrazione, nel senso di avere un respon-sabile unico che segua dall’inizio alla fine e che sia responsabile del prodotto finale che poi viene messo in gara47.

Riveste, pertanto, un ruolo fondamentale ai fini del-l’abbattimento dei tempi di realizzazione delle opere in-frastrutturali, nonché dei relativi costi, il rafforzamento a ogni livello delle competenze tecniche degli apparati

46 Cfr. B. Argiolas, Gli ostacoli normativi alla realizzazione delle grandi opere pubbliche, Isea, giugno 2008, p. 6.

47 Dall’audizione di P. Buzzetti, cit.

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pubblici, caratterizzati al contrario da una preponderante presenza della componente giuridica. Occorre dunque in-vestire nella riqualificazione delle capacità organizzative e progettuali dell’amministrazione, e, dove necessario, ac-quisire competenze esterne, ponendo le basi per la defini-zione di bandi di gara che consentano un sollecito avan-zamento delle diverse fasi di realizzazione delle opere. È una strada già percorsa con successo in alcuni paesi stra-nieri, come mostra il caso seguente:

dovremmo pensare di investire di più nell’articolazione del bando e nell’articolazione dell’oggetto della concessione per poter, poi, perdere molto meno tempo a valle. Faccio un esempio: in Au-stria noi abbiamo vinto ed eseguito la gara per il pedaggiamento di tutta la rete austriaca nel 2002, allora l’Anas locale insieme al governo avevano lavorato per due anni sul bando, definendo nei minimi dettagli ogni possibile clausola, ogni possibile situa-zione, investendo circa 10 milioni di euro anche di consulenze per fare questo bando, però era fatto talmente bene che in 18 mesi sono riusciti ad arrivare all’implementazione del progetto senza neanche un giorno di ritardo o un euro perso. Un investi-mento, quindi, superiore nell’articolazione del progetto, che ha permesso poi di andare molto più spediti a valle48.

Sotto questo profilo si possono distinguere almeno due aree critiche, che rappresentano altrettanti settori di possibile intervento. Da un lato la persistente rigidità dei vincoli che disciplinano le politiche per la gestione del personale, a giudizio degli stessi dirigenti uno dei fattori che grava maggiormente sull’efficacia del loro esercizio di responsabilità gestionali nei processi decisionali. Esiste, in altri termini, una frizione tra il disegno complessivo delle riforme avviate negli anni Novanta, che assegnano cre-scenti poteri ai vertici amministrativi, e la loro difficoltà – nel peggiore dei casi l’impossibilità – di coordinare con piena autonomia l’organizzazione del personale, in termini di selezione, valorizzazione di competenze e merito, san-zioni. Questo determina ricadute negative sulla qualità del

48 Dall’audizione di G. Castellucci, cit.

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contributo dei dirigenti amministrativi alla formulazione e all’implementazione delle politiche infrastrutturali. Non è sufficiente infatti l’introduzione di criteri privatistici di valutazione del merito se per i responsabili amministrativi permane l’impossibilità di selezionare, promuovere o pe-nalizzare funzionari e dipendenti in base alle loro capa-cità tecniche e organizzative.

In secondo luogo, attraverso opportuni meccanismi di accesso e valorizzazione, è opportuno integrare il genere di competenze professionali fin qui prevalenti a livello di dirigenza amministrativa, in particolare nelle strutture coinvolte a vario titolo nella formulazione e attuazione delle politiche infrastrutturali. La diffusione di una cul-tura amministrativa orientata alla gestione efficiente delle risorse, al conseguimento dei risultati operativi e alla rea-lizzazione di missioni condivise, infatti, è una premessa per l’adesione dei dirigenti amministrativi a ruoli attivi di stimolo e coordinamento.

Al contrario, nell’amministrazione italiana appare tut-tora largamente predominante una cultura organizzativa di tipo formalistico, sedimentatasi nel tempo attraverso percorsi di accesso e di carriera basati essenzialmente sul-l’acquisizione di competenze giuridiche, improntata all’at-tenzione pressoché esclusiva al rispetto dei vincoli di legge, dominata da una concezione dell’agire amministrativo come mera adesione al dato normativo, e priva di particolari at-tenzioni agli esiti dei processi decisionali. Un orientamento più sensibile alla dimensione gestionale e ai risultati stenta ad affermarsi nella dirigenza pubblica anche a seguito del persistente intreccio con un modello di «cultura contabile», frutto del condizionamento – diretto e indiretto – esercitato della Ragioneria generale dello Stato, che riflette una meto-dologia di amministrazione poco incline a responsabilizzare il management, senza alcuna idea di programmazione, con una visione dell’agire amministrativo come somma di mi-cro-fasi procedimentali, in assenza di alcuna visione com-plessiva di natura strategica e progettuale.

La natura delle competenze professionali qualificanti e prevalentemente utilizzate dai vertici amministrativi è tra-

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dizionalmente di carattere giuridico/legale, piuttosto che tecnico o manageriale/organizzativo. Selezionati e assog-gettati a una formazione di base di tipo generalista, essen-zialmente fondata su nozioni di diritto amministrativo e operanti in contesti ad alta densità di regolazione, spesso i dirigenti finiscono così per ritagliarsi all’interno del policy making funzioni di «consulenza giuridica», particolarmente richieste proprio a causa della complessità della cornice regolativa49. In un «ecosistema amministrativo» di questo tipo, infatti, le competenze che vengono premiate sono quelle che permettono di meglio comprendere e di leggere – di solito in termini prudenziali – il dettato normativo, magari attraverso interpretazioni congruenti ai desideri dei vertici politici o scorciatoie, laddove condotte più «crea-tive» si scontrano con un accresciuto rischio di conten-ziosi, ricorsi, sanzioni (di natura disciplinare, penale, civile, contabile). Si consolida così un orientamento legalistico e formalistico, caratterizzato da un legame debole con gli obiettivi specifici e le «missioni» delle amministrazioni in cui i dirigenti operano. Il paradigma tradizionale su cui si fonda questo approccio, infatti, enfatizza la relazione de-duttiva, di natura consequenzialista, tra input (regolazione) e output (azione amministrativa), l’importanza delle strut-ture organizzative più che delle politiche, il predominio incontrastato dei controlli preventivi di legittimità50.

Viceversa, appare marginale una mentalità di tipo manageriale, attenta ai risultati e al conseguimento degli obiettivi, ai processi concorrenziali e alle capacità orga-nizzative necessarie a coordinare l’azione dei dipendenti, o a svolgere un ruolo attivo di cooperazione sui singoli programmi con altri attori istituzionali:

49 Cfr. S. Fabbrini e S. Vassallo, Il governo. Gli esecutivi nelle de-mocrazie contemporanee, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 244; G. Capano e S. Vassallo, La dirigenza pubblica: il mercato e le competenze dei ruoli dirigenziali, cit., p. 79.

50 Cfr. G. Capano, Administrative Traditions and Policy Change: When Policy Paradigms Matter. The Case of Italian Administrative Re-form During the 1990s, in «Public Administration», 81, 4, 2004.

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grazie all’articolazione del bilancio dello Stato per programmi per la prima volta io, come Capo Dipartimento, dispongo di uno strumento di controllo di gestione…. È evidente che il meccanismo è ancora farraginoso, prima di tutto non è stato accompagnato da un’attività di formazione, cioè la Pubblica amministrazione spende molto poco per la formazione dei pro-pri dirigenti… ho cominciato a capire che in realtà con quello posso controllare l’attività dei miei dirigenti, posso controllare lo stato d’avanzamento dei lavori, insomma, ho uno strumento di contabilità industriale…, è chiaro, però, che in assenza di una formazione sulla capacità di utilizzo dello strumento, una formazione dedicata in primo luogo a noi, ai vertici dell’ammi-nistrazione, che sono chiamati a fare un compito nuovo…51

Emerge dunque una domanda, in larga misura ancora inevasa, di adeguamento professionale e culturale alle nuove esigenze gestionali della dirigenza, in cerca di rispo-sta in termini di appropriate politiche formative. È sen-tita, da parte degli stessi dirigenti, la necessità di integrare la loro preparazione di natura giuridica e contabile con competenze manageriali, concernenti la gestione dei pro-cessi, l’analisi e la soluzione dei problemi, la capacità di affrontare in modo rapido e coerente processi decisionali. Si tratta dell’espressione di una tensione irrisolta tra l’en-fasi posta, nell’impostazione generale delle riforme e nella comunicazione pubblica, sul ruolo gestionale, proattivo, orientato al problem solving della nuova dirigenza e i per-corsi di selezione di formazione del personale dirigenziale, che sono ancora a oggi improntati alla trasmissione e alla verifica di conoscenze di carattere giuridico-formale52.

La predisposizione di efficaci percorsi di formazione e qualificazione professionale può attivare processi di appren-

51 Cfr. Andrea Bianchi (Capo Dipartimento Regolazione del Merca-to, ministero dello Sviluppo Economico), in occasione della sua audi-zione per Italiadecide, 12 novembre 2008.

52 C. Santarsiero, Analisi dei percorsi dei «dirigenti di successo», Roma, Ssup, in http://www.sspa.it/ArchivioCD/RicercheSSPA.CD2/A_PM/R1/Parte2cap%202santarsiero.pdf, p. 35; R. Lewanski e S. Vassal-lo, I nuovi dirigenti comunali. Esterni o interni: fa differenza?, in «Rivi-sta italiana di politiche pubbliche», 1, 2002, pp. 99-135.

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dimento tra i dirigenti operanti in amministrazioni attive nel settore delle politiche infrastrutturali, in un contesto organizzativo aperto e concorrenziale entro il quale siano incoraggiati l’acquisizione e lo scambio di esperienze e best practices. Un ambiente istituzionale con queste caratteristi-che, delineato a grandi linee dalle riforme avviate negli anni Novanta, richiede un adeguato investimento in istituzioni formative in grado di fornire abilità orientate alla gestione delle politiche pubbliche. Il modello di un’agenzia per la formazione dei dirigenti e dipendenti delle amministra-zioni pubbliche, delineato dalla legge finanziaria del 2006 ma non attuato, non è l’unico ipotizzabile. In alternativa, così come in Francia, si può preservare una pluralità di Scuole – sul modello della Scuola Superiore della Pubblica amministrazione – in grado di trasmettere conoscenze più specifiche rispetto alle competenze richieste e ai differenti settori di attività delle nuove leve dirigenziali.

Se ai dirigenti pubblici sono delegate attività di coordi-namento, controllo e raccordo con il territorio nell’ambito delle politiche infrastrutturali, una migliore qualificazione tecnica del personale – secondo le specifiche esigenze or-ganizzative e formative richieste – appare una precondi-zione per l’auspicabile consolidarsi di un senso di condi-visione di «missioni» e obiettivi all’interno dell’organizza-zione pubblica. La scarsa omogeneità dell’alta dirigenza, la mancanza di uno spirito di corpo, l’assenza di percorsi formativi condivisi o di un senso di appartenenza, disin-nescano infatti i meccanismi di controllo informale fon-dati sulla peers pressure53. Inoltre, l’affermarsi di modelli e orientamenti culturali favorevoli al lavoro di squadra e alla collaborazione verso la realizzazione di «missioni» comuni, piuttosto che verso l’adempimento di mansioni e l’attua-zione di norme calate dall’alto, mediante parcellizzazione dei compiti, può favorire la creazione di un tessuto di re-

53 Cfr. C. Santarsiero, Analisi dei percorsi dei «dirigenti di successo», cit., p. 5; S. Cassese, Italy’s Senior Civil Service: An Ossified World, in E.C. Page e V. Wright, Bureaucratic Elites in Western European States, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 55-65, spec. p. 63.

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lazioni fiduciarie all’interno dell’amministrazione. Il con-solidarsi di reti di comunicazione e di fiducia rappresenta infatti un prerequisito al buon funzionamento dell’organiz-zazione: moltiplicando le occasioni di incontro, scambio e apprendimento dalle esperienze altrui, sono incoraggiate le attività di coordinamento che, come si è visto, rappre-sentano un ingrediente essenziale di politiche ad alta den-sità di attori istituzionali e di interessi, come quelle per la realizzazione delle grandi infrastrutture.

7. L’utilizzo di misure di «customer satisfaction» nell’am-bito delle politiche infrastrutturali

La presenza e l’istituzionalizzazione di meccanismi di ascolto e rilevazione delle preferenze inespresse dei citta-dini, di raccolta di istanze e di misurazione del grado di soddisfazione dei servizi e delle prestazioni erogate, per-mette di consolidare e di legittimare i processi decisionali che accompagnano formulazione e attuazione delle po-litiche pubbliche. Anche in questo campo vi sono state, a partire dagli anni Novanta, innovazioni significative sul versante del rapporto tra amministrazioni e cittadini-utenti. Rientrano in questo ambito, infatti, i tentativi di misurare, mediante rilevazioni periodiche, la qualità dei servizi pubblici percepita dagli utenti: la cosiddetta cu-stomer satisfaction (Cs). L’obiettivo è quello di conoscere e controllare l’efficacia delle politiche e degli strumenti impiegati, nonché il loro stato di attuazione, guardando all’esito di tali processi dal punto di vista degli utenti, in modo da articolare tempestivamente eventuali correttivi. L’istituzionalizzazione della Cs rientra in una più ampia strategia europea, coerentemente con la risoluzione adot-tata nel giugno 2007 nella riunione di Berlino tra i ministri europei della Pubblica amministrazione, che in Italia ha ricevuto impulso con la direttiva del marzo 2004 del mini-stero della Funzione pubblica.

L’attenzione alla Cs è parte di una più estesa ridefini-zione del concetto stesso di qualità delle prestazioni am-

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ministrative, non esprimibile soltanto in termini di corretto adempimento nel rispetto di regole e procedure, coerente-mente con il tradizionale paradigma legalistico, ma neppure come mera efficacia nel perseguimento di finalità prefissate ex ante e calate dall’alto. Il passaggio verso la Cs rispecchia infatti l’idea che gli stessi obiettivi delle politiche possano emergere in un processo di feedback tra processi e deci-sioni amministrative e rilevazione di necessità, interessi e percezioni dei destinatari, il che presuppone una disposi-zione all’ascolto, all’apprendimento e una capacità di rispo-sta in tempi rapidi da parte dei dirigenti. Così concepita, l’attuazione di misure di Cs può rendere palesi aspettative ed esigenze dei cittadini, nonché il loro grado di soddisfa-zione per le politiche in atto; favorire la comprensione dei bisogni latenti; raccogliere idee e suggerimenti; migliorare la conoscenza dei problemi; verificare e comprendere il grado d’efficacia delle politiche; rafforzare il livello di co-municazione e di fiducia dei cittadini nei confronti della Pubblica amministrazione54. Si tratta, in altri termini, di uno strumento coerente con l’idea del potenziale contributo dei dirigenti alle politiche pubbliche come attività, in una certa misura «creativa», di scoperta della natura e dell’intensità di preferenze e interessi collettivi in gioco, nonché degli stru-menti per soddisfarli efficacemente attraverso un compro-messo tra le istanze pubbliche e private in gioco.

Nell’ambito delle politiche infrastrutturali l’eventuale utilizzo dei meccanismi di Cs da parte dei dirigenti ri-chiede particolari adattamenti alle peculiarità del settore. A differenza dell’erogazione dei servizi, dove non a caso la Cs ha trovato la principale sede di applicazione (front-of-fice, prestazioni sanitarie, Università, Agenzia delle entrate, ecc.), la realizzazione di opere e infrastrutture pubbliche presenta per sua natura profili di «rigidità» che rendono marginale – e spesso del tutto irrilevante – la possibilità di introdurre correttivi e aggiustamenti ex post, sulla base delle rilevazioni effettuate. È dunque nelle fasi antecedenti

54 Cfr. G. Capano e S. Vassallo, Customer Satisfaction: a che punto siamo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 13-14.

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e in itinere, durante la programmazione iniziale degli inter-venti, nella definizione dei contenuti progettuali e di pia-nificazione territoriale, che si può immaginare l’utilizzo di questi strumenti come «antenna» a disposizione dei diri-genti amministrativi per captare direttamente nel territorio eventuali segnali di disagio, preludio alle mobilitazioni di coalizioni di interessi avversi alla realizzazione, in modo da recepire tempestivamente e contemperare eventuali istanze e proteste, prima che le posizioni si radicalizzino ed even-tuali negoziazioni e accordi, anche basati sulla proposta di compensazioni, diventino più difficili. Sotto questo profilo, dunque, si può guardare alla possibilità di istituire forme di controllo della soddisfazione del pubblico riguardo non al prodotto finale, ma alla percezione della qualità dei pro-cessi – grado e forme di coinvolgimento, modalità di nego-ziazione, spazi aperti al dibattito e alla ricerca del consenso e del compromesso – che hanno portato alla definizione per quanto possibile condivisa dei contenuti progettuali, delle modalità realizzative e delle ricadute sul territorio delle opere infrastrutturali.

8. Alcune linee generali di intervento per migliorare la qualità dell’azione dei dirigenti amministrativi: sempli-ficare e «prendere sul serio» la complessità delle politi-che infrastrutturali

Alcuni principi generali di intervento, trasversali alle dimensioni critiche rilevate in questa analisi, riguardano la valorizzazione di due profili di competenze utilizzabili dai dirigenti pubblici operanti nelle politiche infrastrutturali: le competenze tecniche e quelle spendibili in sede di coor-dinamento. A questo fine occorre accelerare nelle ammini-strazioni coinvolte nei processi decisionali relativi alle infra-strutture il processo – tuttora incompiuto – di transizione da un modello di dirigente tradizionale verso il nuovo modello di dirigente-manager. Mentre il primo tende a farsi scudo delle norme, interpretando il proprio ruolo come quello di un esecutore la cui attività dipende essenzialmente dalla co-

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noscenza delle disposizioni e delle procedure che regolano il funzionamento della struttura amministrativa, il secondo è capace di relazionarsi in forma propositiva e innovativa con l’ambiente organizzativo, con le altre amministrazioni e con gli interessi, grazie a competenze gestionali e relazio-nali maturate nei processi di formazione o nelle precedenti esperienze formative (sviluppate anche nel settore privato), guardando al proprio ruolo come a quello di un decisore, più che di un mero esecutore di disposizioni normative.

Di fronte ai fattori precedentemente trattati – di na-tura istituzionale, organizzativa, culturale e sociale – che si frappongono a un efficace ruolo della dirigenza am-ministrativa nelle politiche infrastrutturali, si prospettano due possibili strategie generali di intervento. La prima è rivolta a semplificare ove possibile la cornice entro la quale prendono corpo le decisioni, riducendo il numero di attori coinvolti, demarcando in modo più netto respon-sabilità e poteri, snellendo i vincoli normativi e procedi-mentali che si frappongono alla conclusione dei processi.

Una seconda strategia mira invece a prendere sul se-rio la complessità: vi sono profili e aspetti necessariamente incerti e imprevedibili nelle diverse fasi di formulazione, attuazione e monitoraggio delle politiche per la realizza-zione delle infrastrutture, che si associano alla natura dei processi di progettazione e di intervento, alla rilevanza e all’ampiezza degli interessi pubblici e privati in gioco, alle ricadute di lungo e lunghissimo periodo che queste pos-sono produrre sulle opportunità di sviluppo territoriale. In questo senso, per i dirigenti, il coinvolgimento nel policy making relativo alla costruzione di grandi opere pubbliche non si traduce soltanto in un contributo alla realizzazione, con precisione e rapidità, di un prodotto finale predefi-nito, quanto piuttosto nell’apertura di un processo, l’avvio di un percorso le cui traiettorie sono almeno in una certa misura governabili e controllabili, in modo da minimizzare ricadute negative, esiti imprevisti, intralci, ostacoli55.

55 Cfr. L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio. Studio sui proces-si decisionali politico-amministrativi, Milano, Franco Angeli, 1996, p. 67.

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Sul primo versante, quello della semplificazione, si possono individuare alcune possibili linee più specifiche di intervento per migliorare la qualità del contributo dei dirigenti alle politiche infrastrutturali:

– Proseguire nell’opera di snellimento della cornice normativa e regolativa che disciplina il settore dell’atti-vità contrattuale, come già prefigurato dall’approvazione del codice degli appalti nel 2006. Per questa via è possi-bile ridurre la quantità e migliorare la qualità complessiva delle «risorse giuridiche» a disposizione della dirigenza amministrativa, liberando tempo e competenze disponi-bili per la cura degli aspetti manageriali, organizzativi e di coordinamento delle politiche.

– Dare concreta attuazione ai principi che sanciscono come la concorrenza sia un valore in sé da promuovere e tutelare, piuttosto che uno strumento funzionale alla rea-lizzazione degli interessi pubblici. La presenza di efficaci meccanismi competitivi nelle gare, infatti, arricchisce il pa-trimonio di informazioni – su prezzi, costi, tempi attesi e previsti, possibili soluzioni tecniche, ecc. – a disposizione dei dirigenti responsabili degli aspetti tecnici della scelta.

– Appare auspicabile la definizione e la messa in atto di un’unica vicenda procedimentale, quanto meno per ciò che concerne la realizzazione delle grandi opere in-frastrutturali, attualmente disciplinate da un gran numero di potenziali percorsi alternativi: ne conseguono – oltre ai già richiamati problemi di incertezza normativa – diffi-coltà addizionali di controllo e di definizione di standard comuni di comparazione delle performance e dei risultati.

– Ridurre il numero di soggetti pubblici aventi potere decisionale, ovvero coinvolti a vario titolo in via formale – mediante valutazioni, autorizzazioni, pareri – nella vi-cenda procedimentale relativa alle grandi infrastrutture, qualificando i loro contributi nella misura in cui appor-tano nuove conoscenze sulla natura e sulle possibili rica-dute degli interventi programmati. Ne risultano propor-zionalmente semplificati anche gli eventuali compiti di co-municazione interistituzionale, raccordo e coordinamento attribuiti ai dirigenti.

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– Contenere il numero delle stazioni appaltanti, at-tualmente circa 18.000, così da rendere possibile una mi-gliore qualificazione specialistica dell’attività progettuale e della gestione dei procedimenti da parte dei dirigenti.

– Strutturare competenze e moduli organizzativi al-l’interno dei diversi enti coinvolti nelle politiche infra-strutturali, non per competenze e funzioni svolte, bensì in relazione a «prodotti», obiettivi e risultati attesi, concen-trando intorno a specifici progetti le risorse organizzative, le capacità tecniche e gestionali dei vertici amministrativi. Questo corrisponde all’adozione di modelli di tipo divisio-nale, nei quali il dirigente gode di alti livelli di autonomia ed è responsabile del conseguimento dei fini prefissati.

– Favorire una distinzione più netta tra la funzione di indirizzo generale degli attori politici e le funzioni di formulazione delle politiche e di gestione «manageriale» delle risorse per la realizzazione delle opere pubbliche da parte dei dirigenti. Se all’autorità politica tocca di indi-care in piena autonomia strategie generali e risultati attesi delle politiche infrastrutturali, ai dirigenti spetta con spe-culare autonomia di gestire le risorse necessarie all’orga-nizzazione del lavoro, assumendo una piena responsabilità dei risultati conseguiti, attraverso una valutazione della loro performance.

– Definire espressamente – anche mediante direttive di indirizzo – diversi livelli cui ricondurre lo spettro di obiettivi assegnati ai dirigenti operanti nelle politiche in-frastrutturali: accanto a quelli di routine o annuali, nel caso delle grandi opere, appaiono particolarmente rile-vanti le valutazioni pluriennali che richiedono una corri-spondente graduazione dei controlli sul grado di conse-guimento, anche mediante contrattazione di quote diffe-renziate di retribuzione commisurate al risultato o di altre sanzioni (come la revoca dall’incarico). A questo fine, oc-corre individuare con chiarezza e in modo univoco le ipo-tesi di responsabilità relative al mancato conseguimento degli obiettivi relativi al raggiungimento dell’incarico di-rigenziale, oppure ai risultati negativi dell’attività ammini-strativa nella gestione delle corrispondenti funzioni.

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– Prevedere una precisa assegnazione ai dirigenti di quote di risorse amministrative – quelle finanziarie, ma non solo – ponderate sulla base delle competenze gene-rali e degli obiettivi specifici loro assegnati, favorendone la responsabilizzazione e la valutazione in merito alla loro capacità di utilizzarle in modo efficace. Le risorse corrispondenti – che potrebbero provenire in misura va-riabile anche da diversi livelli di governo, così come dal settore privato – risulterebbero così finalizzate e vincolate a un’opera specifica e regolate da appropriate procedure contabili. Disciplinando il processo di determinazione dei budget, reso contestuale alla formazione del bilancio, è possibile delegarne la specifica composizione a un pro-cesso di negoziazione aperta e trasparente tra la dirigenza e gli organi di governo e tra i diversi livelli di dirigenza. Occorre infatti risolvere la possibile contraddittorietà tra le risorse definite dai bilanci generali e i budget a dispo-sizione dei dirigenti, mediante la determinazione conte-stuale di programmazione strategica e programmazione finanziaria.

Anche riguardo al secondo profilo, la gestione della complessità, si possono prefigurare alcune possibili solu-zioni.

– Individuare alcune figure dirigenziali che assumano una posizione saliente nell’attività di raccordo tra gli attori pubblici e privati coinvolti a vario titolo nelle politiche in-frastrutturali. Una volta definita in sede politica la «mis-sione» di rilevante interesse strategico da realizzare, tali figure potrebbero svolgere un’azione di coordinamento operando lungo due dimensioni distinte, per quanto stret-tamente integrate tra loro: a) quella dell’efficienza procedu-rale e della costruzione del consenso, che si traduce, tanto per fare degli esempi, nel far «parlare» e nel tenere i con-tatti tra i responsabili politici di amministrazioni e inte-ressi diversi; contemperare le diverse istanze ricercando un punto di equilibrio, che tenga conto, ove possibile, della formulazione di osservazioni, obiezioni e controproposte; farsi carico della definizione di eventuali compensazioni; seguire, «tallonare» da vicino e intervenire attivamente per

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sollecitare gli adempimenti e accelerare le pratiche presso i soggetti pubblici coinvolti nell’iter; b) quella della qualità e della coerenza progettuale, che faccia fronte alla perdita di capacità tecnica della Pubblica amministrazione e alle ricadute negative degli interventi disorganici che spesso si realizzano nella fase di definizione dei contenuti dei progetti, per aggiustamenti incongruenti che derivano dal contributo di differenti soggetti istituzionali. Si potrebbero allora individuare due distinte figure dirigenziali – con le corrispondenti responsabilità – per un verso nell’azione di raccordo inter-istituzionale, costruzione del consenso e ac-celerazione delle relative procedure, per un altro nella ga-ranzia dei contenuti qualitativamente elevati del progetto di realizzazione.

– La prima figura, assimilabile a un «commissario per la missione», può avere sedi organizzative e referenti diversi a seconda della natura dell’opera. Sotto questo profilo, i Prefetti sono tra i possibili soggetti istituzionali cui dele-gare il compito di utilizzare le loro competenze specifiche, l’autorevolezza e il capitale relazionale (anche di natura informale) sul territorio per collegare e favorire su scala locale le intese tra gli attori pubblici e privati coinvolti, facendosi carico delle esigenza di coordinamento. Sembra comunque necessario prevedere percorsi di selezione e di formazione per i dirigenti che ne sviluppino specifiche abi-lità tecniche, organizzative e manageriali, particolarmente utili nel contesto delle politiche per la realizzazione delle infrastrutture: la capacità di mediazione, confronto, nego-ziazione, di ascolto delle domande esterne, di consulenza e indirizzo, di gestione del personale, pianificazione, pro-grammazione, valutazione e controllo. Lo sviluppo di un «mercato della formazione superiore» potrebbe allargare l’offerta a quelle competenze specialistiche richieste per la gestione delle politiche per la realizzazione delle grandi opere, ma al tempo stesso richiede particolari cautele nella certificazione della qualità dei servizi e di accreditamento delle future istituzioni formative, pubbliche e private.

– La seconda figura è quella di un dirigente con com-petenze tecniche elevate, individuabile anche valorizzando

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la funzione di strutture pubbliche qualificate per l’elabo-razione e il controllo della qualità dei progetti, sul mo-dello del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Questa figura diverrebbe responsabile unico della fase di proget-tazione, soggetto di riferimento per il «prodotto» proget-tuale che viene poi sottoposto a gara di appalto. A esso andrebbe attribuito in particolare il potere-responsabilità di individuazione e gestione del personale impegnato nella fase progettuale, selezionando e valorizzando i dipendenti (o ricorrendo ove necessario a personale esterno) in base alle loro capacità tecniche e organizzative.

– L’azione delle due figure di dirigenti-responsabili nella struttura di missione andrebbe naturalmente a intrecciarsi: l’accordo si costruisce attorno a un progetto, i cui vincoli tecnici definiscono la gamma di opzioni alternative realiz-zabili e i rispettivi costi/benefici, mentre la definizione di tali contenuti risente a sua volta dell’esigenza di aggregare il consenso. Per questo le due figure – pur nella distinzione delle rispettive responsabilità – dovrebbero operare sinergi-camente: questa sintonia può realizzarsi «spontaneamente», a seguito della condivisione della «missione» comune, ma è comunque opportuno predisporre una struttura di incen-tivi e disincentivi economici e di carriera adeguatamente collegati alla natura degli obiettivi prefissati.

– Sviluppare e utilizzare – favorendone la circolazione – gli indicatori di best practices, customer satisfaction (que-sti ultimi calibrati sul processo, più che sul prodotto del-l’attività amministrativa nell’ambito infrastrutturale) e gli strumenti di benchmarking, tanto su scala europea che nella comparazione tra amministrazioni diverse, così da definire attendibili e realistici cronoprogrammi per le di-verse realizzazioni, in relazione alla loro complessità, su cui soppesare le responsabilità e commisurare l’entità de-gli incentivi e dei disincentivi previsti. Si tratta di tecni-che e metodologie che permettono di accrescere le risorse di informazione e di conoscenza con le quali i dirigenti, in veste di decisori, possono per un verso formulare con maggiore cognizione di causa ipotesi sulle conseguenze di interventi e politiche, per un altro anticipare le reazioni

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di interessi latenti toccati dagli interventi infrastrutturali, premessa per un loro fattivo coinvolgimento nel relativo processo decisionale. Nella determinazione di indicatori di qualità e parametri di riferimento è opportuno valo-rizzare il patrimonio di informazioni a disposizione nelle banche dati dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.

– Prevedere, all’interno dei processi di selezione e formazione dei dirigenti, specifici moduli per valorizzare e sviluppare le competenze tecniche e organizzative ne-cessarie alla gestione di specifici programmi infrastruttu-rali, che per le loro peculiarità e le criticità che vi si ma-nifestano mal si adattano all’azione di figure professionali con una preparazione prevalente di tipo giuridico-genera-lista.

– Attuare formule concorsuali nazionali di accesso, aperte a esterni, per una percentuale più elevata di can-didati (almeno il 50%). La gestione dei concorsi per l’ac-cesso alla dirigenza da parte delle singole amministrazioni, infatti, risulta in alcuni casi poco aperta a una reale con-correnza (posti a concorso di fatto riservati a personale direttivo già in servizio, indebite pressioni esterne, ecc.): non assicurando una selezione rigorosa, questo processo determina una dequalificazione dei ruoli e delle compe-tenze dirigenziali. Un corso-concorso selettivo di accesso potrebbe essere congegnato in modo da valorizzare e pre-miare l’orientamento innovativo dei candidati, la loro aper-tura al cambiamento, i titoli di studio di alta formazione universitaria (dottorato di ricerca, altre specializzazioni post-laurea, significative esperienze all’estero, precedenti esperienze professionali nel medesimo settore di policy), la propensione al governo delle organizzazioni complesse e delle politiche, alla semplificazione, alla sussidarietà.

– Assicurare la completa trasparenza, pubblicità e accessibilità – anche on line – dei criteri prefissati per la selezione dei dirigenti, dei curricula dei candidati e dei soggetti prescelti, degli obiettivi cui è indirizzata la loro attività, degli esiti della loro periodica valutazione, delle motivazioni di eventuali provvedimenti nei loro confronti.

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– Utilizzare l’arricchimento della tipologia di stru-menti di aggiudicazione dei contratti disponibili a seguito dell’introduzione del codice degli appalti (accordo qua-dro, dialogo competitivo, sistema dinamico di acquisi-zione, ecc.) per migliorare la qualità delle risorse conosci-tive a disposizione dei dirigenti, favorendo la definizione di strumenti più efficaci per la realizzazione delle opere pubbliche. Attraverso un processo aperto, negoziale e dialogico, il coinvolgimento dei privati può infatti esten-dersi alla fase di definizione dei risultati attesi e dei mezzi tecnici con cui provvedere all’impegno. Lo scambio di informazioni e conoscenze può consentire ai dirigenti di fronteggiare l’incertezza sulla natura degli obiettivi da perseguire e sulle possibili risposte a mutevoli condizioni ambientali di mercato, attraverso un adattamento contin-gente di finalità e soluzioni.

Si tratta di un ventaglio – certamente incompleto – di possibili linee di intervento. L’intento non è quello di fornire in questa sede un piano organico di riforma, ma piuttosto di presentare sinteticamente un repertorio di strumenti sperimentabili attraverso un programma incre-mentale di interventi, così da migliorare progressivamente la qualità dell’azione dei dirigenti pubblici nelle politiche per le infrastrutture. Più che progettare grandi trasforma-zioni miranti alla creazione di un nuovo assetto regolativo in astratto ottimale, coerentemente con un approccio in-gegneristico, sembra infatti auspicabile un approccio volto a incidere – per tentativi ed errori – sul materiale norma-tivo e organizzativo esistente, mediante l’introduzione di correttivi coerenti con le tecniche del «giardinaggio istitu-zionale». L’apprendimento dalle lezioni, dai successi, così come dagli errori del passato, ma anche la comparazione con esperienze analoghe di altri paesi e realtà ammini-strative, può infatti arricchire il bagaglio di conoscenze utilizzabili per vincere le prevedibili resistenze opposte a politiche infrastrutturali innovative dalle coalizioni di in-teressi organizzati, vincendo al tempo stesso l’inerzia de-gli assetti organizzativi e dei modelli procedurali esistenti.

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1. Premessa

Tra le cause dei ritardi e dell’aumento dei costi nella realizzazione di grandi opere deve essere annoverato an-che un eccessivo ricorso alla giustizia, soprattutto a quella amministrativa.

In particolare, il contenzioso giudiziario comporta una sospensione dei lavori solo nel 5% dei casi1, ma concorre in modo determinante a causare un aumento dei costi e, soprattutto, dei tempi di realizzazione dell’opera, tenuto anche conto del fatto che esso può comportare l’annul-lamento del contratto stipulato dall’amministrazione ag-giudicatrice e, dunque, la riapertura della procedura per l’aggiudicazione.

Queste affermazioni sono supportate anche da dati statistici.

Secondo i dati provenienti da un’elaborazione ef-fettuata per «Il Sole 24 Ore» dall’Osservatorio dell’Au-torità per la Vigilanza dei lavori pubblici e riferita agli appalti conclusi tra il 2000 e il 2007, un lavoro su due (il 46,23%) di importo superiore ai 15 milioni di euro è stato oggetto di contenzioso.

Tale quota si riduce con la diminuzione del valore dell’appalto, sino ad arrivare al 2% nel caso di lavori di valore inferiore ai 500.000 euro. Questo, tra l’altro, spiega

6. INFRASTRUTTURE E LEGALITÀ:IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO

E ALTRI CONTROLLI GIURISDIZIONALI

Relazione del gruppo di ricerca diretto da N. Zanon. Ricercatori: F. Biondi e G. Arconzo. Il lavoro è frutto della riflessione comune dei tre autori. Tuttavia, N. Zanon ha redatto i paragrafi 1, 2, 9 e 10; F. Biondi ha redatto i paragrafi 3, 7 e 8; G. Arconzo ha redatto i paragrafi 4, 5 e 6.

1 G. Santilli, Molti rimedi ma efficaci a metà, in «Il Sole 24 Ore», 5 gennaio 2009, p. 2.

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perché, se si analizzano i dati relativi al totale delle opere pubbliche, solo il 3,83%2 di esse risulta essere oggetto di contenzioso.

In sintesi, il contenzioso riguarda soprattutto gli ap-palti di maggior valore (il valore complessivo delle opere interessate dal contenzioso, tra il 2000 e il 2007, è stato di 4,7 miliardi di euro, pari al 12% di tutte le opere concluse) e, sempre secondo questo studio, riguarda so-prattutto i lavori per le infrastrutture di trasporto e le ferrovie.

L’impatto sui costi (30% in più) e sulla durata dei la-vori (96% in più) è risultato notevole3.

2. Descrizione dei principali problemi. Chi fa ricorso?

Il contenzioso può toccare tutti i soggetti che parte-cipano alla realizzazione di un’opera pubblica (e li coin-volge al punto tale che si potrebbe arrivare al paradosso, come rilevato nell’audizione da L. Giampaolino, presi-dente dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, per cui le imprese hanno «più uffici legali che uffici tecnici»).

In molti casi le controversie vedono contrapporsi la Pubblica amministrazione (per esempio, Regioni, Comuni e, soprattutto, Anas, i cui appalti, tra il 2000 e il 2007, sono stati interessati da ricorsi per il 13% del totale4) e le società concessionarie (per esempio, Autostrade Spa).

2 In percentuale, secondo i dati Istat, il numero dei ricorsi al Tar classificati alla voce «Lavori pubblici» è pari al 2,6 e 2,5 del totale dei ricorsi instaurati rispettivamente negli anni 2005 e 2004.

3 F. Patti, Grandi opere a rischio contenzioso, in «Il Sole 24 Ore», 5 gennaio 2009, p. 3.

4 Per quanto concerne l’Anas, ossia la società maggiormente coin-volta in lavori pubblici – secondo i dati raccolti dall’Osservatorio del-l’Autorità di Vigilanza dei lavori pubblici – per numero e valore delle controversie, il contenzioso è legato soprattutto all’esecuzione dei lavo-ri, seguito dai rapporti con le concessionarie autostradali, infine, con riferimento a gare, espropri e indennizzi.

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Spesso, però, il contenzioso vede anche contrapposti, da una parte, le stazioni appaltanti e, dall’altra, gli esecu-tori delle opere o le imprese che sono state escluse dalla gara.

Con riferimento a questi casi, l’ing. Castellucci, Am-ministratore delegato di Autostrade per l’Italia, nel corso dell’audizione, aveva sottolineato l’effetto – a suo parere negativo – provocato dal collegato alla finanziaria 20075 che, diversamente da quanto avviene negli altri paesi eu-ropei, obbligava le concessionarie autostradali ad

agire a tutti gli effetti come amministrazione aggiudicatrice negli affidamenti di forniture e servizi di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria nonché di lavori, ancorché misti con forniture o servizi e in tale veste attuare gli affidamenti nel ri-spetto del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.

In sostanza, la norma imponeva alle concessionarie autostradali di effettuare gare d’appalto per tutti i lavori, vietando gli affidamenti diretti a società controllate. Una norma di questo tipo – che, si badi, non deriva dall’attua-zione di specifici obblighi comunitari – apriva potenzial-mente la strada all’instaurazione di un notevole numero di controversie.

Solo di recente, con il comma 1-quinquies dell’art. 29, d.l. 30 dicembre 2008, n. 207, aggiunto dalla relativa legge di conversione, il divieto di cui sopra è stato atte-nuato, prevedendosi l’obbligo dell’affidamento a terzi solo per il 40% dei lavori6.

In molti altri casi, ricorrenti sono associazioni ambien-taliste, associazioni dei consumatori, movimenti politici (a mero titolo esemplificativo, si ricordano le proteste dei

5 Cfr. art. 11, comma 5, lett. c) della legge 23 dicembre 1992, n. 498, come sostituito prima dall’art. 2, comma 85, del d.l. n. 262 del 2006 (collegato alla finanziaria 2007) e poi dall’art. 1, comma 1030, della legge n. 296 del 2006.

6 Art. 253, comma 25, del d.lgs. n. 163 del 2006, come modificato dall’art. 29, comma 1-sexies del d.l. 30 dicembre 2008, n. 207.

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Verdi, che minacciano ricorsi al Tar per il valico dell’au-tostrada Tirrenica e l’opposizione di Verdi, ambientalisti e cittadini che frena la costruzione della tangenziale di Cortina); Enti locali dissenzienti (si pensi per esempio al ricorso instaurato dalla Provincia di Teramo e dall’Ente parco nazionale Gran Sasso in relazione alla realizzazione del terzo traforo del Gran Sasso; o, ancora, ai ricorsi di numerosissimi comuni interessati dalla direttrice della rea-lizzanda linea ferroviaria Av/Ac Milano-Verona e Verona-Venezia7); oppure gruppi di cittadini che si oppongono al progetto (vedi abitanti della zona Fiera di Milano che si oppongono al progetto di riqualificazione dell’area)8.

In altri casi ancora, infine, sono i soggetti privati di-rettamente interessati dall’intervento a ricorrere al giudice (per esempio, il proprietario del terreno che deve essere espropriato per la realizzazione dell’opera).

3. Quando e perché si fa ricorso?

Non è facile recuperare dati che consentano di sapere con certezza in quale fase si colloca il maggior numero dei ricorsi e per quali motivi.

Alcuni elementi vanno però sottolineati: la particolare complessità delle procedure per la progettazione e l’affida-mento delle opere (per cui si rinvia alla ricerca coordinata dai proff. Amato e Cerulli Irelli, supra) e la possibilità di presentare ricorsi in ciascuna fase del procedimento con-sentono di instaurare contenziosi per i più diversi motivi.

Una sintetica disamina delle procedure può aiutare a chiarire quanto osservato.

La fase della progettazione (che consiste nella predi-sposizione delle relazioni e degli elaborati tecnici atti a

7 Cfr., per esempio, Tar Lazio, sent. n. 5403 del 2007; n. 14143 del 2007, n. 81 e n. 82 del 2006; nn. 3657, 3658, 3659, 3660, 3661, 3662, 3663 del 2004; n. 3311 e 3312 del 2004.

8 Nel 2007, secondo i dati raccolti da Aris-Nimby Forum® nella III edizione dell’Osservatorio Media permanente, sarebbero 193 gli im-pianti contestati. Si tratta, per altro, di un dato in costante aumento.

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identificare con precisione le caratteristiche e il contenuto dell’opera da realizzare: tale attività può essere effettuata direttamente dalla Pubblica amministrazione, oppure può essere messa a concorso, determinandosi così un’altra oc-casione per l’insorgere del contenzioso) si compone in realtà di più «sottofasi»: in primo luogo la progettazione preliminare (in cui si definiscono gli aspetti più significa-tivi dell’opera; si motivano le scelte effettuate; si danno informazioni circa la fattibilità dell’opera stessa), quindi la progettazione definitiva (in cui si individuano compiu-tamente i lavori da realizzare e si realizzano lo studio di impatto ambientale, il piano particellare di esproprio e il computo metrico estimativo), infine quella esecutiva (in conformità al progetto definitivo, si determinano in ogni particolare l’opera da realizzare, il costo previsto, i tempi, il piano di manutenzione dell’opera, lo schema di con-tratto e il capitolato speciale di appalto). La complessità e la lunghezza della progettazione favoriscono il sorgere di ricorsi. Sono molti, per esempio, i casi in cui i giudici amministrativi hanno dichiarato illegittime le procedure di affidamento degli incarichi di progettazione, perché av-venute in violazione della legge.

Alla fase di progettazione segue la procedura di scelta del contraente privato per l’affidamento dell’appalto. Tale scelta, come è noto, è preceduta dalla pubblicazione di un bando di gara che, tra l’altro, deve prevedere i requi-siti di idoneità richiesti ai concorrenti. Generalmente il bando di gara non è impugnabile, in quanto atto iniziale del procedimento amministrativo, ma laddove il bando contenga clausole che restringano l’ambito dei possibili partecipanti, secondo modalità che possono essere rite-nute illegittime dalle imprese escluse, anche il bando può essere autonomamente impugnato.

La procedura di affidamento può essere effettuata con diverse tipologie di gare (pubblico incanto, licitazione pri-vata, appalto concorso, ecc.), secondo quanto prevede la legge: e anche questo specifico frammento del procedi-mento è possibile fonte di contenzioso. Infatti non sono in-frequenti i casi in cui il privato censura l’illegittimità della

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scelta di un determinato procedimento di gara, a causa del-l’assenza dei presupposti che ne consentono l’applicazione.

Poi c’è la fase dell’aggiudicazione, con la quale l’au-torità che sovrintende alle operazioni di gara accerta e proclama pubblicamente quale offerta è risultata più van-taggiosa per l’amministrazione appaltante. Con l’aggiudi-cazione si conclude la fase di scelta del contraente: suc-cessivamente si procederà alla stipulazione del contratto. La fase di aggiudicazione prevede l’emanazione di due atti diversi: l’atto di aggiudicazione provvisoria e quello di aggiudicazione definitiva. Entrambi gli atti, a loro volta, possono essere impugnati davanti al giudice amministra-tivo: infatti, l’aggiudicazione definitiva non è considerata un atto meramente esecutivo e confermativo, ma un atto che, anche quando recepisce in toto i risultati dell’aggiu-dicazione provvisoria, contiene comunque una nuova e autonoma valutazione rispetto a quella provvisoria, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale.

I ricorsi che si collocano in questa fase sono partico-larmente delicati, poiché, una volta ammessi nel processo amministrativo tutti i mezzi di prova del processo civile, compresa la consulenza tecnica d’ufficio, al giudice am-ministrativo è consentito sindacare la discrezionalità delle scelte dell’amministrazione (si pensi, per esempio, alla va-lutazione delle offerte economicamente più vantaggiose, in relazione alle quali il giudice amministrativo può cen-surare le decisioni delle commissioni aggiudicatici laddove esse presentino margini di illogicità, irragionevolezza e travisamento9). Tale facoltà non solo rivela l’ampliamento del ruolo del giudice amministrativo, ma finisce per in-centivare i ricorsi da parte dei privati, che, invece di ac-cettare gli affidamenti effettuati dalle stazioni appaltanti, possono decidere di attendere l’affidamento diretto da parte del Consiglio di Stato (cfr. audizione dell’avv. Bar-gone, presidente della Società Autostrada Tirrenica).

Controversie possono, infine, sorgere durante la fase di esecuzione dei lavori e al momento della consegna dei

9 Cfr. per esempio, Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2006, n. 6835.

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lavori stessi: in questo caso, però, giudice competente è il giudice ordinario, fatta eccezione per i casi previsti dal-l’art. 244, comma 3 del Codice dei contratti (controver-sie in tema di [divieto di] rinnovo tacito dei contratti; in tema di clausola di revisione prezzi e di relativi provvedi-menti applicativi nei contratti a esecuzione continuata o periodica; in tema di provvedimenti applicativi dell’ade-guamento prezzi).

Anche procedure apparentemente più semplificate ri-spetto a quella descritta presentano ampi spazi per il ri-corso al giudice.

Infatti, anche se per la realizzazione delle infrastrut-ture e degli insediamenti produttivi strategici e di pre-minente interesse nazionale (di seguito, grandi opere), la Legge obiettivo (l. n. 443 del 2001) ha cercato di sempli-ficare le procedure di approvazione del progetto e dell’af-fidamento, il contenzioso è rimasto elevato10.

Anzi, questa procedura ha dato luogo a ulteriori occa-sioni di contenzioso, non solo di carattere amministrativo, ma anche di carattere costituzionale, con specifico riferi-mento alle competenze di Stato e Regioni (cfr. per esem-pio Corte costituzionale, sent. n. 233 del 2004 che ha an-nullato il progetto preliminare per la realizzazione della metropolitana di Bologna, in quanto approvato senza la necessaria intesa con la Regione).

Quanto alle fasi di approvazione delle grandi opere, vale la pena di sottolineare che non sono mancate im-pugnazioni sia avverso le delibere Cipe che approvano i progetti preliminari delle opere, sia avverso quelle che approvano i progetti definitivi.

In particolare, si deve ricordare come, per le grandi opere, «il progetto preliminare non abbia solo funzione preparatoria, bensì sia dotato di una propria autonomia

10 Secondo quanto riferito dal dr. Signorini, capo del Dipartimen-to per la programmazione e il coordinamento della politica economica della presidenza del Consiglio dei ministri, che svolge funzioni di sup-porto al Cipe, durante l’audizione del 12 novembre 2008, i contenziosi sulla Legge obiettivo sono stati finora 240, circa un terzo dei quali già definito dalla magistratura amministrativa in senso favorevole alla P.A.

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e capacità lesiva soprattutto in quanto fonte del vincolo inteso all’esproprio». A pena di decadenza, pertanto, oc-corre già impugnare la delibera di approvazione del pro-getto preliminare11.

Ancora, si deve valutare, ai nostri fini, l’altra impor-tante novità prevista per le grandi opere: il sistema del contraente generale, inteso quale realizzatore globale del-l’opera. Si tratta di un soggetto organizzato in modo tale da garantire alla Pubblica amministrazione committente la realizzazione del lavoro «chiavi in mano». Esso si occupa direttamente anche della progettazione e della gestione della fase realizzativa dell’opera. Questo sistema dovrebbe in qualche misura limitare il contenzioso, proprio per la concentrazione in capo a un solo soggetto di più funzioni.

Come è emerso dall’audizione dell’avv. Bargone, in Italia il sistema del contraente generale presenta però un’anomalia: a differenza di quanto succede nel resto d’Europa, dove vi sono pochissimi general contractors ac-creditati, in Italia – dove il sistema per l’accreditamento ha maglie piuttosto larghe – ve ne sono ben quaran-taquattro. Ciò comporta, ovviamente, gare particolar-mente affollate, e, di conseguenza, contenziosi instaurati anche per la scelta del contraente generale12.

Si può dunque concludere che la stessa complessità delle procedure offre molteplici occasioni di ricorso. Inoltre, e questo è altrettanto cruciale, non esistono preclusioni alla possibilità di proporre ricorso in ogni fase delle procedure.

Sempre al fine di individuare cause e soluzioni al-l’eccesso di contenzioso che accompagna la realizzazione di grandi opere, è interessante notare che, mentre per le opere di importo medio piccolo il contenzioso sembra abbastanza contenuto (vedi dati segnalati al par. 1) e ri-guarda soprattutto un anomalo funzionamento del can-tiere, quello sulle grandi opere è causato, invece, soprat-tutto da carenze progettuali13.

11 Cfr. Tar Puglia, Bari, sez. III, sent. 11 settembre 2008, n. 2079.12 Cfr. per esempio, Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 8265 del 2006.13 Intervista a L. Giampaolino, Richieste gonfiate per accedere all’ac-

cordo bonario, in «Il Sole 24 Ore», 5 gennaio 2009, p. 3.

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Se questo è vero, ne conseguono due considerazioni.Anzitutto, la scelta recentemente operata dall’art. 1,

comma 10-quinquies del decreto legge n. 162 del 2008, convertito, con modifiche, dalla legge n. 201 del 2008, il quale – per superare il meccanismo della gara – ha innal-zato la soglia per il ricorso alle trattative private da cen-tomila euro a cinquecentomila euro, potrà forse accelerare l’iter per la realizzazione dell’opera, ma non avrà effetti so-stanziali sulla riduzione del contenzioso. Come si è infatti detto, il contenzioso relativo alle opere di valore fino a cinquecentomila euro non è particolarmente consistente.

In secondo luogo, oltre alla semplificazione delle pro-cedure e/o all’introduzione di preclusioni al ricorso giudi-ziario a seconda delle fasi di tali procedure, potrebbe es-sere utile migliorare la fase della progettazione, posto che il contenzioso sembra alimentato soprattutto dalle carenze progettuali, che fanno sorgere complicazioni, aumentare i costi, ecc.

Infine, dalle varie audizioni è anche emerso come spesso le imprese partecipino alle gare, e talvolta otten-gano l’affidamento dell’opera, pur non avendo la capacità tecnica ed economica di realizzarla. Le imprese hanno del resto necessità di dimostrare di avere nel «portafoglio» un certo numero di appalti per accedere al credito bancario, ma non hanno un reale interesse a portarli a compimento nei tempi previsti. Questa condizione, sicuramente pato-logica ma diffusa, di molte imprese vincitrici di appalti è un fattore che può evidentemente causare un aumento del contenzioso, soprattutto con la stazione appaltante.

Secondo l’ing. Castellucci sarebbe necessario preve-dere che gli appaltatori fossero obbligati a prestare garan-zie maggiori rispetto a quelle attualmente richieste dagli articoli 75 e 113 del d.lgs. n. 163 del 2006, i quali fis-sano rispettivamente l’importo della garanzia a corredo dell’offerta nella misura del 2% del prezzo base, e l’im-porto della garanzia a corredo dell’aggiudicazione defi-nitiva nella misura del 10% dell’importo contrattuale. Sul punto, è interessante notare che l’art. 11 della l. 285/2000, Interventi per i Giochi Olimpici invernali Torino

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2006, prevedeva che l’esecutore dei lavori fosse obbligato a prestare una garanzia fideiussoria del 50% dell’importo degli stessi, destinata a garantire l’ultimazione dell’opera entro il termine fissato nel bando di gara.

4. L’incertezza in merito all’esito delle controversie come elemento che non garantisce una tutela effettiva e, so-prattutto, contribuisce all’aumento del contenzioso

Per una serie di cause, che si cercheranno di elencare, l’esito dei giudizi instaurati presenta, nel nostro ordina-mento, un alto margine di incertezza.

Ciò, da una parte, può rendere difficoltoso ottenere una tutela piena ed effettiva; dall’altra, anche se può sem-brare un paradosso, incentiva il ricorso alla giustizia (data la difficoltà di valutare prognosticamente come si potrà concludere il giudizio, vale comunque la pena di adire il giudice!). Questo atteggiamento è aggravato dall’assenza di «disincentivi» ai ricorsi: si pensi al fatto che le spese le-gali difficilmente vengono poste a carico del soccombente (i giudici amministrativi tendono per lo più a compensarle tra le parti) e che per opere di particolare valore l’ammon-tare del contributo unificato si rivela nei fatti esiguo.

Come accennato, diverse sono le cause dell’incertezza in merito all’esito dei giudizi.

Parte delle responsabilità ricade sul legislatore: le continue modifiche che esso apporta alle già complicate norme che regolano la materia delle opere pubbliche, così come le peculiari caratteristiche di ciascun singolo caso, rendono difficile prevedere, al momento dell’instau-razione del ricorso, quale potrà esserne l’esito.

Parte delle responsabilità ricade invece sulla stessa magistratura, nel senso che a essa sono «imputabili» orientamenti giurisprudenziali anche molto differenti, sia con riguardo alle questioni procedurali, sia nell’applica-zione del diritto sostanziale.

Un primo problema in cui i ricorrenti rischiano di imbattersi riguarda la scelta del giudice competente a de-

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cidere la controversia. Un «errore» nell’instaurazione del giudizio può avere conseguenze di non poco conto.

Per la verità, l’intervento operato dalla Corte costi-tuzionale, con la sentenza n. 77 del 2007, ha risolto sul punto alcuni problemi. Preso atto che la presenza di una pluralità di giudici, ordinari e speciali, non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale, la Corte ha dichiarato l’incosti-tuzionalità dell’art. 30 della l. n. 1034 del 1971 nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della do-manda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione.

L’erronea individuazione del giudice munito di giuri-sdizione non comporta quindi più un pregiudizio irrepa-rabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale.

Si tratta sicuramente di una svolta, poiché con questa decisione la Corte costituzionale ha riconosciuto la diffi-coltà insita nella scelta del giudice competente, dovuta, oltre alla ripartizione della giurisdizione a seconda della situazione soggettiva dedotta in giudizio, anche ai conti-nui interventi del legislatore volti a espandere la sfera di giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi14.

Tuttavia, pur avendo questo intervento giurispruden-ziale parzialmente semplificato la posizione di chi sbaglia a individuare il giudice competente, resta il fatto che vi sono casi in cui la competenza è incerta e il rivolgersi al giudice ordinario o amministrativo può avere conseguenze diverse.

Particolarmente significativa – per il tema qui in esame – è la vicenda relativa alla sorte del contratto suc-

14 Nonostante, infatti, le sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 abbiano affermato che il fondamento co-stituzionale della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si rinviene solo nell’esigenza pratica di superare l’intreccio inestricabile tra diritti soggettivi e interessi legittimi riscontrabile in alcuni settori, non sono mancati, anche di recente, casi in cui si sono introdotte nuo-vi ambiti di giurisdizione esclusiva (da ultimo vedi art. 4 d.l. 90/2008, conv. in l. 123/2008, recante «Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza dei rifiuti in Campania»).

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cessiva all’annullamento della gara di aggiudicazione. Tale questione rende molto complesso, per chi ha vinto il ri-corso per l’annullamento di una gara illegittima, ottenere una tutela effettiva.

La giurisprudenza amministrativa per molto tempo ha ritenuto di poter essere anche giudice della sorte del contratto nel caso in cui gli atti di gara vengano annullati in quanto illegittimi. Ciò evitava meritoriamente il ricorso a due giurisdizioni diverse15. Tale posizione non era però condivisa dalla Corte di cassazione, che sosteneva invece la competenza dei giudici ordinari a decidere tutte le con-troversie sorte dopo la stipulazione del contratto (Cass., sez. V, n. 5196/2004).

Nel dicembre 2007 una sentenza della Corte di cassa-zione a sezione unite (sent. 28 dicembre 2007, n. 27169) ha affermato che in questi casi la giurisdizione spetta solo al giudice ordinario16: l’operatore che vuole far ve-nir meno il contratto stipulato sulla base di una gara di aggiudicazione annullata dal giudice amministrativo – e, quindi, poter sostituire il vincitore – deve pertanto ricor-rere in seconda battuta al giudice ordinario, ferma la pos-sibilità di limitarsi a richiedere al giudice amministrativo il solo risarcimento per equivalente.

Risulta però che non tutti i giudici amministrativi ab-biano condiviso il principio della sentenza della Cassa-zione17: infatti, la questione relativa alla sussistenza della

15 E.M. Barbieri, Giurisdizione, procedimenti contrattuali e contratti delle pubbliche amministrazioni, in «Diritto processuale amministrati-vo», 2008, p. 311, afferma come «due sentenze per risolvere un unico problema sono chiaramente il sintomo di una superfetazione intellet-tuale che forse è opportuno sottoporre a verifica».

16 Decisione ritenuta condivisibile da R. Villata, L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ritorna, confermandola, sulla pregiudizialità am-ministrativa...ma le sezioni unite sottraggono al giudice amministrativo le controversie sulla sorte del contratto a seguito dell’annullamento del-l’aggiudicazione, in «Diritto processuale amministrativo», 2008, p. 308, secondo cui è necessario un intervento legislativo per giustificare dero-ghe in punto di giurisdizione.

17 M. Ramaioli, Giurisdizione ordinaria sul rapporto tra amministrazio-ne e aggiudicatario, in «Diritto processuale amministrativo», 2008, p. 525.

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giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è stata rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che si è espressa con la sentenza 30 luglio 2008, n. 9. Con questa decisione, anche l’Adunanza plenaria sembra (de-finitivamente?) essersi uniformata all’orientamento della Corte di cassazione, in ordine all’assenza di giurisdizione in capo al giudice amministrativo. In realtà, nella stessa decisione, il Consiglio di Stato finisce con il riaffermare la giurisdizione amministrativa. Infatti, la sentenza sostiene che, qualora l’amministrazione rimanga inerte e non pro-ceda autonomamente alla caducazione del contratto, il giudice amministrativo possa disporre, in sede di ottempe-ranza, la sostituzione dell’aggiudicatario al contraente nei cui confronti l’aggiudicazione è stata annullata18.

Sicuramente sarebbe più efficiente una soluzione che concentrasse in capo a un solo giudice i due profili, tanto più che, sia l’istituto della pregiudizialità amministrativa, sia la competenza del giudice amministrativo, trovano conforto nella direttiva comunitaria 2007/66/Ce19.

Come si è detto, le oscillazioni giurisprudenziali costi-tuiscono un fattore di grande incertezza per gli operatori coinvolti nel contenzioso amministrativo sulle opere pub-bliche.

Questo elemento, comune a ogni forma di conten-zioso, è amplificato nel settore delle opere pubbliche dal fatto che, se l’opera che deve essere realizzata coin-volge un territorio vasto, ben può accadere che lo stesso atto (per esempio, la delibera Cipe) venga impugnato di fronte a Tar diversi, che possono avere orientamenti giu-risprudenziali differenti tra loro.

In proposito, il Consiglio di Stato20 ha però indivi-duato un criterio generale che dovrebbe risolvere il pro-

18 Cfr. M.L. Maddalena, La sorte del contratto tra giurisdizione ordi-naria e giudizio di ottemperanza, in «Il Corriere del merito», 2008, 10, p. 1100.

19 Cfr. G. Greco, La direttiva 2007/66/Ce: illegittimità comunitaria, sorte del contratto ed effetti collaterali indotti, in «Rivista italiana di diritto pubblico comparato», 2008, pp. 1029 e ss.

20 Cons. di Stato, sez. VI, sent. n. 1485 del 2005.

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blema: quando i motivi di censura del ricorso riguardino inscindibilmente l’intero progetto preliminare e non affe-riscano solo a profili concernenti l’area territoriale di per-tinenza del ricorrente, la competenza spetta al Tar Lazio (con ciò, tra l’altro, aumentando il «peso» del Tar Lazio nella giustizia amministrativa di primo grado).

Anche se un certo margine di incertezza giurispru-denziale è fisiologico in qualunque ordinamento, sarebbe poi certamente utile che, per ridurne gli effetti patologici, il massimario del Consiglio di Stato, che pur esiste, fosse maggiormente valorizzato e utilizzato.

Inoltre, il legislatore dovrebbe semplificare il quadro normativo, sia procedendo alla redazione di un codice della giustizia amministrativa, sia, soprattutto, evitando continue riforme delle norme che disciplinano la materia. Tali mo-difiche continue rendono infatti particolarmente difficile – non solo per le imprese e le Pubbliche amministrazioni, ma anche per gli operatori del diritto che sono chiamati ad applicare e interpretare le norme stesse – il rispetto delle regole, e costituiscono probabilmente una delle più significative cause di incremento del contenzioso.

5. Come ridurre le conseguenze dell’accoglimento della domanda? Reintegrazione in forma specifica o risarci-mento del danno?

È noto che l’esito dei ricorsi dipende in parte dal pe-titum del ricorrente e in parte dai poteri dell’organo giu-risdizionale decidente.

È noto anche che l’art. 7 della l. n. 205/2000, modifi-cando l’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998, ha attribuito al giu-dice amministrativo, nelle materie oggetto di giurisdizione esclusiva, il potere di condannare l’amministrazione al ri-sarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica (vedi anche i connessi problemi relativi al riparto della giurisdizione segnalati nel par. precedente).

In materia di opere pubbliche, la reintegrazione in forma specifica può essere però imposta solo nei casi in

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cui l’attribuzione al ricorrente dell’appalto illegittimamente aggiudicato ad altro soggetto sia ancora possibile o non sia eccessivamente onerosa per l’amministrazione. In altri termini, il ricorrente può talvolta ottenere il risarcimento in forma specifica, oppure, come più frequentemente accade, può ottenere solo un risarcimento per equivalente.

È evidente che le conseguenze dell’una o dell’altra soluzione non sono affatto indifferenti. Se è vero che il risarcimento per equivalente non garantisce pienamente il soggetto leso, è altrettanto vero che il risarcimento in forma specifica può comportare l’annullamento del con-tratto già stipulato e, dunque, un allungamento notevole dei tempi per la realizzazione dei lavori. Anche di recente la dottrina ha evidenziato come la sostituzione dell’appal-tatore nel corso dell’esecuzione delle prestazioni provochi ritardi e disservizi gravissimi21.

Per questo motivo, il legislatore, con la Legge obiettivo, richiamando alcune disposizioni comunitarie (vedi direttive 89/665/Cee e 92/13/Cee22), ha deciso, solo con riferimento alle procedure di progettazione, approvazione e realizza-zione delle grandi opere e relative attività di espropriazione, occupazione e asservimento, di limitare l’effetto demolito-rio della decisione giurisdizionale, stabilendo che la sospen-sione o l’annullamento dell’affidamento non determina la risoluzione del contratto già stipulato dai soggetti aggiudi-catari e che, in tale caso, il risarcimento del danno avviene solo per equivalente (vedi art. 14 d.lgs. 190/2002). Tali disposizioni sono ora contenute nel Codice dei contratti pubblici (vedi art. 246, comma 4, d.lgs. 163/2006).

Su questa soluzione, i commentatori si sono divisi. Molti hanno osservato come condannare al solo risar-

cimento per equivalente possa evitare un eccessivo allun-gamento dei tempi di realizzazione dell’opera e i relativi disservizi e, inoltre, costituisca l’unico modo per evitare

21 G. Greco, La direttiva 2007/66/Ce, cit., p. 1036.22 Vi si prevede che «gli interessi economici possono essere presi in

considerazione come esigenze imperative» idonee a impedire la cadu-cazione del contratto, «soltanto se in circostanze eccezionali la priva-zione di effetti conduce a conseguenze sproporzionate».

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di penalizzare eccessivamente l’altro contraente (magari in buona fede) nonché la P.A. committente. Si pensi al fatto che l’appaltatore, sin dalla sottoscrizione del contratto, opera un enorme sforzo economico-organizzativo per il pagamento della cauzione definitiva, per l’installazione del cantiere, ecc.

Tuttavia, si è anche notato come il mantenimento del contratto rischi di provocare un doppio danno in capo allo Stato: un maggiore esborso di denaro, poiché deve essere risarcito chi vince il ricorso e il fatto che a realiz-zare l’opera sia chiamato il soggetto meno idoneo.

Nonostante qualche riserva, il legislatore ha dimo-strato l’intenzione di proseguire su questa strada. Nell’art. 20 del d.l. n. 185 del 2008, conv. nella l. n. 2 del 2009, con riferimento all’eventuale contenzioso su specifiche opere specificamente individuate, si stabilisce che

le misure cautelari e l’annullamento dei provvedimenti impu-gnati non possono comportare, in alcun caso, la sospensione o la caducazione degli effetti del contratto già stipulato, e, in caso di annullamento degli atti della procedura, il giudice può esclusivamente disporre il risarcimento degli eventuali danni, ove comprovati, solo per equivalente.

Tuttavia, per ridurre l’entità dell’esborso statale, si prevede che

il risarcimento per equivalente del danno comprovato non può comunque eccedere la misura del decimo dell’importo delle opere che sarebbero state eseguite se il ricorrente fosse risultato aggiudicatario, in base all’offerta economica presentata in gara.

È da notare come sulle future scelte operate dal le-gislatore, in un senso e nell’altro, hanno un peso le indi-cazioni provenienti dalla normativa comunitaria (vedi dir. 2007/66/Ce, c.d. direttiva ricorsi, recepita con la legge 7 luglio 2009, n. 88, art. 44)23.

23 L’approvazione della legge n. 88 del 2009 (Legge comunitaria 2008) è intervenuta nelle nuove della pubblicazione del presente lavoro. Non è stato pertanto possibile tener conto delle scelte effettuate dal legislatore

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Pur nell’ottica di garantire il pieno rispetto del diritto degli operatori a un giudice effettivo, la direttiva ricorsi sembra voler armonizzare gli interessi dei privati con l’in-teresse pubblico alla realizzazione delle opere.

Due, in particolare, i profili di maggiore interesse. La direttiva 2007/66/Ce lascia ampio margine di ap-

prezzamento agli Stati membri quanto alla scelta tra risar-cimento in forma specifica o risarcimento per equivalente. Infatti, gli Stati membri possono prevedere che il giudice competente possa tener conto delle probabili conseguenze dei provvedimenti cautelari richiesti, «per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché per l’interesse pubblico, e decidere di non accordare tali provvedimenti qualora le conseguenze negative possano superare quelle positive».

Solo nei casi più gravi il contratto deve essere conside-rato privo di effetti e, dunque, deve essere annullato con effetto retroattivo, aprendo la possibilità di ottenere il risar-cimento in forma specifica. Si tratta dei casi relativi: 1) agli appalti aggiudicati senza pubblicazione del bando, ove que-sta sia richiesta; 2) alla violazione dei termini di sospensione previsti nella direttiva posti a garantire al soggetto interes-sato di avvalersi dei rimedi giurisdizionali prima della sti-pula del contratto (in particolare, se c’è stata una violazione del c.d. standstill period ); 3) alla violazione delle regole della concorrenza, nell’ambito di alcuni specifici appalti.

Anche in questi casi lo Stato membro può decidere di conservare il contratto – imponendo, però, oltre al risar-cimento del danno a favore del privato illegittimamente escluso, anche sanzioni pecuniarie all’amministrazione aggiudicatrice – qualora il giudice accerti l’esistenza di «esigenze imperative connesse a un interesse generale». Si noti che la direttiva esclude che tali esigenze possano comprendere gli interessi economici legati direttamente al contratto, mentre si può ritenere che il giudice possa autonomamente valutare l’interesse pubblico alla sollecita realizzazione dell’opera.

nazionale. Si segnala comunque che la norma di recepimento delega il Governo ad intervenire con uno o più decreti legislativi.

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In secondo luogo, importante appare un’altra regola fissata dalla direttiva comunitaria: il punto di bilancia-mento tra effettività della tutela del ricorrente e interesse pubblico a una pronta realizzazione dell’opera viene indi-viduato nella previsione di un congruo intervallo tra aggiu-dicazione e stipulazione del contratto (c.d. standstill period ). Un termine minimo, per la verità, è già previsto nel nostro Codice dei contratti pubblici, ma solo per alcuni appalti e, comunque, è un termine il cui mancato rispetto è privo di sanzione. La direttiva ricorsi, invece, come accennato, stabilisce che il contratto stipulato in violazione dello stan-dstill period può essere dichiarato privo di effetti.

Inoltre, nel caso in cui entro il citato termine venga presentato un ricorso, la direttiva ricorsi introduce un al-tro termine sospensivo, che impedisce all’amministrazione aggiudicatrice di stipulare il contratto prima che «un or-gano di prima istanza indipendente dall’amministrazione» si sia pronunciato.

L’operare congiunto dei due termini sospensivi con-sente innanzitutto al soggetto che ritiene di essere stato illegittimamente escluso, di ricorrere efficacemente – e quindi di ottenere il risarcimento in forma specifica – prima che il contratto venga stipulato. Allo stesso tempo, l’amministrazione aggiudicatrice – dovendo attendere l’esito del ricorso prima di stipulare il contratto – vedrà fortemente ridotto il rischio di aggravare gli eventuali danni che un’aggiudicazione illegittima può comportare: essa infatti non dovrà risarcire l’eventuale danno prodotto e potrà ragionevolmente sperare di avere affidato la rea-lizzazione dei lavori all’operatore migliore.

In linea generale, se si prevedono efficaci strumenti di tutela per il ricorrente prima della stipulazione del con-tratto, appare ragionevole ritenere che sia legittimo pre-cludere successivamente l’azione di adempimento o di ri-sarcimento in forma specifica, mantenendosi solo il risar-cimento per equivalente.

Quanto osservato rende inoltre irragionevole la pre-visione di cui all’art. 8-bis del d.l. n. 185 del 2008, in-trodotto dalla legge di conversione n. 2 del 2009, dove

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si prevede l’inapplicabilità – per una serie di contratti di-sciplinati dal decreto legge stesso – del termine di trenta giorni previsto dall’art. 11, comma 10 del d.lgs. n. 163 del 2006, che deve intercorrere tra la comunicazione ai controinteressati del provvedimento di aggiudicazione e la stipula del contratto. Se è vero che l’intenzione di ab-breviare i termini per la realizzazione dell’opera è apprez-zabile, va osservato che in questo caso essa non si rivela ragionevole (ed è anzi, come si è visto, di dubbia compa-tibilità con il diritto comunitario).

6. I tempi delle decisioni

La necessità che i giudizi in materia di appalti pub-blici si svolgano in tempi celeri è sempre stata all’atten-zione del legislatore.

Il primo intervento risale al d.l. n. 67 del 1997, con-vertito in legge n. 135 del 1997, successivamente sosti-tuito dall’art. 23-bis della legge n. 1037 del 1971, intro-dotto dalla legge n. 205 del 2000.

Si prevede che nei giudizi davanti agli organi di giu-stizia amministrativa aventi a oggetto i provvedimenti re-lativi alle opere pubbliche o di pubblica utilità, tutti i ter-mini processuali, salvo quelli per la proposizione del ri-corso, sono ridotti alla metà.

Inoltre, il Tar, chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, se ritiene a un primo esame che il ricorso evi-denzi l’illegittimità dell’atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione nel merito alla prima udienza suc-cessiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza. Termini abbreviati sono previsti per il deposito di documenti e memorie a opera delle parti. Il dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dalla data dell’udienza, mediante deposito in segreteria. Termini abbreviati sono stabiliti anche per la proposi-zione dell’appello avverso la sentenza del Tribunale am-ministrativo regionale.

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Le medesime disposizioni si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata.

Sembra che l’accelerazione data al processo ammini-strativo per il contenzioso in materia di opere pubbliche abbia ridotto notevolmente i tempi di decisione (la media nazionale è di 143 giorni dal deposito del ricorso per la sentenza di primo grado e di 350 giorni per quella di ap-pello)24.

Il legislatore ha recentemente deciso di proseguire lungo questa direzione. Il già citato decreto legge n. 185 del 2008, conv. in l. n. 2 del 2009, con riferimento alla realizzazione di alcune specifiche opere, prevede infatti termini abbreviati per il ricorso.

Infine, per disincentivare i ricorsi, è stabilito che, se la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 96 del codice di procedura civile (lite teme-raria).

Gli interventi normativi citati, come già osservato, hanno ridotto notevolmente i tempi delle decisioni. Non si può tuttavia non condividere l’osservazione del presi-dente Pasquale De Lise (Relazione sullo stato della giu-stizia amministrativa 2008), secondo il quale i ricorsi che viaggiano su corsie preferenziali sono in costante aumento e generano «un traffico assai più pesante rispetto agli al-tri», con il rischio di congestionare il traffico ordinario e, a lungo andare, di rallentare la stessa corsia veloce.

7. Gli strumenti deflattivi del contenzioso

Allo scopo di diminuire la portata del contenzioso amministrativo in materia di opere pubbliche, il legi-slatore ha introdotto alcuni strumenti che al momento hanno però dato risposte solo in parte soddisfacenti.

24 G. Caruso, Tar ancora nell’occhio del ciclone, in «Italia Oggi», 4 dicembre 2008, p. 22.

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a) Attività precontenziosa svolta dall’Autorità per i la-vori pubblici

Secondo l’art. 6, comma 7, lettera n), del d.lgs. n. 163 del 2006, l’Autorità per i lavori pubblici,

su iniziativa della stazione appaltante e di una o più delle altre parti, esprime parere non vincolante relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, even-tualmente formulando una ipotesi di soluzione.

Si tratta di un parere che viene richiesto allo scopo di ridurre il contenzioso nella fase della gara. Secondo quanto affermato dal presidente dell’Autorità Giampaolino, si tratta di uno strumento cui le imprese fanno ricorso con una certa frequenza: nel solo 2007, l’Autorità ha emanato più di 400 pareri25. A ciò ha contribuito anche un’inter-pretazione estensiva dell’art. 6 citato: l’Autorità non esige infatti la richiesta contemporanea da parte delle stazioni appaltanti e delle parti, ma formula il richiesto parere an-che nel caso in cui solo l’impresa le si rivolga.

Questa attività consultiva sembra aver effettivamente ridotto il numero dei ricorsi al giudice amministrativo.

b) Accordo bonarioL’obiettivo dell’accordo bonario, disciplinato dall’art.

240 del d.lgs. 163 del 2006, era quello di diminuire il contenzioso in fase di esecuzione.

Esso dovrebbe, infatti, consentire alle amministrazioni, durante la fase di esecuzione dei lavori, di verificare l’ef-fettiva sussistenza delle riserve (vale a dire di quegli ele-menti e fattori che siano suscettibili di aggravare il costo dell’opera durante l’esecuzione della stessa), nei casi in cui dette riserve comportino una variazione dell’importo economico dell’opera non inferiore al 10% dell’importo contrattuale. In altre parole, con l’accordo bonario si do-vrebbero definire in via accelerata le controversie insorte

25 Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Relazione annuale 2007, illustrata alla Camera dei deputati il 9 luglio 2008.

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a seguito delle riserve formulate, in corso d’opera, dall’ap-paltatore di un contratto di appalto di opera pubblica.

Secondo la determinazione n. 5/2007 del 30 maggio 2007, recante Contenzioso in fase di esecuzione: Accordo bo-nario dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (ma vedi anche audizione Giam-paolino), l’applicazione del procedimento dell’accordo bo-nario si è rivelata poco funzionale e, anzi, ha incrementato in modo piuttosto rilevante il contenzioso in fase di esecu-zione. Tale strumento viene, infatti, generalmente utilizzato dalle imprese al fine di pervenire in tempi brevi al riconosci-mento di determinate richieste economiche, di gran lunga inferiori alla citata soglia del 10%, ma «gonfiate» fino a tale cifra, al solo scopo di evitare il ricorso alla giurisdizione ordinaria. Al termine della procedura, esse poi ricevono di norma da un decimo a un terzo di quanto richiesto.

Inoltre, l’Autorità segnala come l’accordo bonario sia di fatto utilizzato dalle imprese per correggere la formu-lazione di offerte non pienamente ponderate in sede di appalto, o per recuperare parte del ribasso offerto, o per ottenere il riconoscimento di ulteriori e maggiori lavori che dovrebbero essere invece contemplati in varianti in corso d’opera.

Tutto ciò – come è emerso da diverse audizioni (dott. Giampaolino e ing. Castellucci) – è spesso causato dal duplice concorrere di due fattori: il fatto che i bandi di gara siano formulati sulla base di prezziari di per sé bassi e il fatto che, per vincere la gara, le imprese abbassino a loro volta il prezzo del costo dell’opera, provando poi a recuperarlo durante la fase di esecuzione.

c) ArbitratoÈ disciplinato dagli artt. 241 e 242 del Codice dei con-

tratti pubblici. Vi si può ricorrere qualora nel contratto di appalto sia stata inserita un’apposita clausola compromis-soria (non potendo essere obbligatorio: cfr. Corte cost., ex multis, decisioni nn. 152/1996 e 381/1997).

Le norme consentono la distinzione tra arbitrato «li-bero» (in cui le parti decidono tutti e tre gli arbitri) e

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arbitrato «amministrato» (art. 241, comma 15: se manca l’accordo tra le parti in relazione alla nomina del terzo arbitro, provvede la Camera arbitrale istituita presso l’Au-torità). L’arbitrato libero si presenta più costoso perché arbitri, segretari e periti decidono il loro compenso; vice-versa, nell’arbitrato amministrato è la Camera arbitrale a determinare i compensi.

Negli ultimi anni si è registrato un calo degli arbitrati amministrati dalla Camera arbitrale e un aumento degli arbitrati liberi.

Dagli studi e dalle relazioni dell’Autorità per la vigi-lanza sui contratti pubblici le amministrazioni pubbliche risultano soccombenti (almeno parzialmente) nel 95% de-gli arbitrati (a differenza di ciò che avviene di fronte al giudice ordinario). L’unione di questi due fattori ha de-terminato un conseguente aumento degli oneri finanziari per le amministrazioni.

Per questo motivo, anche in attesa di una riforma del-l’istituto, il legislatore, con la legge finanziaria 2008 (art. 3, comma 19, legge n. 244 del 2007), aveva vietato a tutte le P.A. di inserire nei contratti d’appalto clausole com-promissorie, con connesso obbligo di devolvere le contro-versie alla giurisdizione ordinaria. La vigenza del divieto viene però continuamente rinviata: si veda da ultimo il decreto legge n. 162 del 2008, che consente di ricorrere all’arbitrato fino al 31 dicembre 200926.

Il continuo rinvio è dovuto alla difficoltà di indi-viduare una soluzione alternativa: il d.l. 248 del 2007 preannunciava peraltro la devoluzione della cognizione di queste controversie alle sezioni speciali in materia di bre-vetto dei Tribunali civili.

Il dott. Giampaolino, durante l’audizione, ha sottoli-neato che la maggiore rapidità delle decisioni arbitrali ri-spetto a quelle della giustizia ordinaria consiglierebbe di non abolire l’istituto, bensì di disciplinarlo in modo da

26 Cfr. art. 1-ter del d.l. n. 162 del 2008 come modificato dall’art. 1 quinquiesdecies del d.l. n. 207 del 2008, introdotto dalla legge di con-versione 27 febbraio 2009, n. 14.

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rendere obbligatorio che il terzo arbitro sia nominato da un’Autorità indipendente.

d ) Altri strumentiInteressante è la soluzione suggerita dalla direttiva ri-

corsi, che consente agli Stati di prevedere che coloro che intendono proporre ricorsi debbano informare preventi-vamente l’amministrazione aggiudicatrice, in modo che quest’ultima, se lo ritiene opportuno, possa procedere in via di autotutela.

Al contrario, non appare opportuno recepire la norma che consente (ma non impone) di introdurre l’obbligo di un preventivo ricorso amministrativo presso la medesima amministrazione, dal momento che ciò allungherebbe inutilmente i tempi, senza assicurare una tutela effettiva e imparziale.

8. Criminalità organizzata e opere pubbliche: gli interventi delle autorità amministrative e del giudice penale

Discorso parzialmente diverso, ma destinato a incidere fortemente sui tempi di realizzazione delle grandi opere, è quello dell’impatto della criminalità organizzata.

In certe regioni, soprattutto del Sud Italia (ma ormai non più solo del Sud), le imprese che si aggiudicano le gare incontrano difficoltà a realizzare l’opera, sia perché faticano a reperire imprese sub-appaltatrici che non ab-biano legami con la criminalità organizzata (vedi quanto emerso dall’audizioni dei prefetti), sia perché subiscono attentati e intimidazioni27.

Il rischio che soggetti legati alla criminalità organiz-zata si avvantaggino in vari modi degli appalti pubblici è altissimo. Per questo, ormai da anni, il legislatore ha cer-cato di predisporre degli strumenti preventivi di natura

27 Vedi documento riservato predisposto dall’Anas consegnato alla Commissione parlamentare antimafia, di cui dà notizia R. Galullo, Sul-l’autostrada della malavita, in «Il Sole 24 Ore», 7 febbraio 2009, p. 12.

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amministrativa che, però, non appaiono del tutto ade-guati.

Il primo strumento è costituito dalla c.d. «certifica-zione antimafia» che deve essere acquisita da Pubbliche amministrazioni, enti pubblici, enti e aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico, dalle società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pub-blico, nonché dai concessionari di opere pubbliche, prima di porre in essere atti, contratti ed erogazioni il cui valore complessivo supera i 300 milioni di vecchie lire.

La «certificazione antimafia» si articola in due catego-rie.

Per gli atti e i contratti di rilevanza minore (ovvero per i lavori il cui importo è inferiore alla c.d. soglia co-munitaria), è sufficiente che le Camere di commercio, in-dustria e artigianato (in alcuni casi, le stesse prefetture: vedi artt. 3 e 6 d.p.r. 252/1998) rilascino una «comuni-cazione», con cui si accerta la sussistenza, o meno, delle situazioni ostative contemplate dall’art. 10, l. 575/1965, ossia decadenza, sospensione o divieto determinati dalla definitiva applicazione di misure di prevenzione antima-fia, da sentenze penali di condanna o da altri provvedi-menti del tribunale.

Se, invece, si tratta di porre in essere atti e contratti di rilevanza superiore, si deve ottenere una «informazione antimafia», con cui la Prefettura, anche mediante proprie indagini istruttorie, accerta l’insussistenza di elementi rela-tivi a «tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o im-prese interessate» (artt. 10 e 11 d.p.r. 252/1998). Si tratta di una misura di tipo preventivo, che prescinde dalla commissione di reati, ma che può avere conseguenze ri-levanti, poiché determina automaticamente l’esclusione dalla gara o la revoca del contratto stipulato.

Diversi casi di cronaca28 dimostrano come il sistema della certificazione antimafia non costituisca un istituto

28 Per esempio una ditta che godeva della certificazione antimafia e che si era aggiudicata anche alcuni appalti banditi dalla Provincia di Caserta faceva in realtà capo al fratello del boss camorristico Setola

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adeguato allo scopo. Per questo, nel corso delle audizioni (in particolare l’audizione dell’ing. Paolo Buzzetti, presi-dente Ance), è emerso come le stesse imprese appaltanti sentano la necessità che venga introdotto uno strumento diverso che consenta davvero, con certezza, di sapere su quali ditte poter contare per realizzare l’opera29.

Presumibilmente, il fallimento della certificazione an-timafia risiede nel controllo meramente formale operato dalle Camere di commercio. È vero che tali certificazioni riguardano solo gli appalti di minore valore, ma questi ultimi costituiscono il numero maggiore: spesso l’opera viene realizzata da molti sub-appaltatori di dimensioni ridotte e se il sistema della certificazione antimafia è fal-lace, ciò può determinare la necessità di successivi inter-venti della magistratura penale, che naturalmente pregiu-dicheranno il normale andamento dei lavori.

Sempre in via preventiva, e dunque prima dell’inter-vento dell’autorità giudiziaria, è consentito al Prefetto di inviare, in qualsiasi momento, delle «informative» atipiche sul pericolo di infiltrazione mafiosa (vedi art. 10 d.p.r. 252/1998). In questi casi, è lasciato agli enti appaltanti il compito di valutare se gli elementi forniti siano sufficienti o meno a configurare un pericolo e, dunque, decidere se e quali provvedimenti assumere.

Pur nella consapevolezza che l’intervento del legisla-tore è volto a contrastare gravi fenomeni di criminalità organizzata, va sottolineato come quest’ultimo strumento possa provocare situazioni di incertezza e anche di di-sparità di trattamento tra le imprese colpite dalle infor-mative atipiche. Premesso che il «tentativo di infiltrazione

(detenuto dal marzo 2008 con l’accusa di estorsione aggravata dal fa-voreggiamento al clan Bidognetti e dunque chiaramente implicato in vicende giudiziarie collegate alla camorra): vedi R. Capacchione, Ap-palti alla camorra, controlli sotto accusa, in «Il Mattino», 18 gennaio 2009, p. 1, e l’intervista al presidente della Provincia di Caserta, De Franciscis, sempre in «Il Mattino», 29 gennaio 2009, p. 32.

29 Vedi anche gli interventi al Convegno dell’Igi del luglio 2008 su I tentativi di infiltrazione mafiosa, le informative tipiche e quelle atipi-che o supplementari: il punto della situazione e le prospettive, in www.igitalia.it.

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mafiosa» non costituisce di per sé un reato, tale formula finisce, infatti, per comprendere situazioni molto diffe-renti, più o meno gravi, lasciando all’impresa appaltante la decisione in merito alle conseguenze da adottare (per esempio, revocare i contratti). Ciò presta il fianco a ulte-riori ricorsi di fronte al giudice amministrativo, con con-seguente blocco dei cantieri. Si pensi alla vicenda della revoca, da parte dell’Anas, di tre contratti stipulati con la ditta Condotte, colpita da informativa atipica, relativi a lavori sulla Salerno-Reggio Calabria e sulla 106 Jonica, e al contenzioso amministrativo instaurato da Condotte av-verso i provvedimenti prefettizi30.

Come si anticipava, quando questi strumenti di na-tura preventiva non diano risultati, o, comunque, vi siano indizi della commissione di reati (non solo legati alla cri-minalità organizzata, ma anche reati ambientali31 o relativi alla mancata sicurezza nei cantieri), può aversi in materia di opere pubbliche anche l’intervento del giudice penale.

Si tratta di casi non frequenti, ma dagli esiti incisivi, poiché determinano una vera e propria sospensione dei lavori.

In alcuni casi, tra l’altro, l’intervento dell’autorità giu-diziaria si è configurato come una sorta di anomala in-terferenza rispetto ai compiti dell’autorità amministrativa (vedi caso di Porto Tolle).

9. L’approccio del giudice amministrativo

Dall’analisi del contenzioso in tema di infrastrutture emerge chiaramente il peso della giustizia, soprattutto amministrativa, sulla capacità decisionale della Pubblica amministrazione. È infatti questa la sede in cui viene ope-

30 V. Uva, Anas sblocca i contratti con il gruppo Condotte, in «Il Sole 24 Ore», 17 aprile 2008, p. 20.

31 Vedi, per esempio, sulle indagini della Procura di Milano che ha messo sotto sequestro diversi cantieri della Tav Torino-Milano per rea-ti ambientali e smaltimento rifiuti, M. Sasso, Il binario si è intossicato, in «L’Espresso», 29 maggio 2008, pp. 87-88.

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rato il necessario – ma difficile – bilanciamento tra inte-resse pubblico (alla realizzazione dell’opera) e tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.

Per questo motivo, è utile chiedersi quale sia l’ap-proccio culturale con il quale il giudice amministrativo affronta tali questioni: se, cioè, come è tradizione, egli ri-tenga ancora prioritario l’interesse pubblico, o se, invece, sia ormai largamente diffusa, anche nella giurisprudenza amministrativa, l’idea, culturalmente maggioritaria fra gli «accademici», che considera essenziale la tutela della posizione del soggetto privato, considerato «debole» per definizione, e la necessità costituzionale di garantirlo ri-spetto all’eventuale arbitrio della P.A.

Come è noto, la natura del giudizio amministrativo ha subìto ampi mutamenti nel corso degli anni, insieme al mutare della concezione stessa della P.A., non più vista solo come portatrice di un interesse pubblico, o di fina-lità pubbliche da perseguire, ma anche come un potere neutrale e imparziale.

In questo quadro, può non essere infrequente che l’interesse del privato non venga considerato di per sé meno importante di quello della P.A.

A questo risultato ha certamente contribuito anche l’intreccio sempre più stretto tra diritto ed economia32.

Tuttavia, pare necessario sottolineare che spesso il «privato» che si contrappone alla P.A. non è il singolo cittadino isolato e «debole», bensì un gruppo economico talvolta anche più «forte» dello Stato. Si tratta cioè di un privato che spesso dispone di risorse e mezzi di tutela che gli consentono di far valere la sua posizione davanti al giudice meglio di quanto non riesca a fare la stessa P.A.

32 «Il principio di autorità cede il passo a quello della ricerca del consenso delle imprese e, dunque, il giudice amministrativo, a fronte delle varie partnership tra privati e P.A., si trova a dover bilanciare in-teressi diversi, in una situazione di “progressivo offuscamento di sicuri indici caratterizzanti l’interesse pubblico”» (M. Clarich, Per una Giu-stizia amministrativa moderna servono informatica e un codice di rito, in «Guida al diritto», 10, 2008, p. 11).

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Di fronte a queste tendenze, appare opportuno riba-dire che soprattutto nei giudizi amministrativi che più qui riguardano l’interesse pubblico si dovrebbe costituire un cri terio di valutazione prioritario.

In questa prospettiva, è interessante notare che, pro-prio con specifico riferimento ai giudizi amministrativi ri-guardanti le grandi opere, la Legge obiettivo (vedi art. 14 d.lgs. 190/2002) ha stabilito alcune indicazioni per i giu-dici amministrativi: in particolare, la valutazione del prov-vedimento cautelare eventualmente richiesto deve tenere conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, non-ché del preminente interesse nazionale alla sollecita realiz-zazione dell’opera.

Inoltre, essa prevede che, nel concedere la misura cautelare, il giudice non possa prescindere dal motivare anche sulla gravità e irreparabilità del pregiudizio all’im-presa del ricorrente, il cui interesse dovrà comunque es-sere comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure.

Alcuni commentatori hanno osservato che si trattava di disposizioni inutili e pleonastiche. Esse costituiscono tuttavia un significativo segnale del fatto che il legislatore ha sentito la necessità di ribadire che nel giudizio ammi-nistrativo l’interesse pubblico deve avere una rilevanza primaria.

10. Alcune proposte

Secondo i dati statistici citati (vedi par. 1) il conten-zioso costituisce una, ma non la prima, delle cause dei ritardi di realizzazione dell’opera e del relativo aumento dei costi.

Sempre in linea generale, dall’analisi del contenzioso che interessa la realizzazione di opere pubbliche, emerge, poi, come molto spesso esso costituisca la sede in cui si «scaricano» a valle disfunzioni che riguardano il proce-dimento di realizzazione dell’opera. Laddove, infatti, vi

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è stato il coinvolgimento degli Enti locali e delle popo-lazioni interessate; laddove la progettazione, sia ingegne-ristica, sia territoriale, è stata realizzata bene; e laddove il bando di gara è stato redatto in modo preciso, il con-tenzioso si riduce numericamente e, dunque, non è in grado di incidere in modo sostanziale sulla realizzazione dell’opera.

Ciò ovviamente non esclude la possibilità di indivi-duare misure deflative e acceleratorie del contenzioso.

A tale scopo appare tuttavia necessario distinguere il tipo di ricorrente e i vizi denunciabili.

1) I ricorsi presentati da soggetti pubblici e privati portatori di interessi c.d. oppositivi (gruppi di cittadini, as-sociazioni ambientaliste, Enti locali) potrebbero essere di fatto ridotti attraverso un loro più ampio coinvolgimento fin dalla fase iniziale del procedimento, proponendo loro una pluralità di soluzioni alternative e concedendo misure compensative (vedi le proposte avanzate dai gruppi di la-voro coordinati dai proff. Luciani, Amato e Cerulli Irelli). In tal modo, per esempio, il contenzioso che vede con-trapposti enti territoriali di diverso livello, spesso fondato su motivi politici, potrebbe essere composto preventiva-mente (si immagini la Provincia che vuole la costruzione della discarica rispetto al Comune che, in vista delle ele-zioni, si oppone al progetto sostenendo le ragioni della cittadinanza).

Inoltre, per limitare giuridicamente l’accesso alla giu-stizia amministrativa da parte di questi soggetti si po-trebbe ipotizzare:

a) di porre come condizione di ammissibilità del ri-corso l’aver partecipato al procedimento (onere di parte-cipazione preventiva);

b) di escludere i ricorsi che lamentino la mancata con-siderazione di elementi che al ricorrente sarebbe stato pos-sibile chiedere di acquisire nella fase istruttoria del proce-dimento (questa è anche la proposta del gruppo coordi-nato dal prof. Luciani, che si condivide pienamente).

2) Pur nella consapevolezza che gli artt. 24 e 113 Cost. non consentono di incidere significativamente sulla

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ricorribilità a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, si potrebbe, tuttavia, ipotizzare di introdurre qualche li-mite alla possibilità di instaurare ricorsi. Ad esempio, nel-l’ambito di un procedimento complesso (come quello che porta alla realizzazione di una infrastruttura strategica, vedi par. 3), articolato in più subprocedimenti autonomi, si potrebbe prevedere che, decorsi i termini per l’instau-razione dei giudizi con riferimento all’atto finale di cia-scun sub-procedimento, non sia più possibile ricorrere avverso quegli atti (per esempio, stabilire espressamente che i bandi, ove immediatamente lesivi, debbano essere impugnati subito e non contestati successivamente, per esempio insieme all’aggiudicazione definitiva).

Non si ignora che la giurisprudenza amministrativa ragiona già così in relazione ai ricorsi di coloro che, par-tecipando ai singoli subprocedimenti, subiscano lesioni nell’ambito di questi (se essi non hanno presentato tem-pestivo ricorso, non possono lamentare gli stessi vizi in sede d’impugnazione di provvedimenti relativi a fasi suc-cessive). Ma potrebbe essere opportuno estendere in via esplicita e generale questo regime per tutte le procedure che riguardano le infrastrutture di particolare interesse pubblico.

L’idea alternativa di concentrare nella sola fase con-clusiva del procedimento la possibilità di impugnativa costituisce invece una soluzione solo apparentemente semplificatoria: essa non è invece efficiente, proprio per-ché determina il forte rischio di mettere in discussione gli esiti di fasi subprocedimentali da tempo conclusi.

3) Con riferimento ai ricorsi presentati dalle imprese, appare opportuno distinguere il contenzioso sull’aggiudi-cazione, che si svolge di fronte al giudice amministrativo, da quello sull’esecuzione, che si svolge invece di fronte al giudice civile.

a) Con specifico riferimento al contenzioso sull’aggiu-dicazione, appare opportuno ricordare che l’art. 23-bis della legge n. 1034 del 1971 già prevede una corsia «pre-ferenziale» per i ricorsi aventi a oggetto i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed

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esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione dei con-correnti, nonché quelli relativi alle procedure di occupa-zione e di espropriazione delle aree destinate alle predette opere. Il d.l. n. 185 del 2008, con riferimento ad altre specifiche opere, ha introdotto termini ulteriormente ri-dotti (anche per la proposizione dei ricorsi), ma solo per il primo grado, nulla invece prevedendo per i ricorsi al Consiglio di Stato.

Alcune disposizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici, con riferimento alla realizzazione delle grandi opere e a quelle contenute nel d.l. n. 185 del 2008, limi-tano l’effetto demolitorio della decisione giurisdizionale, stabilendo che la sospensione o l’annullamento dell’affi-damento non determina la risoluzione del contratto già stipulato dai soggetti aggiudicatari e che, in tale caso, il risarcimento del danno avviene solo per equivalente. Ap-pare opportuno che tali norme siano riviste e coordinate con quanto stabilito dalla direttiva ricorsi (2007/66/Ce), che attribuisce importanza decisiva al c.d. standstill pe-riod (vedi par. 5). In particolare, appare opportuno anche che il legislatore stabilisca che, nei casi in cui un ricorso venga presentato durante questo lasso temporale, non si possa stipulare il relativo contratto fino alla decisione del-l’autorità giudiziaria. Tuttavia, per impedire l’uso dilatorio del ricorso, è anche necessario prevedere che il divieto di stipulare il contratto cessi con la decisione cautelare, da rendersi in tempi necessariamente rapidi.

In tal modo, da una parte, chi ritiene di essere stato illegittimamente escluso può essere efficacemente tutelato, in tempi brevi; dall’altra, il risarcimento per equivalente, che comporta un doppio danno per la P.A., verrà con-cesso in quei pochi casi in cui la decisione di merito con-traddica la decisione cautelare.

b) La riduzione del contenzioso sull’esecuzione, che coinvolge la giustizia civile, notoriamente molto più lenta di quella amministrativa, dovrebbe preliminarmente pas-sare da una più ponderata formulazione dei bandi, so-prattutto nella parte economica (che determina tutta la

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problematica delle offerte anomale). Attualmente, a tale contenzioso prova a rimediare la pratica degli accordi bonari, venuti però a svolgere una funzione diversa da quella originaria.

In altri casi, si ricorre all’arbitrato. Come si è visto, il legislatore ha dimostrato l’intenzione di bloccare il ri-corso all’arbitrato in cui è coinvolta la P.A. Tuttavia, vista la lentezza del giudizio civile, appare difficile «rinunciare» a questo istituto (vedi par. 7).

Affinché questo strumento sia efficacemente alterna-tivo al giudizio civile, evitando però costi eccessivi per la P.A., si potrebbe: i) prevedere che già nei bandi o negli avvisi di gara sia stabilito se il contratto conterrà la clau-sola arbitrale, ii) introdurre limiti ai costi del giudizio, e iii) favorire il ricorso all’arbitrato amministrato (e non a quello libero).

c) Certamente, i problemi di cui si è appena detto potrebbero trovare migliore soluzione se, vista l’incertezza sui confini della giurisdizione amministrativa e ordinaria (cfr. par. 4), si concentrassero in capo al giudice ammini-strativo (anche in considerazione della maggiore rapidità con cui si pronuncia) la decisione sull’annullamento della gara di aggiudicazione e quella sulla sorte del contratto.

4) Implementare il massimario del Consiglio di Stato.5) Più in generale, ci si può chiedere se i ricorsi giu-

risdizionali siano evitabili, devolvendo la decisione della controversia a un’autorità di garanzia, per esempio, al-l’Autorità per i lavori pubblici. Tale soluzione, in realtà, porterebbe solo a un allungamento dei tempi della de-cisione, visto che, secondo una posizione consolidata in dottrina e in giurisprudenza, tutti i provvedimenti resi dalle autorità, in quanto amministrativi, possono, a loro volta, essere impugnati di fronte al giudice amministra-tivo. Perché tale soluzione possa essere efficace, bisogne-rebbe dunque ipotizzare una riforma, più generale, in me-rito all’impugnazione degli atti c.d. «paragiurisdizionali» delle autorità indipendenti, stabilendo, per esempio, che nei loro confronti è ammesso il solo ricorso al Consiglio di Stato.

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Questo non esclude invece un potenziamento dell’atti-vità pre-contenziosa dell’Autorità dei lavori pubblici che, come segnalato (par. 7), ha avuto riscontri positivi.

6) Ammesso il sostanziale fallimento della certifica-zione antimafia (vedi par. 8), quasi tutti i soggetti auditi hanno proposto la creazione di una white list, cioè di un elenco di fornitori e prestatori di servizi, ai quali le im-prese possano rivolgersi senza il rischio di stringere rap-porti con soggetti e imprese collusi con le organizzazioni criminali. Questo elenco dovrebbe comprendere tutti i fornitori di prestazioni e servizi di una determinata area geografica, ivi compresi quelli di dimensioni ridotte, di-visi per settore.

Il problema consiste nell’individuare il soggetto ido-neo a redigere questo elenco, poiché si dovrebbe trattare di un soggetto imparziale, profondo conoscitore della realtà locale e dotato di penetranti poteri istruttori.

Resta, tra l’altro, aperta la possibilità che tale elenco possa essere contestato in sede giudiziaria da parte del-l’imprenditore che ritenesse di esserne rimasto ingiustifi-catamente escluso.

Rispetto, invece, alle conseguenze sull’andamento dei lavori dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria in sede penale (vedi par. 8), si potrebbe ipotizzare una riduzione degli effetti dei sequestri, quantomeno introducendo dei limiti di durata.

APPENDICE

La Società Geografica Italiana, a seguito della sua au-dizione da parte dei gruppi di ricerca, ha inviato un do-cumento di particolare interesse sulla valorizzazione del territorio e delle sue articolazioni in connessione alle ana-lisi e proposte avanzate nel Rapporto.

Riteniamo perciò utile allegare questo documento in appendice alle Relazioni dei gruppi di ricerca.

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La discussione promossa da Italiadecide ha indivi-duato, per il versante geografico, la necessità di una più puntuale messa a fuoco della dimensione urbana dell’as-setto territoriale italiano, vuoi a scala propriamente nazio-nale, vuoi con riferimento alle dinamiche spaziali europee. In particolare è sembrato necessario verificare la possibi-lità di implementare un sistema territoriale di banca dati e di una sua resa in termini cartografici. Parimenti si è verificata l’opportunità di una maggiore qualificazione, nei termini di possesso di una idonea formazione alle di-namiche del territorio, da parte dei responsabili delle am-ministrazioni locali.

Sulla prima esigenza si propone, a titolo esemplifi-cativo e di progetto pilota, la realizzazione di strumenti operativi per il governo partecipativo della città e sistemi in formativi territoriali per la gestione della mobilità ur-bana con l’obiettivo di coniugare dimensione urbana, processi decisionali e partecipazione bottom-up e giungere alla realizzazione di:

1) strumenti operativi per il governo partecipativo della città – mediante la creazione, a scala nazionale, di una rete presso gli Enti locali e il consolidamento delle pratiche partecipative presso la Pubblica amministrazione – attraverso l’attività di:

a) monitoraggio e censimento, a scala nazionale, degli uffici e delle attività finalizzati alla promozione di prati-che partecipative presso le amministrazioni locali;

b) organizzazione di un progetto formativo sulla parte-cipazione, presso le amministrazioni locali, volto sia a for-nire metodologie, tecniche e strumenti di governance, che ad appoggiare la realizzazione di specifici processi parte-cipativi;

APPENDICE

DOCUMENTO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA ONLUS

306

c) creazione di uno strumento di formazione sulle principali metodologie, tecniche e strumenti finalizzati a favorire le attività di partecipazione da diffondere presso gli Enti locali.

2) Sistemi informativi territoriali per la gestione della mobilità urbana, mediante attività di:

a) monitoraggio della mobilità urbana (infrastruttura-zione urbana, movimenti di popolazione, pendolarismo, turismo ecc.) nel territorio italiano a livello locale;

b) organizzazione di un progetto formativo sulla mo-bilità urbana, presso le amministrazioni locali, volto a fornire strumenti teorico-metodologici per l’analisi delle declinazioni locali del movimento (infrastrutturazione ur-bana, migrazioni, pendolarismo, turismo) e, in particolare, casi di studio su sistemi cartografici finalizzati all’indagine delle migrazioni in contesto italiano;

c) realizzazione di un sistema informativo territoriale per la gestione della mobilità urbana.

Contesto

Negli ultimi vent’anni si è assistito, a livello inter-nazionale, all’emanazione di principi e alla diffusione di pratiche che assicurino la partecipazione delle comunità lo-cali nella presa di decisione per questioni di interesse pub-blico, unica modalità ritenuta necessaria per garantire la sostenibilità di qualsiasi intervento urbanistico1.

1 Rispetto alla vasta bibliografia sul tema si rimanda, oltre all’Agen-da 21 (Unced, Agenda 21: Earth Summit, The United Nations Pro-gramme of Action from Rio, 1993), a una delle prime guide prodotte per facilitare i processi di partecipazione comunitaria alla presa di de-cisione (D. Wilcox, The Guide to Effective Participation, Joseph Rown-tree Foundation, 1994, disponibile su http://www.partnerships.org.uk/guide/) e ad alcuni volumi dedicati alle pratiche partecipative in Italia (G. Allegretti e M.E. Frascaroli, Percorsi condivisi. Contributo per un atlante di pratiche partecipative in Italia, Firenze, Alinea, 2006; L. Bob-bio, A più voci. amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e citta-dini nei processi decisionali inclusivi, Cantieri – Analisi e strumenti per l’innovazione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004).

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A scala europea, sono in corso di sperimentazione nuove forme di gestione e governo della città, dove il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte è andato progres-sivamente acquisendo un valore sostanziale. Il diffondersi della conoscenza di tali esperienze di partecipazione ha riscosso crescente interesse soprattutto in seguito all’ema-nazione dei principi di partecipazione e di buona gover-nance all’interno di alcuni documenti ufficiali prodotti presso le istituzioni comunitarie. Risale al 1994 l’appli-cazione dei principi di Rio, espressi nell’Agenda 21, allo specifico contesto territoriale europeo, grazie all’emana-zione della Carta di Aalborg, in occasione della confe-renza europea sulle città sostenibili, con la quale le città e le regioni europee firmatarie si impegnano ad attuare l’Agenda 21 a livello locale e a elaborare piani d’azione a lungo termine per uno sviluppo sostenibile, considerando il ruolo fondamentale dei cittadini e il coinvolgimento delle comunità locali2. Tra i documenti che sono seguiti, si ricordano nel 2001 il Libro bianco sulla governance eu-ropea3 e la Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 19 per promuovere la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica a livello locale4 e la recente Carta europea della partecipazione, stilata nell’ambito del progetto Parteci-pando all’interno del programma europeo Urbact dedi-cato alla città5. Sulla base dei principi emanati in tali do-

2 La Carta di Aalborg è stata approvata a Aalborg, Danimarca, du-rante il convegno svoltosi dal 24 al 27 maggio 1994 patrocinato dalla Commissione europea, dalla città di Aalborg e dal Consiglio interna-zionale per le iniziative ambientali locali (Iclei).

3 Con questo Libro bianco l’Europa traccia le linee della governance, vale a dire un sistema di governo che renda più trasparente il processo di elaborazione delle politiche dell’Unione europea, con l’obiettivo di favorire la partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni alla defini-zione e presentazione delle suddette scelte politiche. Si veda: Commis-sione europea, La governance europea, un libro bianco, Bruxelles, 2001.

4 Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, Raccomandazione 19, in merito alla «Partecipazione dei cittadini alla vita pubblica a li-vello locale», Bruxelles, 2001.

5 Il progetto Partecipando è stato creato in seno al programma eu-ropeo Urbact (finalizzato alla promozione dello sviluppo urbano soste-nibile in Europa) e ha visto la creazione di una rete urbana europea

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cumenti, si sono diffusi pratiche e strumenti di partecipa-zione tra i quali rivestono sicuramente un ruolo centrale i bilanci partecipativi, ovvero le esperienze di coinvolgi-mento dei cittadini nella costruzione di politiche e/o di progetti territoriali imperniati sulla condivisione di alcune voci centrali che compongono i bilanci degli Enti locali.

In tale contesto europeo, l’Italia deve porre una cre-scente attenzione e una sensibilità sempre più forte verso il tema della partecipazione dei cittadini alla presa di de-cisione per questioni di interesse urbanistico6 e far cre-scere l’esigenza di trovare strumenti operativi atti a tra-durre i principi in pratiche da adottare nei diversi conte-sti locali del paese.

Al contempo, a livello internazionale, la mobilità as-sume sempre più rilievo quale ambito di interesse in rela-zione alle dinamiche di mutazione dei sistemi territoriali da un approccio areale a uno reticolare. In particolare, la mon-dializzazione impone sempre più la necessità di riflettere sulle dinamiche che investono il sistema mondo7 e, spe-cificatamente, sulle molteplici declinazioni del movimento che pongono al centro della riflessione i sistemi locali8. In

composta da 22 città d’Italia, Francia, Belgio, Spagna, Regno Unito, Grecia, Turchia e Slovenia. L’obiettivo è sviluppare inchieste, ricerche e confronti internazionali per la capitalizzazione delle esperienze delle città partner sui processi di partecipazione. I risultati sono confluiti in un manuale: Manuel européen de la participation, Urbact-Partecipando, Bruxelles, Ue, 2006, disponibile su http://urbact.eu/fileadmin/subsites/participando/pdf/Manuel_europeen_de_la_participation.pdf.

6 Basti pensare all’iniziativa della Rete del Nuovo Municipio (Arnm), fondata nel 2003, che mette in dialogo organizzazioni sociali, università e amministrazioni interessate a sperimentare percorsi di ge-stione territoriale partecipativa. Tale rete riunisce a oggi 64 Enti locali italiani, per maggiori informazioni si vedano: O. Pieroni e A. Ziparo, Rete del nuovo municipio, federalismo solidale e autogoverno meridiano, Roma, Carta/edizioni Intra Moenia, 2007, e il sito http://www.nuovo-municipio.org/index.htm.

7 J. Lévy, (a cura di), L’invention du Monde, Parigi, Les Presses Sciences Po, 2008.

8 P. Coppola (a cura di), L’altrove tra noi, Roma, Società Geografica Italiana, 2003; E. Casti (a cura di), Atlante dell’immigrazione a Berga-mo: l’Africa di casa nostra, Bergamo, Bergamo University Press, 2004;

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tali contesti, di particolare rilievo pare la conoscenza di un mondo caratterizzato da flussi e relazioni che, avvicinando e disgiungendo punti della superficie terrestre, mostrano una spazialità su base reticolare in grado di evocare i valori e i meccanismi di funzionamento della società e, dunque, delle comunità che abitano i luoghi.

Centrali a tale proposito paiono gli strumenti informa-tivi territoriali su base cartografica. La mondializzazione, infatti, avendo rivoluzionato gli ambiti della comunicazione, delle idee, della cultura scientifica e artistica costringe a ripensare e riconcettualizzare l’idea di spazio, da veicolare cartograficamente. La cartografia, dunque, è chiamata a rappresentare tipi di spazio – come quello reticolare – che reclamano metriche capaci di prospettare una dimensione di flessibilità in grado di assumere il dinamismo degli scambi, la pluralità degli attori coinvolti, i differenti livelli di infra-strutturazione urbana. In tali contesti la carta è chiamata a svolgere un ruolo nel governo di realtà complesse, come quelle urbane: vengono richiesti strumenti cartografici atti a farsi carico del fatto che le città sono abitate da indivi-dui mobili, la cui esistenza è basata sullo spostamento. Tali city-user diventano, in virtù dei loro interessi, un complesso di soggetti che è opportuno coinvolgere nelle pratiche di gestione urbana e nei processi decisionali mediante forme e pratiche di governance.

E proprio la cartografia e, soprattutto, i sistemi in-formativi territoriali su base cartografica (Gis, WebGis, ecc.), si offrono quali strumenti in grado di rappresentare le molteplici declinazioni della mobilità urbana (processi di infrastrutturazione territoriale, spostamenti di popola-zione, sistemi turistici), favorendone la gestione così come l’implicazione nel processo decisionale di multipli attori urbani.

E. Casti e G. Bernini (a cura di), Atlante dell’immigrazione a Bergamo: La diaspora cinese, Ancona, Il lavoro editoriale/Università, 2008.

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Articolazione

Tenendo conto dei principi e delle direttive emanati a scala europea in materia di partecipazione dei cittadini nella presa di decisione e dei principi di gestione della mobilità urbana nel quadro della mondializzazione, si po-trebbero valorizzare gli strumenti teorici e metodologici propri delle discipline geografiche e metterli al servizio delle istituzioni e degli Enti locali al fine di:

1) assicurare il coinvolgimento degli attori territoriali nelle politiche di pianificazione e governo del territorio;

2) favorire la diffusione di sistemi informativi territo-riali per la gestione della mobilità.

Strumenti operativi per il governo partecipativo della città. L’obiettivo primario consentirebbe di identificare gli strumenti più adeguati per facilitare il dialogo e la parte-cipazione all’interno dei processi di pianificazione e pro-gettazione, con l’intento di diffondere prassi e metodi tra le amministrazioni pubbliche monitorandone i risultati. A tale scopo, si dovrebbe prevedere la programmazione di alcune azioni di supporto ai referenti delle amministra-zioni che concernono:

1) il monitoraggio e censimento, a scala nazionale, de-gli uffici e delle attività già esistenti in seno alle ammini-strazioni locali (comuni e province) preposti alle pratiche partecipative (per esempio gli Uffici partecipazione, i Bi-lanci partecipativi, ecc.);

2) l’organizzazione di un progetto formativo, presso le amministrazioni locali, volto sia alla preparazione rispetto a metodologie, tecniche e strumenti di partecipazione, che alla consulenza per la realizzazione di specifici pro-cessi partecipativi inerenti:

a) la raccolta dei dati socio-territoriali mediante inda-gini di terreno basate sulla cartografia partecipativa;

b) l’identificazione degli attori portatori di interessi (stakeholders) in contesti territoriali diversificati (territori multiculturali, sistemi multietnici, ecc.);

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c) la creazione di tavoli di concertazione per la ge-stione di dinamiche conflittuali inerenti l’accesso o la competizione sulle risorse sociali e territoriali;

d ) la creazione di uno strumento di formazione sulle principali metodologie, tecniche e strumenti finalizzati a promuovere le attività di partecipazione da diffondere presso gli Enti locali.

Sistemi informativi territoriali per la gestione della mo-bilità urbana. Si dovrebbero poter sviluppare strumenti informativi territoriali per la gestione della mobilità ur-bana, realizzati su base cartografica (Gis, WebGis, ecc.). Particolare rilievo, in tale prospettiva, dovrebbe essere conferito ai sistemi migratori che interessano il territorio italiano quale caso di studio inerente la creazione dei ter-ritori multiculturali.

Le attività si articolerebbero come segue:1) monitoraggio del sistema di mobilità (infrastruttura-

zione urbana, movimenti di popolazione, ecc.) nel territo-rio italiano a livello locale;

2) organizzazione di un progetto formativo sul mo-vimento, presso le amministrazioni locali, volto a fornire strumenti teorico-metodologici per l’analisi delle decli-nazioni locali del movimento (migrazioni, pendolarismo, turismo) e, in particolare, casi di studio su sistemi carto-grafici finalizzati all’indagine delle migrazioni in contesto italiano;

3) realizzazione di un sistema informativo territoriale per la gestione della mobilità urbana.

Risultati

I risultati previsti in seguito a tali azioni sono di diverso genere e supporto e possono essere articolati come segue:

1) Strumenti operativi per il governo partecipativo della città

a) una cartografia tematica a scala nazionale che illu-stri gli uffici esistenti all’interno delle amministrazioni lo-cali e preposti alle pratiche partecipative;

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b) corsi di formazione presso alcuni Enti locali di città campione per la realizzazione di processi partecipativi specifici;

c) un manuale in lingua italiana finalizzato a illustrare le principali metodologie, tecniche e strumenti finalizzati a promuovere le attività di partecipazione per il governo della città.

2) Sistemi informativi territoriali per la gestione della mobilità urbana

a) una cartografia tematica a scala nazionale che illu-stri il sistema di mobilità italiano;

b) la realizzazione di corsi di formazione presso alcuni Enti locali di città campione per la realizzazione di stru-menti di gestione della mobilità urbana;

c) un sistema informativo territoriale per la gestione della mobilità urbana.

Relativamente alla necessità di una più idonea forma-zione dei responsabili delle amministrazioni locali che ge-stiscono il territorio, colto nella molteplicità dei suoi aspetti, si ritiene che essa possa essere soddisfatta tramite realizza-zione di percorsi e strumenti operativi per una gestione con-sapevole e integrata della «cosa pubblica» che consentano a ciascun «soggetto» giuridico di indirizzare la specificità del proprio ruolo verso l’Obiettivo condiviso di «sviluppo».

In questa ottica azioni propositive indurrebbero a promuovere, a titolo esemplificativo, il progetto «Percorsi di alta formazione innovativa nell’amministrazione del ter-ritorio: management di cantiere».

Le azioni previste si rivolgono a:1) definizione di assetti equilibrati e sostenibili assu-

mendo le componenti naturali e antropiche del territorio quale elemento insostituibile di conoscenza e sviluppo;

2) formazione di professionalità di alto profilo, in grado di superare visioni settoriali e di aprirsi a una tra-sversalità di approcci e prospettive;

3) sviluppo di panel di competenze e professionalità in grado di cogliere le opportunità delle politiche territoriali per una competitività di medio e lungo termine che possa inserirsi nelle logiche della globalizzazione.

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Il ruolo della Pubblica amministrazione è decisivo per sostenere e promuovere processi di pianificazione che siano rispettosi delle caratterizzazioni naturali e antropiche dei territori. In questa prospettiva essa dovrà sempre più orientarsi verso la formazione di professionalità altamente qualificate; è necessario, pertanto, prevedere aggiorna-mento e specializzazione degli operatori degli Enti locali, che tengano conto, tra l’altro, delle più recenti politiche di riqualificazione ambientale e di sviluppo sostenibile, tra le quali, solo per fare qualche esempio: difesa da rischi antropici, pressione demografica, stabilità dei versanti, ac-que reflue, bonifica di siti inquinati, impatti prodotti dal-l’intensificarsi del traffico e delle emissioni di inquinanti, vivibilità dei sistemi urbani e metropolitani, ecc.

Contesto

Il ruolo istituzionale della Pubblica amministrazione si rivolge innanzitutto all’esercizio di tutte quelle attività volte alla cura degli interessi della collettività, in cui la gestione della res publica, colta nella molteplicità dei suoi aspetti, deve avere l’obiettivo di esaltarne i valori, conser-varne le originalità, valorizzarne il patrimonio materiale e immateriale, promuoverne lo sviluppo economico e sociale nel rispetto degli equilibri dei contesti di riferimento.

La complessità di contenuti e l’eterogeneità di compe-tenze che coinvolgono Enti e istituzioni dalla diversa per-sonalità giuridica richiedono una pianificazione di approc-cio matura e intergrata. Numerosi, infatti, sono gli Enti locali (Regioni, Province, Comuni, Città metropolitane, Autorità di bacino, Comunità montane, Parchi nazionali e regionali, Sovrintendenze ai beni archeologici, storico-ar-tistici e paesaggistici, ecc.), che, alle molteplici scale del-l’azione territoriale, agiscono e interagiscono con compe-tenze che spesso si sovrappongono ed entrano in conflitto per la reciproca ingerenza in settori (sanità, scuola e for-mazione, trasporti e comunicazioni, costruzioni ed edilizia popolare, attività produttive, rapporti con attori privati)

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che costituiscono ciascuno una componente imprescindi-bile, di cui tener conto per una pianificazione integrata dello sviluppo.

Nella Pubblica amministrazione la gestione del terri-torio rappresenta un valore condiviso; veicola politiche partecipate; implica un coinvolgimento e un ruolo attivo delle comunità locali; suscita l’interesse degli stakeholders che vedono nella promozione competitiva delle risorse non delocalizzabili una strategia di marketing in grado di resistere alle oscillazioni della domanda e del mercato.

Articolazione

Volendo assumere a mo’ di riferimento esemplifica-tivo per le possibili interconnessioni tra le componenti, il Codice Urbani, in vigore dal gennaio 2004, si rileva come nella terza parte esso sia indirizzato in modo spe-cifico agli Enti territoriali a cui è demandata la salvaguar-dia dei beni culturali e paesaggistici; tale orientamento si pone in linea con la Convenzione Europea del paesaggio (2000) che esorta gli Stati membri dell’Unione europea a definire azioni e strategie per la persistenza di valori e valenze sedimentate nelle forme naturali e antropiche. La qualità degli assetti territoriali costituisce un significativo indicatore di qualità ambientale e di qualità della vita in quanto consente di valutare programmi, piani e progetti attuati da Enti e istituzioni alle diverse scale dell’azione territoriale. Da presupposti di tal genere scaturisce l’arti-colazione «Percorsi di alta formazione innovativa nell’am-ministrazione del territorio: management di cantiere» per:

Definire assetti equilibrati e sostenibili. A tale scopo è necessaria un’attenta calibrazione dei processi di pianifica-zione in grado di ridurre la vulnerabilità dei sistemi territo-riali e di valorizzare e tutelare le specificità di ciascun luogo. Le azioni programmatiche previste, si riferiscono a:

1) ricognizione della molteplicità di rischi e di livelli di rischio a cui è sottoposto ciascun territorio: vulnerabi-

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lità del costruito in zone sismiche e vulcaniche, special-mente in aree urbane e metropolitane; le condizioni sta-tiche di cavità sotterranee preesistenti o da individuare per alleggerire la mobilità su gomma; le aree soggette a rischio esondazione e la tenuta di argini e altri sistemi di controllo delle acque; le caratteristiche orografiche e geo-litologiche per la realizzazione di assi infrastrutturali; il dissesto di aree di versante in relazione alle condizioni di pendenza e di altimetria;

2) individuazione dei siti più idonei per il posizio-namento dei servizi e gli eventuali interventi di mitiga-zione;

3) identificazione delle potenzialità endogene di cia-scun territorio a cui garantire riconoscibilità e centralità;

4) rispondenza tra domanda e offerta.

Formazione di professionalità di alto profilo. Tale obiettivo può essere raggiunto tramite l’organizzazione di:

1) specifici e progressivi step di qualificazione;2) stage destinati a funzionari dell’amministrazione

pubblica e strutturati in maniera interdisciplinare in modo da superare l’approccio segmentato e parziale tipico della formazione settoriale e da formare competenze speciali-stiche e di eccellenza che siano in grado di operare en-tro una prospettiva professionalizzante caratterizzata da un’ampia capacità di coordinamento, unita a un puntuale approfondimento delle operatività specifiche.

Sviluppo di panel di competenze e professionalità. L’obiettivo è quello di implementare, ai vertici dell’ammi-nistrazione, come pure nei quadri di minor livello, panel di competenze e professionalità in grado di cogliere le opportunità delle politiche territoriali per una competi-tività di medio e lungo termine che possa inserirsi nelle logiche della globalizzazione. Ad un siffatto obiettivo è possibile pervenire utilizzando tra l’altro opportuni:

1) sistemi informativi e database in grado di gestire diverse tipologie di dati (demografici, sociali, economici, territoriali, infrastrutturali, ecc.).

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Questo tipo di strumenti potrebbero essere un valido supporto per:

2) coordinamento per l’integrazione delle diverse com-petenze al fine di massimizzare i risultati ed evitare inutili e dispersive sovrapposizioni;

3) rete di servizi per la condivisione dei dati e delle informazioni sul territorio; Enti e istituzioni devono po-ter comunicare con lo stesso linguaggio, accedere e fruire delle reciproche competenze senza sovrapposizioni e/o competitività e senza spreco di energie in termini econo-mici e di capitale umano.

Risultati

La gestione del territorio è un punto di convergenza tra enti che operano in settori eterogenei, con l’obiettivo di integrare sostenibilità e produttività: dagli enti impe-gnati nella gestione degli organismi urbani più complessi a quelli istituiti per ridurre la marginalità economica di contesti dalla ridotta accessibilità; dagli enti preposti alla tutela e alla fruizione del patrimonio culturale e ambien-tale nella prospettiva dello sviluppo sostenibile a quelli centrati sul monitoraggio delle dinamiche idro-geologi-che per la prevenzione e la mitigazione dei rischi naturali; dalle istituzioni che basano la loro autorità su confini am-ministrativi storicamente consolidati a quelli che si riferi-scono a recenti perimetrazioni, stabilite su parametri di omogeneità naturale, culturale, economica e sociale, per questo dotate di maggior aderenza alle connotazioni del-l’ambiente e del paesaggio e, nel contempo, di maggiore flessibilità nei confronti del cambiamento e delle dinami-che territoriali. In tale ottica, la formazione di professio-nalità di alto profilo consente:

1) l’innovazione del territorio nei diversi quadri del-l’amministrazione pubblica, nelle funzioni, nelle modalità d’uso e, quindi, anche nelle forme.

La transizione dalla fase industriale a quella post-in-dustriale implica una trasformazione funzionale delle eco-

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nomie avanzate mediante l’individuazione di comparti produttivi contraddistinti da maggiore persistenza e soli-dità; in tale prospettiva il capitale culturale può

2) generare significative economie localizzative, soste-nere processi di accumulazione, orientare lo sviluppo verso modelli endogeni.

Skills e assets costituiscono i due binari su cui corre la competitività basata sul «capitale culturale»; le cono-scenze localizzate (skills, patrimonio immateriale) e le risorse/qualità territoriali (assets, patrimonio materiale) rappresentano, infatti, la piattaforma per la costituzione di un profilo economico innovativo. Sono queste le com-ponenti strutturali del «vantaggio competitivo localizzato» che, da prospettive diverse, potrebbero costituire il focus della progettualità territoriale.

Di seguito vengono riportati alcuni dei possibili risul-tati a cui potrebbero essere condotti i diversi enti pub-blici, usufruendo di adeguati strumenti conoscitivi, opera-tivi e propositivi. A tal riguardo:

A) Enti per il governo delle città metropolitane po-tranno sviluppare specifiche competenze al fine di riper-correre le vicende insediative per individuare il patrimo-nio culturale inserito nel tessuto edilizio e infrastrutturale; definire le risorse innovative legate alla valorizzazione della cultura in ambito urbano mediante organizzazione di eventi e rifunzionalizzazione di edifici storici; incidere sulla pianificazione attraverso una zonazione che valorizzi e faccia emergere le invarianti strutturali, che attribuisca funzioni in linea con le qualità sedimentate nel paesag-gio urbano, che riduca fattori di degrado e marginalità; individuare piani di gestione del traffico che riducano gli effetti prodotti da emissioni di inquinanti sul patrimonio, che assicurino una piena fruizione del patrimonio e una maggiore vivibilità alle aree urbane dotate di forte attrat-tività per la concentrazione di valori e valenze.

B) Enti Parco nazionali e regionali, piuttosto finaliz-zati a consentire una corretta individuazione del patrimo-nio culturale e ambientale, potranno:

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a) promuovere sistemi innovativi di valorizzazione delle risorse attraverso la coesione di soggetti e attori lo-cali;

b) favorire la creazione di consorzi contraddistinti dall’attribuzione di marchi territoriali per le produzioni di qualità nell’ambito dell’agricoltura e dell’artigianato;

c) individuare percorsi per la promozione del turismo enogastronomico, finalizzato anche alla riqualificazione delle dimore rurali;

d ) favorire l’inserimento di funzioni innovative legate ai contesti locali nei centri storici e definire logiche reti-colari fra i fulcri portanti del sistema insediativo e dell’or-ganizzazione territoriale;

e) promuovere una ricettività a basso impatto am-bientale, tenendo conto della capacità di carico dei sin-goli ambiti territoriali;

f ) orientare la pianificazione di altri enti che operano all’interno del Parco per evitare la perdita di valori e va-lenze del paesaggio;

g) promuovere sistemi di interconnessione con altre aree parco mediante individuazione di corridoi ecologici.

Simili competenze andranno sviluppate nelle C) Comunità montane, la maggiore attenzione rivolta

alla definizione di strategie per l’innalzamento dei livelli d’accessibilità, sarà la condizione imprescindibile e priori-taria per una corretta fruizione del patrimonio naturale, cul-turale e ambientale, come pure per una valorizzazione pro-positiva e innovativa delle risorse endogene ivi preservate proprio dalla mancata urbanizzazione e industrializzazione.

D) Sovrintendenze e parchi archeologici potranno svi-luppare competenze nella fruizione digitale del patrimo-nio attraverso tecnologie innovative (per esempio modelli 3D) che possano attrarre in loco flussi turistici più consi-stenti e, nel contempo, promuovere una gestione in rete tra siti afferenti a uno stesso ambito territoriale per con-sentire agli outsider una lettura di alcune stratificazioni essenziali per la comprensione dell’armatura territoriale.

E) Autorità di bacino, alle competenze di ambito bio-logico, geologico e ingegneristico, andranno affiancate

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professionalità con competenze funzionali all’individua-zione e alla valorizzazione del patrimonio che caratterizza le fasce perifluviali, perché alla corretta gestione ambien-tale possa far seguito una fruizione consapevole delle va-lenze naturali e culturali.

F) Enti che operano a scala regionale, provinciale, comunale – al fine di promuovere strategie di valorizza-zione e sostenere politiche di coesione territoriale sulla base del patrimonio culturale e del paesaggio – è neces-sario disporre di una piattaforma di conoscenze ben ar-ticolata per individuare le eccellenze su cui improntare un discorso di sviluppo endogeno, su cui far convergere i flussi della conoscenza e dell’innovazione tecnologica, come pure i processi di governance multilivello.

La sostanziale artificialità del territorio, per il suo es-sere essenzialmente un prodotto costruito e modificato dall’azione antropica, implica che tale azione di trasforma-zione debba essere sostenuta, implementata dal momento che costituisce un significativo indicatore di dinamismo e vitalità. Se effettuata in tale prospettiva, l’analisi delle stratificazioni succedutesi nel corso della storia non resta fine a se stessa, ma costituisce una piattaforma per valu-tare l’inserimento di altri elementi finalizzati a cogliere le potenzialità connesse al substrato fisico, alle componenti culturali, alla posizione geografica.

Finito di stampare nel dicembre 2009presso le Arti Grafiche Editoriali Srl, UrbinoDTP: Liligraf, San Lazzaro di Savena (Bo)