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Tina Caramanico, racconti horror. Tra horror e noir, in queste piccole storie oscure (alcune assolutamente inedite, altre reduci da premi letterari e contest sul web) conoscerete vittime decisamente pericolose, morti che parlano, mostri apparentemente innocui e feroci assassini che ci somigliano forse troppo.
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TINA CARAMANICO
PICCOLE STORIE OSCURE
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it
www.facebook.com/groups/quellidized/
Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata
PICCOLE STORIE OSCURE
Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-608-0
Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Ottobre 2013 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
Questi racconti sono opere di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autrice.
Qualsiasi analogia o riferimento a fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale.
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SINGLE
Ok, ho trovato parcheggio. Ora devo decidermi, alla svelta.
Supermercato o negozio di mobili? Meglio i mobili, non ho
tempo da perdere. Poca scelta, va bene, ma non mi interes‐
sa: quando arrivo a questo punto, non posso più andare
tanto per il sottile. Ce ne sono poche di donne sole, nel ne‐
gozio di mobili, è vero, ma se ne trovo una è già mia. È il mio
segreto, non ho mai fallito una volta: si sentono a disagio, le
singole, a girare da sole in mezzo a tutte quelle famiglie e a
quei fidanzati, e non dicono di no, mai. Dovrei scriverci un
libro per sfigati: “Come trovare una donna che ci sta in
mezz’ora. Un’ora col traffico”.
Sono una scema. Ho trentotto anni, vivo sola in un mono‐
locale prossimo al cedimento strutturale, e vengo a pas‐
sare il mio unico giorno libero qua, in questo maledetto
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negozio di mobili. Ho bisogno di un tavolino, ok. E magari
anche di un paio di tende nuove, un po’ meno deprimenti
di quelle grigio fumo che affliggono da anni le mie fine‐
stre sempre sporche. A casa mia anche una meravigliosa
giornata di primavera diventa l’anticamera del suicidio.
Ma perché proprio qui? So benissimo cosa mi aspetta: so‐
no solo all’entrata, ho cercato fino ad ora di guardarmi in‐
torno il meno possibile, ma già mi è salito il solito groppo
allo stomaco.
Dentro. Allontaniamoci alla svelta dai bambini. Anche se
certe bimbette con le gonnelline corte… Ma non possiamo
rischiare, a questo punto: le ragazzine lasciamole agli stupi‐
di, che vogliono finire in galera. Andiamo al sodo. Su per le
scale mobili. Coppiette, coppiette, famiglia. Niente, per ora.
Passo il più velocemente possibile davanti ai giochi per i
bambini, ma lo stesso palline e vestitini colorati, al mio
passaggio, si fondono in un unico violento sberleffo: “Noi
siamo il futuro, noi siamo la vita, e chi sei tu?”
Afferro rapidamente un metro di carta e una piccola mati‐
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ta (qui tutto è piccolo, tenero, fatto apposta per invoglia‐
re al gioco mani infantili e grassocce) e scappo sulla scala
mobile, cercando di concentrarmi sull’esposizione degli
articoli in saldo che si trova in basso, alla mia sinistra. Poi
alzo gli occhi per un istante e, patatrac, li vedo, proprio
davanti a me. Vedo (saranno i primi di una lunga serie qui
dentro, lo so, e per questo mi do della scema tutte le vol‐
te che ci vengo) due futuri sposini: giovani, belli solo della
loro giovinezza un po’ avvilita dalla banalità di jeans e
magliette modeste, che si muovono in mezzo alla calca
con un’assurda, felice leggerezza e guardano gli orribili
mobili di compensato qua intorno come fossero gli arredi
preziosi del castello delle fate; li accarezzano con un en‐
tusiasmo incomprensibile a noi comuni mortali, come se
ne scorgessero proprietà esclusive e segrete, che solo il
loro amore consente di rilevare. E poi si baciano, si bacia‐
no tantissimo gli sposini in questo supermercato dei sogni
e della rassicurazione: sul limitare della loro nuova vita,
hanno bisogno di qualcosa di almeno apparentemente so‐
lido a cui trattenersi, per non volare via sul vento delle lo‐
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ro illusioni e dei loro desideri, e così si attaccano a cucine
mal disegnate ma colorate, simpatiche, proprio come loro
immaginano (ancora) sarà il futuro.
Cucine: difficile trovare una donna sola, qui alle cucine. È
roba da sposini. Infatti niente. E però quella biondina in ros‐
so sarebbe proprio adatta. Mi perdo a fissarle il collo, bian‐
co, esile, con quei capelli lisci e fini da bambina. Poterli toc‐
care, e poi toccare la pelle, dolce. Attento, non ora, la bion‐
dina ha un fidanzato, riprendersi, cercare, via. Divani: ma‐
gari qui sì, qualcosa si può trovare.
Mi siedo un po’ e aspetto.
Si tengono per mano, gli sposini, e passano ridendo e
chiacchierando eccitati tra i simboli di tutta la loro pros‐
sima vita: letti accoglienti e lenzuola a righe, per lunghe
mattinate domenicali tra coccole e sesso; camerette per
bambini, quelli che arriveranno, prima o poi, e che li fa‐
ranno diventare una famigliola felice come tante, qui in
giro. Come quella, per esempio: mamma sui trent’anni,
capelli rossicci e pelle lentigginosa, bianchissima, con un
pancione portato orgogliosamente e un bambino per
mano, con gli stessi capelli rossi. Dietro, un po’ affannato,
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il padre, che spinge un passeggino viola con dentro una
bella bambina, lentigginosa e semi addormentata, mal‐
grado il rumore e la confusione intorno. Gli sposini li
guardano e pensano: “Beati loro! Fra non molto anche noi
saremo così”. La famigliola guarda gli sposini e pensa:
“Beati loro! Non molto tempo fa anche noi eravamo co‐
sì”. Ma tutte e due le categorie, sposini e famigliole, san‐
no che sono dove devono essere, a comprare cucine, di‐
vani, lettini e camerette: è questo che il mondo si aspetta
da loro, e loro stanno facendo esattamente quello che si
suppone debbano fare. A volte è eccitante, a volte è fati‐
coso, ma è giusto per loro essere quello che sono: felici, in
fondo, nell’unico modo in cui ci è consentito essere felici,
specchiandoci negli occhi degli altri. Noi siamo la vita, noi
siamo il futuro, e chi sei tu?
Nervoso, sono troppo nervoso; devo avere ancora un po’ di
pazienza, e non fare stronzate. Niente fretta. Eccone una,
mica male. Mica male. Si siede sul divano bianco, già la vedo
sdraiarsi, le sciolgo i capelli, le tocco il collo, piano, piano.
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No. Non è sola. Maledizione non è sola, stavo per fare un
grosso errore. Attento, attento, non avere fretta.
Quando sono qui ho sempre la netta sensazione di essere
invisibile, di non esserci, al mondo. Se qualche sguardo si
posa per caso su di me, vedo che cerca subito di comple‐
tarmi, cerca di localizzare nello spazio che mi circonda
l’altro pezzo di me: il marito, i figli. E quando non lo trova,
c’è un attimo di smarrimento, una rapidissima domanda
che solo io riesco a cogliere: “Chi sei tu? Che ci fai in que‐
sto negozio di mobili da sola? Non sei di qui, non stai dove
dovresti stare, non è questo il tuo posto nel mondo. Tu
non hai un posto, qui e nel mondo.”
Avanti, saltiamo le camerette, proviamo ai letti. Quella è
bellissima, davvero, Dio quanto è bella. Aspetta un momen‐
to, aspetta, resisti. Sul letto ah, cosa le farei… non posso
più trattenermi, ora vado, ci provo. Ma no, ma no, ma no.
Neppure lei è sola, c’è quella vecchia che la chiama, maledi‐
zione. Maledizione. Basta, è una tortura, devo trovare una
donna, adesso. Subito. Se no farò qualche sbaglio, farò il
pazzo, urlerò… Eccola. Eccola. È lei. È sola. Non è giovanis‐
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sima, neppure tanto bella, ma è davvero sola. Bene. Cara,
che fortuna esserci incontrati. Ora non ti mollo più. Ti se‐
guo, imparo a conoscerti. Uhm, da come muovi i fianchi non
devi essere poi così male, a letto. Poco curata, certo, ma a
vestirti a dovere ci penserò io, non ti preoccupare. I capelli
sono discreti, più che discreti, lisci e fini come piacciono a
me, e un taglio come si deve te lo farò io, dammi tempo.
Seguendo la scia degli altri clienti, sono arrivata quasi
senza accorgermene alla zona dei tavoli. Finalmente ho
qualcosa di concreto da fare: cercare il tavolino della mi‐
sura e del colore giusto, decidere se quello che preferisco
(l’ho già visto sul catalogo, ma questi mobili non fanno
mai la stessa impressione, dal vero) vale il suo prezzo
modesto, segnare sul fogliettino con la matitina il nome
assurdo e impronunciabile che sicuramente gli avranno
appioppato, e poi andare a ritirarmelo sugli scaffali, paga‐
re (la coda alla cassa è un altro momento doloroso e ine‐
vitabile di confronto con il resto dell’umanità) e tornar‐
mene al più presto a casa. Ma poi alzo un attimo gli occhi
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e vedo lui. Uno. Solo. Si aggira come me alla ricerca di
chissà che cosa. Ma sì, cercherà un tavolino anche lui, vi‐
sto che è qui. È un uomo piacevole: magro ma muscoloso,
portamento deciso, occhiali, capelli ormai più grigi che
neri, vestito con gli stessi jeans e la stessa maglietta di
quasi tutti gli altri clienti, me compresa. Chissà che ci fa
qui, da solo. Faccio anch’io come tutti gli altri: cerco con
lo sguardo nei dintorni qualche donna che forse si è at‐
tardata a provare un divano o un materasso e che ora lo
raggiungerà un po’ affannata, con la matitina in mano,
pronta a segnare il nome impronunciabile sul foglietto
che avrà lui, nella tasca dei pantaloni. Ma non arriva nes‐
suna donna e nessun bambino a tirarlo per la maglietta.
Resta solo, come sono sola io, a girare tra i tavolini. Forse
è separato e deve comprare i mobili per il suo nuovo pic‐
colo appartamento, dove vivrà da solo per poco. Forse
non si è mai sposato, come non mi sono mai sposata io,
perché… chissà perché. Continuo a fissarlo, non posso
farne a meno. E la mia maledetta fantasia parte in quarta.
Comincia a farmi i soliti brutti scherzi.
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Ai tavoli, ecco dove voleva arrivare la mia piccolina. Uhm,
un tavolo è un mobile proprio sexy, per chi sa cos’è il sesso.
E noi due lo sappiamo bene, vero cara? Noi sappiamo bene
cosa farci su quel tavolino che sceglieremo insieme, che
comprerai, e che io, da gentiluomo, ti aiuterò a montare.
Quasi senza accorgermene cammino verso di lui, e mi
rendo conto che anche lui mi sta guardando.
Bene, mi hai già notato.
Forse l’ho fissato troppo a lungo, ignorando i mobili che si
suppone io sia qui a selezionare, e si starà chiedendo per‐
ché, cosa vuole questa seccatrice.
Mi stai guardando, ti piaccio eh?
Ma poi vedo che non mi sta osservando con irritazione,
piuttosto con interesse.
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Non aspettavi che me, dillo.
Bambino mio, non sai che cosa ti riserva il futuro. Davvero
non lo immagini.
Non credo ai miei occhi, è stato perfino più facile del previ‐
sto.
Lui continua a guardarmi e io continuo a fissarlo e, se ho
visto bene, ecco, sì, mi ha proprio sorriso. Ci siamo. Caro,
oggi per te è un grande giorno, finalmente arriva la donna
del destino.
Eccola, si avvicina, mentre io le sorrido come uno stupido e
resto immobile, col cuore in gola, vicino al tavolo Brmestck
color ciliegio, 100X180.
Bravo, bravo, fermati lì: quel tavolino è perfetto. Il sangue
è bellissimo, sul legno color ciliegio.
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IO TI CONOSCO
Ore 11.35
La signora Lucy Anderson, di anni quarantasette, viene
legata al lettino e preparata all’iniezione letale. Indossa la
speciale tuta blu e piange silenziosamente, mentre gli a‐
genti la sistemano in posizione e le scoprono il braccio
destro. Finito il suo lavoro, la squadra esce. Allora una
bambina molto piccola, bionda, entra saltellando nella
stanza e si avvicina alla barella. Cerca di toccare il volto
della donna, ma la signora Anderson si gira per sfuggirle,
ed emette un grido soffocato. La bambina si arrampica
sulla scaletta e sul lettino e accosta la bocca all’orecchio
della condannata.
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Madre, io ti conosco. Perché dal tuo sangue più oscuro fui
generata e perché, per me ancora non nata, il ritmo del tuo
cuore è stato voce misteriosa di ogni alterità, musica
dell’universo.
Ore 11.42
Viene aperta la tenda che nascondeva la condannata al
pubblico. In prima fila a destra ci sono l’avvocato di Lucy
Anderson, la sorella, Anne Anderson, e il reverendo Mi‐
chael, che muove le labbra pregando. A sinistra c’è la
bambina bionda con i codini che punta l’indice verso il ve‐
tro e canta a squarciagola.
Madre, io ti conosco. Mi hai tenuta nascosta per vent’anni,
coperta, negata, custodita, morta e non silenziosa, dentro
una culla di legno di cedro, dentro l’utero assurdo di un ar‐
madio.
Ore 11.45
Nella stanza entra l’infermiera a inserire la flebo che serve
per tenere la vena aperta e pronta a ricevere i farmaci le‐
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tali. La signora Anderson sembra seguire con gli occhi
qualche ombra in movimento, suda, si agita come può sul
lettino e urla: “Basta, basta. Ti prego vai via, voglio stare
sola!”. L’infermiera, finito il suo lavoro, si affretta a uscire,
e tuttavia Lucy non si calma, continua a implorare di esse‐
re lasciata a se stessa.
Sono morta a tre anni, soffocata dalla tua paura, dalla disi‐
stima, percossa da una rabbia sepolta troppo a lungo, figlia
di altre violenze, di altri giorni. Sono morta a tre anni, tu mi
hai uccisa.
Ore 11.50
Il medico prepara e controlla il corretto funzionamento
delle tre siringhe che devono iniettare a Lucy Anderson
l’anestetico, il miorilassante che la soffocherà e il cloruro
di potassio che fermerà il suo cuore. Intanto la bambina
bionda, con un vestitino rosso, sale su una sedia e salta
giù, sale su una sedia e salta giù…
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Ti ho chiamato, madre, per vent’anni. Nemmeno una notte
di silenzio ti ho concesso. Dietro al tuo letto, nell’armadio,
cantavo filastrocche, giocavo i giorni che mi avete tolto.
Ore 11.59
Il direttore riceve la telefonata che autorizza l’inizio della
procedura. I due volontari si preparano a premere con‐
temporaneamente il pulsante che metterà in azione la
macchina e spingerà i farmaci nel tubo e nella vena della
condannata. La signora Anderson non si agita e non pian‐
ge più. La bambina bionda si è sdraiata sopra di lei, le ac‐
carezza i capelli e canticchia una filastrocca sorridendo.
Lucy Anderson sorride a sua volta, guardando davanti a
sé.
Quando è venuta da noi la polizia, difendevi l’armadio e io
gridavo: madre, ti prego, fammi uscire. Devo nascere, ora,
per morire.
Il pubblico guarda con il fiato sospeso l’orologio appeso
alla parete, proprio dietro la barella. La lancetta dei se‐
condi gira sempre più inesorabile. La sorella della signora
Anderson fa “ciao” con la mano, ma Lucy non guarda ol‐
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tre il vetro. Continua a guardare davanti a sé, e a sorride‐
re.
Ore 12.05
La procedura è stata correttamente eseguita.
Madre, io ti conosco. Perché dal tuo sangue più oscuro fui
generata e perché, per me ancora non nata, il ritmo del tuo
cuore è stato voce misteriosa di ogni alterità, musica
dell’universo.
Il medico costata il decesso della detenuta.
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COMPAGNI DI SCUOLA
È ottobre, ma le serate sono ancora limpide e tiepide,
quest’anno. Non era così quando andavamo a scuola: mi
ricordo che portavo già il cappotto e i maglioni pesanti, di
questi tempi.
Nella strada davanti alla villetta della Chiara Marani ci so‐
no parecchie macchine parcheggiate e anche lo spazio
davanti al suo garage è pieno: ci siamo proprio tutti, mi
sa.
Suono e sono un po’ imbarazzata. Come sarà rivedersi
dopo più di vent’anni? Saremo diventati grassi, brutti,
vecchi? Mi riconosceranno ancora?
«Ciao, Penelope! Come stai tesoro? Ma sai che non sei af‐
fatto cambiata!».
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Sorrido con riconoscenza e abbraccio Chiara; in un attimo
vengo sommersa da decine di quarantenni un po’ bolsi e a
volte calvi, che conservano però miracolosamente tutti la
faccia diciottenne dei miei compagni di classe del liceo.
Quasi mi commuovo, avevo paura di questo momento e
invece no, in fondo è bello ritrovarsi. Malgrado tutto. Ho
rinnegato il mio passato, ho voluto dimenticare il brutto e
il bello di quegli anni. E ora qui, in mezzo a questi che do‐
po vent’anni non sono affatto degli sconosciuti, mi sciol‐
go e lascio riaffiorare con violenza i ricordi e i sentimenti.
Torno indietro nel tempo: neppure io sono cambiata.
Chiara ha una bella casa, colorata, non troppo ordinata:
anche lei è rimasta quella di allora, generosa, estroversa.
L’idea di questo raduno è stata sua, è lei che ha avuto la
costanza di ricercare tutti, convincere gli indecisi, orga‐
nizzare. Ed eccoci qui.
Seduti sul divano marrone, un po’ sformato ma comodo,
beviamo l’aperitivo che ha preparato Chiara e ci perdiamo
in discorsi che oscillano continuamente tra il presente e il
passato: ma tu che fai adesso, ma ti ricordi, dove abiti, che
figura quella volta, sei sposata, figli? E la gita a Roma!
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Rido di qualsiasi cosa, anche a sproposito, e mi guardo in‐
torno. Ci sono tutti davvero. Quasi tutti. Anche Giulio, Fe‐
derica, Andrea e Francesco. Incrocio qualche sguardo di
troppo, con loro. Ma è normale, erano i miei migliori ami‐
ci, ed è tanto che non ci parliamo più. Non sappiamo più
niente l’uno dell’altro: cosa siamo diventati, cosa ci è ri‐
masto di quei tempi?
Giulio a un certo punto si alza, va a prendere una mancia‐
ta di patatine sul tavolo e poi viene da me, mi si siede di
fianco e mi mette una mano attorno alle spalle: «Penelo‐
pe. Madonna, non mi sembra vero. Sono così contento di
rivederti», e mi dà un bacio sulla guancia.
«Anch’io Giulio, anch’io sono contenta» vorrei rispondere,
ma poi mi sale un groppo in gola, inquietudine mista a
commozione, e devo tacere. Appoggio la testa sulla spalla
di Giulio, così, solo per un attimo. Noto che Federica mi
guarda fissa, ma appena provo io a cercarle gli occhi, ab‐
bassa di colpo lo sguardo.
«Ci siamo proprio tutti, eh? Un applauso alla Marani che
dopo vent’anni è riuscita nell’impresa di farci incontrare di
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nuovo!». «Sì! Brava!». Tutti gridano e applaudono Chiara,
che si ferma solo un momento, arrossisce e poi riprende a
girare vorticosamente tra noi, il tavolo e la cucina, distri‐
buendo sorrisi, bevande e stuzzichini.
«Manca solo Alex» dice Giulio a mezza voce e poi si blocca
subito, come se quella frase gli fosse venuta fuori suo
malgrado. Si guarda intorno un po’ spaventato, sperando
che nessuno ci abbia fatto caso. Invece l’abbiamo sentito
tutti, e di colpo scende un silenzio forse triste, forse solo
imbarazzato. Chiara sospira: «Povero Alex» e tutti la imi‐
tano: povero, sì, che disgrazia tremenda, quando ci pen‐
so… Federica è impallidita, guarda Giulio e guarda me
senza dire nulla. Andrea, che è seduto vicino a lei, la ab‐
braccia come per consolarla, o per trattenerla. Capisco
che stanno ancora insieme, come ai tempi della scuola;
anzi, credo siano sposati, portano entrambi la fede al dito.
Francesco, che era seduto su una sedia dall’altra parte
della sala e chiacchierava con un gruppo di ex‐compagni,
si alza e si avvicina con strana decisione a Giulio e a me; gi‐
ra attorno al divano, si ferma in piedi alle nostre spalle e,
non appena finisce la commemorazione di Alex e la con‐
versazione ricomincia, prende Giulio per un braccio e gli
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sussurra qualcosa nell’orecchio. Giulio si alza: «Andiamo in
giardino a fumarci una sigaretta» mi dice, e io li seguo
fuori.
«Ma che ti è saltato in testa?» sussurra Francesco a Giulio,
tenendolo per la maglia e puntandogli addosso la fronte,
minaccioso. Giulio fa di no, cerca di divincolarsi: «Ti giuro,
non l’ho fatto apposta. Mi è venuto così, all’improvviso».
Francesco diventa ancora più rabbioso, prende Giulio per
le spalle, lo scuote. Alza di poco la voce, perché non vuole
che da dentro lo sentano, ma parla a scatti, con violenza:
«Ma allora sei scemo, eh? Che vuol dire che non l’hai fatto
apposta? Quel nome non lo voglio sentire, mai più. Chiu‐
so, finito. Mi sono spiegato?».
Mi faccio avanti. Non mi hanno ancora vista, la mia voce li
fa sobbalzare: «Basta Francesco, lascialo stare. Ha detto
che non l’ha fatto apposta, chiudetela qui per favore». Mi
insinuo tra di loro e li separo, ma ancora si guardano con
cattiveria e dolore.
Escono anche Andrea e Federica: «Che succede? Perché
siete venuti tutti qua fuori?».
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«Questo stronzo ha sentito il nome di Alex e se l’è fatta
sotto» borbotta Giulio passandosi una mano sulla testa.
«Tu sei lo stronzo, che non riesci a tenere la bocca chiusa
nemmeno per un quarto d’ora! Il povero Alex, manca solo
lui… Cristo!» sbotta Francesco e sta per rimettergli le ma‐
ni addosso, ma Andrea lo abbraccia e cerca di calmarlo:
«Dài, su, non litigate per così poco. Venite qua, fumiamoci
una sigaretta per davvero». Ci guida verso alcune sedie di
plastica che sono rimaste in giardino, sul prato. Ci sedia‐
mo e Federica fa passare un pacchetto di sigarette e un
accendino. Francesco accetta, io no: «Non fumo più da
dieci anni». «Nemmeno io» aggiunge Giulio.
«Bravi, avete smesso di avvelenarvi con queste vigliac‐
che» approva Andrea mentre se ne accende una, e aspira
la prima boccata con palese soddisfazione.
«Federica, Andrea: state ancora insieme? Vi siete sposa‐
ti?».
Federica accenna di sì, sorridendo: «Eh, alla fine me la so‐
no presa in casa, questa palla al piede. E chi se ne libera
più, ormai?». Ridiamo tutti e Andrea finge di allungarle
uno schiaffo, per farla tacere, mentre sorride anche lui,
soddisfatto e intenerito.
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