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Pietre di Fede volume 1

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di Angelo Sala

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Angelo Sala

Edizioni Monte San Martino Lecco

VOLUME PRIMO

PIETRE DI FEDECHIESE E CAMPANILIDELLA CITTÀ DI LECCO

Page 8: Pietre di Fede volume 1

Testi:Angelo Sala

Progetto grafico e selezioni fotografiche:Day&Night Graphic di Simona Lissoni

Mandello del Lario (LC) - [email protected]

Stampa:Editoria Grafica Colombo s.n.c.

Valmadrera (LC)

Contributi alla realizzazione del libro:Un vivo ringraziamento va a don Angelo Grassi,

ultimo parroco di Acquate, per la disponibilità con cui è venuto incontroalle tante esigenze di documentazione e di illustrazione;

a Carla Teli che ha messo a disposizione il materiale raccoltonegli anni dal marito Amanzio Aondio;

a Bruno Bianchi e a Giacomo Galli;ad Aloisio Bonfanti e Claudio Bottagisi per tutto il lavoro compiuto;

ad Aristide Angelo Milani e Valentino Frigerio per la ricerca fotografi ca storica;a Mario Marai della Foto Lariana che ha completato l’opera

con le immagini fotografi che del presente.

Proprietà letteraria riservata di Angelo Sala e Claudio Redaellia norma delle vigenti leggi nazionali per i diritti di riproduzione,

parziale o totale, salvo consenso scritto© 2008 Claudio Redaelli

Nelle pagine precedenti, la benedizione della Grotta di Lourdes ad Acquate nel 1908.

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I conti con i luoghi di culto, la città e i suoi ritmi, dovevano ancora essere fatti. Essi po-tranno dire se e quanto le chiese di Lecco - una cinquantina, limitandosi a parrocchiali, sussidiarie e cappellanie ospedaliere - narrino le vicende di una comunità, perché questo è, alla fi ne di tutte le dotte interpretazioni teolo-giche, quel che spetta alle pietre consacrate di raccontarci. E questo in un tessuto culturale e produttivo che fu attraversato da fi gure - tutte popolarmente cattoliche - di maestri e testimo-ni del calibro di padre Giovanni Mazzucconi, don Luigi Monza, don Aldo Cattaneo, per non parlare, tra i laici, di Uberto Pozzoli.

Anche questo è il libro Pietre di Fede. Chie-se e campanili della città di Lecco che Angelo Sala ha realizzato per le Edizioni Monte San Martino. Prima di tutto ci viene incontro la storia. Questa città è la sua storia. Perfi no quel-la che confi na con una cronaca che le inimma-ginabili accelerazioni della vita sociale e politi-ca della seconda metà del secolo scorso hanno provveduto a distanziare nel tempo. Pensiamo soltanto alle processioni, ai canti e agli inni messi in onda dalla banda, ai festoni di fi ori di carta, alle porte e fi nestre “parate” lungo il per-corso… e a tanti altri momenti eminenti della religiosità popolare.

L’occhio del pessimista vede la vanifi cazione o il degrado degli spazi tradizionalmente adia-centi le chiese, annotando in particolare l’av-vilimento della piazza, tipico luogo di incontro o quanto meno di prospicienza della dimen-sione religiosa. Troppe piazze non sono ormai

più tali, ingombre come sono di auto e di altro. L’occhio dell’ottimista annota invece il pullula-re di gente associata, di volontariato costante, di un oratorio che se non conserva la pregnanza del tempo antico, mantiene pur tuttavia la pas-sione per quella dimensione umana che è via della Chiesa, tempio autentico dello Spirito.

Tutto questo in una città, Lecco, che non ha più il suo volto industriale e, in faticosa ricerca di un volto nuovo, sta facendo prove tecniche di fi sionomia. E le chiese, i campanili, la voce delle campane che continuano a farsi sentire mentre ormai tacciono le sirene, sono parti ineliminabili di questa ricerca. Per Giorgio La Pira “la cattedrale e il monastero sono in rap-porto di essenziale collegamento, in certo sen-so, con l’offi cina, la bottega, la fattoria, la casa”. “In certo senso”, come si sa, signifi ca un senso tuttora incerto. Per questo le prove tecniche di fi sionomia sono destinate a continuare. E qui le chiese e i campanili giocano la loro chance.

CHIESE NELLA TERRA MANZONIANASiamo poi nella terra manzoniana. Non tro-

viamo, nel romanzo manzoniano, illustrazioni di chiese come strutture architettoniche. Lo scrittore ce ne presenta però tre della terra di Lecco, inserite con una precisa funzione nella vicenda. Quella dei “promessi” anzitutto, che Lucia in fuga sull’Adda ricorda: “Addio, chie-sa, dove l’animo tornò tante volte sereno, can-tando le lodi del Signore”; e dovremmo essere a Olate. Quella del convento dei Cappuccini a Pescarenico, dove padre Cristoforo riceve i

QUESTE PIETRERACCONTANO STORIA

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perseguitati protagonisti, e fra Fazio protesta: “ma padre! Di notte… in chiesa… con don-ne…”. Quella, infi ne, del paesello del sarto, davanti alla quale passano l’innominato e don Abbondio (e il curato, “sentendo il concerto so-lenne de’ suoi confratelli che cantavano a di-stesa, provò un’invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime”). Qui dovremmo trovarci a Chiuso.

Questa ricerca sulle chiese disseminate nel-la città di Lecco prende spunto da quella luce di religiosità in cui il Manzoni colloca gli edifi -ci sacri. Non si ha quindi la pretesa di fare un discorso d’arte; molto più semplicemente si de-sidera riandare alle testimonianze di fede che i nostri progenitori ci hanno lasciate. Questi messaggi non sono soltanto di pietra: proiettati sullo sfondo del lago e incorniciati tra i profi li dei monti, questi templi, spesso modesti, ci re-cano il palpito ancora vivo degli ideali che mos-sero i costruttori, l’eco del salmodiare austero, l’immagine di coloro che vi trassero in fi den-te orazione. Farà bene anche al nostro spirito raccogliere quelle memorie che ci giungono da tempi lontani.

LE PIETRE RACCONTANO LA STORIALe chiese sono simbolo per eccellenza delle

comunità locali, che spesso le hanno costruite e sempre le hanno arricchite e impreziosite della loro devozione. È affermazione ormai diffusa ed ampiamente condivisa quella che ricono-sce alla chiesa, così intimamente centrale ad un territorio, un vasto ed articolato interesse, perché campo e prodotto della vita e del lavoro della civiltà umana, che vi ha sedimentato le sue tracce in un gigantesco archivio di possibili informazioni. La consapevolezza dell’interesse delle chiese come documenti di tale vastità e varietà è certo meno immediata e la fruizione cosciente in tal senso è più complessa e diffi -cile. Eppure proprio in una più vasta presa di coscienza dell’interesse comunitario dei tanti aspetti di una chiesa sta la reale possibilità di coglierne la sua presenza articolata e costrutti-va, tale da arricchire, e quindi certamente non

mortifi care, le risposte alle varie istanze della vita di oggi.

Animati dalla certezza che la comprensione e la conoscenza reale possano garantire il pro-cesso di riappropriazione da parte delle comu-nità locali, abbiamo dato corso alla realizzazione di questa opera editoriale. Un’opera - articolata in più volumi - che vuole riuscire a trasmettere alla generazione di oggi e alle generazioni futu-re le tante chiese piccole e grandi presenti nel-la città con una densità veramente eccezionale, testimonianze di una sedimentazione del ter-ritorio varia e ricchissima, delle quali le chiese sono appunto un fondamentale tassello della storia. Un tassello anche determinante, poiché le chiese costituiscono le più cospicue tracce rimaste della organizzazione del territorio dei primi secoli dopo il Mille, quando il paesaggio compreso tra il lago e l’Adda e le pendici del San Martino, del Resegone e del Magnodeno era punteggiato da insediamenti diversamente localizzati rispetto a quelli poi sviluppatisi fi no ai nostri giorni. Basta questo riferimento per comprendere quanto l’argomento al centro del-la nostra iniziativa editoriale abbia in sé ampie potenzialità per un discorso di interrelazioni su scala territoriale.

FEDE PERSONALEE FEDE COMUNITARIA

Una iniziativa editoriale che - occorre pre-cisarlo subito - non ha il semplice carattere di un censimento né tantomeno di un repertorio, compiti preposti ad altri compresi gli interventi conservativi. Qui si è cercato di approfondire la conoscenza delle vicende storiche delle varie chiese, al fi ne di fornire di esse un quadro il più possibile completo delle origini, delle tra-sformazioni subite nei secoli, degli interventi restaurativi o manutentivi attuati, fornendo anche notizie degli arredi conservati, con una raccolta “sul campo” così che il lettore ne abbia un riscontro diretto, immediato, una sorta di visita guidata che lo aiuti a cogliere, assieme alle evidenze proprie di ciascun edifi cio, quegli aspetti di memoria che appartengono alla fede

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che ha messo una sull’altra quelle pietre. Fede personale e fede comunitaria.

Ed è proprio per valorizzare quanto più possibile questa dimensione di memoria co-munitaria, che una parte signifi cativa delle immagini che sono parte determinante del-l’opera editoriale è “datata”. Queste immagini, che consentono di risalire ormai alla fi ne del-l’Ottocento, forniscono infatti una interessante possibilità di lettura delle vicende costruttive che hanno interessato l’architettura dell’edi-fi cio al centro della ricerca ma soprattutto il territorio circostante, consentendo così, attra-verso la chiesa, di elaborare anche una propo-sta di lettura delle trasformazioni costruttive intervenute attorno ad essa.

Questo patrimonio è giunto a noi per la devozione delle comunità e dei singoli. Ed è giunto sostanzialmente vivo, sia per religiosità sia per affezione: motivazioni che sono bastate - e bastano - alla nostra gente per conservare questo patrimonio, fonte primaria e irrinun-ciabile della propria storia e della propria iden-tità. Di una storia cominciata praticamente dopo il Mille, stabilizzatasi tra il Duecento e il Cinquecento, riorganizzata dopo il Concilio di Trento e poi radicalmente trasformata nella conformazione degli insediamenti nell’ultimo secolo - il capitolo più imponente e che è an-cora in corso - la chiesa rimane spesso l’unica, inequivocabile traccia, testimone di un proces-so fi siologico di nascita, crescita e abbandono, compagna fedele dell’umana avventura nel fl uire continuo della storia.

IL SENSUS FIDEIDEL POPOLO CRISTIANO

Nella Divina Commedia, San Bernardo in-vita Dante a fi ssare il suo sguardo sul volto del-la Beata Vergine con queste parole:

Riguarda ormai nella faccia ch’a CristoPiù si somiglia, ché la sua chiarezzaSola ti può disporre a veder Cristo.Dante non esagera. Il Concilio Vaticano II

ha detto in modo più autorevole la stessa cosa. La Madonna “per la sua intima partecipazione

alla storia della Salvezza, riunisce e rifl ette, in qualche modo, in se stessa i tratti caratteristici della nostra fede”; è “il modello di virtù che risplende davanti a tutta la comunità degli elet-ti”, che si manifesta “nella luce del verbo, fatto uomo” (Lumen Gentium, 65).

Il popolo cristiano ha vissuto questa pro-fonda verità molto prima che venisse dichia-rata solennemente e in modo uffi ciale dalla Chiesa. Il suo sensus fi dei lo portò d’istinto a onorare la Madonna, al di là delle motivazioni contingenti ed interessate, per una profonda convinzione che la Beata Vergine fosse la più alta protezione dei credenti. Già dal secolo III i cristiani di Alessandria si rivolgevano a Maria con questa preghiera passata poi alla liturgia della Chiesa intera: “Noi ci rifugiamo, o Ge-nitrice di Dio, sotto la tua protezione”. I nu-merosissimi santuari sparsi nella Chiesa intera ne sono una piccola testimonianza. In tutti i santuari “ciò che conta è la storica manifesta-zione del soprannaturale nei frutti di grazia e nei prodigi che vi si operano, la fede e il culto che vi si esplicano”. La Chiesa prende quindi atto di queste attività devozionali e disciplina adeguatamente la vita pastorale che vi si svol-ge ritenendo che un giudizio sulle “origini dei singoli santuari - sia esso storia, tradizione o leggenda - non è oggetto di fede e non condi-ziona la pietà che ha per oggetto immediato Dio, la Vergine, i Santi e che nei santuari viene esercitata con più slancio e ardore”.

LA DEVOZIONE MARIANA A LECCOTutta la storia dall’inizio del cristianesimo

fi no ad oggi è contrassegnata da un crescente culto, assieme con quello di Cristo, anche alla sua madre Maria e con esso una devozione, dif-ferente a seconda dei tempi, e una manifesta-zione di fatti straordinari a vantaggio dei suoi devoti. Nella quasi totalità, l’immagine maria-na che si venera in ogni chiesa, comporta ac-canto all’immagine di Maria quella del Figlio suo. Lecco ha sempre dimostrato, e lo dimostra tuttora, una grande devozione mariana: questo libro viene a documentarla e a testimoniarla e

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ci dice come nei secoli i nostri avi hanno perce-pito un così grande fatto spirituale. Lo abbia-mo realizzato, il libro, anche con l’augurio che l’opera serva a testimoniare e ad accrescere la devozione dei lecchesi alla Madonna.

Sono prese in considerazione, tra questo primo e i successivi volumi, una cinquantina di chiese, parrocchiali e sussidiarie, sotto vari titoli perché dedicate non solo alla Madonna. Si comincia con la Basilica prepositurale di San Nicolò e le chiese del centro cittadino per con-tinuare con le altre chiese disposte in ordine al-fabetico per parrocchia di appartenenza. Nella scelta ci siamo attenuti a quanto è stampato nella Guida uffi ciale della Diocesi di Milano.

Sono così illustrate chiese di importanza cit-tadina, come ad esempio la già citata Basilica o i Santuari della Vittoria in centro e di Lourdes in Acquate, così come quelle chiese che rac-colgono i devoti di una parrocchia o poco più. Si trovano chiese costruite e frequentate da tantissimi secoli come quelle costruite da po-che decine di anni. Di ognuna si considerano le vicende storiche ed i caratteri così come si presentano oggi sia al credente animato dalla fede sia a chi è mosso da legittima curiosità in-tellettuale. Sono passati otto secoli da quando apparve il Liber Notitiae Sanctorum Mediola-ni nel quale Goffredo da Bussero elenca chie-se ed altari della terra ambrosiana. Molte cose sono accadute, alcune documentate e quindi occasione per un confronto sicuro, altre no e quindi occasione solo per ipotesi.

Parimenti gli aspetti strettamente artistici di ogni chiesa sono di proposito presi in con-siderazione solo sommariamente, ad eccezione di opere d’arte di assoluta rilevanza: sia perché sono già stati studiati da ben più autorevoli ri-cercatori sia perché si dovrebbe entrare in un universo sconfi nato che ci porterebbe lontano dagli scopi che ci siamo prefi ssi. Si pensi che delle chiese si sono interessate tutte le arti: l’ar-chitettura, la pittura, la scultura, la miniatura, l’intaglio e l’intarsio, la musica e il canto, la poesia e la letteratura, nonché l’artigianato ar-

tistico dell’argenteria, della tessitura e del rica-mo e della legatoria. Questo non vuol dire che tali aspetti non siano stati considerati perché la devozione si è manifestata e si manifesta tut-tora, oltre che con una vita cristiana coerente e con un culto genuino, anche con le più varie opere d’arte.

La formula editoriale usata ci sembra parti-colarmente adatta a questo genere di indagini: intrecciare la fotografa con il testo scritto. Lo scritto si interseca con l’immagine - spesso an-che con quella d’epoca - in una varietà di livelli che si integrano vicendevolmente. Confi diamo che il risultato sia quello di fornire al lettore una documentazione stimolante, che spinga a rifl ettere. Ogni chiesa è così presentata con gli elementi essenziali per una visita, con fotogra-fi e e testo che la situano anche visivamente nel suo ambiente e nella sua storia e con qualche saggio di documenti interessanti le manifesta-zioni della devozione popolare.

I secoli di vita pacifi ca, ma più spesso di vita dura dei nostri vecchi, si rivelano anche nelle costruzioni delle nostre chiese. Le convinzioni profonde che animavano le loro vicende quo-tidiane sono state materializzate appunto in questi venerandi luoghi di preghiera. Questi muri, con i loro intonaci affrescati, molte vol-te con delicatezza, le tele degli artisti e gli ex voto esprimenti una solida fede popolare, han-no fi nito per interessare anche gli studiosi di antropologia culturale oltre che i cultori di sto-ria e dell’arte. I ricercatori locali, cresciuti di numero e di competenze in questi ultimi anni, hanno già portato in diversi casi a nuove cono-scenze di interesse per gli storici e per i devoti. Questi monumenti, angusti o vasti, modesti o sontuosi, possono costituire un avvio concre-to ad una più adeguata conoscenza del nostro passato. Per molte persone sarà la scoperta del-le vere e lontane radici della propria fede.

Claudio RedaelliPresidente Edizioni

Monte San Martino - Lecco

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“Lo spettacolo più bello che un popolo può offrire è senz’altro quello della propria fede”. Sono le parole con le quali il Santo Padre Be-nedetto XVI, domenica 7 settembre 2008, ha iniziato l’omelia pronunciata nel presiedere la concelebrazione eucaristica sul sagrato del San-tuario di Nostra Signora di Bonaria, a Cagliari. Queste pagine vogliono testimoniare la bellez-za di Dio che brilla nelle opere d’arte che la fede ha generate. Nella fede infatti sono nati i grandi capolavori d’arte sacra e di musica sacra che hanno il potere di sollevare i nostri cuori e di condurci verso Dio, che è la bellezza stessa. L’arte sacra - ci insegna la Chiesa - è destinata alla lode e alla gloria di Dio e, allo stesso tem-po, è popolare, perché deve e può essere capita e toccare i cuori dei fedeli, anche dei fedeli più semplici. Nella storia, l’arte della Chiesa fun-zionava anche come Biblia pauperum.

Secondo Fyodor Dostoevskij, “il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Dostoevskij non intende qualsiasi bellezza, ma si riferisce alla bellezza redentrice di Cristo che è la bellezza della ve-rità che abbraccia anche il dolore, e persino la morte, e che la bellezza può essere trovata solo nell’accettare la sofferenza e la croce. In un te-sto del 2002, l’allora cardinale Ratzinger parla di “bellezza redentrice di Cristo” come di una “paradossale bellezza”.

LA FORZA DI UNA PRESENZA Riprendendo e sviluppando quest’ultima af-

fermazione, il cardinale Christoph Schonborn, arcivescovo di Vienna, nel volume A sua im-

magine e somiglianza rifl ette sulla tradizione orientale dell’icona, raffi gurazione pittorica del Cristo e della sua spiritualità, diventata un elemento di unione, un punto di incontro per molti cristiani. Quale è il segreto del suo fasci-no, la chiave di lettura per la comprensione del suo mistero, e la ragione della sua grande sta-bilità di espressione? L’arcivescovo di Vienna così risponde: “Penso che la ragione ultima di questo sia il Mistero di Cristo stesso, Verbo In-carnato, Dio fattosi uomo, divenuto circoscri-vibile, come amano dire i santi difensori delle immagini, San Teodoro Studita e San Nicefo-ro di Costantinopoli”. L’arte dell’icona ha un fondamento comune, un’unica origine, così de-scritta dal cardinale Schonborn: “È il mistero del Santo Volto di Cristo Gesù. C’è quel volto unico, quel Gesù che gli apostoli hanno cono-sciuto, con il quale hanno mangiato e bevuto, che hanno visto trasfi gurato e schernito, rag-giante della gloria divina del Tabor, e fl agellato e coronato di spine. È il viso unico di Gesù, fi glio di Maria, Figlio di Dio, che si è impresso nella memoria di Pietro. È lo sguardo di Co-lui che Pietro aveva appena rinnegato, e che lo guardava in un modo che più niente al mondo ha potuto cancellare dalla sua memoria e dal suo cuore”.

Quel Gesù è il fondamento dell’icona e, scri-ve ancora l’arcivescovo di Vienna nel suo sag-gio, “Essa ci attira in quanto icona del Cristo. È perché vogliamo vedere il Cristo che l’icona ci parla. È perché i fedeli (e spesso anche i non credenti) possano dire, guardando un’icona di

LA BELLEZZAPER TORNARE AL SACRO

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Cristo, è Gesù! che l’icona parla loro. Quello che conta nell’icona non è tanto la qualità ar-tistica, la grandezza dell’opera d’arte - seppur importante e tutt’altro che trascurabile, poiché essa è una vera mediazione per l’incontro con Cristo - ma la forza della presenza, in essa, di Cristo stesso”.

A questo riguardo, è signifi cativo constatare che tutto il dibattito per giustifi care l’arte cri-stiana, le immagini sacre di Cristo e dei suoi Santi, si è sviluppato intorno al Mistero di Cri-sto. Leggendo le pagine che nel libro citato il cardinale Schonborn dedica alla controversia iconoclasta, si rimane colpiti dalla chiarezza con cui i difensori delle immagini hanno visto in questo dibattito non una questione di esteti-ca, ma innanzitutto una questione cristologica.

MARIA CAPOLAVORO DI DIOCerchiamo di immaginare ciò che avveniva

nell’animo degli spagnoli e degli italiani ai rac-conti dei viaggiatori provenienti dal Nord sulle distruzioni delle statue della Vergine, dei cro-cifi ssi e sui colpi di spada inferti alle immagini dei santi da parte dei protestanti. Si sapeva di un dipinto della Crocifi ssione in cui il Cristo era stato dilaniato, mentre per satanica raffi -natezza il cattivo ladrone era stato risparmiato; in una pala d’altare consacrata a San Michele, l’arcangelo era stato distrutto, ma non il demo-nio che teneva sotto i suoi piedi. Che cosa do-vevano pensare quando apprendevano che in Germania la messa era diventata una burletta, la presenza eucaristica negata, la Vergine in-sultata? Colei che per secoli era stata il rifugio consolatorio della cristianità, veniva ora oltrag-giata come Cristo davanti al pretorio.

Il protestantesimo ha distrutto le immagini e proscritto l’arte religiosa. Il tempio prote-stante, imbiancato a calce, era nudo. A ciò la Chiesa, fi n dalla fi ne del XVI secolo, contrap-pose lo splendore dei colori, dei marmi e dei metalli preziosi. Il Papato affermava ciò che l’eresia negava. Le distruzioni ad opera degli iconoclasti resero più amate le immagini ai cat-tolici. Le statue che ornavano gli angoli delle

abitazioni, le Madonne dipinte sui muri, illu-minate da un tenue lume e davanti alle quali il passante recitava una preghiera, erano oggetto di ardente devozione. E tanto più erano amate quanto più erano vulnerabili.

I protestanti si accanivano in modo parti-colare sulle immagini della Vergine essendole tutti, a qualsiasi confessione appartenessero, violentemente ostili. Tentavano di cancellare dalla mente degli uomini questa fi gura mera-vigliosa che nel corso dei secoli era diventata sempre più eccelsa, e nella quale l’umanità aveva riposto tutto ciò che di buono, di puro e di bello aveva nel cuore. Si voleva privare la cristianità di questa Vergine che aveva elevato il Medio Evo, ispirato santi, poeti ed artisti, e fatto sorgere le cattedrali. La Chiesa non se la lasciò strappare via e la difese con tutto il suo amore e la sua dottrina. Tutti gli ordini religio-si divennero suoi campioni. La Vergine venne allora venerata con ardente fervore, quasi per farle dimenticare le parole di offesa.

Per prima cosa le si riconobbe la bellezza. Colei che era defi nita “il capolavoro di Dio”, doveva superare in bellezza non solo le fi glie degli uomini, ma gli angeli stessi. Il suo viso irraggiava sempre quello splendore celeste che l’estasi talvolta concede ai santi e la sua radiosa beltà purifi cava coloro che la contemplavano. Il suo nome, al quale ben presto verranno consa-crate molte chiese, appare ricolmo di misterio-sa bellezza. Si era così sensibili all’incanto del-la parola che si composero insieme tutti i bei nomi dati alla Vergine attraverso i secoli, con i quali le venivano restituite purezza, bellezza, grandezza ed eternità.

PIETRE DI FEDE: L’IDENTITÀFA LA STORIA

Questo libro vede la luce nell’anno in cui si celebra il 150° anniversario delle apparizioni della Vergine alla piccola Bernadette Soubirou. E Lourdes disseta la sete di bellezza.

La devozione mariana è una delle compo-nenti caratteristiche della nostra tradizione. Legato alla fi gura della Madonna è il tema del-

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la religiosità, della spiritualità, della esemplari-tà della vita di fede. Vorrei, per le chiese della città, risalire all’edifi cio originario, non senza una punta di nostalgia per gli antichi ardimenti delle linee gotiche e la compostezza di quelle romaniche avvolte nella patina dello splendore barocco. Ripercorrendo le tappe della costru-zione materiale, ma soprattutto le tappe del cammino che ha preso avvio dal luogo sacro, attraverso molte vicende, grandi e piccole, lie-te e dolorose. Addentrandoci nelle pieghe della storia di cui quel cammino è intessuto, sapendo troppo bene che il passato di un popolo è come l’insieme delle radici di un grande albero, di un albero secolare: non possono mai essere smentite queste radici senza che l’albero sia condannato a venir meno.

E viene da ascoltare quasi visibilmente le mille e mille voci, in coro e solitarie, che da qui sono salite al cielo. Viene da considerare i mille e mille itinerari interiori che hanno pre-so le mosse da qui, dall’acqua rigeneratrice del sacro fonte, dal confessionale, dalla mensa eu-caristica, dai piedi dell’altare, fi no al momento supremo del transito dalla terra per la defi nitiva dimora nell’eternità. Dall’edifi cio di pietra, in altre parole, il pensiero è portato alla costruzio-ne spirituale, ai prodigi di grazia e santità di cui le pareti della chiesa sono il simbolo e, in certo modo, lo strumento.

Da qualunque angolazione la si voglia esami-nare - dai tesori dell’architettura e della pittu-ra, dall’intreccio degli avvenimenti susseguitisi in fasi alterne - la storia di queste pietre è una storia di fede. Essa domanda dunque di essere guardata, esplorata e raccontata con l’occhio della fede, in un atteggiamento umile e pio che consente di vedere le trama essenziale di tutti gli avvenimenti secondo il misterioso piano di Dio. Dal linguaggio delle cose, al linguaggio delle anime. Questo atteggiamento mette subi-to sulle nostre labbra gli accenti della gratitu-dine al Signore per gli incomparabili benefi ci che ha dispensato attraverso gli atti del culto che qui sono stati celebrati; di gratitudine ver-

so coloro che in qualsiasi modo sono stati gli strumenti dei prodigi spirituali: sacri ministri, in primo luogo, e poi i loro collaboratori, i be-nefattori, gli artisti e quanti si sono prestati a conservare e custodire le memorie del lungo e fecondo capitolo storico.

Questa storia millenaria è una vetta dalla quale lo sguardo si distende sulla diramazio-ne dell’avvenire. Nell’edifi cio di pietra i nostri antenati hanno deposto una concezione della vita: la concezione cattolica. E questa dura ininterrotta sulla mutabilità delle cose che il tempo travolge nel suo rapido scorrere. Se nel-la costruzione materiale si sono succeduti mu-tamenti, in concomitanza con esigenze tecni-che o con il cambiamento dei gusti artistici, la concezione spirituale è rimasta sempre la me-desima. Essa è simboleggiata eloquentemen-te dalla casa sulla roccia, della quale parla il Vangelo con una immagine robusta e incisiva: vennero i venti, cadde la pioggia, si abbatté la bufera ma quella casa rimase in piedi, perché era edifi cata sulla roccia.

Mi piacerebbe, alla fi ne di questo lavoro, che tutti si ritrovassero nelle parole che mon-signor Giovanni Galbiati, Prefetto dell’Am-brosiana, premetteva nel 1929 ad un libro del sacerdote e architetto lecchese monsignor Giuseppe Polvara, fondatore della Scuola del Beato Angelico: “Il libro s’intitola giustamente Domus Dei e potrebbe avere per sottotitolo: come si deve attendere alla costruzione del-la Casa del Signore. Giustamente l’autore l’ha dedicato ai Sacerdoti, come quelli ai quali già l’antico scrittore della Bibbia diceva spettare questo compito, coniando quella frase che re-stò famosa: Zelus Domus tuae, che noi tanto volentieri ripetiamo alla contemplazione di una nuova e imponente dimostrazione di fede che ci colpisca lo sguardo meravigliato per la bellezza dell’architettura e dell’arte”.

Angelo SalaLecco, 12 settembre 2008Festa del Nome di Maria

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LeccoUN PAESE CHE CHIAMEREI UNO DEI PIÙ BELLI DEL MONDO

BASILICA PREPOSITURALE DI SAN NICOLÒ

SANTA MARTA

L’IMMACOLATA CONCEZIONE ALL’ORATORIO SAN LUIGI

SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DELLE VITTORIE

AcquateIN PIENO PAESAGGIO MANZONIANO

CHIESA DEI SANTI GIORGIO, CATERINA ED EGIDIO

CHIESA DI SANT’ANNA O DELLA CONCEZIONE

LA GROTTA E IL SANTUARIO DELLA MADONNA DI LOURDES

CHIESA DI SAN FRANCESCO IN FALGHERA

CHIESA DELLA BEATA VERGINE MARIA DEL ROSARIO IN MALNAGO

CHIESA DELLA BEATA VERGINE ASSUNTA IN VERSASIO

MADONNA DELLA NEVE AI PIANI D’ERNA

Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi a GermanedoCHIESA DEL REDENTORE E DI SANTA CATERINA

INDICE

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UN PAESE CHE CHIAMEREI UNO DEI PIÙ BELLI DEL MONDO

BASILICA PREPOSITURALE DI SAN NICOLÒ

SANTA MARTA

L’IMMACOLATA CONCEZIONE ALL’ORATORIO SAN LUIGI

SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DELLE VITTORIE

Lecco

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“Un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo”, aveva scritto Alessandro Manzoni nella prima stesura del suo romanzo. Parlava di Lecco, il “gran borgo” legato alle memorie dei suoi anni giovani, che aveva scelto come teatro per i protagonisti della sua “storia così bella”.

Tanta appassionata professione ammirativa scomparve nel testo defi nitivo: ma alla sua pa-tria poetica il Manzoni ha dedicato un omag-gio d’amore quale nessuna terra forse mai ha avuto. Lo si scopre, alle prime pagine, nella te-nerezza delle pennellate con le quali lo scrit-tore compone il quadro dell’ambiente, sullo sfondo di “quel ramo del lago” e del Resegone. Prorompe soprattutto nel sublime canto del-l’“Addio, monti”, in cui l’autore presta a Lu-cia dei sentimenti che erano i suoi, per il “tri-sto passo” dell’allontanamento da quelle “cime ineguali” fra le quali era cresciuto e alle quali, volontariamente, non sarebbe più tornato.

Sul “magnifi co delle vedute” che si dispie-gano in “prospetti ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi” indugia con affetto il roman-ziere, descrivendo la “sua” terra di Lecco.

“Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace alla riva del lago: un gran borgo al giorno d’oggi, che s’incammi-na a diventar città”. Il vaticinio manzoniano si è realizzato: il “borgo già considerevole” ai tempi dell’azione dei Promessi Sposi è oggi città. La domina quel campanile alto alto, che fa sentire

dappertutto il suono delle sue nove campane.E sì che quando venne a Lecco nel 1647 per

la visita pastorale, il cardinale Giuseppe Pozzo-bonelli trovò la chiesa maggiore senza facciata e senza pavimento. Una catapecchia. Che negli anni successivi è diventata il chiesone del qua-le, nelle pagine seguenti, sono raccolti alcuni frammenti di storia, di architettura e di arte.

Ma prima di arrivarci, visto che qualcosa è mutato dai tempi del Manzoni e ancor più dai tempi del Pozzobonelli, pare doveroso soffer-marsi su quanto, di quella storia, architettura e arte, non c’è più, come se fosse stato cancella-to dal perpetuo scorrere dell’acqua dell’Adda che passa sotto il ponte. Sono altri frammen-ti, ripescati questa volta dalle pagine di Chio-stri del lecchese di Dino Brivio. Un amico e un maestro, anche se per pochi.

Una “relatione” del XVI secolo, trovata nel convento del Monte Barro e pubblicata dal val-sassinese Giuseppe Arrigoni, ci fa sapere che “l’anno del Signore 1474 essendo Pontefi ce Si-sto quarto fu edifi cato il Convento dedicato al glorioso apostolo S. Giacomo pochi passi disco-sto dalle mura della fortezza di Lecco situata alla ripa del lago. Chi fossero li fondatori di tal fabri-ca non si trova memoria. Si ha bensì traditio-ne, e per scritture che tal Monistero fosse prima habitato da frati del terz’ordine del Seraf. P.S. Francesco, e poi dalli Padri dell’Osservanza”.

UN PAESECHE CHIAMEREI UNO DEI PIÙ

BELLI DEL MONDO

L’interno della Basilica di San Nicolò negli anni Cinquanta del Novecento.

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Tale convento era “di molta gelosia” alla for-tezza - Andrea Luigi Apostolo in Lecco e suo territorio presenta un Giangiacomo de Medi-ci timoroso “che quel caseggiato non servisse, in caso di ostilità, di ridotto ai nemici” - onde per ordine del detto Medeghino “fu spianta-to e giettato per terra”, l’anno 1529. Rimase in piedi, prodigiosamente, un pilastro con effi gia-te l’immagini della Pietà e della Vergine con il Bambino, attorno al quale nel 1595 venne co-struita una nuova chiesetta, dal popolo chia-mata della Madonna del Pilastro”. Ma anche questa fu demolita, nel 1636, dal comandante delle truppe lecchesi Giovanni Serbelloni, per la minaccia d’un assedio al borgo da parte del francese Duca di Rohan. Si salvò ancora il pila-stro e per la terza volta sorse in quel luogo una chiesa a San Giacomo, benedetta nel 1649. Nell’Ottocento essa è però scomparsa defi niti-vamente, questa volta insieme al pilastro.

In memoria del passato è rimasto il Vicolo San Giacomo, che ora dà accesso a un super-mercato da via Roma. Giovanni Pozzi, quan-do, nel 1884, pubblicava Lecco e Barra, rile-vava la presenza di una Osteria di San Gia-como, “osteria che per strana combinazione - declamava sornione - è quasi sempre frequen-tata da preti”. L’Arrigoni sostiene che “la chie-sa di S. Giacomo era nel sito ove ora trovasi l’albergo della Croce di Malta”; così anche il Balbiani. Secondo Arsenio Mastalli invece (in Memorie storiche della Diocesi di Milano, vol. I), “era ubicata in fondo dell’attuale vicolo S. Giacomo in via Roma”.

In quanto si vede oggi non c’è proprio nien-te da ravvisare dell’antico convento.

La vecchia toponomastica lecchese ave-va una Via alla Maddalena, sulla quale han-no poi avuto sopravvento i cinque fratelli Tor-ri Tarelli, commemorati anche dalla lapide con epigrafe di Giovanni Bertacchi collocata sulla casa che fu della lor famiglia. La Maddalena si è tuttavia continuato a chiamare l’area verso lo sbocco in lago del torrente Gerenzone, che oggi accoglie pure il monumento ad Antonio

Stoppani, ed è nome d’antiche origini.Una “storiella” lasciata da Antonio Inverniz-

zi, parroco a San Giovanni nella seconda metà del ’700, e pubblicata dall’Arrigoni, così inco-mincia: “Fuori delle mura di Lecco, presso la Porta di S. Stefano, sussisteva un Monastero abitato da sei monache dell’Ordine di S. Ago-stino, dette le Umiliate, il quale fu soppresso. La loro Chiesa dedicata era a S. Maria Madda-lena, il perché quel sito, che prima nominato era il Borgo di S. Stefano, fu poi appellato la Maddalena. In esso Monastero - prosegue lo scritto - sottentrarono sei Monache Benedetti-ne”, il che avvenne agli inizi del XV secolo.

Agli inizi del ’500, afferma ancora prete In-vernizzi, “più Verginelle, spregiati gli alletta-menti del Mondo”, ricorrevano alla badessa Benedetta Longhi e alla sorella Febronia “per essere annoverate nel sacro ordine”.

Il solito Giangiacomo de Medici nel 1529, per aver sgombro il campo tutt’intorno alle mura di Lecco, oltre al convento di San Giaco-mo fece abbattere, dalla parte opposta, l’inte-ro borgo di Santo Stefano con il Monastero e la chiesa della Maddalena.

Quanto accaduto in questo piccolo angolo di città nel bel mezzo del secondo millennio dell’era cristiana invita ad un momento di ri-fl essione su quanto è stato nella nostra storia e su quanto sarà nelle vicende di questa città nei prossimi anni segnati dai primi vagiti del nuo-vo terzo millennio. Una rifl essione che impone una sosta per sedersi sul ciglio del sentiero del-la vita e per guardare con calma dentro e fuori di noi. Proprio come facciamo nell’affrontare l’ascesa ad una delle nostre vette. Se qualcosa, come è accaduto a San Giacomo e alla Madda-lena, è andato perso, moltissime testimonianze di quella fede che hanno coltivato i nostri avi si sono conservate e oggi si propongono riverbe-ranti di preziosità artistiche, monumentali, re-ligiose. Sono le chiese e i santuari che accom-pagnano, in alcuni casi anche da molti secoli, il lavoro di questa città. Entrarci signifi ca cono-scere il volto più vero della nostra terra.

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BASILICA PREPOSITURALEDI SAN NICOLÒ

La Basilica di San Nicolò è la chiesa princi-pale di Lecco e per questo è chiamata la gesa granda; si trova su una piccola altura (oggi in-tuibile dall’alta scalinata) vicino alla insenatu-ra che, per secoli, rappresentò l’approdo del-le barche e il luogo di scarico delle merci: l’odierna piazza Cermenati, anticamente det-ta Ripa Maggiore.

L’ORIGINE LONGOBARDAAi tempi romani, il centro di Lecco era un

piccolo paese, chiamato Leucerae e abitato da soldati e barcaioli; ma il posto era importante perché vi passava una strada verso i passi alpi-ni e vi era il lago, utilizzato come via d’acqua commerciale. Intorno a Leucerae esistevano vari piccoli villaggi, là dove oggi sono Rancio, Acquate, Castello, eccetera. Sulla collina oggi detta di Santo Stefano c’era un recinto fortifi -cato e lì appunto, dove probabilmente stava il comandante militare che rappresentava il po-tere imperiale, venne costruita la prima chie-sa, dedicata a Santo Stefano, il primo martire cristiano.

Scarsi resti della chiesa e una lapide posta a ricordare la morte del prete Vigilius nel 535, fanno pensare che la comunità cristiana fosse già esistente verso il 450 dopo Cristo; anche a Olate venne trovata un’altra iscrizione, dello stesso tempo, per una famiglia cristiana.

Quando nel 568 arrivarono in Italia i Lon-gobardi, Lecco e la zona del lago resistettero per circa vent’anni. Una volta occupata, Leu-cerae divenne il centro principale di un gran-

de distretto. I Longobardi erano in buona par-te pagani, in parte invece cristiani, ma seguaci della eresia di Ario. Ario era stato condannato in un grande Concilio Ecumenico a Nicea, nel 325, presente San Nicolò.

I re dei Longobardi, specialmente Teodolin-da, compresero che bisognava uscire dall’isola-mento in cui la conquista armata aveva posto i Longobardi, pochi e poco colti rispetto agli indigeni romani. Accolsero perciò la proposta di pace di Papa Gregorio Magno e spinsero il popolo a convertirsi al cristianesimo. Lo stesso Adaloaldo fu battezzato a Monza nel 604.

Ecco perché, quando infi ne nel 662 il re longobardo Ariberto aboliva uffi cialmente l’arianesimo, il Papa inviò gruppi di missiona-ri, venuti dall’Oriente e dall’Italia meridiona-le, per ricondurre vescovi e popolo al cattoli-cesimo romano.

Lo studioso Giampiero Bognetti ha fatto l’ipotesi che anche la nostra chiesa sia stata co-struita dai missionari alla fi ne del VII secolo, come segno di riconciliazione, entro il nucleo più frequentato. La dedicazione a San Nico-lò, il vescovo orientale che era stato protagoni-sta del concilio antiariano di Nicea, ma che era considerato anche il protettore dei naviganti e barcaioli, serviva a confermare l’adesione della popolazione alla vera fede romana.

LA MEMORIA DI SANTO STEFANOSul colle situato non lungi dalle pareti più

ripide del San Martino, dove alcuni resti in-dicano ancor oggi il perimetro incerto del Ca-

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strum Leuci, sorse, intorno al sesto secolo, la prima chiesa della nostra zona. Venne dedica-ta al protomartire della fede cristiana: il diaco-no Stefano.

Nei secoli successivi, quando l’insedia-mento militare del colle lasciò il passo al nuo-vo centro civile legato ai traffi ci del lago e col-locato nel tratto terminale del Lario, la scelta del patrono cadde su San Nicola, popolare tra i naviganti ed i marinai. Stefano rimase come compatrono, in ricordo della prima comunità cristiana lecchese.

A tempi lontani risale quindi il motivo del-la celebrazione in onore di Santo Stefano il 26 dicembre, giorno successivo al Natale. In tale ricorrenza si brucia ancora, in Basilica, prima della messa solenne, il grosso pallone di bambagia ricamata che ricorda il sacrifi cio dei martiri.

La nostra Basilica raffi gura Stefano nell’af-fresco che appare sul lato sinistro della nava-ta centrale del tempio, non lontano dall’alta-re maggiore. Il diacono appare con lo sguardo rivolto in alto, come gesto di fi ducia e di ab-bandono a Dio, mentre viene sottoposto dai suoi persecutori all’interrogatorio che anticipò il martirio. L’iconografi a di Stefano ci presenta molte volte un giovane rivestito della dalmati-ca diaconale, circondato dai suoi lapidatori che avevano deposto i mantelli, prima di assolve-re il macabro incarico, dinanzi ad un giudeo chiamato Saulo. Stefano, infatti, venne lapida-to fuori dalle mura di Gerusalemme per aver sostenuto pubblicamente la divinità di Cristo. Le notizie della sua vita sono scarse: è stato scelto tra i primi sette diaconi destinati ad af-fi ancare gli apostoli nel ministero della carità. Negli Atti degli Apostoli viene ricordato come “uomo pieno di fede e di sapienza” ed accen-nando all’attività di diacono si sottolinea che “operava prodigi e segni grandi fra il popolo”. Dopo la lapidazione i suoi resti mortali ven-nero segretamente sepolti e rinvenuti solo nel

415, contribuendo a diffondere notevolmente il culto del martire, anche per la distribuzio-ne di reliquie di Stefano in ogni regione del mondo cattolico. Ciò potrebbe spiegare per-ché erigendo una chiesa, intorno al sesto seco-lo, i cristiani di Lecco vollero dedicarla al pri-mo martire della fede.

Il giovane diacono, sempre nella sua ico-nografi a, appare sovente circondato da pietre rosse o dal libro del Vangelo. Sono, rispettiva-mente, i simboli del martirio e del diaconato.

Come già ricordato, anche il pallone che si brucia prima della messa, nella ricorrenza del santo, ricorda il sacrifi cio del martire. La ceri-monia del pallone è rimasta, mentre è scom-parsa da tempo la processione che i lecchesi effettuavano il giorno di Santo Stefano per sa-lire al solitario, allora, poggio vicino al monte San Martino. Si recavano presso la cappellet-ta fatta costruire, nel 1790, dal prevosto Volpi per ricordare l’antica chiesa di Lecco che, per alcuni, sarebbe stata distrutta durante la terri-bile rappresaglia di Matteo Visconti nel 1296. Lecco fu incendiata e rasa al suolo per punire i suoi abitanti che si erano schierati con i Tor-riani, famiglia nemica dei Visconti.

Comunque, oltre il periodo di Matteo Vi-sconti, notizie dell’oratorio di Santo Stefano sono apparse nelle ricerche appassionate che il compianto Arsenio Mastalli ha condotto presso i documenti della Biblioteca Ambrosiana, sul-le parrocchie e le chiese del Lecchese all’ini-zio del 1600. In quel periodo l’oratorio si pre-sentava in condizioni disastrose. Erano rotte le pareti laterali, il tetto, il pavimento; durante le piogge la chiesa diveniva impraticabile. Ave-va due altari, ridotti anch’essi in pessimo stato. Nel giorno di Santo Stefano, tempo permet-tendo, si celebrava la messa solenne, mentre il pomeriggio precedente il prevosto e i canoni-ci della prepositura si recavano all’oratorio per il canto dei Vesperi, rinunciando, ad un certo punto, all’interminabile cenone natalizio.

La Basilica di San Nicolò negli anni Cinquanta del Novecento.

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Quando scomparve allora, completamente, l’oratorio dedicato a Santo Stefano? Potreb-be essere esatta la versione fornita da Mario Cermenati che scriveva: “Il prevosto di Lecco, Benedetto Volpi, considerato che la chiesa già da tempo era profanata e cadeva in rovina da ogni parte, la fece convertire in casa colonica della prebenda prepositurale. Ma a conservar-ne la memoria ordinò la costruzione lì pres-so di una cappelletta, dedicata a Santo Stefa-no. Oggi, al posto del vetusto tempio, sorge un caseggiato campestre e la trasformazione è avvenuta fi n dal 1790”. Cermenati ricorda an-che che sul colle di Santo Stefano venne tro-vata, nel 1799, “una sepolcrale iscrizione del 535, riferendosi ad un sacerdote di nome Vir-gilio”. Ciò confermerebbe la presenza di co-munità cristiane nel Lecchese e l’esistenza di una chiesa nella posizione elevata, a ridosso del San Martino, nel sesto secolo.

IL PATRONO SAN NICOLAArriveranno anche quest’anno le mele di

San Nicola? È l’interrogativo dei bambini lec-chesi alla vigilia del 6 dicembre. È infatti tra-dizione che, nella notte della sua festa, San Ni-cola porti le mele ai bimbi buoni.

Lecco ricorda con varie celebrazioni, e ha ricordato con diverse iniziative nel corso degli anni, il suo patrono. Può apparire, a prima vi-sta, abbastanza strano, o quantomeno singola-re, che una città dell’Italia Settentrionale, nota per le sue montagne, i suoi alpini, i suoi “Ra-gni”, abbia un patrono orientale, un santo po-polare tra la gente di mare. Il motivo è sempli-ce: il piccolo borgo di Lecco, poco dopo l’anno Mille, era composto da pescatori, da barcaioli, da persone che vivevano sul lago. Fu allora ri-tenuto opportuno scegliere un patrono popo-lare tra i marinai come San Nicola. La scelta di allora è rimasta nei secoli.

Chi era San Nicola? Fu il vescovo di Mira, l’attuale villaggio turco di Dembre, nella Licia. La tradizione vuole che fosse vescovo, per vo-lere divino, con insolita procedura. Il clero e i rappresentanti dei fedeli di Mira, riuniti per

eleggere il nuovo vescovo della Chiesa locale, decisero di far cadere la scelta sul primo cri-stiano che sarebbe entrato nel tempio. Appar-ve Nicola, fi glio unico di ricchi genitori, già co-nosciuto per le sue doti di pietà e di carità. Di-venne quindi vescovo senza essere sacerdote, ma si distinse subito per grande zelo pastora-le. La sua vita è punteggiata di miracoli. Era nato, come sembra, a Patara, sempre nella Li-cia (Asia Minore), intorno al 270. Intervenne al Concilio di Nicea, nel 325, il Concilio che, con la condanna di Ario, vide defi nito il dogma della Divinità del Verbo. Morì il 6 dicembre di un anno compreso fra il 345 e il 352; fu sepolto nella chiesa di Mira circondato da grande ve-nerazione. Divenne uno dei santi più popola-ri della cristianità. Raramente, nella storia reli-giosa, si è avuto un esempio di culto così este-so e sentito come quello tributato al santo di Mira. Chiese, abbazie, cappelle, oratori, altari, spuntarono in numero considerevole prima in Oriente e poi in Occidente. La popolarità del santo, in Europa, raggiunse il suo apogeo nel dodicesimo secolo con la traslazione dei resti mortali a Bari.

San Nicola riposa infatti nella stupenda ba-silica che i baresi vollero erigere sull’area del-l’antica residenza dei governatori bizantini e che Papa Urbano II consacrò il 29 settembre 1089. Anche l’episodio della traslazione dei re-sti mortali del santo si tinge di leggenda come tanti periodi della sua vita.

Sessantadue marinai baresi, guidati dai sa-cerdoti Lupo e Grimoaldo, furono i protago-nisti della traslazione, da Mira a Bari, delle reliquie di San Nicola nel 1087. Mira era, da qualche anno, sotto il dominio turco e i bare-si simularono il trasporto di un grosso carico di grano per entrare, con una nave, nel porto di Andriaco e compiere, nottetempo, una audace azione sino a Mira per entrare in possesso del corpo del Santo. Divenne patrono di Bari e di tante altre città italiane e straniere, di intere nazioni come la Russia e la Grecia. I suoi mira-coli per salvare marinai in procinto di naufra-gare, l’avventuroso viaggio dei suoi resti mor-

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L’interno della Basilica di San Nicolò con il vecchio presbiterio sotto il quale è la cripta e, nelle pagine seguenti, il grandioso armadio confessionale della sacrestia vecchia in noce scolpito e intagliato.

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tali da Andriaco a Bari per sfuggire alla sorve-glianza turca, lo fecero invocare prima, e no-minare poi, patrono dei naviganti e dei viag-giatori, santo protettore nelle tempeste e nei naufragi. Il legame di simpatia, prima ricorda-to, fra San Nicola e i fanciulli, con la tradizio-ne delle mele (in ricordo delle tre mele dorate che compaiono tante volte negli affreschi a lui dedicati, sopra il libro che affi anca la croce a doppia traversa) si deve al miracolo dei ragazzi fatti risorgere dai barili dove un oste assassino li aveva soffocati.

Lecco celebra il 6 dicembre la festa patro-nale in onore di San Nicola. Sempre in onore di San Nicola si celebra poi, ogni anno a fi ne giugno, la tradizionale festa del lago. La mani-festazione si conclude con la benedizione se-rale delle acque con le reliquie del santo ve-scovo. La cerimonia prese avvio nel 1937 e, dopo la parentesi bellica, ha assunto crescen-te importanza. È la serata del grosso barcone, il comballo dei tempi passati, che illuminato ed imbandierato, accoglie le autorità cittadine con il gonfalone del Comune; è la serata del caratteristico corteo di imbarcazioni lungo le sponde del golfo lecchese sino a centro lago. Sono decine di migliaia gli spettatori che, ogni anno, da Malgrate a Pradello, seguono la sin-golare manifestazione sul Lario.

La devozione dei lecchesi per San Nico-la è dimostrata anche dalla statua che appare nelle acque del lago, di fronte alla punta della “Maddalena”, nelle vicinanze del monumen-to ad Antonio Stoppani. La statua in bronzo di San Nicola è stata collocata, nel 1955, su pila-stri in blocchi di granito saldamente fi ssati al fondo del lago. Il santo appare con i paramen-ti vescovili orientali: una immagine di Nicola che si ripete in tutta la sua iconografi a. La sta-tua venne preparata dallo scultore Giuseppe Mozzanica: è alta due metri e raffi gura il santo nel gesto di proteggere il lago e la città.

Perché questa statua proprio all’inizio del

bacino di Lecco, a una ventina di metri dalla sponda? Nell’anno dell’inaugurazione (1955) il numero unico Pastor bonus uscito in oc-casione del venticinquesimo di parrocchia e del cinquantesimo di sacerdozio del prevosto mons. Giovanni Borsieri, scriveva: “Come le lanterne spesso illuminano le entrate dei pic-coli porti del nostro lago e, dal molo, nelle not-ti buie, segnano con la loro luce tranquilla l’ap-prodo e il calore della casa, la statua di San Ni-cola, sulla punta della Maddalena, diventerà il simbolo della fede dei lecchesi”.

I RESTI ROMANICI DELLA BASILICADa alcuni studi si sa che l’edifi cio era gran-

de circa come la navata centrale della attua-le basilica fi no all’altare maggiore. Era divi-sa in tre navate da colonne, di cui si è trova-ta qualche base, sostituendo il pavimento anni fa; in fondo alle navate c’erano tre cappelle con altari; prima dell’altare maggiore si alzava una cupoletta e ai lati il soffi tto era alto come per dare alla chiesa una forma di croce. For-se c’era anche un portico davanti alla facciata e uno interno.

La parte della chiesa romanica meglio con-servata è la facciata meridionale, verso via Ma-scari, del braccio più breve della croce che si chiama transetto. È una parete di belle fi le di pietre di lago, alta circa 12 metri e con profi -lo a capanna; in alto si apre una bifora, fi nestra divisa in due da una colonnina; ai lati la pare-te era rinforzata da due contrafforti, di enor-mi massi in parte di granito: la parte inferiore di essi si può vedere se si entra nella cappella dove oggi c’è il fonte battesimale.

Fa cenno a questi resti anche Dino Brivio in Chiese romaniche intorno a Lecco rilevan-do che poco ancora ci è noto del più lontano passato di Lecco; si sa di un’antica operosità dei lecchesi, ma guerre e distruzioni che han-no travagliato il borgo forse hanno eliminato i segni rivelatori di una storia culturale. Soltan-

In senso orario: Sant’Anna insegna a leggere a Maria; il rimorso dell’apostolo Pietro; San Nicolò; l’Ecce Homo.

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to in anni recenti il buio è stato squarciato da un raggio di luce, piccolo ma ricco di signifi ca-to, con la scoperta, nella Basilica prepositurale di San Nicolò, dei resti medioevali della primi-tiva chiesa dedicata al Vescovo di Mira che sa-rebbe diventato il patrono principale di Lecco dopo il trasferimento dell’abitato dal colle di Santo Stefano (la chiesa ivi esistente è scom-parsa) alla riva del lago fra il Gerenzone e il Caldone. Le strutture rivelatesi fanno pensare - secondo Bruno Bianchi - a un edifi cio certa-mente antichissimo, forse precedente al Mil-le, orientato perpendicolarmente rispetto alla esistente chiesa che è una ricostruzione neo-classica ottocentesca, progettata dal Bovara. La parte ora visibile dovrebbe essere un porti-co duecentesco addossato a una fronte roma-nica inserita nel fusto del campaniletto dalla loggia seicentesca.

La stessa considerazione del Borghi: que-sta cappella, che ha preso tale forma al tempo dei Visconti, se si osserva bene era in princi-pio un atrio o portico, aperto sulla via con due grandi archi. Le sue pareti sono ugualmente di pietra ben lavorata, del tipo che da noi si chiama molera. Questo portico venne costrui-to, probabilmente come ingresso laterale, in-torno al 1220-1240.

Ha fatto riferimento a questi resti anche Oleg Zastrow che in L’arte romanica del co-masco ha scritto, a proposito di San Nicolò: “Nella basilica, in una cappella a destra della navata maggiore, sono interessanti avanzi del-la primitiva chiesetta romanica, recentemen-te messi in luce. La cappella laterale attuale mostra larghi conci squadrati e potrebbe iden-tifi carsi con un raro esemplare di esonartece. Altre parti della chiesa si identifi cano in alcu-ne fi nestrelle e nella base del campanile ori-ginario”. Nello stesso libro, lo studioso richia-ma anche l’attenzione sull’acquasantiera, allo-ra visibile nella sacrestia della Basilica a diffe-renza dell’odierna collocazione all’inizio della

navata, a sinistra. Scrive Zastrow: “Non è noto l’edifi cio da cui provenisse, ma potrebbe es-sere stata trasportata nel sito attuale dalla di-strutta chiesa di S. Stefano. Nelle quattro po-sizioni polari, all’esterno della vasca marmo-rea a pianta circolare, sono raffi gurati a rilievo i simboli dei Tetramorfi , reggenti i cartigli con i propri nomi. Il livello esecutivo è piuttosto elevato e l’elaborato è da considerarsi come un’opera della matura creatività romanica”.

Lo stesso Oleg Zastrow è poi tornato a par-lare dei resti medioevali della Basilica di San Nicolò in Lecco nel volume Architettura goti-ca nella provincia di Lecco.

GLI AFFRESCHI DEL PERIODOVISCONTEO

L’atrio del Duecento venne ad un certo punto, nel secolo successivo, chiuso e trasfor-mato in una cappella dedicata a Sant’Antonio abate; venne fatta la volta a botte che ancora si vede e vennero aperte le lunghe fi nestre sulla parete di fondo.

All’altare di questa cappella venne istitui-ta circa il 1385 una cappellania, cioè una mes-sa regolare curata da un cappellano; nel 1389 troviamo il primo nome, prete Vitale eletto da Carlino fi glio di Pietro Gazzari fondatore della cappella. Circa la metà del Settecento la cap-pella fu tagliata in due: verso la navata centra-le della Basilica venne lasciato un altarino, che in tempi più recenti era dedicato a San Nicolò; la parte retrostante divenne un magazzino per i ceri e un passaggio per salire al soprastan-te vecchio campanile. Solo nel 1955 apparve-ro sotto le imbiancature alcuni brani di pittu-re, subito staccate e riportate su tela; poi, dopo il 1962, vennero iniziati lavori di ricerca e suc-cessivamente di restauro, guidati dall’architet-to Bruno Bianchi. Infi ne la cappella è stata tra-sformata in battistero.

La pittura più antica, che deve essere della metà del Trecento, è una bella testa di santo,

San Francesco di Sales e San Nicolò; il paliotto dell’altare maggiore in bronzo dorato.

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in parte piccozzata per farvi aderire dell’into-naco; si trova nel breve andito (ora chiuso) che portava alla cappella di San Carlo.

Gli altri affreschi, martoriati nel corso dei secoli, sono invece degli anni intorno al 1380-1390. Sulla parete di fondo si vede in alto la scena dell’Annunciazione; tra le due fi gure dell’Angelo e della Vergine c’era nel Cinque-cento ancora una fi nestrella circolare. Sotto, tra le due fi nestre (anch’esse decorate a corni-ci e rombi variegati a fi ntomarmo), resti di volti e di mani fanno pensare che si sviluppasse una Crocefi ssione, come si vede in altri cicli simili.

Più in basso ci sono frammenti di una com-posizione, forse una teoria o serie di santi e in-fi ne un fregio probabilmente di drappi: i po-chi resti sono scomparsi nella riapertura dei vasti arconi che erano gli ingressi dell’atrio del Duecento.

Sulla parete destra rimane un frammen-to di dipinto, ancora nascosto dalla calce (alla fi ne del Cinquecento la cappella era stata in buona parte intonacata e ancora imbiancata nel 1613). Dalla parte opposta invece i due di-pinti si vedono abbastanza bene, specie il pri-mo a sinistra; è una parte di Deposizione di Cristo, adagiato nel sepolcro da un santo dalla folta barba, mentre la Madonna si stringe il Fi-glio al volto. Nell’altra scena, un giovane cava-liere in veste rossa inginocchiato e presentato da Sant’Antonio (di cui si vede solo parte della veste e il bastone), prega la Vergine seduta in trono e il Bambino che lo benedice.

Fiori e foglie decorano l’apertura per il ca-lice e gli orcioli.

LE STORIE DI SANT’ANTONIO ABATELa volta porta due serie di sei scene ciascu-

na, della misura di m 1,35 per 1,05, separa-te da un fregio decorativo a motivi geometrici. Le scene verso il fondo sono in gran parte per-dute, a causa dei fori fatti per salire al campa-nile e per le corde delle campane.

Da sinistra si vede prima una città con le mura, una chiesa e uno sfondo di monti roc-ciosi come un Resegone: forse c’era Antonio

che lascia la sua ricca casa. Nel secondo riqua-dro lo si vede nel deserto che esorcizza un de-monio in fi gura di giovane donna. Nel terzo ri-quadro si scorgono animali selvatici e un vol-to, forse dell’essere dei boschi che guida Anto-nio sempre più addentro alle selve della Tebai-de dell’Alto Egitto. Ciò che resta del seguente dipinto è un interno di casa con la morte del Santo fra i discepoli. Segue una scena con un volo d’angeli, che forse portano in cielo le spo-glie del Santo.

Nella seconda serie, verso il fondo della cappella, si vede al terzo riquadro un santo nel cielo blu fra paesaggi di rosse rocce appunti-te; nella quinta scena, ci sono solo le membra inferiori di due personaggi; nel sesto riquadro è un santo in preghiera, forse San Paolo ere-mita di Tebe.

Ci si può chiedere come mai tanta vene-razione per Sant’Antonio abate, che era uno dei primi monaci, nato in un villaggio egiziano nel 251 dopo Cristo e iniziatore nel 306 delle prime forme di vita comune. Si può capire se si osserva che la famiglia Gazzari aveva mol-te proprietà agricole e che Carlino, fi glio del fondatore della cappella, era oltre che notaio, anche venditore di grani e biada e proprieta-rio nel 1398 di una spezieria in contrada della Fiumicella (parte inferiore dell’attuale via Bo-vara) trasferita nel 1401 in contrada di Ruga-sterzia (l’attuale via del Pozzo). È noto che lo speziale era anche un po’ medico. Sant’Anto-nio, secondo le leggende e la tradizione, era protettore degli animali, delle bestie da soma e da cortile, della vita agreste, tutto ciò col-legato con la sua vita eremitica nel deserto a contatto con le belve. Inoltre proteggeva con-tro il fuoco e le manifestazioni di morbi della pelle, dato che nella sua vita ebbe a combatte-re il fuoco della lussuria e il fuoco dell’inferno. E dato che si usava il grasso di maiale come medicamento, egli è anche spesso raffi gurato accompagnato dal porcello.

Sant’Antonio (al quale una cappella fu co-struita anche in Santa Marta nel 1505), pote-va dunque proteggere gli affari dei Gazzari, le

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loro bestie da soma, i raccolti, le medicine del-la loro bottega.

IL CAMPANILE VECCHIOSul perimetro della cappella di Sant’An-

tonio abate (ora del Battistero) è impostato il campanile vecchio della basilica. È di mura-tura di ciottoloni e fu probabilmente costruito nel XV secolo; anzi nel 1449 i lecchesi chiede-vano che venisse restaurato dal capitano Fran-cesco Sforza, poi duca di Milano, perché servi-va anche da torre di guardia al paese ed era sta-to rovinato dalle guerre degli anni precedenti.

La loggia in alto deve essere una aggiunta del Seicento (datate 1665 erano le campane ri-fuse nel 1904), restaurata nel 1811.

Nel 1566 si dice che sopra la cappella di Sant’Antonio abitava il prete ad essa addetto. Infatti nel campanile si vedono i resti di una camera affrescata; lungo le pareti correva una fascia di festoni sorretti da angeli e intercala-ta di tondi, con varie fi gure, fra le quali l’An-nunciata, San Giuseppe, San Giovanni Evan-gelista; c’era anche una testa di drago. Si pos-sono datare agli anni 1470-1480, all’inizio del Rinascimento.

LA BASILICA NEI SECOLI XV E XVILe prime descrizioni complete della chie-

sa iniziano con il 1565. Ma, per ciò che sappia-mo, sia precedentemente che dopo, fi no circa al tempo dei lavori del Bovara, l’ossatura del-l’edifi cio non subì grossi mutamenti.

La basilica era lunga circa 43 metri e larga 18, divisa in tre navate da due fi le di sei colon-ne; la navata centrale era più alta di quelle la-terali e aveva soffi tto di legno dipinto. Davan-ti al presbiterio, dove c’era un bellissimo alta-re con ancona di legno e fi gure scolpite, si al-zava un tiburio, dipinto con i Santi patroni del-la pieve e gli Evangelisti verso la fi ne del Cin-quecento; nel 1588 si era anche rifatta la cap-pella maggiore con gli stalli del coro.

In fondo alla navata settentrionale c’era la cappella dell’Assunta, già nel 1485; quel-la a meridione era dedicata ai Santi Ambro-

gio e Cristoforo e nel 1472 la famiglia Longhi vi aveva fondato una cappellania. Ai lati del ti-burio, c’era a nord la cappella dei Santi Rocco e Sebastiano, curata dalla confraternita dello stesso nome e di San Giuseppe; a sud c’era la cappella di Sant’Antonio abate, della famiglia Gazzari, ridotta circa il 1746 e successivamen-te dedicata anche a San Nicolò.

Sul lato nord c’era ancora la cappella di San Bernardino, il cui cappellano era designato dalla famiglia Longhi fi n dal 1451; fu distrut-ta nel 1566 per ingrandire le mura del borgo confi nanti con essa. Qui era stata sepolto nel 1532 Gabrio Medici fratello di Papa Pio IV.

Ai pilastri entrando in chiesa si vedevano gli altari dedicati uno alla Madonna del Pilastro, l’altro alle Sante Barbara e Caterina: vennero presto trasferiti e rinnovati. Nella navata verso sud c’era ancora la cappella di San Pietro mar-tire, con una confraternita antica. Tante era-no le scole o confraternite: quella di San Roc-co, del Santissimo Sacramento, della Madon-na del Pilastro, di San Giuseppe, di San Pie-tro martire, che furono poi ridotte a due: del Santissimo Sacramento (1584) e della Madon-na del Rosario (1592).

Nel 1596, al posto della cappella di San Pie-tro martire vennero costruite quella del batti-stero nuovo e la sacristia. La chiesa aveva an-che un organo e un organista.

FESTA IN BORGOHa origini negli anni del primo Seicento la

festa del borgo che, nel tempo, diventerà la fe-sta di Lecco dedicata alla Madonna del Rosa-rio. A ricostruirne le origini è stato - come solo lui ha saputo fare in questa come in tantissi-me altre vicende lecchesi - Uberto Pozzoli, in uno scritto che porta la data del 6-7 maggio 1927. Per leggere il quale vale una considera-zione dell’allora prevosto di Lecco, mons. En-rico Assi, in data 6 ottobre 1974, premessa al volumetto Da Santo Stefano a San Nicola di Aloisio Bonfanti, secondo delle Memorie della Pieve di Lecco delle quali lo stesso monsignor Assi si era fatto promotore. “Ci si accorge su-

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Ancora una storica immagine della Basilica nella prima metà del secolo scorso; a fronte, la stessa dopo l’ultimo restauro: in primo piano alcune fi gure del grandioso presepio.

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bito che la dimensione religiosa era una com-ponente essenziale sia sul piano individuale, come sul piano sociale e del costume. È me-rito non trascurabile dell’autore - mons. Assi si riferisce ad Aloisio Bonfanti, ma le parole valgono anche per le pagine di Uberto Pozzo-li - quello di aiutare a scoprire questo aspetto noi, lettori di oggi, tentati di ridurre, se non di negare, la rilevanza sociale del fatto cristiano. Anche se tocca poi a noi oggi il compito arduo di tradurre in forme essenziali, autentiche, in-cisive, quali sono richieste dal nostro tempo, la profonda ispirazione e la ricca carica religiosa che hanno consentito ai nostri antenati di su-perare crisi e diffi coltà simili alle nostre”.

DAL QUARESIMALE…Si sa che nel ’600 c’era il vizio di esagerare

un tantino; ma quando Giannantonio Agudio ci dice che Padre Mariano, cappuccino, era “una gran tromba della parola divina, abisso di virtù e pelago di scienze”, bisogna creder-gli anche senza averne tutta la voglia, perché doveva esser davvero un oratore straordinario per riuscire, in una sola predica, ad indurre i lecchesi a fare quel po’ po’ di festa, con la qua-le, la domenica in Albis del 1624, caduta il 14 aprile, coronarono la Madonna del Rosario ac-clamandola Regina e Imperatrice di Lecco!

Padre Mariano, solito spargere il seme del-l’evangelica dottrina in campi ben più spazio-si, quell’anno, per intercessione del governato-re di Lecco - che era allora Francesco Mendo-za, morto il 3 giugno 1635 e sepolto nella chie-sa del convento di Pescarenico, e non Giovanni Mendoza come qualche studioso di cose man-zoniane ha stampato - era venuto a predicare il quaresimale nella chiesa collegiata del borgo. Giunto a metà quaresima, benché fi accato dal-le fatiche della predicazione e ancor più dalla febbre quartana, ebbe l’idea di proporre che la mattina del venerdì 22 marzo tutto il popolo di Lecco e dei paesi del territorio si adunasse nel-la collegiata per una Comunione generale “ac-ciò l’intentione sua ottenesse l’intento suo”.

La proposta fu accettata, e la mattina sta-

bilita la gente della vallata abbandonò le case annidate attorno alle fucine e venne in pro-cessione ad unirsi ai mercanti di Lecco. Dopo la Comunione, Padre Mariano salì il perga-mo e descrisse, con la sua parola di fuoco, le pene delle anime del purgatorio: tuonò contro quelli che non si erano confessati, pregando Dio che “gli ammonisse il cuore, che pure di-venuto era come l’indurato smalto diamante”; e tanto infi ammò le anime che, fi nita la fun-zione, si cominciò subito a parlare dell’incoro-nazione della Vergine.

…ALLA GRANDE FESTACol consenso di tutto il popolo, il governa-

tore mandò a Milano un “frettoloso messo” perché ottenesse dal Cardinal Federico Bor-romeo il necessario permesso; e diciassette giorni dopo, il martedì 9 aprile, terza ed ulti-ma festa di Pasqua, il messo frettoloso tornò portando la lieta novella che l’Arcivescovo, per i buoni uffi ci del dott. don Giovanni Mendoza, fi scale di Como e delegato di Tortona, aveva dato il desiderato consenso.

I predicatori quaresimali usavano allora pi-gliar licenza nel pomeriggio del martedì dopo Pasqua; ma, invece, Padre Mariano, avuta la notizia della concessione dell’Arcivescovo, salì il pergamo e con una delle sue prediche en-tusiasmò così i lecchesi che dopo i Vesperi, in una plenaria adunanza, fu solennemente de-ciso di incoronare la Madonna quattro giorni dopo, la domenica in Albis, prima che il cap-puccino lasciasse il borgo.

La mattina dopo furono inviati messi da tut-te le parti; si cercarono dovunque tappezzerie, musici e trombe; e si incominciò ad addobba-re la chiesa e le strade. Per quattro giorni e quattro notti null’altro si fece in Lecco. Furo-no scelte persone di grande stima a ricevere i doni: cominciò donna Anna Peralta, moglie del governatore, ad offrire una veste di broc-cato del valore di centocinquanta scudi, della quale vestì con le proprie mani la statua del-la Madonna; poi, siccome anche allora l’invi-dia non era morta, le altre signore “stupefat-

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te restando” vollero fare altrettanto, e vennero fuori così “dai più secreti luoghi” drappi di tut-te le sorte e di grande valore: tra gli altri, uno di damasco di color incarnato, ricamato d’oro e d’argento; ed uno di color cremisino, riga-to d’oro. Le signore forastiere, venute a Lec-co per il “Perdono”, si levarono dalle orecchie i pendenti; altre offrirono gioielli, croci d’oro con topazi; e le donne del popolo un numero infi nito di anelli. Gli uomini diedero anch’essi argenti ed oro “alla Madre di Chi e dell’oro e dell’argento è donatore”.

IL PRIMO VESPEROI mezzi non mancavano, perché si vede che

fi n d’allora i lecchesi si facevano pagare bene il ferro assotigliato che mandavano fi n nelle più remote regioni della Spagna e serviva per cor-de da cetra; e quindi, nel pomeriggio del saba-to, comparve entro le mura del borgo un eser-cito di musici, che subito unì la voce delle sue trombe agli spari dei mortaretti ed ai colpi del-le artiglierie per annunciare l’inizio della gran-de festa.

Quella stessa sera, dopo il primo Vespe-ro, fu innalzato sulla torre del campanile uno stendardo bianco e rosso, ed al putiferio delle musiche e delle artiglierie s’unirono le campa-ne, seguite subito dalle sorelle di tutto il terri-torio. Mentre il borgo “colmo di consolatione, stillava da gl’occhi (!) amorosissime lagrime”, si lavorava, e si lavorò tutta la notte, per fi ni-re la parata della chiesa, che al mattino dopo sembrava “un piccol Cielo in terra”, tanti era-no i tappeti e i tessuti preziosi che la ornavano. L’altare della Vergine “campeggiava pomposo” e sopra di esso a caratteri lucenti fulgeva il det-to dei Cantici: “copritemi di fi ori, colmatemi di dolori, perché languisco d’amore”.

Alla Comunione generale, distribuita da Padre Mariano, seguì la messa cantata con vari cori di musica ed altri… istromenti; e tanto fu il concorso di gente che a quelli che, come noi, non videro “sarà malagevole persuaderselo”. E appena fi nita la messa cominciarono ad arriva-re le processioni di tutti i paesi.

MANDELLO E MALGRATEI primi ad entrare in Lecco dalla porta San-

to Stefano furono quei del nobile borgo di Mandello; i quali, perduto il treno della mat-tina, dovettero scendere in processione per quella mulattiera che aveva visti i soldati del Medeghino tornar verso Lecco col cadavere di Gabrio de’ Medici. Mandello apparteneva fi n d’allora alla giurisdizione di Como; ma per dar saggio della loro devozione alla Vergine e per favorire quei di Lecco, i mandellesi fecero di tutto perché la loro processione riuscisse ma-gnifi ca, ed arrivarono infatti alla collegiata con due ordini di disciplini: quelli di San Carlo, “di rosso manto adorni”; quelli della Concezione, “di vesti argentine vestiti”.

Ricevuti dai deputati della chiesa - i molto magnifi ci signori Gio. Stefano Bonacina e Gia-como Longo - e salutati sulla piazza da una sal-va di moschetti e dallo squillar di molte trom-be, i mandellesi entrarono nella collegiata, fe-cero l’offerta e poi si ritirarono da parte per la-sciare il posto a quelli della villa di Malgrate, che giunsero subito dopo, divisi in misteri.

Veniva prima un fanciullo in vesti angeliche, che portava il gonfalone della villa con l’im-magine del patrono San Leonardo; poi, dopo la sfi lata dei fanciulli, un giovinetto in vesti di seta ed oro, il quale reggeva un cereo ornato da molti anelli d’oro, offerti dalle donne, e da monete d’argento, offerte dagli uomini. Il ce-reo era custodito da due soldati mirabilmente vestiti e con lo stocco impugnato a difesa della preziosa offerta; e due fanciulli, vestiti di bian-co, portavano in un’iscrizione latina i voti coi quali i malgratesi accompagnavano il dono.

Seguivano quindi tre uomini in abiti pa-storali, con due tortorelle e due agnelli: poi lo stendardo degli uomini, e il gonfalone delle fanciulle, portato da una vergine fi ancheggia-ta da due altre con l’aspersorio ed il secchiello dell’acqua santa: tutt’e tre vestite da monaca, e seguite da altre tre fanciulle di superba statura, rappresentanti Santa Caterina della ruota, San-ta Lucia con gli occhi infi ssi sulla punta d’un ferro e Sant’Apollonia con denti e tenaglie.

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Le porte dei Papi, della Misericordia e dei Santi patroni e la loro inaugurazione, presente il cardinale Giovanni Colombo, il 19 marzo 1975. Nella pa-gina seguente - in senso orario - le fi gure del Cristo, della Madonna, di Papa Paolo VI e di Papa Giovanni XXIII sulle porte in bronzo della Basilica.

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Dopo queste venivano: una fanciulla vestita di rosso, coronata da diadema e circondata da uno stuolo d’angeli; venti fanciulle con livrea di colore arancio, che camminavano, chissà come, tenendo gli occhi fi ssi dove sorge il sole; altre dieci con un Crocifi sso in mano; altre an-cora con le chiome sparse sulle spalle, con una fronda d’olivo in mano e con gli occhi fi ssi a terra; ed, infi ne, le vedove e le maritate.

Naturalmente, tutti questi misteri erano a quel tempo spiegabilissimi, perché allora si parlava di sibille come si parlerebbe oggi di corda spinosa.

L’INCORONAZIONEDopo quei di Malgrate arrivarono, in mil-

le, quei di Valmadrera, accompagnati dal loro curato, Giovanni Besozzo, “giovane di età ma vecchio di costumi”; anch’essi con cerei di grande pregio , fanciulli vestiti da angelo, fan-ciulle con manti neri e veli d’argento. E dopo quei di Valmadrera, giunsero le processioni di tanti paesi pur lontani, fi nché giunse anche l’ora del Vespero.

Quando il prevosto di Lecco - Stefano Bos-si, dottore in sacra teologia e protonotario apo-stolico - intonò il Dominus vobiscum, squilla-rono da un palco eretto in chiesa tutte le trom-be, mentre fuori si ripetevano le salve di mo-schetti. Finito il Vespero, il prevosto incoro-nò la statua della Madonna “tra suoni, canti, lagrime amorose e duplicate salve”; indì salì di nuovo il pergamo Padre Mariano, che “con giri di parole e amplifi cationi retoriche” parlò della Madonna e benedì il prevosto, il gover-natore, le vergini, gli affamati, gli assetati e le campagne, terminando col grido di “Viva, viva la Madre di Dio!” ripetuto da tutto il popolo.

Contento come una Pasqua di aver messo a posto la testa ai lecchesi, Padre Mariano, fi nita la predica, partì; ed era forse appena uscito da porta San Giacomo quando la processione di Lecco s’avviò dalla chiesa: una processione di cui non si vide più l’eguale. Le porte della for-tezza erano state chiuse per evitare disordini, nonostante che fuori, sul prato, vi fossero cen-

tinaia di persone, nel borgo non si poteva gira-re tanta era la folla.

La processione fu aperta dal gonfalone di Santa Marta, portato dal conte G.B. Preta e seguito dai disciplini in bianche vesti. Ven-nero poi quindici zitelle “con livrea di colore argentino, con gli quindeci misteri del Rosa-rio, con le chiome disordinate colme di gioie”; dieci giovinette in forma di sibille, ecc. ecc. tanto per non tirare in lungo. La statua della Madonna era portata da quattro sacerdoti sot-to un ricchissimo baldacchino retto dai nobi-li del borgo.

LA PROCESSIONE PER IL BORGOPartita dalla collegiata, la processione pas-

sò dal palazzo di giustizia ed entrò nella con-trada di Ripa Maggiore, dove a mano sinistra, sotto un portico, era eretto il mistero dell’In-carnazione. Sulla facciata della piazza del bor-go v’era una grande iscrizione latina sostenu-ta da un altissimo arco trionfale; e quando la processione vi giunse fu salutata da una sal-va di duecento moschettieri, che al comando di don Sanchio Mendoza spararono tenendo le ginocchia piegate. Grossi mortari e quattro cannoni risposero dal Castello, ed il torrione, per suo conto, aggiunse i colpi di un altro can-none, così che “parea che sotto terra concitato vi fosse terremoto crudele” e “l’aria era quasi densa nube divenuta”.

Giunta in fondo alla piazza, la processio-ne svoltò nella contrada di Rocaiola e salì alla chiesa di San Calimero (ora Santa Marta) do-v’era un arco d’edera e di lauro; percorse quin-di la contrada di San Nicolao, passando sot-to tre archi dipinti, e tornò così alla collegia-ta. Deposta in chiesa la statua della Madon-na, tornarono a suonare le trombe, si levarono di nuovo gli inni, tuonarono ancora i canno-ni; le porte della fortezza furono aperte: quelli ch’erano dentro uscirono; gli altri, rimasti fuo-ri durante la processione, entrarono e dovet-tero dormire nel borgo, perché “dall’angustia del tempo violentati” non poterono, dati anche i tempi non leggiadri, tornare ai loro paesi.

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L’Agudio, che ha cominciato la sua descri-zione col panegirico del borgo di Lecco, la fi ni-sce con un ampolloso invito ai giudici, ai mer-canti, alle madri di famiglia, alle anime divote, ai superbi ed agli sfrenati perché si rivolgano alla Madonna Incoronata per chiedere aiuto nelle loro miserie. E non ci dice, il furbacchio-ne, se anche a quei tempi tutti i salmi fi nivano in gloria: se cioè, la sera del 14 aprile 1624, le osterie del borgo ebbero tanti avventori quan-ti ne hanno ora quelle della città durante le fe-ste del “Perdono”.

Fin qui Uberto Pozzoli. Una lettura quanto mai piacevole, prima di riprendere la ricogni-zione della Basilica di San Nicolò.

PREPOSITURALEE BASILICA ROMANA

Le vicende della sede prepositurale ebbe-ro, successivamente, alterne vicende fra Lec-co e Castello. Sarà San Carlo Borromeo ad af-frontare la risoluzione della tormentata que-stione nel quadro di una riorganizzazione ge-nerale della Pieve di Lecco. San Carlo, nel-l’agosto 1584, decretò che prevosto e canonici si stabilissero presso San Nicola. Nuovi con-trasti riportarono, qualche anno dopo, il pre-vosto a Castello. Fu risolutore l’intervento del cardinale Federico Borromeo, durante la visi-ta pastorale del 1608. L’arcivescovo fu estre-mamente chiaro. Si richiamò alla disposizio-ne di San Carlo e volle che la prevostura aves-se sede a San Nicola, minacciando di togliere il riconoscimento se prevosto e canonici non avessero obbedito.

Il trasferimento da Castello a Lecco pre-vedeva quattro condizioni, alcune delle qua-li permangono, in parte, ancora. La processio-ne del Corpus Domini si svolge da Castello a San Nicolò proprio nel solco delle disposizioni del 1608, quale simbolico abbraccio fra le due sedi di Pieve. È invece scomparso l’obbligo dei canonici di salire a Castello, per celebra-re le funzioni capitolari, nei giorni dell’Epifa-nia, Annunciazione, domenica in Albis, Pen-

tecoste, Ognissanti, Santo Stefano e nel gior-no dei patroni.

È caduto, da tempo, anche l’obbligo del parroco di Castello di correre in caso di ne-cessità, nottetempo, presso gli ammalati gra-vi residenti nella zona situata oltre le mura del borgo ma in territorio di San Nicola. Que-sta disposizione aveva un motivo preciso: nel-le ore notturne le porte della fortezza veni-vano chiuse e non era possibile ai sacerdo-ti di Lecco raggiungere eventuali agonizzan-ti nei cascinali sparsi al di fuori del perimetro difensivo. Il parroco di Castello fu sollevato da questo obbligo nel 1790. Giuseppe II ave-va concesso, ormai da alcuni anni, di demoli-re le mura del vecchio borgo fortifi cato ed era quindi possibile uscire da Lecco anche nelle ore della notte. Era allora prevosto Benedet-to Volpi, che rimase a San Nicolò dal 1786 al 1803. Fu il primo ad avere il titolo di prevo-sto di Lecco. In precedenza i prevosti aveva-no il titolo di Lecco e Castello proprio per ri-cordare l’articolazione storica in duplice sede della prevostura.

L’avvento della Repubblica Cisalpina recò un grave colpo al capitolo di Lecco, con l’in-cameramento dei beni. Il capitolo scomparve per mancanza quasi totale di mezzi. Le cappe scarlatte, foderate di ermellino, dei canonici, tornarono in San Nicolò centocinquanta anni dopo. Il decreto di ricostituzione del Capitolo reca la data del 13 maggio 1950 e la fi rma del cardinale Schuster.

Il provvedimento dell’arcivescovo di Mila-no dice: “Fin dal tempo di San Carlo, nostro predecessore di santa memoria, a Lecco nel-la chiesa parrocchiale di San Nicolò vescovo, c’era da molti anni un Capitolo di canonici de-stinato al culto e al servizio divino. Capitolo che, sebbene non si possa considerare estin-to poiché ne dura il ricordo nella memoria di molti e se ne vedono tuttora le vestigia, pure per il logorio del tempo e delle umane vicende è assai scaduto dal primitivo splendore.

Ora niente a Noi sta più a cuore di quanto

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può servire allo splendore del divin culto e alla edifi cazione del popolo cristiano.

E poiché i riti di Santa Madre Chiesa catto-lica contribuiscono non poco ad ottenere il du-plice scopo, sia esteriormente col decoro dei riti solenni, espressione esterna dell’interiore signifi cato dei divini misteri, sia con la edifi -cazione che producono nell’animo dei fedeli, cose tutte che per nostra esperienza vedemmo più effi cacemente e più sicuramente ottenute col devoto consesso dei Canonici, abbiamo de-ciso di restituire al primitivo decoro il Capito-lo di Lecco.

A far ciò ci spinge anche il maggior presti-gio che la Santa Sede Romana volle conferi-re ad una chiesa e a una popolazione cristiana tanto benemerita della fede cattolica, dotan-do il tempio di San Nicolò del titolo di Basilica minore romana.

Perciò di nostra autorità, mentre approvia-mo le costituzioni e lo statuto, dichiariamo re-stituito in pristino lo stesso Capitolo con i diritti e i privilegi che riconosciamo ad esso spettanti.

Curino però tutti i Capitolari che ora e in av-venire saranno nominati, di osservare diligen-temente gli statuti, affi nché per loro negligenza il Capitolo non abbia a decadere nuovamente.

E ricordino tutti i Canonici sia effettivi sia onorari che degli onori, diritti e privilegi di cui godono, possono usare solo collegialmente”.

Prima della ricostruzione del Capitolo nel 1950, la chiesa di San Nicolò aveva ottenuto al-tri signifi cativi riconoscimenti. Pio XI, il 3 feb-braio 1923, aveva insignito del titolo di monsi-gnore in perpetuo i prevosti di Lecco. Il primo a benefi ciare di questa onorifi cenza fu il pre-vosto Vismara. Altri prevosti erano stati mon-signori, ma la nomina era riservata alla perso-na in riconoscimento del ministero pastorale, come avvenne per il prevosto Pietro Galli, per quarant’anni a Lecco. Con il decreto papale del 1923 la nomina a prevosto di Lecco comporta automaticamente il titolo di monsignore.

Venti anni dopo, un altro Pontefi ce, Pio XII, elevava alla dignità di Basilica romana mi-nore la prepositurale di San Nicolò. Il provve-

dimento, fi rmato dal Segretario di Stato, car-dinale Luigi Maglione, ricorda che la chiesa di Lecco “è annoverata fi n dal secolo XIII fra le più insigni prepositure dell’Archidiocesi, e an-che ai nostri giorni vi affl uiscono in folla i fede-li dalla città e dai dintorni ad invocare il patro-cinio di San Nicola. La chiesa attuale è prege-vole per costruzione architettonica, per vasti-tà, per opere d’arte specialmente decorative, così che sembra davvero meritare d’essere ar-ricchita dalla Santa Sede di speciali privilegi”. Il decreto reca la data del 22 febbraio 1943, anno quarto del Pontifi cato di Pio XII.

La notizia della prepositurale elevata a ba-silica giunse a mons. Borsieri nel pomeriggio del 4 marzo, tramite una comunicazione del-la Segreteria di Stato della Città del Vatica-no. Vi fu subito un concerto festoso di cam-pane. I lecchesi ricordarono poi l’avvenimen-to con una giornata di preghiera e di ricono-scenza al Pontefi ce il 14 marzo, prima dome-nica di quaresima.

LA RICOSTRUZIONE DEL SEICENTO

Nel 1596 era stato costruito il nuovo batti-stero; poco prima si era fatta anche la sacristia in quella che era la cappella di San Pietro; ma la chiesa “non è abbastanza decorosa, la sua struttura non è elegante”: così diceva il cardi-nal Federico Borromeo che nel 1615 ordinava di chiamare un bravo architetto che desse al-l’edifi cio una forma più bella, costruendo an-che una volta nella navata centrale invece del soffi tto di legno.

Sappiamo che nel 1623 i lavori erano anco-ra in corso, su un disegno di cui non conoscia-mo l’autore; soltanto dopo la peste, però, fra il 1652 e il 1660 si compivano i restauri alla fac-ciata, al campanile, e si costruiva una nuova scalinata. Intanto nel 1617 era fi nita una nuo-va cappella dedicata a San Carlo nella navata sinistra, nel 1622 si iniziava quella della Ma-donna del Rosario, pressappoco dove ingran-dita è ancora oggi. Nell’altra navata, tra le cap-pelle di Sant’Antonio e del Battistero, venne rifatta la scala che scendeva alla contrada di

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Il cardinale Giovanni Colombo consacra il nuovo altare della Basilica il 5 dicembre 1968.

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San Nicolao (l’attuale via Mascari) e ingrandi-ta circa il 1670 la sacristia, con molti arredi di grande valore.

Restava però incompiuta la facciata, che venne affi data con concorso ad Antonio Maria Fontana di Bissone sul lago di Lugano; egli vi lavorò dal 1768 al 1774, procurandole una ve-ste neoclassica, col frontone sorretto da sei se-micolonne corinzie.

L’INGRANDIMENTODELL’ARCHITETTO BOVARA

I lavori del secolo XVII non avevano sostan-zialmente alterato la chiesa antica. Si erano fat-te nuove cappelle, alcune erano state ingrandi-te (specie quella del Rosario, sì che la festa del-la prima domenica d’ottobre era già la princi-pale nel 1672), erano state ricoperte di intona-co pareti e colonne. Ma nel 1824 venne l’idea di un ampliamento o di una chiesa totalmente nuova verso la piazza del Prato (ora piazza Ga-ribaldi), perché l’attuale era insalubre e conte-neva solo due terzi della popolazione che con-tinuava a crescere (mentre nel 1805 il comu-ne di Lecco e cioè Lecco centro e Pescarenico aveva 1.866 abitanti, erano 3.490 nel 1829, cir-ca 4.000 nella parrocchia). Il Bovara, architet-to famoso per le chiese di Valmadrera e Calol-zio, aveva già lavorato per la basilica e nel 1822 aveva sostituito con suo disegno l’altare mag-giore barocco che era stato posto nel 1751.

La prima tavola che ci è rimasta è una fac-ciata datata 1826; nel 1828 il progetto fu di in-grandire le cappelle laterali e aggiungere un vestibolo davanti la facciata. Si doveva lavora-re in economia e poco per volta per non impe-dire le funzioni, ma col 1838 le cappelle era-no fi nite. Nel 1845, dopo avere escluso ancora una volta di erigere una chiesa del tutto nuova, l’architetto disegnò la navata centrale e il vesti-bolo; nel 1853 vennero rimosse le antiche co-lonne e si poté gettare la grande volta a casset-toni larga oltre 14 metri.

Nel 1857 altri disegni ingrandivano la par-te absidale, eseguita entro il 1862 dai capi-mastri Todeschini, che avevano seguito l’ope-ra fi n dal principio: vennero allora costruiti la cupola, il coro e il postcoro; rimasero invece incompiuti i bracci absidali del transetto, che avrebbero dato alla chiesa la forma di croce, ma che avrebbero distrutto anche i resti della chiesa romanica e gli affreschi della cappella oggi del Battistero.

La facciata era rimasta grezza. Nel 1880 l’ingegner Giovanni Maria Stoppani, utilizzan-do un disegno del Bovara, provvedeva a termi-narla (1883).

Intanto nel 1886 l’ingegner Cosmo Pini aveva allargato il sagrato e migliorata la scali-nata in granito, poi restaurata e completata an-cora nel 1928.

LA BASILICA DEL BOVARADal 1811 al 1862 la basilica di San Nico-

lò rappresenta l’impegno pressoché costante, anche se non unico, dell’architetto Giuseppe Bovara.

Tutta la sua vita e la sua attività professiona-le furono legate al grande tempio, che ci stupi-sce a tutt’oggi soprattutto per le sue dimensio-ni, ancorché non straordinarie per quel perio-do di grandi ambizioni da parte delle comuni-tà parrocchiali.

Poco lontano da Lecco, la parrocchia di Val-madrera decide nel 1782 la costruzione di una nuova chiesa, nonostante le non fl oride condi-zioni economiche di una popolazione compo-sta in prevalenza da contadini e fi landieri. A Calolzio nel 1818 iniziano i lavori di un’altra grandiosa struttura, anch’essa, come quella di Valmadrera, progettata dal Bovara.

L’ambizione di chi volle le grandiose di-mensioni della Basilica di San Nicolò non fu, dunque, un’eccezione in quel clima nel quale all’entusiasmo della popolazione, che parteci-pava anche fi sicamente - soprattutto a Valma-

I resti medioevali nella Basilica di San Nicolò.

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drera - ai lavori di costruzione e di trasporto dei materiali, si affi ancavano le preoccupazio-ni dei fabbricieri.

La nomina nel 1826 di don Vittorino Cre-mona, amico del Bovara, a primo fabbriciere diede uno sprone all’architetto affi nché si av-viassero i progetti dell’ampliamento. Un di-segno della facciata, datato 1826, è la prima testimonianza degli studi iniziati allora e che continueranno fi no al 1862.

Nell’ottobre del 1830 viene fi rmata la pe-tizione al Governo per l’allargamento della chiesa, con allegati i disegni e le previsioni di costo. Permarranno tuttavia molti dubbi sul-le dimensioni dell’ampliamento, ritenute tan-to insuffi cienti che nel 1830, a lavori interrotti, i dissensi circa la loro continuazione costringo-no don Cremona a dimettersi dalla Fabbrice-ria. Comunque, i fabbriceri decidono di pre-gare il prevosto affi nché parli alla popolazione a favore dei lavori della chiesa.

Nel manifesto dell’1 settembre 1855, il pre-vosto Antonio Mascari sollecita i parrocchia-ni a portare a compimento la chiesa entro tre anni: i loro sacrifi ci avrebbero contribuito ad arrestare l’epidemia di colera che imperversa-va in tutta la Lombardia, incluso il territorio di Lecco. Con questo intervento si chiude de-fi nitivamente il periodo dei dubbi e il Bovara può procedere al completamento dei progetti per il presbiterio.

IL GRANDE CANTIEREIl progetto defi nitivo del Bovara per l’am-

pliamento viene approvato dalla Deputazione Comunale il 7 gennaio 1846. Nella sua auto-biografi a Mie memorie cominciando dal 1791, d’anni dieci in avanti, il Bovara collega, con un tono non poco ironico, il completamento del-la “gran navata” con gli avvenimenti del 1848. Alla data 19 marzo 1848, sotto il titolo “Rivo-luzione incominciata e fi nita in quattro mesi”, egli scrive: “Le campane annunciano la rivo-luzione di Milano, e il cambiamento di gover-no colla venuta del re Carlo Alberto in Lom-bardia. In quel dì, era appena fi nita la gran na-

vata della nuova chiesa di Lecco, dove in otto giorni feci demolire la vecchia chiesa, ch’era contenuta sotto la gran volta della nuova: vi fu cantato il Tedeum, che quattro mesi dopo ven-ne ripetuto il Tedeum per il ritorno degli au-striaci a Milano”.

Con grande perizia il Bovara aveva previsto di “voltare” la nuova navata centrale, larga più del doppio di quella precedente, sopra la vec-chia chiesa che nel frattempo rimaneva in pie-di e poteva utilizzarsi, sfruttando i vecchi pila-stri come sostegno per le armature.

Il disegno del 1857, sempre realizzato dal Bovara, prevedeva anche un nuovo transet-to con due bracci terminanti ad abside se-micircolare, mai realizzati. Rimarrà per mol-ti decenni questa aspettativa dei “bracci” del-la chiesa, invano sollecitati e la cui idea venne ripresa da una proposta dell’architetto Mino Fiocchi nel 1950.

Il collaudo dei lavori avvenne il 18 marzo 1862, dopo di che non si conoscono ulteriori interventi del Bovara se non la realizzazione del suo disegno di facciata nel 1883.

Nel 1896 viene realizzato il nuovo pavi-mento in marmo in sostituzione di quello preesistente in mattoni. In occasione del Na-tale 1897 la chiesa viene illuminata per la pri-ma volta con lampade a gas. Pochi anni dopo, nel giugno 1903, l’installazione dell’impianto elettrico. Nel 1908 viene costruita la cripta re-cuperando uno dei vani sottostanti le mura. Il progetto è dell’ing. Giulio Amigoni. Gli altri interventi, eseguiti negli ultimi decenni del-l’Ottocento e proseguiti fi no al 1928, riguarda-no soltanto il sistema decorativo dell’edifi cio. Nel 1988 si è proceduto al completo restau-ro del manto di copertura e delle facciate. Nel 1993 inizia il restauro dei dipinti e degli stuc-chi, sia della volta sia delle pareti e della nava-ta, diretto da Giacomo Luzzana.

Particolarmente signifi cative sono le se-guenti considerazioni dell’architetto Bruno Bianchi, dal volume San Nicolò. Storia e arte della Basilica di Lecco.

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Completate le strutture, la Basilica è rima-sta spoglia per circa un decennio e gli inter-venti successivi, durati dal 1815 al 1928 (ben 117 anni!) hanno percorso tutta l’evoluzione (meglio, involuzione) del gusto in questo non breve periodo di tempo: tutti gli interventi se-guiti alla realizzazione delle strutture sembra-no essersi ispirati ad un progressivo e crescen-te horror vacui, per cui nessuna zona, nessu-na parete, nessun arco doveva essere esente da decorazioni a pittura o a stucco né da dorature di un gusto sempre più sconcertante.

Una lettura dell’immagine originaria della Basilica, non disturbata dalle sovrapposizioni e dagli appesantimenti successivi, è a tutt’oggi possibile osservando, ad esempio, la cappella del SS. Sacramento, dove l’assenza delle incro-stazioni che “impreziosiscono” la navata princi-pale consente d’immaginare l’atmosfera com-plessiva del grande vuoto della navata stessa e le ombre discrete delle navate secondarie.

Proprio di fronte a quest’ultima, nella cap-pella della Madonna del Rosario, si riscontra invece il culmine di un’atmosfera di segno op-posto e si possono verifi care i risultati di tardi-vi e non sempre felici interventi tesi anch’essi a impreziosire uno spazio più che suffi ciente-mente valorizzato dal pregevole altare baroc-co e dalla statua dorata della Vergine: sotto le cornici ed i capitelli classici venivano applicati cornici e capitelli pseudo-corinzi, mentre sulle lesene ed intorno agli affreschi si sviluppavano stucchi e decorazioni di gusto decadente.

Sulle pareti laterali sottostanti alla cupola, la paura del vuoto ha fatto sì che si sovrappo-nessero rilievi in stucco appartenenti alle più eclettiche ispirazioni, togliendo ai due grandi affreschi del Morgari (il martirio di Santo Ste-fano e San Nicolò al Concilio di Nicea) buona parte della loro importanza, oltre a disturbar-ne l’effi cacia didattica.

Nella non facile e delicata opera di restau-ro si è tenuto conto di tali rifl essioni e della storia di questa chiesa, onde poter discrimina-re fra gli interventi che, pur appartenendo ad un’epoca e ad una cultura diversa e successi-

va a quella neoclassica, possono essere consi-derati ad essa complementari e quelli che, ori-ginati dalla presunzione e dal cattivo gusto, ne hanno stravolto e violentato l’immagine, risul-tando soprattutto di disturbo alla serena frui-zione dell’ambiente sacro, che deve avere nel raccoglimento e nella partecipazione coscien-te alla liturgia la sua unica ragione d’essere.

IL CAMPANILE NUOVOTerminata la grande chiesa, si comincia a

pensare al campanile. Verrà impostato sul massiccio torrione circolare che affi anca il lato nord della chiesa e già appartenente alla par-rocchia a seguito del lascito testamentario di Giuseppe Bovara sicuri della straordinaria so-lidità dell’antica torre del castello lecchese.

Con la radicale trasformazione e l’amplia-mento del Bovara il rapporto fra la chiesa di San Nicolò e il torrione - da far risalire all’epo-ca degli importanti interventi effettuati sul-le mura del borgo dopo il 1442 - s’inverte. Se fi no ad allora le mura ed il torrione circonda-vano la chiesa su due lati nascondendola ver-so monte, l’intervento del Bovara fa sì che il grande edifi cio soverchi mura e torre mentre il vecchio campanile, con la sua loggia seicen-tesca visibile tutt’ora da via Mascari e via San Nicolò e fi no ad allora emergente, con quello di Santa Marta, in tutte le vedute panorami-che di Lecco, viene inglobato nelle mura peri-metrali della grande fabbrica. Le sue campa-ne non suoneranno più e, rifuse nel 1904, en-treranno a far parte del “concerto” del nuovo campanile. Con la sua costruzione quest’ulti-mo si impone sulla chiesa e sull’intero paesag-gio lecchese, visibile da lago e da monte e co-stituisce uno dei cardini di quella straordina-ria rete di segnali emergenti che caratterizza il territorio: da Lecco al campanile di Malgrate, di Valmadrera e di Galbiate…

Nel 1882 viene posta la prima pietra e nel maggio dello stesso anno s’iniziano i lavori. La muratura verrà realizzata in pietra di Moltrasio lavorata a punta fi ne e trasportata a Lecco con i comballi; le lesene d’angolo saranno in granito

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Alcune immagini del campanile della Basilica (anche della collezione di Valentino Frigerio) e la statua a lago di San Nicolò.

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di San Fedelino e le incorniciature in ghiando-ne. Con diverse interruzioni, nel 1889 si com-pleta una prima parte del manufatto. La secon-da fase di lavori, che giungono fi no alla corni-ce sottostante l’orologio, impegna fi no al 1894. Nel 1902 si riprendono i lavori per concludere la struttura. Nel settembre 1903 viene posata la croce terminale. “Il campanile è felicemen-te terminato - scrive il prevosto Confalonieri nel gennaio 1904 - ma muto; vorremmo noi la-sciarlo a lungo in un silenzio obbrobrioso?”.

Le vecchie campane verranno rifuse dalla ditta Pruneri di Grosio e rivivranno nel nuovo concerto in la maggiore. Un concerto del peso di 8.800 chili. La maggiore, la nona, da sola ne pesa 2.700. Ogni campana ha un nome, a par-tire dalla maggiore: Santissima Trinità, Gesù Redentore, Immacolata, San Giuseppe, Santi Nicolò e Stefano, Santi Giovanni evangelista e Pietro, Santi Ambrogio e Carlo, Santi Antonio da Padova e Francesco d’Assisi e, infi ne, la più piccola dedicata ai giovani Santi Luigi e Agne-se. Le campane vennero benedette, seguen-do l’apposito rituale, il 27 novembre 1904 dal prevosto Confalonieri.

Conclude Bruno Bianchi: “La notte di Na-tale del 1904 le nove campane cominciano a suonare e per la prima volta l’aria si riempie di un suono nuovo, mai sentito fi no ad allora. Il battito lento e profondo della nona doveva aver traversato il cuore di tutti in quella notte unica e fatto aprire tutte le fi nestre e riempi-te tutte le case. Da quella notte di grande festa il concerto che da un campanile all’altro sten-de una maglia sonora sull’intera conca di Lec-co, si completa con le campane di San Nicolò. All’alba e all’Ave Maria della sera si sono aper-te e si sono chiuse per generazioni le lunghe giornate nei campi che ancora separavano la città dai paesi pedemontani e i turni nelle offi -cine buie lungo il Gerenzone e il Caldone”.

NOVANTASEI METRI DI CAMPANILEAl nuovo campanile ha dedicato alcune ri-

ghe anche Angelo Borghi nel libretto La Ba-silica di San Nicolò a Lecco scrivendo: “Già

il Bovara, nel suo testamento del 1867, ave-va donato alla chiesa il torrione di sua proprie-tà, affi nché servisse da campanile; era il cosid-detto Torrione della Chiesa, posto sul circui-to delle mura e probabilmente rafforzato nel 1442, secondo la data di una lapide scoperta nelle vicinanze. Nel 1880 si iniziarono i lavori di consolidamento del torrione; nel 1883 l’in-gegner Enrico Gattinoni (il costruttore delle scuole di via Ghislanzoni e della stazione) die-de il disegno per un campanile grandissimo, la cui costruzione fu però interrotta qualche anno dopo: la città si trovò così per parecchio tempo con un campanile mozzo.

Nel 1900 l’ingegner Giuseppe Ongania di-segnò un altro progetto, ma la fabbriceria pre-ferì chiedere al Gattinoni delle modifi che, per confermare la solidità dell’opera, che pareva dubbia. Venne però infi ne chiamato l’archi-tetto Giovanni Cerutti (1842-1907), già noto per aver costruito vari padiglioni dell’Esposi-zione milanese del 1881, il Museo di storia na-turale di Milano, la cappella Visconti di Cas-sago. Dal 1902 al 1904 egli eresse la cuspide di sapore neogotico, accantonando le idee del Gattinoni.

La grandiosa mole colpisce tuttora, con i suoi 96 metri d’altezza che si raggiungono, in parte, con una scala a chiocciola di 400 gradi-ni. Il campanone pesa circa 30 quintali”.

Ai novantasei metri del campanile ha dedi-cato un capitoletto anche Aloisio Bonfanti in Il vecchio borgo. Una prosa godibilissima, che vale la pena di rileggere.

I lecchesi sono affezionati al campanile del-la Basilica di San Nicolò. La costruzione è una componente tipica del paesaggio cittadino, non meno del lago e dei monti. Una ricompensa al duro lavoro tecnico, artistico, fi nanziario, al quale si sobbarcarono i nostri avi per portare a termine un’aspirazione che era nata al prevo-sto Mascari, intorno al 1860: quella di dotare di un nuovo campanile la prepositurale, un cam-panile alto e lanciato verso il cielo, quasi a testi-moniare ai posteri il grande entusiasmo dei lec-chesi nella sospirata indipendenza nazionale.

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I lavori ebbero inizio con il successore di don Antonio Mascari, il prevosto don Pietro Galli, e furono lunghi e diffi cili. Il 24 gennaio 1873 don Galli, che si era gettato con vivo en-tusiasmo nell’iniziativa, acquistava dai fratel-li Antonio, Giovanni e Bernardo Bertarelli, l’avanzo di un antico torrione, della cinta di-fensiva del borgo, collocato vicino al coro del-la chiesa. Il massiccio avanzo delle fortifi cazio-ni militari doveva servire come solida base per far sorgere la nuova torre campanaria.

Il 18 luglio 1884 il priore della Fabbrice-ria inviava in esame, alla commissione comu-nale di pubblico ornato (noi oggi parleremmo di commissione edilizia) il progetto, redatto dal lecchese ing. Enrico Gattinoni, per otte-nere la debita approvazione prima di dar cor-so ai lavori. Nella seduta del 10 agosto 1884 la commissione esprimeva parere favorevole al progetto sino al cornicione superiore all’oro-logio, mentre per il tratto restante venivano richiesti maggiori dettagli. Il progetto Gatti-noni prevedeva un campanile veramente ar-dito: novantasei metri di altezza, quattrocen-to gradini per arrivare all’ultima terrazza-bel-vedere. Quei novantasei metri sorpresero ed entusiasmarono, nel contempo, i lecchesi che pensarono ad una... meraviglia del mondo sul-le rive del Lario.

Nei pressi della basilica iniziarono ad arri-vare i primi massi di pietra, già squadrati e nu-merati, destinati all’opera. Il lavoro era stato affi dato all’impresa di Martino Todeschini, un capomastro di valore e di esperienza notevoli.

Il campanile iniziò a salire, pietra su pietra, molto lentamente, perché non vi erano i mez-zi attuali. Si lavorava su ponteggi non molto si-curi, con la cazzuola e i secchi di malta, e per portare i massi in alto bisognava affi darsi alla carrucola.

Giunti all’altezza dell’orologio, intorno agli ottanta metri, nel 1894, i lavori furono sospe-si per mancanza di mezzi fi nanziari. Le sotto-scrizioni pubbliche e la pesca di benefi cenza pasquale non erano più suffi cienti a raccoglie-re i fondi necessari. (Nel 1903, uno spettaco-

lo musicale dato dall’Istituto dei Ciechi di Mi-lano raccolse l’incasso record di lire 1889,35). Tra l’altro erano sorti pareri divergenti sul pro-getto Gattinoni nella parte terminale. Alcuni avevano chiesto una modifi ca della cupola, che appariva schiacciata, in senso più snello. Venne così alla ribalta l’arch. Giovanni Ceruti di Milano. L’arch. Ceruti modifi cò il progetto Gattinoni, come possiamo ammirare oggi, con la piramide terminale.

Il 4 maggio 1901 un gruppo di fabbricieri chiedeva al sindaco, Achille Gattinoni, di po-ter proseguire i lavori, secondo la modifi ca Ce-ruti, essendo stati reperiti, con lasciti e sotto-scrizioni, i fondi necessari.

Dopo un suggerimento della Direzione del-l’Uffi cio Regionale per la Conservazione dei Monumenti della Lombardia, il Comune pre-tese un ulteriore controllo (il primo era stato fatto nel 1884) alle condizioni del terreno cir-costante la base del campanile, e una verifi ca alla solidità del torrione rotondo che reggeva tutto il carico della costruzione. Con lettera del 3 aprile 1902 il direttore dell’Uffi cio Regiona-le per la Conservazione dei Monumenti, arch. Gaetano Moretti, esprimeva il suo compiaci-mento per il progetto Ceruti, solo avvertendo che “allo scopo di non ingenerare equivoco in coloro che s’interessano di memorie cittadi-ne, sopprimerei la merlatura con la quale l’ing. Ceruti ha decorato la sommità dell’antico tor-rione”. Il consiglio venne subito accolto.

I lavori ripresero con ritmo intenso; il cam-panile si andava completando anche se don Galli, ricordato come il prevostone per i suoi modi energici di buon brianzolo di Annone e la sua robusta corporatura, non vide l’opera ulti-mata perché scomparve nel gennaio del 1902.

Nell’autunno del 1904 i lavori erano ormai completati e vennero sistemate le nuove cam-pane per un peso totale di novantasei quinta-li. Fu un’impresa portarle nella cella campa-naria, in modo particolare il campanone con i suoi ventotto quintali.

Nel luglio del 1903 il Consiglio Comuna-le aveva deliberato l’acquisto dell’orologio per

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I due grandi affreschi di Santo Stefano e San Nicola nella navata della Basilica e il grande affresco della Madonna del Rosario nella cupola.

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il campanile della prepositurale. Vi furono poi confl itti di competenza, per la cura del medesi-mo, fra autorità civile ed ecclesiastica. La manu-tenzione dell’orologio si rivelò infatti più com-plessa del previsto: con il vento, ad esempio, il quadrante verso nord iniziava a camminare, e non poche volte a correre, per conto proprio.

L’inaugurazione del campanile avvenne la notte dal 24 al 25 dicembre 1904, la notte di Natale, con i cittadini in trepida attesa della fe-stosa eco dei sacri bronzi.

Per diversi decenni i ragazzi che sostavano sul sagrato della basilica, quelli che affollava-no i cortili dell’oratorio San Luigi, gli accoliti della prepositurale, fecero a gara per entrare nel torrione visconteo e dar vita al concerto di campane in occasione di solennità liturgiche e di cerimonie religiose.

Ora funziona un impianto elettronico e le campane suonano senza bisogno di appender-si alle corde: basta premere un pulsante. Qual-cuno scuote la testa e dice che lo scampanio non è più quello di una volta.

Il completamento della serie dei grandi interventi strutturali, qui evocata anche con gli scritti di Bruno Bianchi, Aloisio Bonfanti e Angelo Borghi, si completa nel 1930 con la consacrazione della Basilica di San Nicolò da parte del cardinale Alfredo Ildefonso Schu-ster. Ne dava notizia, ai lecchesi ma non solo a loro visto che la notizia uscì sul quotidiano milanese L’Italia, Uberto Pozzoli, il 30 agosto 1930. Irripetibile, quella paginetta, anche per la capacità di riassumere, in poche righe, le vi-cende ormai plurisecolari della prepositurale della città di Lecco.

“E la chiesa che l’Arcivescovo consacrerà lunedì? Due parole bisogna pur dirle anche di quella.

Nessuno fi nora è riuscito a sapere a quale epoca risalga nella sua prima, diciamo così, edi-zione la chiesa di San Nicolò di Lecco. Si sa che al principio del 1300 esisteva; e forse fu allora costruita, dopo il gran fuoco acceso su Lecco da quel Matteo Visconti che, per insegnare alla

gente di qui a non giocargli un’altra volta brut-ti tiri, bruciò anche l’impossibile e fece spar-ger sale sulle rovine fumanti, perché morissero persin le radici delle case. O la chiesa esisteva anche prima dell’incendio? Vattelapesca!

Fatto sta che da San Nicolò o da Santo Ste-fano - dove sembra avesse sede la pieve nei pri-mi secoli cristiani - il prevosto si salvò dal rogo fuggendo a Castello, dove portò la sua abita-zione e la sede del Capitolo. Nel 1535 la chie-setta di San Nicolò era ridotta tanto male che si dovette ricorrere a Francesco Sforza, perché la facesse rifabbricare, mettendo questo favore coi privilegi già concessi ai lecchesi per la loro fedeltà nella babilonia delle successioni nel du-cato di Milano. Alla fi ne del ’500 la chiesa era affi data a un canonico, che si fi rmava vicecu-rato; e si sa di certo che verso il 1570 essa ave-va un portico e una scala, poiché appunto lì il prevosto Ratazio - vicario del rev. Padre Inqui-sitore - si vide un brutto giorno brillare innan-zi la lama lucente di un coltello. San Carlo fece poi ai lecchesi il gran regalo di restituire loro la prepositura, togliendola a quei di Castello, che cominciarono allora ad esser talvolta di malu-more; e certo a quel tempo la chiesetta - diven-tata sede del prevosto - fu di nuovo ritoccata.

Dal Seicento assai poco ci è giunto di im-portante. Si conoscono i titoli delle cappella-nie e degli altari: nient’altro per ora. Nel 1747 il Card. Pozzobonelli la trovò senza pavimento e con la facciata cadente. Cent’anni fa il pre-vosto Mascari prese il coraggio a due mani, e decise che dov’era il coro lì dovesse in breve tempo arrivare la metà del tempio. Si lavorò per trent’anni, sotto la guida dell’arch. Bovara; poi si lasciò la gran chiesa incompleta. Il pre-vosto Galli fece aggiungere l’atrio: allora sem-brava troppo ardita l’idea dei due bracci late-rali. Mons. Vismara, che amava la sua chiesa, la fece costruire d’oro e di colori: l’opera sua fi nì quasi coi suoi giorni.

Da domani, consacrata dall’Eminentissi-mo Cardinale Arcivescovo, la prepositurale di Lecco attenderà che le si restituisca la dignità che il ciclone napoleonico le tolse”.

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SISTEMAZIONI RECENTIDel compimento della basilica secondo

il progetto Bovara non si parlò più per lun-go tempo. Intorno al 1940 sia l’ingegner Giu-lio Amigoni sia l’architetto Mino Fiocchi pre-sentarono proposte di migliorie e nel 1950 ri-comparve per l’ultima volta l’idea di costruire il transetto.

Frattanto si era proceduto alla decorazio-ne della chiesa, che nel 1930 fu consacrata dal cardinale Ildefonso Schuster, come si legge nella lapide posta in chiesa fra l’ingresso late-rale e la cappella dell’Eucaristia.

Negli anni 1960-1968 numerosi adattamen-ti alle esigenze nate col Concilio sono state compiute ad opera dell’architetto Bruno Bian-chi, specialmente nella parte presbiteriale, col nuovo altar maggiore.

LA FACCIATA E IL VESTIBOLOL’accesso principale avviene dalla grande

scalinata in granito, la cui sistemazione, avviata nel 1928, si deve all’ingegner Giulio Amigoni.

Davanti alla facciata, il sagrato rappresenta lo spazio dell’antico cimitero di San Nicolò che già nel XVI secolo attorniava la chiesa, sotto le cui scale e i cui pavimenti si usava ugualmente seppellire: questo cimitero fu riordinato e be-nedetto nel 1756, ma pochi decenni dopo, nel 1804, venne aperto quello di San Giacomo e nel 1810 quello della Bergamina, che è poi an-cora l’attuale cimitero monumentale, natural-mente trasformato e ingrandito.

La basilica si presenta come un organismo grandioso, lungo oltre 80 metri e largo quasi 30, ma composito e senza un disegno unitario. Ciò dipende in particolare dal fatto che l’ar-chitetto Bovara dovette costruire poco alla vol-ta e non ebbe la possibilità di terminare i suoi progetti. Per di più egli si lasciò prendere dal gigantismo proprio all’ultimo periodo neoclas-sico, proponendo così una costruzione costosa e poco adatta né alla sobrietà delle tradizioni locali, né ai nuovi tempi.

La facciata del vestibolo, che precede il vero corpo della chiesa, è di stile ionico, costruita

nel 1881-1883, restaurata nel 1955. Vi risalta-no le tre porte di bronzo, realizzate nel 1975 dallo scultore Enrico Manfrini, allievo di Fran-cesco Messina, e volute dalla Banca Popolare a ricordo del suo presidente, come dice una epi-grafe incisa all’interno della porta centrale.

Sulla tazza o cupola del vestibolo, che è sta-to innalzato nel 1848, il pittore torinese Lui-gi Morgari (1857-1935) ha dipinto nel 1927 il trionfo di Cristo su tutti i popoli della terra.

Sulla controfacciata, una completa canto-ria di legno dorato contiene il vecchio orga-no, prezioso strumento costruito utilizzan-do parte di un precedente dei famosi Seras-si, da Giuseppe Bernasconi varesino nel 1860; è stato restaurato nel 1967. Fin dal XVI secolo la chiesa aveva un organo e un organista. Alla fi ne del XIX secolo si diede vita alla banda di San Giuseppe, nel 1903 iniziò il gruppo corale della Cappella Leonina. Tra gli organisti, me-rita di essere ricordato come valente composi-tore Giuseppe Zelioli (1880-1949), che vinse nel 1904 il concorso per la chiesa di Lecco e vi restò fi no alla morte.

LE DECORAZIONI DELLE NAVATEL’interno della basilica si presenta fasto-

so, sia nella veste classica della navata centra-le, sorretta da pilastroni corinzi, sia nell’oro zecchino che nel 1927 ha coperto i 126 ro-soni. Fra le semicolonne delle prime campa-te, Casimiro Radice (1834-1908), buon ritrat-tista, ha affrescato in 10 riquadri alcune sce-ne evangeliche. Il Radice, e dal 1879 Giovan-ni Valtorta (1811-1882), sono gli autori anche dei 40 tondi con le effi gi dei santi vescovi del-la diocesi milanese.

Dal 1925 al 1927 il pittore Morgari fu im-pegnato nei lavori della basilica; dapprima de-corò la grande cupola con l’apoteosi della Ma-donna del Rosario e la battaglia vinta nel 1571 a Lepanto dalla fl otta cristiana protetta dalla Vergine contro quella turca; sulle pareti sotto-stanti dipinse la predicazione di Santo Stefano e il miracolo simbolico della Trinità compiuto da San Nicolò al Concilio di Nicea.

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Nelle cupolette delle navate laterali affre-scò quindi otto fatti della vita di Cristo.

Altri fregi decorativi corrono lungo le pare-ti del presbiterio, in buona parte dovuti all’ar-tista valsassinese Luigi Tagliaferri; fra l’altro i dottori della Chiesa, San Bonaventura e San Tommaso a sinistra, San Bernardo e San Carlo a destra. Gli evangelisti e le tavole della legge mosaica sono scolpiti sul pulpito ligneo, opera del tardo Ottocento.

La Via Crucis della basilica è formata da 14 pannelli di bronzo, creati ancora dal Manfri-ni negli anni 1968-1969, e sostituisce i quadri ad olio dipinti nel 1852 da Antonio Dassi. La grande vetrata ad arco fu posta nel 1923, come si legge nel tondo sottostante.

IL PRESBITERIOE L’ALTAR MAGGIORE

L’architetto Bruno Bianchi nel 1968 ha ra-dicalmente modifi cato il presbiterio. Rimossa l’antica balaustra, è stato posto un altare in un solo blocco di marmo di Carrara di 30 quintali e a lato un sobrio ambone o leggio. Nello sfon-do è rimasto il vecchio altare di marmo, posto nel 1910 ad imitazione di quello disegnato da Andrea Appiani pel duomo di Monza: di sa-pore classico, ha dei bellissimi angeli, cesella-ti, insieme col tabernacolo, da Angelo Ronchi; vi era stato sovrapposto un tempietto di ges-so, ora tolto.

La mensa porta un paliotto in bronzo di due quintali, donato dal prevosto Galli nel 1892. Lo scultore Eugenio Bellosio (1847-1927) vi ha raffi gurato l’ultima cena di Leonardo.

Sotto l’altare si apre una cripta predisposta nel 1911 e riattata ancora dall’architetto Bian-chi. Utilizza una parte di antichi sotterranei.

LA SEQUENZA DELLE CAPPELLEAll’ingresso della Basilica, sul lato sinistro

del vestibolo, è collocata la statua raffi guran-te San Pietro, in legno dipinto a imitazione del bronzo. Si tratta di una copia, del primo Nove-cento, della statua in bronzo del Duecento nella Basilica di San Pietro in Roma. Dopo la statua

è collocata la vasca circolare di marmo bian-co, sulla cui superfi cie sono scolpiti a rilievo i simboli degli Evangelisti, ciascuno con il libro su cui è segnato il proprio nome: SIOHS (San-ctus Iohannes) l’aquila, SMAR (Sanctus Mar-cus) il leone, SLUCAS (Sanctus Lucas) il toro, SM (Sanctus Matheus) l’angelo. La bella vasca, alta cm 25 e del diametro di cm 79, appartiene al principio del XII secolo ed è quindi contem-poranea alla ricostruzione romanica della chie-sa di San Nicolò. Secondo vecchie tradizioni, questa scultura sarebbe però un avanzo della distrutta chiesa di Santo Stefano, convertita in casa colonica circa il 1790.

Comincia quindi, con quella di San Carlo, la sequenza delle cappelle. Nella prima si tro-va un bell’olio su tela di inizio Seicento raffi -gurante San Carlo in adorazione del Cristo de-funto. Fanno parte dell’arredo di questa cap-pella anche la scultura del Bambino Gesù be-nedicente e le sculture lignee di Sant’Antonio e di Sant’Anna con la Vergine bambina. Secon-do Oleg Zastrow questa scultura, della secon-da metà del Cinquecento, raffi gura la Madon-na con il piccolo Gesù.

Nella successiva cappella dei Santi, assieme ad una tavola raffi gurante San Rocco e all’ur-na con le spoglie di Santa Aurelia martire, sono le statue di Sant’Antonio da Padova, Sant’Anto-nio abate, San Giuda Taddeo, Santa Rita e San Francesco d’Assisi.

La terza cappella è dedicata al patrono San Nicolò. Sull’altare è collocata la statua lignea del santo vescovo donata alla Basilica dal pre-vosto Borsieri nel 1937, l’anno in cui prese av-vio la festa del lago. A fi anco dell’altare si trova il tintinnabolo, sorta di ombrellone giallo rosso che signifi ca il riconoscimento di basilica roma-na minore avuto nel 1943. Negli anni Quaran-ta e Cinquanta del secolo scorso, nelle solenni processioni del dopoguerra, il tintinnabolo ven-ne portato alcune volte e precedeva il clero.

Nella quarta cappella, posta proprio di fron-te all’ingresso laterale della Basilica, è colloca-to il Crocefi sso di inizio Cinquecento, straordi-naria opera in legno intagliato, policromato e

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Nel 1963 per decisione del prevosto mons. Enrico Assi venne portata in processione, da Santa Marta alla Basilica, l’antica statua della Madonna (anche nelle pagine seguenti).

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dorato. Ai lati le statue lignee, ottocentesche, della Madonna Addolorata e di San Giovanni. L’altare custodisce l’urna con le spoglie di San-t’Eufrasio, martire, provenienti dalle catacom-be di San Callisto in Roma. Il corpo del san-to martire, già nel monastero di San Paolo e poi nel collegio di Sant’Alessandro, entrambi in Milano, giunse a Lecco nel giugno 1811 e ven-ne posto nella chiesa di Pescarenico da dove, il 14 luglio, mosse la solenne processione verso la basilica prepositurale di Lecco. Cento anni dopo, nel 1911, su iniziativa del prevosto Vi-smara avvenne la ricomposizione con ricogni-zione uffi ciale del corpo del santo, come testi-moniato dalla relazione del dottor Alessandro Colombo, fi gura di spicco del mondo cattolico, genitore di una numerosa famiglia residente in via Mascari che vede tuttora vivente il cono-sciutissimo maestro Giuseppe Colombo, ultra-novantenne. Mancano quindi tre anni ai due secoli di presenza a Lecco del corpo del mar-tire. La festa in onore di Sant’Eufrasio, nella seconda domenica di luglio, ha visto sino agli anni Sessanta del Novecento una processione pomeridiana all’interno della basilica con l’ur-na del santo portata dai confratelli del Santissi-mo Sacramento, ancora con l’abito dalla bianca tunica e dalla mantellina rossa.

La successiva è la barocca cappella del Ro-sario. Rinnovata nel 1837, vi venne posta una nuova statua della Vergine col Bambino, di grandezza quasi naturale e ricoperta da una la-mina d’oro cesellata. L’altare è invece lo stesso costruito nel 1746 in marmi rossi e neri, di gu-sto barocco. Nel giorno di Sant’Anna, si usava porre sull’altare un grande quadro raffi gurante Sant’Anna che insegna a leggere a Maria: è una preziosa tela di Carlo Francesco Nuvoloni det-to Panfi lo (1608-1665). Gli affreschi della cap-pella appartengono al pittore lecchese Pio Pizzi (1880-1959), fratello di un altro conosciuto arti-sta, Luigi. Li dipinse circa il 1911. Di fronte, sul lato destro della Basilica, è la cappella del San-tissimo (già di San Carlo e San Nicolò).

Completa la serie delle cappelle quella neo-classica di San Giuseppe con le sculture lignee

di San Giuseppe con in braccio il Bambino e, più antiche, dei Santi Rocco e Sebastiano. Se-condo Oleg Zastrow queste ultime due statue facevano parte di un altare cinquecentesco as-sieme alla Madonna con il Bambino della pri-ma cappella. Nella cappella è affrescato anche il transito del santo.

Alla sequenza delle cappelle segue la sagre-stia nuova. Sulla parete della navata è appeso il quadro del Beato Pagano da Lecco, domenica-no e padre inquisitore, ucciso nel 1277 (come si legge anche in altra lapide posta all’esterno della Basilica nel 1904) dai sicari del signorot-to Corrado Venosta in Valtellina. È un quadro del XVII secolo, restaurato da Luigi Pizzi. Una scritta dice: “B. Pagano da Lecco che fu ucciso dagli eretici l’anno 1277”.

Sul lato destro, alla già citata cappella del-l’Eucarestia segue la cappella del Battistero, l’antica e già descritta cappella di Sant’Antonio abate nella quale, oltre agli importanti affre-schi, si deve segnalare il fonte battesimale, scol-pito nel 1596. La vasca è in marmo di Varenna, scolpita a petali, le cui volute di sostegno sono in parte formate da zampe leonine di bronzo. La copertura è in forma di tempietto ottagona-le alto metri 2,20, in legno di noce scolpito e di-pinto. Nelle nicchie dei due piani stanno alcu-ne statuine dei patroni delle chiese lecchesi: 5 nel primo piano, tra cui il Redentore tra i San-ti Pietro e Paolo; 6 nel secondo, tra cui San Ni-colò, Sant’Andrea, Santa Caterina. La cupoletta a scaglie termina con una lanterna e la statuet-ta dorata del Battista. Il fonte è dunque un bel-l’esempio di arte del maturo Rinascimento.

LA PORTA LATERALEL’architetto Bovara ricostruì poco più ar-

retrata la scalinata e la porta già aperta alla metà del Seicento. Sotto il breve portico sono murate due lapidi in marmo nero collocate nell’anno 1600. La prima, a sinistra, tradotta dice: “Dio Ottimo e Grandissimo. I lecchesi vessati dalla guerra e dalla carestia fecero voto di celebrare la festa di San Giuseppe e di re-citare ogni giorno cinque orazioni dominicali

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(Pater) e saluti angelici (Ave Maria) e infatti, mentre celebravano i sacri riti il quarto gior-no delle calende di aprile dell’anno 1528 furo-no liberati dall’assedio. Così pure affl itti dal-la peste, nel giorno di Santa Caterina fecero voto di voler santifi care le vigilie della Conce-zione della Beatissima Vergine Maria, di San Rocco, Sebastiano e Caterina, e confermando il vecchio voto a San Giuseppe, la peste cessò e li lasciò liberi il quarto giorno delle calende di aprile 1581. Nell’anno del santissimo giubi-leo 1600”.

L’altra lapide, che un tempo era posta sul piastrone del pulpito della vecchia prepositu-rale, dice: “Dio Ottimo e Grandissimo. Poiché, per allontanare le grandinate da cui da lungo tempo era infestata la campagna lecchese, data la apostolica benedizione, con i voti di tutti in pubblica assemblea il giorno 9 maggio 1599 fu stabilito di celebrare solennemente e in per-petuo la festa del serafi co San Francesco, e fu consacrato e dedicato il tempio dei Cappucci-ni, i medesimi lecchesi pensando ai posteri po-sero questo pubblico ricordo, il primo luglio dell’anno del santissimo giubileo 1600”.

LA SACRESTIA VECCHIAO PENITENZIERIA

La sacrestia ottocentesca è stata restaura-ta nel 1967 su progetto di Bruno Bianchi ed è utilizzata come penitenzieria, cioè per la con-fessione.

Domina in essa sulla parete ad oriente un grandioso armadio-confessionale di noce scol-pito e intagliato; la lunghezza è di metri 6,30 e l’altezza di 4,75. Il corpo centrale è diviso in cinque scomparti da sei colonnine tortili sulle quali poggiano degli angeli che sorreggono la trabeazione. Alle estremità vi sono due avan-corpi per confessionale, coronati da angeli se-duti con cartigli in mano. L’armadio venne qui portato nel 1832 dalla precedente sacrestia ed era stato costruito poco dopo il 1673: lo aveva ammirato nella sua visita del 1746 il cardinale Pozzobonelli. Quella bella opera barocca è ge-neralmente attribuita alla bottega degli inta-

gliatori bergamaschi Fantoni, e può essere di Grazioso (1630-1693).

LA SACRESTIA NUOVALa razionale sacrestia aquilonare, cioè po-

sta a nord, è dovuta ancora a Bruno Bianchi ed è del 1962. Pezzo scultoreo d’eccezione è il nervoso Crocefi sso da tavolo, che si deve attri-buire ad Andrea Fantoni, maestro dell’arte li-gnea secentesca (1659-1734).

In una particolare custodia si trova la gran-de Croce capitolare in argento, cesellata da Armando Grisoni nel 1955 e dono del prevo-sto Borsieri: segue la tradizione dell’orefi ceria comasca del Cinquecento.

Da ricordare anche il baldacchino grande comperato nel 1887 e lo stendardo della Con-fraternita del Santissimo Sacramento ricama-to nel 1833 e oggi appeso ai lati dell’altare. Gli altri stendardi delle confraternite sono ora ap-pesi in quadri nella chiesa di Santa Marta.

LE PORTE DELLA MISERICORDIAE DEI SANTI PATRONI

Le porte di bronzo dello scultore Enrico Manfrini - autore anche della statua bronzea di Papa Giovanni XXIII che domina la scali-nata del Santuario della Madonna del Bosco a Imbersago - quella centrale e le due latera-li minori che la Banca Popolare di Lecco ha voluto dedicare alla memoria del suo presi-dente Mario Bellemo, non sono soltanto in-signi opere d’arte che completano e abbelli-scono la facciata della Basilica di San Nicolò, ma sono documenti signifi cativi che, sottoli-neò nel 1975 l’allora prevosto di Lecco mons. Enrico Assi, “trasmettono ai nostri giorni, e trasmetteranno ai futuri, il più alto e benefi co messaggio di speranza: quello evangelico del-la misericordia”.

La porta laterale sinistra - la porta dei Papi - raffi gura i due grandi Pontefi ci del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII e Paolo VI, pasto-ri della Chiesa in un momento storico dram-matico ed eccezionale, portatori nel mondo, attraverso la testimonianza della bontà e della

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verità, di una grande speranza di rinnovamen-to e di pace.

La porta laterale destra - la porta dei Pa-troni - rappresenta i santi che legano la storia delle origini cristiane della nostra città alla sto-ria più recente del suo sviluppo: Santo Stefa-no, il primo martire della Chiesa, e San Nico-lò, vescovo e popolare taumaturgo. “Due Santi - sono sempre parole di mons. Assi - due mo-menti diversi di un’unica fede, di una medesi-ma speranza, di un’identica carità”.

Ma è nella porta centrale che l’artista pro-clama l’annuncio fondamentale della sua ope-ra: la storia della salvezza è storia di misericor-dia. Lo scultore traduce plasticamente que-sta idea grandiosa attraverso l’armonia dei rit-mi compositivi, la dolcezza e la nitidezza degli episodi evangelici scelti per la loro densità di signifi cato, soprattutto attraverso la centralità delle fi gure del Cristo e della Vergine che dan-no la più alta unità espressiva a tutti i momenti del piano generale.

L‘artista ha svolto il tema in modo dinami-co, come una storia: la storia di Cristo, dei suoi gesti, del suo insegnamento, che sono gesti e insegnamenti di misericordia. Questa storia ha inizio nei grandi misteri che aprono la vita di Cristo: l’Annuncio a Maria, la Nascita, l’Epi-fania, il Battesimo. Altri gesti ce lo rivelano: istruisce di notte Nicodemo, insegna alle folle sul monte delle beatitudini, chiama e converte Zaccheo, consola la vedova di Naim. Ancora: Gesù moltiplica i pani, cambia l’acqua in vino, adombra l’amore nella parabola del padre che accoglie e riveste il fi glio prodigo e la carità nel samaritano che si china sul ferito, lo cura e lo affi da all’albergatore.

Ma il poema della misericordia tocca il suo vertice nei quattro misteri che chiudono la vita di Cristo e danno inizio alla sua presenza nella storia: l’Ultima Cena supremo gesto di miseri-cordia con Cristo che dona se stesso nell’Euca-restia; la Croce dove consuma il suo sacrifi cio per dare una vita nuova agli uomini; la Resur-rezione che ci dà la certezza che egli vince la morte e il peccato; la Pentecoste con l’effusio-

ne dello Spirito Santo che anima e costruisce la Chiesa come umanità riconciliata in Cristo e riconciliatrice con il mondo, per tutto l’arco della storia, fi no all’ultimo giorno.

“A chi sale al tempio, carico di tensioni e di speranze - sottolineava monsignor Enrico Assi in occasione dell’inaugurazione il 19 marzo 1975 - la porta ricorderà che ad attenderlo c’è il Dio delle misericordie; a chi lascia il tempio la porta ricorderà che il cristiano non esauri-sce la sua vocazione con le opere del culto, ma la invera con le opere di misericordia, contri-buendo, nell’era della scienza e della tecnica, a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia”.

❊ ❊ ❊

Il patrono di Lecco, si sa, è il Vescovo di Mira San Nicola (festa il 6 di dicembre), e il compatrono è il protomartire Santo Stefano (si brucia il pallone, secondo la tradizione am-brosiana, il 26 di dicembre). La festa di Lecco per antonomasia, però, cade la prima dome-nica d’ottobre, ed è celebrata in onore della Madonna del Rosario. Uberto Pozzoli nei suoi Frammenti di vita lecchese spiega che in ori-gine l’autunnale festa del Rosario era un mo-mento - un momento centrale - della vita del-la Confraternita del Santissimo Sacramen-to e della Carità cristiana, eretta nel borgo il 26 aprile 1795, erede forse della preesistente Confraternita del Santissimo Sacramento fon-data da San Carlo Borromeo.

Non si sa come diventasse l’appuntamen-to religioso più solenne dei lecchesi, attorno alla statua della Vergine con il Bambino vene-rata nella prepositurale (tre volte a loro si unì l’ora Beato arcivescovo Andrea Carlo Ferrari), e quindi la “Festa di Lecco” che ebbe, sul fi ni-re dell’Ottocento, il contorno di regate sul lago e il corollario di una fi era del bestiame.

Notava malinconicamente il Pozzoli rife-rendo che dopo la grande guerra erano torna-te le processioni (il suo scritto è del 1924): “La festa di Lecco ha ripreso; non è più però la fe-

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sta del borgo che si commuove e con fervore si prepara a un giorno d’esultanza; è la festa del-la città che, in tutt’altre faccende affaccendata, più non bada alla poetica bellezza delle feste cristiane e ascolta con indifferenza la voce giu-liva delle campane che squillano per otto gior-ni a ricordare la fede degli antichi”.

Fosse stato ancora sulla scena di questo mondo, nell’Anno Mariano (7 giugno 1987 - 15 agosto 1988) avrebbe potuto consolare il suo animo buono scoprendo che quella fede si sta riaccendendo. Proprio in coincidenza con l’Anno Mariano, infatti, avrebbe potuto vede-re - oltre la ricca cornice delle manifestazioni civili - una Festa di Lecco ricaricata dei valori d’un tempo dalla partecipazione di un popolo che li sa ancora condividere e vivere.

In quell’anno il simulacro settecentesco della Madonna del Rosario della Basilica di San Nicolò venne esposto nell’Istituto “Ales-sandro Manzoni” di via Amendola, la casa lec-chese dei Servi della Carità, i fi gli del Beato Luigi Guanella: il centenario della sua opera è stato ricordato a Lecco con questa presen-za mariana. E la sera di sabato 3 ottobre 1987, vigilia della Festa di Lecco, il vescovo Renato Corti, vicario generale della Diocesi milanese, dettò alcune rifl essioni mariane alla rappresen-tanza della gente lecchese riunita in preghie-ra davanti alla Vergine del Rosario nell’Istituto guanelliano. Al suo fi anco il prevosto di Lecco, mons. Ferruccio Dugnani, e il vicario generale dei Servi della Carità, don Nino Minetti.

L’indomani, prima domenica di ottobre, la Madonna con il Bambino - incoronati del dia-dema regale che fu loro imposto dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster il 10 febbrario del 1946, durante una imponente cerimonia rievo-cata da Aloisio Bonfanti in Da Santo Stefano a

San Nicola, alla quale intervennero i Vescovi di Como e di Casale Monferrato, mons. Macchi e mons. Angrisani (si riparava così a un furto sa-crilego consumato nel 1944) - è stata riportata processionalmente al suo altare, in San Nicolò.

La tradizione ripristinata, certamente me-ritevole di essere resa sempre più amata e se-guita, ha avuto dei precedenti molto lontani nel tempo, che si collegano alla cinquecente-sca statua della Madonna del Rosario ora con-servata nella chiesetta di Santa Marta in via Mascari. Ancora Aloisio Bonfanti, nel suo im-portante saggio tra le memorie della Pieve di Lecco, ricorda che essa fu incoronata nel 1624 (quattro anni prima dell’incontro di don Abbondio con i bravi di don Rodrigo narra-to dal Manzoni), essendo prevosto Giovanni Stefano Bossi, fra gli spari di festa della guar-nigione spagnola, e che fu rivestita di “una ve-ste di brocato con li ricami d’oro superbissi-mi” donata da Anna Peralta, consorte del go-vernatore Francesco Mendozza. Riferisce al-tresì di processioni che con quel simulacro si tennero nel 1629 e nel 1763, ma anche nel 1963 dopo che era stato sottoposto a restauri, nei festeggiamenti per l’ingresso del prevosto Enrico Assi.

Il carattere cittadino della festa di Lecco è testimoniato dalla presenza, a lato dell’altar maggiore della Basilica di San Nicolò, durante la solenne celebrazione della messa in onore della Vergine, del gonfalone della città. Esso sembra collegarsi idealmente con il grande stendardo appartenuto alla Confraternita del Santissimo Sacramento, che si vede sulla pare-te a fi anco dell’altare dov’è stato esposto per-manentemente perché la Confraternita più non esiste. Vi è raffi gurata proprio la Madonna del Rosario, fra San Domenico e San Carlo.

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San Carlo in adorazione del Cristo defunto, olio su tela del primo Seicento.

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SANTA MARTA

La festa di Santa Marta: questo il titolo di un articolo di Uberto Pozzoli pubblicato sul quotidiano L’Italia di Milano e poi ripreso, in sede locale, dal mensile All’ombra del Resego-ne (agosto 1929) ma non in Frammenti di vita lecchese, la raccolta di scritti del Pozzoli cura-ta dall’amico Aristide Gilardi e pubblicata nel 1932, due anni dopo la sua morte.

I “MICHINI”Anche quest’anno, per Santa Marta, gli an-

ziani della Confraternita del SS. Sacramento hanno piantato il banco dei “michini” sotto il portico dell’antica chiesetta di San Calimero; chiesetta che quantunque venga chiamata col nome della sollecita sorella di Lazzaro, è tut-tora dedicata al santo vescovo milanese fi nito in un pozzo, col capo all’ingiù, per aver esorta-to alcuni sacerdoti pagani a desistere dal bru-ciare incenso ad Apollo. Ed ancora una volta si sono visti i ragazzi delle contrade più antiche della città alle prese coi vecchi e tenacissimi confratelli, che perderebbero la testa se do-mani si proibisse loro di vendere, nel giorno della festa di Santa Marta, i “michini”: minu-scoli panini di farina non lievitata, che portano impressa l’immagine della santa, e sono, per un giorno, la leccornia dei ragazzi, mentre per le nostre mamme erano il rimedio più effi cace contro il mal di ventre.

La tradizione dei “michini” è antichissima ed è legata al ricordo di una potente scola dei disciplini di Santa Marta, che contava parec-chi secoli di vita quando nel 1786 Giuseppe

II la soppresse con le altre due confraternite esistenti nel borgo di Lecco. In origine i “mi-chini” venivano distribuiti gratuitamente nella chiesetta di San Calimero, che era appunto in possesso dei disciplinati. Nel pomeriggio della festa di Santa Marta, dopo i vesperi, due sco-lari lasciavano il coro, scendevano in chiesa e davano “michini” a tutti i fi gli, in esecuzione di un legato di cui si è perduta la memoria; poi, cantate le litanie dei santi, un segno di campana annunziava l’inizio della distribuzio-ne del pane e del vino, disposta da un altro legante. Il priore raccomandava i benefatto-ri alle preghiere dei benefi cati; ma i ragazzi sgranocchiavano già i “michini” e ci sarà vo-luta tutta l’autorità e qualche scuffi otto delle buone mamme antiche perché i birichini at-taccassero il panem nostrum e giungessero, a bocca piena, fi no all’amen del Pater.

Soppressa la scola l’usanza fu raccolta dalla confraternita del SS. Sacramento, istituita nel 1795: ma da allora i “michini” si dovettero pa-gare, perché i beni della scola erano passati alla Fabbrica della prepositurale e coi proventi si celebravan le Messe festive nella chiesetta, sal-vo soltanto il frutto di due lire e quindici soldi che maturava su di una certa somma lasciata dal disciplino Francesco Vitario perché il 31 lu-glio, festa di San Calimero, il prevosto celebras-se la messa e recitasse privatamente l’uffi cio da morto in suffragio dell’anima del legante.

Si dovettero quindi pagare, i “michini”; e prima i confratelli ne diedero un cartoccio per una palanca, poi ci vollero due soldi, poi

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diventò piccolo il cartoccio, e quest’anno con cinquanta centesimi non si comperavan due dozzine di “michini”. Come si fa ad andare in-nanzi con questo carovita?

LE CAMPANELa gente si lagna, ma non sa che i confra-

telli devono pagare, col provento dei “michi-ni”, le spese della festa di Santa Marta! Una festa che, anche ridotta ai minimi termini, costa sempre qualche cosa. Bisogna tirare le “sandaline”, mettere in ordine la chiesetta ed accender fi or di cera: e poi c’è il triduo di pre-parazione, la messa cantata e la benedizione.

Oggi non si pretende certo di invitare alla festa, come nel 1738, il prevosto, cinque ca-nonici, otto parroci, quattro padri riformati di Castello, due cappuccini di Pescarenico e cin-que altri sacerdoti; ma le usanze sono usanze e i vecchi confratelli - costi quel che costi - non le lasciarono cadere.

I soldi sono pochi? Niente paura! Invece di “parare” tanto, si suonano di più le campane: e si fa sapere così a tutta Lecco che in San-ta Marta c’è festa: dan din den, din den dan. Le campane sono tre e pettegolano ch’è un piacere: e quando tacciono le sorelle maggiori della prepositurale, riempiono del loro trillo tutte le stradicciole che i lecchesi d’una volta pare - tanto sono strette - abbian lasciato tra le fi le di case a sghimbescio, non per cammi-narci, ma per segnare dove una casa fi nisce e l’altra incomincia.

Ciarlano, le tre piccole campane, e raccon-tano la storia delle loro - come dire? - delle loro mamme, le campanelle che c’erano prima sulla torretta di Santa Marta. Storia curiosa, dei tempi napoleonici.

I dilettanti drammatici patriottici di Lecco volevano unirsi in società, ma non avevano i sol-di per le spese di impianto. Una idea geniale e tutto fu combinato: si chiesero e si ottennero in dono le campanelle di Santa Marta, che venne-

ro poi vendute a peso di bronzo; ventotto rubbi (230 chilogrammi) a quindici lire il rubbo die-dero 420 lire, che son fi n troppe per una com-pagnia di… cani. E il campanile restò muto.

Possibile, direte voi, che queste cose sian successe al tempo di Napoleone il quale as-sicurava di “non udir mai dalla Malmaison la squilla del prossimo villaggio senza restarne commosso?”.

Possibilissmo: tant’è vero che son successe!

LA CHIESETTA E IL RITUALEI confratelli, mentre attendono che i com-

pratori dei “michini” s’affollino attorno al loro banco, han tutti gli anni una protesta da fare. La chiesetta di San Calimero o Santa Marta è stata costruita dalla confraternita e della con-fraternita dovrebbe quindi essere ancora in possesso, se i fabbricieri della prepositurale non avessero - chi sa da quando - approfi ttato di un po’ di confusione per calpestare, niente-meno!, il diritto di proprietà.

Dicono questo i confratelli, perché è ar-rivato fi no a loro il lamento degli antichi di-sciplini, che devono aver deposto molto mal volentieri il loro bianco abito dal cappuccio crociato di rosso; e se nella protesta la verità storica è alquanto storpiata, sta di fatto che i disciplini disponevano della chiesetta come di cosa loro, mentre i confratelli del Sacramento furono costretti, quando il prevosto la conces-se in uso alla nuova confraternita nel 1795, a promettere che non si sarebbero “sviati” dalla prepositurale e non avrebbero ripetuto - di-ceva sempre il prevosto - il sopruso dei disci-plini: i quali, avuto un dito, avevan tirato dalla loro parte tutto il braccio, ed eran così diven-tati, tanti secoli prima, padroni della chieset-ta, liberandosi dalla sudditanza del prevosto e prendendo cert’arie che…

C’è ancora un rituale - forse l’unico docu-mento che si conservi - della scola dei disci-plinati. Un rituale - centosettanta pagine ma-

L’interno della chiesa di Santa Marta e, nelle pagine seguenti, Santa Marta in Gloria in due fotografi e del 1959 (archivio Bruno Bianchi).

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noscritte - che fu dedicato “alli impareggiabi-li meriti ed innata pietà” del priore Giuseppe Antonio Pagani, ed a lui offerto per la festa di Santa Marta del 1710. Lavorarono alla compi-lazione del volume due deputati, i quali aveva-no avuto l’incarico da dodici procuratori elet-ti e costituiti nell’Universal Compagnia con istromento rogato due anni prima dal causidi-co e notaio procuratore della stessa scola.

Una cosa semplicissima come si vede ad oc-chi chiusi.

“LONGHI” SINO ALLA MORTEAprite il rituale e vedrete che gente pia e

timorata erano quei lontani disciplini! Pensate che nelle prime quindici pagine si parla soltan-to, brevemente, delle virtù di ogni buon disci-plino; ed in seguito vi sfi lano innanzi le prati-che di pietà della scola: l’uffi cio divino con tut-te le ore, il vespero, la compieta; la disciplina, inginocchiati davanti all’altare; le funzioni del-l’Avvento, le Comunioni generali, le proces-sioni, le feste, le visite agli infermi; e ad ogni pagina tornano insistenti le esortazioni alle tre virtù principali e necessarie: umiltà, ubbidien-za, carità di Dio e del prossimo.

E persino le istruzioni sull’abito della scola offrono ai compilatori la occasione di intratte-nere devotamente i confratelli. L’abito doveva essere “bianco e netto e longo che arrivi alme-no - almeno?! - sino alle scarpe, con il cordo-ne di canapo con sette nodi”; e ciascuna parte aveva una virtù “appropriata”. L’abito era lun-go perché il “disciplinato deve esser longo cioè perseverante sino alla morte”; le maniche lun-ghe tutt’e due ad una misura volevan dire che il “disciplinato deve esercitar le opere della mi-sericordia con larga mano tanto spirituali che corporali”; il cingolo di corda signifi cava che “il perfetto disciplinato deve star sempre unito saldamente e costantemente con Dio”; e i sette nodi del cordone rappresentano “le sette volte che Gesù sparse il suo sangue preziosissimo”.

Insomma, letto tutto il rituale voi potete tranquillamente mettere una mano sul fuoco e giurare che quei disciplini eran tutti fi or di cristiani: tanto, state certi che son tutti morti, e non c’è pericolo che qualcuno s’alzi a smen-tirvi dicendo: “Io non sono stato longo sino alla morte”.

❊ ❊ ❊

La ripubblicazione di questo “frammento” - come avrebbe detto Uberto Pozzoli che ne è l’autore - bene introduce ad altri “frammen-ti” che servono come punti di riferimento per una delle più belle chiese dell’intera città di Lecco: l’antica chiesetta di San Calimero, ora nota con il titolo di Santa Marta. Il restauro felicemente portato a compimento solo pochi anni fa, consente di coglierne nella loro inte-rezza quei segni che possono diventare - per chi li sappia guardare con occhio attento - utili insegnamenti di vita.

La chiesa di San Calimero, arcivescovo di Milano intorno alla metà del III secolo, esi-stente a Lecco è già ricordata dal Liber Noti-tiae Sanctorum Mediolani, del secolo XIII. Po-che erano in diocesi le chiese dedicate a questo santo vescovo. Di questa chiesa, nella visita del 1569 è detto che è lunga 36 passi e larga 12, è ben pavimentata, ha la volta, ha l’altar maggio-re il quale è ornato di pala dorata e dipinta e vi sono diversi quadri. Vi era il pulpito in mezzo alla chiesa, appoggiato al muro e la chiesa era tiepida d’inverno. Aveva cinque fi nestre muni-te d’inferriate e due avevano anche i vetri. Sul-la sinistra vi era una cappella dedicata a San Giovanni Battista con un’ancona dipinta. Sulla destra un altare dedicato a Sant’Antonio. Ave-va anche un campanile con due campane e un portico. Erano annessi alla chiesa quattro locali per ospitare i poveri. Allora i Disciplini scusa-vano la loro negligenza nel confessarsi perché non sempre trovavano un confessore. I reddi-

Santa Marta in Gloria, particolare, 1959 (archivio Bruno Bianchi).

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ti della confraternita dei Disciplini erano an-nue 100 lire imperiali che venivano spese nel-l’ospitare infermi poveri, nel celebrare la festa di Santa Marta, nel comperare la cera, nel far fare le uffi ciature per i defunti. Vi era poi una distribuzione di pane nella festa di Santa Mar-ta e nei due giorni successivi, e a Natale.

Dai decreti della Visita del cardinale Fede-rico Borromeo (1608) appare che gli altari la-terali hanno cambiato titolo: quello dedicato a San Giovanni Battista è divenuto l’altare di San Carlo e l’altro l’altare dell’Immacolata e di Sant’Antonio. Per il primo è detto che nella nicchia scavata si metta il quadro di San Carlo oppure la statua; nelle nicchie laterali i santi più venerati dai lecchesi. Si dovrà poi costruire vicino all’altar maggiore una sagrestia congrua a questa chiesa, dall’architettura elegante.

Qualche traccia di quei decreti di quat-tro secoli fa la troviamo nell’articolo che sulla chiesa di Santa Marta ha scritto Bruno Bianchi in Terzo ponte del dicembre 1965.

ESEMPIO DEL MIGLIORBAROCCO LOMBARDO

Dell’impianto medioevale della chiesa di San Calimero ora detta Santa Marta, non ri-mangono tracce visibili. Non è improbabile che la struttura posteriore abbia ricalcato la pianta primitiva. Ce lo fa pensare la situazio-ne urbanistica della chiesa: la strada su cui si affaccia era, infatti, uno degli assi principali della viabilità cittadina: quindi è quasi certo che l’orientamento attuale della chiesa ripete quello primitivo.

Rimane da sapere se la sua dimensione e le sue forme stesse siano state alterate note-volmente: si può pensare che avesse un’abside semicircolare osservando una mappa dei primi anni del secolo XIX la quale indica una pianta absidata. Questo non signifi ca necessariamen-te che l’abside fosse stata eliminata recente-mente, ossia dopo la redazione di quella map-pa; questa probabilmente indica con la forma semicircolare i confi ni di proprietà della chie-sa, più che la sua struttura.

L’importanza della piccola chiesa ne favorì in passato l’abbellimento. Infatti la stessa prepo-siturale di Lecco non possiede nulla che possa paragonarsi all’affresco seicentesco che decora la volta sopra il presbiterio della chiesa di Santa Marta. La dimenticanza degli uomini nel seco-lo scorso e nel presente, la salvò dalle troppo frequenti sovrapposizioni eclettiche, caratteri-stiche della seconda metà dell’Ottocento e dai vandalismi decorativi più recenti, così che oggi la chiesa ci rimane intatta nel miglior barocco lombardo, senza ombra di sovrastrutture.

Oltre a quello principale, dedicato a San Calimero, la chiesa aveva due altari minori, quello di San Giovanni Battista, sulla sinistra entrando, e quello dedicato a Sant’Antonio sul lato opposto, che doveva occupare parte del-l’attuale sacrestia.

Il portichetto che caratterizzava la faccia-ta e un po’ tutto l’ambiente della piazzetta, è frutto di un’aggiunta posteriore; la struttura dell’insieme rimase però ugualmente libera e chiara ed ora leggiamo facilmente dall’esterno la posizione del coro sopra il portichetto. Due fi nestre, che dalla chiesa davano sulla strada, vennero chiuse in passato, probabilmente pri-ma dell’aggiunta del portico.

La biografi a strutturale della chiesetta è abbastanza semplice, e la sua storia stilistica fortunatamente priva di dolorose incoerenze. Il suo spazio è un rettangolo coperto da una volta appena ribassata con sei piccole vele in corrispondenza delle aperture. I lati lunghi sono assolutamente lisci, la unica nota decora-tiva essendo rappresentata dai quattro arazzi. Il presbiterio sollevato di due gradini dal pia-no della chiesa, è decorato sulla volta da un grande affresco il cui tema è la gloria di Santa Marta. L’abbondanza del partito decorativo ri-spetto all’argomento centrale è tutta barocca; tuttavia è cosa quasi eccezionale trovare come qui tanta chiarezza di rapporti tra il soggetto principale e il compiacimento decorativo delle prospettive architettoniche. La cosa che però affascina maggiormente è il tonalismo tipica-mente lombardo, tanto singolare in questo af-

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La statua della Vergine del Rosario, nel 1624 incoronata regina del borgo di Lecco.

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fresco da farlo pensare disegnato con l’entu-siasmo spaziale dei barocchi ma dipinto con la delicatezza tonale, leggermente malinconica, dei pittori lombardi del primo Ottocento.

Un’uguale coerenza con l’ambiente distin-gue i quattro arazzi rappresentanti rispettiva-mente la Madonna Immacolata, la Madonna del Rosario fra i Santi Domenico e Calimero, Santa Marta mentre calpesta il drago e infi -ne San Giuseppe col Bambino. Il fondo degli arazzi è un damasco rosso cupo, ad eccezione di uno di seta naturale con ricami a mano. Il colore delle fi gure, dei drappeggi sottolineati da forti rilievi, è mantenuto entro toni fondi, piuttosto cupi, in perfetto accordo col colore del fondo e coi colori stessi dell’affresco.

La parete di ingresso è occupata, sopra la bella porta disegnata dal Bovara, dalla loggia illuminata assai bene da una grande fi nestra che si vede in facciata.

Nel complesso la chiesa di Santa Marta è uno spazio nitido piacevolissimo nella sua at-mosfera: uno spazio fatto sulla misura fi sica e spirituale di uomini semplici e devoti. Una chiesa costruita con una sapienza architetto-nica ammirevole e con un raffi nato equilibrio decorativo, in un periodo di esuberanze spes-so incontrollate e di vanitose espressioni di una fede che sembrava ormai tutta portata al-l’esterno dell’uomo.

Una chiesa semplice, solida e senza parole inutili, come il linguaggio dei lecchesi.

LA GLORIA DI SANTA MARTALo stesso Bruno Bianchi ha dedicato più di

una scheda alla chiesa di Santa Marta nella sua fondamentale ricognizione nel patrimonio ar-tistico cittadino raccolta in Opere d’arte a Lec-co. Quella qui proposta è relativa all’affresco che, sulla volta del presbiterio, celebra la Glo-ria di Santa Marta.

L’affresco che fodera tutta la volta del pre-sbiterio di Santa Marta, testimonia l’importan-

za di questa chiesetta anticamente dedicata a San Calimero e ancora così chiamata nel 1608, data nella quale l’archivio spirituale della Cu-ria milanese la descrive specifi cando che l’al-tare principale era affrescato con “fi gure ab-bastanza decenti”. Non è pensabile che queste “fi gure abbastanza decenti” fossero quelle del-l’affresco che oggi vediamo. Le acrobazie pro-spettive dei soffi tti barocchi non si erano an-cora manifestate vigorosamente come avver-rà qualche decennio più avanti con Pietro da Cortona, col Guercino e poi con Andrea Poz-zo. Bisogna quindi collocare la pittura di Santa Marta almeno nella seconda metà del 1600.

La follia virtuosistica che fi nirà con lo sfon-dare tutti i soffi tti d’Europa e fi orirli di grap-poli di fi gure naviganti nel vuoto, ha lasciato un segno anche a Lecco; nell’affresco di Santa Marta però il barocco ha assunto colori nuo-vi e toni più morbidi e ombrati che forse im-pediscono alle prospettive di “sfondare”, ma sono tuttavia frutto di una lettura e di una in-terpretazione genuina e spontanea della gran-de maniera romana. Le fi gure stesse, nel grup-po centrale, sembrano non voler uscire dalla chiesa, non si lasciano proiettare in alto: non c’è linea prospettica che tenga, il loro colore “da interno” le tiene legate alla terra.

Descrizione, questa di Bruno Bianchi, alla quale aggiungere solo una considerazione. Quest’arte è stata concepita negli anni tragici nei quali il Papato aveva visto staccarsi una par-te della cristianità. L’arte non poteva più, come era stato nel Medioevo, esprimere la pace nella fede, ma dovette lottare, affermare, contesta-re. Essa divenne così ausiliaria della Contro-riforma e fu uno degli aspetti dell’apologeti-ca. Difese ciò che il protestantesimo attaccava: la Vergine, i santi, il papato, le immagini, i sa-cramenti, le opere, le preghiere per i defun-ti. Sviluppò temi che l’arte del passato aveva appena sfi orato, ed espresse sentimenti nuovi

Una storica immagine della via Mascari con il portico di Santa Marta (collezione Valentino Frigerio); l’affresco del Cristo nell’avello; celebrazione in Santa Marta: all’altare don Martino Alfi eri e don Luigi Stucchi.

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e nuove forme di devozione. Nata in un tem-po in cui la Chiesa, purgata e tutta tesa a dare il suo sangue, intraprendeva a riconquistare il Vecchio Mondo e a portare la fede nel Nuovo, l’arte prese parte al suo entusiasmo. Celebrò il martirio e mise il cristiano faccia a faccia con la morte per insegnargli a non temerla, ma nello stesso tempo gli spalancò il cielo. I grandi santi del XVI secolo, sembravano aver vissuto ai con-fi ni di questo mondo, e talvolta li varcavano per unirsi a Dio. L’estasi fu intesa non solo come ri-compensa del suo amore, ma come prova della loro missione: l’eresia non metteva in comuni-cazione con il Cristo, non vedeva il suo volto lu-minoso, non udiva la sua voce. L’estasi divenne il punto più alto della vita cristiana e il supremo sforzo dell’arte: vi mise tutto il suo prestigio e tutta la magia delle luci e delle ombre. Mai pri-ma l’arte religiosa aveva tentato tanto: e anche qui arrivava all’estremo limite del possibile. In tal modo l’arte nata dalla Controriforma ha ag-giunto qualche cosa ai mezzi espressivi dell’arte cristiana, ha trovato degli accordi profondi che non erano mai stati uditi prima. È stata dunque l’interprete perfetta di un’epoca. Chi ha letto Sant’Ignazio di Loyola e Santa Teresa d’Avila ritrova il loro spirito guardando i dipinti delle chiese poiché l’artista partecipa di un pensiero infi nitamente più ampio del proprio.

Ma Santa Marta non è un caso isolato, come ci testimonia ancora Bruno Bianchi. Vi è un gruppo di chiese a Lecco e nei dintorni, legate da un unico fi lo conduttore: Santa Marta a Lec-co, San Carlo a Castione, San Nazaro a Castel-lo, San Carlo al Porto, Santa Maria Gloriosa a Rancio, Santa Maria Maddalena al Seminario.

Tutte queste chiese ci si presentano ora così come gli interventi precisi e perentori di San Carlo Borromeo le hanno volute. Ogni visita pastorale, da San Carlo in avanti, documenta lo stato di ogni edifi cio religioso con minuziosa precisione; alle visite faranno poi seguito le or-dinanze di intervento. Il riordino della Diocesi e della vita religiosa e insieme un certo assetto economico di ripresa dopo una lunga serie di

anni di guerre e di pestilenze, hanno favorito il diffondersi della cultura barocca nel Lecchese: alcune chiese vennero abbattute, ma più spes-so ampliate, allungando l’abside o spostando in avanti la nuova facciata; il soffi tto in legno a vi-sta e gli arconi trasversali (ancora visibili a Pe-scarenico e a San Giovanni di Laorca) cedono il posto alle nuove volte dalle curve un poco ribassate; i muri laterali si raddrizzano con l’ag-giunta di nuovi tavolati o si arricchiscono di le-sene; trionfano le cornici di malta e di gesso; alle facciate di pietre squadrate si accostano altre facciate a intonaco; si alzano le porte di ingresso per lasciar passare le statue e gli sten-dardi processionali. Più tardi arriva anche il portichetto come in Santa Marta, a Rancio e a Castione. Sull’altare una nuova pala sostituisce il rustico dipinto affrescato della parete dell’al-tar maggiore: al santo patrono ed alla Vergine si aggiunge l’immancabile San Carlo.

Santa Marta esisteva già alla fi ne del 1200 dedicata a San Calimero, ma l’aula ed il cam-panile potrebbero essere più antichi. Vi erano annessi locali destinati ad ospizio tenuti dalla confraternita dei Disciplini di Santa Marta.

L’importanza di questa chiesa, che si trova-va proprio su una delle due strade principali del vecchio borgo (l’altra era l’attuale via Bo-vara) giustifi ca sia la presenza del grande af-fresco sulla volta del presbiterio, sia l’aggiunta del portico, verso il 1720-30, sia anche lo svi-luppo inconsueto della facciata, esempio uni-co in Lecco di una espressione così vivace del colorismo barocco.

All’interno si trovano le statue di Santa Marta e della Madonna (detta “della peste” perché portata in processione nel 1629), l’alta-re con formelle di legno e bassorilievo e quat-tro arazzi ricamati, un tempo stendardi delle confraternite.

UN FRAMMENTO DI MEDIOEVO“I recentissimi restauri, che hanno coinvol-

to tutto il complesso della chiesa di Santa Mar-ta, con gli edifi ci annessi, hanno tra l’altro mes-so in luce un riquadro affrescato, con l’imma-

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gine del Cristo defunto posto entro l’avello. Il dipinto è ubicato all’interno del locale che af-fi anca, al piano terreno, il lato nord del settore presbiterale. L’immagine è visibile sulla pare-te settentrionale di tale ambiente, ad una quo-ta piuttosto elevata. Lo stato di conservazione è discreto, ad eccezione di una cospicua lacu-na, presso l’angolo superiore di sinistra, così come è del tutto carente la porzione inferiore del riquadro. Tracce di intonaci affrescati, che si prolungano ai lati dell’icona al di fuori del-la cornice rettilinea a doppia fascia, permet-terebbero di ipotizzare che una ben maggiore superfi cie della parete fosse occupata da altre raffi gurazioni affrescate.

“Secondo morfemi iconografi ci consueti per l’epoca, la rappresentazione di Gesù nell’avel-lo appare del tutto canonica: il Cristo sporge, eretto, dal piccolo sarcofago a cassetta, per la metà superiore dell’immagine; ha il capo recli-nato verso la spalla destra, gli occhi socchiusi e un’amara espressione caratterizzante i linea-menti del volto; le mani sono incrociate davan-ti al ventre. Sullo sfondo è collocata la croce, dal cui braccio orizzontale pendono due staffi li, mentre sul corno di destra è annodata una ben-da. Lateralmente stanno appoggiate la lancia di Longino e l’asta porta spugna di Stephaton.

“La diffusione di questa singolare immagi-ne, fra i secoli XIV e XV, si giustifi ca con la spe-cifi ca venerazione per un particolare reperto-rio di fi gure taumaturgiche (come quella per i santi Antonio abate, Rocco, Sebastiano), colle-gate alla invocazione ed alla protezione contro le malattie contagiose ed epidemiche. Nel caso specifi co qui in oggetto, una più pregnante connessione si può identifi care con la presen-za operativa della Confraternita dei Disciplini di Santa Marta; non è casuale che un’analoga immagine la si ritrovi in altri templi del terri-torio, similmente reintitolati alla santa di Beta-nia, come le chiese di Santa Marta di Bellano e di Merate. Né si può sottacere la connessione concettuale, fra la raffi gurazione della divina immagine del defunto (prima della sua resur-rezione) e quella del fratello di Marta di Be-

tania (santa alla quale era intitolata la Confra-ternita), Lazzaro, che fu risuscitato, uscendo dall’avello per il miracoloso intervento di Gesù secondo il vangelo giovanneo.

“In merito ad alcune considerazioni speci-fi che, di ordine tecnico e cronologico per l’af-fresco qui considerato, va rilevato che, in con-trasto con la maggioranza di similari riquadri pressoché coevi reperiti nel territorio (e che sono opere di genere per lo più sommario), l’elaborato della Santa Marta di Lecco appa-re una esecuzione discretamente accurata, per mano di un pittore piuttosto capace. La consta-tazione merita di essere sottolineata, in quanto sembrerebbe che per la più parte di tali imma-gini ci si sia prevalentemente curati del valore devozionale e simbolico, piuttosto che di quel-lo intrinsecamente qualitativo. Al contrario, in questo caso si può rimarcare sia una attenta e calibrata ricerca dei valori espressivi ed anato-mici del defunto (senza cadere in banali effetti, melodrammatici e dozzinali), sia una moderata presenza di quegli orpelli minori, simbolizzanti strumenti della passione, che rendono spesso la raffi gurazione un coacervo di tasselli scoor-dinati, sia pure emblematici e non raramente pervasi di sapido umore popolare, ma con un risultato complessivo piuttosto discutibile. L’al-ta qualità del dipinto e le non marginali remini-scenze trecentesche dell’immagine del Cristo morto, propongono una datazione che non do-vrebbe allontanarsi da una prima fase del seco-lo XV, con talune connessioni, per l’ambito arti-stico, con le contemporanee espressioni dei più prossimi territori, all’epoca, d’ambito veneto”.

Quanto riportato è parte di una pagina di Oleg Zastrow, in Affreschi gotici nel territo-rio di Lecco, II. Conclude questa ricognizio-ne nella chiesa di Santa Marta, che si è aperta con un’altra delle memorabili pagine di Uber-to Pozzoli così defi nito dal vescovo Enrico Assi: “Uno studioso tenace, un ricercatore ap-passionato, un giornalista pieno di sensibilità e di estro, di passione, un uomo libero e forte, un cristiano purosangue”.

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Due immagini della chiesa di Santa Marta che consentono anche un confronto sulle modifi cazioni intervenute nel centro storico di Lecco.

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Ancora una immagine di Santa Marta con la facciata barocca, esempio unico in Lecco.

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L’IMMACOLATA CONCEZIONEALL’ORATORIO SAN LUIGI

Ricorda la costruzione della cappella del-l’oratorio di San Luigi, accanto alla Basilica di San Nicolò, una paginetta di un fascicoletto realizzato nel 1932 e dedicato ai primi cinque lustri di presenza nell’oratorio maschile del sa-cerdote don Luigi Verri.

Quando nel 1907 il prevosto mons. Luigi Vismara chiamava don Luigi Verri, nell’Orato-rio tutto era da rifare. I fabbricati esigevano un completo rifacimento: il torrione sul quale sor-geva il campanile (ora tutto inverdito d’edera, angolo pittoresco dell’Oratorio) era ancora in parte circondato dal fossato di difesa, ed ecco che coll’opera degli stessi maggiori dell’Orato-rio viene riempito con materiale tolto nel luo-go dove fu poi costruita la sala dei confi rmandi. Il teatro sorge sul terreno di quello precedente non senza una certa linea architettonica.

I vari altri locali - si legge sempre in quello scritto del 1932 - vengono sistemati. Più tardi per uso palestra veniva completato il salone at-tuale della cancelleria che dapprima era sola-mente un portico. Il grande portico d’ingresso rifatto, per riparare dalle intemperie e dal sole estivo i ragazzi.

Pure la nostra chiesetta (Santuario dell’Im-macolata, per i lecchesi) sorgeva su disegno dell’ing. Giulio Amigoni, presentandosi il pro-getto dell’ing. Chiappetta troppo costoso. È ri-masta per alcuni anni greggia nei muri, e senza l’attuale loggia. Solo i maggiori potevano per-ciò assistervi alle funzioni, mentre gli altri do-vevano restare nel salone teatro dal quale era possibile attraverso l’atrio divisorio partecipa-

re alla Messa e Benedizione. Venne poi la de-corazione dell’altare. Per benefi ca elargizio-ne della famiglia Delù, fu costruita in segui-to la loggia, buon lavoro intonato allo stile del-la chiesa, e per quanto fu possibile ottenere la presente sistemazione a inginocchiatoio delle panche per la comunità.

La decorazione completa della cappella era ormai il sogno di don Luigi, ripetutamente esternato dal pulpito, ed infatti nel 1914 ven-ne decisa. Il contributo di lire 5 per ogni me-tro quadrato richiesto ai devoti dell’Immacola-ta mise a disposizione la cifra occorrente. Man mano che le impalcature andavano scompa-rendo apparvero agli occhi attoniti dei ragazzi le arcate celesti, le stelle riprodotte sulla volta, gli archi delle fi nestre e i dorati capitelli. Un sabato sera quando noi ragazzi eravamo riuni-ti per prepararci alla Confessione, don Luigi ci ha detto: “Oggi il pittore Giovanni Battista Je-moli è venuto coi cartelloni per i quadri isto-riati della vita di San Luigi (nascita, voto di ca-stità, prima comunione, rinuncia, angelo di ca-rità, transito). Quando questi saranno fi niti la nostra chiesa sarà completata”.

Tale opera fu terminata nel 1915 e noi l’ammiriamo tuttora. In questo devoto e pio luogo - continua quella storica paginetta del 1932 - gli oratoriani sentono nuovo invito alla preghiera ed i cuori si effondono in Dio, si ri-volgono alla Santisssima Vergine in santa fi du-cia ed amore. Il suo ricordo rimane indelebi-le nell’animo di chi vi pregò, vi pianse di gioia e di pentimento. Lontani il suo ricordo si fa

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La chiesetta dell’oratorio vede ogni anno, dal 1909, la ormai storica e secolare Festa dei Cooperatori (archivio Aloisio Bonfanti).

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più vivo e parte di questa terra che chi ebbe per patria non può dimenticare è quest’aurea chiesetta dove piccoli e grandi della popola-zione lecchese ebbero palpiti di casti affetti e di fervorosi propositi.

Varie opere poi susseguitesi completarono la sistemazione generale. Così la sala dei con-fi rmandi, e più tardi per merito del cooperato-re Antonio Bosisio, il recinto dei giuochi delle bocce e delle altalene.

Così fi nisce quella paginetta del fascico-lo celebrativo dei primi 25 anni di don Lui-gi Verri all’oratorio, che Giacomo Galli, che lo conserva tra le sue cose care, ha voluto com-pletare ricordando varie altre opere realizza-te dagli assistenti succeduti a don Luigi Ver-ri: il nuovo tabernacolo con don Filippo Spina (1940-1947); il nuovo pavimento, l’impianto di riscaldamento, la corona per la Madonna con tanto di raccolta dell’oro necessario, con don Giuseppe Tagliabue (assistente dell’oratorio dal 1948 al 1967); l’altare rivolto verso i fedeli con don Giuseppe Longhi (1968-1976); e infi -ne gli assistenti successivi che cureranno l’ade-guamento degli impianti elettrici, la posa delle effi gi degli oratoriani Caduti e degli assistenti defunti, la sostituzione delle panche con quel-le già nella chiesa di Santa Marta, i restauri de-gli affreschi con la vita di San Luigi.

Aloisio Bonfanti custodisce invece una cro-naca del dicembre 1959 dalla quale si appren-de che si è svolta domenica 20 l’incoronazio-ne della Madonna dell’oratorio maschile di Lecco. Alla mattina nella cappella splenden-

te di luci e di paramenti monsignor Luigi Pi-relli, vescovo nativo di Varenna, ha celebrato la messa, durante la quale è stata offerta e be-nedetta la corona d’oro donata dai ragazzi, dai giovani e dai cooperatori dell’oratorio. Alla co-munione un numero veramente rilevante di ragazzi e di giovani si è accostato al divino sa-cramento, ricordando tutte le persone che in questi 50 anni di vita della cappella sono pas-sati ed in modo particolare quelli già ritenuti degni del premio eterno. Al pomeriggio si è te-nuta l’incoronazione della Madonna e la bella e commovente benedizione dei novelli coope-ratori Luigi Mangola e Valerio Molteni. Mons. Pirelli, nel discorso di chiusura, ha sottolinea-to come la Madonna debba restare nella vita di ognuno. Una meravigliosa pioggia di stelle dal campanile ha concluso la bellissima giornata, che s’iscrive a caratteri fulgidi nella già glorio-sa storia dell’oratorio maschile di Lecco.

Il diadema con il quale è stata incoronata la Madonna dell’Oratorio è in argento e oro sbalzato e cesellato con incastonatura di pie-tre preziose: si tratta di 12 ametiste rettangola-ri e di 12 topazi nella fascia, di 6 topazi bruciati e di 12 palline di calcedonia nella parte supe-riore forgiata a margherite e a gigli, in ricordo evidente dell’immacolato privilegio della Ma-donna. Il lavoro fi ne e pregevole è opera del-la Scuola Beato Angelico di Milano. Il metallo prezioso necessario è stato offerto dai bambi-ni, dai ragazzi e dai giovani dell’Oratorio, dalle loro famiglie e dalle madrine benefattrici del-l’oratorio stesso.

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SANTUARIO DELLA BEATAVERGINE DELLE VITTORIE

È il tempio alla Vergine nel cuore della cit-tà. Assiso sopra il suo alto piedistallo, Alessan-dro Manzoni evocato nel bronzo del Confa-lonieri sembra vegliare Colei che ha avuto da lui cantato il Nome, la “mira Madre” che pro-clamò “beata” nel Natale, la “regina de’ me-sti” dalla quale invocò il “per noi prega” nella Passione, la “Donna alma del cielo” alla quale ripetè quel “per noi prega” nella Risurrezio-ne annunciando che lo stesso Dio cui fu nido “prescrisse che sia legge il tuo pregar”.

Esaltato da poeti d’ogni tempo, il Nome di Maria ha anche una propria celebrazione li-turgica, nel calendario ecclesiastico. Scrive Emilio Campana in Maria nel culto cattoli-co: “Le prime tracce di una tal festa si han-no a Cuenca nella Spagna. Un diploma pon-tifi cio del 1513 nel mentre la riconosceva uf-fi cialmente, ne fi ssava la celebrazione per il 15 settembre, ottava della Natività di Maria, e di più vi accordava un’offi ciatura particola-re. Poi avendola Pio V nella riforma dei Di-vini Offi ci abrogata, fu rimessa in onore dal suo immediato successore Sisto V, a ciò mos-so dalle istanze del cardinale Deza. Gregorio XV nel 1622 la estendeva alla diocesi di Tole-do. Ma dopo il 1625, la Sacra Congregazione dei Riti era in dubbio se estenderla o no ad al-tre diocesi che ne facevano domanda. Ciò non di meno la si trova celebrata nella Spagna dai Trinitari verso il 1641, e nel 1658 fu concessa all’Oratorio di Francia sotto il titolo di Solem-nitas gloriosae Virginis. Con il nome invece primitivo di Solemnitas SS. Nominis Mariae

fu nel 1671 estesa a tutta la Spagna e al Regno di Napoli. Nel 1683 Innocenzo XI la costitui-va festa universale di tutta la Chiesa, destina-ta a commemorare la grande vittoria riportata con evidente intervento di Maria dal Sobieski sopra i Turchi assedianti Vienna, e minaccian-ti seriamente tutta la civiltà europea. Qualche anno dopo, il suo successore Innocenzo XII ne fi ssava la celebrazione con offi cio proprio nella domenica fra l’ottava della Natività. Fu però malvista dai giansenisti, e poiché Giu-seppe II, come si sa, era dominato dal loro spi-rito, nel 1771 ordinò che questa festa insieme ad altre, che pure cadevano in domenica, non venissero più nel calendario segnate in rosso, ma in nero. Non sembra però che si sia tenuto gran calcolo di questi ordini imperiali. Anche nel progetto di riforma del Breviario prepara-to sotto Benedetto XIV corse serio pericolo di essere soppressa insieme ad altre feste, in tut-to 85, fra le quali quelle del Carmine, dell’Ex-pectatio partus, della Mercede, del Rosario, della Traslazione della Santa Casa di Loreto. Ma fortunatamente non ne fu nulla, perché quel progetto non venne attuato. Pio X nel-la sua riforma della divina uffi ciatura fi ssava la festa del Nome di Maria al 12 di settembre che è l’anniversario della sconfi tta dei turchi sotto le mura di Vienna”.

Avendo però il nuovo messale cambiato il prefazio, può sembrare signifi cativo richiama-re le parole con le quali quello precedente-mente in uso si rivolgeva all’Eterno Padre: “Al nome di Gesù, ogni ginocchio in cielo, in terra

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e negli inferi, si piega alla tua maestà divina. Al nome di Maria, il cielo si inchina, la terra si prostra, trema l’inferno, proclamando, nel mistero della Vergine, la tua adorabile onni-potenza”.

UN SANTUARIO NEL CUORE

DELLA CITTÀComincia da Lecco centro anche l’itinera-

rio per i santuari mariani. Comincia da quello dedicato a Nostra Signora della Vittoria: san-tuario, come affermava don Aldo Cattaneo ce-lebrando i quarant’anni della consacrazione, il 5 novembre del 1972, non di miracoli - se per miracoli s’intendono guarigioni istantanee, ap-parizioni, lacrimazioni - ma devozionale, dove la Grazia lavora prodigiosamente nelle anime, ogni giorno, e insieme tempio civico in me-moria dei Caduti per la Patria, una falange dei quali attende il giorno della risurrezione nella cripta-ossario.

Lo si era cominciato a pensare durante la Grande Guerra mentre s’allungava la lista di quelli che non sarebbero tornati vivi dal fron-te, anche perché la città richiedeva una nuo-va chiesa per il servizio alla gente che aveva la casa troppo distante dalla prepositurale. Ma se il terreno fu acquistato già nel 1917, e l’anno successivo il Cardinal Ferrari venne a Lecco a benedire la prima pietra, in realtà la costru-zione non prese il via che agli inizi degli anni Trenta. Il cardinal Schuster, poi, poteva pro-cedere alla consacrazione il 5 novembre del 1932, mentre il campanile doveva attendere l’inaugurazione fi no all’anno 1940.

Aloisio Bonfanti, in Da Santo Stefano a San Nicola aggiunge qualche ulteriore particolare: due furono i motivi principali che suggerirono la realizzazione della nuova chiesa in una zona allora periferica rispetto al centro di Lecco: un tempio votivo in memoria dei lecchesi caduti nel primo confl itto mondiale e la necessità di assistenza religiosa per il nuovo quartiere che

si stava ormai rapidamente sviluppando nel-la zona oltre il corso del Caldone, compresa, grosso modo, tra via Visconti e il vecchio Laz-zaretto (oggi via Leonardo da Vinci).

L’inaugurazione del novembre 1932 - è sempre Aloisio Bonfanti - nonostante il grande cuore di mons. Salvatore Dell’Oro, vedeva la chiesa ancora incompleta nelle strutture edili-zie ed artistiche. Il campanile, ad esempio, era solo costruito nel tratto iniziale; mancavano gli affreschi sulle pareti e presso gli altari laterali. Lentamente, con l’opera zelante di mons. Del-l’Oro, i consistenti lasciti testamentari di qual-che benefattrice, le offerte di numerosi fedeli, il tempio venne completato.

Dei giorni precedenti il rito celebrato dal-l’arcivescovo Schuster sono le colonne di cro-naca pubblicate dalla rivista All’ombra del Re-segone (settembre 1932) che ci piace ripropor-re: “Il nuovo tempio che noi possiamo ammi-rare nelle sue linee imponenti e severe, vie-ne a colmare una lacuna veramente sentita da tutto un rione della città e a esaudire voti anti-chi e tuttora ardenti del popolo nostro. Quan-do una degnissima signora oriunda valsassine-se e nostra concittadina di elezione Domenica De Dionisi ved. Manzoni volle, ancora viven-te, destinare una parte cospicua del suo patri-monio - un vasto fabbricato in via Fratelli Cai-roli - perché col ricavato della vendita si prov-vedesse all’erezione del nuovo tempio, le aspi-razioni della città parvero ben prossime a dive-nire una realtà. Mons. Vismara acquistava im-mediatamente l’area adatta e interessava vari architetti, affi nché concretassero in progetti di massima le linee del tempio; ma, impegnato nella raccolta dei fondi per le decorazioni della chiesa prepositurale, si trovò nell’impossibilità di attuare l’idea con i mezzi disponibili ormai inadeguati e si spegneva due anni or sono, la-sciando il terreno e un discreto capitale accan-tonato per l’erezione del tempio.

“Fu il vicario spirituale che gli successe, il

L’interno del Santuario della Beata Vergine delle Vittorie.

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concittadino can. don Salvatore Dell’Oro (già benemerito per altre grandi realizzazioni nel campo della benefi cenza) a riassumere deci-samente l’iniziativa facendosi interprete dei voti di tutto un popolo, e a raccogliere intor-no a sé un forte nucleo di volonterosi per la raccolta dei mezzi fi nanziari e per l’attuazione dell’opera. E quando il Comune, in occasio-ne della messa giubilare, in un solenne ricevi-mento nel palazzo municipale, gli consegna-va una medaglia d’oro di benemerenza, egli, riconoscente, diede l’annuncio che destinava alla fabbrica del nuovo tempio una cospicua somma; ciò nel cuore di tutti aprì la fi ducia che la nuova chiesa ben presto sarebbe condotta a termine. Il comitato frattanto aveva incaricato il valente architetto Piero Palumbo (di Siena) dello studio del progetto artistico del nuovo tempio e questi assolveva rapidamente e de-gnamente il suo compito, presentando un pro-getto che riscosse le unanimi approvazioni.

“La voluta monumentalità del tempio ven-ne raggiunta dall’architetto con semplici mo-vimenti di masse accuratamente ponderate e opportunamente ravvivate dal contrasto di tono fra i vari materiali impiegati. All’interno le grandi pareti murali completamente disa-dorne inquadrate dalle cornici e dal soffi tto hanno realmente dato all’ambiente il voluto carattere di semplicità severa e grandiosa. In questa sua veste di nobile semplicità l’edifi cio rivela reminiscenze romaniche dimostrando la possibilità di creare del nuovo senza rinne-gare l’antico.

“Il nostro giovanissimo concittadino ing. Pietro Amigoni ebbe a sua volta l’incarico del-lo studio dei particolari costruttivi e della dire-zione dei lavori, fra molte e gravi diffi coltà. Il piano del pavimento del santuario è costituito da un’impalcatura continua in cemento arma-to perfettamente rigida e calcolata per soppor-tare senza pericolo il peso di una folla com-pattissima di persone: lasciando posto sotto di sé ad ampi sotterranei variamente utilizzabili. Anche la copertura è sorretta da grandi inca-vallature in cemento armato di lunghezza, an-

che pei tempi che corrono, abbastanza ecce-zionale, che vennero gettate in basso e solle-vate successivamente sino al piano del tetto. Il nuovo tempio ha le seguenti dimensioni al-l’interno: lunghezza m 46; larghezza, escluse le cappelle, m 16; altezza del soffi tto m 19.

“L’impresa Lotario Bigoni ha condotto i la-vori con lodevole solerzia ed ampiezza di mez-zi, vincendo non lievi diffi coltà nelle manovre di sollevamento dei materiali a grande altezza specialmente dei grossi massi di pietra viva e delle incavallature del tetto. Nessun incidente è venuto a turbare l’ordine e il rapido progres-so dei lavori.

“Anche la provvista e la posa della pietra da taglio che costituisce una pregevole caratteristi-ca esterna del santuario ha incontrato notevoli diffi coltà, specialmente nella scelta della pietra scura necessaria a creare con il granito bianco quel contrasto di toni che costituiva un’esigen-za inderogabile del progetto Palumbo. La pie-tra adatta mai sinora impiegata venne per ini-ziativa dell’antica ditta lecchese Paolo Noli sco-perta a Prata nei dintorni di Chiavenna; essa è di un bel nero inalterabile e uniforme, supe-riore allo stesso granito di Biella tanto apprez-zato. La fornitura dei graniti che raggiungono i settecento metri cubi pari a centocinquanta vagoni venne ripartita tra questa ditta e la ditta Giuseppe Marella che ha grandi cave ben note a Samolaco, a Chiavenna ed altrove.

“Se la decorazione esterna del Santuario per necessità della sua particolare costruzione ha dovuto raggiungere la sua sistemazione de-fi nitiva, fatta eccezione del campanile arresta-to a un terzo della sua altezza, non altrettanto può dirsi dell’interno, che nel concetto che ha ispirato l’architetto avrebbe dovuto avere lar-ghi rivestimenti lapidei e marmorei. La nava-ta superiore si presenta con un’imponenza in-contestabile. L’interno è rifi nito con semplice rinzaffo grezzo delle murature. Ma i pilastri, gli archi, le fasce, le cornici in mattoni scoper-ti, i capitelli in pietra viva, costituiscono tut-tavia, benché grezzi, un tale elemento sugge-stivo dell’ambiente che impone il senso del-

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La Campana dei Caduti collocata sul campanile il 4 novembre 1968. Nelle pagine seguenti gli affreschi provenienti dal distrutto convento di San Giacomo a Castello.

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la grandiosità e del raccoglimento, quale vera-mente si addice a un tempio.

“La cripta dedicata alla memoria dei Ca-duti lecchesi avrebbe dovuto assumere aspet-to particolarmente severo e veramente monu-mentale dal completo rivestimento in grani-to animato da quattro fi gure di angeli vigilan-ti alla base delle ampie gradinate di accesso. La prospettiva della cripta disegnata dall’arch. Palumbo nella sua sistemazione defi nitiva dà un’idea dell’ambiente veramente bella e sug-gestiva. Pur così com’è attualmente la nuova chiesa, dotata degli elementi liturgici essenzia-li, sarà consacrata al culto con rito solenne il 5 novembre prossimo come tempio che la fede religiosa e patriottica della nuova Lecco ha vo-luto dedicare alla memoria dei suoi fi gli Cadu-ti, indimenticabili Eroi, artefi ci della Vittoria”.

SANTUARIO MARIANO DIOCESANOLo stesso giorno della consacrazione il car-

dinal Schuster proclamava il tempio di No-stra Signora della Vittoria santuario mariano diocesano, nel quale si venerasse l’icona della Madonna Nicopeia, Regina delle Vittorie. Lo stesso arcivescovo, quattro anni dopo, faceva trasportare nel santuario l’antico quadro del-la Madonna con bambini che si trovava nella prepositurale di San Nicola. È il dipinto cin-quecentesco che ancora oggi è al centro del-l’attenzione dei fedeli che visitano il Santua-rio: rappresenta la Madonna nel gesto di pro-teggere con il manto alcuni bambini che la cir-condano. Nel 1937 ancora il cardinal Schuster costituiva lo stesso santuario in rettoria, affi -dandolo agli oblati vicari dei Santi Ambrogio e Carlo. Un autografo in data 28 novembre 1937 dello stesso cardinal Schuster - che nel de-creto del 1932 (27 ottobre) aveva scritto: “La Chiesa di Santa Maria della Vittoria appartie-ne alla Parrocchia di San Nicolò in Lecco, co-sicché il parroco di San Nicolò avrà su detta chiesa tutti i diritti concessi dai sacri canoni al

parroco nella propria chiesa e potrà compiere in essa tutte le funzioni per sé o mezzo di al-tro sacerdote suo coadiutore” - spiega questa decisione: “Senza incrinare l’unità parrocchia-le di Lecco, senza ricorrere ad elementi estra-nei, la Madonna si è creata in Lecco il proprio Santuario, chiamandovi i Padri Oblati, cioè il Clero diocesano che presenta le migliori ga-ranzie di obbedienza e di fedeltà alle diretti-ve dell’Arcivescovo, che sono appunto diretti-ve di unità, di pace, di collaborazione, di zelo per la salvezza delle anime”.

Nello stesso anno 1937 giungevano alla Vit-toria numerosi affreschi della chiesa del di-strutto convento di San Giacomo a Castello, dei quali si parlerà più avanti. Era il conven-to degli Zoccolanti, soppresso nel 1805, caro al padre di Alessandro Manzoni, che vi voleva essere sepolto, come lasciò nelle disposizioni testamentarie. Il nobile Pietro Manzoni venne invece tumulato nella chiesetta della villa del Caleotto, perché alla sua scomparsa il conven-to di Castello non esisteva più. Fra gli affreschi spicca la grande Crocefi ssione collocata nell’al-tare laterale di fronte a quello della Madonna.

Il campanile di 61 metri fu completato il 18 ottobre 1940 con l’erezione, sul culmine, di una grande croce di ferro con inserita una reli-quia della Santa Croce di Cristo. Il 4 novembre si procedette alla benedizione. Per l’esaltazio-ne della Santa Croce e per l’inaugurazione del campanile furono stampati due opuscoletti-ri-cordo. Ideato dall’architetto Pietro Palumbo, lo stesso progettista della chiesa, il campanile si presenta con l’identica alternanza tra grani-to bianco e pietra nera. La reliquia della Croce di Cristo, racchiusa nella croce di tre metri in cima al campanile, è conservata in una casset-tina di rame argentato e circondata da quattro liste di pergamena con le fi rme di oltre mille lecchesi. Le quattro pergamene, ricorda Aloi-sio Bonfanti, erano state preparate, con accu-rati ornamenti, dalle suore e dalle ragazze del

Due immagini del Santuario della Vittoria e della attigua piazza Manzoni e una storica immagine della costruzione (collezione Valentino Frigerio).

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vicino Istituto San Giuseppe delle Figlie di Betlem. La preziosissima reliquia, donata da don Paolo Colli superiore degli Oblati, rimase esposta in chiesa durante il triduo di prepara-zione alla festa votiva della Santa Croce e poi solennemente benedetta dal prevosto mons. Giovanni Borsieri.

Franco Ghilardi, in Il Santuario di Nostra Signora della Vittoria in Lecco, articolo pub-blicato su Archivi di Lecco (anno XVI, numero 1, gennaio-marzo 1993), aggiunge qualche ul-teriore particolare. “La torre posa su di un ter-reno poco resistente, ma se ne sta ugualmente sicura perché a sostenere l’ingente peso le si è preparata una base corrispondente, studiata con amore dall’ing. Pietro Amigoni e dall’ar-ch. ing. Mario Ruggeri: una platea nervata in calcestruzzo che misura ben m 13,20 di lato e m 1,60 in altezza. Su questo zatterone la torre può navigare impavida sul grande fi ume e l’im-menso oceano dei secoli, pur attraversando le grosse procelle della storia. Dall’ultima parte del granito sporge poi la croce di ferro del peso di kg 180, dono della Società Anonima Bado-ni di Lecco. Sul fronte dell’architrave, sopra la porta d’accesso al campanile da via Trieste, in caratteri romani, venne scolpita la seguen-te epigrafe commemorativa: Nob. Cathari-nae Cornelio populique leucensis pietate Crux D.N. Jesu Christi caelo extollitur salus victoria triumphus. Die IV novembris a. MXMXL (la nob. Caterina Cornelio e il popolo di Lecco, mossi dalla loro devozione, con questa robusta torre innalzarono al cielo la Croce di Nostro Signore Gesù Cristo la quale è salvezza, vitto-ria e trionfo. Il 4 novembre 1940)”.

LE ULTIME OPEREDI COMPLETAMENTO

Nel suo studio, Franco Ghilardi cita anche la relazione del sacerdote oblato Carlo Lucchi-ni - è datata 3 novembre 1940 - nella quale, tra l’altro, si legge: “Da ogni parte della città ven-nero offerte di rilievo e piccole offerte, a mano diretta e a mezzo di sottoscrizioni a scadenza, dalle ditte rappresentanti le grandi industrie,

quale di più e quale di meno, dalle famiglie singole, da ricchi e da poveri, tanto e poco, dal Comune, dalle associazioni, dai sacerdoti e dai laici, in molti modi, da tutti, E quando si dice tutti, non si esclude nessuno”.

Ma il Santuario non era fi nito, e don Luc-chini scrive: “Parecchie cose importanti man-cano, e bisogna provvedere. Fu messo a po-sto, e bene, l’altare maggiore con quel bellissi-mo nartece o tempietto che ammiriamo; ma… e l’altare della Madonna, che è la padrona di casa? Non lo potremo lasciare per molto tem-po ancora così, come ora trovasi… I disegni di quello che si deve fare sono pronti e sono belli: saranno usati marmi speciali e di effetto; e spe-riamo di vedere presto eseguito questo lavoro. (…) Questa chiesa - concludeva don Lucchini - non tollera pitture né stucchi decorativi: mar-mi preziosi, pochi bronzi semplici, e mosaici, mosaici e mosaici. Questa e non altra decora-zione tollera e merita il Santuario di Lecco”.

I mosaici auspicati da don Carlo Lucchini nel 1940 arriveranno sessant’anni più tardi, nel 2000. Non all’interno, ma all’esterno, nelle lu-nette sopra le tre porte di ingresso alla chiesa, sotto il portico su via Azzone Visconti. Realiz-zati dai fratelli Bernasconi di Como, su proget-to del pittore lecchese Angelo Bellini, i mosai-ci sono dedicati rispettivamente alla Madonna della Vittoria, della Pace e della Giustizia. Una piccola targa ricorda, sul lato dell’ingresso prin-cipale, che i mosaici sono dedicati alla memo-ria di don Aldo Cattaneo, che tanto bene volle al Santuario, operandovi per oltre cinquant’an-ni. La realizzazione dei mosaici si deve all’im-pegno di Lucia Sozzi, per tantissimi anni infati-cabile animatrice del Laboratorio Missionario Lecchese al fi anco di don Aldo Cattaneo.

Un’ulteriore pagina di storia trascorsa dal Santuario della Vittoria è relativa alle celebra-zioni del maggio 1972 quando - il ricordo è di Aloisio Bonfanti - “al termine del mese maria-no, per ricordare il quarantesimo del tempio, su iniziativa del rettore don Pietro Mazzole-ni, venne consacrato il nuovo altare maggio-re, costruito secondo le attuali norme liturgi-

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che su progetto dell’arch. don Gaetano Ban-fi . L’antico altare è stato trasformato in custo-dia dell’Eucarestia, con due angeli adoranti in rame sbalzato, opera della Scuola Beato An-gelico di Milano”.

LA CRIPTA E LA CAMPANADEI CADUTI

Su quel campanile, disse allora l’oblato Car-lo Lucchini, sarebbe stata bene una sola gros-sa campana “che battesse dignitosamente un la basso di 435 vibrazioni”. La Campana dei Caduti è arrivata il 4 novembre 1968, nel cin-quantesimo anniversario della Vittoria, e ogni sera effonde sulla città i suoi rintocchi gravi (non so se le vibrazioni siano proprio nel nu-mero che proponeva il Lucchini) come un in-vito a ricordare i morti e ad affi darli alla mi-sericordia della Madre. La cerimonia della so-lenne benedizione della campana si svolse al monumento ai Caduti, sul lungolago, con l’in-tervento del vescovo ausiliare di Milano, mons. Luigi Oldani. Prima della benedizione venne tagliato il nastro tricolore dalla madrina, Gisel-la Cesaris Orio, sorella del sottotenente degli Alpini, Guido Orio, medaglia d’argento del pri-mo confl itto mondiale 1915-1918, caduto sul Pasubio nel 1916. “La voce di questa campana - disse mons. Oldani nel suo discorso - ad ogni tramonto del sole inciterà al raccoglimento, alla preghiera, al ricordo; risusciterà tante me-morie; diffonderà un senso di conforto, di fi du-cia, di speranza. Ma questa campana non vuole essere solo un ricordo di guerra, ma anche una voce, un augurio, una implorazione di pace”.

La grande campana dei Caduti, che fa scen-dere ogni sera sulla città, dal campanile del Santuario, alle ore 19, i suoi rintocchi, era sta-ta caldeggiata dalla sezione lecchese dell’Asso-ciazione Famiglie Caduti e Dispersi in Guer-ra, tramite la sua presidente Maria Fusi. Ave-va trovato favorevole eco nell’amministrazione comunale con il sindaco Alessandro Rusconi e

il vicesindaco Antonietta Nava. Era stata an-che promossa, con ottimi risultati, una pubbli-ca sottoscrizione cittadina.

“Nostra Signora della Vittoria dal suo san-tuario di Lecco - conclude Dino Brivio il capi-tolo qui integralmente ripreso, dedicato a que-sta chiesa nel suo primo tomo Segni della pie-tà mariana della serie Itinerari lecchesi - si fa sentire anche con la voce di un bronzo, a por-tare conforto e serenità. La grande campana ogni sera suona l’Ave Maria. Son rintocchi so-miglianti a una voce velata di pianto che ripe-ta a uno a uno i nomi dei Morti per la Patria, addormentati nella pace sotto l’ala protettrice della Nicopeia”.

Il tempio dedicato ai Caduti e in onore del-la Madonna della Vittoria iniziò già negli anni Trenta ad accogliere i resti mortali di diversi giovani lecchesi caduti sul vasto fronte della guerra 1915-1918. Uffi ciali e soldati, militari di tutte le armi e specialità, provenienti in larga parte dai cimiteri di guerra, venivano pietosa-mente raccolti nei loculi della cripta sottostan-te l’altare maggiore della chiesa. Un elenco di Caduti che si è notevolmente allungato con le vittime del secondo confl itto mondiale 1940-1945. Il 5 e 6 ottobre 1962, in particolare, le “penne nere” del Gruppo Grigna del quartiere lecchese di Castello, che fa capo alla sezione di Lecco dell’Associazione Nazionale Alpini, ve-dono coronati i loro sforzi per riportare in pa-tria 82 salme di Caduti della città di Lecco e del territorio, fra i quali 20 alpini, giunte dai cimiteri di guerra dei fronti greco-albanese e jugoslavo. La cerimonia, con corteo per le vie di Lecco e uffi cio funebre nella Basilica di San Nicolò, richiama decine di migliaia di persone che rendono ininterrotto, commosso, reveren-te omaggio ai Caduti. Le spoglie giunte a Lec-co sono quelle di oltre duecento Caduti, an-che di altre province lombarde. È presente an-che il labaro nazionale della Associazione Al-pini, decorato di 279 medaglie d’oro, proprio

Nelle pagine seguenti, l’altare e il presbiterio prima della trasformazione attuata nel 1972.

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perché fra i Caduti c’è una medaglia d’oro. Le salme lecchesi verranno tumulate nella crip-ta sacrario del Santuario della Vittoria, le altre nei paesi natali del Lecchese. Ad esse si ag-giungeranno dieci anni più tardi, nel 1972, le spoglie dei Caduti giunte dai cimiteri di guerra del fronte libico e, a partire dal 1991, anche le salme dei Caduti sul fronte russo.

GLI AFFRESCHI PROVENIENTIDA SAN GIACOMO

Come accennato, su uno degli altari late-rali, lustro di marmi, è l’antica immagine del-la Madonna circondata da bambini. Era nella basilica prepositurale di San Nicola fra una pa-rata di ex voto. Il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster la fece portare nel santuario.

Affreschi di varia provenienza ornano la “Vittoria”. Una Madonna fra Sant’Antonio e San Rocco, di scuola lombarda del primo cin-quecento, era sulla casa Turba d’Acquate (ne è data notizia in Immagini di Lecco nei secoli, di Mario Cereghini). Accanto a questo trittico, di fi anco all’altar maggiore del santuario, è in-corniciato un altro affresco raffi gurante la Ver-gine con Bambino fra due santi. Una targhet-ta d’ottone porta scritto che proviene da Og-giono ed è di scuola lombarda del primo ‘500. Si dice anche che è stato donato “in memoria dell’avv. Carlo Corti”, come il trittico prece-dentemente segnalato, del quale il Cereghini attribuiva la proprietà alla signora Delfi na Bo-naiti Aldè Corti.

Una delle composizioni pittoriche più im-portanti della singolare “collezione” formatasi nel santuario è la Crocifi ssione che campeggia sopra uno degli altari laterali, attribuita ad al-lievi di Gaudenzio Ferrari con probabilmente qualche tocco del maestro, il quale ai tempi dell’esecuzione, nella prima metà del secolo XVI (epoca peraltro controversa), pare si spo-stasse fra Milano e la Valtellina dove si trova-va la moglie, presso Morbegno. L’affresco era parte di un ciclo esistente nella chiesa di San Giacomo degli “Zoccolanti”, annessa cioè al convento dei Riformati che Giangiacomo Me-

dici partendo dal 1530 aveva fatto costruire a Castello sopra Lecco dopo aver ordinato l’ab-battimento dell’originaria sede dei frati la qua-le era fuori dalle mura del borgo quasi davan-ti alla Porta Milano e così poteva nascondere eventuali assalitori provenienti dal ponte vi-sconteo. La chiesa del convento (abbandona-to dai religiosi nel 1805 per i noti provvedi-menti napoleonici) fu demolita nel 1936; gli affreschi si salvarono grazie agli interventi del-l’avv. Carlo Corti e dell’ing. Enrico Gandola, benemeriti cittadini lecchesi. Gli “strappi” e i riporti su tela furono eseguiti dal concittadino Enrico Scary, esperto in tal genere d’operazio-ni, mentre il pittore milanese Italo Josz curò il lavoro di ritocco. Lo stesso Scary ha lasciato uno scritto sugli affreschi di San Giacomo ap-prodati nel santuario di Nostra Signora della Vittoria nella rivista Lecco, n. 5 del 1940. Per quanto riguarda in particolare la Crocifi ssio-ne si possono trovare altre annotazioni, riguar-danti attribuzione e datazione, in Opere d’arte a Lecco di Bruno Bianchi. Eccole.

Nel 1936 veniva demolito a Castello il con-vento e parzialmente la chiesa di San Giaco-mo, costruita a partire dal 1530. Oltre che una parte della chiesa, vennero salvati dalla distru-zione il portale di gusto rinascimentale ora al museo civico di Lecco e alcuni affreschi.

La Crocefi ssione fa parte del ciclo di pitture che decoravano la parete di accesso al presbi-terio. Il tema principale era infatti circondato da altre scene della Passione: la cena, la cattu-ra di Gesù, il giudizio di Pilato, la fl agellazione, l’incontro con le pie donne, la resurrezione; inoltre una serie di profeti. Nella chiesa del-la Vittoria si trovano, oltre alla Crocefi ssione, quattro scene della Passione e quattro profeti.

Fra le pitture che decoravano la chiesa di San Giacomo, alcuni frammenti raffi guranti dei santi vescovi si possono vedere nella chie-setta del Seminario, altri tre nel museo civi-co di Lecco e qualche altro dipinto si trova in case private.

È stato fatto per queste pitture il nome di Gaudenzio Ferrari e certamente qualcosa del

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Il 5 e 6 ottobre 1962 giunsero a Lecco le spoglie di oltre duecento Caduti sui fronti di guerra greco-albanese e jugoslavo: le salme lecchesi vennero tumulate nella cripta sacrario della Vittoria.

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maestro e della sua maniera degli ultimi anni è reperibile nella crocefi ssione; le somiglian-ze con la sua pittura sono però troppo gene-riche per risalire ad una attribuzione siffatta; certe fi gure, come la Maddalena inginocchia-ta, il gruppo con la Vergine, il San Giovanni Evangelista, qualcosa nel taglio dei cavalli e l’immancabile cagnetto bastardo, sono piutto-sto patrimonio iconografi co della pittura lom-barda tra il XV e il XVI secolo, che non carat-teristici di Gaudenzio. Il quale ebbe imitato-ri e seguaci assai numerosi fra i quali un frate pittore presente nel convento dei Riformati di San Giacomo e anche a Lecco con una “Cena” e due altre pitture. Questa presenza nella zona di Lecco dovuta anche all’appartenenza di frate Gerolamo all’ordine dei Riformati, il suo frequente operare in questi conventi e la sua abitudine all’utilizzo di cartoni di celebri maestri come il Luini e il Ferrari, non sono i soli motivi che fanno pensare al suo nome per questa Crocefi ssione: vi sono infatti tracce non secondarie che la apparentano alle fi gure della “Cena” quasi certamente sua ed ora nella pe-nitenzieria della Basilica di Lecco.

L’atteggiamento delle fi gure e il loro modo di muoversi e di agitarsi col corpo e coi pan-neggi, un agitarsi melodrammatico, quasi fe-roce nel ladrone di destra, sono un poco la fi rma del frate pittore originario di Premana, come pure il modo un poco forzato e innatu-rale di disporsi delle teste nei confronti dei ri-spettivi corpi.

La composizione risente poi di un certo imbarazzo nell’addensamento di fi gure del-le parti alte e di qualche scorrettezza, in par-te incolpabile forse al restauro, nei disegni di alcune fi gure, come la bambina fi nita fra le gambe del cavallo. I tratti migliori e più origi-nali si ritrovano in alcuni dei personaggi prin-cipali: il citato ladrone di destra e il Cristo; gli angeli presentano invece una impressionante aderenza di disegno, a quelli dipinti da Gau-denzio nella crocifi ssione di San Cristoforo a Vercelli. Qualche altro riferimento (nei ladro-ni, nel soldato gozzuto) può essere rintraccia-

to nella Crocefi ssione di Gaudenzio a Santa Maria delle Grazie a Milano.

Arsenio Mastalli, nel suo documentatissi-mo studio dedicato al convento degli Zocco-lanti e pubblicato nel primo volume delle Me-morie storiche della Diocesi di Milano, a pro-posito degli affreschi formula una interessante ipotesi. Lo spunto è fornito dalla visita pasto-rale effettuata nel 1794 dall’arcivescovo di Mi-lano Filippo Visconti che trovò l’oratorio dedi-cato a San Giacomo “quasi nudo e abbandona-to, col pavimento sporco, con le pareti oscure senza decorazioni e semi-scrostate”, fatto che “ha tanto più addolorato l’animo nostro per-ché abbiamo sentito che in questo oratorio si celebra con grande frequenza e divozione del popolo”. L’arcivescovo perciò comandava che “l’Oratorio sia del tutto pulito, restaura-to, assicurato e decorato”. I frati ubbidirono con celerità e, annota il Mastalli, “restauraro-no la loro chiesetta in modo veramente super-bo affi dando la decorazione interna a pennello di certo valore che alcuni nostri concittadini, fra cui l’egr. sig. ing. Enrico Gandola e il com-pianto avv. Carlo Corti, attribuirono alla Scuo-la di Gaudenzio Ferrari”.

Ma ecco invece la tesi di Arsenio Mastalli: “Secondo noi, e questo lo diciamo sottovoce perché la nostra competenza in fatto di arte pittorica è piuttosto limitata, e perché non in-tendiamo contraddire quanto hanno afferma-to i predetti esaminatori la cui parola non do-vrebbe essere discussa, l’artista o gli artisti che hanno decorato l’Oratorio di San Giacomo dal 1797 al 1798, copiarono quasi fedelmente gli stessi affreschi che Francesco Prata, pittore e orafo, allievo certo della Scuola del grande Ferrari, dipinse nel 1531 sui muri della Chiesa di San Bernardino in quel di Caravaggio, fon-data nel 1472 dalla pietà dei caravaggini i quali vi eressero anche il Convento dei Cappuccini ceduti poi ai Padri Riformati nel 1543.

“Abbiamo detto: gli stessi affreschi; infatti anche nel San Bernardino di Caravaggio, oltre alla grande scena della Crocefi ssione, si vedo-no i quadri raffi guranti la Cena, la Flagellazio-

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Migliaia di persone resero omaggio alle spoglie dei Caduti rimpatriate il 5 e 6 ottobre 1962.

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ne, la Resurrezione, ecc., quasi identici a quel-li che ornarono le pareti di San Giacomo e che si ammirano oggi nel Santuario della Vittoria in Lecco.

“Noi pensiamo che il Padre Guardiano del Cenobio di Castello conoscesse i dipinti del San Bernardino di Caravaggio, custoditi dai religiosi dello stesso suo Ordine ed abbia man-dato colà l’artista o gli artisti a cui aveva affi -dato la decorazione del suo Oratorio perché dagli affreschi del Prata prendessero ispirazio-ne e sapessero come voleva fosse decorata la Chiesa del San Giacomo”.

Pur essendosi dichiarato di limitata compe-tenza in fatto di arte pittorica, Arsenio Mastal-li dà anche un giudizio degli affreschi colloca-ti nel Santuario della Vittoria quando si pro-cedette alla demolizione della chiesa dei frati di Castello: “I quadri raffi guranti la Cena, la Flagellazione, la Resurrezione, ecc., sono ope-re buone, ma non certo pregevoli; la Croce-fi ssione, invece, dipinta ad imitazione di quel-la celebre di Gaudenzio Ferrari che si ammi-ra nella Basilica del Sacro Monte di Varallo, è opera di grande rispetto. Il Prata, in una delle molte fi gure poste ai piedi della Croce, ha raf-

fi gurato Gioppino: il Gioppino classico della tradizione, il Gioppino gozzuto, col cappelli-no tondo, vestito da pastore. Anche nella Cro-cefi ssione del San Giacomo, e ora della Chie-sa della Vittoria, l’artista sconosciuto ha posto dietro la croce lo stesso Gioppino bergama-sco, gozzuto, raffi gurandolo nel milite che of-fre a nostro Signore morente la spugna impre-gnata di aceto.

“Il Gioppino raffi gurato in ambedue le Cro-cifi ssioni, quella di Caravaggio e quella di Lec-co, ci persuade ancor più che l’artista affre-scatore della chiesa dei Frati di Castello abbia davvero tolto l’ispirazione dal capolavoro del Prata e ci fa concludere anche che la maschera del Gioppino col gozzo, esistesse già nel 1530 e dovesse essere da quel tempo assai nota.

“La nostra è un’ipotesi che potrebbe ri-spondere alla realtà; lasciamo comunque ai competenti la ricerca dell’artista ignoto che ha affrescato la chiesa di San Giacomo copiando un’opera che Fra Paolo da Olate, Guardiano del Convento, doveva certamente avere am-mirato nel San Bernardino di Caravaggio, dove altri Frati, del suo stesso Ordine, conducevano la medesima sua vita in povertà ed umiltà”.

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AcquateIN PIENO PAESAGGIO MANZONIANO

CHIESA DEI SANTI GIORGIO, CATERINA ED EGIDIO

CHIESA DI SANT’ANNA O DELLA CONCEZIONE

LA GROTTA E IL SANTUARIO DELLA MADONNA DI LOURDES

CHIESA DI SAN FRANCESCO IN FALGHERA

CHIESA DELLA BEATA VERGINE MARIA DEL ROSARIOIN MALNAGO

CHIESA DELLA BEATA VERGINE ASSUNTA IN VERSASIO

MADONNA DELLA NEVE AI PIANI D’ERNA

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IN PIENO PAESAGGIOMANZONIANO

La toponomastica lecchese dei nostri gior-ni ha dato il nome di Via ai Poggi alla stra-da carrozzabile che, staccandosi dall’abitato di Acquate appena passato il cosiddetto taberna-colo dei bravi e la viottola che “saliva verso il monte, e menava alla cura” - qui l’ambiente è tutto manzoniano e non si può sfuggire alle re-miniscenze - s’introduce sinuosa nel vasto de-posito morenico appoggiato ai fi anchi d’Erna e Resegone.

È un insieme, questo, che ha quasi la foggia - le immagini sono del Fumagalli, nella sua or-mai più che centenaria Guida di Lecco - del-le gradinate d’un anfi teatro gigantesco ovvero di una “fantastica conchiglia scoperchiata, col-l’estremo lembo circolare sollevato all’insù a rappresentare la cresta del Resegone”.

“Morbide e calme colline” chiama questi “Poggi” il Nangeroni, ed è defi nizione ammi-rativa di non poco conto essendo contenuta in un Itinerario geomorfologico e geografi co nella zona fra Lecco e Bellano per la Valsassina edi-to dal Club Alpino Italiano, opera cioè pretta-mente scientifi ca nella quale si spiega che tali colline sono “costituite di calcari marnosi del carnico, coperti di morenico, ma ben visibili percorrendo la strada che da Lecco sale alla stazione bassa della funivia” per Erna.

Già l’antico nucleo d’Acquate è in posizione elevata (sopra il corso del Caldone che poi si nasconde sotto i condomini) “siedendo - come

scrive l’Apostolo in Lecco e suo territorio - sul-le apriche falde del Resegone”: terra “impor-tante” quella d’Acquate, si afferma sempre nel-la “memoria” ottocentesca dell’Apostolo, con campagne che “si stendono oltre la sommità del Resegone e presentano il più esteso dei ca-tasti lecchesi”, con una parrocchia che “risa-le a tempi immemorabili”, con “i decenti suoi caseggiati” a dimostrare “che vi fi orirono delle agiate famiglie”. Non si potrà dimenticare quel Giovanni Antonio Airoldi, notaio, il quale mo-rendo nel 1594 lasciò i suoi beni in eredità alla Madonna affi nché fosse aperto nella sua casa un Ospedale per gli anziani del territorio lec-chese, che sopravvive tuttora negli Istituti Riu-niti Airoldi e Muzzi a Germanedo.

Nel Monte d’Acquate (“promontorio assai bene accidentato” secondo il Pozzi della Gui-da alle Prealpi di Lecco) i “Poggi” sono ecce-zionalmente attraenti, e si capisce quindi per-ché intorno ai vetusti agglomerati spontanei d’una civiltà prevalentemente contadina sia-no spesso spuntate costruzioni abitative nuo-ve che sarebbe bugia dir belle. E meno male che qualche santo ha impedito più massicce manomissioni che sarebbero derivate da una già decisa, ma poi revocata, destinazione del-la zona a piani di edilizia economico-popola-re. Non s’è invece salvato dai casermoni oppri-menti, purtroppo, lo zoccolo del Montalbano, fra Luera e Varigione.

Una storica immagine del vecchio nucleo di Acquate.

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Un tempo, lo ricorda Angelo Borghi in Dal cielo di Lecco, “sul monte di Acquate cresceva-no olivi e noci, viti e moroni; si tenevano cappo-ni e animali da cortile per il mercato di Lecco, tanto pregiati che un cappone del 1652 costava ben 50 soldi, il doppio di una libbra d’olio”.

“Di terra agricola ce n’è abbastanza ancor oggi - scriveva Dino Brivio, nel 1980, nel suo Montagna facile, primo della sua insuperata serie di Itinerari lecchesi - perfi no salendo in automobile per la strada che fa quasi da cuci-tura fra i nuclei di case e ville si ha la percezio-ne di essere in un ambiente diverso da quello cittadino. Già può bastare il soffermarsi qua e là per dilettarsi di visioni bucoliche nei primi piani e di piani lunghi spazianti con armonie indicibili sul quadro circostante di monti, di la-ghi, di città e paesi. Ma vuoi mettere - conti-nua Dino Brivio - l’impressioni che si possono cogliere, il respiro che viene offerto, a prende-re per le mulattiere d’una volta, che tagliano in su per l’erta muovendo, per esempio, dal-la grotta celebrante le apparizioni mariane di Lourdes, cara meta di lontani oranti incontri; e per i sentieri che van dentro per i prati e fra i vigneti, al cospetto delle fi n maestose rocce d’Erna che di sotto guardi incombenti?”.

Sono tre i nuclei principali d’età secolare che s’incontrano a scala ascendendo per i Pog-gi, ognuno con una propria chiesetta di non pochi anni.

Falghera è il più basso, già Foligaria o Fol-gera, “culla dei Pozzi famosi ghibellini” come riferisce il Borghi. Proprio su terreno di un Antonio Pozzi e fratelli, in luogo detto il Cal-vario, il 2 luglio 1605 venne iniziata la costru-zione dell’oratorio che gli uomini della frazio-ne, “ispirati dal Signore Iddio e dallo Spirito Santo”, avevan deciso di dedicare a San Fran-cesco, ma si riuscì a celebrarvi la prima volta soltanto nel 1648, il 4 ottobre festa del patro-no (il quadro con raffi gurato il “poverello d’As-sisi” era stato donato due anni prima dal no-taio d’Acquate Paolo Marchesino de Ajroldis, come insieme al resto e a tante altre cose ha raccontato Amanzio Aondio qualche anno fa

agli alunni della scuola elementare di Malna-go, in conversazioni sulla storia acquatese rac-colte poi in un opuscolo ciclostilato).

In mezzo è Malnago. Afferma ancora il Borghi - nell’opera citata in cui commenta fo-tografi e aeree di Renato Seregni - che “fi n dal 1373 Mannago era un gruppo di cascine dei Valsecchi di Olino detti poi Gattinoni. La gen-te produceva drappi di lana e vino, e infatti c’è ancora un bel torchio con la data 1716. Il paese si sviluppò nel XVIII secolo lungo la gradinata che scende ad Acquate. Sorse allora a monte la piccola chiesa del Rosario; bene-detta nel 1733, i fratelli Manzoni del luogo vi collocarono una vaga statua della Vergine in marmo di Carrara”.

Solitario, alla fi ne, quasi fuori dal mondo, è il piccolo villaggio di Versasio, “in una natu-ra che si direbbe ancora vergine se non fosse rattristata dal passaggio di elettrodotti in alta tensione che - letteralmente, come bene scrive Dino Brivio nelle pagine citate - gemono sopra le contorte viti in fi la. Li si sente ancora quan-do si è seduti sulla pietra del muricciolo che chiude il breve sagrato della chiesetta sacra al-l’Assunta”, di origine cinquecentesca assicura l’Aondio, descritta minutamente negli atti del-la visita pastorale effettuata il 18 luglio 1608 dal delegato del cardinale Federico Borromeo.

“Ora è in programma la realizzazione di una strada che, per collegare in nuova sede la Val-sassina a Lecco o meglio alle sue uscite per Mi-lano, dovrebbe lambire o intaccare la fascia dei Poggi - scriveva ancora Dino Brivio nel 1980 - I posteri potranno registrare i danni che al-l’ambiente collinare del Monte d’Acquate, fi n qui mantenutosi in condizioni accettabili spe-cialmente intorno a Versasio, potrebbero esse-re inferti. Sia lecito sperare che la futura strada non debba lasciare un ricordo peggiore della grande frana che proprio a Versasio, alle ore 11 del 16 settembre 1882 (e la rievocazione è in Vicende di antichi Comuni lecchesi di Aloisio Bonfanti) seminò lutti, dolori e rovine”.

Cinquant’anni esatti prima dell’invito di

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Due immagini dei “Poggi”, quella dello sviluppo con in primo piano la scuola di Malnago (foto di Carlo Cardini) e quella del paesaggio rurale (collezione Valentino Frigerio).

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Dino Brivio, aveva preso per le mulattiere d’una volta il Cardinale Arcivescovo di Mila-no, Alfredo Ildefonso Schuster, durante la sua visita pastorale ai primi dell’autunno del 1930. Testimone e cronista d’eccezione di quella vi-sita Uberto Pozzoli, che ne scrisse giorno per giorno su L’Italia di Milano, il tutto poi raccol-to da Aristide Gilardi, assieme a molto altro di Uberto Pozzoli, in Frammenti di vita lecchese. Da dove è tratta la paginetta che segue, che porta la data del 4 ottobre 1930.

L’ultima tappa della visita pastorale portò l’Arcivescovo in pieno paesaggio manzoniano: Olate e Acquate. I due ex paesi - che ora sono rispettabilissimi “rioni” della città ex borgo - si disputano, come si sa, l’onore di aver dato i na-tali ai promessi del Manzoni, e di aver avuto entro i loro confi ni don Abbondio, buon uomo, la sua Perpetua, e quella furbacchiona di Agne-se. La contesa, veramente, non ha mai avuto nemmeno in ombra il carattere di quelle “rixe” antiche che fi nivano in “bruciamenti” e peggio; anzi, si può dire oramai sfociata in una pacifi ca via di mezzo. Si sono create due case di Lucia: una ad Acquate, l’altra a Olate; tutti sono con-tenti; ed è così scongiurato qualsiasi pericolo per la salute e la tranquillità pubblica.

Alle 17, in processione, il Cardinale fu ac-compagnato al confi ne, dove attendevano quei di Acquate. Baciato il Crocifi sso, Sua Eminen-za scese subito al cimitero; poi risalì alla par-rocchiale, che domina da un poggio tutta la città. Anche lassù c’erano luci e fi ori e fronde. A dir la verità, il Parroco era d’accordo coi suoi di non far spese per gli addobbi, e di offrire generosamente per il Seminario; ma all’ultimo momento l’entusiasmo ebbe il sopravvento: “Daremo l’obolo per il Seminario - dissero gli acquatesi - ma vogliamo anche noi far festa al-l’Arcivescovo. E certo il curato non fu malcon-tento di vedere il suo popolo preso dall’entu-siasmo. (Il parroco di Acquate, don Giovanni Piatti, non ha niente a vedere con don Abbon-dio: ha tutt’altra aria! Per conto mio non vorrei

essere uno dei bravi incaricato di portare a lui - che ha due mani che par di sentirsele dure dure sul viso - certe missive da don Rodrigo. Un giorno un altissimo personaggio gli fece vi-sita e, partendosene, gli disse: “Sono lieto di aver potuto conoscere il successore di don Ab-bondio”. E lui secco: “Grazie tante”. Voleva aggiungere: del bel complimento).

È inutile ripetere che anche ad Acquate giovedì mattina vi fu gran gente alla messa di Sua Eminenza e alla Comunione generale, e che più tardi l’Arcivescovo amministrò la Cre-sima e tenne le adunanze delle varie e nume-rose associazioni. La nota, diciamo così, origi-nale della visita venne data dalla corsa del Car-dinale sui poggi di Falghera, Malnago e Versa-sio, dove la pietà degli antichi edifi cò cappelli-ne e oratorii. Anzi, Sua Eminenza voleva sali-re fi no a Erna, all’Oratorio della Madonna del Carmine, che protegge i pascoli meravigliosi coronati di rocce (o perché non esser di mag-gio, quando i narcisi stendono sul verde il pro-fumato candore dei loro petali?); ma oramai la stagione inoltrata ha fatto scappare dalle baite di lassù i bergamini, e la visita si sarebbe ridot-ta a una lunga e quasi inutile fatica.

Il nuovo pellegrinaggio montanino del Car-dinale si inizia all’oratorio della Concezione, più su della parrocchiale. Nella chiesetta Sua Eminenza parla ai confratelli. Fuori sosta a commentare un antico dipinto: “Quello è San Carlo, questo Sant’Antonio, l’altro San Roc-co; e quaggiù c’è qualcosa che vorrebb’essere un cane”. Alla grotta di Lourdes sono riuniti i membri della sezione dell’Unital. Ci sono an-che due miracolate: una giovane e una bimba di dieci anni. “La vita avuta in dono dalla Ma-donna - dice loro il Cardinale - bisogna spen-derla tutta per la Madonna”. Il canto dell’Ave Maria di Lourdes si fonde con gli applausi del-la folla che segue l’Arcivescovo.

La processione - è una vera processione - arranca su per la mulattiera cordonata. Il Car-dinale non adopera il bastone: lo lascia a don Giulio Spreafi co, che gli fa da guida. Di tanto in tanto si incontrano donne e vecchi che sa-

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I Poggi a metà degli anni Trenta, con il Santuario di Lourdes appena completato. Qui sotto, Peregrinatio Mariae in corso Promessi Sposi, alla Giazzera, nel maggio 1948.

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lutano il Cardinale. A Falghera le spose han-no distesa la loro dote fuori delle povere case. Nella cappellina - dedicata ai Santi Francesco e Agostino - l’Arcivescovo rivolge un breve di-scorso alla gente della frazione. “Vi lascio la benedizione - conclude - e andiamo innanzi”.

A Malnago suonano a festa le campane, che devon essere due soltanto. Il campanaro, en-tusiasmato, non la smette nemmeno quando l’Arcivescovo entrato nella piccola chiesa del-la Vergine del Rosario, sta per parlare al po-polo. Proprio allora si sente una gran voce che grida: “Piantela!” e la chiacchierata delle due campanelle fi nisce di botto. Su di una tavola di candido lino i contadini offrono l’uva al Cardi-nale che ne accetta un grappolo. E la corsa ri-prende di nuovo.

A Versasio altra predica, nell’oratorio del-l’Assunta. La gente di lassù è in gran festa, e ha sfrondato i castagni per addobbare le stra-dicciole perdute tra i prati trionfanti nel sole, che fa brillare ogni fi lo d’erba. Anche qui le campanelle vogliono la loro parte, e gli squilli corrono giù giocondamente per la vallata della

Bonacina. La discesa si fa da questa parte, fi no alla Ca’ d’Inferno, in fondo alla valle. I ciot-toli della mulattiera sono umidi; con le scar-pette si fatica a star ritti: stavolta il Cardinale chiede il bastone. Ma vuol correre ancora, ché son quasi passate le due ore messe in preven-tivo per la visita alle chiesette del monte. “Che gamba!” esclama un vecchietto che fa di tutto per star vicino al Cardinale. Prima di arrivare alla frazione di Movedo, giunge dalla Bonaci-na l’eco di una salva d’applausi. L’Arcivescovo si ferma e benedice dall’altra costa della valle quella buona gente, raccolta vicino alla chie-sa nuova, tutta bianca nel sole alto. Alle 10,15, giunto ad Acquate, il Cardinale incomincia la visita agli infermi.

Sua Eminenza lasciò la parrocchia alle 16. Fu accompagnato fi no alla Giazzera da tutto il popolo, in processione. L’ultimo suo atto, lag-giù, fu la visita a due poveri vecchi ammalati. Poi partì per Lecco, dov’era riunita la congre-gazione plebana del clero, che attendeva l’Ar-civescovo per sentirlo tirare le somme di un intero mese di fatiche apostoliche.

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CHIESA DEI SANTI GIORGIO, CATERINA ED EGIDIO

Chi meglio di uno dei fi gli più illustri di questa terra - il sacerdote don Andrea Sprea-fi co (1874-1957), manzonista come pochi a Lecco - può introdurci alla storia della chiesa di Acquate? Ecco il suo scritto, apparso nella Guida di Lecco del 1927.

Bisogna dire che i documenti dell’archivio parrocchiale di Acquate, donde si sarebbe po-tuto trarre la storia di questa chiesa, si siano perduti per istrano accidente, perché men-tre vi si trovano notizie sugli oratori di Erna, Falghera, Malnago, Versasio, della chiesa ma-dre non c’è niente di niente. Per giunta, fi n dal 1758 il parroco Giovanni Battista Pagano, il quale s’interessò di cercarne le origini, scrive che “la fondiaria di questa cura non s’è potuta trovare nell’archivio arcivescovile, dopo esatte diligenze fatte fare dal parroco”. La chiesa de-v’essere molto antica; certamente la sua fonda-zione è anteriore al 1400. Una vaga induzione si può trarre da questa minuzia: le varie chiese sparse nel nostro territorio in origine furono offi ciate da canonici della collegiata di Lecco o da sacerdoti avventizi approvati dal prevo-sto di Lecco. Estendendosi i paesi, le chiese divennero parrocchie, perciò autonome; tutta-via, quasi a riconoscimento dell’antica dipen-denza, i parroci furono obbligati ad invitare il prevosto di Lecco a certe funzioni parrocchia-li, come ai funerali, ed a pagargli un annuo tri-buto che, almeno per qualcuno, consisteva in un capretto. Ora Acquate non ebbe mai que-sti obblighi verso Lecco; ciò signifi cherebbe che Acquate era già parrocchia indipendente,

quando le altre parrocchie non erano ancora sorte, cioè stralciate da Lecco.

A proposito di questa antichità, Giuseppe Fumagalli nella sua Guida di Lecco ci dà una notizia meravigliosa: “La sua chiesa - quella di Acquate - ora ridotta ad uso oratorio, credesi sia la più antica che i cristiani abbiano innalzata nell’alta Lombardia, risalendo al 1200. Quella che si vede davanti al paese è moderna…”. La riduzione ad oratorio dell’antica chiesa è una spiritosa invenzione del Fumagalli. In Acqua-te, non esiste altro oratorio che quello dell’Im-macolata Concezione. Ora ecco che cosa si leg-ge nel testamento del sac. Francesco Airoldi, uno dei più insigni benefattori di Acquate: “(il cappellano della Concezione) sia obbligato a celebrare tutti i giorni feriali e festivi la Messa nella chiesa che io ho fatto costruire nella no-stra vigna (era uno dei possessi di casa Airoldi che lasciò poi il nome all’osteria della Vigna) dietro le case sotto il titolo ed a lode e onore della Concezione…”. Il testamento fu rogato il 23 luglio 1563; dunque l’oratorio fu fondato pochi anni prima, quando la parrocchiale esi-steva già da chi sa quanto tempo. Forse però la notizia del Fumagalli che ne porta la fondazio-ne al 1200 merita la stessa fede della sua tra-sformazione in oratorio.

Sembra invece di valore indiscutibile una pergamena sfuggita, non si sa come, al naufra-gio dell’archivio, la quale parla di “sedizioni, di-scordie, guerre mortali che regnarono nel ter-ritorio di Lecco ed in pressochè tutta la Lom-bardia nei quattordici anni che seguirono al 17

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agosto 1403” e pare che siano i tristi fatti suc-cessi dopo la morte di Gian Galeazzo Viscon-ti, durante i quali si sa che per tutto risorgeva-no furibondi i partiti guelfo e ghibellino, con la decapitazione di Gabriele Maria, l’uccisione in San Gottardo di Gian Maria e la successione di Filippo Maria nei possessi di tutti i Visconti e in quelli di Facino Cane, fi no alla morte dell’infe-lice Beatrice di Tenda. “Il territorio di Acqua-te fu più volte teatro di risse per opera di uo-mini inumani, specialmente nel luogo dove era posta la chiesa di San Giorgio e il suo cimitero (che era là dov’è adesso il sagrato). Per que-sto ritenendosi violati l’uno e l’altra, fu rimos-so l’altar maggiore e ricostruito, e il 27 maggio del 1418 il parroco Giovanni de’ Botani li fece riconsacrare da frate Bartolomeo da Cremona e Vescovo Castionese, alla presenza delle auto-rità religiose e civili del luogo, tra cui il nobi-le uomo Antonio de’ Capoli di Piacenza, pode-stà di Lecco, e “il magnifi co ed eccellentissimo Signore signor Pandolfo Malatesta”, che aven-do perduto i suoi domini negli anni preceden-ti per opera del Carmagnola, allora generale di Filippo Maria Visconti, s’intitolava però ancora “signore di Brescia, Bergamo e Lecco”.

Dunque la chiesa di Acquate c’era già nel 1418.

Il Fumagalli dice che la pergamena in que-stione ricorda il seguente fatto: “Nell’anno 1403 quelli di Brumano per contestazioni in-sorte con quei d’Acquate per certi diritti di proprietà boschive, scesero dalla bocchetta del Fo (faggio) ad Acquate ed a tradimento appic-carono il fuoco al paese distruggendolo quasi completamente”. Di tutto questo la pergame-na non dice nemmeno una parola. Forse il Fu-magalli confonde una delle tante questioni che nascevano tra paese e paese con il fatto grave avvenuto pochi anni dopo: “nel 1427 Lecco e il territorio ritornarono in potere del Duca (Fi-lippo Maria Visconti) e Acquate, in pena per aver favorita ad oltranza la rivolta (in favore di

Venezia) fu abbruciata” (Pozzi, Lecco e Bar-ra). Non sappiamo se fosse bruciata la chiesa.

Le notizie storiche successive, che ho po-tuto racimolare, si riferiscono alle fondazioni delle cappellanie inerenti agli altari laterali, che già fi no dal 1418 erano sei.

Nel 1506 Maddalena del Prato fondò la cappellania della Visitazione di Santa Elisabet-ta, con l’onere originario di tre messe settima-nali e l’annuo reddito di 69 lire imperiali, che fu poi aumentato per altri legati, fra cui uno di lire 10 milanesi fatto il 27 settembre 1849 dal prevosto di Lecco Antonio Mascari. L’11 feb-braio 1513 Giorgio del Pozzo di Acquate isti-tuì una cappellania per l’altare della Madonna, assegnando come competenze al cappellano i redditi di dieci pertiche di terreno, e 25 lire imperiali annue.

Tre membri della nobile famiglia Airoldi detti i Marchesini, rispettivamente nel 1567, nel 1619 e nel 1629, istituivano e dotavano la cappellania dell’altare di S. Lucia, perché un cappellano celebrasse per loro ogni giorno. Oltre questi tre cappellani di patronato parti-colare, c’era anche un coadiutore, sovvenzio-nato annualmente dal parroco. In un “Noti-fi cato alla Curia Arcivescovile” del novembre 1758 il parroco G. Battista Pagano dice che al suo coadiutore conferiva annualmente 130 lire imperiali che detraeva dal suo benefi cio di lire 488 in totale.

E poi non c’è più nulla fi no al sec. XIX. Nel 1847, come si legge in una nota incidentale d’un documento di nessuna importanza stori-ca, parroco e coadiutore (di cappellani non si parla) “furono occupatissimi per la costruzione della chiesa parrocchiale”. Nel 1817, come ri-cordano ancora i membri delle famiglie di Pa-squale e Battista Locatelli, fu soppresso il cimi-tero attorno alla chiesa; i Locatelli regalarono alla parrocchia il primo pezzo di terreno che servì per il cimitero odierno. Liberata così dal-le tombe l’area circostante ed essendo la chie-

L’interno della chiesa parrocchiale di Acquate.

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sa troppo piccola in confronto con la popola-zione aumentata, si abbattè, si modifi cò (chi ne sa qualche cosa?) l’antica e si costruì quella che esiste ora. I nostri vecchi dicevano che il dise-gno primitivo di essa fu fatto dall’ingegner Bo-vara e che la sua architettura avrebbe dovuta essere molto simile a quella della chiesa di Ca-lolzio; ma che poi essendo venuti meno i soldi, gli avi, ch’erano di taglio un po’ grosso, s’accon-tentarono d’un povero camerone che aveva il vantaggio, l’unico vantaggio, di essere grande.

L’organo che c’è nella chiesa di Acquate le fu regalato dall’infelice Massimiliano d’Au-stria, quando fu governatore, tra il 1857 e il 1859, del Lombardo Veneto e non risparmiò favori e benevolenze (intempestive ormai) per rendere accetto ai nostri maggiori il governo austriaco. A ricordare che l’organo era dovuto alla sua munifi cenza, l’arciduca vi fece sovrap-porre una grande corona di ferro dipinta, visi-bilissima per chi guardasse all’organo. Venne il ’59; gli Austriaci dovettero fare il loro primo sgombero e gli Acquatesi, che erano patrioti e poveri, tolsero di là sopra quella corona che non aveva più ragione di starvi e la innalzaro-no sull’altar maggiore a sostenere il moschet-to: e lo sostiene ancora.

La decorazione con cui si tentò di abbelli-re la nostra chiesa nel 1914, si deve alla borsa del parroco vivente don Giovanni Piatti, ed al pennello di Davide Beghi.

Una povera storia d’una povera chiesa ap-partenente ad una popolazione molto ricca di fede e di nobili sentimenti cristiani.

UNA DELLE CHIESE PIÙ ANTICHE DELLA CITTÀ

Né povera in se stessa, né tantomeno pove-ra di storia è la chiesa di Acquate, come voglio-no testimoniare queste pagine. Vi si troveran-no conferme a quanto scritto da don Spreafi -co, altre testimonianze documentarie e qual-che ulteriore approfondimento.

Si può vedere dalla tavola che correda gli atti della visita pastorale effettuata nel 1608 dal cardinale Federico Borromeo alla Pieve di Lecco come già agli inizi del XVII secolo la chiesa di San Giorgio in Acquate fosse di rag-guardevoli dimensioni. Acquate del resto era una delle parrocchie più importanti della Pie-ve e la chiesa parrocchiale, dominante dal pog-gio lambito dal torrente Caldone, manifesta i segni di un’antica nobiltà. In effetti si tratta di una delle migliori chiese della Pieve di Lecco, meritevole quindi di ogni tutela.

La chiesa parrocchiale di Acquate è dedica-ta ai Santi Giorgio, Caterina ed Egidio. È an-tica, tanto che le sue origini sono ancora sco-nosciute nonostante le diligenti ricerche fatte fare anche dai parroci del passato. Nel 1300 c’era già, sorgeva nella stessa posizione di ades-so, ma era più bassa. Di essa se ne parla negli Statuti di Lecco, istituiti appunto verso la fi ne del XIV secolo, e nei rogiti del notaio Zano-lo Cafferario da Castello che rogò nel 1373. Il documento più antico che si conserva in par-rocchia è una pergamena del 1417. In essa si parla della riconsacrazione della chiesa, avve-nuta in quell’anno, per nefandezze compiute dentro e fuori il luogo sacro.

La sua antichità è provata anche in un docu-mento del 1700. In esso si riafferma la premi-nenza che aveva nei confronti delle altre chiese della Pieve. In passato il parroco di Acquate go-deva di alcuni privilegi anche nei confronti del prevosto di Lecco. Nella sua chiesa si chiamava prelato e aveva la stessa autorità di un prevosto con il capitolo di una chiesa collegiata.

La parrocchia di Acquate, a differenza di tutte le altre, non ebbe mai nessun obbligo né di capretto né di ceri né altro verso il prevosto di Lecco in segno di riconoscimento di un’an-tica dipendenza. Ciò dimostra che non fu sepa-rata o smembrata dalla prepositura di Lecco.

Intorno al 1570 San Carlo ordinò agli ac-quatesi si assoggettarsi al prevosto di Lecco.

I busti reliquiari lignei del secolo XVIII: in senso orario, dall’alto, San Magno, San Liberto, San Faustino, San Benigno.

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Essi rifi utarono dicendo che la parrocchia era di collazione arcivescovile per diritto antico, perciò non soggetta alla prepositura. San Car-lo appianò la faccenda.

Nel 1605, all’epoca dell’inizio della fabbri-cazione dell’oratorio di Falghera, si agitava-no ancora le questioni della traslazione della chiesa prepositurale da Castello a Lecco e il 25 agosto 1605 fu fi rmato un documento defi -nitivo di conciliazine, che fu rogato a Castello, e fra le tante convenzioni si stabilì anche que-sto: al punto 6 che “la processione del Corpus Domini abbia sempre inizio da Castello dopo la Messa solenne”; al punto 7 “nulla pregiudi-ca il diritto del capretto”. A ben intendere il valore di quest’ultimo punto si sappia che nel-la Pieve di Lecco, ad ogni stralcio della chiesa matrice per l’erezione di qualche nuova par-rocchia, imponevasi a questa, in ricognizione dell’antica sudditanza, il tributo di un capret-to, da corrispondere al prevosto nella ricorren-za delle feste pasquali. Ne erano esentate le parrocchie di Acquate e di Ballabio. Quella di Acquate non aveva onere di sorta. Quella di Ballabio, in forza dell’istrumento di erezione dell’anno 1412, doveva ogni anno al prevosto una liretta di pepe (la lira - libbra - grossa di Valsassina da once 30 pesava circa 800 gram-mi; la liretta, libbra piccola, da 12 once pesava circa 350 grammi).

La questione del capretto teneva banco an-cora durante il rettorato di Paolo Garimberti, prevosto di Lecco e Vicario foraneo della Pie-ve con bolla del 16 maggio 1755. Al ricorrere delle feste pasquali, ogni anno le parrocchie della pieve dovevano contribuire al prevosto un capretto buono e pingue, oppure l’equiva-lente in soldi 50. Nel 1769 il supremo Consi-glio di Economia dello Stato di Milano ave-va sospeso quel tributo. Ricorse il Garimberti alla giunta economale, il 14 novembre 1776, citando i documenti di erezione delle parroc-chie quali risultavano dal Liber jurium eccle-siarum plebis Leuci dell’archivio arcivescovi-le. Bastò perché il tribunale con decreto 20 settembre 1780 ripristinasse l’obbligo. Tut-

te le comunità ubbidirono, all’infuori di San Giovanni alla Castagna a costringere la quale fu necessario un nuovo ricorso. Le parrocchie soggette a fornire il capretto erano Brumano, Maggianico, Castello, Malgrate, Rancio con Castione, San Giovanni alla Castagna, Ola-te, Germagnedo e Laorca. Dall’elenco manca Acquate, a conferma del privilegio.

In Valsassina, per immemorabile consuetu-dine, il parroco esigeva un capretto dalla fami-glia del primo neonato che si battezza usando il crisma nuovo, il quale crisma consacrato nel Giovedì Santo in Duomo, suole distribuirsi ai parroci della Pieve nella prepositurale di Pri-maluna il giorno di lunedì che immediatamen-te segue la Pasqua. Anche ad Acquate c’era l’usanza del capretto per il primo neonato che veniva battezzato nell’acqua santa nuova, quel-la cioè benedetta nel giorno di Sabato Santo.

I parroci che si susseguirono alla guida del-la parrocchia furono parecchi. L’elenco inizia con il parroco sac. Giovanni Botani nel 1417. Quelli di cui fi nora conosciamo i nomi sono 25 fi no a don Alessandro Luoni, cui aggiungerne altri tre: don Luigi Zoja, don Cesare Lauri e don Angelo Grassi, arrivando così a 28.

Ciascuno di loro ha lasciato, piccola o gran-de, una traccia. Così il manoscritto (l’anno è illeggibile nella sua terza cifra, ma dovrebbe trattarsi del 1687) Novo estrato fatto per me Infra.to Curato delli beni et redditi perpetui della cura di S. Giorgio d’Aquate cavati dalli libri et scritture antiche di d.a cura. Io P. Giu-seppe Tartari Nottaro Apostolico e Curato del-la sudd.ta Cu.a di Acquate dall’anno 1645 in qua. Laus Deo Beate gr V.M. ac. S.to Joseph.

Descrive la chiesa che ha sette altari (il maggiore dedicato alla Natività di Gesù, la Madonna, San Rocco, Santa Lucia, Sant’An-tonio da Padova, San Carlo, Santa Caterina) e il battistero; il campanile con orologio e tre campane, la sacrestia. Descrive le suppelletti-li. Quindi elenca quanto fatto da lui: il vesti-bolo davanti alla porta maggiore come aveva ordinato San Carlo; le fi nestre che danno luce a tutta la chiesa; le cancelle di ferro alle cap-

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pelle; “un bellissimo trono adorato per espor-re il Sant.mo (e) li quatro busti per ripore le sacre reliquie de Santi a me donate con li au-tentiche”. “L’anno 1668 fecci fare dodici pez-zi quadri delli dodici apostoli con pensiero di lasciarli alla chiesa mia parochiale e fra tanto tenerli nella sala, l’anno 1682 e 1683 li ho fat-to fare, et aggiustato le corizze d’intaglio, et con l’occasione della solennità del Corpus Do-mini li ho fatti reponere attaccati nella chiesa per sempre, con patto che non si rimovano dal suo luogo per imprestarli ad alcuno”. “L’anno 1685 si è fabbricato l’organo di perfettione di 10 registri dal virtuoso sig. Giulio Cesare Fer-rario di Milano”.

Oppure, altrettanto importante per i riferi-menti alla storia acquatese, il manoscritto del 1758 del parroco don Giam Batta Pagano: “La cura di S. Egidio, Giorgio, e Cattarina d’Ac-quate Pieve di Lecco è antichissima, come consta dal catasto del Ducato di Milano. La fondiaria di questa cura non s’è potuta trova-re nell’Archivio Arcivescovile dopo esatte di-ligenze fatte fare dal parroco moderno anche con sue spese. La sua antichità si pruova dalla translazione e nuova consacrazione dell’altare maggiore della chiesa parrocchiale seguita il 7 maggio dell’anno 1417 come da ricapito lega-le presso il parroco. Nell’anno 1563 25 luglio il R.do Sacerdote Francesco Airoldi, come da suo testamento rogato dal pubblico notaro di Milano Gio. Ant.o Airoldi ha lasciato una cap-pellania perpetua con obbligo di messa quo-tidiana nell’oratorio dell’Immacolata Conce-zione della cura di Acquate, argomento chiave che prima vi era la d.ta Cura d’Acquate”.

De Parochiali ecclesia Aquate è il titolo di un documento senza data - secondo Arsenio Mastalli che lo ha tradotto con la collaborazio-ne del parroco di Bonacina don Giovanni Aro-sio dovrebbe essere del XVI secolo; secondo lo stesso don Arosio del secolo successivo - dove si legge: “Come viene giudicato il motivo di precedenza nelle Chiese Generali, la Chiesa Romana tiene il primo posto fra le altre, quel-la Alessandrina il secondo, quella Antiochena

il terzo, così si deve tenere anche lo stesso cri-terio nelle chiese speciali, nelle diocesi e nelle pievi, perché non c’è nessuna ragione di usa-re diverso criterio nell’uno e nell’altro caso, da cui deriva che dove c’è un medesimo motivo si debba stabilire il medesimo diritto.

Ammesso questo principio è da stabilire quali delle chiese curate della pieve di Lecco sia la maggiore, la più degna e la più antica così di avere la precedenza. A questo riguardo non c’è alcun dubbio che la Chiesa Parrocchiale di S. Egidio e Giorgio di Acquate sia la maggiore la più degna e la più antica della pieve; sia per-ché di questa chiesa fanno menzione gli statuti di Lecco nella rubrica generale “degli uffi cia-li” emanati nel 1450 sia perché la detta chiesa fu ed è fi n dall’antichità affatto distinta e sepa-rata dalle altre cure e dalla stessa Chiesa Pre-positurale di Lecco il cui prevosto nella par-rocchiale di Acquate non ha altra giurisdizione fuori di quella prepositurale; ma il parroco (di Acquate) nella sua parrocchia si chiama prela-to e ha la stessa autorità di ogni prelato col ca-pitolo di una collegiata. La qual cosa non av-viene nelle altre chiese curate della pieve di Lecco, le quali un tempo erano vice cure sot-toposte direttamente alla prepositura di Lec-co dalla quale se vollero separarsi ed erigersi in parrocchie titolari fu necessario il consen-so del prevosto, che per non perdere il diritto della sua supremazia volle e stabilì che i cura-ti gli dessero un’annua prestazione per quanto questa prestazione, coll’andare del tempo, per lo più sia passata in dimenticanza; cioè da al-cuni un capretto e da altri qualche cosa d’altro per questo riconoscimento, ciò che non presta il curato d’Acquate e che non diede mai. Pro-vato pertanto la superiorità della detta chie-sa parrocchiale d’Acquate nel confronto con le altre della medesima Pieve, sia per ragione della sua antichità che per ragione della sua di-gnità e preminenza derivante dalla sua libertà e separazione dimostrata, non c’è alcun dub-bio che il suo curato, nelle pubbliche funzioni debba tenere il primo posto (avere la prece-denza) in confronto degli altri”.

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I due altari della chiesa parrocchiale di Acquate.

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L’interno della chiesa parrocchiale di Acquate prima dei rifacimenti postconciliari.

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La chiesa parrocchiale, sullo stesso perime-tro di un tempo, venne ricostruita quasi total-mente nel 1847. Il progetto fu dell’ing. Adria-no Gazzari di Castello. Le spese furono soste-nute quasi totalmente dal Comune di Acquate. Sempre nel 1847, in presenza dei lavori di re-stauro e di ampliamento della chiesa, il parro-co e la fabbriceria chiesero in Curia la dispensa di alcuni legati per provvedere la chiesa stessa degli arredi mancanti. Ci soccorre, al riguardo, la seguente scheda del sac. Andrea Spreafi co:

“Il 4 febbraio 1847 il parroco e i fabbricie-ri della chiesa di Acquate espongono al Vicario Generale Capitol. della Curia di Milano che la Deputazione Comunale di Acquate con di-spaccio sanzionato con decreto vicereale ha ot-tenuto il permesso di restaurare ed ampliare questa chiesa parrocchiale resasi per la di lei antichità rovinosa, il tutto a carico comunale. Per far fronte a simili spese di ampliamento e restauro venne approvata la somma di lire au-striache 23650. Ma la superiorità non pensa al-l’arredamento della chiesa. Gli altari (7) sono fracidi, il maggiore indecentissimo e mancan-te del moschetto e del baldacchino. Abbisogna un organo, essendo l’attuale inservibile. Abbi-sognano i paramenti in terza rossi e uno bian-co. Abbisognano tutti i pallii. In chiesa non c’è che una trentina di banchette. La chiesa è mancante già da gran tempo del tappeto del-l’altare maggiore e paramenti per il presbite-rio. I tre confessionali di legno per la loro anti-chità trovansi al presente nel deprecabile stato per la pura decenza d’essere senz’altro costrut-ti di nuovo. La fabbriceria fu obbligata dall’au-torità superiore a pagarle per dodici anni lire austriache 300. Per supplire a queste mancan-ze e spese i fabbricieri chiedono la dispensa dei legati di Falghera, Malnago e Versasio per 12 anni, nei quali si chiede che si possa cele-brare in detti oratori una messa festiva, il che era già stato concesso per tre anni il 12 gennaio 1842”. C’è un’aggiunta di Amanzio Aondio re-lativa alla spesa totale del restauro e rifacimen-to della chiesa: al prezzo fi ssato di 23650 lire austriache, si aggiunsero spese addizionali per

7201 lire e 79 centesimi e altre per modifi che all’atto pratico pari a 343 lire e 58 centesimi: il totale della spesa fu quindi di 31195,37.

Progettista dell’opera, come già accenna-to, l’ing. Adriano Gazzari di Castello di Lecco. Costruttore il capomastro Francesco Vassena di Lecco. I lavori iniziati nell’agosto 1846 fu-rono terminati nel dicembre 1847 e collaudati nel 1848 dall’ing. Gregorio Scandella di Bar-zio. Questo il riassunto dei lavori compiuti: de-molizione del vecchio tetto, del vestibolo da-vanti alla porta d’ingresso principale, delle due cappelle laterali davanti al presbiterio. Unifor-mato il pavimento, raddrizzati e sopraelevati i muri perimetrali. Nuove costruzioni: la gran-de volta a tutto sesto, la volta del presbiterio, il coro, il locale adiacente al campanile, il tetto, le tre cappelle sul lato sinistro rispetto all’ingres-so principale, la cantoria, il pronao neoclassi-co. Furono anche demolite la stalla e la cascina poste nel giardino parrocchiale per consentire l’allargamento della piazza davanti alla chiesa.

Le decorazioni eseguite nel 1914 dal pitto-re Davide Beghi si devono alla borsa persona-le del compianto parroco don Giovanni Piatti. La chiesa veniva riconsacrata dal Card. Ferra-ri, arcivescovo di Milano, nel 1914. Imponen-ti poi i restauri e gli abbellimenti, esterni ed interni, apportati dal parroco don Luoni lun-go il periodo del suo ministero in parrocchia (1948-1973).

In parrocchia si venera particolarmente Santa Lucia. Negli atti di una visita pastorale del 1400 si legge che in chiesa di Acquate, fi n d’allora, c’era già l’altare (cappella) dedicato alla Santa Martire di Siracusa. La tradiziona-le festa di Santa Lucia, che si celebra annual-mente in parrocchia il 13 dicembre, richiama in paese gran folla di fedeli. Essi giungono da ogni parte del territorio e partecipano devota-mente. In virtù di questa particolare devozio-ne, il compianto cardinale Schuster, arcivesco-vo di Milano, donava alla parrocchia una pre-ziosa reliquia della Santa nel 1935.

Il sagrato: prima delle leggi napoleoniche (1805-1808) intorno alla chiesa c’era il cimite-

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ro. Nella forma attuale il sagrato fu costruito nel 1853 e terminato nel 1877 a spese del Co-mune di Acquate. Gli ippocastani furono pian-tati dal parroco don Nava nel 1879.

Il campanile è antico. Le ricerche fatte ci confermano che il suo stile è romanico. Le im-pronte delle antiche bifore sono ancora visibili all’interno della torre. In antico fungeva anche da torre comunale. La manutenzione dell’oro-logio ancora oggi spetta al Comune. Il cam-panile venne sopraelevato nel 1887, anno in cui fu dotato del nuovo concerto di 6 campa-ne, cioè l’attuale. Al parroco don Luoni si deve la sistemazione del castello delle campane, la loro automazione, nonché i restauri degli into-naci e la tinteggiatura della torre.

L’organo esistente in chiesa parrocchiale fu donato dall’arciduca Massimiliano d’Austria nel 1858. Lungo il corso degli anni subì note-voli restauri. Alla cura del parroco don Luoni si deve l’allargamento della cantoria e il rifaci-mento completo della parte strumentale, lavori eseguiti rispettivamente nel 1959 e nel 1963.

Quello di eleggere il parroco è un diritto antico degli acquatesi. Posto in discussione nel 1598 dal parroco di allora sac. Ambrogio Pozzi, il diritto venne confermato e sancito con sen-tenza 6 maggio 1598, emessa dal vicario ge-nerale della Diocesi Bartolomeo Giorgio. Gli aventi diritto all’elezione, come appare da un avviso dell’1 agosto 1828, “sono i possidenti e i capi famiglia dell’accennato Comune (Acqua-te) e di tutte le frazioni costituenti il circonda-rio parrocchiale di San Giorgio”.

Approssimativamente riferibile a questo stesso periodo (intorno al 1828) è una lettera conservata nell’archivio parrocchiale, senza fi r-ma e senza data: “Per quante indagini siensi fatte per ritrovare la fondiaria di questa Parr.le di Acquate fi nora non si è potuto rinvenir-la, neanche citata la data in qualche posizione, solo si scorge che deve essere stata quella chie-sa eretta in parrocchia prima del 1590 perché nel 1555 alli 18 febbraio viene eretta in quel-la chiesa una cappellania da certo Santino de Ponti (sarà poi forse un Pozzi?), altra nel 1582

eretta da Francesco Airoldi ma fi n qui non si qualifi ca quella chiesa col titolo di Parrocchia-le. Solo nel 1590, 1 dicembre, viene eretta la Scuola del SS. Sacramento ed in questa circo-stanza trovasi qualifi cata come parrocchia e nel 1594 viene eretto in quel Comune un Ospitale da certo Antonio Airoldi. Nello stato 1712 è ci-tata una sentenza emanata dal Vicario Genera-le d’allora Bartolomeo Giorgio colla quale ve-niva dichiarato esser quella chiesa di Patronato esclusivo di quella comunità in data 6 maggio 1598. Bisogna supporre che vi sia stata qualche controversia nelle antecedenti elezioni. Tutte le nomine poi che succedettero dal 1645 in avanti che sono in numero di otto furono fat-te regolarmente dalla stessa comunità con vari istrumenti e le ultime nomine cioè quella del 1828 a favore Valsecchi e quella del 1809 a fa-vore Pozzi e quella del 1801 a favore Gattino-ni esistono in Curia”. Secondo Amanzio Aon-dio, quest’ultimo riferimento dovrebbe alme-no approssimativamente datare il documento in oggetto: parla di otto elezioni di parroci che si succedettero dal 1645, perciò facendo i con-ti si arriva al parroco Valsecchi, 1828. Non par-la dell’altro parroco Valsecchi eletto nel 1842, perché i conti non tornerebbero.

Gli acquatesi hanno rinunciato a questo di-ritto con la nomina del parroco don Cesare Lauri.

TESORI D’ARTE E DI FEDELe pagine che seguono propongono solo

alcuni dei frammenti artistici - naturalmente i più evidenti ed importanti - che una storia così ricca ha lasciato nella chiesa di Acquate. Lo spunto è dato da quella luce di religiosità in cui il Manzoni colloca gli edifi ci sacri. Non si ha quindi la pretesa di fare un discorso com-pleto di storia e di arte. Molto più semplice-mente si desidera andare alle testimonianze di fede che i nostri progenitori ci hanno lasciate. Queste opere, assieme alle pietre che le cu-stodiscono, ci recano il palpitare ancora vivo degli ideali che mossero i costruttori, l’eco del salmodiare antico, l’immagine di coloro che vi

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trassero in fi dente orazione. Farà bene anche al nostro spirito raccogliere quelle memorie che ci giungono da tempi lontani.

Nella chiesa parrocchiale la prima cappella a sinistra è dedicata a Santa Caterina. Sull’al-tare è un’ancona di legno intagliato, dipinto di verde chiaro e avorio, in parte dorato. Posta su base rettangolare con dipinto; ornata con cartiglio ovale verde scuro e dorato con pen-doni di frutti. Ai lati della pala colonne scana-late con capitello corinzio dorato. Sormontata da timpano spezzato, ornato nella parte infe-riore con pendoni di frutti e teste di cherubi-no, al centro statua a tutto tondo raffi gurante il Padre Eterno benedicente. L’ancona è ope-ra secentesca di tipica fattura lombarda, ridi-pinta in epoca recente. All’interno dell’ancora è il dipinto raffi gurante Santa Caterina d’Ales-sandria, un olio su tela di 180x120 cm, dell’ini-zio del sec. XVII e attribuito a Camillo Procac-cini (Bologna 1551/55, Milano 1629). La San-ta è raffi gurata in piedi in un paesaggio con qualche elemento architettonico a destra e al-berelli nello sfondo. Porta una veste violacea con manto giallo ed un drappeggio verde sul-la spalla sinistra, una collana di perle al collo. Ha sul capo circondato da leggera aureola una corona; accanto a lei a destra è una grossa ruo-ta di legno. Lo sfondo è bruno, illuminato e chiaro con rifl essi a sinistra in alto dove da una nube si sporge un angelo con drappino rosato a posare sul capo della Santa una corona di fi o-ri variopinti. Negli atti della visita pastorale del Cardinale Pozzobonelli (1746) la tela viene at-tribuita a Camillo Procaccini, tuttavia essa non si trova menzionata fra le opere dell’artista co-munemente citate. Sia i caratteri iconografi ci che i colori, i panneggi confermano l’attribu-zione. Affi nità si notano in particolare con Il martirio di S. Agnese già nel Duomo di Mila-no (ora Isola Bella, Palazzo Borromeo). Ange-lo Borghi (1968) la dice collocata nella chiesa

nel 1610 (Borghi, Un’opera del Procaccini ad Acquate, Il Terzo Ponte, luglio 1967; Borghi, Note sull’architettura religiosa del Seicento e Settecento a Lecco, Il Terzo Ponte, 1968, nu-mero 4-5). Nella stessa cappella è il dipinto raffi gurante L’Eterno fra donatori, della secon-da metà del sec. XVI, olio su tavola di 25x172 cm. La tavola costituisce la predella della pala dell’altare. Al centro in un ovato sostenuto da due angeli ignudi dalle ali rosso vivo, è raffi gu-rato l’Eterno in veste rossa e mantello verde; al suo fi anco contro lo sfondo di un tendone scu-ro sostenuto da due angeli in vesti rosate sono in ginocchio a sinistra quattro devoti, a destra cinque donne. Degli uomini il primo verso il centro ha una veste di colore verde spento, in azzurro scuro è il secondo anziano che regge un panno rosso; bruna e verde le vesti degli al-tri due. I ricchi abiti delle quattro dame sono rosso il primo e verdi gli altri; al fondo è una vecchia con panno bianco sul capo. A destra e a sinistra di questa raffi gurazione principa-le sono due decorazioni su sfondo scurissimo, con vasi e fi ori in colore bruno oro. Le dorature in particolare rivelano segni di restauri. La ta-vola certamente cinquecentesca e proveniente da altro altare, è un esempio assai interessan-te di pittura di carattere allo stesso tempo po-polare e raffi nato. Si tratta probabilmente di una famiglia del luogo raffi gurata al comple-to ed è evidente l’intento ritrattistico. Secon-do Bianchi (1962) e Pica (1964) si tratterebbe della famiglia degli Airoldi detti i Marchesini che presso la chiesa di Acquate aveva istituito una cappellania nel 1567.

La terza cappella a sinistra è dedicata all’Im-macolata, un’opera della fi ne del XIX secolo, di artigianato locale, in marmo e legno intagliato e dorato. Altare a due piani di marmo rosato, con decorazioni dorate e semplice paliotto or-nato al centro con monogramma di Maria e co-rona, riprese sul tabernacolo dipinto avorio e

Chiesa parrocchiale di Acquate: dall’alto, in senso orario, Santa Lucia, Santa Caterina d’Alessandria, San Pietro, San Giacomo.

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bruno e sulla cimasa dell’ancona. Ai lati della mensa decorazione dorata con motivi vegetali. Sormontato da ancona liscia con nicchia curvi-linea delimitata da cornice lignea dorata e con-tenente la statua coeva dell’Immacolata con putti e decorata con leggeri ormamenti appli-cati e dorati. È un arredo di semplice fattura.

La quarta cappella a sinistra ospita il Cro-cefi sso, del quale si parlerà più avanti. L’altare a due piani di legno intagliato e dipinto è ope-ra di maestranze lombarde e viene fatto risali-re al XVII secolo. Ai lati della mensa due put-ti, in forte rilievo, volti di tre quarti, con drap-po dorato, il braccio sinistro appoggiato sul gi-nocchio, sembrano sorreggere con la destra la base del piano inferiore dell’altare. Il taberna-colo è ben inserito nei piani, ornati con deco-razioni dorate ad intaglio. L’ancona, con fondo bruno è ornata ai lati con due lesene decorate a “squama di pesce” e cariatidi su fondo avorio in parte dorate. Sormontata da timpano spezzato con teste di cherubino alato ed edicola centra-le con scritta illeggibile. L’arredo molto ridipin-to, pur essendo di fattura secentesca, presenta aggiunte non coeve, probabilmente ottocente-sche, che tolgono il carattere originale. Inseri-to nei due piani dell’altare il tabernacolo di le-gno intagliato, dipinto e dorato, ornato ai lati da pendoni di frutta dorata e teste di cherubi-ni a guisa di capitelli, su fondo bruno. Portina lignea raffi gurante in rilievo due putti in parte dorati, che sorreggono una pisside; sulla parte superiore nuvole grigie e teste di cherubini su fondo avorio scuro. Sulla parte superiore testa di cherubino e decorazione a volute intagliate. Parte coeva dell’altare, ancora di fattura secen-tesca, realizzata da maestranze lombarde.

La seconda cappella a destra è dedicata a Santa Lucia - alla cui devozione sarà dedicata qualche riga più avanti - contenente il dipinto raffi gurante Santa Lucia, del secolo XVIII, un olio su tela di 180x120 cm. La Santa è in pie-di con veste bianca a fi orellini rosati, violacei, gialli, manto rosso chiaro e sciarpa azzurra. Un angelo con ali azzurre e piccolo panno giallo a destra regge un piatto con due occhi; un altro

in alto porge una corona di fi ori. A destra due testine di cherubini. Le tinte di fondo sono sui toni azzurri pallidi. La tela è posta entro una ricca cornice come pala all’altare. Il dipin-to presenta alcuni elementi stilistici seicente-schi (ad esempio negli angeli che hanno anche qualche durezza di forma) ma i colori chiari e delicati specialmente nello sfondo e lo stes-so taglio del viso della santa fanno propendere piuttosto per una datazione al sec. XVIII.

Due interessanti dipinti sono collocati nella controfacciata, a destra e a sinistra della can-toria. A destra è il dipinto raffi gurante San Carlo in adorazione, del secolo XVII, olio su tela, 250x150 cm (ovale). Il Santo è raffi gurato inginocchiato in atteggiamento di adorazione, con mozzetta rossa. Accanto a lui sono due an-geli in preghiera in vesti chiare, azzurro quello di destra. In alto due angeli e testine di che-rubini poste simmetricamente fra raggi dora-ti. Scura la zona centrale. L’ovale è posto entro cornice in legno. L’iconografi a del dipinto è ti-picamente seicentesca. Il disegno è duro e la composizione statica e fredda. Rivela la mano di un pittore provinciale. A sinistra è il dipinto raffi gurante La Madonna di Caravaggio, del secolo XVIII, olio su tela, 250x150 (ovale). La Vergine in piedi con veste rosata e manto az-zurro benedice la giovane contadina in ginoc-chio a mani giunte con veste rossa e grembia-le bianco. Accanto a lei una falce e un mazzet-to di spighe. Sullo sfondo una chiesa gotica e al di sopra due angioletti in volo. La cornice è in legno dorato. Nell’iscrizione si legge: GIO BATTA MANZONE Fece Fare P. Sua Divo-zione. Il dipinto sembra settecentesco ma di-mostra di aver subito radicali restauri. Non è noto chi sia il donatore dato che si tratta di nome assai diffuso nella zona.

Custoditi nella chiesa parrocchiale e uti-lizzati solo in particolari solennità sono quat-tro bellissimi busti reliquiari risalenti al seco-lo XVIII. Sono opera di artigianato lombardo, in legno intagliato dorato, argentato e dipinto,

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66x40 cm. Base mistilinea su piedi a mensola poggiante su volute schiacciate. Al centro testa di cherubino alato, in parte argentato. Il primo rappresenta San Magno. Busto del Santo con corazza e drappo. Capelli bruni. Al centro una grande teca lignea dorata, ornata con pesanti volute, contenente la reliquia. Sulla teca iscri-zione: OSS. S. MAGNI M. Stilisticamente del tutto simile agli altri tre busti reliquiari. Uno raffi gurante San Benigno, il busto del Santo, con corazza e drappo, il capo reclinato a de-stra, lunghi capelli bruni, la bocca aperta. Sul-la teca l’iscrizione: OSS. S. BENIGNI M. Un altro busto reliquiario raffi gura San Faustino, il busto del Santo barbuto con ampio mantel-lo, la testa, con lunghi capelli bruni, reclinata a sinistra. Sulla teca l’ iscrizione: OSS. S. FAU-STINI M. Infi ne il busto reliquiario raffi gu-rante San Liberato, il busto del Santo barbu-to, con corta capigliatura, la bocca semiaper-ta, con corazza e drappo. Sulla teca iscrizione: OSS. S. LIBERATI M..

Più antichi di un secolo rispetto a questi busti reliquiari sono due angeli portacero, del secolo XVII, opera di artigianato lombardo in legno intagliato, dipinto e dorato. L’ange-lo portacero è posto su base lignea sagoma-ta e dorata, a fi gura intera, il capo dai capel-li bruni, volto di tre quarti, con tunica, manto e gambali dorati, una mano sul petto, mentre con l’altro braccio sostiene il portacero dora-to. D’intaglio grossolano, pur con un certo gu-sto decorativo a carattere popolare, sono ope-ra secentesca di bottega locale, pesantemente ridipinti in tempi recenti.

Sempre nella chiesa parrocchiale si ammi-rano due dipinti seicenteschi. A sinistra, rispet-to all’altare, San Giacomo Maggiore. Il Santo è raffi gurato a fi gura quasi intera, in piedi, con un bastone da pellegrino nella sinistra. Porta una veste gialla dorata con risvolti azzurri. Lo sfondo è scuro. A destra, rispetto all’altare, San

Pietro. Il Santo è rappresentato a fi gura qua-si intera, con le chiavi nella destra e un gros-so libro nella sinistra. Porta un mantello gial-lo dorato su una veste grigio azzurra. Lo sfon-do è scuro. I dipinti fanno parte di una serie avente più o meno le stesse dimensioni (que-sti due misurano 183x110 cm) e appartenen-ti presumibilmente alla stessa mano. Forse in origine la serie comprendeva anche altre fi gu-re. I caratteri stilistici appartengono alla prima metà del Seicento lombardo. Sono rimasti un dipinto raffi gurante San Gerolamo. Il Santo è raffi gurato a fi gura quasi intera, con una croce nella destra e un grosso libro nella sinistra. In-dossa un mantello bruno che gli lascia scoper-ti una spalla e il petto, sopra una veste grigia. Lo sfondo è scuro. Un altro dipinto raffi guran-te San Luca. Il Santo è raffi gurato seduto con una mano al petto, l’altra posata su di un gros-so libro aperto. In basso a sinistra compare la testa di un toro. Le tinte sono tutte su toni bru-ni su sfondo scuro. E un dipinto raffi gurante San Giovanni Evangelista. Il Santo è raffi gura-to seduto con una penna nella destra e un libro aperto sulle ginocchia. Accanto a lui è un gran-de calice. Le tinte sono brune e scure tranne il manto rosso sulle ginocchia del Santo.

LA NATIVITÀ TRA I SANTI EGIDIO,GIORGIO, AMBROGIO E CATERINA

Quanto qui descritto è una sorta di “assag-gio” del gioiello custodito in questa chiesa, la grande pala che ornava la cappella maggiore e che tuttora si ammira nello stesso luogo, già defi nita pulcra dall’estensore degli atti della visita borromaica del 1608. Ma già San Carlo Borromeo, nel 1566, l’aveva defi nita pulcram anconam. Si tratta di un dipinto ad olio esegui-to su supporto ligneo, di notevoli dimensioni (cm 300x257), nel quale i Santi Giorgio, Egi-dio, Ambrogio e Caterina (a parte Ambrogio gli altri sono i Santi ai quali è intitolata la chie-sa) fanno corona alla Natività.

Nelle pagine seguenti: la Natività - con a fronte alcuni particolari della stessa - alla quale fanno corona i Santi Giorgio, Egidio, Ambrogio e Caterina.

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La presentazione della restaurata pala d’alta-re di Acquate è avvenuta sabato 4 giugno 1983, nella chiesa parrocchiale, accompagnata da un concerto della Corale di San Giovanni diretta da Angelo Biella. Per l’occasione, sul cartonci-no invito, è stata stampata la seguente scheda. La pala lignea posta sul lato sinistro dell’altare della parrocchiale di Acquate raffi gura la Na-tività tra i Santi Egidio, Giorgio, Ambrogio e Caterina. Di notevoli dimensioni (mt. 2,50x3) e di rilevanti qualità cromatiche, è particolar-mente cara alla popolazione di questo quartie-re. Già San Carlo, nella sua visita pastorale del 1566 alla parrocchia, parlava di questa pala de-fi nendola pulcram anconam; indicativa in que-sto senso, anche se erronea, l’attribuzione del Cardinale Pozzobonelli all’artista Jacopo della Palma il Vecchio nella sua visita pastorale del 1746. Di quest’opera interessante, anche per i diversi moduli stilistici con cui è costruita, ri-mane tuttavia ancora dubbia l’attribuzione ad un preciso artista lombardo operante, questo certamente, intorno alla metà del XVI secolo e nell’area bergamasca-milanese.

La pala di Acquate sino a poco tempo fa si presentava in condizioni tutt’altro che buo-ne: sollevature e cadute di colore con succes-sive ridipinture, fessurazioni delle tavole, in-crostazioni e una patina opaca contribuivano a celare le originali caratteristiche del dipin-to. Per questi motivi si è reso necessario, oltre ad una normale azione di pulitura, stuccatura delle crepe e consolidamento del colore, un restauro pittorico basato sull’uso del “sottoto-no” per le lacune, in modo che rimanga visibi-le, da vicino, l’operato dei restauratori. Tutte queste opere sono state pazientemente e ac-curatamente effettuate dal Laboratorio di re-stauro dell’Accademia Carrara di Bergamo, in stretto collegamento con la Soprintendenza ai Beni Storici e Artistici di Milano. Il restauro è stato reso possibile dalla collaborazione tra: Comune di Lecco - assessorato Istruzione e

Cultura, Musei Civici, Consiglio di Quartie-re di Acquate, Parrocchia di Acquate, e grazie a un contributo dell’Amministrazione Provin-ciale di Como.

In occasione della cerimonia di presenta-zione della pala di Acquate vennero allestiti nella chiesa parrocchiale una serie di pannel-li illustrativi riguardanti i lavori di restauro e le notizie storico-artistiche su quest’opera cin-quecentesca. Per quella mostra documentaria del restauro, Letizia Stefani predispose il testo che si conclude con queste ipotesi sulla attri-buzione: “È nel 1746, nella visita pastorale del cardinale Pozzobonelli, che ritroviamo la pri-ma attribuzione della nostra pala a Jacopo del-la Palma il Vecchio (Serina 1480 ca. - Venezia 1528), un artista che fu in diretto contatto con Giorgione e Tiziano e che elaborò, attraver-so un morbido colorismo, un tipo di bellezza muliebre che ebbe successo nelle pale di alta-re. Anche se errata, l’attribuzione del Pozzo-bonelli è indicativa per collocare l’opera del nostro artista in un preciso contesto e clima veneto. Ma questa non è l’unica componen-te: numerose sono le correnti artistiche che infl uenzano il nostro pittore con dominan-za della scuola bergamasca della prima metà del ‘500 e più precisamente lottesca. Di quel Lotto che nato a Venezia (1480 ca.) e morto a Loreto (1556), cresciuto in un clima bellinia-no con infl uenze antonellesche, guardò, dopo l’esperienza romana con Raffaello, il Peruz-zi, il Sodoma e il Bramantino, ai lombardi ed a Leonardo stesso. Il Lotto è a Bergamo nel 1513 e nella tradizione pittorica lombarda tro-va il modo di esprimere quell’attenzione, quel gusto alla dimensione umile e domestica della realtà umana. Quello stesso gusto e amore che ritroviamo nella nostra pala.

“Nel territorio bergamasco numerosi sono i pittori che guardano a lui: primo fra tutti lo stesso Andrea Previtali che divenne un colla-boratore paziente e divulgatore del Lotto. Ed

Chiesa parrocchiale di Acquate: il Crocifi sso ligneo gotico.

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ecco che anche il Previtali, sulla scia del Lotto, ricerca un contatto autentico, non eroico, col mondo della realtà; ecco che i santi del Pre-vitali acquistano schiettezza ed umanità. E il nostro maestro della pala cammina su questa strada, nel tentativo di recuperare ed esprime-re lo stretto rapporto tra l’uomo e la sua real-tà quotidiana. Tuttavia tra i seguaci del Lotto non vi è alcuno che possa identifi carsi con cer-tezza con il nostro artista. Alcuni hanno fatto il nome di Agostino Facheris, ma se il clima in cui opera il nostro può essere lo stesso, perché il riferimento al Lotto anche in Agostino è co-stante, manca una identità tra il nostro pittore ed il Facheris nella tipologia delle fi gure. Ana-logie si trovano ancora con qualche dipinto at-tribuito a Gerolamo Colleoni, un altro berga-masco operante nell’area lottesca, ma si ha an-cora la sensazione che il nostro artista attinga dal Lotto in un altro modo e non immediata-mente in territorio bergamasco. Lo si dice per quelle infl uenze correggesche che si rivelano nella parte superiore della pala con angeli e putti, non molto felici in verità.

“Tra i seguaci del Lotto val la pena di ri-cordare i discepoli marchigiani: Durante No-bili, Giovan Andrea de’ Magistris e i fi gli Gio-van Francesco e Simone. Durante fu assai le-gato al Lotto e questi se ne servì per molto tempo quale aiutante e collaboratore. Giovan Andrea lo imitò in modo abbastanza arcaiciz-zante, rimanendo soprattutto legato agli ele-menti fi gurativi e compositivi lotteschi quali, per esempio, gli angeli musicanti del polittico di Recanati del 1508 che rielaborò e tradusse nella sua pala per la parrocchiale di Pieve Tori-na nel 1541. Nel 1552 Giovan Andrea dipinge e fi rma alcune tavolette nelle quali l’infl uenza del Lotto è tale da giustifi care, anzi da rende-re certa, una comunanza di lavoro. Può esse-re che Giovan Andrea si sia appropriato anche di qualche disegno o composizione del Lot-to, quando ormai l’artista s’era rifugiato nel-la quiete di Loreto. Simone fece addirittura l’alunnato sotto il Lotto e le sue prime opere rivelano questa precisa e dominante infl uenza

lottesca. Si riscontrano indubbie analogie tra questi maestri, in particolar modo con Giovan Andrea, e l’artista della pala di Acquate, nella composizione compatta delle fi gure, nel moti-vo del paesaggio di sapore lombardo brulican-te di personaggi popolari (si pensi agli analo-ghi paesaggi del Previtali), nella tipologia stes-sa delle fi gure, forme rigide dalla muscolatura piatta, caratterizzate da panneggi rigidi quasi metallici, negli stessi angeli che sostengono o cavalcano nubi compatte e pesanti. Si dice che Giovan Andrea abbia lavorato anche in territo-rio comasco, ma forse lo si è confuso con il suo omonimo Giovan Andrea de’ Magistris padre (o forse meglio fratello secondo studi in corso) di Sigismondo che lasciò numerose opere, in predominanza affreschi nella nostra zona. Ri-mane, tuttavia, da verifi care l’esattezza di que-sta strada ancora tutta da percorrere.

“Se il maestro della pala può essere effetti-vamente identifi cato con Giovan Andrea, che operò in predominanza nelle Marche meridio-nali tra il 1529 e il 1555, e questo è il primo passo da farsi, bisognerà in seguito accertare anche se realmente l’artista operò nel coma-sco. Oppure si dovrà parlare di semplice tem-perie culturale e spirituale tra i due artisti. In ogni caso il maestro della pala di Acquate ope-rò tra il 1540 e il 1560, probabilmente più ver-so la fi ne del ventennio, assimilando dal Lotto quelle componenti lombarde e venete che si ritrovano nella tavola”.

IL CROCIFISSO GOTICOSignifi cativamente, proprio nel giorno di

Giovedì Santo del 1985, la comunità parroc-chiale di Acquate torna in possesso dell’antico crocefi sso ligneo. L’opera viene esposta nel-la chiesa parrocchiale, assieme ad una mostra fotografi ca che ne documenta lo stato di con-servazione precedente e le diverse operazio-ni di recupero e di restauro. Sono di Amanzio Aondio le brevi note storiche ricavate dall’ar-chivio parrocchiale di Acquate e utilizzate per corredare la mostra che affi anca l’esposizione del crocefi sso ligneo. Sappiamo così - sono gli

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L’altare solennemente parato: la corona che regge il moschetto è quella asburgica che stava sull’organo.

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atti della visita pastorale del cardinale Federi-co Borromeo, nel 1608 - che “l’arco della stes-sa cappella nella parte inferiore è tenuto in-sieme da una grossa trave trasversale, ornata di pitture. Nel suo mezzo è collocata l’imma-gine del Crocifi sso che si copre con un velo di seta color rosso”. Altre notizie, rivelatesi poi preziose per l’opera della restauratrice Sonia Bozzini, sono del 1652 quando “si fece l’archi-trave dell’altare maggiore e, con la spesa per l’indoratore che la dipinse, costò lire 96”; del 1680 quando fu “pagato un mandato di lire 14 al sig. Carlo Merliano, indoratore di Bellagio, per aver comodato il Cristo”; del 1693 “pagato all’indoratore per aggiustare il Crocifi sso”; del 1719 “speso in far fare la croce grande dell’ar-chitrave spezzata dal fulmine”; fi no alla notizia registrata nel liber chronicus in data 26 mar-zo 1902 quando “nel calare l’arco della volta maggiore il sacrista fece cadere il Crocifi sso che v’è appeso, ma rimase quasi miracolosa-mente sospeso all’arco stesso cosicché poté calarlo fi no a terra e poi riporlo”.

Tappe storiche che hanno poi trovato con-ferma nello stato di conservazione dell’opera, sottoposta in passato a ben tre interventi di re-stauro collocati cronologicamente nei secoli XVI, XVII e XIX che consistettero prevalente-mente in una integrale ridipintura delle parti seguendo le tendenze tecniche e artistiche dei rispettivi periodi.

Ma altre vicissitudini subì il crocefi sso, le-gate alle modifi cazioni intervenute nella strut-tura dell’edifi cio parrocchiale acquatese, e nei suoi spostamenti per esigenze liturgiche. Il Cristo presenta infatti numerosi segni di abra-sioni sul legno, caratteristiche dell’attrito pro-vocato da corde o funi scorrenti sotto pressio-ne. La mancanza assoluta di questi segni sulla croce e la presenza di due grandi buchi sull’as-se verticale della stessa servono a conferma-re questa ipotesi: cioè che la croce fosse fi ssa-ta all’arco trionfale della chiesa mentre il Cri-sto, munito di aureola, venisse calato giù con una certa periodicità probabilmente per esse-re esposto in occasione di importanti funzioni

religiose. Qualche calata maldestra, unitamen-te al fulmine del 1719, spiegano anche lo sta-to di conservazione dell’opera, dove si è regi-strato, ad esempio, un violento trauma dovuto a una caduta da considerevole altezza che ha interessato l’intero supporto.

L’opera torna ad Acquate recuperata, fi n dove è stato possibile, in tutto il suo originario valore. Con la pulitura l’immagine del Cristo è apparsa liberata, con la sua linea scultorea e il suo genuino corredo cromatico, lacunoso ma perfettamente intelligibile, in stretto rapporto di unità stilistica.

Un pezzo di rara bellezza, come conferma anche lo studio di Oleg Zastrow, pubblicato in Legni e argenti gotici nella provincia di Lecco.

L’ORGANO DELL’IMPERATORESabato 25 settembre 1999 torna a suona-

re pubblicamente, dopo due anni di paziente e meticoloso restauro, l’organo nella parroc-chiale di Acquate. Un organo di grande valore storico, legato nientemeno che a Massimilia-no d’Asburgo, il fratello dell’imperatore Fran-cesco Giuseppe, che ne fece dono alla chie-sa di Acquate nel 1858. Casa d’Asburgo invia-va nel Lombardo Veneto l’arciduca ereditario Massimiliano in veste di paciere e di mediato-re per ingraziarsi gli italiani. Un bel mattino, circondato da un modesto seguito di funzio-nari e dignitari (esclusa ogni rappresentanza delle forze militari) Massimiliano capitò ina-spettato ad Acquate e fu ricevuto nella nuova chiesa parrocchiale che era stata allora eretta su disegno dell’ing. Adriano Gazzari. Termi-nata la funzione religiosa, l’ospite fu accompa-gnato con deferenza in casa del parroco don Giosuè Valsecchi che pur di sentimenti italia-nissimi doveva conciliare, come era suo stret-to dovere, i suoi sentimenti liberali con l’osse-quio alle autorità costituite.

Massimiliano che, dicono, fosse un buon musicofi lo come lo sono del resto tutti i vienne-si, chiese al parroco il perché l’organo durante la funzione si fosse chiuso in un ostinato silen-zio e non avesse accompagnato con la sua voce

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L’organo donato alla chiesa parrocchiale di Acquate da Massimiliano d’Asburgo.

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il canto del Te Deum. Il vecchio parroco rispo-se con voce candida: la chiesa è nuovissima, il paese è povero e mancano i fondi per acqui-stare perfi no un modesto armonium; speriamo che in avvenire qualche benefattore ci venga in aiuto. Ebbene, per Acquate voglio essere io quello, rispose il viceré. Lo farete costruire su-bito e bello e monumentale a mie spese per-ché la sua voce durante le funzioni accompa-gni i sacri riti e i canti religiosi del popolo. Pas-serete dalla Real Cassa a ritirare la somma per il pagamento. Il parroco, i fabbricieri e gli ac-quatesi colsero al volo quella straordinaria do-nazione. Poco dopo, però, l’Austria lasciava la Lombardia e quell’organo degli Asburgo fu oc-casione di curiose e gustose diatribe.

Massimiliano d’Asburgo, uomo di grande sensibilità, amministratore capace e rispetto-so - nella migliore tradizione asburgica - delle identità e delle specifi cità locali, cristiano dalla fede intensa e adamantina, chiese dunque agli acquatesi quali fossero le maggiori necessità per la loro parrocchia a cui egli potesse sod-disfare. La risposta fu: un nuovo organo per la chiesa, e il grande Asburgo rispose nel più ge-neroso dei modi, provvedendo a far dono ad Acquate di uno splendido, maestoso strumen-to con cui innalzare gloria a Dio. Di lì a non molto tempo le truppe piemontesi avrebbero portato all’annessione del Lombardo Veneto al nascente regno sabaudo e l’organo regalato dal pio arciduca sarebbe stato usato per suona-re la profana e retorica colonna sonora del Ri-sorgimento, il “Va pensiero” di Verdi, simbolo dell’orgoglio patriottico italiano.

L’intera vicenda è stata da me ricostruita in-sieme ad Amanzio Aondio nelle pagine di Due note dall’anima, volume presentato in occasio-ne del concerto inaugurale.

LA FESTA DI SANTA LUCIA“Anche la famiglia Manzoni aveva il suo ban-

co davanti all’altare di Santa Lucia, nella chiesa

di Acquate”. Ancora una volta è Amanzio Aon-dio, infaticabile ricercatore di storia e tradizio-ni locali, a ricordare questo particolare, per te-stimoniare come la devozione per Santa Lucia sia sempre stata fortissima ad Acquate. E ogni 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, la chiesa di Acquate - dedicata ai Santi Giorgio, Cateri-na ed Egidio, ma nella quale è conservata una reliquia di Santa Lucia, martire siracusana - è meta di pellegrinaggio per molti lecchesi.

Fuori dalla chiesa, i colori della festa, anche se il fasto delle bancarelle non è più quello di qualche anno fa. “Beh, i tempi sono cambiati - commentava qualche anno fa ancora Aman-zio Aondio - ma se oggi ci sono soltanto poche bancarelle non è certo perché la ricorrenza di Santa Lucia abbia perso d’importanza. Perché ancora oggi i lecchesi vengono da tutte le parti della città per baciare la reliquia di Santa Lucia. Se le bancarelle sono diventate poche è perché adesso ciascuno ha più roba in casa propria. Un tempo, in casa c’era poco o niente e c’era più roba sulle bancarelle. Oggi ci sono molte ghiot-tonerie, un tempo c’erano solo lo zucchero fi -lato e le mele, quelle grandi. E ci si sbizzarriva. Oggi non c’è più quella gioia nel comprare e nel mangiare una mela. Ma la festa non ha per-so d’importanza, la devozione è rimasta intatta. La gente viene da tutte le parti della città”.

L’origine di festeggiare Santa Lucia si per-de nella notte dei tempi e le motivazioni di questa particolare ricorrenza sono abbastanza incerte anche se è presumibile che la consue-tudine sia arrivata nella nostra città dalla vicina Bergamasca e da Venezia - i confi ni della Se-renissima un tempo correvano lungo il territo-rio acquatese, che per un certo periodo fu an-che terra di San Marco - dove la festa di Santa Lucia ha grande importanza. Di fatto, non c’è lecchese che non sia andato, almeno una volta nella sua vita, a baciare la reliquia di Santa Lu-cia, protettrice degli occhi, perché Lucia vuol dire luce. E le reliquie di Santa Lucia sono ar-

Nelle pagine seguenti, la solenne processione del 31 marzo 1935 con la reliquia di Santa Lucia donata dal Cardinale Schuster ad Acquate.

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rivate nella chiesa di Acquate proprio per la devozione della popolazione.

Raccontava Amanzio Aondio: “Un tempo, il cardinale Schuster venne da queste parti e si stupì per il pellegrinaggio dei lecchesi alla chiesa di Acquate il giorno di Santa Lucia. Un altare dedicato alla martire siracusana, infatti, c’è sempre stato nella chiesa acquatese, anche prima che venisse restaurata nella metà del-l’Ottocento. Quando nel 1935 Schuster venne in possesso della preziosa reliquia della santa, si ricordò della devozione dei lecchesi, della chiesa di Acquate, e decise di donare quella reliquia - che pure era stata richiesta da molte chiese - agli acquatesi”.

La storia di Santa Lucia porta, comunque, lontano da Acquate, a Siracusa, in Sicilia, dove il 13 dicembre 304 la giovane vergine Lucia venne decapitata per non aver abiurato la fede cristiana. A Siracusa, Lucia era nata da nobile famiglia, poco più di vent’anni prima. Affron-tò con grande coraggio il martirio, durante la persecuzione di Diocleziano. Sepolta a Siracu-

sa, nel 1039 i suoi resti mortali furono porta-ti a Costantinopoli dal generale bizantino che aveva liberato la Sicilia dal dominio arabo. Ma da Costantinopoli, in tempi successivi, prese il mare verso Venezia, grazie al doge Enrico Dandolo. Da allora la salma della giovane mar-tire riposa nella chiesa dei Santi Geremia e Lu-cia, a Venezia, mentre Siracusa venera la sua patrona il 13 dicembre con una grande festa e con una solenne processione portando una sta-tua argentea di Lucia alta quasi quattro metri. Da Venezia, il culto della santa si è esteso su tutto il territorio della Serenissima Repubblica di San Marco, giungendo anche ai confi ni del Ducato di Milano, come nel caso di Acquate.

Nella iconografi a tradizionale, Lucia vie-ne rappresentata con gli occhi in mano e in-dicata come protettrice per le malattie della vista. Cadde, martire, sotto un colpo di spa-da, entrando nella gloria senza fi ne dei Santi e in quella terrena che, diciassette secoli dopo, porta ancora tanti fedeli ad Acquate, fram-mento del grande mosaico della devozione.

Nella pagina seguente l’arco trionfale eretto ad Acquate per una visita pastorale ai primi del Novecento, probabilmente del cardinal Ferrari.

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CHIESA DI SANT’ANNA ODELLA CONCEZIONE

“Una navata ampia con volta ribassata a cro-ciera su due campatelle; dalla balaustra secen-tesca in molera a semicerchio si accede al pro-fondo presbiterio ugualmente a crociera, sul cui fondo, fra incorniciature classicheggianti, è affrescata Maria bambina fra i Santi Gioachino e Anna, opera d’inizio Seicento. Ivi era una tela di simile soggetto, offerta nel 1657 dal patrono Giovan Paolo Airoldi Marchesini, ora collocata sulla controfacciata. Una vaschetta marmorea pare ancora cinquecentesca. Le decorazioni di gusto barocco sono del 1964 e del bergamasco Ferrari. Il campanile, a lato dell’ingresso late-rale, era già presente nel 1608 e è coronato da bifore di probabile restauro”. Così Angelo Bor-ghi, in Il lago di Lecco e le valli, terzo volume della serie Sacralizzazioni. Strutture della me-moria, presenta la chiesa di Sant’Anna in Ac-quate, conosciuta anche come chiesa, o orato-rio (denominazione quest’ultima condivisa dal-lo stesso Borghi) della Concezione. Un edifi cio non semplice da individuare, per chi non è ac-quatese, compresso com’è tra gli edifi ci adia-centi, con ingresso dalla via Lucia. Ma un edi-fi cio ricco di storia e le cui vicende coinvolgono alcune delle grandi famiglie che hanno intrec-ciato la loro storia con quella di Lecco, dagli Airoldi agli Airoldi Marchesini, dai Tartari ai Serponti fi no ai Manzoni.

Il fondatore della cappellania (quindi non necessariamente della chiesa) sarebbe un Pre-sb. Franciscus Airoldi loci Aquati nel suo testa-mento del 23 luglio 1563. Un legato fu succes-sivamente fatto al cappellano da Giacomo Ai-

roldi nel suo testamento fatto in Venezia l’anno 1590, 11 agosto. In questo testamento di Gia-como Airoldi, il fratello Francesco viene defi -nito fondatore dell’oratorio e del benefi cio del-l’Immacolata Concezione.

Nel documento si fa dunque riferimento al testamento del Rev.di Presbit. Francisci Ai-roldi fundatoris dictae Capella. Nel testamen-to di Francesco Airoldi si legge che il cappel-lano della Concezione era tenuto ed obbligato in tutti i giorni feriali e non feriali a celebra-re la messa nella chiesa che io feci edifi care sub titulo et nomine ac ad laudem et honorem Conceptionis Bea.mae Virginis Mariae. Il te-stamento della fondazione della cappellania dell’Immacolata Concezione di Acquate fu rogato da Antonio Airoldi pubblico notaio di Milano il 25 luglio 1563. Il relativo “istrumen-to di fondazione, dotazione ed erezione” è in-teramente trascritto negli Atti della visita pa-storale del Cardinale Federico Borromeo alla Pieve di Lecco nel 1608.

Sei anni dopo la chiesa era costruita. Se ne fa infatti cenno negli Atti della Visita del 1569. Sappiamo così che non è consacrata, ma ha la volta e le pareti ben rivestite di calce. Nella chiesa sono aperte tre fi nestre e l’altare è or-nato cum pluribus quadris beatae Virginis pul-cris, i quali quadri coprono tutta la facciata del-l’altare. Si accede alla chiesa per mezzo di un gradino. Vi è un campanile su due pilastri con due campane. La chiesa è di patronato del con-vento francescano di San Giacomo di Castello e di Giovanni Antonio e Francesco Airoldi. Vi è

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anche una nota senza fi rma che all’interno por-ta la scritta “ordinazioni per l’oratorio di Ac-quate” compresa quella che fra due mesi siano strappati gli arboles mori che danneggiano.

Venivano anche date indicazioni al cappel-lano - allora era il sacerdote Giuseppe Bolis detto Dordino - perché celebrasse messa ogni giorno, perché con l’olio ricavato dagli olivi della località Canto tenesse accese le lampa-de nei giorni di sabato e nelle vigilie delle fe-ste della Beata Vergine Maria, che alla mes-se solenni partecipassero altri sette sacerdoti; che nella festività di Sant’Anna si celebrasse-ro messa e vesperi con particolare solennità e con la partecipazione di altri sacerdoti ai quali il cappellano era tenuto ad offrire frugali refec-tione. Oltre a cantare i vesperi, nel giorno del-l’Immacolata il cappellano doveva pulsari fa-cere organo, e cioè fare suonare l’organo. Una notizia, questa, assai preziosa perché nella de-scrizione delle chiese di Lecco contenute negli Atti di quella visita (1569) questa della Conce-zione è la sola in cui si parla di un organo.

Altri frammenti documentari ci forniscono ulteriori notizie. Sappiamo così che nel 1565 nella chiesa della Concezione c’è la scuola del Santissimo Sacramento, e nei secoli successivi la chiesa sarà spesso identifi cata con la Con-fraternita.

Nel 1608, negli atti della visita del cardinale Federico Borromeo, il prete Francesco Gatti-noni cappellano della Concezione è indicato come “maestro”. Le campane sono, abbastan-za sonore e non benedette. La torre campa-naria di forma quadrata è edifi cata vicino alla cappella maggiore. In cima c’è una croce di ferro cospicua. La porta si chiude a chiave la quale sta presso il cappellano. Le caratteristi-che della chiesa erano sostanzialmente immu-tate rispetto a quelle risultanti dagli Atti della visita del 1569. Le pareti, infatti, “sono solo in-tonacate e del tutto rozze”.

Arsenio Mastalli, nel suo studio Parrocchie

e Chiese della Pieve di Lecco ai primordi del 1600 aggiunge qualche altro particolare: “Co-struita nel 1563 dal prete Francesco Airoldi nella vigna di sua proprietà e dotata dallo stes-so con i suoi propri mezzi come risultava dal-l’atto di fondazione, era rivolta ad oriente, con-stava di una sola navata, aveva pareti grezze, si scopava di rado come di rado si toglievano le ragnatele e la polvere dalle pareti e dai qua-dri. Gli acquasantini, nei quali uomini e donne si aspergevano promiscuamente, non si puliva-no mai. Il campanile, posto vicino alla cappella maggiore, recava sulla sua sommità una gran-de croce di ferro ed era dotato di due campa-ne non ancora benedette. La spesa per l’acqui-sto delle funi era a carico del Cappellano che custodiva pure le chiavi della chiesa. Anche questa chiesa aveva il suo cimitero a meridio-ne, davanti alla porta laterale. Essendo privo del muro di cinta era accessibile alle bestie. La casa del cappellano distava dalla chiesa quindi-ci passi ed era composta di un piccolo cortile con panche, di una cantina e di un locale che serviva come camera da letto e da cucina. Vo-lete conoscere quali mobili ed effetti abbelliva-no la casa del Cappellano? Eccovi l’elenco: un letto di noce con materasso, un cuscino di piu-ma d’oca, una coperta bianca ricamata in giallo e rosso e due lenzuola lise e sporche. Un sac-cone di strame, una cassa di noce, due sedie li-scate, un secchio di rame per l’acqua, una pen-tola sporca di fuliggine, due stoviglie di rame, due alari detti dal volgo capifuoco, una molle ed una pala di ferro per il focolare, un soffi et-to, cinque piatti, due piatti fondi, una scodella di stagno, una botte da dodici piedi metrici ed una di sei piedi per il vino e per pigiare l’uva”.

Nel 1610 cappellano titolare è ancora il sa-cerdote Francesco Gattinoni nativo d’Acquate, eletto l’anno 1606. Tre anni dopo, nel 1613, è titolare il sacerdote Giuseppe Gattinoni.

Si parla della nomina di un cappellano an-che in un documento del 17 ottobre 1630.

Il campanile della chiesa della Concezione.

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Un documento del 3 marzo 1661 dice che il Guardiano del Convento di Castello pater Salvator a Barzanore elegge e nomina cap-pellano Carolum Ripam loci Albiati e un al-tro documento degli eredi Airoldi conferma la detta elezione.

Al Guardiano del Convento di Castello tor-na a fare direttamente riferimento un docu-mento successivo. Porta la data del 21 Xre 1688 questo inventario: “La Cappella dell’Im-macolata Concettione nella Terra di Acquate è longa braza n. 28 larga b.a n. 13 ha un sol al-tare verso levante, con la sacristia a mano si-nistra et il campanile con due campane vicine. Fu fondata dal fu P. Francesco Airoldi con ob-bligo di messa quotidiana. Ha per dote un luo-go che si dice in Canto, una vigna che si dice in Rivolta, un campo che si dice in Via Croce, un giardino intorno alla chiesa e la casa propria del benefi cio. La sacrestia ha due calici, due camesi, quatro pianete. Il Capellano titolare presente è il sig. R. Luca Antonio Giorgio dot. di S. Teologia di Mandello Diocesi di Como. Li documenti della Fondatione sono appresso al sud.to Titolare, come anche tutte le scrittu-re pertinenti al sud.to Benefi cio, e diffi cilmen-te si potranno havere. La ragione di eleggere il titolare aspetta al P.re (priore) Guardiano di S. Giacomo di Castello”.

Nel 1733 c’è una “ordinazione” contro il cappellano dell’Immacolata Concezione per-ché sia obbligato a risiedere nella casa del be-nefi cio, servire alla chiesa, e celebrare quoti-dianamente nell’oratorio per se stesso perso-nalmente e non per mezzo d’altro sacerdote.

Nel 1746 il parroco Gio Batta Pagano at-testa che il Rev.do Sig. Carlo Antonio Tarta-ri che ogni anno in tempo di sua villeggiatu-ra celebrava giornalmente nell’oratorio ha fat-to fare “a sole sue spese molti raddrizzi”. Tra l’altro nell’anno 1746 “venne in sentimento di far mettere nell’estremità dell’oratorio alcune banche che servissero per ornamento ed an-che per uso e comodo in occorrenza di don-ne inferme e vecchie, mentre non vi era al-tro luogo di sedere nell’oratorio”. E nota che

“nessuno particolare antecedentemente aveva mai avuto banca, né sedia di qualunque sorta, a riserva del solo banco della casa Airoldi Mar-chesina ottenuto con facoltà dalla Curia nel tempo ero io Curato, con mia condiscendenza e consenso a rifl esso d’essere la casa compa-drona del Benefi cio in detto oratorio”.

Il 6 settembre 1747 un “innominato” - nulla a che spartire con il personaggio di manzonia-na memoria, si tratta dell’espressione utilizzata dal parroco per assicurare l’anonimato del do-natore - regala all’oratorio 11 quadri di diversi santi da tenere sempre appesi alle pareti.

Il 12 agosto 1845, essendo morto il sacer-dote Gerolamo Sala titolare di questa cappel-lania, fu investito della stessa il sacerdote Ar-senio Meles nativo di Laorca ed abitante in Acquate. Nella bolla e rescritto arcivescovile d’investitura (il documento porta la fi rma del cardinale Carlo Gaetano di Gaisruck) di que-sto che probabilmente fu l’ultimo sacerdote investito di questa cappellania soppressa nel 1867, compaiono i nomi di Paolo Serponti e di Alessandro Manzoni. Ad un Serponti face-va già riferimento un precedente documen-to. L’autore dei Promessi Sposi vi fi gura pro-babilmente per i suoi legami di parentela con gli Airoldi Marchesini. Le cose, come si vede, erano evidente cambiate rispetto all’origine quando lo jus nominandi del testamento spet-tava “Alli eredi di Giacomo Airoldi, fratello di detto testatore istitutore. Alli eredi di Fran-cesco Airoldi, fi glio del q.m Gio Antonio. Alli eredi di Gio Antonio Airoldi fi glio del q.m Po-lidoro” che rogò il testamento. “Alli PP. Guar-diani pro tempore di S. Giacomo di Castello”. Degli Airoldi non c’era più traccia nei regi-stri parrocchiali di Acquate già dall’anno 1710 quando la continuità della famiglia era assicu-rata dagli Airoldi Marchesini di Acquate.

La cappellania fu soppressa nel 1867 in se-guito alle nuove leggi del governo italiano di allora. Il titolo per cui il ministero delle fi nan-ze soppresse defi nitivamente la cappellania era che “alla cappellania dell’Immacolata Con-cezione non è inerente l’obbligazione princi-

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pale e precisamente di coadiuvare il Parroco nella cura delle anime”.

Veniamo a giorni a noi più vicini e precisa-mente al 1957 quando viene effettuato il pri-mo signifi cativo intervento di restauro che in-teressa il tetto, il soffi tto, il pavimento, il nuo-vo impianto elettrico, gli intonaci delle pareti esterne e del campanile. Nell’occasione viene realizzato il dipinto che c’è sopra la porta d’in-gresso, all’esterno, da parte del prof. Volpi di Bergamo. Nel 1966 si provvede alla sistema-zione dell’altare secondo le nuove norme li-turgiche. Nel 1967, nel rimuovere il quadro pala d’altare con San Gioachino, Sant’Anna e la Madonna bambina, si rinvenne sul muro un affresco raffi gurante lo stesso soggetto. L’an-tica pittura risalente “senza dubbio” al 1500 - quel “senza dubbio” è nella relazione di re-stauro - fu restaurata dal pittore prof. Marcel-lo Bonomi da Bergamo. Costui, a suo tempo, col prof. Pelliccioli aveva collaborato al restau-ro della “Cena” di Leonardo da Vinci, in Mi-lano. Nel 1968 viene eseguita la nuova deco-razione interna ad opera del prof. Ferrari di Bergamo coadiuvato in parte anche dal pitto-re acquatese Giovanni Frigerio detto Pipeta. Dei restauri del 1967 e della decorazione suc-cessiva esiste la seguente relazione: “Si fa risa-lire alla fi ne del ’500 la costruzione dell’Ora-torio di S. Anna. È certo che, dopo l’istituzio-ne da parte di S. Carlo delle Confraternite, la chiesetta fu continuamente adibita a luogo di convegno dei confratelli del SS. Sacramento, i quali vi si recavano a recitare l’uffi ciatura ed a tenere le loro frequenti riunioni. Nel ’600 sulla parete sovrastante l’altare, da un ignoto pitto-re fu dipinto un affresco, raffi gurante S. Anna con S. Gioacchino che attendono alla Madon-na ancora in tenera età. Negli anni successivi, all’affresco è stato sovrapposto un quadro che copiava esattamente l’insieme dell’affresco. E così è stato fi no a qualche settimana fa. Doven-dosi infi ne procedere a lavori di restauro della

chiesetta, per riparare, almeno parzialmente ai danni provocati dal tempo e dall’umidità, si è scoperto, sotto il quadro, ciò che rimane del-l’affresco, quasi irrimediabilmente perduto. Il Sig. Parroco allora ha chiamato un valente pit-tore, il prof. Marcello Bonomi di Bergamo, il quale è accorso a restaurare con mirabile mae-stria l’antico affresco, avvalendosi delle imma-gini del quadro e di quel poco che era ancora accennato sul muro. Per far risaltare maggior-mente la preziosità del dipinto, un bravissimo decoratore bergamasco, il prof. Gianantonio Ferrari, ha eseguito in stile secentesco delle decorazioni che formano un tutto armonico di squisita fattura e di rara bellezza”.

L’ultimo restauro dell’intero edifi cio è stato eseguito nel 1987. Amanzio Aondio ne appro-fi ttò per effettuare rilievi sulle due campane. Sulla prima ci sono le seguenti iscrizioni: Ex Comuni Vicinorum Aquati elemosina refundi-ta 1725 e Franciscus Pencius Capelanus. Nella fascia centrale di questa campana ci sono le fi -gure di Sant’Antonio da Padova, Sant’Ambro-gio, il Crocifi sso con ai piedi la Maddalena, la Madonna con il Bambino (Maria Ausiliatrice); nella fascia inferiore Sant’Anna con la Madon-na bambina inginocchiata che sta imparando a leggere, e lo stemma del fonditore sul quale, a fatica, si legge Nicolaus Bonavillensis. All’in-terno della campana, dipinto grossolanamen-te, si legge ancora il numero 2337 assegnato alla campana quando fu requisita in tempo di guerra, nel mese di luglio del 1943. Sulla se-conda campana c’è l’iscrizione Ex Communi Aquatensium Elemosina 1737 e ci sono le fi -gure del Crocifi sso con la Madonna a San Gio-vanni, un santo (probabilmente San Benedet-to), la Madonna con il Bambino, Sant’Antonio da Padova, e lo stemma del fonditore sul quale si legge chiaramente soltanto Nicolaus. Anche all’interno di questa campana si trova dipinto un numero, il 2339, riferito alla requisizione della stessa nel periodo bellico.

Nelle pagine seguenti, una panoramica del vecchio nucleo di Acquate sul quale svetta il campanile della parrocchiale.

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L’altare della Concezione con la pala dei Santi Gioachino e Anna e la Madonna bambina.

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LA GROTTA E IL SANTUARIODELLA MADONNA DI LOURDES

“Andare alla Madonna d’Acquate era un gioioso momento di devozione ma insieme di passatempo quando s’era ragazzi; gli anni pri-ma della guerra non offrivano grandi occasio-ni di svago anche qui intorno a Lecco, e la gita alla Grotta di Lourdes sotto l’ombra del Re-segone, dopo la lunga sequenza di gradini ac-ciottolati, era quasi un premio. Il pio luogo è però ancora centro d’attrazione e d’irradiazio-ne mariana, mentre persiste la tradizione del-le Giornate della Carità dedicate agli ammala-ti”. Inizia così il capitoletto sulla Madonna di Lourdes ad Acquate nel primo dei due libri Segni della pietà mariana nella serie Itinerari lecchesi di Dino Brivio.

Ad Acquate, il complesso di opere esistenti si è formato in tre tempi: dapprima fu costrui-ta la Grotta; venne successivamente il Santua-rio dell’Immacolata; da ultimo si provvide al piazzale e alla scalinata. Il tutto è raccontato da Amanzio Aondio, in un opuscolo pubblicato nel 1984 per il compimento dei cinquant’anni della chiesetta. Al caro Amanzio, che ha amato tutto quello che è di Acquate e in modo spe-cialissimo il gioiello consacrato alla Madonna di Lourdes, è più che giusto lasciare la parola.

Era l’anno 1908. Ricorreva il 50° dell’ap-parizione dell’Immacolata a Lourdes e il 50° di episcopato di Pio X. In marzo, i Missionari di Rho avevano predicato in paese la Missio-ne e di tutto questo si volle lasciare un ricor-do perpetuo.

Il parroco don Giovanni Piatti propose al popolo di adattare una caverna esistente in

cima al paese, in località detta “al Comune”, e formare una grotta come quella di Lourdes. Fu tale il favore che incontrò la proposta che la prima questua fatta il 29 marzo diede un gettito di lire 1093.

Sull’indirizzo dato dal compaesano sacer-dote Carlo Corti che era stato a Lourdes e vi aveva fatto buoni rilievi, si diede subito princi-pio ai lavori. Fu uno spettacolo veramente edi-fi cante il vedere l’impegno di tutti, dai bambi-ni dell’asilo che portavano il pentolino di sab-bia ai più vecchi che non volevano essere ulti-mi in quell’opera.

Furono così portati dal paese sul posto 20 carri di sabbia, 96 carri di tufo scavato dal-le grotte di Pomerio, 1000 sacchi di cemen-to. L’altare, il pulpito, la fontana e il crocio-ne vennero trasportati da Lecco e costarono lire 5000. La cancellata di ferro che costò lire 700 fu lavorata gratuitamente dalla ditta Car-lo Milani.

Un particolare: la friabilità della roccia ren-deva impossibile la copertura della grotta, per cui la si dovette fare con blocchi di cemento. Questa notevole diffi coltà, nonché la caduta di un masso - avvenuta il 12 luglio per la piog-gia - che rovinò parte dei lavori già fatti, diede motivo al foglio socialista La Spinta di canzo-nare l’opera dei volenterosi, i quali invece di interrompere i lavori continuarono con ardo-re più fervoroso.

I lavori incominciati in aprile terminarono in ottobre. A lavoro compiuto, il giorno 15, fu collocata nella nicchia la bella statua dell’Im-

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La statua della Vergine, in marmo di Carrara, all’interno del Santuario.

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L’interno del Santuario di Acquate con l’altare e le vetrate istoriate.

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macolata, opera dello scultore Carlo Nardini di Milano, insieme alla Bernadette, e fu messa in opera la grande croce che sovrasta la grotta.

Eccetto le costruzioni di cemento - l’altare, il pulpito, la fontana, il crocione del peso di 10 quintali - tutto fu eseguito gratuitamente dalla popolazione di Acquate.

La grotta fu benedetta dal canonico me-tropolitano monsignor Cesare Viola il 26 del-lo stesso mese di ottobre, ma la prima messa solenne si poté celebrare soltanto l’8 dicem-bre successivo, con un concorso spettacoloso di popolo. E la grotta, costruita nel 1908, non subì nessun danno fi no ai nostri giorni. La sce-na raffi gurata è quella ben nota dell’apparizio-ne di Maria a Bernadette Soubirous alla quale si presentò, nella grotta di Massabielle, pres-so Lourdes, la mattina del giorno 11 febbraio 1858, e dichiarò, nell’ultimo incontro, nella fe-sta dell’Annunciazione, il suo nome: “Io sono l’Immacolata Concezione”. Era il dono privi-legiato per Maria che Papa Pio IX aveva rico-nosciuto e proclamato come dogma quattro anni prima, l’8 dicembre 1854.

Il concorso dei pellegrini alla Grotta - con-tinua il racconto di Amanzio Aondio - si ma-nifestò sin dal principio assai lodevole e, allo scoppio della guerra europea (1915-1918), si intensifi cò grandemente. In quel triste perio-do storico l’Immacolata raccoglieva le pre-ghiere e la lacrime di tante mamme che non sapevano trovare maggior conforto che nella bianca Madonnina.

Finita la guerra, il popolo di Acquate si pre-parava a celebrare il 25° di sacerdozio del-l’amatissimo parroco don Giovanni Piatti. Questi dichiarava di accettare i festeggiamenti a una condizione: che sul piazzale della Grotta si erigesse un monumento ai Caduti. In breve anche il monumento fu cosa fatta. Il 25° di sa-cerdozio fu celebrato solennemente il 28 set-tembre 1919; il monumento ai Caduti fu inau-gurato il giorno seguente, dopo l’uffi cio solen-ne celebrato nella chiesa parrocchiale. Va poi ricordato che nel 1959 gli Alpini di Acquate hanno installato sul monumento una fi amma

ardente, in ricordo di tutti i Caduti e dispersi sui campi di battaglia della guerra 1940-1945.

Accaddero poi due fatti importantissimi: primo, il divieto da parte dell’autorità ecclesia-stica di celebrare la messa all’altare della Grot-ta; secondo, la costituzione della sezione lec-chese dell’Unitalsi, allora Unital, con la nomi-na a segretario del sacerdote Giulio Spreafi co, coadiutore di Acquate.

Nell’agosto del 1928 egli conduceva a Lour-des, con il pellegrinaggio degli ammalati, il pri-mo nucleo degli Unitalsiani: tra questi era la giovane Barbara Manzoni che presentava esiti gravi di encefalite letargica e ritornò perfetta-mente guarita. Il miracolo compiuto dalla Ma-donna a favore di una fi glia di Acquate e il di-vieto di celebrare nella Grotta determinarono, in don Giulio, l’idea di erigere un Santuario vi-cino alla Grotta.

Senza far motto con alcuno, dall’architetto monsignor Spirito Chiappetta si fece abboz-zare il disegno seguendo lo stile e la confi gu-razione del complesso basilicale di Lourdes. Don Giulio ebbe quel disegno nel mese di set-tembre 1929 e, sin da allora, più volte lo por-tò a Lourdes per porlo sotto i piedi della Ma-donna, perché lo benedicesse e facesse diven-tare una realtà il suo sogno. Questo, per bon-tà divina, incominciò ad avverarsi nell’autun-no 1930, dopo la visita pastorale del cardinale Schuster ad Acquate.

In seguito egli fece sviluppare lo schizzo del Chiappetta dal geometra Attilio Villa di Lec-co e affi dò i lavori di costruzione alla ditta Gu-glielmo Colombo di Acquate. Comunicata al popolo la nuova idea, questo l’accolse, come sempre, con grande entusiasmo.

Nel 1931, tra aprile e settembre, si fecero gli scavi occorrenti alla formazione del piazza-le di appoggio alla costruenda chiesa. La pri-ma pietra fu benedetta dal parroco don Gio-vanni Piatti il 30 aprile 1933.

Fra le innumerevoli trovate escogitate da don Giulio per fi nanziare l’opera del Santuario resterà famosa quella dell’uovo. Nella Pasqua del 1934 distribuì a ciascuna famiglia di Acqua-

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Una delle prime cartoline con l’immagine del Santuario e, sotto, la grotta di Lourdes ad Acquate.

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te un uovo di cioccolata pregando le massaie che “lo facessero covare”; a tempo opportuno sarebbe poi passato a raccoglierne il frutto. Fu una cosa meravigliosa! Dalle uova di ciocco-lato nacquero galline, pollastri, oche, anitre, tacchini, conigli, agnelli e… perfi no un vitel-lo. Tutto questo prodotto eterogeneo, messo all’asta, diede una somma cospicua. Di quel-le uova, con pulcino di ovatta, don Giulio ne aveva acquistate 670. E nelle case ogni uovo fu distribuito insieme a questa lettera: “Stima-tissimo Signore. Un uovo! Che è mai? È come un grano di frumento, una cosa insignifi cante che, messa in terra può diventare una pagnot-ta. L’uovo che in men che non si dica è bevu-to e… addio, se lo si cova darà un pulcino che a suo tempo diventerà un pollastro, cappone, gallo, gallina, tacchino, che valgon più che un uovo. Non vi pare? Ed io, fatta questa conside-razione al lume dei soldi che mancano ancora per fi nire il nostro Santuario, ho pensato che nessuna famiglia della parrocchia vorrà rifi u-tarsi di far diventare pollastro, cappone, gallo, gallina, tacchino un semplice uovo se glielo re-galo, tanto più che, essendo vicina la Pasqua, è di stagione. Ed allora, conoscendo la sua gene-rosità quando si tratta di onorare la cara Ma-donna, anche a Lei offro un uovo coll’augurio sincero di buona Pasqua, fi ducioso che l’ultima domenica di agosto vorrà restituirmi un polla-stro, cappone, gallo, gallina, tacchino. Che se l’uovo offertole non le sembrasse atto a diven-tare… tacchino, ed Ella non avesse la possibi-lità di procurarsene uno da cova, il sottoscrit-to accetta volentieri anche il corrispondente di un pollastro… tacchino in denaro. La prego, l’accetti con grazia e non me ne voglia male. Si fa di tutto ad onore della Vergine Santissima che non sarà avara di sue benedizioni”.

Alle continue offerte, alle quali s’erano spontaneamente obbligati gli acquatesi, s’ag-giungeva l’aiuto fi nanziario prestato genero-samente dagli Unitalsiani lecchesi e del terri-

torio. Fra le tante offerte fatte dagli acquate-si, tutte meritevoli di lode, fi gura anche quel-la della Giornata Pro Santuario che la gente d’ogni ceto offrì nel 1937, dopo aver ricevu-to una busta contenente la seguente supplica: “Chi sei? Cosa vuoi? Sono la mano tesa del-la Madonna che ti chiede la carità per pagar-si la casa che non è ancor sua. Ciò che prendi in una giornata del tuo lavoro, regalalo a me; a suo tempo andrò al mio destino; hai tempo tutto l’anno. Sarà poco, sarà molto? Certo è un sacrifi cio e se lo farai di buon animo, non sarà fatto inutilmente. Se anche un bicchier d’ac-qua dato al povero nel nome di Gesù avrà il suo premio, che dire di una giornata comple-ta di lavoro data alla Madre di Dio? Credi tu che sentirai la mancanza di queste lire? Cer-to la sentirai, ma tu hai già provato altre vol-te il godimento di compiere un’opera buona; non vale forse la pena di procurartelo spesso? Hai tu bisogno di protezione del Cielo per te e per i tuoi fi gli? Fatti debitrice la Madonna e non ti mancherà il suo favore. Ti ringrazio del-la buona accoglienza che mi fai, sono certo che non mi butterai al fuoco. Ti prometto che il tuo nome sarà scritto su di un album e conser-vato lassù al Santuario della Madonna perché non si dimentichi della tua offerta!”.

Il Santuario, a opera fi nita, costò la bella ci-fra di lire 400.000. Esso fu inaugurato nei gior-ni 22, 23, 24 settembre 1934. In quell’anno ri-correva il 40° di messa del parroco Piatti e don Giulio e il popolo offrirono al festeggiato il nuo-vo tempio consegnandogli le chiavi. Dallo svel-to campanile della Lourdes acquatese manda-vano il loro suono, limpido e argentino, tre bel-lissime campane che don Giulio aveva compe-rato dagli abitanti di Bonacina. Erano apparte-nute alla chiesetta di San Bernardino. Furono fuse nel 1867 dalla Fonderia Pruneri di Grosio, in Valtellina, e sono dedicate la prima a Dio e a San Bernardino, la seconda alla Beatissima Vergine Maria, la terza a San Carlo.

In questa a fronte e nelle pagine seguenti due immagini del cantiere per la costruzione del Santuario di Acquate.

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Rimaneva ancora qualcosa da fare: sistema-re il piazzale e il terreno attorno al Santuario e ricostruire defi nitivamente la scalinata tra la Grotta e la chiesina. L’idea di questa nuova opera venne dal Gruppo Lourdiano, in seguito a una numerosissima adunanza di soci tenutasi ad Acquate nella sala parrocchiale.

Don Andrea Spreafi co, fi glio anch’esso di Acquate, si apprestava a celebrare il 50° del-la sua messa. Si volle quindi dar mano ai lavo-ri per offrire al festeggiato, che era pure un in-faticabile socio dell’Unitalsi, la nuova opera. Il popolo accolse l’idea e ne fu entusiasta. Con mezzi raggranellati qua e là, con il continuo af-fl uire delle offerte, con il molto lavoro gratuito prestato dagli acquatesi, l’opera fu completata nell’agosto del 1947. La nuova scalinata venne inaugurata il 21 settembre, giorno in cui si ce-lebrò la diciottesima Giornata della Carità.

Per un’improvvisa malattia che aveva col-pito don Andrea, i festeggiamenti in suo ono-re furono però rimandati al settembre dell’an-no successivo. Fu una manifestazione indi-menticabile, animatore lo stesso vecchio par-roco Piatti, ormai al termine del suo cammi-no (morirà quattro mesi dopo). Ne ha lascia-to una bella paginetta Amanzio Aondio: “I fe-steggiamenti per la messa d’oro di don Andrea Spreafi co vennero celebrati nei giorni 4, 5, 6 settembre (sabato, domenica, lunedì) e riusci-rono veramente imponenti. Il triduo di prepa-razione alla festa fu predicato da don Pietro Invernizzi d’Acquate. Proveniente da Mila-no, don Andrea giunse ad Acquate nel pome-riggio di sabato. Pioveva a dirotto! Dopo il ri-cevimento il festeggiato impartì la benedizio-ne solenne. Intanto il tempo si rimise al bel-lo, così da permettere tutte le cerimonie pro-grammate per quei giorni. Alla sera, all’orato-rio maschile, fu aperta la pesca di benefi cenza che era stata allestita magistralmente da Fe-lice Salvi e da molti altri suoi collaboratori. Il paese, tutto pavesato a festa e illuminato all’in-verosimile da miriadi di luci multicolori, pa-reva un giardino fi orito. Il centro della festa fu la giornata di domenica. In mattinata furo-

no distribuite numerose comunioni. Prima di celebrare la messa giubilare, don Andrea salì al Santuario ad inaugurare la nuova gradina-ta offertagli dal popolo acquatese e a scopri-re la lapide ivi murata per onorare il suo mez-zo secolo di sacerdozio. La messa solenne, ce-lebrata alle ore 10, con discorso di don Fran-co Longoni, rettore del Collegio Arcivescovi-le Alessandro Volta di Lecco, fu accompagna-ta da numeroso clero, da gran folla di fedeli e dalla giovane corale parrocchiale che si distin-se per le musiche scelte ben eseguite. Erano presenti anche alcune autorità e molti ex al-lievi di don Andrea. Alla sera, dopo la proces-sione eucaristica per le contrade del paese, gli ex allievi convenuti ad Acquate in numero as-sai rilevante, si ritrovarono nel salone dell’asi-lo e il vecchio maestro con i suoi allievi rivisse qualche momento della sua vita di educatore. Al mattino di lunedì don Andrea salì di nuo-vo al Santuario a celebrare la messa. Alla sera venne portato in trionfo per le vie del paese il simulacro della Madonna Assunta, con grande concorso di fedeli anche dei paesi circonvicini. Furono giornate intense, vissute da tutti con fede ed entusiasmo, che ripagarono il tanto la-voro speso per prepararle; ma soprattutto re-sero un degno riconoscimento ai meriti di sa-cerdote, di educatore e di cittadino di questo illustre fi glio della nostra terra”.

La grotta ricostruita a imitazione di quella di Lourdes sopra l’abitato di Acquate, nella par-rocchia dei Santi Giorgio, Caterina ed Egidio, compie proprio in questo anno 2008 il centesi-mo anno della sua storia. Durante questo lun-go tempo la Vergine ha visto qui un ininterrot-to fl uire di devoti. E il piccolo Santuario di Ac-quate che si è voluto costruire lassù, sopra un poggio ridente alle falde del Resegone, perché dall’alto della sua reggia la bianca Regina ve-desse meglio e proteggesse i suoi fi gli sparsi a valle, continua a vivere, oggi più di ieri, e testi-monia a tutti la fede e la generosità di un po-polo. Come nella grotta miracolosa della ter-ra francese, anche in quella d’Acquate sgorga una fonte d’acqua. Venite a bere, è scritto so-

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Altre immagini dei lavori di costruzione affi dati alla ditta Guglielmo Colombo.

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Una pausa durante i lavori di costruzione della Grotta di Lourdes nel 1908 e il trasporto della croce in cemento.

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La terza festa lourdiana celebrata ad Acquate il 27 settembre 1931.

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pra, e le nonne non mancano di accompagnare amorevolmente i nipotini a dissetarsi con l’ac-qua della Madonna, e a recitare una preghie-ra, trasmettendo così di generazione in gene-razione il senso della fede.

La chiesetta costruita più in alto della grot-ta ripete le linee del grande Santuario di Lour-des. Anche qui si onora l’Immacolata ricor-dando l’apparizione, e si affi dano i malati alla materna pietà della Vergine. Della raccolta chiesetta dà questa effi cace descrizione An-gelo Borghi nel paragrafo dedicatole nel vo-lume Il lago di Lecco e le sue valli terzo del-la serie Sacralizzazioni. Strutture della Memo-ria: “Il grazioso santuario, rivestito di marmi e di cotto, ha il portale a sesto acuto sovrastato dalla torre campanaria a cuspide. L’altare del 1935, completato con il tabernacolo nel 1958, è un bel manufatto in cui sono inserite le sta-tue in bronzo delle donne forti dell’Antico Te-stamento, e si accompagna ad arredi tipici del periodo; la statua della Vergine, in marmo di Carrara, è opera della bottega di Cesare Paleni di Bergamo. Le vetrate istoriate subirono un restauro nel 1977, aggiungendosi allora quella centrale dell’Immacolata”.

A quelle citate si sono poi aggiunte altre pubblicazioni. Un ampio capitolo sul Santuario della Vergine di Lourdes è nel libro realizzato nel 2006 Don Angelo dono del Signore alla co-munità di Acquate. Freschissimo (è stato pre-sentato nel settembre di questo 2008) è il libro 80 anni di impegno nel quale Barbara Garava-glia ricostruisce la storia, cominciata nel 1928, della sottosezione di Lecco dell’Unitalsi. Tan-tissimi sono poi gli articoli che, sui giornali, ac-compagnano le varie celebrazioni al santuario. Abbiamo scelto, tra i tanti, una parte del servi-zio di Giorgio Spreafi co, pubblicato sul quoti-diano La Provincia del 12 febbraio 1985.

“Freddo, nuvole basse che si confondono con la nebbia. Accenni di pioggia, o forse di neve piccola piccola, gelata. La cornice non è invitante, ma la gente non se ne cura. Arriva alla spicciolata e sale i gradini bassi resi visci-di dalla fanghiglia. Passi cauti, anche più cau-

ti quando a muoverli sono gli anziani - tanti - sorretti a braccetto dai familiari. Il richiamo è un tempio piccolo dalle guglie aguzze, il san-tuario dedicato alla Madonna di Lourdes pro-prio sopra l’abitato di Acquate. Visto dal bas-so, dal piazzale, il campanile svetta tra il verde del bosco e il bianco latte dei fumi dell’umi-dità. Domina la grotta oggi anche più scura, e con quella è anche più d’ogni giorno un cro-cevia della fede e della speranza. Lunedì 11 febbraio, ieri. È il giorno dell’anniversario dell’apparizione della Vergine a Lourdes, è il giorno - qui - d’una festa tradizionale e senti-ta, appena attutita dal maltempo che invita a restare chiusi in casa.

La gente lecchese all’appuntamento non manca. Alla messa delle 10, a quella delle 15. E, a sera, alla celebrazione nella parrocchia di Acquate. Un legame profondo, che non viene meno e che dura dal ’34, l’anno dell’inaugura-zione di questo piccolo tempio legato a un av-venimento straordinario di portata universale, ma anche di respiro locale: sono ancora molti a ricordare l’agosto del ’28, quando una ragaz-za del rione - Barbara Manzoni - tornò perfet-tamente guarita da Lourdes dove andò pelle-grina con il primo gruppo dell’Unitalsi lecche-se: un attimo, e un male terribile (l’encefalite letargica) diventato soltanto un ricordo. Se ne parla ancora, qui ai piedi del santuario”.

Quella scala scivolosa in quell’11 febbraio 1985 rimase tale ancora per poco. Ai primi di marzo si mettono all’opera gli operai della Co-lombo Guglielmo & Figli, il cui titolare ha deci-so di regalare i lavori di sistemazione. E anche questa è una testimonianza di fede nei confron-ti della Madonna dei miracoli. Il progetto origi-nario della costruzione prevedeva che la chiesa si potesse raggiungere attraverso due scalinate. Poi i soldi vennero a mancare e si costruì una scalinata soltanto. Adesso si realizza quella sca-linata che era stata lasciata in sospeso.

Non è una scalinata come tante altre. Gra-dino dopo gradino, rimonta la pendice alle spalle del rione Acquate non solo per guada-gnare quota, ma anche per innalzare lo spirito.

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La benedizione e la posa della prima pietra del Santuario il 30 aprile 1933. Nelle pagine seguenti la processione sale alla grotta per la benedizione del 1908.

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È la scalinata che conduce alla chiesetta maria-na, vivo richiamo del grande santuario di Lour-des, che a quello anzi si intitola perpetuando tra lago e montagna una devozione tanto radi-cata anche tra la nostra gente. Il piccolo tem-pio vive domenica 15 settembre 1985 la sua grande giornata annuale - la cinquantasettesi-ma Giornata della Carità indetta dall’Unitalsi - e quella scala, proprio quella, è la sorpresa gra-ditissima di quanti fi n lassù salgono spinti dalla fede. Nuova, la gradinata, completamente ri-fatta e donata da quella stessa impresa Colom-bo Guglielmo & Figli - nel frattempo è diven-tata la Colombo Costruzioni ma i legami con le radici acquatesi sono rimasti solidi - che lo stes-so santuario edifi cò più di mezzo secolo prima e che con questa iniziativa ha voluto ricordare i propri ottant’anni di attività in terra lecchese.

Dal 1997 la Madonna di Lourdes ad Acqua-te diviene ancora di più centro di attrazione e di irradiazione mariana con la processione che raggiunge il Santuario da tutte le parroc-chie della città. Iniziata nell’anno della missio-ne cittadina, si ripete annualmente nel mese di maggio. Si parte da tre punti diversi accen-dendo le candele che uniscono il guizzare del-le loro fi ammelle al calore della partecipazione delle anime. È sempre una grande folla, fan-ciulli, giovani, adulti, anziani, che sale pregan-do, con le candele in mano, unita alla Chiesa che celebra la Madre di Dio. Si sente, nella vi-brante, commovente manifestazione, quanto è viva la religiosità della nostra gente.

La stessa raccontata da Uberto Pozzoli su All’ombra del Resegone dell’ottobre 1929. Sot-to il titolo Manifestazione lourdiana ad Acqua-te vi si racconta quanto accaduto il 22 settem-bre 1929.

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Troppo sole, troppo azzurro hanno incor-niciato ad Acquate la solenne manifestazione lourdiana. L’anno scorso la giornata era grigia, soffusa della mestizia che le veniva dal velo teso da monte a monte; e sembrava che la luce

pacata del pallido sole fosse il commento mi-gliore alle sofferenze della turba raccolta dal-la voce del miracolo a chiedere altri miracoli; sembrava che in quella luce si fondesse senza contrasto l’altra luce della fede e della speran-za, che illuminava ogni volto. Quest’anno, in-vece, il lago e i monti tripudiavano nella sere-nità più lieta, e v’era nell’aria come un canto di festa, che soffocava la sommessa preghie-ra della folla dolorante, e riempiva il cuore di grande tristezza. Poiché non v’è cosa più tri-ste di un raggio di sole o di un lembo azzurro di purissimo cielo rifl essi nella morta pupilla di un cieco; e niente v’è che più addolori del vedere un corpo consunto dal male trionfare nell’aureola che il nostro cielo, quando è bel-lo, dà a tutte le cose.

Ma i cinquecento ammalati che hanno formato sulla piazza del paese manzoniano - troppo angusta per tanto male - come una grande corona di umane miserie, non si sono forse accorti del contrasto, ché avevano l’ani-ma colma di preghiera e di speranza, e si era-no quasi estraniati, benché ne fossero stret-ti da ogni parte, dalla folla curiosa che tenta-va soverchiare, col brusio molesto di tutte le folle curiose, le invocazioni ardenti che saliva-no a dire Lassù, dove tutto si può, il desiderio di tanti cuori straziati. Quando il corpo non ha saputo opporsi al male, quando la scienza degli uomini ha confessata la sua impotenza, quando la vita sta per soccombere nel duello tremendo con la morte, un grido di ribellione si leva dall’anima: ribellione alla materia, che è anelito di cielo, che è distacco da tutte le cose terrene, che è la fi ne di ogni umana pau-ra. E allora, anche se non si è pregato mai, si ha la forza di piegare le ginocchia davanti ad un’immensa folla curiosa e di gridare ad alta voce, con l’occhio luccicante perduto in uno sguardo d’amore all’Ostia divina: “O Signore, se tu vuoi, puoi guarirmi. O Signore, sia fatta la tua volontà. O Maria, salute degli infermi, pregate per noi”.

Ed è così che il Signore sospende talvolta le leggi della natura e dà all’uomo il miracolo.

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Il prevosto di Lecco mons. Giovanni Borsieri benedice la nuova chiesa e la folla il 23 settembre 1934. Sotto, il prevosto di Lecco mons. Ferruccio Dugnani di-stribuisce la comunione il 10 settembre 1978, cinquantesimo dell’Unitalsi e della festa lourdiana. Nelle pagine seguenti, la benedizione della Grotta nel 1908.

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IL MARTELLAR DI UNA BREVEPREGHIERA…

Queste manifestazioni, per le quali è stata forgiata una barbara parola - lourdiane - nasco-no dal desiderio dei pellegrini reduci da Lour-des di rivivere nelle loro terre, e di farle vivere a chi fi no a Lourdes non è ancora giunto, le so-vrumane impressioni della città della Vergine. Impresa ardua, d’accordo: poiché l’uomo non può ripetere un atto della divina volontà, non può in ogni paese creare l’atmosfera celestiale che il Signore ha voluto intorno alla Grotta de-stinata a cantare la gloria della Madre sua: ma è certo che tali manifestazioni, indette in città e paesi favoriti dalla Grazia, assumono caratte-re di feste della riconoscenza, alle quali il po-polo, che ha visto qualcuno dei suoi fi gli tor-nare guarito, partecipa con entusiasmo; e se ben lontane restano - per ambiente e per im-ponenza - dalle funzioni di Lourdes, lasciano però in chi vi partecipa il desiderio vivo di pel-legrinare a quella terra benedetta per tuffar-si nel divino mare della Grazia. Quando poi, come ad Acquate, la devozione dell’Immaco-lata conta decenni di fervore nel popolo - che ha eletto la bianca Vergine dei Pirenei a Si-gnora del paese - ed è irrobustita una testi-monianza vivente del miracolo, la manifesta-zione lourdiana può raggiungere l’importanza che appunto quest’anno ha avuto.

Oltre cinquecento ammalati, venuti da vici-ni e da lontani paesi, sull’umile carretta brian-zola o sulla moderna autolettiga, tutti accesi di speranza; migliaia di persone, che han fusi il loro augurio e la loro preghiera coi voti degli infermi: e, su tutto, il martellar continuo della breve e sublime preghiera mariale, erompen-te di quando in quando nell’invocazione altis-sima ripetuta con accenti di viva implorazio-ne da tutta una folla elevata a colloquio con l’Altissimo. Infi ne la benedizione: il Signore, fatto piccolo per miracolo d’amore, che si leva come a segnare sulla fronte e sul corpo di ogni infermo il simbolo che è ricordo di divino do-lore e insieme infallibile promessa di vita.

C’era tra gli ammalati una bimba di tre

anni, sordomuta: un angioletto bruno, che tut-to sembrava voler dire con gli occhi irrequieti. Quando il Signore passò, ella non potè, come gli altri, chiedere sottovoce la grazia: un breve suono, lieve come un soffi o, fu tutta la sua pre-ghiera. C’erano infermi dal corpo disfatto, co-ricati su lettucci improvvisati: una gran fi am-ma accese il loro viso quando il sacerdote levò su di essi il Santissimo. C’era un cieco: un gio-vane aitante, che rivelava il suo male con l’im-mobilità del volto quasi proteso costantemente a cercare, per portare fi n nel cuore, attraverso vie misteriose, la luce che i suoi occhi cerchia-ti di sangue hanno da tanti anni perduta. Sorri-se, quando capì che il Signore l’aveva benedet-to: tracciò lentamente un segno di croce; e le sue palpebre ebbero una improvvisa vibrazio-ne di speranza, che si sciolse in un nuovo sorri-so di rassegnazione. Lì accanto un bimbo ma-lato piangeva: il cieco cercò con la mano mal-ferma la testolina ricciuta, e l’accarezzò, come volesse, così, infondere al piccolo infermo un po’ della sua pace, lenirgli un po’ il dolore.

INCREDIBILE, MA VEROAnima delle manifestazioni lourdiane

sono specialmente coloro che hanno seguito a Lourdes, come brancardiers o come infer-miere, i treni dell’Unital (Unione nazionale trasporto ammalati a Lourdes). Anzi, le stes-se manifestazioni danno motivo a cordiali riu-nioni di brancardiers e di infermiere di diver-se zone, che servono a tener vivo lo spirito, di-ciamo così, lourdiano, e a stringere tra questi volontari dell’Immacolata quei nodi che da-vanti alla Grotta benedetta han fatto di essi un piccolo esercito, o meglio una buona famiglia votata al servizio degli infermi sulle strade lu-minose che conducono alla città del miracolo. Così ad Acquate erano rappresentate la sezio-ne di Monza, quella di Bergamo, e le zone di Missaglia, Oggiono e Besana.

Gente, questa, che tutti gli anni consacra otto giorni all’uffi cio pietoso che si è assunto, e vi spende per sovrappiù quasi un migliaio di lire. Tutti gli anni, sicuro: perché è oramai pa-

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La festa lourdiana celebrata il 22 settembre 1929 e, sotto, la processione per l’apertura del Santuario il 24 settembre 1934.

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cifi co che chi va a Lourdes con un treno am-malati torna a casa col proposito fermo di ri-fare il viaggio l’anno seguente, e poi l’altr’an-no ancora, e poi ancora, fi nchè si posson paga-re le spese. Incredibile, ma vero. Incredibile perché, dopotutto, non si tratta di un viaggio di piacere: i brancardiers e le infermiere de-vono affannarsi, per una settimana, nei servi-zi anche più umili, attorno ad ammalati spes-so affl itti da mali ripugnanti: ascoltarne ogni desiderio, portarli dal treno all’Asile, dall’Asi-le alla piscina, dalla piscina alla Grotta, dal-la Grotta alla spianata, tutto il giorno, da mat-tina a sera; e poi, qualche volta, di notte, la veglia in un padiglione dell’Asile! Eppure è vero: questi giovani vanno a Lourdes come ad una festa; basta ascoltare quel che racconta-no i brancardiers, basta sentire una volta con quanta convinzione si dicono arrivederci per l’anno dopo, basta por mente all’entusiasmo col quale si danno a convincere gli altri della santità, della bellezza della loro impresa.

Una ragione di questo fervore, di questa ab-negazione c’è, ed è chiara: i brancardiers e le infermiere, a differenza degli altri pellegrini, hanno vissuto, ogni volta che si sono recati a Lourdes, a contatto diretto col miracolo. Qual-cuno portava il graziato sulle braccia, proprio nell’istante in cui ha gridato la sua guarigione; qualche altro ha seguito ora per ora il lavorio della divina potenza su di una vita perduta; al-tri ancora hanno visto, nella carrozzella da essi trascinata, un viso cereo farsi improvvisamen-te roseo, ed ha sentito una voce soffocata dal-la commozione levarsi a benedire il Signore, ed han pianto dinanzi al miracolo compiutosi sotto i loro occhi. È per questo che una dolce e maliosa catena li lega alla Grotta lontana; ed è per questo che ogni anno, ai primi di agosto, quando i lunghi convogli del dolore lasciano la verde terra lombarda per portare nella cit-tà della Vergine il loro carico di sofferenze e di implorazioni, i giovani brancardiers e le bian-

che sorelle degli infermi sono al loro posto, ad assistere, a consolare, ad infondere fi ducia.

UNA PACIFICA RIVINCITAA Lourdes i brancardiers e le infermiere

dimenticano se stessi per vivere della vita dei loro malati, in un’atmosfera di dolore, di invo-cazioni, di speranze, di grazie. Hanno il Ro-sario attorcigliato ad una mano, l’Ave Maria sul labbro, una grande pietà ed una lieta cer-tezza nel cuore: la Madonna può fare tutto. E sanno compiere in silenzio, quando nessu-no li vede, atti da eroi. Non è eroismo il chi-narsi a lambire piaghe che ogni uomo fugge? Non è eroismo chiedere come segnalato favo-re di portare sulle braccia un corpo ricettaco-lo di terribili mali? Non è eroismo il faticoso lavoro alle piscine a contatto, per ore ed ore, con tutte le malattie che possono travagliare un corpo d’uomo?

Soltanto quando i padiglioni dell’Asile sono avvolti nelle tenebre e nel silenzio questi uo-mini, questi giovani - se non tocca loro il turno di veglia - si concedono un po’ di riposo. Tor-nano essi, allora, i giocondi ambrosiani di tutto l’anno: e, all’albergo, per la cena, ridono volen-tieri, rumorosi come sempre, alle prese col vo-cabolario, coi camerieri, col cuoco: anche col cuoco. Gli intingoli della cucina francese, si sa, non sono fatti per gli stomachi lombardi; per questi ci vuole eccellente risotto. A Lourdes i brancardiers a riposo si sono fatti quest’anno maestri di cucina ad un cuoco francese: per il risotto alla milanese ci vuole tanto di riso, tan-to di brodo, tanto di zafferano, tanto di cipol-le… O come le chiamate le cipolle voi?... Ma sì, le cipolle, le cipolle ci vogliono? Non capi-te?! Possibile che con voi non ci si possa inten-dere senza il manuale di conversazione?

Una sera qualcuno fu punto da un nostal-gico pensiero: e se mangiassimo la polenta? Il cuoco capisce - intelligente quel cuoco! - per-ché anche in francese la polenta è polenta,

Il Santuario di Lourdes svetta sulle case del vecchio nucleo di Acquate.

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cibo internazionale: tutto sta ad intenderci sul-la farina e sulla… lavorazione. Dateci un po’ di farina che al resto, dicono i brancardiers, pen-seremo noi. Il cuoco porta la farina, pallida fa-rina di mais, accolto da un grido di protesta: “Ma quel cuoco è matto da legare: maledett demoni, el voeur famm mangià i granéj!”.

Ad Acquate i brancardiers hanno trovato - gradita sorpresa dei colleghi di qui - una me-ravigliosa polenta sormontata da un volo d’uc-celli; ed a sera, prima di lasciare il paese, si sono raccolti a cordiale convito, han rievocato scene e ricordi di Lourdes, han fatto progetti per l’anno venturo, e si sono presa una pacifi ca rivincita sul cuoco francese.

“ADESS SOO ’NA SCIURA”Ogni giorno si allunga l’elenco di coloro che

l’anno venturo seguiranno da qui i treni del-l’Unital. Nel 1928 partirono un sacerdote - don Giulio Spreafi co - e i due brancardiers Fran-cesco Milani e Alessandro Turba. Quest’an-no il comitato di zona, che risiede ad Acqua-te ed è diretto dallo stesso don Spreafi co, ha raccolti e condotti a Lourdes sei brancardiers, quindici infermieri e trentaquattro ammalati. Le previsioni per l’anno venturo raddoppia-no addirittura questi numeri. Certamente oc-correranno tante braccia, tante buone volon-tà, tanto amore cristiano, perché possano esse-re accettati tutti gli infermi che insistono nel-la domanda di inscrizione: occorreranno molti brancandiers e molte infermiere. Un gruppo di operai ha già cominciato a quotarsi settima-nalmente, per trovar pronto ad agosto il gruz-zolo che permetterà il viaggio: esempio a co-loro che potrebbero, con minor sacrifi cio, gu-stare le gioie della carità cristiana esercitata in nome della Vergine. Chi sa che la giornata lourdiana non abbia acceso altri desideri?

La giornata di Acquate si è iniziata alla grot-ta, che dalle falde del Resegone domina il pae-se e il territorio. La Comunione generale ha

radunato mille persone, che si sono prostra-te dinnanzi al candore dell’Ostia e dell’Imma-colata. Più tardi, nella parrocchiale, al Vangelo della Messa in canto, don Paolo Locatelli, se-gretario della sezione bergamasca dell’Unital, ha narrato le meraviglie di Lourdes. Nel po-meriggio le giovani del circolo femminile han portato alla grotta tutti i loro fi ori; lassù don Locatelli ha commentato i misteri di gloria del Rosario; poi la processione Eucaristica è scesa fi no alla piazza gremita di malati e di popolo. Dopo la commovente benedizione degli infer-mi - recava il SS.mo il parroco don Giovanni Piatti - il prevosto di Oggiono, prof. don Got-tifredi, venuto con molti dei suoi, ha illustrato con forbita parola l’alto signifi cato della fun-zione. A sera un imponentissimo corteo è sa-lito alla grotta recando fi accole accese: mille e mille fi amme e il canto possente dell’Ave Ma-ria han detto nella notte fonda l’amore di un popolo all’Immacolata.

Durante la funzione della benedizione dei malati ha prestato lodevole servizio la “Croce Verde” di Lecco, che aveva provveduto, con le sue autolettighe, al trasporto degli infermi più gravi. L’assistenza è stata offerta dalle infer-miere e dai brancardiers dell’Unital. C’erano tra questi il sig. Pietro Bianchetti, presidente della sezione lombarda, il prof. Corno, il cav. Morerio e Citterio di Monza, Cattaneo di Og-giono, e altri. Erano presenti anche tre mira-colati: la giovane Barbara Manzoni, il picco-lo Ezio Castagna, e la miracolata di quest’an-no: Maria Corti di Oggiono. Naturalmente, la giovane è stata circondata dall’attenzione della folla, che ha voluto sentirla raccontare “come ha fatto a guarire”. La Corti, che ora ha il viso sempre illuminato dal sorriso, ha accon-tentato tutti, e quando una amica prendendo-le una mano le ha detto: “Oh, che pora Ma-ria!” ella ha risposto subito, quasi protestan-do: “Ma adess soo ’na sciura”.

Signora: ricca di salute e di grazia divina.

Nella pagina a fronte il Santuario della Madonna di Lourdes ad Acquate; nella successiva, la chiesa di Falghera.

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CHIESA DI SAN FRANCESCOIN FALGHERA

Nel 1605 tutti gli uomini di Falghera, “ispi-rati dal sig. Iddio e dallo Spirito Santo”, sta-biliscono di edifi care l’oratorio o chiesa “sot-to il titolo vocabolo e nome del Serafi co Sancto Francesco, nel quale si habbi a celebrare Messa conforme al Instituto della Sancta Chiesa Cat-tolica Romana, a honore del Signor Iddio, della Beata Vergine Maria e del Sancto Francesco”.

Il 2 luglio dello stesso anno, gli uomini del luogo invitano il parroco di Acquate, don Am-brogio Pozzi, a mettere la prima pietra “nel fondamento della Cappella del detto Oratorio quale è incominciato in una selva di Antonio Pozzo et fratelli, fi lioli del qm Bernardo, vicino alla strada che va in Malnago”, in località de-nominata il Calvario.

Affi nché la fabbrica proceda bene stabi-liscono pure di eleggere gli amministratori i quali dovevano attendere ad essa, tenere con-to delle elemosine date per spendere in detta impresa e rendere conto dei soldi spesi ai loro successori che di volta in volta sarebbero sta-ti eletti. Gli amministratori, fi no al 1733, furo-no eletti dagli uomini di Falghera, successiva-mente furono nominati dal parroco di Acqua-te. Le elezioni venivano fatte alla presenza del popolo nella chiesa parrocchiale o nella piazza di Falghera. I primi offi ciali (ossia amministra-tori) furono eletti nella chiesa parrocchiale di Acquate alla presenza del parroco Ambrogio Pozzi. Erano Pellegrino da Pozzo e Ambrogio Pozzo, sindaci; Antonio da Pozzo qm Bernar-do, tesoriere; Ludovico da Pozzo qm Bernar-do, cancelliere; Giuseppe Bolis qm Francesco,

priore; tutti abitanti in Falghera. Questi però, il 7 agosto 1605, furono sostituiti con altri nuo-vamente eletti dagli uomini di Falghera.

Dopo la posa della prima pietra e per tut-to il primo trentennio del XVII secolo, per ra-gioni sconosciute - ma è facile pensare all’inva-sione dei lanzichenecchi e alla successiva pesti-lenza che travagliarono il nostro territorio, non-ché alla mancanza di fondi - i lavori della fab-brica procedettero molto a rilento. Un certo ri-sveglio delle opere si ebbe dopo il 1633, proba-bilmente in seguito a nuove acquisizioni di fon-di. Infatti fra elemosine, lasciti e legati, fatti in quel periodo a favore dell’oratorio, si registra-no la cospicua donazione di 1200 lire imperiali fatta da Beltramo Pozzi nel 1630 e quella fatta da Ambrogio Manzone di Malnago, nel 1634, il quale lasciò al detto oratorio la selva detta il Brughiero che messa all’incanto venne acqui-stata da tale Francesco Gattinoni da Malnago, detto il Governo, al prezzo di 63 lire imperiali.

Dal 1633 al 1647, compatibilmente con i mezzi di allora, le opere procedettero alacre-mente perché in quel periodo si registrano diverse spese per operai (muratori, manova-li, fabbri) e per materiale edile (mattoni e le-gname). La calchera (fornace) per fabbricare la calce occorrente all’opera venne attivata nel 1633 nella località detta il Selvetto, i sassi si ca-vavano nella selva detta la Rossa e la sabbia in località detta Sabbionera, tutte in territorio di Falghera. Parte della calce veniva fornita gra-tuitamente anche dagli abitanti di Versasio.

Nel 1641 la costruzione era praticamente

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arrivata al tetto ma le opere erano ancora lon-tane dall’essere completate. Infatti è soltanto nel 1647 che i nuovi amministratori, appena eletti, si impegnano “a compire alla perfettio-ne del tetto et fabbrica et provvedere de para-menti per la celebrazione della Messa”.

Nel 1646 il notaio Domino Jo Paulo Mar-chesino de Ayroldis d’Acquate aveva donato all’oratorio di Falghera il quadro di San Fran-cesco con le stigmate.

Nel 1648 l’opera può dirsi sostanzialmente compiuta e nell’ottobre di quell’anno, in occa-sione della festa di San Francesco, si celebra la prima messa. L’anno seguente si incomin-cia a parlare della campana e per acquistarla si spendono 96 lire e 18 soldi imperiali.

Dal 1648 in poi la festa di San Francesco si celebra annualmente. La messa, sempre can-tata, veniva celebrata dal parroco di Acqua-te al quale per la cera, le ostie e i paramen-ti si pagavano 3 lire imperiali. Nel 1676 Gio-vanni Gattinoni di Malnago, detto il Governo, con testamento rogato da Barone Cattaneo da Cavalesino lasciò all’oratorio di Falghera 1000 lire imperiali, con l’obbligo di celebrare dal ri-cavo tante messe annuali da morto. Nel 1677, su commissione degli amministratori, Anto-nio Manzone da Cabadone costruisce l’incona del quadro di San Francesco (cioè le colonne e il frontone della pala d’altare, ora rimossi). Nel 1683 le opere continuano perché nel mese di maggio tale Gioanina Locadela di Versasio, con Rocho et Antoni suoi fi lioli consegna alla chiesa di Falghera centenara II de calcina.

Nel 1685, nei decreti emanati dal cardinale di Milano Filippo Visconti, in occasione della visita pastorale effettuata ad Acquate, a propo-sito della chiesa di Falghera si legge: “La sua struttura è incominciata ma non fi nita. Venne edifi cata a spese del popolo secondo il dise-gno approvato nella Cancelleria Arcivescovi-le, lunga braza 32, larga braza 18. Ha un solo altare, una campana e quattro fi nestre da ogni parte. I cancelli chiudono il coro. Manca di sa-cristia e poiché la chiesa è senza tetto si proi-bisce di celebrare fi nchè non si è coperta e il

pavimento compiuto”.La gente di Falghera si rimette al lavoro con

nuovo impegno e fi nalmente nel 1688, come si legge in un inventario degli oratori della cura di Acquate, redatto dal parroco Giuseppe Tar-tari, l’opera è compiuta. Nello stesso anno, con istrumento 11 febbraio rogato dal sacerdote Tommaso Buzzo, attuario della Curia arcive-scovile di Milano, viene eretto anche il bene-fi cio ecclesiastico legato a detta chiesa, sotto il titolo di Santa Maria Vergine e dei Santi Fran-cesco e Agostino.

Nel 1699 si incomincia a costruire il piccolo sagrato antistante la chiesa, come si legge nel libro cassa dell’oratorio.

Il 1° settembre 1703 si costruisce l’architra-ve e la si fa dipingere. Il 17 novembre 1704 viene pagata la cornice del quadro di San Gio-vanni Battista. Nel 1721 viene rivoltato il tetto della chiesa. Nel 1728 viene chiesto (e ottenu-to) il permesso per costruire il campanile con il quale sostituire i due pilastrini che reggeva-no la campana. Il campanile viene realizzato all’esterno della chiesa, sul lato dell’altare op-posto a quello della sagrestia, con l’ingresso di-rimpetto a quello della sagrestia stessa.

Nel 1733 viene benedetto il nuovo oratorio di Malnago e da quel momento in poi, anche in seguito alle nuove disposizioni arcivescovi-li, per tutti gli oratori della parrocchia il dirit-to di eleggere gli amministratori spetta esclu-sivamente al parroco. Perciò, da allora, quelli di Falghera perdono il diritto che era loro fi n dalla fondazione dell’oratorio.

Nel 1764 si costruisce l’altare. In data 30 settembre, infatti, si registrano queste spese: “pagate a Marco Manzone da Moggio (Valsas-sina) per gradini e tabernacolo dell’altare lire 15 imp.li e per li homini a portarlo lire 1 e sol-di 10 imp.li. Pagato al sig. Pietro Pagano in-doratore di Castello di Lecco per pitturare ed adorare l’ancona, lire 25 e soldi 10; e più a Giò Batta Manzone di Olate per pittura ed altre vernici per la suddetta ancona lire 20, soldi 12, denari 6; e più per cibarie al suddetto lire 12, soldi 15 e denari 3 imp.li. Sulla porticina del

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tabernacolo è scolpita la fi gura di San Carlo. Nel 1930 il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, quando visitò l’oratorio di Falghera, fu colpito dal San Carlo scolpito sulla portici-na del tabernacolo; tanto che ne fece un cenno nella sua lettera pastorale sulla Confraternita del Santissimo Sacramento emanata in occa-sione del primo Congresso delle Confraternite di Lombardia tenuto a Milano il 16 novembre 1930 (questa nota è del parroco don Giovanni Piatti nel liber chronicus della parrocchia).

Nel 1776 si incomincia a parlare di una se-conda campana e per essa, inizialmente, si spendono 20 lire imperiali.

Nel 1778 il parroco Giuseppe Bordoli chie-de in Curia il permesso di poter dare la be-nedizione col Santissimo nel giorno della festa di San Francesco. In quella supplica si legge: “Facendosi la festa di San Francesco d’Assi-si nella seconda domenica di ottobre nell’ora-torio di Falghera dedicato al medesimo San-to, desidera quel popolo che si dia la benedi-zione col SS. S.to dopo il Vespero. Standovi però il cappellano di detto oratorio alla custo-dia del tabernacolo per consumare alla matti-na seguente le specie Sacratissime, onde non potendo queste effettuarsi senza la facoltà di V.S.Ill.ma e Rev.ma, il parroco della suddetta cura a questa fa ricorso umilmente supplican-dola di concedere tal licenza che della grazia, sì esso, che quel suo popolo ne saranno sem-pre memori”. La facoltà venne concessa dal 1778 in avanti. A quel tempo il cappellano ti-tolare era il sacerdote Francesco Gattinoni.

Nel 1783 venne sistemata la faccenda del-la dotazione di ostie e vino per la messa e si convenne quanto segue: “Resta convenuto an-che per norma de cappellani futuri che tutta la manutenzione delle Messe di jus patronato del Benefi cio posseduto dal Rev.do Gattinoni sii a carico del Sindico ed amministratori del sudd.to Oratorio a quali restano devoluti tutti li paramenti e qualunque altra cosa esiste nel-l’accennato Oratorio. Coll’obbligo a medesimi di mantenerli colla riserva soltanto che il detto Rev.do Gattinoni ponga a sue proprie spese la

cera, vino e ostie. Similmente che detto Cap-pellano Gattinoni e Cappellani successori pas-si a detto Oratorio un soldo per ciascuna Mes-sa che celebri in detto Oratorio”.

Angelo Borghi, nel più volte citato Il lago di Lecco e le valli, riassume evidenziando che la chiesa di San Francesco in Falghera è una semplice costruzione dall’alta fronte a capanna con portale rifatto e fi nestrone, tre campate a botte irregolari, che probabilmente segnano le fasi costruttive, un presbiterio con volta a vele che è forse la prima parte edifi cata. L’esterno è segnato da contrafforti. Il sacratello, formato nel 1699-1702, riattato nel 1970 con la chiesa stessa, gode di un bellissimo panorama e anco-ra signifi cativo è il relativo isolamento del tem-pietto. L’interno è ormai spoglio dei quadri se-centeschi di un certo rilievo, trasferiti alla par-rocchiale, mentre rimane la tipica ma alterata trave lignea del presbiterio.

Nel 1800, nonostante che i tempi siano più vicini ai nostri, le notizie ci sfuggono e quelle in nostro possesso sono incomplete. Di impor-tante va segnalato che verso il 1870, in seguito alle nuove leggi dello Stato italiano, il benefi -cio dell’Oratorio di Falghera venne soppresso e incamerato dallo Stato. I beni legati ad esso vennero venduti all’asta ai privati e da allora il benefi cio ecclesiastico di Falghera, come quel-lo di Versasio, di Malnago e della Concezione (Sant’Anna) in Acquate, spogliato di tutti i suoi beni, non esiste più.

Quella del 1900 è storia molto vicina alla no-stra, perciò talune cose sono ancora vive nella memoria dei padri e dei fi gli e talaltre saranno già state raccontate dai nonni ai nipoti. Perciò ricordiamo soltanto che nel 1927 furono fat-te riparazioni all’oratorio di Falghera, compre-so il rifacimento del tetto, per una spesa di 7 mila lire, e che nel 1931 si incominciarono i la-vori di decorazione che vennero eseguiti dal pittore Ripamonti di Pescarenico con una spe-sa di 4 mila lire. Giova ricordare che in quello stesso anno 1931 vennero iniziati, ad Acqua-te, gli scavi per la costruzione del Santuario di Nostra Signora di Lourdes. Nel 1949, all’inizio

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del suo ministero in parrocchia, il parroco don Alessandro Luoni fece sistemare il malandato pavimento della chiesa di Falghera.

Nel concludere questi cenni storici giova ri-cordare una particolare pagina di storia, quella relativa alle campane, e in particolare a quan-do, nel corso dell’ultima guerra mondiale, ven-nero requisite per essere fuse. Grazie a Dio la distruzione non avvenne e le stesse, dopo un viaggio breve ma penoso, ritornarono a squil-lare sul campanile della parrocchiale e su quel-le degli oratori da dove erano state levate. Le notizie sono state rilevate dal liber chronicus della parrocchia.

“1942, 15 settembre. Ricevuto l’annuncio della requisizione delle campane della parroc-chiale, di Versasio e di Falghera.

1943, 10 maggio. È venuto il fonditore di campane sig. Ottolina di Seregno per concor-dare la consegna delle campane. Fu stabilito che si sarebbe ceduta la 6a e la 5a della parroc-chia, le due dell’oratorio di Sant’Anna, le due di Versasio e le due di Falghera.

1943, 15 giugno. Si incomincia il grande sacrilegio di levare le campane dai rispettivi campanili. Fu levata una in Versasio, due in Falghera, due all’oratorio di Sant’Anna, la 5a e la 6a in parrocchia. Lasciate lì per più giorni.

8 luglio 1943, ore 18. Il grande delitto è com-piuto! Le belle campane partivano dalla parroc-chia ad stantibus et lacrimantibus omnibus!”.

Le campane di Falghera erano state leva-te tutte e due, ma poi al momento di portarle via la più piccola fu lasciata in casa del parro-co con la condizione che se l’impresario l’aves-se richiesta, il parroco l’avrebbe a proprie spe-se fatta recapitare a Seregno ove furono porta-te tutte le altre.

Torniamo al liber chronicus.“1943, 29 ottobre. Per la munifi cenza della

ditta Frigerio e Manzoni che si offerse a pagare la spesa di lire 17.000 e per la prestazione della Società SAE, alla sera, alle ore sette, le nostre belle campane rientravano in paese con grande giubilo di tutti. Si tennero però nascoste per-ché la tempesta non era ancora passata. Segna-lo alla riconoscenza dei posteri la generosità della sunnominata ditta Frigerio e Manzoni.

13 maggio 1945. Si sono collocate le due maggiori campane sul campanile a opera della ditta Frigerio e Manzoni, gli operai della SAE hanno fatto l’operazione.

14 maggio 1945. Dopo due anni di silenzio le nostre belle campane hanno squillato anco-ra sulla torre con giubilo di tutti”.

La campana maggiore di Falghera ha l’iscri-zione Fatta per oblazione deli posesori abitan-ti in Folgera 1777 e le fi gure del Crocifi sso, di Sant’Antonio da Padova, San Francesco e della Madonna Assunta. Nella parte inferiore, incise in una borchia, si leggono le tre lettere NMF che potrebbero corrispondere al marchio del fonditore. La campana minore non ha iscrizio-ni ma solo la data 1688 e le fi gure del Crocifi s-so e della fuga in Egitto, oltre a due altre fi gu-re indecifrabili.

Nel 1970 completamento dei lavori di re-stauro interni ed esterni: riparazione del tet-to; sistemazione sagrato e ingresso; rinnovato tutto l’interno; pavimento, pareti, piano navata alzato di cm. 70; tinteggiatura pareti; nuovo al-tare secondo le vigenti norme liturgiche; lavori imponenti, spesa lire 7 milioni circa. Un quar-to di secolo dopo viene attuato l’ultimo inter-vento di restauro, che dà alla chiesa di Falghe-ra la veste attuale.

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CHIESA DELLA BEATAVERGINE MARIA DEL ROSARIO

IN MALNAGO

In posizione eminente rispetto al nucleo di Malnago, sta una tipica chiesuola maria-na a protezione del villaggio, iniziata circa il 1724 sopra una cappella antecedente per vo-lontà dei fratelli Giuseppe, Giovan Battista e Antonio Manzoni del luogo, su terreno donato da Giovanni Gattinoni detto Bocchino. L’ora-torio fu benedetto nel 1733, quando era già posta sull’altare la bellissima statua della Ver-gine in marmo di Carrara, commissionata da Giuseppe Manzoni. L’oratorio è un tipico pro-dotto delle campagne, a sala con soffi tto pia-no, piccolo presbiterio quadrato, campaniletto e sacristia, facciata lineare a capanna precedu-ta da un sacratello rialzato e chiuso da muret-to. Antonio Sibella nel 1883 affrescò la Trini-tà sul presbiterio e forse anche l’Immacolata Concezione della navata. A leggere queste ri-ghe che Angelo Borghi dedica all’oratorio del Rosario in Malnago nel suo Il lago di Lecco e le valli si sarebbe indotti a pensare ad una storia dell’edifi cio lineare e semplice quanto la stessa chiesetta. Non è però così.

Già don Andrea Spreafi co, che ha lasciato in un piccolo fondo custodito nell’archivio par-rocchiale di Acquate, gli appunti di alcune sue ricerche, ci fa sapere che sì, l’oratorio di Mal-nago fu eretto su terreno donato da Giovanni Gattinoni detto Bocchino fi n dal 1724 ma pare che il parroco fosse contrario a tale edifi cazio-ne, come risulta in un ricorso dei frazionisti di Malnago al Papa. Nel loro ricorso al Papa, i malnaghesi si lamentano perché il parroco non vuole ammettere che l’oratorio si bene-

dica. Nello stesso ricorso, si dice anche che il detto oratorio fu visitato dal Vicario Foraneo, che trovò decente l’oratorio e la sacristia. Non esiste risposta al ricorso. Lo stesso, da Roma, viene inviato a Milano, alla Curia arcivescovi-le. Il Vicario Generale della Diocesi a sua volta rimanda questo memoriale al prevosto di Lec-co, “per informazione”, il 7 settembre 1734.

Nel frattempo era già arrivato l’ordine di benedire l’oratorio di Malnago, ordine dato dal Cardinale Benedetto Odescalchi arcivescovo di Milano al prevosto di Lecco Gio Batta Bo-vara il giorno 25 settembre 1733. L’oratorio di Malnago nella fondazione era intitolato alla Beata Vergine del Rosario. Lo sappiamo dalla corrispondenza intercorsa tra il parroco di Ac-quate, il prevosto di Lecco e la Curia di Mila-no, negli stessi mesi in cui il ricorso dei malna-ghesi aveva preso la strada di Roma. Il 2 luglio 1733, quindi due mesi prima dell’ordinanza del Cardinale Odescalchi, il parroco Gio Batti-sta Pagano attesta che “desiderando li abitanti di Malnago la costruzione d’un oratorio… per compiacere alle replicate istanze di quei par-rocchiani e principalmente a quella di Giusep-pe e Gio Batta fratelli Manzoni fi gli del fu An-gelo… à saldamente raccomandato quest’ope-ra a tutto il popolo di Acquate. Di più, il coa-diutore Giò Francesco Gattinone avendo assi-stito alla morte del fu Gio Gattinone di Malna-go seguita il 28 settembre 1724 attestò come il suddetto Gattinone prima di morire a titolo di legato aveva ordinato di sua bocca che si desse in una sua selva tutto il sito bisognevole per la

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costruzione del suddetto oratorio, come senza diffi coltà alcuna i di lui fi glioli di ciò consapevo-li hanno di poi eseguito. Trova così conferma, dalla nota del parroco Pagano, che il sito in cui è fabbricato l’oratorio fu donato per tal fi ne dal fu Giovanni Gattinoni. Il già citato Bocchino.

Il primo legato all’oratorio di Malnago è di un capitale di lire 800 imperiali lasciato dal fu Gio Batta Manzoni fu Angelo con istrumento 8 maggio 1733. Questo istrumento consente di fi ssare almeno due date: il 28 settembre 1724 si lasciava il posto per fabbricarlo; il 4 agosto 1729 era constructo de novo.

Chiarito il tutto? Assolutamente no. Ad in-garbugliare la matassa pensa il libro mano-scritto del parroco don Gian Battista Pagano, oblato, notaio apostolico e curato di San Gior-gio di Acquate.

A proposito di Malnago leggiamo che “tal oratorio fu terminato sino nell’anno 1724 a spese principalmente delli tre fratelli Giusep-pe, Antonio e Gio Batta Manzoni qu.m Angelo di Malnago con il concorso di tutte le altre fa-miglie Manzoni e Gattinoni di detto luogo. Vi concorse anche la comunità con li altri mem-bri di Acquate con vino, legnami e materiali, essendo ciò stato raccomandato dal Parroco, però il concorso fu tenue respettivamente alle contribuzioni delli di Malnago e spetialmente delli tre suddetti fratti Manzoni.

Perché nell’istrumento di dotazione si riser-varono li Manzoni suddetti e li altri Vicini di Malnago il jus patronato privato dell’oratorio, d’eleggere essi l’amministratore, o sia sindico dello stesso, ed altre cose contrarie alli Sinodi e Concilij, mai dalla Curia fu permessa la facol-tà di benedirlo anche dopo replicato due altri istromenti rogati tutti dal sig.r Salvatore Arri-goni di Castello. La Comunità si oppose al pre-teso jus patronato, e il Parroco alle pretenzio-ni a lui pregiudiziali, sicché fi nalmente verso il fi ne di settembre 1733 fu fatta ordinatione giu-ridica a favore della Comunità che si concedes-

se facoltà di benedire l’oratorio senza jus patro-nato delli di Malnago per interim, e con libertà delle parti d’essere udite in altro giudizio.

Circa il Parroco venne patente dalla Curia spedita il giorno 25 settembre 1733 di prima consegnare le chiavi dell’oratorio, e della cas-setta per l’elemosina al Parroco, che l’Ammi-nistratore dovesse eleggersi dal Parroco in uno delle famiglie Manzoni e Gattinoni di Malna-go in difetto delle suddette, ma che l’elezione sia fatta dal solo Curato con la riserva allo stes-so di tutte le ragioni parrocchiali, sicché non fu admessa dalla Curia una sola delle preten-zioni delli di Malnago e tutti li istrumenti sono stati considerati come non fatti anche circa il tempo e modo pretesi di celebrare le Messe in detto oratorio, e però in ogni dubbio doverà il Curato pro tempora ricorrere alla patente del-la Curia, di cui copia si conserva nelle Scrittu-re Parrocchiali, e nelli atti del notaro sig. Pom-peo Redaelli di Lecco a cui è stata consegnata ad ogni buon fi ne la Patente originale con ro-gito di istrumento, e registro nelle abbreviatu-re il giorno 28 maggio dell’anno 1736.

Il giorno dunque 28 settembre 1733 fu fat-ta la benedizione dell’oratorio di Malnago dal sig. Prevosto Vicario Foraneo alla presenza di numeroso clero, popolo, e sig. notaro Salvato-re Arrisone, che nel luogo e giorno suddetto rogò istrumento a favore dell’oratorio ma pri-ma furono al parroco consegnate tutte le chia-vi, ed egli sopra il limitare della chiesa alla pre-senza di tutti i suddetti fece venire a sé Carlo Manzone, gli consegnò una chiave dell’orato-rio, e della cassetta per le limosine, lo elesse da se solo in pubblico e pacifi camente in am-ministratore ossia sindico del nuovo oratorio obbligandolo sotto giuramento a fedele ammi-nistrazione, a rendere i conti ogni anno, anzi ogni volta sarà richiesto al curato di Acquate pro tempora, e ad ogni altro superiore eccle-siastico, e disse e fece tutt’altro a tenore della Patente della Curia ed il suddetto Carlo Man-

Il campanile della chiesa di Malnago e, nelle pagine seguenti, la chiesetta di Malnago veglia sulla località lungo i Poggi.

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zone ha ricevuto le chiavi, ha accettato l’ele-zione in lui fatta nel modo come sopra, ha pro-messo, anzi giurato di adempire tutto ciò veni-va a lui imposto, e tutte queste cose sono se-guite alla presenza di tutte le famiglie, e par-ticolarmente delli uomini di Malnago, che in tal giorno fecero festa, e non seguì opposizio-ne alcuna, anzi fu il tutto approvato. In fede, il giorno ed anno suddetto. Gian Battista Paga-no oblato curato di Acquate e notaro aposto-lico che avverte in Malnago non esservi da tal tempo altre famiglie che Manzone e Gattino-ne come da libri dello stato delle anime”.

Il diritto di amministrazione era riservato alla famiglia Manzoni di Malnago, come quel-la che più d’ogni altra si era distinta nel favori-re l’erezione di questo oratorio. Oratorio che, oltre quello appena citato del 1733, fu dotato di parecchi altri lasciti.

Con la legge di soppressione del 1867 i beni dell’oratorio furono svincolati dai patroni Gat-tinoni Giovanni Antonio fu Giacomo e Manzo-ni Francesco fu Serafi no insieme con un mu-tuo al Comune di Acquate ed un credito verso tale Riva Casimiro per la somma stimata di lire 2421,70 più il mutuo di lire 436,42, più un cre-dito di lire 1000 per un totale di lire 3858,12. Fu pagata al Governo la tassa di rivendicazio-ne di lire 248,79 (il 22%). Il patrono Manzoni Francesco cedette poi i suoi diritti al compa-trono Gattinoni per lire 150. Il 30 settembre 1883 Giovanni Gattinoni cedeva tutti i beni dell’oratorio di Malnago a Gattinoni Giacomo fu Giuseppe per lire 2000. I beni dell’orato-rio furono poi amministrati da questo Giaco-mo Gattinoni, fi nché l’8 ottobre 1912 durante la visita pastorale del Cardinal Ferrari ad Ac-quate ottenne di essere padrone di detti beni mediante lo sborso di lire 4000, depositate in Curia a Milano il 2 dicembre 1912.

La statua della Madonna che si trova nel-la chiesa di Malnago è in marmo di Carrara, alta circa 80 centimetri. È una Madonna con in braccio il Bambino e nelle mani il rosario. Sul piedestallo si leggono le lettere G. e M. e P.S.D. e cioè: Giuseppe Manzoni (probabilmente il donatore della statua) per sua devozione.

Nel 1971 sono stati eseguiti restauri interni alla chiesa comprendenti la sistemazione del pavimento, la tinteggiatura delle pareti esclu-so il soffi tto; confessionale e banchi; sistema-zione ex novo della sacristia dotata di impianto idrico, sistemazione armadio e suppellettili.

Anche quella di Malnago viene sottoposta in anni ancora più recenti a nuovi ed accurati re-stauri, così come tutte le altre chiese esistenti nel territorio di Acquate. Si tratta di una preci-sa scelta attuata dal parroco don Angelo Gras-si, sotto il quale due delle chiese già di Acqua-te… traslocano. Si tratta della chiesa di San-t’Egidio passata alla parrocchia di Bonacina e di quella di San Giovanni Battista a Campo de Boi passata alla parrocchia di Germanedo.

La chiesetta di Malnago viene riaperta al culto domenica 10 ottobre 1993 dopo il perio-do di chiusura dovuto all’ampia ristrutturazio-ne resasi necessaria per le precarie condizioni in cui si trovavano in particolare il campanile e gli intonaci. La messa inaugurale viene cele-brata da don Angelo Grassi, preceduta dal ta-glio del nastro sorretto da un lato dal bambino più piccolo di Malnago e dall’altro dalla per-sona più anziana, quasi a volere simboleggia-re l’alba e il tramonto. La campana, muta da tempo, saluta la festosa cerimonia. Su di essa l’iscrizione Virgo Maria defende nos, nella fa-scia centrale le fi gure del Crocifi sso con ai pie-di la Madonna e San Giovanni, Sant’Antonio da Padova, San Rocco e San Luigi Gonzaga, nella fascia inferiore lo stemma del fonditore nel quale si legge Pruneri - Grosio - 1894.

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CHIESA DELLA BEATA VERGINE ASSUNTA IN VERSASIO

Dall’alto della sua posizione panoramica la chiesa della Beata Vergine Assunta di Versasio guarda da secoli Lecco e il lago. È un piccolo edifi cio costituito da un ambiente rettangolare terminante in un’abside ribassata e affi anca-to da una sagrestia e da un campanile. Un bel portale di pietra scolpita, che mostra la data 1697, conduce all’interno.

Della storia della piccola chiesa non si sa molto. Non è possibile, almeno per ora, stabi-lire con sicurezza il periodo in cui fu costruita. Sappiamo però che esisteva ai tempi di San Carlo Borromeo, perché compare nei docu-menti relativi alle visite pastorali effettuate nel territorio di Lecco dal Borromeo stesso o da suoi incaricati. Le descrizioni dell’edifi cio non sono particolarmente dettagliate ma, associate e confrontate con quelle che ci fornisce la visi-ta compiuta dal cardinale Federico Borromeo nel 1608, possiamo farcene un’idea. Ne dedu-ciamo anche che, nel periodo intercorso tra le visite dell’epoca di Carlo e di Federico Bor-romeo, non dovettero verifi carsi grandi tra-sformazioni. La chiesa era, anche allora, a una sola navata, con un’abside dipinta e coperta da volta a botte; c’era una sagrestia di cui manca la descrizione; non c’era il campanile ma sulla facciata era collocata, su due colonnine, una campana; una fi nestra rotonda si apriva al di sopra della porta principale.

Ma ecco il testo della descrizione, negli Atti della visita pastorale del Cardinale Federico Borromeo, dell’“Oratorio dell’Assunzione del-la B.V. Maria in Versasio entro i confi ni di Ac-

quate”. Questo oratorio ha un solo altare non consacrato, il quale non è costruito secondo la forma prescritta. Manca di mensa di legno e di pietra sacra. La sua predella, decente, dista dalla parete posteriore due cubiti, dai cancelli invece quattro cubiti. Questo stesso altare è dotato di una croce, di due candelieri d’otto-ne, di due piccole statue rappresentanti ange-li, ornate in oro, poste su due gradini di legno, di tre tovaglie e di un palio. Non ha capocielo, ma al suo posto c’è la volta che copre tutto l’altare e gli è così vicina che può essere facil-mente e comodamente pulita. Manca la rego-lare fi nestrella nella parete per gli orcioli. La cappella è a volta e ha forma quadrata; in par-te è solo imbiancata, in parte è adorna di sacre pitture; vi si ascende per due gradini di pietra. È recinta da cancelli di legno. Vi è inoltre una fi nestra dal lato dell’Epistola, munita di infer-riata. Il suo pavimento è fatto in calcestruz-zo. I laici entrano nel recinto dell’altare per ascoltare la messa. A questo altare si celebra qualche volta per amministrare il santissimo sacramento dell’Eucaristia.

Gli Atti della visita del 1608 ci informano anche dei legati annessi a questo oratorio e di alcuni oneri di anniversari, fornendone il rela-tivo elenco.

Primo. Un legato di alquante messe e al-quanti divini offi ci, da celebrarsi a giudizio degli infrascritti Gattinoni, apposto al testa-mento del fu Giacomo Gattinoni, fi glio del fu Giovanni Maria, ricevuto da Giovanni Antonio Airoldi, notaio in Milano, il 27 aprile 1560; il

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testatore ha lasciato ai sopraddetti Gattino-ni per questa celebrazione un pezzo di terra. Questo legato - informano gli Atti del 1608 - devono osservare e assolvere gli eredi del so-prascritto Gattinoni.

Secondo. Un legato di alquante messe da celebrarsi a giudizio dei Vicini della località di Versasio; inoltre delle messe della Beata Ver-gine Maria e di San Gregorio da celebrarsi una volta sola, legato aggiunto al testamento fatto dalla fu Giovanna Gattinoni di Versasio, ricevuto da Antonio Airoldi, notaio in Mila-no, l’11 dicembre 1579; per l’adempimento di questo legato essa ha lasciato ai Vicini di Versasio un pezzo di terreno a selva. Questo legato devono quindi osservare e assolvere i Vicini di Versasio.

Terzo. Un legato di una messa da celebrarsi ogni anno in ciascun mese, apposto al testa-mento di Biagio Gattinoni di Versasio, ricevu-to dal fu Giacomino Airoldi, notaio in Milano, il 14 ottobre 1537; per questa celebrazione la-sciò un terreno a prato e a selva.

Gli stessi Atti della visita del 1608 aggiungo-no poi altri particolari descrittivi dell’oratorio di Versasio. Sappiamo così che è rivolto a orien-te, risulta di unica navata, il pavimento è in cal-cestruzzo e vi si ascende con unico gradino, le pareti sono intonacate e imbiancate; che ha una porta sulla facciata e un’altra sul lato set-tentrionale; che sopra la porta principale non si vede alcuna immagine della Beata Vergine Maria alla quale l’Oratorio è dedicato; che sulla facciata si nota una fi nestra rotonda. Nell’ora-torio c’era un confessionale in tavole di pioppo, costruito non secondo le norme, ma non c’era la pila per l’acqua santa. Sulla facciata era collo-cata, su due colonnine, una piccola campana.

Grossi cambiamenti si dovettero verifi care invece alla fi ne del XVII secolo, quando ven-nero sopraelevati i muri, rifatta l’abside e co-struito il campanile. Tale notizia è riportata in una relazione tecnico illustrativa del 1993, re-

lativa agli interventi di restauro e manutenzio-ne dell’edifi cio che sono stati eseguiti in quegli anni. In via del tutto ipotetica, la data 1697 che si legge sul portale potrebbe essere riferita a questi lavori di rifacimento e anche la fi nestra, attualmente rettangolare, potrebbe essere sta-ta modifi cata in questa occasione. Quanto al-l’attuale sagrestia, la già citata Relazione rife-risce che sarebbe posteriore all’abside, senza però fornire ulteriori precisazioni cronologi-che. Risulta perciò diffi cile, in mancanza di ri-ferimenti precisi, avanzare qualunque ipotesi.

Sul campanile sono collocate due campane. La maggiore presenta l’iscrizione Sub umbra alarum tuarum protege nos (Proteggici sot-to l’ombra delle tue ali), nella fascia centrale le fi gure di Santa Caterina d’Alessandria, del Redentore, di San Giovanni evangelista e del-la Madonna Immacolata, nella fascia inferio-re, assieme ad alcuni fregi, il Sacro Cuore di Gesù, il Sacro Cuore di Maria, lo stemma del fonditore in cui si legge Opus Pruneri, 1871. All’interno, dipinto grossolanamente, si legge ancora il numero 2338 assegnato quando fu requisita in tempo di guerra, nel mese di luglio 1943. Sulla seconda campana si legge l’iscri-zione Miraculum sentio agnosco misterium se-guita dalla data 1704. Nella fascia centrale le fi gure del Santo Crocifi sso, di Sant’Ambrogio, di una Santa Martire non identifi cata, di due fi gure di Santi con sottoscritto unde venit au-xilium. Nella fascia inferiore il fregio del fon-ditore, alquanto elaborato.

Delle “cose sacre” della chiesa, ovvero le suppellettili, gli arredi e le opere d’arte, le fonti archivistiche forniscono talvolta elenchi o bre-vi descrizioni: la visita pastorale del 1569, ef-fettuata da incaricati di San Carlo Borromeo, presenta un inventario, essenziale ma prezioso, degli oggetti conservati nella chiesa; quella del 1608 di Federico Borromeo ci descrive l’alta-re con tutti gli arredi e annuncia l’inventario di tutte le suppellettili, che poi sfortunatamente

Una storica immagine della chiesa di Versasio e, nelle pagine successive, la chiesa di Versasio nel bel mezzo di prati e fi lari di uva.

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nel documento è omesso. Gli elenchi inoltre - e il discorso è valido per tutte le visite pastorali - si limitano a indicare gli oggetti ma non li de-scrivono, se non raramente. Identifi care perciò un pezzo risulta particolarmente diffi cile e, per serietà scientifi ca, sembra più corretto formula-re delle ipotesi piuttosto che considerare sicuro il suo riconoscimento. Anche per il crocifi sso li-gneo della chiesa, le fonti archivistiche possono fornire alcune notizie che devono tuttavia esse-re considerate con il dovuto margine di incer-tezza: la già citata visita pastorale del 1569 elen-ca nell’Inventario de le cose sacre di S. Maria di Versasio “uno crucifi xo”; le visite del cardi-nale Giuseppe Pozzobonelli del 1746 e dell’ar-civescovo Filippo Visconti del 1794 parlano di un crocifi sso velato collocato sull’arco trionfale della chiesa. Come si nota, si tratta di dati trop-po incerti per proporre l’identifi cazione con il crocifi sso in questione, anche se la sua colloca-zione sull’arco trionfale della chiesa potrebbe essere molto suggestiva in questo senso.

Di un fatto però si ha la certezza: della sua antichità e della sua buona qualità artistica. Lo provano i numerosi confronti compiuti sia con materiale pittorico che scultoreo e lo pro-vano le poche fotografi e che ne documentano l’esistenza. Le fotografi e sono recenti: risalgo-no infatti ai restauri della chiesa che sono stati preceduti dalla relazione tecnico-illustrativa del 1993 di cui si è già detto. In occasione di questi interventi, il crocifi sso venne smontato dall’arco trionfale, fotografato e restaurato. A lavori ultimati, nel 1996, vi venne riposiziona-to. È andato distrutto nell’atto vandalico del-l’aprile 1999.

Cita il crocifi sso anche Angelo Borghi che in Il lago di Lecco e le valli così descrive la chie-sa dell’Assunta: “Punto di riferimento sopra un piccolo promontorio, la chiesetta precede le vecchie case di Versasio e quasi fronteggia il piccolo gruppo di fabbricati in rovina deno-minati Zucco. Dal piccolo sacrato recintato si alza la chiesetta in semplici forme del barocco locale, in due campate a volta a botte (ripre-sa in un restauro del 1762), campanile e una

facciata in parte a vento decorata da un ricco portale lavorato datato 1697; di quel periodo sono la balaustra in molera e del pieno Seicen-to la buona statua della Vergine. Il presbiterio a botte rappresenta invece il resto dell’edifi cio più antico, decorato di frammenti di affreschi cinquecenteschi, che seguono moduli arcai-ci, raffi gurando il Pantocratore, angeli e san-ti. Riposto è l’ugualmente antico Crocifi sso in cartapesta. Per quanto citata solo nel 1537, la chiesa ebbe forse origine nel primo Quattro-cento, come indicherebbero l’arco trionfale e una fi nestra a meridione nel presbiterio”.

Nella primavera del 1995 inizia il restauro dell’antica chiesetta di Versasio. Solitaria sul verde pendio che spalanca lo sguardo su Lec-co, il lago e i monti, miracolosamente scampa-ta alla frana che nel settembre 1882 cancellò Versasio provocando sei morti. Alla realizza-zione del progetto di restauro, preparato dagli architetti Giorgio Melesi e Massimo Brambil-la, lavorano gli allievi dell’Espe, l’Ente scuola professionale edile. La prima fase vede la si-stemazione di facciata, pareti, sagrato e cam-panile. La seconda dell’interno della chiesetta. E non mancano le sorprese. Dopo due anni di lavoro, la chiesetta viene restituita al culto do-menica 13 ottobre 1996. Non solo è stata con-solidata tutta la struttura, ma all’interno sono stati anche scoperti affreschi risalenti al Cin-quecento. Il taglio del nastro da parte del par-roco don Angelo Grassi non solo restituisce alla città un’impronta incancellabile di storia, ma ha anche portato alla luce, grazie all’opera del restauratore Ernesto Monti, frammenti di affreschi cinquecenteschi di rara bellezza. La chiesetta sarà poi al centro, anni dopo, di un drammatico episodio.

Un brivido. Un orrore. Non sappiamo cosa sia potuto passare nella mente di Carlino Vi-tali di Versasio quella notte del 6 aprile 1999 quando, affacciandosi alla fi nestra, ha visto la chiesetta della Vergine Assunta in fi amme. Di sicuro conosciamo invece lo sgomento, la rab-bia, il ribrezzo provato dai fedeli di Acquate

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e dell’intero Decanato di Lecco dopo l’azione dei vandali che, in una notte di aprile, hanno accatastato nella navata della chiesa panche, mobili, statue e paramenti sacri e vi hanno dato fuoco. Hanno tracciato scritte e simbo-li inneggianti al demonio nella tinta color del sangue, hanno divelto la statua lignea della Madonna per buttarla sul rogo sacrilego. E al suo posto, nella nicchia, hanno inciso una cro-ce capovolta. E ancora bestemmie, citazioni latine, scritte blasfeme con lo spray rosso. Il crocifi sso ligneo cinquecentesco è stato tratta-to come legna da ardere, assieme alle poltron-cine della sacrestia, alle dodici panche, alle sedie ed al confessionale. Per terra un enor-me cerchio rosso è stato tracciato sui lastroni di beola. Non sappiamo che cosa sia successo prima di quel rogo infernale, che cosa abbia mosso fi no a compiere un gesto del genere.

Il rogo di Versasio rappresentava il momento culminante di un’azione iniziata nella notte del 6 febbraio quando viene presa di mira la chiesa parrocchiale di Belledo e continuata sabato 6 marzo di quel 1999, quando vengono prese di mira le facciate delle chiese parrocchiali di Ac-quate e di Bonacina. Un mese dopo è la volta del raid nella chiesa della Madonna Assunta, a Versasio. “Un gesto che offende la sensibilità credente e civile dell’intera comunità diocesa-na e, in particolare, della città di Lecco”, com-menta il cardinale Carlo Maria Martini.

Nel verde della primavera, la navata della chiesa dell’Assunta appare come una caverna nera di carboni ancora fumanti, la volta a tutto sesto che ospitava le immagini dei santi cui si rivolge la fede popolare della gente semplice si è trasformata in un altoforno. I doppi vetri del-le fi nestre sono esplosi per l’altissima tempera-tura raggiunta dall’ambiente, e solo questo ha permesso che non prendessero fuoco le travi delle capriate in legno.

Ma in tutto questo inferno, la statua del-la Vergine non è bruciata. Solo l’indice della mano sinistra è stato spezzato mentre il basa-mento di angioletti e nuvole bianche, oltre il manto blu sormontato dalla veste porpora, ri-

sultano solamente anneriti.Una comunità sgomenta, una comunità

che deve trovare fi ducia. In quell’occasione tocca a don Angelo Grassi, il parroco, il dif-fi cile compito di consolare i parrocchiani, di essere il loro pastore in un momento incom-prensibile: “Ci sarà una grande reazione di bene” pronuncia il parroco, con la commozio-ne in gola, quel sabato 17 aprile mentre tutta la città di Lecco si ritrova sul piazzale della funivia per una fi accolata di preghiera che si conclude nel prato di Versasio, accanto alla chiesetta, alla presenza del vicario episcopa-le monsignor Giuseppe Merisi, ora vescovo di Lodi. “Un’espressione di fede e di amore alla Madonna che ha voluto restare con noi”, dice don Angelo alle migliaia di presenti. Un chia-ro riferimento, il suo, anche alla statua lignea della Vergine scampata al rogo sacrilego.

La domenica, in tutte le parrocchie lecche-si, i fedeli pregano per la “conversione di chi ha compiuto gesti così sconsiderati” e “perché la testimonianza di ciascuno possa opporsi e vincere il male”.

Quanto alla chiesetta, interamente restau-rata fra il 1995 e il 1996, bisogna rifare tutto daccapo. È il cardinale arcivescovo Carlo Ma-ria Martini, la domenica 24 giugno 2001, a ria-prire la chiesa di Versasio: “Riapriamo in que-sto luogo splendido una chiesa che appartiene alla storia di Lecco - dice nell’occasione - e che un incomprensibile gesto di vandalismo e di profanazione ha tentato di cancellare. Ancora una volta dobbiamo affi darci a Maria. La sua effi gie non è stata rovinata dal fuoco ed ha re-sistito al progetto di distruzione. Da quell’atto empio la pietà mariana è rifi orita grazie al par-roco che ha incoraggiato la comunità a reagire in maniera giusta. I responsabili di quanto ac-caduto dovrebbero venire qui pentiti e pensosi a rendere omaggio e a chiedere perdono”.

Papa Giovanni Paolo II, in viaggio apostoli-co in Ucraina, non vuole mancare alla festa in-viando un telegramma nel quale esprime “vivo compiacimento per il restauro della chiesa se-guito al riprovevole atto sacrilego”.

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La scultura di Angelo Casati raffi gurante la Vergine delle Nevi; nelle pagine seguenti, festa di Erna con processione nell’estate 1927.

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MADONNA DELLA NEVEAI PIANI D’ERNA

Il fraticello del convento de’ Cappuccini di Pescarenico addetto alla cerca aveva il suo bravo calendario e tutte l’istruzioni acconce alla bisogna nella Cronichetta da fra Bernardo d’Aquate, stato guardiano due volte, compilata proprio perché fosse lume per sapere ciò che si doveva fare e si poteva operare e praticare “per bene del Convento”.

Per la provvista di latticini queste erano le istruzioni: “Si suole andar in Erna vicino alla Festa di S. Gio. Batta, ove per ordinario si im-postano da que’ Bergamini due, e alle volte an-che trè formaggie e per accertar meglio l’an-data, sarà bene, che il Cercatore s’intendi col-li Bergamini al Sabbato sul Mercato di Lecco, per sapere quando potrà andare. Quel giorno, che fanno la formaggia conducono al Conven-to il butirro, e la mascarpa, che fanno col med. latte, col quale fanno la formaggia, la quale poi la conducono al Convento quando è alquanto staggionata. Sarà bene che il R.P. Guad.o pro-curi un poco di Zafrano, per dar al Cercato-re, perché alcuni Bergamini lo desiderano, per dar il giallo alla formaggia”.

Il riferimento ai bergamini d’Erna nello scritto di fra Bernardo concorre a convalidare l’asserzione di Angelo Borghi, in I Piani d’Er-na, che la distesa di prati fra il Pizzo e l’attacco del Resegone fu per secoli “soprattutto un’al-pe, cioè un grande pascolo stagionale”; del re-sto, come lo stesso ricorda, la costruzione del-la chiesetta alla Madonna del Carmine venne promossa, all’inizio del Settecento, “a como-do de Pastori e Montanari che ne quattro mesi

estivi dimorano su quell’alpi, onde possano al-meno ne giorni Festivi udire la Santa Messa”.

“Oggi l’oratorio, restaurato - ricorda Dino Brivio in Montagna facile, primo dei suoi Iti-nerari lecchesi - è dedicato alla Vergine delle Nevi, raffi gurata in una bella scultura di Ange-lo Casati che ha sostituito la precedente sta-tuetta mutilata in un’azione bellica e conserva-ta nel museo della Resistenza di Lecco; lo de-cora inoltre una splendida Via Crucis affresca-ta su laterizi dal pittore Orlando Sora”.

Il nome Ospitale rimasto a un minuscolo nucleo di casolari - ricorda ancora Dino Brivio nel capitolo Piani d’Erna del citato libro degli Itinerari - nel punto più basso dei Piani, sta a testimoniare che in altri tempi doveva esserci un passaggio per Erna fra Lecco e zone mon-tane circostanti, che faceva capo al passo del Giogo; all’Ospitale dunque i viandanti trova-vano un luogo di sosta e di ristoro, qualcosa di simile al rifugio alpino attuale.

Vi fu un periodo durante il quale il mon-te d’Erna, oltre ai bergamini con le mandrie all’alpeggio d’estate, accolse gente impegna-ta nella ricerca e nello sfruttamento di mine-rali di ferro: “Non ha molto - annotava Carlo Amoretti in Viaggio da Milano ai Tre Laghi, 1814 - che nei vicini monti sopra Acquate si sono scoperti de’ fi loni di buon ferro spatico che fondesi al forno Arrigoni” (si trattava, ri-ferisce il Borghi, del primo altoforno lecche-se “in una forma mediana tra la norvegese e la bergamasca”, avviato nel 1794 a Cariggio, in quel di Rancio, dal valsassinese Giuseppe Ar-

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rigoni Socca). L’apporto delle miniere d’Erna alla metallurgia lecchese fu tuttavia modesto e di breve durata.

È quindi venuta la stagione dell’escursio-nismo. A Erna Giovanni Pozzi dedica un iti-nerario nella sua Guida alle Prealpi di Lecco che è del 1883, ma incomincia subito con l’af-fermare che “Erna è una montagna poco bel-la”; aggiunge però che, “vista da Lecco quando una nube va a porsi dietro di essa e la distac-ca dal Resegone, o quando il sole a tramon-tana projetta grandi ombre che ne disegnano in modo spiccato le linee maestose, sembra un masso messo là apposta da un sapiente artista per accrescere il bello estetico del Resegone”.

“Guardando Erna da Lecco - continua il Pozzi - si vede benissimo un rientramento piuttosto profondo denominato Beugia for-mante uno spazio a lento declivio su cui cresce rigoglioso un bosco di faggi. Alla sinistra hav-vi il sentiero più frequentato detto Passo del-la Corna, a destra si può guadagnare il piano di Erna ascendendo per un ripido calle piut-tosto pericoloso che costeggia la lunga frana di ghiaja distinguibile anche da lontano. Quest’ul-timo calle si può ritenere ormai abbandonato dai montanari, mentre è più favorevolmente percorso l’altro che da Costa ascende alla Boc-chetta d’Erna. La vetta più alta chiamasi Pizza, e quella laterale a sinistra Palo. Alla chiesa di Erna ci si può arrivare in due ore e mezzo da Lecco passando per il Passo della Corna”.

Il Pozzi dà anche qualche descrizione dei percorsi, accennando fra l’altro a un sentie-ro che “correndo piano ci fa attraversare stu-pende accidentalità del monte, sopra una del-le quali si eleva in bellissima posizione la chie-sa da dove si vedono giù basso spaziose baite (alpi)”; e fi nisce: “Non par vero che sul mon-te Erna, che sembra visto da Lecco nulla più d’un enorme macigno, vi si trovino poi così spaziosi pascoli e boschi tanto rigogliosi”.

“Sin dal principio di questo Secolo - si leg-ge in un documento relativo alla chiesetta di Erna, datato 1761 - fu incominciata la Fabri-ca d’un Oratorio publico nell’alto monte di

Erna Parochia d’Aquate Pieve di Lecco di-stante dalla Parochia da sei miglia, a comodo de Pastori, e Montanari, che ne quatro mesi estivi dimorano su quell’alpi, onde possano al-meno nei giorni Festivi udire la Santa Messa”. “Iniziata dunque al principio del Settecento, quando l’affl usso dei malghesi era intenso, la chiesetta venne alzata a poco a poco con le of-ferte e il lavoro degli stessi alpigiani, presso le Case di Erna, anzi su terreno donato dal ba-rone Giorgio Cattaneo ed adiacente alla mas-seria di proprietà dello stesso; - si legge nelle pagine di I Piani d’Erna del Resegone di Lec-co - nel 1722 l’edifi cio era già tutto delineato, ma solo nel 1761 apparve completo e dunque suscettibile di essere aperto al culto”.

Il 5 agosto di quell’anno Pietro Locatel-li fu Carlo, Rocco Locatelli fu Giovanni, Pie-tro Giuseppe Invernizzi fi glio del negoziante Giovan Andrea, Domenico Invernizzi fu Car-lo Domenico e Carlo Antonio Invernizzi fu Pietro, tutti abitanti di Erna, deputavano don Giuseppe Valsecchi di Olate come loro procu-ratore presso la Curia per ottenere la facoltà di benedire l’oratorio. Di norma occorreva una congrua dote, affi nché fosse assicurato il fun-zionamento; ma si ottenne dal comprensivo cardinale Pozzobonelli che l’importo del red-dito annuo venisse ridotto a lire 15. Per esse i suddetti abitanti di Erna impegnavano rispet-tivamente i fondi detti Il prato d’Erna, Teggia nuova con stalla e cassina, All’Ospitale, In Ra-vali, Il Piazzolo della Valle. Alle famiglie era ri-servata l’elezione del cappellano e dell’ammi-nistratore dell’oratorio; il primo sacerdote fu lo stesso don Valsecchi.

La chiesetta era costruita da poco ma otten-ne rapidamente il soddisfacimento della richie-sta per la concessione di indulgenze. “A tutti i fedeli cristiani che leggeranno questa lettera salute e apostolica benedizione. Per aumenta-re la pietà dei fedeli e per favorire con devoto amore la salvezza delle anime coi celesti teso-ri della Chiesa, a tutti i fedeli d’ambo i sessi, i quali, veramente pentiti, confessati e comuni-cati, visiteranno devotamente la Chiesa o Ora-

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torio pubblico di S. Maria della Neve situata sul monte di Erna nei confi ni della Parrocchia di Acquate pieve di Lecco della Diocesi di Mi-lano, alla qual Chiesa e alle sue cappelle e alta-ri sia in generale che in particolare non si tro-va concessa nessun’altra Indulgenza, nell’ulti-ma Domenica del mese di luglio dai primi Ve-speri fi no al tramonto del sole di questo gior-no e quivi rivolgeranno al Signore devote pre-ghiere per la concordia dei Principi cristiani, l’estirpazione delle eresie e la esaltazione del-la santa madre Chiesa, concediamo misericor-diosamente nel Signore l’Indulgenza plenaria e la remissione di tutti i loro peccati.

Inoltre ai medesimi fedeli veramente pen-titi, confessati e comunicati che accompagne-ranno la processione del Clero e del Popolo di detto luogo da farsi con licenza dell’Ordinario della Chiesa Milanese tutti gli anni in ogni se-conda Domenica di qualunque mese, e nella medesima Domenica visiteranno devotamen-te la stessa Chiesa e quivi pregheranno come detto sopra, l’Indulgenza di sette anni e sette quarantene in una delle Domeniche di que-sto mese da specifi care dal medesimo Ordina-rio: in qualunque Domenica poi delle undici di questo tempo cento giorni: dispensiamo poi nella consueta forma della Chiesa delle debi-te penitenze in qualunque modo ingiunte. Le presenti Indulgenze avranno valore solamen-te per un settennio.

Vogliamo poi che, se nel passato fosse stata concessa ai fedeli che in ogni altro giorno del-l’anno visiteranno la detta Chiesa o Cappella o Altare ivi esistenti qualche altra Indulgenza du-rata in perpetuo o per un tempo non ancora trascorso, oppure se per ammissione dell’impe-trante si toglie qualche cosa anche minima alla pubblicazione della presente, o si venga meno al compimento di quanto promesso, (questa lettera) sia nulla (con le relative Indulgenze).

Dato a Roma presso S. Maria Maggiore con l’anello del Pescatore il giorno 9 luglio 1744, sesto del nostro Pontifi cato. (Papa Cle-mente XIV).

L’ordinario milanese nella pubblicazio-

ne specifi cava che la Domenica in cui lucrare l’Indulgenza di sette anni e sette quarantene restava fi ssata per la seconda di agosto, vicina alla Madonna della Neve (5 agosto).

La scarsezza della dote mosse ancora il ba-rone Giorgio Cattaneo di Mandelbergh, abi-tante la villa di Cavalesino e grande latifondi-sta del territorio, a far obbligo nel 1778 al suo erede di far celebrare una “Messa pure festiva, e sino in perpetuo nell’oratorio di Erna, solo però questa nelle Feste, che correranno in tempo della dimora dei Bergamini col bestia-me in quel Paese”. L’obbligo del legato passò così nelle mani dell’erede del Cattaneo, il cu-gino conte Giulio Fedeli che nel 1783 si ob-bligava ad erogare lire 130 annue per il legato nella chiesa, secondo il procedimento già usa-to dal Cattaneo nel 1774.

Con testamento del 23 marzo 1793, il conte Fedeli lasciò alcuni beni all’Ospedale Maggio-re di Milano, che mise tutto in vendita con l’ob-bligo per il compratore di “pagare annualmen-te al sagrista dell’oratorio della B. Vergine del Carmine posta sul monte d’Erna, in oggi Gio-vanni Manzoni, pella celebrazione delle messe festive durante la dimora dei Bergamini in que’ monti la somma di lire cento”. L’acquirente fu Gerolamo Campelli, negoziante di seta domi-ciliato in Maggianico. Ma l’oratorio era poco curato, anche perché solitario. Una nota dei redditi del 1803 dice che distava 4 ore di viag-gio “su strada la più incomoda e quasi imprati-cabile” ed era tenuto in piedi dalle elemosine dei 50 e più bergamini che vi salivano d’estate. Una nota della fabbriceria nel 1829 avverte che la chiesetta va in rovina e coloro che si erano obbligati alla manutenzione non si fanno vivi.

Il disinteresse continuava a tal segno che l’oratorio era “divenuto rovinoso” e ci si chie-deva se valesse la pena di restaurarlo. Il su-beconomo Giovanni Gattinoni scrive nel 1847 alla fabbriceria ponendo il quesito; dato però che la messa era sempre celebrata, si sareb-be potuto “verifi care chi siano e dove si tro-vino gli eredi e attuali possessori dei fondi… ed invitarli a prestarsi alle opere e forniture

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ad essi incombenti”. Gli eredi degli antichi costruttori della chiesetta accettarono di rin-novare il loro impegno. Il 20 settembre 1847 Carlo Invernizzi fu Andrea, Domenico Loca-telli fu Pietro, domiciliati in Erna, Pietro In-vernizzi fu Natale domiciliato in Barzio si ob-bligarono anche a nome di Rocco Locatelli fu Angelo di Erna a pagare lire 3 ciascuno, ipote-cando i seguenti terreni: l’Ospitale di pertiche 500, il Prato d’Erna di pertiche 700, i Ravalli di pertiche 600, il Piazzolo della Valle di perti-che 300; inoltre fecero un donativo globale di lire 500 milanesi.

Diffi coltà venivano anche dalla parrocchia, che a volte non poteva soddisfare il legato per scarsità di clero. Perciò nel 1878 l’arcivesco-vo permise al parroco Nava di celebrare mes-se feriali invece che festive “e così supplire in qualche modo ai bisogni di quelle anime, che, per la distanza del luogo, potendo essere mag-giore di tre ore, si credono disobbligate di ve-nire alla Parrocchia”.

Quest’ultima invece non veniva meno ai suoi impegni. Due riti particolari venivano celebra-ti in apertura e in chiusura della stagione del-l’alpeggio estivo. Tra maggio e giugno, all’ini-zio della malga, veniva impartita la benedizio-ne ai “ratti” perché rovinavano i prati renden-do diffi coltoso il taglio dell’erba. Tra settembre e ottobre, a fi ne malga, con l’ultima messa che si celebrava in Erna il parroco di Acquate pas-sava in ogni malga a benedire le case, le stalle, le mandrie prima che scendessero a valle.

Restauri di un certo peso si ebbero nel 1926: occorreva sistemare il tetto, la sagrestia e i piccoli locali retrostanti la chiesetta e de-stinati all’ospizio. Tutti gli abitanti di Erna si diedero da fare e si trasformarono in muratori e imbianchini, si organizzarono feste, lotterie, vendite di canestri con il risultato che si ebbe a disposizione una somma suffi ciente per fare fronte ai lavori.

La chiesetta di Erna venne totalmente de-vastata nelle tragiche giornate dell’ottobre 1943. Il 30 giugno 1946 don Giuseppe Valsec-

chi, oriundo di Acquate, saliva da Cabiate ad Erna per dare la benedizione all’oratorio rin-novato. Un successivo e più radicale restauro è avvenuto nel 1966.

La chiesa di Erna rifl ette la semplicità delle strutture locali del Settecento, visibile anche nell’oratorio di Malnago. Si tratta di una bre-ve navata voltata a botte, sulla quale si innesta il presbiterio quadrato con volta ugualmente a botte e due vele laterali. La fronte è del tipo a capanna, con portale e fi nestrone; la campa-na è fi ssata su una torretta a vela, presso la sa-cristia. La campana non ha iscrizioni ma solo la data 1759. Nella fascia centrale ci sono le fi -gure del Crocifi sso (con la croce però divisa in due pezzi, spostati di circa un centimetro, forse per un difetto di fusione), la fi gura di un Santo con un fi ore nella mano destra e un libro e una croce nella sinistra, la Madonna con le mani giunte, una Santa inginocchiata con una palma nella mano destra. In basso, in una bor-chia, si legge Opus Castelli, probabilmente il fonditore. Oggi la chiesa totalmente rinnovata mantiene ancora l’aspetto originario grazie alla cura tenuta nella sua parziale ricostruzione.

Nell’interno non ci furono mai opere d’arte particolari. L’antico simulacro della Madonna, “ormai indecente”, venne sostituito nel 1902 con un altro offerto dal parroco Piatti: si tratta della stessa statuetta che patì il mitragliamen-to dell’ultima guerra ed ora si trova in Lecco nello spazio museale dedicato ai ricordi del-la Resistenza lecchese. In luogo della mode-stissima Madonnina, si eleva ora sul fondo del presbiterio una scultura marmorea della Ma-donna delle Nevi, felice sintesi della storia re-ligiosa della montagna, dovuta alla mano dello scultore Casati; mentre un vero saggio d’arte, colore e comunicazione armoniosa, decora le bianche pareti della navata, in una Via Crucis del pittore Sora.

“Rimane da augurarsi che la chiesetta di Erna ritorni dunque a fermare in quel piccolo brano di terra il sogno di una semplice pace - concludono gli estensori delle pagine di I Pia-ni d’Erna del Resegone di Lecco, Angelo Bor-

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Nella primavera del 1967 il pittore Orlando Sora realizza in affresco, su formelle di cotto, la Via Crucis per la chiesetta della Madonna della Neve ai Piani d’Erna. Nel luglio dell’an-no precedente c’era stata l’inaugurazione della funivia da Versasio ai Piani d’Erna della So-cietà SPER: nella foto, da sinistra, il sindaco di Lecco Alessandro Rusconi, don Pierino Zap-pa, il cardinale Giovanni Colombo e don Mar-tino Alfi eri. In quello stesso giorno - 6 luglio 1966 - il cardinale Colombo inaugurava anche la chiesetta dei Piani d’Erna rimessa a nuovo dopo le devastazioni del 1943.

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ghi con la collaborazione di Amanzio Aondio per la parte storica e Angelo Beretta per il pia-no di sviluppo - lontana dall’orrore disumano delle guerre e da quello non meno degradan-te dello sconvolgimento dilagante dell’equili-brio naturale”.

C’è ancora un capitoletto al quale fare cen-no. Per andare in Erna, sia a pascolare vac-che, sia a cercare formaggi, sia a scavare mine-rali di ferro, sia a raccogliere fi ori, s’era sem-pre dovuto usare le gambe sugli erti sentie-ri: come fecero, naturalmente, quegli uomini d’Acquate che nel 1609 avevano voluto pian-tare una croce sulla pizza d’Erna. Uberto Poz-zoli così narrava il fatto in uno scritto raccolto in Frammenti di vita lecchese: “Quella croce - prima fra tutte le croci salite alle vette dei no-stri monti - fu portata lassù il 24 giugno, gior-no della natività di San Giovanni Battista. Era allora arcivescovo di Milano il cardinale Fede-rico Borromeo, e rettore delle chiese di Ac-quate don Ambrogio Pozzi, il quale, forse, in-vitò alla cerimonia quel suo collega in ministe-ro, don Abbondio, che diciannove anni dopo, la sera del 7 novembre, tornando bel bello dalla passeggiata verso casa, avrebbe fatto, al confl uente delle due viottole a ipsilon, quel tal brutto incontro che tutti sappiamo. La croce eretta per tener lontane le nequizie del demo-nio e ad onor di Dio Ottimo e Massimo, fu be-nedetta con grandissimo concorso di popolo e certamente col permesso dei due sindaci di Acquate: Giovanni Paolo Marchesino d’Airol-di e Giovanni Battista Tartari”.

Dal 1965 un cavo d’acciaio sospeso in aria consente di farsi tirar in Erna da Versasio in pochissimi minuti, solo sborsando qualche sol-do per il biglietto della funivia.

La chiesa di Erna, come si rileva dalle note storiche di Amanzio Aondio, è dunque dedi-cata alla Madonna della Neve. In antico anda-va anche sotto il titolo della Beata Vergine del Carmine.

La costruzione della chiesa ebbe inizio al principio del 1700. Già delineata nel 1722, ap-

parve completa nel 1761, anno in cui venne aperta al culto. Fu costruita dai malghesi di Erna in un terreno donato dal barone Giorgio Cattaneo di Mandelbergh, abitante a Cavale-sine (San Giovanni), grande latifondista del territorio lecchese. I patroni della chiesa era-no i proprietari di Erna, ai quali spettava l’ob-bligo della conservazione dell’edifi cio. L’im-pegno di tenerlo in effi cienza venne rinnovato dagli eredi degli antichi costruttori con istro-mento 20 settembre 1847.

Durante il rastrellamento ivi operato dai tedeschi nell’ottobre del 1943, la chiesa subì grave devastazione all’interno. La statua della Madonna fu mitragliata ed ora si trova al Mu-seo della Resistenza di Lecco, al quale fu do-nata nel 1970. Questa statua della Madonna era stata comperata il 29 aprile 1902, “essen-dosi la vecchia resasi indecente”. Il simulacro fu benedetto il 10 agosto 1902 dal parroco don Giovanni Piatti che si portò in Erna a cantare la messa e a benedirlo.

Il 30 giugno 1946 il sacerdote Giuseppe Valsecchi, coadiutore di Cabiate ma origina-rio di Acquate, recatosi in Erna con una com-pagnia di cento dei suoi ragazzi, su delega del prevosto di Lecco benedisse quell’oratorio che era stato dissacrato dai soldati nel 1943. “La chiesina di Erna - scrisse allora nel Chronicus il parroco di Acquate don Giovanni Piatti - non fu bruciata ma molto devastata. Distrutte tutte le suppellettili, non si potè più celebrare”.

La chiesa infi ne fu rimessa a nuovo dalla Società SPER e venne inaugurata (con la funi-via) dal cardinale Giovanni Colombo, arcive-scovo di Milano, il 6 luglio 1966.

Dieci anni prima della inaugurazione del-la funivia e della rinnovata chiesetta, il 22 lu-glio 1956 veniva inaugurata la Croce in Erna. L’avevano voluta gli Alpini del gruppo “Piz-zo d’Erna” di Bonacina, che era sorto uffi cial-mente il 24 luglio 1954, con 30 soci. I lavo-ri erano iniziati il 1° maggio del 1955 ed il 14 luglio del 1956 la Croce ed il suo monumento erano terminati.

Nella chiesetta di Erna veniva quindi col-

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locata la nuova statua della Madonna del-la Neve. “Un forte altorilievo” il titolo con il quale Il Resegone del 22 agosto 1969 presen-tava l’opera eseguita dallo scultore prof. An-gelo Casati (di Inverigo, dov’era l’autore del monumento a don Carlo Gnocchi) in pietra San Germano di Vicenza nel 1968. Dimensio-ni cm.96x45x206 di altezza; con un rilievo del-la profondità massima di centimetri 30. Dopo aver preso atto del fatto storico e della leggen-da quale origine della secolare devozione per la Madonna della Neve, l’autore ha risolto il tema occupando interamente lo spazio del-la nicchia esistente a tergo dell’altare con una composizione scultorea in forte altorilievo, ca-ratterizzato da profondi squarci che mettono in evidenza la grande e dominante fi gura del-la Vergine e del Bambino. Gli elementi late-rali della composizione fanno da contorno alla fi gurazione ed i volumi ad arco, come sospe-si dalla tormenta, si dispongono a mo’ di au-reola. La leggenda parla solo della Vergine e non del Bambino: mentr’invece il Casati rea-lizzando la sua Madonna della Neve si è pre-so una licenza, raffi gurando anche il Bambi-no Gesù in un atteggiamento originale ed im-prevedibile: questa interpretazione dell’artista ed altri elementi danno, con notevole eviden-za, un’opera nuova ed originale; come origina-le l’aver realizzato e fi gurato la neve in volu-mi e con il “cristallino” nella mano del Bambi-no. Da quanto risulta e si conosce le “Madon-ne della neve” esistenti potrebbero avere qual-siasi altra denominazione non avendo un pre-ciso richiamo. In questa, invece, la Madre ha un’espressione assorta ed insieme felice, tie-ne il Figlio fra le braccia nell’amorevole inten-to di ripararlo dal freddo col proprio manto e trattenere il gioioso slancio che, con le bracci-ne innalzate, lo porta con una manina ad ac-carezzare amorevolmente la Madre e con l’al-tra prendere al volo un fi occo di neve: l’artista, con questo originale e felice atteggiamento del Bambino, ha voluto mettere in chiara eviden-za la prefi gurazione del drammatico momento della crocifi ssione. Inoltre, l’artista, mettendo

al centro della composizione la fi gurazione sa-cra in modo dominante ha inteso sottolineare il signifi cato protettivo sull’ambiente fi sico, ve-getale, umano ed urbano (vedi la casa, la chie-sina, la baita, il grande e vetusto abete ed in-fi ne la roccia stratifi cata con l’inevitabile allu-sione alla cresta del Resegone: il tutto così da sembrare coperto di neve).

Per benedire la statua, tornò ai Piani d’Erna nel pomeriggio del 24 agosto 1969 il cardina-le Giovanni Colombo, aderendo all’invito del parroco di Acquate (don Alessandro Luoni). Il cardinale benedì il nuovo lavoro e celebrò la messa. Nell’occasione il cardinale donò alla chiesa di Erna un prezioso calice ricevuto in dono dalla SPER il 7 giugno 1964 quando be-nedisse in Versasio la prima pietra dell’erigen-da funivia. Fu una giornata dal tempo incle-mente, quella del 24 agosto 1969. “Se il tempo fosse stato più galantuomo - disse il cardinale nella sua breve omelia - avrebbe permesso a moltissima gente di gioire col proprio Pastore delle bellezze naturali che il buon Dio ci ha do-nato per il ristoro del corpo e l’elevazione del-lo spirito”. Quasi come ultimo saluto, poco pri-ma della partenza del cardinale, qualche fi occo di neve è sceso sul Pizzo d’Erna. Naturalmen-te non è mancato chi interpretò il rarissimo fe-nomeno in pieno mese di agosto come un se-gno di gradimento della Madonna della Neve, la cui statua era stata appena benedetta.

Il 30 marzo 1970, festività dell’Angelo, av-veniva la donazione della statua della Madon-na al museo storico di Lecco. Con semplice ma commovente cerimonia svoltasi nel pome-riggio, il parroco don Alessandro Luoni conse-gnava al prof. Antonio Balbiani, direttore dei musei cittadini, la statua della Madonna mitra-gliata dai tedeschi nell’ottobre 1943. Il simula-cro, recante ancora i segni dell’oltraggio subi-to allora, da tempo era stato richiesto al parro-co di Acquate per essere allineato fra il mate-riale documentale che si stava raccogliendo in tutto il territorio allo scopo di eternare in cam-po locale e nazionale il glorioso periodo della Resistenza lecchese. Alla consegna erano pre-

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senti don Martino Alfi eri, già coadiutore della chiesa di Erna di Acquate nel 1943; le bene-merite sorelle Villa di Acquate, patriote del-la Resistenza deportate in Germania; membri del comitato partigiano lecchese ed altri fede-lissimi acquatesi. La statua venne esposta nel-la sala dedicata alla Resistenza sorta presso il museo storico di piazza XX Settembre a Lec-co ed inaugurato il 25 aprile 1970 dal sindaco Alessandro Rusconi.

Ma l’oratorio di Erna contiene anche, come già accennato, una Via Crucis dipinta da Or-lando Sora. Orlando Sora, di antica famiglia artigiana, è nato a Fano nel 1903 ed è da consi-derarsi autodidatta. Un brillante inizio lo por-tò presto a un buon livello in campo naziona-le. Ma da Milano egli preferì nel 1931 ritirarsi a Lecco e qui dedicarsi alla ricerca pittorica in tutta semplicità nella bella cornice del paesag-gio manzoniano. In I Piani d’Erna del Resego-ne di Lecco si trova questa presentazione.

Si tratta di una serie di mattoni trattati a fresco, un tipo di componimento nato all’inizio come prova per i grandi affreschi di cui il mae-stro ha arricchito molti edifi ci pubblici e priva-ti del Lecchese, a partire dal 1951; ed ora di-venuto un momento di particolare ricerca nel-la delineazione della sua arte.

Riportando a brevi dimensioni gli effetti ar-tistici dell’affresco, i problemi del colore e del ritmo richiedono una più stringente formu-lazione architettonica. Gli affreschi della Via Crucis sono perciò sentiti prima di tutto come arte, mentre la presentazione del fatto religio-

so rimane un’occasione. Esiste però un rappor-to per così dire mistico tra ogni fatto della sto-ria e della natura e colui che lo fi ssa e lo espri-me. Questo rapporto trova appunto la sua ver-sione armonica in moduli propri al pittore, che popola di un clima disincantato e nello stesso tempo impalpabilmente smaterializzato le sue composizioni. In esse domina la fi gura umana, ma la vicenda dolorosa della Via Crucis non re-sta l’odissea conturbante di uomini, ma assume movimenti pacati e vive di modi emblematici.

È in un certo senso un vedere in astrazio-ne, ciò che impone uno studio più esatto del-le forme e dei colori. Questi soprattutto colpi-scono, esili ma profondi, in campiture ampie come d’aria; e si dispiegano prendendo imme-diato contatto alla considerazione in volumi e masse risaltanti nel segno. Il contorno marca-to è caratteristico della recente pittura di Sora, anche se l’interesse per la linea di chiara indi-viduazione dell’oggetto si trova costantemen-te nella sua produzione. Non è né intento cal-ligrafi co, né una vera limitazione dell’oggetto; è un elemento che segna l’apparire corporeo della forma, ma è anch’esso colore che sfonda e trapassa in altro, materializza e smaterializza vicendevolmente.

Anche la composizione si avvale di simile dinamica. I corpi pieni, i volti tondeggianti, le diagonali delle croci, gli ambienti di fondo ap-pena sbozzati si articolano intorno a una strut-tura architettonica delle partiture, le cui linee cadono su punti di forza, che intensifi cano il coordinamento e l’armonia dei gesti.

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Istituti RiunitiAiroldi e Muzzia Germanedo

CHIESA DEL REDENTORE E DI SANTA CATERINA

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CHIESA DEL REDENTOREE DI SANTA CATERINA

Nelle litanie lauretane la Chiesa, dopo aver salutata la Vergine con i titoli di Salute degli infermi e di Rifugio dei peccatori, titoli che rivelano la premura di Lei in favore dei soffe-renti nel corpo e degli infermi nell’anima, in-voca la Madre di Dio con un altro dolce titolo che esprime la cura che Ella ha di altri infe-lici, Consolatrice degli affl itti. Agli infermi e ai peccatori da Lei soccorsi si possono quindi aggiungere altri infelici, privi di ogni allegrez-za e travagliati o da sventure domestiche, o da pubbliche calamità, o da altri particolari infor-tuni. A tutti costoro porge amorevole conforto Maria, detta perciò Consolatrice degli affl itti, tali per quel che dice Giobbe: “Homo brevi vi-vens tempore repletur multis miseriis”. Questo è lo spessore spirituale al quale porre attenzio-ne nel raccontare una storia della carità in atto a Lecco da oltre quattro secoli, e che oggi con-tinua negli Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi.

GLI ISTITUTI RIUNITIAIROLDI E MUZZI

Ho cercato in un precedente lavoro - 1594-1994 Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi. Quat-trocento anni vissuti nella storia - di offrire una panoramica delle sue vicende che hanno una rilevanza unica non solo nella storia di Lecco ma anche della Lombardia. E hanno soprattutto il fi lo conduttore di una tradizione rimasta intatta per oltre quattrocento anni con

sostanziale coerenza, continuità e fedeltà.Trovano posto qui, in prosecuzione del ca-

pitolo dedicato ad Acquate, le vicende relative alla chiesa degli Istituti Riuniti Airoldi e Muz-zi, che pure hanno sede a Germanedo, proprio perché acquatesi sono le origini, individuando nel 1590 o nel 1594 l’anno di fondazione, e ac-quatese è la sua storia fi no ai primi anni Venti del secolo scorso.

In materia di date relative alla fondazione c’è una certa confusione. Non l’aveva chiarita nem-meno il visitatore apostolico, ad Acquate nel 1608, quindi nemmeno vent’anni dopo la fon-dazione stessa, per conto del cardinale Federico Borromeo. Sia nell’introduzione del capitoletto sia all’inizio della trascrizione del documento di erezione dell’Ospedale dei poveri in Acquate l’amanuense estensore degli Atti di quella visita indica come giorno di formazione del testamen-to di (Giovanni) Antonio Airoldi il 4 maggio 1590, mentre nella successiva trascrizione dello stesso testamento l’anno diventa 1593, tutto in lettere. Angelo Bonaiti, in Gli Istituti Riuniti Airoldi-Muzzi nel 350° di fondazione - 1594-1944 (Lecco, 1945) ricorda il 1590 come anno di stesura del testamento e indica nel 5 mar-zo 1594 la data della morte del notaio Airoldi. L’originale, conservato nell’archivio parrocchia-le di Acquate, reca la data del 4 maggio 1590 in apertura, mentre la chiusura, del 5 marzo 1594, è d’altra mano: verosimilmente quando l’Airoldi

La chiesa degli Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi.

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era ormai prossimo alla morte è intervenuto il notaio con i testi a dare carattere pubblico al te-stamento scritto quattro anni prima. Da segna-lare che anche la vedova dell’Airoldi, Lucrezia Vitalba, lascerà ogni suo bene allo stesso Ospe-dale, con testamento del 1609 pure conservato nell’archivio parrocchiale d’Acquate.

Veramente bello è questo testamento di Giovanni Antonio Airoldi che, dopo aver di-sposto vari legati, istituisce erede universale la Madonna. Colpito dalla lettura del Vangelo della messa, la parabola delle cinque vergini prudenti e delle cinque stolte, che invita a vi-gilare “quia nescitis diem neque horam”, An-tonio Airoldi pensa di far piacere alla Madre celeste benefi cando i fi gli di Lei, i più poveri, i più abbandonati, con l’istituzione di un Ospi-zio. Invece di erigere un santuario prezioso per opere d’arte e arredi, mette i suoi beni nelle mani della Vergine consolatrix affl ictorum perché siano soccorsi quanti sono affl itti dalla miseria e dalla solitudine.

L’Ospedale di Acquate voluto dal notaio Ai-roldi è tuttora vivo. Il Bonaiti, nel cenno storico citato, ricorda che esso ha resistito ad avveni-menti di grande portata tra cui la calata dei lanzichenecchi e la peste; anche se non sono mancate diffi coltà. Fu grazie a un importante lascito di don Attilio Gilardi, parroco di Ber-nareggio, che nel 1914 poté essere iniziata la costruzione di una nuova sede, perché il fabbri-cato in uso era in condizioni precarie. L’edifi cio purtroppo dovette essere ceduto, durante la Grande Guerra, per fi ni militari, e quando ven-ne riconsegnato avrebbe richiesto tali spese di sistemazione che l’amministrazione dell’Opera Pia, priva di disponibilità, ritenne di venderlo al Comune. Ne fu fatta la scuola elementare, tuttora in funzione in viale Montegrappa.

Cittadini lecchesi nel 1888, sotto la guida di Antonio Muzzi che aveva fornito il primo fondo, e con l’iniziale presidenza onoraria dell’abate Antonio Stoppani, scomparso poco dopo, costituirono una Società di Benefi cenza con lo scopo di creare un ricovero per vecchi poveri. Un primo modesto asilo venne aper-

to nel 1896 in via Spirola; in breve tempo gli ospiti passarono da quattro a venticinque e si dovette pensare a una sede più ampia, acqui-stata in via Visconti. Nel 1910 i soci erano oltre 400 e il patrimonio della Società superava le 250.000 lire. Il 29 gennaio 1914 l’istituzione veniva eretta in Ente morale.

Con regio decreto 16 maggio 1926 veniva sancita la fusione fra la Società Antonio Muzzi di Lecco e il Ricovero Airoldi di Acquate sotto la denominazione di “Ricovero dei vecchi po-veri di Lecco e territorio Airoldi-Muzzi”. Con regio decreto 13 dicembre 1928 allo stesso Ente veniva aggregato anche il Legato Calloni, con il quale Isidoro Calloni aveva disposto che il suo patrimonio fosse impiegato per l’erezione in Rancio di un Ospizio per gli anziani.

Da via Visconti gli Istituti Riuniti Airoldi-Muzzi si trasferiscono successivamente a Ger-manedo, dove era stato acquistato, per 675.000 lire, il complesso dell’ex fi landa della famiglia Muller, sistemato con una spesa di oltre un mi-lione; l’anima di quel programma, ricorda an-cora il Bonaiti nell’opuscolo dedicato al 350° di fondazione, fu l’avvocato Carlo Corti; genero-sa fu la partecipazione dei lecchesi, e anche la Banca Popolare di Lecco fu presente, avendo legato il suo nome al Pensionato maschile.

La benemerita Istituzione, cresciuta e pro-gredita per il costante apporto della privata be-nefi cenza, nel solco dell’esempio di questo no-taio Antonio Airoldi, continua nella sua attività preziosa che ha raccolto l’eredità destinata alla Beata Vergine Maria.

LA CHIESA DI MARIO CEREGHINIUn cenno particolare merita la chiesa, rea-

lizzata negli anni Trenta del secolo scorso a completamento della sede degli Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi a Germanedo.

Per primo la parola ad Angelo Bonaiti, che nel 1944 realizzava un fascicoletto celebrativo dei 350 anni di fondazione dell’istituto, ricor-dando l’acquisizione, avvenuta nel 1929, del complesso degli stabili di proprietà Bonazzi, già appartenenti alla famiglia Muller e adibiti

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Facciata e controfacciata della chiesa: nel coro, sopra l’ingresso, l’affresco di Morlotti.

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ad uso di fi landa. L’antico stabilimento serico diventò l’Airoldi e Muzzi nel corso del 1931 e, ricorda Angelo Bonaiti nel suo scritto, “più tar-di sorge la nuova chiesa che sullo sfondo verde della collina spicca e si staglia nitida nelle sue linee semplici e… vorremmo dire bella, se non temessimo di risollevare qualche critica mossa al riguardo. La costruzione di una nuova chie-sa fu suggerita dalla necessità di una migliore sistemazione logistica dei servizi interni ed an-che dal fatto che la vecchia cappella era diven-tata insuffi ciente per raccogliere la sempre più numerosa famiglia. Il servizio religioso non può essere qui considerato secondo ad alcun altro, perché se è vero che lo spirito del nostro popo-lo è intimamente ed essenzialmente religioso, è ancor più vero che specialmente nella tarda età, le pratiche ed il culto religioso costituisco-no motivo di vero conforto”.

L’opera è stata progettata dall’architetto lec-chese Mario Cereghini. Uno dei protagonisti dell’architettura del Novecento, Alberto Sar-toris, così effi cacemente la sintetizza: “L’ordito dell’ombra e della luce consacra gran parte del-la plastica compositiva e dell’inventiva costrut-tiva nella chiesa degli Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi, a Lecco, innalzata negli anni 1938-1939. Un’accogliente navata il cui ingresso principale e l’alta vetrata si stagliano su pareti semi circolari, sfocia in un largo coro. Sui col-laterali, che portano i matronei, si aprono due accessi ai piani superiori. Un dinamismo di vo-lumi, di forme e di solidi della geometria (tanto esterno che interno) è affermato da una tessi-tura architettata del chiaroscuro e della lumi-nosità. Malgrado la mancanza di bussole (pur indispensabili alle varie entrate), si può consi-derare questo edifi cio religioso come una delle opere più generose, più rigorose e più comple-te di Mario Cereghini”, opere che “meritano, specialmente, di entrare nella storia dell’archi-tettura razionale italiana, perché hanno contri-buito all’etica di un periodo non effi mero nei campi diversifi cati delle ideazioni”.

Un’opera che fa parte, a pieno titolo, dei beni culturali della città di Lecco, anche per-

ché ad affrescarla venne chiamato dallo stesso Cereghini un giovane pittore allora non co-nosciuto, pure lui lecchese, Ennio Morlotti. Un’opera che - come avvenuto per l’architet-tura della chiesa da parte di Alberto Sartoris - ha avuto un signifi cativo sigillo, sul numero di gennaio-aprile 1986 dei Quaderni della Brianza, da Giancarlo Vigorelli, uno dei pro-tagonisti della critica del Novecento: “Dietro - guardiamolo bene, con gli occhi di quegli anni oltre che di oggi - dietro c’era una investitura artistica, non politica: era la nostalgia dei mo-saici di Ravenna e di quel grande Giotto che Carrà esaltava, e che aveva esaltato Cézanne; era quel ritorno al mosaico da Severini a Funi, con un recupero di arte sacra già proposto da Persico e variamente attuato da Birolli a Sassu e da Garbari a Tomea, a Grosso, e per altre strade, più mitologiche che cristiane, da Sironi a Cagli. Magari Ennio aveva dato una sguarda-ta al foglio torinese Arte Cattolica ascoltando perfi no qualche lezione beatangelica di Eva Tea. Quei gerarchi piuttosto disarmati erano messi lì sul muro, in mancanza di condottieri del passato: d’altra parte, il bisogno di impa-rare a fare storia, più come storia sacra che come spazio al sole, in Africa, in Morlotti e in altri artisti e letterati di quegli anni era diven-tata una bella tentazione, anche per reagire di trionfi eccedenti di una pittura, o di una poe-sia, unicamente da natura morta. Bisognava pure ridare una faccia all’uomo, e dargliela un po’ più intimamente. Gli eroi in processione di Morlotti sembrano venire fuori dalle catacom-be, non dalla casa del fascio”.

La processione di Ennio Morlotti è un af-fresco che corre lungo la parete curva della cantoria sopra l’ingresso. L’affresco misura 21 metri di lunghezza. I personaggi raffi gurati sono gente di allora: il cardinale Schuster, l’ar-chitetto progettista, il pittore stesso, avvocati, cavalieri, pittori, giornalisti, imprenditori, giu-dici, notai, ed altri, compresi mogli e fi gli e tre gruppi di monache.

L’opera, piuttosto realistica, suscitò non po-chi commenti, come peraltro la chiesa stessa

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Uno dei due gruppi femminili che assiste al passaggio della processione; religiosi, cavalieri e suore nelle pagine seguenti.

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che, completata nel 1939, tardava ad essere consacrata perché ostacolata da una parte del clero contrario a quel modernismo. Fu lo stes-so cardinale Ildefonso Schuster a consacrarla personalmente nel 1942, dedicandola al Re-dentore e a Santa Caterina da Siena e offi cian-dovi la prima messa.

“Quale trauma deve aver creato questo edi-fi cio tondeggiante, tutto bianco, che in cima ad un’altura dominava il giardino dell’Istituto?”, si chiede Maria Grazia Furlani Marchi in L’espe-rienza razionalista di Mario Cereghini (in Ar-chivi di Lecco, luglio-settembre 1983) così con-tinuando: “Il linguaggio tipico dell’architettura religiosa nella chiesa dell’Airoldi e Muzzi è usato in modo non convenzionale. La pianta, rettango-lare, termina su di un lato con un’abside a forma di semicerchio, che non è collocata però, come d’uso, nella parte retrostante l’altare, ma nella fronte d’ingresso. Il campanile, poi, è metafi si-co. Due muri ortogonali, coronati da fi nestrelle nella parte superiore, simulano una cella cam-panaria che non esiste, perché le campane sono sostituite da una registrazione trasmessa da un impianto di altoparlanti. Questo pseudo campa-nile, che ricorda l’atmosfera di certi quadri di De Chirico, ha solamente la funzione di conclu-dere, contrastandolo, il volume della chiesa che è esteso prevalentemente in orizzontale”.

All’interno l’edifi cio è a tre navate, la mag-giore più alta, le laterali sovrastate dal matroneo che prosegue nell’abside con funzione di coro. Nella parte opposta una parete in vetrocemen-to crea una cascata di luce sull’altare. La luce entra anche attraverso tre serie di fi nestre sulle pareti laterali: una prima serie sotto i matronei, una seconda all’altezza dei matronei, una terza dove la muratura della navata centrale si alza sulle navate laterali.

Il risultato è così sintetizzato da Maria Gra-zia Furlani Marchi: “Gli spazi non eccessiva-mente alti, il portico d’accesso di proporzioni modeste, l’arredo semplice e funzionale, le porte stesse (di quelle tipiche delle abitazioni in quegli anni), danno alla chiesa l’aspetto di un piacevole luogo di riunione piuttosto che

di un monumento, parlano cioè un linguaggio che appartiene alla dimensione umana più che a quella trascendente”.

LA PROCESSIONEDI ENNIO MORLOTTI

La scelta di Ennio Morlotti come affresca-tore era stata fatta dal progettista della chiesa, Mario Cereghini, allora trentaseienne e archi-tetto ormai affermato. “Fin dagli inizi della sua professione - ricorda Gian Luigi Daccò in La processione di Ennio Morlotti nella chiesa degli Istituti Riuniti Airdoldi e Muzzi di Lecco - si era legato al gruppo di architetti razionalisti co-maschi coinvolti in un profondo rinnovamento dell’architettura: Terragni, Uslenghi, Lingeri, Giussani, Mantero ed Ortelli. A Como, in quegli anni, opera, in collegamento con il gruppo Ter-ragni anche Alberto Sartoris, noto teorico della nuova architettura, illustrata nel suo libro del 1932 Gli elementi dell’architettura funzionale. Questi architetti propongono l’integrazione del-le arti, cioè una collaborazione interdisciplinare tra progettisti, pittori e scultori e l’interesse pro-fondo per la pittura astratta è condiviso da tutti i giovani architetti del gruppo Terragni”.

“Cereghini, in questo fervido ambiente, ap-profondisce i suoi rapporti anche con il gruppo di pittori del cosiddetto Astrattismo Comasco e con il gruppo di artisti che gravitava intorno alla Galleria Il Milione di Brera. Dato il suo profondo interesse per la pittura - continua Daccò - nel 1937 organizza a Lecco la mostra del Paesaggio Lecchese, a cui invita Del Bon, De Grada, Breveglieri, Frisia e Sora e anche il giovane Morlotti, del quale conosce i lavori che apprezza, intuendone il valore. E quando l’an-no dopo progetta la chiesa degli Istituti Airoldi e Muzzi chiamerà proprio lui per affrescarla”.

Di questa scelta, nella pubblicazione citata e realizzata nel 1996 per celebrare il restauro dell’affresco attuato da Claudio Fociani per conto del Rotary Club Lecco con il presidente Luigi Andreotti, Gian Luigi Daccò dà questa spiegazione: “Per un edifi cio tanto essenziale e inconsueto - l’abside innalzata nella facciata,

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L’altro gruppo femminile che assiste al passaggio della processione.

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la torre campanaria simulata - Cereghini non poteva certo ricorrere ad un pittore legato ai modi aulici del regime allora in voga, un artista che ben diffi cilmente avrebbe potuto accordar-si allo spirito della sua architettura; per questo scelse il giovane e, allora, misconosciuto Mor-lotti”. E conclude con un’altra interessante con-siderazione: “Rileggendo, oggi, l’insieme della vicenda artistica di Morlotti, partendo proprio da questo che è uno dei suoi primi lavori, si può dire che il suo destino è stato sempre quello di vedere la sua opera considerata con intelligenza e passione proprio da coloro che gli erano più congeniali e quindi capaci di aderire ai tratti sa-lienti della sua poesia. Non si è trattato mai di una coincidenza casuale: è invece un fatto signi-fi cativo del potere di coinvolgimento radicale di una identità espressiva che, all’inizio, può anche respingere, ma che non lascia scampo quando ti coglie nel profondo. Congeniali l’uno all’altro Morlotti e Cereghini in questa chiesa, da lì le loro strade si biforcano, il primo avviato verso i vertici della sua arte, il secondo giunto, proprio a Germanedo, all’apice della sua vicenda artisti-ca con questa, irripetibile, realizzazione”.

L’affresco, come già accennato, raffi gura una processione con personaggi noti a Lecco, oltre al cardinale Ildefonso Schuster rappresentato in abiti pontifi cali sotto il baldacchino. I volti si identifi cano con Mario Cereghini, progetti-sta della chiesa, vestito da chierico e reggen-te un turibolo a fi anco del notaio Gaetani, lo stesso pittore Morlotti, pure vestito da chieri-co, recante un cero, il pittore Umberto Lilloni con gli occhiali, vestito da frate francescano. Vi sono inoltre gli avvocati Luigi Lillia, Adolfo Rosa, Floriano Sordo, Carlo Corti e Vincenzo Condò, l’allora presidente dell’Airoldi e Muzzi, Angelo Bettini, Gino Lui, Angelo Pizzi, Pino Tocchetti, l’ing. Uslenghi, Giovanni Cereghini, Ulisse Guzzi, i giudici Di Matteo e Primo Re-petto con altre persone.

Non vi è sfondo alcuno. La rappresentazio-ne è alquanto complessa. Si snodano ben ot-tantatre fi gure e sette cavalli. All’inizio ed alla fi ne dell’affresco troviamo due elementi archi-

tettonici, due archi marcatamente dell’epoca littoria davanti ai quali sostano due gruppi di donne con dei bambini intenti a salutare il pas-saggio della processione sventolando un faz-zoletto. Una donna ha il braccio alzato e nel gesto c’è chi vede il saluto fascista. Quanti sono intervenuti al passaggio della processione sono solo fi gure femminili e bambini.

Vi sono dipinti anche tre gruppi di monache: le prime sono dell’ordine delle Suore di Maria Bambina delle Sante Gerosa e Capitanio (che sono quelle presenti nei padiglioni degli Istitu-ti Riuniti Airoldi e Muzzi) e gli altri due sono di religiose presenti nelle comunità di Lecco. Tra le prime vi è rappresentata suor Berenice Biancotti, sacrestana della chiesa e presente a Germanedo fi n dal 1936.

“La fi gurazione è marcatamente accademi-ca - sottolinea Franco Cajani, che all’affresco eseguito dal Morlotti a Germanedo ha dedica-to un documentato saggio su i Quaderni della Brianza (numero 44/45, gennaio/aprile 1986) - e ricorda soprattutto nei gruppi delle donne posti ai lati dell’affresco l’infl uenza della scuo-la romana che sta tra Carena e Scipione, tra Rosai e Mafai, la cui tendenza espressionista avversava la restaurazione fascista nel campo delle arti fi gurative. Del resto un corteo di sa-cerdoti e di laici che portano per le vie della città lecchese l’Eucaristia doveva rispettare il protocollo ed i canoni dell’era fascista: quell’era che aveva vissuto la fi rma dei Patti Lateranensi ovvero il Concordato tra Chiesa e Stato. Per-tanto era d’obbligo che vi fosse nel seguito una rappresentazione di gendarmi in alta uniforme a rappresentare la dittatura del fascismo (nel nostro caso carabinieri e camicie nere) ovve-ro l’esaltazione nazionalistica e il corporativi-smo ormai perdurante in Italia. Il tono aulico di questo avvenimento storico, voluto tale dal-l’esecutore dell’affresco, è identifi cabile nella milizia equestre e questo per dare uffi cialità e importanza alla consacrazione della chiesa. Ma vi è dell’ironia in questa rappresentazione - so-stiene Cajani - ed è qui che emerge il Morlotti vero che trasla nel lavoro un quid d’ironia e di

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L’altare della chiesa con la grande vetrata di Santa Caterina da Siena.

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sarcasmo”. E più oltre rimarca: “Non possiamo pensare ad un Morlotti convinto di eseguire una monumentale opera d’arte sacra votata ad essere ricordata nel tempo bensì di realizzare la rappresentazione di un momento di vita pro-vinciale locale che i suoi committenti volevano trasmettere alla storia per siglare delle vicende lecchesi. Una rappresentazione cioè di popolo, senza santi e madonne, con tutti i crismi delle cerimonie religiose dell’era fascista”.

“Sarebbe stupido voler processare di fa-scismo, un fascismo adolescenziale subito ca-povolto, un uomo e un artista integro come Morlotti”, scrive ancora Giancarlo Vigorelli nel brano citato da i Quaderni della Brianza così continuando: “Indubbiamente in quei venti metri di affresco spira un’aria ritardata da Patti Lateranensi e di clerico-fascismo: ma di evi-dentissima innocenza. Si sa che è stato il car-dinale Schuster a tagliar corto su certe mezze polemiche che l’affresco aveva suscitato in una Lecco più clericale che fascista. Nel suo sera-fi co candore l’arcivescovo Schuster, allora, ve-deva di buon occhio ogni connubio tra Chiesa e Stato, e quell’incrocio tra monaci e gerarchi, senza esaltarlo, non gli dispiaceva: la sua buona fede era addirittura patetica. Morlotti, invece, che sul terreno politico già aveva aperto gli oc-chi durante la guerra di Spagna, pur andando a tastoni come ognuno di noi tra ignoranza della democrazia e crescente intolleranza del fasci-smo (che oltretutto si nazifi cava), non era per niente su posizioni clerico-fasciste”.

Giancarlo Vigorelli, che passava ogni anno le vacanze a Lecco fi n dalla lontana infanzia, aveva conosciuto Ennio Morlotti intorno al 1931-1932 senza più cessare la frequentazione. Può così scrivere: “Sarebbe idiota buttare ad-dosso a Morlotti un sospetto di pittura fascista, appellandosi a questo affresco del ’39: che in luogo d’essere incriminato, o anche soltanto deplorato, va invece restituito ad incunabolo, non da scartare e persino prezioso, del suo ap-prendistato pittorico. Certo, il mondo che su-bito prese corpo, fatica su fatica, in Morlotti, non ha niente da spartire con quell’affresco,

tutt’altro da ignorare criticamente: sotto lo sce-nario sono visibili una linearità, una limpidez-za che è il rovescio di ogni retorica di quegli anni. La prova, appunto, che non era e non è un affresco littorio, è data anzi dall’antiretorica che lo pervade e lo svolge: Morlotti, anche nei suoi sopravvenuti tumulti, squarci, dilaniamen-ti, strati rocciosi, non è mai caduto in nessuna retorica. La sua stessa corposità, e austerità, è tuttora intattamente innocente: solo i consa-pevoli, restano innocenti. È la mai tradita in-nocenza che ha garantito l’accumulata gravità della pittura di Morlotti”.

Quest’opera di Morlotti eseguita con la tec-nica dell’affresco ha comunque una grafi a leg-gibilissima. Alcuni tratti dei volti sono curati nei minimi particolari e ripropongono la le-zione della pittura lombarda dei primi esempi lecchesi del suo amico Orlando Sora. Era stato Sora ad incentivare la sua pittura. La fi gurazio-ne ha poi una pulizia formale accentuata dal-la parete curva della cantoria sopra l’ingresso della chiesa. Manca però il calore del raccogli-mento e della devozione che si dovrebbe legge-re sui volti degli intervenuti rappresentati.

Il cardinal Schuster sotto il baldacchino con il Santissimo tra le mani ha una somiglianza straordinaria. Franco Cajani sostiene che il pit-tore abbia voluto rappresentarlo così “con un rito collaterale alla consacrazione della chiesa dedicata al Redentore e a Santa Caterina, au-spicando l’avvenimento storico della consacra-zione” che, ricordava Mario Cereghini nel suo Immagini di Lecco nei secoli, “tardava ad av-venire perché ostacolata da una parte del clero contraria a quel modernismo”.

Sulla facciata esterna della chiesa si legge infatti la data della dedicazione e dell’ultima-zione dei lavori, il 1939: “Sanctissimo / Re-demptori / et Divae Catharinae / Senesi Vir-gini / Dicatum / A.D. 1939”. Nell’interno, una lapide recita gli estremi della consacrazione della chiesa, nel 1942: “Templum hoc / Hilde-phonsus Card. Schuster Arch. / consecravit / Die XXIV octobris MCMXLII”.

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Esterno e intero della chiesa progettata dall’architetto Mario Cereghini.

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Di quest’opera “Pietre di Fede - Chiese e campanili della città di Lecco”di Angelo Sala sono stati impressi 1.500 esemplari

Quest’opera è stata impressa sotto la cura delle Edizioni Monte San Martino.

Finito di stampare nel mese di settembre 2008 daEditoria Grafi ca Colombo snc Via Roma, 87 - Valmadrera (Lecco)

Si ringraziano per la collaborazione:

Istituti Riuniti“Airoldi e Muzzi”

Lecco

Comunità Montana del Lario Orientale

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