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Piccole e medie imprese: quali forme di rappresentanza sindacale? di Remedia Giorgio 1. CONTESTO Non si può dare una corretta interpretazione dell’accordo interconfederale fra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil del 28 giugno 2011 se non a partire da una analisi del contesto entro cui l’accordo è stato siglato. Basti ricordare la situazione in cui ci si trovava nel periodo immediatamente precedente. Dal gennaio 2009 il sistema delle relazioni sindacali era entrato in una profonda fase di anomia, com’era prevedibile dato che le nuove regole contrattuali erano state stipulate senza il consenso della Cgil. Il che ha determinato una fase di grande incertezza sul piano negoziale, poiché, come è ovvio, un conto è il dissenso tra le maggiori organizzazioni su uno specifico contenuto negoziale, altra cosa è la divisione sul piano stesso delle regole di sistema. Si aggiunga che l’accordo (separato) del gennaio 2009 aveva un significato plausibile in quanto si immaginasse una fase di crescita: così si doveva interpretare il senso della riduzione della funzione anzitutto salariale del contratto nazionale di categoria in direzione del rafforzamento della contrattazione aziendale sul salario variabile agganciato alla produttività.. E’ accaduto invece il contrario. Nel 2008 è esplosa la crisi finanziaria globale con i conseguenti effetti in termini recessivi sulla economia reale: basti dire che nel corso del 2010 le ore di cassa integrazione nel complesso hanno toccato la cifra record di un miliardo e 200 milioni. L’accordo del 2009 era dunque già spiazzato dai processi reali. La controprova più evidente è data da quanto è accaduto nel pubblico impiego. Infatti “l’intesa quadro sulle nuove regole contrattuali” del 20 gennaio 2009 è stata sottoscritta dal governo non come “terzo attore” ma, esplicitamente, come “parte”, in qualità di datore di lavoro nel settore pubblico. Il che, sia detto per inciso, fa sì che quell’accordo non può essere definito come patto di concertazione, a differenza del protocollo del luglio 1993. Il senso della sottoscrizione da parte del governo stava quindi nell’idea che il nuovo modello contrattuale, valorizzando la contrattazione di secondo livello a fini di incremento della produttività, potesse svolgere una funzione positiva nel settore pubblico spostando l’uso delle risorse in sede decentrata, in virtuosa connessione con gli enfatici propositi della c.d. “riforma Brunetta”. Peccato che le cose siano andate in modo diverso: la crisi finanziaria e l’esigenza di contenimento del deficit pubblico hanno indotto il governo ad adottare nei mesi successivi una serie di provvedimenti draconiani proprio nel settore pubblico, senza precedenti quanto ad intensità, a partire dal blocco pluriennale della contrattazione collettiva e quindi dal taglio generalizzato delle retribuzioni. Il che determina, in base ai canoni civilistici del rebus sic stantibus l’ovvia caducazione di quell’accordo quanto meno sul versante della sua applicazione al pubblico impiego. Ciò non toglie che l’intesa del gennaio 2009 abbia continuato a produrre effetti negativi. Infatti nell’aprile 2009 viene stipulato un ulteriore accordo separato per l’industria e, nonostante molti contratti nazionali di categoria siano rinnovati unitariamente, la contrattazione separata si riproduce prima nel settore metalmeccanico e poi anche in categorie tradizionalmente unitarie, come quella del terziario. In questo già problematico contesto si innesta poi, con tutte le sue specificità, la vicenda Fiat, dagli accordi di Pomigliano del giugno 2010 a quelli di Mirafiori del dicembre 2010 (per una analisi dettagliata si veda il n. 2 del 2011 di Lavoro e Diritto, dedicato al tema). Tale vicenda ha prodotto, tra le altre, due ulteriori varianti, con effetti tecnicamente eversivi del sistema consolidato di relazioni contrattuali: l’idea di una separazione del contratto aziendale dalla cornice del contratto nazionale di categoria (c.d. “alternatività” tra contrattazione aziendale e nazionale), con conseguente e logica uscita della Fiat dalla Confindustria, e restaurazione delle rappresentanze sindacali aziendali, come emanazioni burocratiche dei sindacati, con abrogazione delle rappresentanze unitarie elettive. L’aspetto più sconcertante di tale vicenda (l’espulsione della Fiom Cgil dalla rappresentanza e dai diritti sindacali in azienda, in quanto non firmataria del contratto aziendale, sulla base di una lettura chiaramente speciosa dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori) è stato poi saggiamente rimosso dalla sentenza del giudice del lavoro di Torino del 16 luglio 2011. Ciò non toglie che il tentativo sia stato davvero insidioso, e convalidato, in maniera per chi scrive davvero sorprendente persino da settori consistenti della c.d. dottrina giuslavorista. 1

Piccole e medie imprese: quali forme di rappresentanza ... Giorgio.pdf · deleghe normative formulate dalla legislazione sulla flessibilità degli ultimi decenni. ... D’altro canto,

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Piccole e medie imprese: quali forme di rappresentanza sindacale? di Remedia Giorgio 1. CONTESTO Non si può dare una corretta interpretazione dell’accordo interconfederale fra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil del 28 giugno 2011 se non a partire da una analisi del contesto entro cui l’accordo è stato siglato. Basti ricordare la situazione in cui ci si trovava nel periodo immediatamente precedente. Dal gennaio 2009 il sistema delle relazioni sindacali era entrato in una profonda fase di anomia, com’era prevedibile dato che le nuove regole contrattuali erano state stipulate senza il consenso della Cgil. Il che ha determinato una fase di grande incertezza sul piano negoziale, poiché, come è ovvio, un conto è il dissenso tra le maggiori organizzazioni su uno specifico contenuto negoziale, altra cosa è la divisione sul piano stesso delle regole di sistema. Si aggiunga che l’accordo (separato) del gennaio 2009 aveva un significato plausibile in quanto si immaginasse una fase di crescita: così si doveva interpretare il senso della riduzione della funzione anzitutto salariale del contratto nazionale di categoria in direzione del rafforzamento della contrattazione aziendale sul salario variabile agganciato alla produttività.. E’ accaduto invece il contrario. Nel 2008 è esplosa la crisi finanziaria globale con i conseguenti effetti in termini recessivi sulla economia reale: basti dire che nel corso del 2010 le ore di cassa integrazione nel complesso hanno toccato la cifra record di un miliardo e 200 milioni. L’accordo del 2009 era dunque già spiazzato dai processi reali. La controprova più evidente è data da quanto è accaduto nel pubblico impiego. Infatti “l’intesa quadro sulle nuove regole contrattuali” del 20 gennaio 2009 è stata sottoscritta dal governo non come “terzo attore” ma, esplicitamente, come “parte”, in qualità di datore di lavoro nel settore pubblico. Il che, sia detto per inciso, fa sì che quell’accordo non può essere definito come patto di concertazione, a differenza del protocollo del luglio 1993. Il senso della sottoscrizione da parte del governo stava quindi nell’idea che il nuovo modello contrattuale, valorizzando la contrattazione di secondo livello a fini di incremento della produttività, potesse svolgere una funzione positiva nel settore pubblico spostando l’uso delle risorse in sede decentrata, in virtuosa connessione con gli enfatici propositi della c.d. “riforma Brunetta”. Peccato che le cose siano andate in modo diverso: la crisi finanziaria e l’esigenza di contenimento del deficit pubblico hanno indotto il governo ad adottare nei mesi successivi una serie di provvedimenti draconiani proprio nel settore pubblico, senza precedenti quanto ad intensità, a partire dal blocco pluriennale della contrattazione collettiva e quindi dal taglio generalizzato delle retribuzioni. Il che determina, in base ai canoni civilistici del rebus sic stantibus l’ovvia caducazione di quell’accordo quanto meno sul versante della sua applicazione al pubblico impiego. Ciò non toglie che l’intesa del gennaio 2009 abbia continuato a produrre effetti negativi. Infatti nell’aprile 2009 viene stipulato un ulteriore accordo separato per l’industria e, nonostante molti contratti nazionali di categoria siano rinnovati unitariamente, la contrattazione separata si riproduce prima nel settore metalmeccanico e poi anche in categorie tradizionalmente unitarie, come quella del terziario. In questo già problematico contesto si innesta poi, con tutte le sue specificità, la vicenda Fiat, dagli accordi di Pomigliano del giugno 2010 a quelli di Mirafiori del dicembre 2010 (per una analisi dettagliata si veda il n. 2 del 2011 di Lavoro e Diritto, dedicato al tema). Tale vicenda ha prodotto, tra le altre, due ulteriori varianti, con effetti tecnicamente eversivi del sistema consolidato di relazioni contrattuali: l’idea di una separazione del contratto aziendale dalla cornice del contratto nazionale di categoria (c.d. “alternatività” tra contrattazione aziendale e nazionale), con conseguente e logica uscita della Fiat dalla Confindustria, e restaurazione delle rappresentanze sindacali aziendali, come emanazioni burocratiche dei sindacati, con abrogazione delle rappresentanze unitarie elettive. L’aspetto più sconcertante di tale vicenda (l’espulsione della Fiom Cgil dalla rappresentanza e dai diritti sindacali in azienda, in quanto non firmataria del contratto aziendale, sulla base di una lettura chiaramente speciosa dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori) è stato poi saggiamente rimosso dalla sentenza del giudice del lavoro di Torino del 16 luglio 2011. Ciò non toglie che il tentativo sia stato davvero insidioso, e convalidato, in maniera per chi scrive davvero sorprendente persino da settori consistenti della c.d. dottrina giuslavorista.

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Questo è dunque il contesto entro cui maturano le condizioni dell’accordo del 28 giugno. Un quadro radicalmente critico delle relazioni contrattuali proprio mentre si affaccia un ulteriore aggravamento della crisi finanziaria, come si è reso ancora più evidente nei mesi successivi, con l’Italia messa a rischio default, gli spread con la Germania galoppanti, e un complesso massiccio quanto incoerente di manovre finanziarie per lo più scaricate sui ceti deboli e sul sistema locale. Uno scenario ancora più critico rispetto a quello del 1992-93, con una variante in peggio: l’assenza di un governo autorevole e la persistenza al governo di una maggioranza ormai agonizzante e priva di ogni sostanziale coesione. Proviamo ad immaginarci gli effetti, in tale situazione, di un ennesimo accordo separato sulle regole della rappresentanza sindacale e della contrattazione, per giunta sostenuto da un disegno di legge governativo (che risultava essere già confezionato) a sostegno della contrattazione c.d. separata. Da qui una prima conclusione: l’accordo del 28 giugno era comunque necessario1. 2. ACCORDO INTERCONFEDERALE L’accordo interconfederale del 28 giugno espone la soluzione già partecipata dalle OO.SS. nel 2008, e utilizzata nel settore pubblico, della certificazione della rappresentatività sulla base della misurazione tra dati associativi e dati del consenso elettorale nelle elezioni delle RSU, da rinnovare ogni tre anni. La novità è che tale certificazione viene oggi espressamente finalizzata al funzionamento della contrattazione collettiva nazionale di categoria. Il dato dell’accordo può essere letto come novità assai rilevante. Nel privato è sempre stato il reciproco riconoscimento tra le parti sociali a rendere effettiva la legittimazione alla contrattazione. Si assiste adesso invece ad una sorta di ribaltamento di angolazione: per partecipare alla contrattazione è necessario un dato minimo di rappresentatività. Tuttavia, una volta reso esecutivo il sistema di rilevazione dei dati di rappresentatività, pare davvero difficile evitare due effetti. Il primo è una sorta di sanzione indiretta del diritto a partecipare alla contrattazione anche per sindacati diversi da quelli aderenti alla tre confederazioni firmatarie, ove gli stessi raggiungano la soglia minima prevista; ad oggi, se in un certo settore industriale vi era un sindacato alternativo minoritario (ad es. un sindacato di base), questo era normalmente tenuto fuori dalla stanza della contrattazione, per reciproca intesa tra associazioni confederali e datoriali: d’ora innanzi sarà molto più difficile farlo ove raggiunga la soglia minima di rappresentatività definita dall’odierno accordo Il secondo effetto riguarda proprio la stipulazione del contratto nazionale, nell’ipotesi di dissensi tra le associazioni legittimate a negoziare; se è vero che nulla si dice sul punto, evitando di porre una regola espressa la formalizzazione e certificazione dei dati della rappresentanza rende davvero difficile evitare la conseguente adozione del principio maggioritario!2. Nel nuovo sistema, l'improbabile accordo “separato” che fosse sottoscritto da associazioni che, in modo certificato, non risultino nel complesso maggioritarie, potrebbe essere accordo giuridicamente valido, ma difficilmente potrebbe essere stimato quale contratto con funzione regolativa generale nella categoria . Inoltre, nella stessa ipotesi, un simile contratto non potrebbe avvalersi delle tante deleghe normative formulate dalla legislazione sulla flessibilità degli ultimi decenni. Le nuove regole, una volta operative, implicano di fatto la rinuncia delle parti stipulanti (in primo luogo di Confindustria) a sottoscrivere comunque il contratto nazionale anche in assenza di consenso generale, se non nel caso in cui le associazioni consenzienti abbiano una rappresentatività certificata maggioritaria. D’altro canto, le novità ora introdotte si riflettono anche sull’ipotesi opposta, nella quale l’accordo separato sia stipulato da OO.SS. che complessivamente possano dirsi più rappresentative sulla base dei dati certificati secondo la nuova disciplina. ‹‹Infatti, nell’attuale quadro di regole e principi legali , il contratto collettivo di categoria rinnovato

1 MARIUCCI L., Un accordo necessario, da attuare e non stravolgere, in Archivio Giuridico www.cgil.it; 2 SCARPELLI F., Una nuova pagina nel sistema di relazioni industriali: l’accordo sulle regole della rappresentatività e della contrattazione, in Archivio Giuridico www.cgil.it;

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da alcuni soltanto dei soggetti in precedenza firmatari difficilmente può considerarsi vincolante per i lavoratori iscritti all’associazione rimasta dissenziente . Tuttavia, una volta che fosse varato e condiviso nei singoli settori il sistema di regole posto dall’accordo del 28 giugno si potrebbe assistere ad un sostanziale mutamento di prospettiva : si potrebbe infatti ritenere che la condivisione di regole di misurazione della rappresentatività e di verifica del consenso implichi l’accettazione degli effetti del principio maggioritario, e quindi anche degli effetti di singoli atti negoziali eventualmente non condivisi››3. Si tratta dunque di una novità davvero importante, sia dal punto di vista teorico che pratico e tuttavia bisogna subito avvertire, che non necessariamente si traduce in un risultato positivo perché l'assunzione del presupposto legittimante della rappresentatività può poi aprire la strada a due percorsi alternativi. ‹‹O in direzione di una democrazia effettiva, per cui la rappresentatività degli attori negoziali costituisce il primo pilastro di una costruzione democratica la quale ha come secondo pilastro la genuinità della rappresentanza, e dunque la ratifica da parte degli interessati dell'impiego del mandato rappresentativo, o, invece, in direzione di un accentuato autoritarismo per cui la sussistenza di una condizione di rappresentatività maggioritaria dei soggetti firmatari - ancorché magari ”risicata” e rilevata in tempi diversi e distanti dall'occasione negoziale - si traduce in una sorta di manganello calato sui sindacati di minoranza e soprattutto sulla possibilità e volontà dei lavoratori destinatari dell'accordo, azzittiti, per così dire, ed imbavagliati dalla stessa rilevazione formale di quella rappresentatività››4. La funzione del CCNL è di ”garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale” (punto 2). Si tratta di un richiamo o sottolineatura non inutile visto ciò che si è sentito in questi mesi ed anni, circa il presunto o perfino auspicabile superamento del contratto nazionale. Non risulta però, nel testo dell'accordo la vera e propria regolamentazione della procedura di conclusione e dell'efficacia del CCNL basato sulla rappresentatività degli attori negoziali. Il testo dell'accordo interconfederale non dice nulla neanche sulla scottante questione del referendum confermativo del contratto nazionale. Dal punto 3) in poi, l'accordo interconfederale si occupa dei contratti aziendali, ossia della materia più scottante. Infatti benché Confindustria a parole abbia sempre elogiato e spinto la contrattazione di secondo livello in realtà non vi è stato accordo o documento sottoscritto dalla stessa in tema di sistema contrattuale in cui non sia prevalso, viceversa, un criterio di forte accentramento della contrattazione. ‹‹È così anche questa volta perché il punto 3) dell'accordo nel regolare il riparto delle rispettive competenze tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale, adotta ancora pienamente il criterio accentratore, quello cioè per cui ”la competenza sulla competenza” appartiene al contratto nazionale il quale delega su specifiche materie (dette in gergo sindacale ”demandi”) la contrattazione aziendale. Questa, pertanto, ha una competenza limitata e alternativa nel senso che una certa materia o si negozia a livello aziendale o a livello nazionale secondo quanto prevede la contrattazione nazionale, la quale, a onor del vero sui ”demandi” si è sempre dimostrata molto avara.››5. L’intesa del 28 giugno decide per la prima volta sul tema della vincolatività degli accordi aziendali, concordando regole diverse a seconda se nell’impresa siano costituite rappresentanze sindacali unitarie o aziendali. Ove non siano presenti le RSU, ma solo le rappresentanze sindacali aziendali, l’accordo prevede che i contratti aziendali abbiano efficacia generale se sono approvati dalle RSA delle associazioni sindacali che, singolarmente o cumulativamente, abbiano raccolto nell’anno precedente la maggioranza delle deleghe tra i lavoratori dell’impresa In tale ipotesi, però, i contratti aziendali devono essere sottoposti al voto dei lavoratori se ciò sia chiesto da almeno una delle organizzazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil, o da almeno il 30% dei

3 SCARPELLI F., ibid.; 4 ALLEVA P., Merito e prospettive dell'accordo interconfederale 28/06/2011, in Archivio Giuridico www.cgil.it; 5 ALLEVA P., ibid.;

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lavoratori dell’impresa. La consultazione è valida se partecipa almeno il 50% + 1 dei lavoratori aventi diritto al voto e l’accordo è approvato o respinto a maggioranza semplice dei votanti. Le regole ora ricordate hanno un’inconfutabile rilevanza, in primo luogo sul piano delle relazioni industriali. Se da un lato sembrano rivitalizzare l’istituto delle RSU, prevedendo una regolamentazione in caso di RSA ricompongono una forte valenza di un istituto che si credeva di sorpassare attraverso le RSU, quindi il dato politico rimane ambivalente senza sbilanciarsi su uno dei due fronti. Bisogna però avvertire che Come ci ha ammonito la giurisprudenza costituzionale, il referendum funziona, offrendo esiti democraticamente attendibili, solo se il voto è reso libero per singoli quesiti “omogenei”, “chiari” ed “univoci”. Sicché, per evitare il rischio di manomissione della deliberazione democratica, non c’è che da utilizzare il referendum con cautela. I nodi cruciali da sciogliere, oltre che quello di mettere a punto la disciplina delle RSU e di assicurarne la diffusione, quello di determinare i criteri con i quali, in forza di rappresentatività certificata, può giungersi alla stipulazione di accordi e contratti. E, però, una simile prospettiva coglie solo un pezzo della libertà sindacale e dell’autonomia collettiva, che non ha solo il problema di comporre il pluralismo, ma ha anche e primariamente il problema di massimizzare la forza “collettiva” dei lavoratori, i quali, come singoli, sarebbero solo contraenti “deboli” dinanzi al loro datore di lavoro.6 Il discorso è più complesso dal punto di vista giuridico, dovendo fare i conti col fatto che l’effetto giuridico dell’efficacia non è nella disponibilità delle parti ma dipende da regole e principi giuridici di carattere generale. ‹‹Tale scontata affermazione va peraltro combinata con l’osservazione che il tema dell’efficacia soggettiva del contratto aziendale è oggetto, anche in giurisprudenza, dei più vari orientamenti: ciò fa ritenere, a chi scrive, che l’applicazione delle regole ora formalizzate tra le maggiori confederazioni possa in effetti trovare adeguata valorizzazione in sede giudiziale. Un accordo aziendale approvato secondo le regole indicate, o validato nella eventuale consultazione referendaria potrebbe essere considerato vincolante per tutti i lavoratori in forza sia dell’eventuale adesione alle associazioni che hanno condiviso tale procedura sia dell’applicazione complessiva e inscindibile dei trattamenti collettivi››7 . Viceversa mi pare certo che, in presenza di una simile regolazione, un accordo aziendale che non fosse sottoscritto dalla maggioranza della RSU, ovvero fosse sottoscritto da RSA Non maggioritarie, o ancora fosse respinto dalla maggioranza dei votanti in un valido referendum di consultazione dei lavoratori, non potrebbe esplicare efficacia generale. ‹‹Nel medesimo››, afferma Scarpelli ‹‹tempo chi scrive (pur conscio che molti giuristi hanno sul punto opinioni diverse) ritiene che la certezza del sistema ora prefigurato non richieda necessariamente, sul punto, un intervento legislativo. Tale intervento, soprattutto se andasse nella medesima direzione ora illustrata, contribuirebbe certamente ad una maggiore stabilità delle regole aziendali; d’altro canto esso dovrebbe confrontarsi con i problemi di compatibilità con l’art. 39 della Costituzione, che invece rimangono estranei ad una soluzione adottata sul puro piano negoziale8››. Di diverso avviso Alleva che sostiene: ‹‹Il tema, allora, è il seguente: da un lato l’effetto generale o erga omnes si giustifica o si dovrebbe giustificare, in quella previsione, con il fatto che la RSU è stata eletta da tutti i lavoratori ma dall’altro – questo è il punto – la disciplina delle RSU, la loro esistenza, la loro conformazione, e la loro elezione non sono nel nostro ordinamento stabilite dalla legge, bensì da contratti collettivi, nazionali di categoria o accordi interconfederali, che in quanto contratti sono essi stessi ad efficacia soggettiva limitata9››. Infine l’acc. interc. contiene una disposizione in materia di “clausole di tregua sindacale”. Secondo alcuni tale disposizione legittimerebbe le c.d. “clausole di tregua” ovvero di “pace sindacale”. E’

6 ANGIOLINI V., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: problemi veri e falsi della libertà sindacale, in Archivio Giuridico www.cgil.it; 7 SCARPELLI F., op. cit.; 8 SCARPELLI F., op. cit.; 9 ALLEVA P., op. cit.;

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vero il contrario. Il problema quindi non consiste nel riconoscere l’esistenza, pacifica, di tali clausole, ma nel determinarne gli effetti. Sul punto si è registrato di recente un rilevante tentativo di invertire l’interpretazione degli effetti di tali clausole.10. Secondo la dottrina giuslavoristica classica e le predominanti interpretazioni giurisprudenziali tali clausole impegnano esclusivamente i sindacati che le sottoscrivono e non i singoli lavoratori. Vale a dire che il diritto di sciopero fa parte dell’habeas corpus di ogni singolo lavoratore e non è una prerogativa rimessa alla disponibilità monopolistica dei sindacati. E’ evidente infatti che se i singoli lavoratori continuano a detenere, nel proprio patrimonio giuridico, il diritto di sciopero essi potranno avvalersene nel futuro, quando si determineranno condizioni migliori dei rapporti di forza. Se perdono questo diritto una volta in più non saranno soggetti giuridici detentori di diritti, ma puri oggetti delle dinamiche del mercato. Come si vede la funzione “modificativa” riconosciuta al contratto aziendale è significativamente limitata. Intanto le parole sono importanti. Se si usa la formula “intese modificative” e non il termine più indifferenziato di “deroga”, ricorrente invece in tutta la contrattazione separata del 2009-2010 un motivo evidentemente c’è: con questo accordo la Cgil sottoscrive un nuovo sistema di regole e non aderisce quindi alle regole predefinite senza il suo consenso. Sul piano sostanziale vanno poi considerati due ordini di limiti introdotti alla capacità “modificativa” dei contratti aziendali. In via generale le “specifiche intese modificative” sono ammesse “nei limiti e con le procedure contenute nei CCNL”. Questo punto è essenziale: lo sviluppo della contrattazione decentrata è infatti in sé positivo, a patto di ritornare alla funzione fisiologica della contrattazione di secondo livello che consiste nell’introdurre discipline specializzate, calibrate sulle concrete situazioni organizzative e produttive, oltre che nell’introdurre trattamenti salariali aggiuntivi collegati alle specifiche performance aziendali. La vera riforma dei contratti nazionali di lavoro può essere realizzata proprio attraverso la sperimentazione di modelli regolativi in sede aziendale, appunto “modificativi”, ovvero “innovativi” e non meramente “derogatori” in peggio. Diverso è invece il caso in cui le suddette “intese modificative” si svolgano senza la copertura di un nuovo quadro regolativo disposto dai CCNL, come si verifica specialmente, ma non solo, nel settore metalmeccanico. Qui entra allora in gioco la previsione contenuta nella seconda parte del punto 7 sopra richiamata. Le “intese modificative” sono ammesse in ragione di “situazioni di crisi o in presenza di nuovi investimenti” e limitate alla “prestazione lavorativa, orari e organizzazione del lavoro”. Tale limite oggettivo è suscettibile di interpretazioni variabili, ma certamente esclude, i trattamenti economici e normativi in senso generale, dalla disciplina della malattia alle sanzioni disciplinari. Infine la “intese modificative “ in parola “esplicano l’efficacia generale come disciplinata nel presente accordo” (ultimo capoverso punto 7), vale a dire che sono subordinate al procedimento decisionale stabilito dall’accordo11. Non mancano tuttavia alcune incertezze di lettura della disposizione. In primo luogo non è chiaro se il rinvio alle regole appena varate per la contrattazione aziendale valga solo per l’effetto dell’efficacia generale od anche per le questioni di legittimazione alla stipulazione (o per la sottoposizione ad eventuale consultazione referendaria). Sul punto, però, sorge un’incertezza con riguardo alla formulazione utilizzata la quale prevede la presenza al tavolo aziendale non delle associazioni territoriali di categoria, ma di quelle confederali. Altri e non irrilevanti interrogativi sorgono dalla constatazione che la previsione ora in esame ha il chiaro intento di consentire che, anche nell’attuale fase transitoria , la contrattazione aziendale possa in casi particolari godere della ricercata flessibilità. Infine, nella regola posta dalla seconda parte dell’art. 7 resta un punto non risolto, ovvero quello di cosa accada quando sull’intesa derogatoria vi sia dissenso tra le organizzazioni territoriali che affiancano le rappresentanze aziendali in sede negoziale12.

10 MARIUCCI L., op. cit.; 11 MARIUCCI L., ibid.; 12 SCARPELLI F., op. cit.;

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3. IL PROTOCOLLO D'INTESA DEL 31 MAGGIO 201313

1. Il 31maggio 2013 è avvenuta la stipulazione del Protocollo d’intesa in materia di rappresentanza e rappresentatività da parte di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, apportando al riguardo la possibile capacità del Protocollo di completare il travagliato percorso di riassetto del sistema italiano di relazioni industriali. Infatti il Protocollo si contraddistingue per tre attributi fondamentali: la sua correlazione sistematica con l’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011; il suo carattere di disciplina-quadro e la sua attitudine espansiva, o in altri termini il proporsi come avanguardia regolativa, tanto per le associazioni datoriali non appartenenti al sistema confindustriale quanto per le organizzazioni sindacali che non hanno partecipato alla stipulazione. Il Protocollo definisce ora i criteri di misurazione della rappresentatività ai fini dell’ammissione alle trattative per i CCNL, i presupposti di applicazione generale dei contratti collettivi e le condizioni di esecutività delle clausole di tregua e raffreddamento. Il carattere di disciplina-quadro del Protocollo è dichiarato già nella premessa, ove le disposizioni contenute nell’articolato vengono qualificate come “principi ai quali ispirare la regolamentazione attuativa e le necessarie convenzioni con gli enti interessati”. Il riferimento agli enti chiama in causa l’INPS e il CNEL

2. Il Protocollo è suddiviso in due parti:

a) La prima parte in base all' Accordo del 28 giugno 2011 è dedicata ai criteri per la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini della contrattazione collettiva di categoria. La certificazione della rappresentatività “assume i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite da lavoratrici e lavoratori e i consensi ottenuti (voti espressi) dalle organizzazioni sindacali in occasione delle elezioni delle RSU”. Ambedue le classi di dati dovranno poi essere trasmesse al CNEL, cui il Protocollo conferisce il ruolo di terminale ultimo della procedura certificatoria (RSU-RSA);

b) La seconda parte del Protocollo è dedicata alla legittimazione negoziale degli attori ai fini della contrattazione collettiva nazionale e agli effetti degli accordi da essi stipulati. Il superamento della soglia di rappresentatività del 5%, conferisce alle organizzazioni sindacali il diritto ad essere “ammesse alla contrattazione collettiva nazionale”. Nella sfera delle associazioni datoriali, la rappresentatività si traduce non tanto nei termini di un obbligo a contrarre, ma si tratta, più semplicemente, di un obbligo a trattare. Il Protocollo dispone che ciascuna di esse possa presentare una propria piattaforma, L’unico vincolo a cui i sindacati dovranno attenersi è quello di “favorire”, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie: poco più di una invocazione di buona volontà, espressa con parole ambigue e sprovvista di meccanismi incentivanti o sanzionatori. Più stringenti, invece, appaiono i vincoli imposti alla parte datoriale. In caso di carenza di una piattaforma unitaria, essa “favorirà che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività pari almeno al 50% + 1”. La clausola pone un argine alla libertà contrattuale delle associazioni datoriali, impedendo l’instaurazione di rapporti negoziali fondati esclusivamente sul mutuo riconoscimento tra i contraenti, e le investe del compito di mediare tra le contrapposte istanze sindacali parametri quantitativi fissati dal Protocollo si intrecciano virtuosamente, con i princìpi enunciati dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 3 luglio 2013 ha ridefinito i requisiti soggettivi per la costituzione di una RSA ex art. 19 St. lav. annoverandovi la partecipazione “alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei

13 SENATORI I., Rappresentanza sindacale e contrattazione collettiva dopo il Protocollo del 31 maggio 2013, in QMFB Saggi/Ricerche, n. 1/2013

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lavoratori dell’azienda”. L’obiettivo finale a cui è preordinato l’impianto sinora descritto è quello di determinare i presupposti per il conferimento di effetti generali al CCNL, ovvero “l’applicazione degli accordi all’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici” (sottinteso: della categoria alla quale il contratto si riferisce). A questo scopo, la clausola 3 della seconda parte del Protocollo delinea una doppia soglia di verifica: la rappresentatività della compagine stipulante e il consenso della base riguardo all’accordo. Tuttavia, spostando l’attenzione sul periodo conclusivo della clausola, si apprende che “la sottoscrizione formale dell’accordo, come sopra descritta, costituirà l’atto vincolante per entrambe le parti”. Il tenore complessivo della disposizione induce quindi a ritenere che la volontà delle parti sia stata quella di valorizzare il momento della stipula, relegando l’approvazione della base a semplice passaggio procedurale intermedio 16 la soluzione interpretativa più adatta a preservare la volontà delle parti e la razionalità del testo negoziale conduce a prospettare una sequenza deliberativa articolata in tre fasi, legate da un nesso di propedeuticità: la stipulazione di una ipotesi di accordo, ad opera di una compagine negoziale dotata dei requisiti di rappresentatività previsti dal Protocollo; la consultazione della base, alla quale si darà luogo solo a fronte di una ipotesi di accordo soggettivamente qualificata nei termini anzidetti; la sottoscrizione formale, ad opera dei medesimi soggetti stipulanti l’ipotesi di accordo, da intendersi come atto dovuto qualora la consultazione dei lavoratori produca un esito affermativo. dei contratti nazionali ma anche l’esigibilità degli stessi (clausola 4). Quest’ultima si concretizza nell’impegno, da parte dei destinatari degli accordi (inclusi dunque i soggetti non stipulanti, ove siano contraenti del Protocollo), a dare ad essi piena applicazione e a “non promuovere iniziative di contrasto”. Inoltre, i CCNL “dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti” (clausola 5). Le confederazioni stipulanti si impegnano altresì ad esercitare la propria influenza sulle rispettive federazioni e le loro articolazioni territoriali ed aziendali affinché anch’esse “si attengano a quanto concordato” (clausola 6)21, e ad effettuare un’attività di monitoraggio sull’attuazione del Protocollo individuando le “modalità di definizione di eventuali controversie” applicative (clausola 7).

3. Occorre individuare le forme di raccordo del Protocollo con il quadro regolativo generale. Vista la sintonia dei fini e delle tecniche espressa dai due testi, il nuovo apparato regolativo risulta potenzialmente solido; idoneo, quindi, a superare definitivamente la prospettiva frammentatrice della “contrattazione di prossimità” 27 e a resistere a future incursioni da parte degli abituali fomentatori della divisione del fronte sindacale 28. l limite più vistoso del Protocollo è comunque quello connaturato alla sua sostanza negoziale, che ne condiziona la tenuta alla conservazione delle basi consensuali su cui si è costituito. Continuano pertanto a mancare gli strumenti idonei a garantirne la certezza applicativa, ad esempio prescrivendo l’invalidità degli accordi eventualmente stipulati al di fuori dei presupposti e delle procedure negoziate 30. Solo la legge, ovviamente, possiede l’autorità di introdurre strumenti siffatti. Il Protocollo del 31 maggio, apparentemente allineato alle condizioni concernenti le modalità di formazione e di misurazione del consenso negoziale dei sindacati ricavabili dall’art. 39, quarto comma, Cost., potrebbe costituire l’appropriata fonte ispiratrice di un eventuale intervento legislativo 31. D’altro canto, la recente sentenza della Corte costituzionale sull’art. 19 Stat. lav., oltre ad invocare piuttosto esplicitamente una soluzione legislativa al problema generale della mancata attuazione dell’art. 39 Cost., pare aver rinsaldato il consenso sociale intorno all’ipotesi di un intervento di terzi.

4. DEFINIZIONE PMI Già con la Raccomandazione 96/280/CE del 3 aprile 1996, la Commissione europea volle sottolineare la necessità di definire le P.M.I. in modo preciso ed unitario. La difformità dei criteri utilizzati per definire le PMI e, di conseguenza, la molteplicità di definizioni utilizzate a livello

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unitario e a livello nazionale sarebbe potuta diventare fonte di incoerenza. Il programma aveva lo scopo di aumentare il coordinamento tra le iniziative dell'Unione a favore delle PMI, con quelle intraprese a livello nazionale. In un mercato unico senza frontiere interne le imprese devono essere oggetto di politiche basate su regole comuni, se si considera, infatti, la forte interazione tra le misure di sostegno nazionali e dell'Unione a favore di questa categorie di imprese (per esempio, fondi strutturali e di ricerca), è fondamentale evitare che l'Unione sviluppi progetti mirati al sostegno di una determinata categoria di PMI, mentre gli Stati membri guardino verso altre. L'utilizzo della stessa definizione da parte della Commissione, degli Stati membri, della Banca europea degli investimenti (BEI) e dal Fondo Europeo degli Investimenti (FEI) ha reso possibile aumentare la coerenza e l'efficacia delle politiche indirizzate alle PMI e ha limitato il conseguente rischio di distorsione della concorrenza. Cosi la Commissione raccomandò l'adozione di quattro criteri per l'identificazione di questa categoria di imprese: numero dei dipendenti, fatturato, totale di bilancio e indipendenza, nonché le soglie di 50 e 250 dipendenti, rispettivamente per le piccole e medie imprese. Con la raccomandazione 1442 del 6 maggio 2003, la Commissione ha provveduto ad aggiornare le regole sulla base delle quali un'impresa può essere definita PMI, con decorrenza dal l' gennaio 2005. Come in quella precedente (96/280/CE), che non risultava più adeguata alla corretta determinazione della classe dimensionale delle imprese destinatarie di aiuti pubblici, il criterio del numero degli occupanti svolge un ruolo principale, in quanto uno dei più significativi; tuttavia per poter comprendere al meglio l'impresa, sotto un'ottica di risultati e di posizionamento rispetto ai concorrenti, svolge un ruolo altrettanto importante il criterio finanziario. Questo criterio prevede l'analisi sia del fatturato che del totale di bilancio, che rispecchia la ricchezza generale dell'impresa; la necessità di prendere in considerazione entrambi i valori nasce dalle differenze di fatturato che vi sono tra i diversi settori. La nuova raccomandazione oltre ad essere andata a modificare i parametri finanziari di identificazione di una PMI, ha voluto anche meglio definire le microimprese, che svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo imprenditoriale e nella creazione di posti si lavoro, aggiungendo ai limiti sul numero dei dipendenti, anche quelli sul fatturato o sul totale dell'attivo dello Stato patrimoniale. Si può notare come le variazioni, che sono state apportate, sono tutt' altro che trascurabili; infatti consentono ad un gran numero di imprese di entrare a far parte di questa categoria oggetto di agevolazioni e di attenzioni provenienti, come già sottolineato, sia da organismi dell'Unione europea sia nazionali. Ora vediamo come l'Allegato 1/2 della raccomandazione prevede che vengano suddivise le PMI:

media impresa, quando il numero dei dipendenti è inferiore a 250, quando il fatturato annuo non supera i 50 milioni di Euro o il totale dell'attivo dello Stato Patrimoniale non supera i 43 milioni di Euro;

piccola impresa, quando il numero di dipendenti è inferiore a 50, quando il fatturato annuo o il totale dell'attivo dello Stato Patrimoniale annuo non superino i 10 milioni di Euro;

microimpresa, quando il numero dei dipendenti è inferiore a 10, quando il fatturato annuo o il totale dell'attivo dello Stato Patrimoniale annuo non superino i 2 milioni di Euro.

Altra importante modifica apportata al documento da parte della Commissione, riguarda la nozione di indipendenza. Mentre in quello precedente (96/280/CE) venivano considerate imprese indipendenti "quelle il cui capitale o i cui diritti di voto non sono detenuti per 25% o più da una sola impresa, oppure, congiuntamente, da più imprese non conformi alle definizioni di PMI o di piccola impresa, secondo i casi", la nuova definizione prevede che non sia considerata "autonoma", ai fini della determinazione dei parametri dimensionali, "l'impresa collegata" e "l'impresa associata". Per quanto riguarda quest'ultima, si intende quella il cui 25% del capitale o dei diritti di voto è in mano, da sola o insieme a una o più imprese collegate; soglia che può essere raggiunta o superata qualora siano presenti le categorie di investitori, specificate nell'Allegato 1/3 della raccomandazione 1442, che in particolare riguardano il settore pubblico e istituzionale. L'eccezione vale però solo se gli stessi investitori non sono individualmente o congiuntamente collegati all'impresa e se non intervengono direttamente o indirettamente nella gestione dell'impresa.

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In riferimento allo stesso Allegato vengono definite come "imprese collegate" le imprese tra le quali intercorre una delle relazioni di seguito elencate:

1. "un'impresa detiene la maggioranza dei diritti di voto degli azionisti o soci di un'altra impresa";

2. "un'impresa ha diritto di nominare o revocare la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione, direzione o sorveglianza";

3. "un'impresa ha il diritto di esercitare un'influenza dominante su un'altra impresa in virtù di un contratto concluso con quest'ultima oppure in virtù di una clausola dello statuto di quest'ultima";

4. "un'impresa azionista o socia di un'altra impresa controllata da sola, in virtù di un accordo stipulato con altri azionisti o soci dell'impresa, la maggioranza dei diritti di voto degli azionisti o soci di quest'ultima".

Più volte è stato sollevato, dalla stessa categoria d'imprese, il problema che le nuove regole, soprattutto per quanto riguarda il calcolo del capitale col metodo IRB (Internai Rating Based), avrebbero probabilmente causato un'eccessiva onerosità nella concessione dei crediti alle PMI. È per questo che il Comitato di Basilea ha permesso un abbattimento del requisito patrimoniale sugli impieghi retail del 25%; quindi alle imprese, a parità di condizioni, sarà richiesto un prezzo inferiore del denaro, in quanto la banca stessa affronterà un costo inferiore, dovuto al minor assortimento di capitale previsto. Il Comitato, basandosi sulle differenze che esistano all'interno della categoria, ha individuato due differenti portafogli: corporate e retail. Per essere incluse nel portafoglio retail il Comitato di Basilea ha stabilito che i crediti devono soddisfare i seguenti quattro criteri:

il criterio della destinazione: l'esposizione deve essere nei confronti di una o più persone fisiche e/o garantita da una o più persone fisiche. In questa categoria rientrano anche le imprese di piccole dimensioni;

il criterio della tipologia: i crediti e linee di credito rotativi (per esempio: carte di credito e scoperti di conto), prestiti personali e contratti di leasing con vincolo di durata (come i finanziamenti rateali, mutui per l'acquisto o il leasing di autoveicoli e crediti al consumo), facilitazioni e aperture di credito a favore di piccole imprese. I titoli, come obbligazioni e azioni, quotati o meno in mercati ufficiali, sono espressamente esclusi da questa categoria. I mutui ipotecari sono esclusi nella misura in cui sono ammessi al trattamento riservato ai crediti garantiti da ipoteca su immobili residenziali;

il criterio del frazionamento: l'autorità di vigilanza deve assicurarsi che il portafoglio retail sia diversificato in misura sufficiente a ridurre i rischi, l'esposizione aggregata verso una controparte non può essere superiore allo 0,2% nel portafoglio retail complessivo;

il criterio dell'esposizione massima: l'esposizione massima aggregata nei confronti di una singola controparte non può eccedere la soglia massima di 1 milione di Euro.

In alternativa, l'esposizione è considerata corporate e il requisito patrimoniale richiesto gode di uno "sconto" in funzione della dimensione aziendale: più il fatturato è vicino a 5 milioni, più lo "sconto" sarà elevato; viceversa, più il fatturato si avvicina ai 50 milioni, più lo sconto sarà inferiore.

5. AZIONE DEL GOVERNO14 Principio I — Imprenditorialità Molteplici sono state le misure adottate dal Governo nel corso del 2012 volte a favorire 1'imprenditorialita; in particolar modo tra le più rilevanti si evidenziano: la previsione di una nuova tipologia societaria, la cosiddetta Srl semplificata, che può essere costituita da persone fisiche con meno di 35 anni e con un capitale sociale minimo di un euro, e 1'introduzione di una misura automatica come il credito d'imposta per facilitare 1'assunzione di giovani laureati in materie tecnico-scientifiche o per chi ha conseguito un dottorato di ricerca (tale credito potrebbe favorire

14 MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, Small Business Act, le iniziative a sostegno delle micro, piccole e media e imprese adottate in Italia nel 2012, Rapporto 2013;

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oltre 4 mila nuove assunzioni di alto livello, contribuendo a evitare o, quantomeno, a ridurre la fuga dei migliori cervelli). Nel contempo, e stato riordinato il Fondo speciale rotativo sull'innovazione tecnologica (ex FlT), ora denominato Fondo per la crescita sostenibile ed e prevista l'abrogazione di 43 norme di agevolazione alle imprese gestite dal MISE: si dovrebbero in tal modo recuperare circa 650 mil di euro nel 2012, più altri 200 min negli anni successivi; saranno inoltre disponibili le risorse del Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca (FRI) istituito presso la Cassa Depositi e Prestiti S.p.a., stimabili in circa 1,2 mil di euro. Infine, sono state introdotte misure volte a semplificare ulteriormente il Contratto di rete che è stato accolto con grande entusiasmo da molte nostre imprese registrando un'impennata soprattutto negli ultimi mesi (per un approfondimento si rinvia al par. 4.1 ). In particolar modo, il provvedimento consente una semplificazione delle modalità di iscrizione al Registro delle Imprese del Contratto di rete, prevedendo che questo possa essere redatto anche con atto firmato digitalmente dal legale rappresentante delle imprese aderenti alla rete. Principio II — Seconda possibilità Secondo le più recenti stime (novembre 2012) del/'Osservatorio Cerved, tra gennaio e settembre del 2012, sono uscite dal mercato più di 55 mila aziende», un valore record nel decennio, che supera quello già molto negativo dello stesso periodo del 2011 (+0,8%). Gli archivi di Cerved Group indicano, inoltre, che nei primi nove mesi del 2012 sono aumentate tutte le forme di uscita dal mercato: i fallimenti, che sfiorano quota 9 mila (+2% rispetto ai primi nove mesi 2011 ), le procedure concorsuali non fallimentari (1.500, +7,3%) e le liquidazioni (45 mila, +0,3%). In particolare, il forte aumento di liquidazioni del 2012 anche di società non rischiose dal punto di vista del bilancio e un segnale allarmante, perche indica che a uscire dal mercato sono non solo aziende in difficolta, ma anche imprese con buoni fondamentali che non vedono prospettive di profitto. Le filiere del Maffe maggiormente colpite dal peso delle chiusure sono quelle del Sistema Moda e del Sistema Casa. Pesante inoltre appare il bilancio di tutto il comparto dell'Edilizia. Tenuto conto di questo sensibile peggioramento dello scenario economico, il Governo nel corso del 2012 e intervenuto, oltre che sulle cause che conducono le imprese al fallimento (ritardo nei pagamenti, difficoltà di accesso al credito, etc. ), sulla Legge fallimentare, semplificando alcune procedure e consentendo all'imprenditore debitore di ottenere 1'erogazione di nuova finanza per pagare le forniture strumentali alla continuazione dell'attività aziendale in un contesto di stabilità. lnoltre, una particolare attenzione è stata posta nel disciplinare il fenomeno della crisi aziendale delle start up innovative, tenendo conto dell'elevato rischio economico assunto da chi decide di fare impresa investendo in attività ad alto livello d'innovazione. Dato 1'elevato tasso di mortalità fisiologica delle startup si vuole indurre 1'imprenditore a prendere atto il prima possibile del fallimento del programma posto a base dell'iniziativa. Principio III — Pensare anzitutto in piccolo L'adozione all'unanimità nel novembre 2011 della Legge n. 180/2011 recante "Norma per la tutela della libertà d'impresa. Statuto delle imprese" ha rappresentato una presa d'atto, soprattutto in questo difficile momento storico, della centralità dell'economia reale e, quindi, delle Micro PMI nell'ambito del tessuto produttivo del nostro Paese. Con Io Statuto avviene un'inversione di rotta, soprattutto culturale: al centro dell'interesse nazionale devono esserci il PMI, cioè il 99% delle aziende italiane; occorre, in altre parole, pensare innanzitutto al piccolo, spesso invisibile. In questa direzione vanno i provvedimenti adottati in attuazione dello Statuto: nomina del Garante per le micro, piccole e medie imprese; recepimento dei principi dello Statuto sugli appalti in merito al frazionamento e al divieto di chiedere requisiti economici sproporzionati; revisione dei controlli sulle imprese, IVA per cassa. In materia di riduzione degli oneri che gravano sulle PMI e di semplificazione amministrativa (attuazione delle misure relative al Test PMI, normative di semplificazione e attività di Misurazione e Riduzione degli Oneri Ammnistrativi ), si rinvia al contributo dell'Osservatorio per la Piccola e la Media Impresa del Segretariato Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

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Principio IV — Amministrazione recettiva Le analisi condotte dalle principali Organizzazioni internazionali individuano nella complicazione burocratica una delle prime cause dello svantaggio competitivo dell'Italia nel contesto europeo e nell'intera area Ocse. Come e noto, la Commissione europea ha stimato per l'Italia una incidenza dei costi amministrativi derivanti dai diversi livelli di governo pari al 4,6% del Pil, che equivale ad un costo complessivo di circa 70 mid di euro all'anno". E' indubbio che, di fronte alla crisi, il peso degli oneri amministrativi e ancora più intollerabile per le imprese e I'intero sistema Paese. Per questa ragione, tagliare i costi della burocrazia per le imprese e disboscare la giungla delle procedure sono stati considerati asset prioritari dai Governi succedutisi nelle ultime legislature. In particolare, nel corso del 2012, oltre a. prevedere misure atte a semplificare e ridurre notevolmente tempi e oneri per gli adempimenti burocratici (estensione dell'obbligo della Posta Elettronica Certificata a tutte le imprese, Zone a burocrazia zero, etc. ), e stato adottato uno specifico Decreto Legge sulla semplificazione (D.L. n. 5/2012), che ha disposto in merito alla semplificazione dei procedimenti riguardanti l'attività imprenditoriale, ha semplificato le norme in materie di controlli, da effettuarsi secondo il principio della proporzionalità, ha reso più certa la conclusione dei procedimenti amministrativi nei tempi stabiliti dalla Legge, ha semplificato gli adempimenti in materia ambientale, istituendo I'autorizzazione unica ambientale. Principio V — Appalti e Aiuti di Stato Il Codice dei Contratti Pubblici e il relativo Regolamento di attuazione ed esecuzione sono stati oggetto di numerose modifiche nel corso dcl 2012, prevalentemente ad opera di varie disposizioni contenute in provvedimenti d'urgenza (70 gli articoli modificati, 90 se si includono gli allegati, da 12 provvedimenti normativi). In sintesi, le misure adottate vanno dalla semplificazione delle procedure, all'incentivazione delle forme di partenariato pubblico privato, dal rendere il Codice degli Appalti più rispondente alle regole europee, alla proroga dei termini delle norme che disciplinano la qualificazione delle imprese esecutrici di lavori pubblici e la garanzia globale di esecuzione. Si tratta di norme che, se da un lato, semplificano le procedure, favorendo la riduzione degli oneri amministrativi derivanti dagli obblighi informativi, dall'altro, intendono garantire la massima trasparenza dei procedimenti ed il corretto comportamento da parte di tutti gli operatori. Si evidenzia che non sono considerati in questo paragrafo gli Aiuti di Stato riconducibili a specifiche aree di intervento (innovazione, finanza, ecc.. ): tali misure sono illustrate nel quadro dei principi SBA ad esse correlati". Principio VI — Finanza Nel corso del 2012, il Governo è intervenuto per allentare i vincoli finanziari alla crescita, incentivando le imprese che si patrimonializzano (ACE) e migliorando le condizioni di accesso al credito attraverso il rifinanziamento del Fondo Centrale di Garanzia. Importanti passi in avanti sono stati fatti in materia di ritardi di pa0amenti della P.A. alle imprese fornitrici, sia per le pendenze in corso (attraverso interventi in materia di certificazione e di compensazione dei crediti) che per i rapporti futuri (attraverso ii recepimento della Direttiva europea sui tempi di pagamento). Inoltre si e resa più flessibile la possibilità per le aziende in difficolti di rateizzare i debiti tributari. Principio VII — Mercato Unico A venti anni dalla nascita del mercato unico, la Commissione europea continua a lavorare per rafforzare uno strumento di crescita economica ancora incompleto. Il mercato unico resta il cuore ed il motore economico principale dell'Unione europea e continua anche ad essere la carta migliore per rispondere alla crisi economica attuale. Il primo Atto per il mercato unico, adottato nel 2011 dalla Commissione europea, ha proposto una serie di leve di crescita, competitività e progresso sociale che vanno dalla mobilita dei lavoratori ai finanziamenti per le PM1, passando per la protezione dei consumatori, i contenuti digitali, la fiscalità e le reti trans europee. La loro finalità e facilitare la vita di tutti i protagonisti del mercato unico: le imprese, i cittadini, i consumatori ed i lavoratori. Le 50

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azioni proposte sono ora in via di adozione da parte del Parlamento europeo e dai ministri nazionali in seno al Consiglio UE. Nell'ottobre 2012, la Commissione, con 1'Atto per il mercato unico II, ha individuato 12 ulteriori azioni chiave per promuovere lo sviluppo e porre le basi per una nuova crescita più verde e più inclusiva, che spaziano dall'economia digitale alle reti integrate, dalla mobilità dei cittadini al diritto dei consumatori. A livello di attuazione su base nazionale, secondo quanto emerge dall’apporto della Commissione europea sul Quadro di valutazione del mercato interno (Scoreboard), che misura il termometro dell'attuazione delle direttive e della loro corretta trasposizione nell'ordinamento degli Stati Membri nel campo del mercato unico, il deficit medio di recepimento — ossia la percentuale delle direttive in materia di mercato interno non recepite in tempo negli ordinamenti nazionali — e sceso allo 0,9% ossia al di sotto dell'obiettivo convenuto (I'1%) dai Capi di Stato e di Governo europei nel 2007. Un obiettivo raggiunto da sedici Paesi UE, ma ancora mancato dall'Italia. Sulla base delle previsioni elaborate dal Dipartimento Politiche Europee, il deficit di recepimento delle direttive UE si attesterà per quanto riguarda I'Italia all1% (rispetto al 2,4% registrato nell'ultimo Quadro di valutazione). Lo stesso fardello delle infrazioni e destinato a calare tenuto conto che a fine ottobre del 2012 la pagella italiana ha conseguito un nuovo risultato positivo, scendendo di ulteriori 10 infrazioni rispetto al mese di settembre, toccando cosi 101 casi aperti, la migliore performance del nostro Paese negli ultimi anni. Principio VIII — Competenze e innovazione Paesi industrializzati e per accelerare la realizzazione degli obiettivi dell'Agenda digitale italiana e stata istituita la nuova Agenzia per 1'Italia Digitale. Essa assorbirà tutte le funzioni svolte finora da diversi Enti che vengono soppressi o riorganizzati in materia di innovazione tecnologica ed avrà il principale compito di coordinare le politiche e le strategie di diffusione delle nuove tecnologie. Assumerà inoltre decisioni e orientamenti anche in merito all'attivazione dei processi di digitalizzazione della P.A. e alle relative forniture informatiche, che saranno gestite da Consip. Sono stati previsti, inoltre, interventi per il completamento della rete a banda larga; alle risorse rese già disponibili per il Mezzogiorno (circa 600 min di euro ) si aggiungono ulteriori 150 min di euro per finanziare gli interventi nelle aree del Centro-Nord. Il Governo ha introdotto anche alcune norme per favorire la nascita e la gestione di imprese innovative. Il provvedimento definisce il concetto di startup (trasparenza e contenuto innovativo sono tra gli aspetti più importanti ) ed agevola la sua creazione. In particolare, sono previsti bassi costi di costituzione e specifiche disposizioni contrattuali per poter instaurare rapporti di lavoro subordinato che abbiano una maggiore flessibilità operativa. Principio IX — Ambiente Fra gli interventi più efficaci approvati nel 2012 in campo ambientale, occorre citare quelli volti a favorire l'efficienza energetica (in primo luogo, le detrazioni fiscali del 50% per interventi di riqualificazione energetica, valide fino a giugno 2013 ) e lo sviluppo delle energie rinnovabili' 6 (incentivazione di interventi di piccole dimensioni per la produzione di energia termica da fonti rinnovabili ). Positive le misure contenute per favorire 1'assunzione di giovani di et' inferiore ai 35 anni nelle aziende della green economy. In materia di rifiuti, si rimane in attesa di conoscere il nuovo termine per 1'entrata in operatività del SISTRI. Principio X — Internazionalizzazione Un'attenzione particolare e stata rivolta dal Governo al sostegno dell'internazionalizzazione; in particolar modo le recenti misure si sono indirizzate lungo una serie di linee direttrici che comprendono: il rispristino dell'ICE (soppresso dal precedente Governo; realizzazione presso il MISE della Cabina di Regia per 1'internazionalizzazione finalizzata alla riorganizzazione della rete estera partendo dall'integrazione delle reti di ICE e ENIT e alla razionalizzazione delle varie funzioni spesso disperse e sovrapposte tra molteplici enti; la costituzione del Desk Italia con lo scopo di rafforzare l'afflusso degli investimenti diretti esteri nel nostro Paese. Il Desk rappresenta

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un'importante novità istituzionale: esso costituisce un punto di coordinamento stabile, tempestivo ed efficace a cui potranno fare riferimento i soggetti che abbiano intenzione di realizzare investimenti di tipo produttivo e industriale sul territorio italiano. Ciò dovrebbe contribuire a contrastare la fuga degli investitori esteri dal nostro Paese verificatasi soprattutto negli ultimi anni (in particolar modo, tra il giugno 2011 e il giugno 2012 si sarebbe realizzato un deflusso di investimenti esteri dall'ltalia pari a 235 mid di euro, circa il 15% del Pil ). Alla fine di ottobre del 2012 e diventato, inoltre, operativo il nuovo strumento "Fondo Start0p" rivolto alle PMI singole o aggregate finalizzato a favorire la fase di avvio di progetti di internazionalizzazione nei mercati extra UE. 6. VERSO NUOVE RELAZIONI INDUSTRIALI15 Come immaginare una inversione di tendenza. Alla fin fine si ritorna all'interrogativo di partenza relativo a come fronteggiare l'erosione che abbiamo descritto nelle relazioni industriali e nel perimetro della rappresentanza dei sindacati. Abbiamo insistito in questo testo sul carattere più periferico assunto dal campo delle relazioni industriali nella regolazione dei nostri sistemi sociali, in sincrono con una lettura che — a torto o ragione — considera meno importanti che in passato i rapporti di lavoro, e che spinge in questa direzione la sfera politica. Dobbiamo segnalare che altri"' ritengono che si assista ad una possibile «ripoliticizzazione» delle relazioni industriali. A questo riguardo va detto che appare verosimile come l'esplosione delle policies legate al debito sovrano possa condurre ad un rilancio della rilevanza delle relazioni collettive nella loro interazione con lo Stato. Va anche considerato però che l'attuale debolezza degli attori, a partire da quelli sindacali, non consente di apprezzare appieno questa opportunità nascente. Fino a poco tempo fa gran parte degli studiosi riteneva prioritaria la sottolineatura delle differenze istituzionali e la loro difesa — la path dependence — come percorso valido non solo per spiegare le diverse storie sociali e delle relazioni industriali, ma anche per valorizzarne la vitalità: come il fatto che in alcuni Paesi (in primo luogo quelli del Centro-Nord Europa, ma in certa misura anche il nostro) sindacati e relazioni industriali vantassero una tenuta più solida comparativamente ad altri. Questa posizione scientifica coincideva con un certo ottimismo fondato sul nucleo interpretativo addensatosi intorno al paradigma della «varietà dei capitalismi»: i capitalismi «coordinati»"' (si trattava dei capitalismi, collocati principalmente nel cuore dell'Europa, la cui regolazione era fondata non sul solo mercato, ma su criteri più aperti e socialmente densi) erano considerati in grado di assicurare esiti avanzati sul fronte dei diritti sociali proprio in virtù di questa accumulazione originaria, tradottasi in istituzioni resistenti. Come abbiamo ricordato all'inizio queste certezze si sono però incrinate nel corso del tempo. Le istituzioni tradizionali della sfera delle relazioni industriali non sono state abbattute, ma funzionano meno bene. Anche quando restano in apparenza uguali a se stesse si verificano fenomeni di «cambiamento istituzionale», per cui esse tendono a produrre risultati diversi da quelli passati. Oppure nascono istituzioni, almeno in parte nuove, che sono destinate ad accompagnare il decentramento contrattuale e la flessibilità del mercato del lavoro (su questi concetti e sulla loro base empirica si vedano a tal proposito le osservazioni di un importante studio comparato'". Le differenze restano, grazie alla forza del passato, ma le tendenze di fondo tendono piuttosto ad assomigliarsi e ad andare nella stessa direzione. Lo scenario che abbiamo descritto vede organizzazioni sindacali indebolite'" e istituzioni delle relazioni industriali — e più in generale di regolazione del lavoro — su cui grava il compito di essere l'unico spazio di aggiustamento (verso il basso) davanti alla crisi dei debiti sovrani: cosa che ne accentua il carattere di variabile dipendente pressata da processi decisi in altre sedi e in altre policies. Cosa significa dunque misurarsi con questo cambiamento in atto con cui stanno facendo i conti tanto gli studiosi che i policy makers? La principale conseguenza è che diventa meno fondata la contrapposizione tra le due vie, quella della dipendenza istituzionale e quella della rivitalizzazione, come strumenti per il rilancio del

15 CARRIERI M., TREU T., a cura di, Verso nuove relazioni industriali, ASTRID, 2013

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sindacato e delle relazioni industriali; per quanto tra la salute dei sindacati e quella dei sistemi di regole sussistano analiticamente e praticamente delle chiare distinzioni, qui assumiamo che tra le due sussista anche una significativa interdipendenza. La path dependence metteva giustamente l'accento sulla capacità di alcuni sistemi sociali di accumulare risorse per fronteggiare con successo cambiamenti anche difficili. Possedere oppure no istituzioni di relazioni industriali (e politiche sociali) ben forgiate continua ad essere un rilevante fattore di differenza qualitativa. Questo significava anche che i movimenti sindacali avevano più solide basi nel loro radicamento, perché gran parte di queste istituzioni sosteneva l'attività contrattuale (e la sua estensione), e in alcuni casi addirittura si spingeva fino ad aiutare la membership. Questi assetti implicavano anche la minore impellenza di un reuiremertt strategico dei sindacati, i quali dovevano piuttosto dedicarsi alla cura e manutenzione di quelle istituzioni già consolidate. Viceversa in altri Paesi, principalmente negli Usa (ma non solo), la fragilità delle istituzioni protettive del lavoro poteva essere invertita solo a partire da una nuova dinamica sociale che avesse come presupposto la stessa messa in discussione dell'identità dei sindacati. Nel caso statunitense possono ben poco le istituzioni esistenti se i confini della copertura contrattuale coincidono all'incirca con quelli della stessa sindacalizzazione (parliamo di un bacino minoritario del 13-15% della forza lavoro). In questo caso apparivano più opportune e stringenti scelte di labour revitalizatton capaci di mettere l'accento su nuove strategie sindacali, in primo luogo destinate ad includere altri gruppi di lavoratori nel perimetro della contrattazione e della membership'". Ma il nostro ragionamento aiuta a chiarire che il conflitto tra queste due vie risulta ormai largamente artificioso. Tutti i Paesi avanzati si misurano con problemi comuni e anche con un evidente deficit di ricette efficaci: all'erosione della mobilitazione collettiva non corrisponde negli ultimi anni il successo dell'approccio americano fondato sulla promessa di ascesa delle opportunità individuali. I sindacati con istituzioni resistenti appaiono protetti, ma non più messi al sicuro dalla talpa dell'erosione, che ne riduce iscritti ed influenza. Anch' essi sono obbligati a perseguire un rinnovamento strategico — e non solo organizzativo"' — se vogliono mantenere centralità nel sistema produttivo post-fordista. Un ripensamento che serve non solo a definire nuovi confini della rappresentanza e della contrattazione. Ma anche a aggiustare le istituzioni esistenti o a rielaborarle, Si tratta di costruire istituzioni sovranazionali di relazioni industriali. Ma anche di ritarare quelle nazionali: una rimessa a nuovo resa necessaria — come detto — dal ridimensionamento in corso del pilastro principale, la contrattazione nazionale di settore che aveva rivestito in passato caratteri assorbenti ed egemonici. Per converso un'operazione analoga di traduzione in istituzioni appropriate andrebbe tentata anche nelle realtà nelle quali lo sforzo della revitalization rischia di tramutarsi in una fatica di Sisifo, in assenza di sponde istituzionali ben definite o davvero vantaggiose. È chiaro che nella realtà americana lo slancio del nuovo movimento sindacale dei servizi è condannato ad arenarsi se non trova sbocchi nel ripensamento delle leggi che rendono difficoltoso il riconoscimento sindacale nei luoghi di lavoro: ma nonostante i grossi investimenti elettorali dell'Afl-Cio (American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations) non sembra, a detta degli osservatori, che i democratici siano prossimi alla definizione di uno scambio politico di questa portata. Sarebbe dunque preferibile immaginare sul piano pratico una combinazione delle due strategie, tanto più necessaria anche nel caso italiano. Anche qui il nodo di nuove scelte strategiche sembra divenuto necessario, se i sindacati vogliono riacquistare la capacità di avvicinarsi a settori poco rappresentati e poco o nulla sindacalizzati, come quello dei lavoratori più deboli ed instabili, che costituiscono sempre più un nervo scoperto del loro insediamento futuro. D'altra parte se in passato la rnobilitazione collettiva è stata la premessa per l'edificazione di relazioni industriali durevoli, oggi appare in gioco l'elaborazione di una modalità equivalente. Senza un ripensamento dei confini sociali e delle modalità dell'azione collettiva sarà difficile dare vita a nuove istituzioni più a misura dei problemi di regolazione imposti dall'economia globale. Ancora una volta per i sindacati la traiettoria di un possibile rilancio passa attraverso la loro

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capacità di combinare una varietà di risorse d'azione: il destino delle grandi organizzazioni è chiaramente collegato alla loro abilità strategica nel trovare una traduzione efficace, sul piano simbolico e pratico, per questa necessaria varietà. Rivitalizzazione o esiti dualisti? La cautela delle previsioni è d'obbligo. La rottura degli equilibri ultra decennali di sistemi di relazioni industriali come il nostro, atipico ma stabile e resistente, presuppone una vera e propria discontinuità strategica su tutti i punti rilevanti"'. Ed essa deve operare come si è detto, sul piano politico e istituzionale, ma avvalersi nel contempo di una rivitalizzazione delle dinamiche sindacali e sociali. La separazione dei due piani di intervento, sociale e istituzionale, è più che mai inadeguata, come si vede anche nelle vicende attuali del governo tecnico. Tanto più che si tratta di ripensare i fondamentali non solo dei rapporti di lavoro, ma degli assetti economici e sociali consolidati, quelli che hanno permesso l'esplosione della crisi e che la crisi ha ulteriormente sconvolto. Un simile ripensamento richiederebbe più che mai la ripresa della concertazione sindacale, ma con obiettivi più ambiziosi di quelli prevalentemente redistributivi del secolo scorso, e diretti a intervenire sugli squilibri sociali economici propri di questa crisi. Niente garantisce che la capacità di galleggiamento finora dimostrata dal sistema delle relazioni industriali possa sopravvivere agli sconvolgimenti dei sistemi economici e sociali, cui le relazioni industriali sono legate e da cui sono sempre più dipendenti, Né tanto meno è detto che la crisi favorisca una rivitalizzazione delle relazioni industriali, sotto la spinta di una mobilitazione sociale di massa. Anche le traiettorie di un possibile declino di questi sistemi possono essere diverse, a seconda delle reazioni e delle trasformazioni delle istituzioni, come ammettono gli stessi teorici della convergenza neoliberale. Non a caso un tratto centrale, causa e conseguenza della crisi in corso, è il crescere delle diseguaglianze fra Paesi e all'interno dei singoli Paesi; e c'è anzi la tendenza al formarsi di multiple dualism sia nella distribuzione del reddito sia nelle opportunità di crescita personali e collettive. Il futuro delle relazioni industriali può essere un aspetto emblematico di queste tendenze generali"'. Le nostre relazioni industriali sono più esposte di altre a tale eventualità proprio per i caratteri di debole regolazione, di politica incerta e di scarsa coesione sociale. Se non contrastate esse agirebbero allargando le zone di «frattura» naturali: quelle che separano settori pubblici e settori privati tradizionali della manifattura, i nuovi settori dei servizi, le aree più o meno esposte alla competizione globale; e, per altro verso, le varie forme di lavoro dipendente standard, atipico, autonomo e professionale, i territori più sviluppati del Nord e quelli economicamente fragili del Sud, le aziende piccole e piccolissime e mediograndi. In simili prospettive «dualiste» potrebbero convivere diversi esiti, di volta in volta ipotizzati per i rapporti di lavoro; forme tradizionali di contrattualismo rivendicativo arroccate in aree forti e protette dal sistema, isole di relazioni di lavoro aziendali inedite nel nostro Paese ma note altrove; ampi settori affidati alle scelte individuali, senza limiti legali o collettivi alla discrezionalità delle imprese, secondo gli orientamenti neoliberisti. Si tratterebbe di esiti di diversa valenza sociale ed economica, ma lontani dalle prospettive per cui sono sorte le relazioni industriali, cioè dall'obiettivo di armonizzare le regole del lavoro e di migliorarne collettivamente le sorti. 8. NUOVI SCENARI E PROSPETTIVE DELL'AZIONE SINDACALE16 In democrazia il sindacato dei lavoratori, in tutte le fasi di crisi economica contrassegnate dalla caduta dell'occupazione, ha sempre incontrato enormi difficoltà nel conservare ed esprimere la sua natura di forza progressista. Questo è avvenuto anche ora con la crisi apertasi nel 2007 e sempre per le stesse ragioni: il cambiamento dei rapporti di forza e la caduta del potere contrattuale dei lavoratori. In più questa volta alla crisi economica che stiamo vivendo si è accompagnata un'altrettanto grave crisi della politica che ha tenuto e tiene nell'incertezza e spesso nell'impotenza non solo le forze sociali ma anche i partiti e le istituzioni. In tutta Europa e non solo in Italia dove 16 MILITELLO G., Può il sindacato in una fase recessiva conservare la sua missione innovatrice?, in: CARRIERI M., TREU T., a cura di, Verso nuove relazioni industriali, ASTRID, 2013

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ha assunto connotati allarmanti. Molti commentatori hanno scelto di ignorare questo contesto di crisi della democrazia, la questione sociale che è esplosa, fatta di job catastrophe e di attacco ai diritti ed ai livelli di vita degli operai e del ceto medio, preferendo semplificare il tutto con l'accusa al sindacato, ed in particolare alla Cgil, di essere una forza conservatrice, un ostacolo allo sviluppo ed all'innovazione, capace solo di dire dei no. Tra i critici si sono distinti l'ex ministro Sacconi, alcuni noti imprenditori affascinati dalla linea dura della Fiat e persuasi di potere recuperare competitività con l'indebolimento del sindacato e la compressione dei salari, ed infine, purtroppo, buona parte della comunicazione scritta e parlata. Il nostro punto di vista è diverso e proveremo qui ad argomentarlo. Il sindacato è indubbiamente esposto oggi al rischio di consumare le sue energie su posizioni difensive, dandosi priorità dettate dall'emergenza ma spesso slegate da una visione del futuro; è esposto in concreto al rischio di difendere senza molta fortuna posti di lavoro di vecchia industrializzazione per lo più allocati in aziende manifatturiere in ritardo con l'innovazione, lasciando la maggioranza dei lavoratori, e tra essi un grande esercito di giovani e donne, senza alcuna tutela e senza prospettive. Lo scontro sull'art. 18 ha mostrato con evidenza questa contraddizione e queste difficoltà. È questo un pericolo grande di cui avere sempre maggiore consapevolezza, perché se non avversato può provocare conseguenze nere sulla tenuta delle forze democratiche; ma va detto subito che non è un rischio obbligato ed inevitabile. Il sindacato deve stare con i lavoratori colpiti dalla crisi ed oggi in grande, e spesso sconosciuta, difficoltà. Deve difenderli perché cosi mantiene e rafforza la sua natura di organizzazione democratica e si dà titolo per chiedere ai lavoratori stessi di avere fiducia nella possibilità di costruire un diverso avvenire evitando proteste violente e/o inconcludenti, oppure pericolose migrazioni verso formazioni politiche eversive. Ma non può fermarsi a questo. In altre parole la linea difensiva è obbligata e necessaria, ma è solo la prima risposta da dare: nel nostro Paese c'è da far rinascere un sano e forte spirito pubblico e da inventare un nuovo modello di società basato su nuovi assetti economici e sociali, nuove relazioni industriali ed un nuovo assetto istituzionale. Naturalmente non tutto dipende dal sindacato, ma è importante che esso si costruisca la postazione giusta per contribuire a questa rinascita dell'Italia, partendo dall'analisi della natura strutturale della crisi sulla quale finora ci sono stati sottovalutazione, semplificazioni o silenzio. Non si vogliono illustrare qui i fattori che sono stati all'origine della attuale crisi globale che da finanziaria è diventata economica e sociale, da americana sembra essere diventata soprattutto europea e che da recessiva sta rapidamente diventando depressiva. Si concorda con chi trova nel dominio incontrastato della finanza — versione estrema del mito dell'autoregolamentazione del mercato — e nella crescita delle diseguaglianze due 'delle cause principali dell'attuale crisi del sistema capitalistico. Sembra più utile assumere un diverso punto di partenza che fa partire la crisi in corso dalla nuova divisione internazionale del lavoro che attraverso continue turbolenze sta cercando di consolidarsi nel mercato mondiale. È questo un fenomeno di rilievo strategico, curiosamente taciuto o minimizzato nel dibattito politico e sindacale. Incarna infatti uno dei due maggiori connotati dell'attuale fase di globalizzazione. Da una parte, appunto, lo spostamento del grosso della produzione manifatturiera dai Paesi di vecchia industrializzazione a quelli situati soprattutto in Asia ed in America latina, Dall'altra, l'introduzione sistematica, nei Paesi occidentali, dell'innovazione tecnologica è diventata il principale fattore di crescita e di competitività. «La produzione di beni e servizi è infatti sempre di più il risultato della combinazione di input intermedi, a loro volta prodotti nel sistema, anziché l'elementare prodotto di capitale e lavoro. Il sistema si allunga cosi in una varietà di attività produttive specialistiche che producono fattori produttivi intermedi a loro volta destinati ad altre imprese»'. In particolare con le nuove tecnologie prende sempre più spazio e ruolo propulsivo l'industria dei servizi alle imprese, che permette ai grandi gruppi ed alle multinazionali di trasferire conoscenza alle aziende situate nei punti più diversi del mercato mondiale e permette anche alle piccole imprese, se opportunamente organizzate, di assorbire nuove conoscenze combinandole con quelle già possedute per produrne delle nuove. Quest'ultimo fenomeno, agevolato da nuovi rapporti tra imprese ed Università, avviene nei campi più disparati ma tutti decisivi per la competitività: dal trasferimento tecnologico alle innovazioni di

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processo e prodotto, alla gestione della qualità, ai servizi legali e finanziari, al tnarketing; nasce per iniziativa pubblica o privata o mista, attraverso Agenzie o servizi chiamati Kibs (KnotvledgeIntensive Business Services) che operano come interfacce cognitive locale/globale. Va notato che in tutti i casi lo sviluppo di questi servizi richiede l'impiego di lavoro ad alto contenuto di conoscenza. Questo processo naturalmente non è lineare, né avviene dovunque negli stessi tempi e nelle stesse forme. È cominciato nei Paesi anglosassoni, è continuato nei Paesi dell'Europa settentrionale; presenta la grande eccezione della Germania dove l'industria manifatturiera, pur perdendo dei colpi — come è dimostrato tra l'altro dalla ripetuta caduta dell'indice di fiducia delle imprese elaborato dall'istituto Ifo — conserva ancora una forza enorme, anche perché ha saputo coniugarsi con lo sviluppo di servizi strategici per le imprese. È arrivato con ritardo in Italia dove, a causa del limitato processo di trasformazione strutturale e di ripetuti e velleitari tentativi di tenere in vita buona parte dell'industria manifatturiera attraverso la compressione del costo del lavoro, assume ora un carattere fortemente selettivo, sconvolgendo con ritmi via via crescenti la struttura produttiva e quella del mercato del lavoro. Tempi e forme diversi spesso influenzati dal diverso orientamento e/o efficienza del sistema politico e dalla composizione e dal livello del debito pubblico, ma con tanti effetti strutturali comuni a partire dalla tragica caduta dell'occupazione manifatturiera raramente compensata dalla domanda di lavoro da parte di altri settori. Da dati dell'Ocse e della Organizzazione internazionale del lavoro emerge che nell'Unione europea, compresa la Germania, tra il 2008 e il 2010 il settore manifatturiero ha perduto circa 4 milioni di posti di lavoro (3 milioni 868 mila); la perdita negli Stati Uniti, dove il fenomeno era cominciato da tempo, è stata tra il 2006 e il 2011 di ulteriori 2 milioni e 250 mila. Questo fenomeno si è ulteriormente aggravato negli ultimi tempi, come testimoniato dall'indice Pmi dell'Eurozona che segnala una costante riduzione dell'attività manifatturiera. Infine un recente studio promosso dalla Confindustria' mostra l'impressionante scalata dei Paesi emergenti nel manifatturiero mondiale. Nel periodo compreso tra il 2000 ed il 2011, la Cina è passata dall'8,3% al 21,7%; l'Italia è invece scesa dal 4,3% al 3,3%; la Germania dal 6,6% al 6,3%, dopo un'impennata rivelatasi poi transitoria al 7,4% nel 2007. A ciò bisogna aggiungere l'ulteriore scomparsa in Europa e Stati Uniti di milioni di posti di lavoro nel settore delle costruzioni, con paurosi esiti moltiplicativi avendo questo settore la filiera più lunga. Il cammino attuale della globalizzazione produce cosi in Europa e negli Stati Uniti pesanti meccanismi di esclusione sociale a cui le nostre democrazie non hanno saputo finora trovare risposte. Un altro effetto comune connesso all'impiego delle nuove tecnologie è in generale la riduzione del settore produttivo a categoria virtuale, data la differenza crescente di produttività e competitività che si determina tra le aziende di uno stesso settore in conseguenza del loro diverso grado di innovazione ed internazionalizzazione. Ciò indebolisce il ruolo della contrattazione nazionale, che pure rimane essenziale, mentre può aprire nuovi spazi alla contrattazione aziendale. Infine vanno ricordati, per gli effetti crescenti che hanno sull'avvenire del sindacato, non solo la netta riduzione della consistenza e della forza della «classe operaia», che trovava nel settore manifatturiero il suo ambiente privilegiato, ma anche l'accentuazione della divisione all'interno del mercato del lavoro tra «ceti proletari» esposti al declino e l'«esercito di riserva industriale» di origine straniera, tra disoccupati cronici e giovani precari, tra lavoratori skilled ed unskilled. Una preoccupante bipolarizzazione che, se non governata, rischia di minare la rappresentatività e la tradizionale forza democratica del sindacato italiano. Gli effetti di questo processo, che in Italia è cominciato in ritardo ma che ora procede con particolare intensità, sono ormai sotto gli occhi di tutti. Sono già fallite o hanno vita grama le scorciatoie della delocalizzazione e quella dell'uso degli immigrati per tenere in vita aziende tecnologicamente arretrate e si è progressivamente logorato il ricorso obbligato alla cassa integrazione, dalla quale continuano a rimanere esclusi milioni di lavoratori e con la quale non si riesce a dare alcuna reale prospettiva di occupazione ai lavoratori interessati. L'illusione di poter far fronte alla concorrenza asiatica con la riduzione del costo del lavoro o con

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misure assistenziali di corto respiro, si è rivelata nient' altro che il frutto di una cecità della classe imprenditoriale e di quella politica. Anche la fortunata realtà dei distretti industriali — l'organizzazione della collaborazione in conoscenze e servizi tra imprese di un determinato territorio —, pur avendo prodotto nel passato un vero e proprio miracolo competitivo, non è ora più in grado, senza un salto di qualità, di reggere la nuova fase della globalizzazione. L'Italia sta pagando cosi il prezzo del suo ritardo non solo tecnologico, ma prima ancora culturale per avere continuato ad identificare nella manifattura la base principale e pressoché unica della sua crescita economica e sociale. Bisogna, quindi, interrogarci se ancora oggi, di fronte alla catastrofe occupazionale che continua ed ai tanti problemi del Paese rimasti senza soluzione, possiamo continuare a rinviare il necessario ed ineludibile processo di adattamento strutturale. Più tardiamo a porci questa domanda, più le risposte possibili saranno difficili e nell'immediato assai dolorose. Chiudono migliaia e migliaia di aziende; sono milioni i cassintegrati, i licenziati e i giovani e le donne senza lavoro — il Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, ha parlato di 7 milioni tra disoccupati e persone che hanno rinunciato a cercare lavoro: con le loro famiglie coinvolgono nella crisi sociale circa metà della popolazione; non esiste una rete universale di assistenza sociale; è mancata o scaduta la formazione professionale; si contraggono i consumi, anche come conseguenza dei bassi salari; c'è paura e disagio non solo tra i poveri ma in gran parte del ceto medio che aveva conosciuto benessere ed orgoglio di cittadinanza prima dell'avvento delle politiche neoliberiste; si allontana oltre il ragionevole l'età della pensione, ed a causa di una affrettata riforma fatta con l'esclusiva ottica attuariale, spunta il fenomeno degli «esodati», Si accumulano grandi tensioni sociali che chiamano le istituzioni democratiche a risposte nuove ed urgenti. Queste riflessioni non vogliono prefigurare un inevitabile tramonto dell'industria manifatturiera italiana. Va infatti subito notato che non tutta la nostra manifattura ha pensato di sopravvivere comprimendo il costo del lavoro. In particolare dall'indagine che Mediobanca e Unioncamere' hanno effettuato nel 2009 sulle medie imprese manifatturiere emerge che circa 4.300 aziende, con addetti che variano da 50 a 499, hanno avuto andamenti molto dinamici e positivi nel periodo 1997-2006, in termini di fatturato (+64,2%), di export (+80,7%), valore aggiunto (+42,6) e incremento del numero dei dipendenti (+17,1%). Ciò che conta, infatti, per essere competitivi non è solo la dimensione ma la crescita relazionale (si calcola infatti che ciascuna delle aziende oggetto dell'indagine ha rapporti con decine o centinaia di fornitori) e lo sviluppo delle competenze delle imprese. A queste aziende che si trovano soprattutto nell'Italia del Nord, in Lombardia, Ueneto ed Emilia-Romagna, vanno poi aggiunte le medie imprese italiane collegate a società di grandi dimensioni. L'industria manifatturiera italiana possiede quindi forte vitalità e potenzialità. Tra i tanti, un altro esempio da segnalare per confermare questa realtà è relativo all'internazionalizzazione (non semplice delocalizzazione) di Brescia: 1.205 imprese di proprietà bresciane trasferite fuori d'Italia che occupano 42.000 addetti. Agiscono soprattutto nel comparto della meccanica, ma anche in quello della moda, della gomma e della chimica. Il mercato europeo, compresa ovviamente la Germania, è giustamente considerato come un mercato domestico dove è possibile esportare non solo manufatti, ma produrre ed acquisire conoscenze e servizi. Il «Sole 24 Ore» parla della «fabbrica Brescia nel mondo» e racconta che sta sviluppandosi anche oltre i confini dell'Unione europea. È importante notare che questa «Brescia 2» nasce come risposta alla crisi ed ha potuto avere successo anche grazie ad un rapporto positivo con il sindacato, anche se non privo ovviamente di conflitti. Le possibilità quindi ci sono. Nel 2011 l'Italia ha confermato un surplus strutturale nel commercio con l'estero di beni manufatti. Tuttavia, non va mai sottovalutato il nuovo contesto in cui l'industria manifatturiera italiana si trova ad operare, un contesto contrassegnato dalla crescente concorrenza asiatica, a cui le aziende italiane possono cercare di rispondere solo se capaci di internazionalizzarsi e rinnovarsi. In Italia, come già rilevato, parliamo poco della concorrenza asiatica e, quando lo facciamo, riusciamo soprattutto ad esprimere paura e qualche malcelata intenzione protezionistica. Non riusciamo invece ad elaborare valide proposte. Negli Stati Uniti, al contrario, se ne parla molto e con l'intento dichiarato di «reinventare l'America» in modo da arrestare e rovesciare il declino in

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corso. In un ponderoso dossier pubblicato sulla «Harvard Business Review»s che riporta i risultati di un convegno — tenuto nel novembre del 2011 e a cui hanno partecipato esponenti dell'imprenditoria, del sindacato, dei media e dell'accademia — si lancia sostanzialmente un appello al mondo dell'impresa e del lavoro perché, in maniera bipartisan, dia una scossa ad una classe politica divisa e rissosa, capace soltanto di negare la realtà. Il grande messaggio che viene trasmesso è quello della necessità di elaborare un «nuovo canone di competitività» non più basato solo sulla ricerca degli utili, ma anche sulla capacità di accrescere il benessere sociale allargato. Nell'edizione italiana della rivista americana, Enrico Sassoon dice che da quel convegno è uscita una visione che ha l'ambizione di indicare un nuovo umanesimo economico ed imprenditoriale come risposta fondativa e vitale alla grave crisi in corso'. Dal convegno non sono usciti solo messaggi valoriali ma, in coerenza con essi, l'indicazione di politiche concrete a partire dalla proposta di un Jobs compact finalizzato alla creazione, entro il 2020, di 20 milioni di posti di lavoro ad alto contenuto di conoscenza, investendo soprattutto sul capitale umano, sull'educazione e sulla possibilità di creare nelle aziende condizioni di fiducia collaborativa per risolvere i problemi e stimolare l'innovazione. In Italia manca ancora un dibattito di questo spessore e sono quindi assenti riflessioni ed iniziative adeguate per un progetto capace di ridare al Paese consapevolezza dei suoi problemi e dei suoi possibili destini. Esistono naturalmente tanti interessanti contributi individuali o di gruppo. Tra questi il più recente ed ambizioso appare il progetto Prato elaborato dalla Giunta regionale toscana: un progetto che punta sulla ricerca e sull'innovazione nel campo dei materiali e delle fibre oltre che sull'emersione del lavoro nero per rilanciare il settore tessile e dell'abbigliamento. Ma sono state finora esperienze circoscritte e/o messe da parte a causa di una competizione politica particolarmente rissosa ed inconcludente. Basti ricordare in che modo il governo Berlusconi ha parlato e fatto parlare di altro, arrivando a negare la crisi invece di contrastarla; e basti pensare al Partito democratico che, a causa di risposte non date al bisogno insopprimibile di chiarezza sulla propria identità e missione, ha fatto a lungo prevalere al suo interno l'idea fuorviante che era possibile trovare nella riforma della legge elettorale la chiave giusta per affrontare i problemi del Paese. Anche per queste ragioni il populismo ha trovato tanto spazio in Italia. La crisi della politica italiana è cosi esplosa. C'è voluta l'iniziativa determinante del Quirinale perché i partiti presenti in Parlamento ne prendessero atto cedendo il passo al governo Monti, La nomina del nuovo governo ha avuto subito l'effetto di cambiare radicalmente l'agenda politica. Son venuti cosi in primo piano i nodi del debito e del risanamento dei conti pubblici ed è apparso chiaro che non era più il tempo di piccole manovre, di furbizie tattiche o di tagli lineari. Dopo la Grecia era l'Italia ora sotto tiro e ciò ha spinto Monti a prendere con rapidità decisioni estreme, a partire da una riforma delle pensioni impensabile in tempi normali. Ciò ha fatto capire in quel momento ai mercati che il nostro Paese non era più il punto debole dell'Unione europea, ma non ha potuto ovviamente risolvere la grave crisi della zona euro. Contro la moneta unica europea si è infatti da tempo costituito un potente e globale fronte avversario, fatto da tutti coloro che — a partire dalle grandi banche americane, da operatori importanti della City inglese, dalle Agenzie di rating in perenne conflitto di interessi — non 400 vogliono alcuna seria regolamentazione dei mercati finanziari. Costoro sanno di potere essere ostacolati e fermati da un'Unione europea proiettata verso l'unità federale e con una vera ed attiva Banca centrale; perciò fanno di tutto per fare fallire questa possibilità. Obama lo sa e perciò non perde occasione per spingere l'Europa a difendere la sua moneta e la sua unità. Lo fa certo anche per difendere se stesso ed evitare al suo Paese nuovi drammi sociali. Ma non vanno sottovalutati l'importanza ed il senso della sua scelta filoeuropea. Il fallimento dell'euro, oltre a produrre effetti catastrofici sull'economia mondiale, eliminerebbe dalla scena la seconda moneta mondiale di riserva, dando cosi ossigeno al traballante signoraggio del dollaro, Non è difficile pensare che i repubblicani, che già accusano l'attuale Presidente Usa di volere importare i valori del socialismo europeo, insisteranno anche su questo per impedire la rielezione di Obama e la ricerca di nuovi positivi e necessari accordi di cooperazione globale.

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Sembra invece non saperlo o non volerlo capire la Germania della Cancelliera Merkel. È necessario interrogarsi sulle ragioni che animano la sua politica, capace nello stesso tempo di aumentare in misura considerevole, quasi dominante, il peso della Germania nel contesto europeo e di mettere in serio pericolo la stessa unità europea. Non è facile darsi delle risposte. L'export tedesco per due terzi è diretto al mercato comune e per più del 45% nell'eurozona: sembrerebbe, cosi, evidente l'interesse tedesco, non solo al mantenimento, ma allo sviluppo dell'economia e dell'unità europea. Puntare, invece, ossessivamente sull'austerità ed intanto sull'acuirsi del differenziale nel costo e nelle condizioni di credito tra la Germania ed i suoi concorrenti nel mercato interno (il famoso spread), oltre a creare un potente, distorsivo ed inaccettabile fattore di vantaggio competitivo per le imprese tedesche su cui dovrebbe intervenire anche l'Antitrust europeo, significa impedire la ricerca di ogni equilibrio possibile tra Paesi creditori e debitori e quindi provocare la quasi sicura rottura dell'curo e dell'Unione europea. La speranza è che a tutto questo si ponga rimedio, scegliendo con convinzione la via degli Stati Uniti d'Europa, La vittoria di Hollande in Francia, l'apertura in Europa e nella stessa Germania di nuovi dibattiti e nuove riflessioni", ed infine e soprattutto le decisioni prese nel vertice europeo del 28 e 29 giugno 2012 hanno avuto il merito di bloccare l'orribile cammino verso il precipizio in cui come europei ci eravamo avviati. La crisi non è per niente finita, ma si è innestata — grazie alla spinta comune di Italia, Francia e Spagna — un'altra e diversa direzione di marcia che rianima il sogno europeo ma non lo libera da tutte le asperità che ancora lo caratterizzano. Viviamo quindi una crisi globale in cui si muovono attori globali. La posta in gioco è altissima, investe la condizione sociale di centinaia di milioni di cittadini e la tenuta stessa della democrazia. È bene esserne consapevoli. Monti, con un'operazione verità di cui dobbiamo essergli grati, ha annunciato rigore, sviluppo ed equità, anche se ha dovuto e saputo finora far squillare soprattutto il primo di questi tre suoni. Per tante ragioni interne, o legate agli equilibri europei, ma forse anche perché da sincero liberale e cauto liberista, pensa che per lo sviluppo possano bastare il rigore e la concorrenza. Pur credendo noi ai conti in regola ed al libero mercato riteniamo che ci vogliano anche politiche pubbliche orientate all'occupazione ed alla giustizia sociale. A questo debbono essere ispirate le «riforme di struttura», non a perpetuare ancora il fallimentare mito della supremazia dei mercati senza regole. Nel nostro Paese, in tutta Europa e negli Stati Uniti d'America, in vario modo ma con toni crescenti di ansia e di protesta, circola un interrogativo a cui finora si sono avute solo timide, assai timide, e poco convincenti risposte: perché — si chiedono gli operai ed il ceto medio, i giovani indignati e disoccupati, il popolo colpito dalla crisi — il rigore deve colpire sempre noi e non coloro che hanno provocato la crisi? Questo interrogativo ha segnato ed animato le campagne elettorali in corso nell'anno e si annuncia come centrale nella futura decisiva campagna presidenziale americana. Arrivano cosi ad un sindacato reso più debole dalla caduta dell'occupazione, spinte potenti a rimisurarsi con il grande problema dello sviluppo, dell'uguaglianza e della giustizia sociale. Come ha vissuto e come sta vivendo il sindacato questa crisi? L'impressione è che non abbia trovato ancora la chiave giusta per affrontarla. È rimasto fortemente e fortunatamente legato alla classe operaia manifatturiera colpita dalla crisi, ma non ha potuto trovare in essa — ancora assai combattiva, ma costretta su posizioni difensive — la forza sufficiente per contrastare i processi in corso. Anni di denunce e di lotte, di dibattiti e convegni, di scioperi e trattative hanno permesso al sindacato di raccogliere le ragioni e l'indignazione dei lavoratori e di dar vita a grandi manifestazioni di protesta democratica, senza riuscire però ad aprire nuovi sentieri di sviluppo e di occupazione. Hanno pesato certamente le ottuse politiche conservatrici dominanti in Europa e, sul piano interno, l'incredibile anomalia del governo Berlusconi, che si è accompagnata a quella che è stata chiamata l'agonia della politica in Italia. Ha pesato anche il lungo inverno dell'unità sindacale. Ma forse al di sopra di tutto ha pesato nel sindacato, come nelle altre istituzioni politiche, la mancata corretta lettura della realtà, la comprensione della vera natura della crisi in atto. A leggere i documenti sulla base dei quali si sono aperti e conclusi gli ultimi congressi nazionali delle tre maggiori Confederazioni sindacali si ha la conferma di questa valutazione. Si parla a lungo e con forte e vivo allarme di declino del sistema industriale italiano — in sintonia peraltro con il

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giudizio della Confindustria — ma si fa fatica ad ammettere e comunicare che ci si trova di fronte non ad una normale, anche se particolarmente grave, fase di crisi, ma a qualcosa di ben diverso, ad una storica fase di cambiamento del modo di comunicare, produrre, commerciare e creare valore. In questa fase c'è il declino, ci sono veri e propri fenomeni di deindustrializzazione, la ricerca del lavoro si è trasformata da diritto in dramma che coinvolge milioni di persone; ma tutto questo sta dentro una nuova «grande trasformazione» che va capita e fatta capire perché può portare la nostra società a nuovi livelli di civiltà, libertà e benessere, oppure a farla precipitare verso oscuri lidi regressivi ed antidemocratici, se la crisi continuerà ad essere gestita con gli occhiali deformati del conservatorismo e del neoliberismo o se le forze democratiche e progressiste continueranno a misurarsi solo con il passato e non con il futuro. Enzo Rullani ci invita a vedere dietro le nuove instabilità finanziare ed economiche connaturate al sistema capitalistico, la nascita di un nuovo paradigma produttivo: il capitalismo globale della conoscenza capace di «sfruttare al massimo i vantaggi della reciproca specializzazione e integrazione tra produttori, lavoratori, consumatori, intermediari, istituzioni localizzati in Paesi diversi e portatori di logiche complementari o conflittuali che hanno bisogno di mediazioni e sintesi»". Le nuove filiere globali cosi formatesi, realizzano una interdipendenza tra Paesi, imprese e lavoratori che fanno parte di sistemi diversi. Solo che questa interdipendenza è sempre meno governata. Gli Stati, i partiti, i sindacati rimangono nazionali, mentre l'economia reale è diventata globale. L'attuale globalizzazione non si serve delle istituzioni democratiche, ma le contraddice e le indebolisce. Cogliere questa complessa natura della crisi ci permette di capire meglio le dinamiche in corso nel nostro Paese come nell'Unione europea e nel mercato mondiale, ma ovviamente non ci fornisce risposte né facili né rapide su come far fronte ai processi in corso. Questa visione è però necessaria perché ci dà nuova e più forte consapevolezza del bisogno urgente degli Stati Uniti d'Europa: se la competizione avviene e sempre più avverrà tra filiere globali, la piattaforma europea è per il nostro Paese condizione indispensabile per conservare ed accrescere un posto dignitoso nell'economia mondiale. Ci spinge anche sul piano sindacale a ravvivare l'obiettivo di dare forma e concretezza a nuove relazioni industriali in sede europea. E soprattutto questa lettura della crisi può, nell'immediato, permettere al sindacato di non rimanere prigioniero dell'emergenza e di allargare il suo orizzonte di analisi ed azione, impegnandolo a rispondere in maniera nuova ed efficace alle trasformazioni in corso che — va ricordato — anche nel nostro Paese hanno nello stesso tempo due facce, quella del declino, certo oggi più evidente, ma anche quella di innovazioni profonde del sistema produttivo. Perché questo avvenga, senza farsi trascinare in tante «guerre inutili» o «guerre per errore» come le chiamava Bruno Trentin — tipo quelle che a lungo hanno impegnato su posizioni divergenti i sindacati italiani sull'assetto della struttura della contrattazione —, è necessario che il movimento sindacale, mentre affronta l'emergenza, dedichi tempo e spazio mentale e pratico ad alcuni nodi resi strategici dal procedere della globalizzazione. Il primo di questi nodi riguarda il mercato del lavoro nel quale, tra i tanti sconvolgimenti subiti e la crescente e diffusa disoccupazione strutturale di lunga durata, svetta il dramma dei giovani disoccupati o precari. Un dramma che ha raggiunto dimensioni tali da rendere instabile il sistema capitalistico sia nei suoi assetti economici che in quelli politici. Il governatore della Bce, Mario Draghi, ha calcolato che tra il 2007 ed il 2011 il tasso di disoccupazione giovanile nell'Unione europea è aumentato di 5,8 punti percentuali nella fascia di età 15-24 anni"; nel primo trimestre del 2012 lo stesso tasso e nella stessa classe di età, mentre in Germania è dell'8%, in Italia è arrivato al 34,2% ed in Spagna al 50,7%, come nel Mezzogiorno d'Italia; la media nell'eurozona è del 21,9%. Questi dati sono peraltro in continuo spaventoso aumento. Già Federico Caffè diceva che non si può accettare l'idea che un'intera generazione di giovani debba considerare di essere nata in anni sbagliati e debba subire come fatto ineluttabile il suo stato di precarietà occupazionale, Ora, anche Draghi parla del pericolo di una «eterna flessibilità senza speranza di stabilizzazione»" e definisce questa situazione come una ferita all'equità, un grave ostacolo all'assimilazione del progresso tecnico e quindi alla crescita, uno spreco che non possiamo

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permetterci. Il sindacato conosce questa situazione, ma trova ancora tante difficoltà nel tradurre la sua accresciuta consapevolezza in azioni rivendicative conseguenti, Nella lunga vicenda sull'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, innestata dalla proposta del governo Monti di abolirlo, una parte di queste difficoltà è apparsa con tutta evidenza. Il governo si è appellato alla condizione di precarietà dei giovani per togliere agli operai occupati il diritto alla non licenziabilità senza giusto motivo. A sostegno di questa tesi non ha mai portato alcuna valida teoria o verifica empirica, ma solo la pretesa dei mercati di eliminare qualunque vincolo alla libertà ed al dominio del capitale. Questa arrogante pretesa è stata chiamata «riforma di struttura», mentre per noi il mercato del lavoro è soprattutto un istituzione sociale, non un comune mercato, e l'impresa diventa tanto più efficiente e competitiva quanto più funziona come «luogo di convergenza» tra capitale e lavoro. Ma al di là dell'episodio, ridottosi poi a più modeste dimensioni grazie alla vasta forte ed unitaria mobilitazione sindacale ed al risvegliarsi nel Partito democratico del senso dei valori e della realtà, quello che va colto ai fini del nostro ragionamento è che il sindacato, nella contrapposizione tra giovani precari ed operai artatamente creata dai liberisti, ha doverosamente scelto la difesa di un importante diritto acquisito, senza riuscire però, malgrado ripetuti tentativi, a sostenere con la stessa forza il diritto dei giovani ad un presente e a un avvenire più sicuri. Questo non è avvenuto a caso e certo non è dovuto a chiusure corporative o comunque ad una scarsa sensibilità degli operai e dei vertici sindacali verso le nuove generazioni. La ragione è diversa e più profonda. Nell'attuale struttura produttiva del Paese non c'è posto per maggiore occupazione, ma solo per la crescita della disoccupazione strutturale. È difficile ma è anche urgente prendere atto di questa dura realtà. Se il sindacato vorrà rappresentare in maniera diretta e/o indiretta l'immenso universo dei giovani con poco o senza lavoro dovrà dare costante, concreta e crescente forza alla lotta per un nuovo modello di sviluppo. Lottando con i giovani, non solo per i giovani. Possibilità vere di lavoro potranno infatti nascere solo se si procederà verso un nuovo modello produttivo avanzato tecnologicamente, basato su una rinnovata efficienza della ricerca, della formazione e dell'Università e su nuove e positive relazioni nell'impresa tra capitale e lavoro; un modello di sviluppo orientato non solo all'export, certo importante, ma anche al soddisfacimento di tanti bisogni vitali interni finora irresponsabilmente trascurati, primi fra tutti la protezione ed il riassetto del territorio e la fioritura di uno «sviluppo intelligente» dei servizi nelle città. In questo modo i giovani troveranno motivazioni, occasioni di lavoro e riconoscimenti ed il sindacato, se deciderà di mettersi alla testa di questi processi di cambiamento — come emerge dalle ultime iniziative di lotta — potrà ricavare dal protagonismo dei giovani nuova forza contrattuale e politica, sfuggendo alla deriva difensivista. Sappiamo che non è un processo semplice e che non tutto dipende ovviamente dal sindacato. La sua capacità di essere, anche in tempo di crollo dell'occupazione, forza innovativa dipende da come l'Unione europea saprà superare la via cieca dell'austerità senza crescita e senza giustizia sociale e da come la politica nei singoli Paesi riuscirà a riappropriarsi di visioni di lungo periodo; ma il rinnovamento della struttura e delle politiche sindacali appare comunque una scelta obbligata ed urgente. Da un'indagine curata dalla Confederazione europea dei sindacati nel 2008"' emerge che la percentuale di adesione ai sindacati dei lavoratori attivi è caduta di circa sei punti tra il 2000 ed il 2010, per un totale di ben 18 milioni di iscritti; e, commenta l'autore, «in presenza di questo declino le politiche sindacali nei diversi Paesi hanno aumentato il carattere puramente difensivo e li dove esiste il pluralismo ne ha accentuato il tasso di litigiosità e competizione interna». Inoltre da attente ricerche condotte da Paolo Feltrin sull'andamento degli iscritti alle tre Confederazioni sindacali italiane nel periodo compreso tra il 1978 ed il 2010, emerge un dimezzamento dei tesserati occupati nell'industria manifatturiera: per la Cgil da 1.169.936 a 604.603; per la Cisl da 698.839 a 358.187; per la Uil da 289.304 a 211.159", Una conseguenza che il sociologo dell'Università di Trieste trae anche da questi dati è che il sindacato italiano rischia di perdere il suo radicamento nei posti di lavoro ed il suo peso nelle relazioni industriali, cercando a ciò una compensazione con l'offerta di servizi e con il tentativo di conservare un protagonismo nell'arena politica. Il rischio, indicato nelle due ricerche, indubbiamente esiste; anzi è in corso"; ma

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non pensiamo sia ineluttabile, se, come abbiamo detto e come ci appare credibile, esso può essere contrastato da una lettura corretta sulla natura della crisi che suggerisca interventi rinnovatori sull'assetto produttivo, sul bacino della rappresentanza sindacale e sulle politiche del sindacato. Lungo queste vie occorre quindi; 1) intervenire nelle aree dinamiche del cambiamento e non solo in quelle del declino, ed in queste ultime distinguere tra tutela dei lavoratori, sempre necessaria, e difesa dei vecchi posti di lavoro, non sempre possibile; 2) rispondere all'offensiva liberista, tipo quella sull'art. 18, promuovendo una grande campagna per una visione alternativa dell'impresa e per proporre con convinzione e determinazione il grande tema della democrazia economica al fine di costruire un rapporto tra capitale e lavoro basato sul dialogo e la collaborazione e non sul dominio del più forte; 3) elaborare la più grande novità dei nostri tempi, l'economia della conoscenza, connessa alla rivoluzione tecnologica. La riflessione va concentrata sul fatto che è oggi il sapere, e non più la quantità di lavoro incorporata nel prodotto, la principale fonte della ricchezza, e ciò va messo in relazione con il fatto che aumentano i lavoratori malpagati e/o precari; 4) ripensare le strutture organizzative del sindacato per renderle nello stesso tempo aperte sia ai lavoratori della conoscenza — che portano istanze partecipative nelle relazioni sindacali — sia ai giovani ed alle donne senza lavoro o con lavoro precario, che sentono più il bisogno della protesta e della lotta sociale; 5) sviluppare un grande movimento di idee e di lotta per la riforma del welfare in senso universalistico, con particolare attenzione all'estensione delle tutele nei settori dei servizi oggi esclusi ed alla individuazione di misure adeguate per la disoccupazione strutturale. Su queste basi il sindacato italiano saprà ritrovare e rilanciare la sua migliore tradizione unitaria. Naturalmente su ciascuno di questi punti, come sulla reale configurazione e perseguibilità di quello che chiamiamo «nuovo modello di sviluppo», il dibattito è avviato da tempo e va oggi aggiornato ed ulteriormente sviluppato, uscendo con fermezza e saggezza dalla difesa impotente dell'esistente. Non possiamo qui farei carico ulteriormente di questo essenziale compito perché superiore alla nostre forze. Vogliamo limitarci a qualche utile sottolineatura sui primi due punti segnalati. Per l'intervento nelle aree di crisi e/o di sviluppo ci sembra importante evidenziare la dimensione territoriale dell'azione sindacale. Ogni evento aziendale sta infatti dentro la fase generale di transizione prima richiamata; va quindi gestito con la volontà di aprire o incoraggiare processi innovativi. Per creare occupazione bisogna passare da un modello basato su forti investimenti in macchinari e bassa occupazione ad un altro modello che permetta nuova occupazione con modesti investimenti in capitale fisso. Come dicono gli economisti dell'innovazione bisogna passare dall'acciaio al software; dalla manifattura — specie quando non riesce a rinnovarsi — ai servizi. Questo dei servizi è un mondo infinito, pieno di saperi e specializzazioni oltre che di bisogni, in continua evoluzione, ed è l'unico spazio in cui si creano continue occasioni di lavoro". Finora il sindacato l'ha in vario modo sottovalutato e messo quasi ai margini della propria classe dirigente, con l'eccezione ben nota del pubblico impiego. Eppure nel mondo dei servizi si ammassano milioni di lavoratori precari sottopagati e spesso senza diritti e tutele; e dall'altra parte, soprattutto nel campo dei servizi avanzati, ci sono lavoratori e ricercatori con buona o alta qualificazione, ma anche essi spesso senza riconoscimenti, ruoli e retribuzioni adeguati. È in questo mondo assai vasto e spesso frammentato dei servizi che il sindacato nei Paesi di vecchia industrializzazione potrà bloccare il suo possibile declino e costruire un nuovo futuro. Nella vertenza territoriale vanno suscitate, e se possibile strutturate, le relazioni più opportune tra sindacato e le correnti innovative dell'impresa, dell'amministrazione pubblica, della scuola e dell'università, attivando giovani e professionisti e quanti altri siano interessati ad una prospettiva di ripresa dell'economia e di sviluppo dell'occupazione. Relazioni pensate e costruite con una logica di sistema, capace di valorizzare tutti gli attori coinvolti. Una metodologia efficace appare quella perseguita a Prato nell'impostare il rilancio del tessile. Si tratta come sindacato di dare il proprio contributo alla creazione di un sistema di rappresentanza e di relazioni industriali capace di evitare il frazionamento degli interessi e di far prevalere una logica cooperativa". Il sindacato italiano, contrariamente a tanti altri movimenti sindacali europei, ha nel suo bagaglio culturale e rivendicativo l'importante esperienza delle vertenze territoriali. Ad essa, come alla grande tradizione politica del «capitalismo democratico» nato dal basso in alleanza tra operai e ceto medio nelle

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Regioni rosse'", servirà fare ricorso perché la lotta per un nuovo Piano del lavoro annunciato dalla Cgil ed in generale per una buona e maggiore occupazione non si può vincere solo in azienda. Nelle situazioni più significative potrebbero anche nascere Comitati di base per lo sviluppo e la buona occupazione. Qui è necessario ricordare la drammatica situazione in cui si trovano i lavoratori ed i ceti medi del Mezzogiorno, specie nelle aree dei vecchi poli industriali creati dall'alto senza alcuna connessione con le risorse esistenti nel Sud ed ora fatti sparire senza promuovere alcun processo alternativo. Si sono lasciate l'agricoltura ed i servizi nelle città del Sud mediamente arretrati, mentre soprattutto i servizi potevano e possono tuttora, se rinnovati, valorizzare le risorse locali e diventare attrattivi anche per l'altra sponda del Mediterraneo. Si sono inquinati le spiagge e i mari in nome di «cattedrali nel deserto» che oggi non vanno rimpiante, ma sottoposte a consapevole critica per fare risorgere su nuove basi lo spirito civico e lo sviluppo". Riaprire poi la lotta per una visione alternativa dell'impresa e rispondere, più in generale, all'offensiva liberista rilanciando l'ideale ed il bisogno di democrazia economica, è certamente un'impresa grande che, nelle condizioni attuali, può però essere affrontata un passo alla volta. La cosa più importante è definire l'obiettivo con senso di realismo, in modo da poterlo poi perseguire con convinzione e costanza. Si può partire dall'interrogativo che Lorenzo Sacconi ha posto in un recente convegno: «siamo convinti noi democratici che esiste un problema di uguaglianza o se si preferisce di correzione delle diseguaglianze anche nel funzionamento dell'impresa?»". È possibile sollevare questo problema dimostrando che è più efficiente e produttivo un governo dell'impresa multifiduciario (multi stakeholder) in cui l'amministratore o il manager, o chiunque conduca l'impresa, senta ed abbia doveri fiduciari non solo verso la proprietà ma anche verso i lavoratori, verso il capitale umano? La risposta è senz'altro positiva se si esaminano gli effetti ed i risultati di molte delocalizzazioni decise unilateralmente e li si confronta con la gestione di imprese che hanno saputo accrescere la loro produttività grazie ad accordi raggiunti con i sindacati dei lavoratori. Ma si può e si deve andare oltre prendendo la strada della democrazia economica ed intanto delle pratiche di democrazia economica, per rispettare il proposito di procedere con gradualità. Ci riferiamo qui a come i sindacati europei stanno affrontando la tragedia della crisi economica. Si discute molto e con più voci su come valutare e modificare la tendenza in atto nelle relazioni industriali segnata dalle sole ragioni dell'impresa". A noi sembra utile a tal proposito richiamare le decisioni assunte dal sindacato in Germania, dove le imprese hanno scelto la via dell'internazionalizzazione, e non quella della delocalizzazione, e hanno praticato la via dell'accordo con il sindacato, e non quella dello scontro. Nel contratto nazionale raggiunto nel 2003 per il settore metalmeccanico, il Sindacato unitario dei lavoratori, consapevole che la globalizzazione aveva riaperto anche in Germania problemi di produttività, ha concordato con l'associazione datoriale il principio che erano possibili in sede aziendale deroghe sui temi del salario e dell'orario (e non su quelli della tutela della salute e della malattia, né sul diritto di sciopero) a patto che fosse garantito il mantenimento dei livelli di occupazione ed un volume di investimenti capace di rendere più competitiva l'impresa. Questa è stata in tempi di crisi una buona pratica di democrazia economica che ha avuto esiti positivi per tutte le parti sociali coinvolte, oltre che per l'economia del Paese. Esattamente il contrario di quello che è avvenuto in Italia per i metalmeccanici, dove la Fiat apparentemente ha offerto lo stesso scambio (sacrifici dei lavoratori in cambio di garanzie del posto di lavoro e di nuovi investimenti), ma in realtà, presa dalla sua importante avventura americana, ha tenuto nel mistero — fuori dal rapporto con i sindacati — i suoi piani produttivi e finanziari per l'Italia e ha assunto nella trattativa un comportamento apertamente ostile, decidendo di uscire dal contratto nazionale di settore e dalla Confindustria ed imponendo un referendum nelle fabbriche basato sull'umiliazione, non sulla partecipazione, dei sindacati. Nello stesso tempo va ricordata anche la responsabilità della Fiom, che ha ritenuto di poter rispondere ad una evidente crisi strutturale dell'industria automobilistica italiana con le sole armi della rigidità e del conflitto. Avvenimenti che portano alla memoria la vicenda dei combattivi minatori inglesi, ai tempi della

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Thatcher, i quali sapendo di non poter vincere hanno allora scelto la via della «sconfitta eroica». Ma i lavoratori hanno bisogno di vincere e non di perdere. Procedere verso la democrazia economica serve intanto proprio a questo, ad evitare che essi debbano sempre subire, esposti come sono ai venti della congiuntura oltre che del ciclo economico, senza alcuna vera garanzia e prospettiva, senza il riconoscimento della loro natura di produttori. In Germania hanno avuto certo un peso determinante le istituzioni e le procedure della codeterminazione che in Italia non esistono; ma non dobbiamo dimenticare che nel nostro Paese possiamo attingere ad una grande ed originale tradizione rivendicativa, quella che ha portato il sindacato italiano negli anni Settanta e Ottanta a contrattare la cosiddetta «prima parte dei contratti», cioè il diritto di conoscere e discutere le politiche aziendali e che successivamente gli ha permesso — in aperta controtendenza con la suggestione confindustriale di affrontare le incombenti ristrutturazioni industriali senza e contro il sindacato — di arrivare nel 1984 alla firma del Protocollo Iri, con il quale le parti sociali si sono date avanzate regole e procedure per la ricerca del consenso, pur conservando la propria reciproca e indispensabile autonomia. Nel Protocollo Iri l'informazione da parte delle aziende diventava preventiva, oltre che negoziabile, ogni qualvolta l'impresa voleva introdurre innovazioni tecnologiche e/o modificazioni all'organizzazione del lavoro, oppure ogni volta che il sindacato avanzava richieste tendenti allo stesso scopo, stabilendo in questo modo un principio di reciprocità che dava al sindacato nuove responsabilità, ma anche il riconoscimento di un diritto di iniziativa naturalmente l'opzione partecipativa che ispirava tutto l'accordo, e che si articolava nella formazione di Comitati consultivi paritetici, doveva essere correlata con l'esercizio del diritto di sciopero. Qui la trattativa ha trovato i passaggi più difficili, superati alla fine con la comune convinzione che il conflitto andava prevenuto e non evitato, proceduralizzato, ma non per le lotte relative al rinnovo dei contratti di lavoro. Un accordo indubbiamente innovativo e di grande significato, quasi una via italiana alla codeterminazione, che ha avuto purtroppo applicazioni limitate e controverse dovute, da una parte, al progressivo indebolimento del ruolo dell'Iri, sia nel campo delle politiche industriali che in quelle per una nuova organizzazione del lavoro, e dall'altra alle difficoltà ed ai limiti incontrati dal sindacato nel far proprio lo spirito dell'intesa, peraltro fortemente avversata dalla Confindustria. Rimane però il fatto che a quelle esperienze il sindacato italiano è arrivato e, fatto oggi di notevole attualità, ci è arrivato perché le ha ritenute e volute come la risposta migliore che poteva dare alle ristrutturazioni industriali di cui il Paese aveva bisogno. Non ha contrapposto partecipazione e conflitto. Volendo sintetizzare: rivendicando la prima parte dei contratti, con il conflitto è arrivato alla partecipazione; con il Protocollo Iri partendo dalla ricerca del consenso ha regolamentato il conflitto nel pieno rispetto dell'autonomia delle parti. In tutti e due i casi — rispondenti certo a tipologie diverse di relazioni industriali — si è voluto cercare una sintesi virtuosa tra gli interessi dei lavoratori e quelli dell'impresa. È giusto, quindi, augurarsi che si rompa il silenzio e si spazzi via la polvere che ha a lungo sepolto queste vitali esperienze, non per riproporle cosi come erano, ma per ricavarne riflessioni ed analisi capaci di riattualizzare in Italia la via della democrazia economica. Anche il lavoro autonomo ha subito duri colpi dalla crisi. Anzi, da una recente pubblicazione" si evince che la «contrazione occupazionale» è stata qui più forte che nel lavoro dipendente ed ancora che anche nel lavoro autonomo si assiste ad una progressiva «dualizzazione» con forti indici di diseguaglianza tra un corpo consistente di lavoratori autonomi ricchi ed una quota considerevole di persone a rischio povertà. Ad essi va poi aggiunta la zona grigia tra lavoro autonomo e lavoro dipendente: più di un milione i lavoratori mono-committenti o con vincoli di orario e luogo, quasi sempre precari e senza tutele sociali. Alla prova dei continui e crescenti costi della crisi, le forze sociali si presentano cosi indebolite e frazionate. Non è un buon segno per la salute della democrazia: in tante altre occasioni l'impoverimento e la rottura del ceto medio hanno favorito il successo della destra più retriva e del populismo. Inoltre la gestione attuale dell'emergenza da parte dei .vertici europei fa vedere ai cittadini solo gli aspetti oscuri ed inquietanti della crisi (tagli alla spesa e restrizione del credito, riduzione dei servizi

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sociali ed aumento delle diseguaglianze, disoccupazione strutturale in crescita) e non la possibilità e la volontà di affrontare questi problemi con equità. Cosi da noi, mentre si lavora per un duro e necessario risanamento dei conti pubblici, appaiono però lontane ed ingiustamente trascurate le pur pressanti esigenze di giustizia sociale, a partire dall'introduzione di un prelievo ordinario sui grandi patrimoni. Si crea cosi una situazione assai delicata: non si incoraggiano comportamenti collaborativi da parte delle forze sociali, ma si producono invece ragioni di conflitto. Eppure creare il clima giusto per chiedere ad imprese e lavoratori di compiere sforzi straordinari ed unitari per fare uscire il Paese dalla crisi sembra una risorsa strategica di prima grandezza da attivare nell'interesse generale. Nel passato si è commesso l'errore di impostare il dialogo e lo scontro tra le forze sociali non su come accelerare ed estendere l'innovazione e la produttività di tutti i fattori, ma solo sulla competitività di costo, a lungo teorizzata e praticata dalla Confindustria come la migliore risposta alla crisi: abbiamo perduto, cosi, tanti anni ed accentuato il nostro ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Oggi corriamo il rischio di ripetere lo stesso errore, mettendo al centro del dibattito pubblico la sola austerità senza sviluppo, animando ancora una volta conflitti senza costrutto. La parola a questo punto passa alle forze politiche tra le quali, pur tra mille contraddizioni, sembra farsi strada il senso di responsabilità nazionale. Il punto che rimane assai indefinito è se ciò porterà a creare — lungo l'asse della distinzione tra destra e sinistra — vere coalizioni di governo per l'innovazione, capaci cioè di portare avanti realmente ed insieme rigore, equità e sviluppo; oppure a semplici coalizioni per andare al governo. Infine sul sindacato dei lavoratori. Abbiamo nel corso di questo scritto più volte argomentato la necessità che, anche nella dura fase di recessione che attraversiamo, non smarrisca il bisogno di valorizzare i segni e le possibilità del cambiamento. Le cinque vie che abbiamo indicato hanno questo significato. Ora dobbiamo qui aggiungere l'ultima nota: accennare alla necessità di un suo rinnovamento. Nel postfordismo come tutti sappiamo è avvenuto un passaggio storico dal lavoro di massa ai lavori differenziati. Ne hanno scritto a lungo intellettuali come Aris Accornero ed Enzo Rullani. Se ne è discusso tanto, ovviamente, all'interno del movimento sindacale. Il maggiore problema da affrontare è cosa deve fare il sindacato per rappresentare il lavoro che sempre più si personalizza. Rullani sostiene che se il sindacato non scioglierà questo nodo, gli sarà poi difficile far pesare nelle relazioni contrattuali, come nello spazio politico, il lavoro generale. Anche per questo, per preparare una nuova storia, abbiamo cosi a lungo insistito sul fatto che nell'attuale gravissima crisi bisogna saper vedere anche la faccia del cambiamento che avanza. 8. CONCLUSIONI L’Accordo interconfederale e il Protocollo d’intesa sono due tasselli al nuovo edificio della rappresentanza, definendo così criteri condivisi che consentano di attribuire la validità collettiva ai contratti nazionali. Ora è vero che non poche perplessità sorgono dal deciso riconoscimento al sistema maggioritario della rappresentanza, che va un po’ stretto alle dinamiche delle relazioni industriali, però da un altro lato se si considera che i due terzi dei lavoratori attivi non siano iscritti ad alcuna organizzazione sindacale, si deve riconoscere alle nuove regole la possibilità per il sindacato di un deciso ampliamento delle reti del consenso sindacale. Uno dei nodi irrisolti che gli accordi non possono sciogliere per loro natura, è quello della validità erga omnes dei contratti che si stipuleranno con le nuove regole. Se è vero che si può argomentare la irrilevanza di un intervento legislativo, con la paura che stravolga la faticosa intesa da poco raggiunta come aveva fatto l’art. 8 della legge 138/2011, all’indomani dell’Accordo Interconfederale, da un altro lato si può sostenere che senza una legge gli accordi espleteranno le loro funzioni con un limite naturale, cioè quello della natura pattizia e cogente solo per accordo. Tra le due considerazioni opposte mi sembra di poter concordare con il Carrieri che in Rassegna Sindacale n. 33 del 2013, che sostiene un intervento leggero, ma congegnato per raggiungere una pluralità di obiettivi, un intervento che si limiti ad una riscrittura dell’art. 19, in modo da riallacciarlo alla sua ispirazione originaria, ma aggiornandolo ai mutati dati ambientali.

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Non si può negare che l’intreccio tra la certificazione della rappresentanza e la validazione del consenso che i sindacati hanno nell’elezioni delle RSU si è riuscito a determinare il livello di rappresentatività effettiva e reale di ciascuno degli attori sindacali. Se l’ambizione del sindacato è quella di rappresentare più persone possibili, gli accordi sono il perimetro dell’azione sindacale che si dovrà basare su proselitismo e tesseramento, ma soprattutto sulle proprie proposte sindacali che se saranno avvedute porteranno poi all’allargamento della base. A maggior ragione l’azione del sindacato dovrà riguardare le PMI, perché esse sono ancora la base sociale sulla quale si fonda il sistema lavoro in Italia e in Europa. I dati sono inequivocabili ed per questo che l’azione del sindacato dovrà essere rivolta a queste realtà. Anche i governi hanno provato a dare la loro risposta alle domande del sostegno alle PMI, e ho cercato di mettere in fila tutti i sostegni che lo Stato ha messo a disposizione; due considerazioni sono lampanti: la prima è che gli interventi si sfarinano in troppi accorgimenti che rendono inefficaci le misure e la seconda è l’inconcludenza della conoscenza delle risorse da parte delle PMI, infatti esso non è molto popolare tra le imprese come dimostra una recente indagine del ministero dello Sviluppo Economico nella quale viene riportato che solo il 18,1% del campione intervistato conosce lo SBA e non certo per la pubblicità che ne ha fatto la PA. I cambiamenti in atto nell'economia globalizzata e la forte ventata di neoliberilsmo che alimenta i mercati internazionali hanno messo in discussione le due linee sulle quali si sono basate finora le relazioni industriali. Una è quella della dipendenza istituzionale per cui in determinati Paesi la regolazione del lavoro era fondata non solo sul mercato, ma su criteri più aperti e socialmente densi, l'altra è quella della rivitalizzazione che a fronte di una notevole fragilità delle istituzioni protettive del lavoro, costringe il sindacato a nuove strategie. Però ora ambedue le linee sono messe in difficoltà a causa di comuni problemi e di un deficit di ricette efficaci. Anche in Italia l'arresto dell'erosione della rappresentanza deve necessariamente passare da una combinazione delle due strategie per poi rilanciarsi attraverso la capacità dei sindacati di combinare una varietà di risorse d'azione. Ripensare gli equilibri richiederebbe la ripresa di una concertazione con obiettivi diretti a intervenire sugli squilibri sociali economici propri di questa crisi. Il nostro paese come altri è sottoposto alla tendenza al formarsi di multiple dualismo proprio per i caratteri di debole regolazione, di politica incerta e di scarsa coesione sociale. Se non debitamente contrastate le tendenze alla formazione di multiple dualismo potrebbero avere esiti differenti per i rapporti del lavoro e molto lontani dalle prospettive per cui sono nate le relazioni industriali: forme tradizionali di contrattualismo rivendicativo arroccate in aree forti e protette da sistema, isole di relazioni di lavoro aziendali inedite nel nostro paese ma note altrove; tanti settori affidati alle scelte individuali, senza limiti legali o collettivi alla discrezionalità delle imprese, secondo gli orientamenti neoliberisti. Ci troviamo in una situazione in cui le zone grigie tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi e addirittura imprenditori diventano sempre più larghe; Le forze sociali si presentano indebolite e frazionate; la gestione della crisi da parte dei vertici europei ha portato alla luce solo gli aspetti più oscuri e inquietanti della stessa crisi; In Italia vengono ingiustamente trascurate le esigenze di giustizia sociale e si crea così una situazione delicata infatti non si incoraggiano comportamenti collaborativi tra le parti sociali; Bisogna però considerare che se nel passato si è impostato il dialogo e lo scontro tra le forze sociali sulla competitività del costo come la miglior risposta alla crisi oggi non si può pensare che con la sola austerità si possa arrivare a un periodo di pacificazione sociale. Anche il sindacato dei lavoratori ha la necessità di spostare la propria attenzione su questi cambiamenti e a sua volta di cambiare se stesso, è necessario questo rinnovamento: elaborare la più grande novità dei nostri tempi, l'economia della conoscenza, connessa alla rivoluzione tecnologica. La riflessione va concentrata sul fatto che è oggi il sapere, e non più la quantità di lavoro incorporato nel prodotto, la principale fonte della ricchezza, e ciò va messo in relazione con il fatto che mentre i lavoratori malpagati e/o precari.