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Piove e Sono in Ritardo

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romanzo

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Capitolo UnoPrima parte

Piove e sono in ritardo. Strano, non mi accade mai di esserlo. C’è qualcosa di sbagliato nell’esserein ritardo per me, almeno credo. Un sottile disagio che ti accompagna per tutto il tempo che gli altri,gli amici ti devono aspettare. E questa volta è toccato a me, ed il senso di colpa che provo è cosìforte che riesco perfino a percepire cosa stiano pensando nel non vedermi arrivare.Ma non posso farci niente. Questa pioggia ha intasato tutte le fogne alla stessa maniera di comequesto improvviso flusso di auto ha intasato l’unica strada che mi permetterebbe di arrivare intempo.L’unica cosa ragionevole da fare, è lasciarsi trasportare, e cercare di ingannare questa ansia semprepiù invadente. Nervosamente frugo, senza guardare, nella tasca laterale della portiera dove tengoalcuni CD pescandone uno a caso. Apro la custodia, e con la solita cura maniacale prendo il discoper il bordo, ben attento a non lasciarci nessuna impronta. Lo inserisco nel lettore che magicamentelo aspira all’interno. Alzo al massimo il volume. Un caldo fruscio anticipa la riconversione indigitale di una vecchia registrazione dal vivo: Bach, la sua più famosa ninna nanna. “Che bellascelta”, penso. Una musica sublime invade l’abitacolo del mio maggiolino, una musica che non tichiede il permesso per entrare dentro al tuo cuore, lo fa e basta. Ti racconta la storia del mondo, isuoi sentimenti, i suoi amori e le sue passioni. Amo questa musica appunto perché riesce a prendertisenza che tu possa fare niente per evitarlo, ti suggerisce emozioni, non cerca di importi qualcosa diparticolare, e sei tu una volta preso che scegli dove farti portare. E’ come se fosse la chiave cheserve ad aprire la porta sul grande universo della mente. Attraversi questa soglia e ti ritrovi in unnuovo spazio che di volta in volta si apre su dei nuovi mondi completamente diversi dai precedenti.La ascolti mille volte, e per mille volte capiti in luoghi differenti, mai visti prima. Non è che nonami gli altri tipi di musica, tutt’altro, la musica è sempre stata una compagna fondamentale dellamia vita, è solo che ogni tipo di musica ha un luogo ed un momento preciso per essere ascolta. Lagrande musica sinfonica, l’opera mi trasmettono emozioni forti, intense ma già determinate. E’ ungiardino perfettamente coltivato con fiori meravigliosi e affascinati, alberi verdissimi dai fruttiesotici e coloratissimi con aromi profondi. Quando ascolto questo tipo di musica (la sinfonica el’opera intendo) mi scopro a esplorare questo giardino, enorme e bellissimo ma limitato da un murodi cinta, altissimo e invalicabile. Il muro di cinta immaginato da chi ha deciso per te cosa questamusica deve darti. E questo io non lo sopporto, non ho bisogno di schemi, e di spazi rinchiusi.Bach, invece, riesce ogni volta ad anestetizzarmi ed a allontanarmi da tutto, a vuotarmi la mentedalle solite preoccupazioni. Mi impedisce di pensare a quello che ho intorno. Ed anche questa volta,nonostante tutto quello che mi sta accadendo intorno la magia capita di nuovo. Lascio il mondoreale per farmi trasportare lontano chissà dove, ancora una volta.Poi il sogno improvvisamente finisce, un prolungato colpo di clacson mi riporta sulla terra e lamagia in cui mi trovavo immerso svanisce. Mi rendo conto di essere arrivato. In lontananza le lucidel complesso sportivo mi ricordano cosa sono venuto a fare quaggiù. Ripasso mentalmente lastrada ancora da fare, girare al semaforo, passare sotto la ferrovia, trovare un posto dove lasciarel’auto.Arrivo, felice di non essere troppo in ritardo, ma ancora scosso dalla tremenda litigata avuta conCaterina poco prima di uscire di casa.Comincio a spogliarmi mentre di corsa arrivo negli spogliatoi. Mi cambio cercando di fare le cosepiù velocemente possibile, le scarpette me le alliccerò sul campo, penso. Alla fine riesco apresentarmi, quasi puntale: «Muoviti, dai che si comincia!».Per tutti questo appuntamento settimanale al campo di calcetto è una piccola valvola di sfogo, unmodo per sfuggire alle proprie quotidianità. Fidanzate diventate mogli e poi ex, i figli, le bollette, lascuola, e i problemi di lavoro. Ognuno con la sua storia.

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La partita inizia e finisce senza modificare di un niente il mio stato d’animo. Tutta la tensioneaccumulata nel timore dell’essere in ritardo è stata rimpiazzata progressivamente da un sempre piùincontrollabile angoscia per aver lasciato Caterina a casa, da sola ed in quello stato.«Davide, cosa hai? Sembri distratto, lontano! Eppure uno come te, non dovrebbe mai avere unpensiero, ogni sera una diversa dalle altre, Eh?!».Inizia così il rito dello spogliatoio, quei dieci minuti di nudità condivisa prima e dopo la doccia. Cisi sente tutti più vicini, deve essere un qualcosa di antico, un retaggio di un passato ancestrale, unappuntamento consumato intorno al fuoco dopo una battuta di caccia. In quei dieci minuti siorganizzano cene, appuntamenti, finte rimpatriate. Dieci minuti dove ci si racconta più persoddisfazione personale, che per effettivo bisogno: «Eh? Cosa farai stasera eh Davide? Beato te! Sepotessi cambierei una settimana delle tue con un anno intero della mia vita, con moglie, figli esuoceri in casa!». Lo guardo perplesso senza rispondere. Eppure un fondo di verità in quello chedice c’é. Abbiamo vite assolutamente opposte. Famiglia e routine dalla una parte, nessun impegnoserio e responsabilità dall’altra. Provo a rispondere qualcosa ma mi blocco subito, riuscendo solo abalbettare una frase intrisa di una tristezza infinita: «guarda che anch’io farei volentieri il cambio,almeno per un po’ di tempo, sai!», tristezza ovviamente non colta.Man mano che il rito si consuma i discorsi diventano sempre più impersonali e banali scemando neiclassici binari del dopo partita: un nuovo modello di cellulare appena uscito con tutte quellefunzioni assolutamente indispensabili, l’ultima auto ipertecnologica, l’abbonamento ad una diquelle pay-tv con mille canali differenti. Argomenti che mi sfiorano appena.Lo spogliatoio si svuota ed è una cosa che mi piace, perché si crea una atmosfera che riesco agustarmi ogni volta. Mi siedo su una panca in attesa che l’ultimo esca dalla doccia. Penso a tutte levolte che ho ripetuto questi gesti. Già mi manca davvero questo ambiente, ma purtroppo lo sport hale sue regole, dopo un po’ non si serve più e si deve trovare la forza per mettersi da parte. Finita ladoccia, mi asciugo velocemente, raccolgo tutta la mia roba e la infilo a forza nel borsone. Pago lamia parte campo e mi getto di corsa fuori dall’impianto verso la mia auto. Per fortuna ha smesso dipiovere. Nel parcheggio ormai vuoto c’è rimasto solo il mio maggiolino verde residuato degli anni’70 quello con il parabrezza piatto ed un consumo da fuoriserie di lusso. Sono l’ultimo a tornare acasa anche stasera, e gli altri se ne sono già andati via tutti da un pezzo. Poco male!Apro l’enorme fauce del cofano anteriore e ci lascio cadere dentro la borsa. Non riesco a pensare adaltro che all’inevitabile scontro con Caterina, lasciata in lacrime a casa non più di due ore prima.Salgo, metto in moto e parto verso di lei senza troppa fretta. Non c’è traffico ed arrivo quasi senzaaccorgermene, senza nessuna colonna sonora stavolta, non sarei riuscito a trovare il disco giusto.

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Capitolo UnoSeconda Parte

Sono davanti casa. Chiudo sbattendo la portiera della mia macchinetta e senza prendere la borsa miavvicino all’ingresso. Non penso a niente. Non ho nessuna tattica, la affronterò senza nessunapreparazione. Salgo la breve rampa di scale che porta al disimpegno, trattengo il respiro ed apro laporta.Lei è li in piedi che mi aspetta, in penombra nel centro del lungo corridoio che separa in due la miapiccola casa. Accanto ai suoi piedi ci sono due borse di plastica, di quelle grosse per la spesa, pienedi ogni cosa. Non piange più, ma le lacrime mescolate al trucco per gli occhi le hanno disegnato sulviso, due profonde rughe. Mi affronta immediatamente:«Sei tornato eh? Bastardo! Ti sei divertito con i tuoi amici eh? BAS-TAR-DO!»Mi avvicino, cerco da darle un bacio, ma lei mi respinge con forza:«Ti avevo avvertito, questa è l’ultima volta che ti.. che ti permetto di farmi questo. Ho preso, la miaroba me ne vado. Stavolta me ne vado davvero, l’ho giurato! Te l’ho giurato! Davvero. Hai capito!»Non ho mai preso troppo sul serio queste sue minacce ripetute ad ogni occasione. E questa pateticascena non è molto diversa da quelle già viste nelle sere precedenti.Dopo un attimo di silenzio Caterina, prende le due borse e si muove in avanti con un primo passoincerto. Poi si blocca, ne lascia cadere una guardandomi terrorizzata ricomincia a piangere ed aurlare:«Cazzo! cazzo! cazzo! Mi sono dimenticata dei libri che ti ho regalato! Cazzo!»Nella drammaticità di questa frase c’è tutto il riassunto della nostra storia. Un grande attrazionefisica e una stima infinita da parte mia, un amore ed un darsi senza confini dall’altra parte.Si volta, e lentamente entra nella stanza da letto avvicinandosi alla libreria. La luce diretta delfaretto puntato sullo scaffale più in alto la illumina e la disegna perfettamente. La seguo solo con losguardo, non ho né la forza né il coraggio di dirle più niente. Rimango appoggiato alla porta dellacamera da letto e scruto ogni tremore del suo viso e del suo corpo, i suoi lunghi capelli neri sulleforme ben sviluppate, la mano che scorre tremando sulle coste ben ordinate dei libri, senza maisoffermarsi su uno in particolare. Improvvisamente, con un gesto deciso ne sceglie uno. Lo osservacon attenzione e sfoglia le prime pagine. Si blocca per qualche istante e poi di colpo voltandosi discatto mi grida:«Questo! Questo..... questo è uno di quelli che ti ha regalato quella puttana! Te l’avrò chiesto millevolte di toglierci il suo nome, cosa ti sarebbe costato toglierci il suo nome dalla copertina eh?»E lo scaglia in terra, con tutta la violenza possibile, tentando poi a calciarlo via lontano.«Puttana! Puttana! Puttana! Questi sono tutti i libri che ti ha regalato quella puttana, perché, perchénon li hai mai buttati, perché?….»Prova a rovesciare il piano della libreria ma non ci riesce. Adesso la crisi di pianto si trasforma inun qualcosa di più profondo e incontrollabile. Mi passa davanti, ignorandomi e ritorna nel lungocorridoio, prende le borse di plastica e le trascina per qualche metro verso la porta. Si aspetta unaqualche mia mossa, un intervento per provarla a fermala, una parola. Invece niente, rimangoimmobile a guardare, queste scene ormai ripetute mi hanno tolto la volontà di lottare. Arriva allaporta, la apre ma non va oltre, si ferma qualche centimetro prima. Abbandona di nuovo le borse etorna indietro stavolta correndo, per poi lasciarsi cadere sul letto. Il respiro è rotto da singhiozzisempre più forti. Il suo corpo trema e sussulta di nuovo. Stavolta lentamente mi avvicino perabbracciarla e provare a calmarla.:«Caterina! Ti prego, basta!» non riesco davvero a dire altro che banalità. L’accarezzo, la bacio condolcezza.«Bastardo, sei un bastardo, ti odio!». Stavolta non mi respinge e si lascia coccolare. Alla fine riesconel mio intento. La osservo mentre rannicchiata cerca di recuperare dallo sforzo fatto. E per la

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prima volta mi chiedo come sono riuscito a farmi coinvolgere in una situazione come questa senzavia di uscita.Si rimane per un po’ di tempo così, stesi sul letto. Poi lei si gira di fianco dandomi la schiena, sullato del letto rivolto verso la parete, si toglie le scarpe e si infila sotto le coperte. I rimango ancorasdraiato accanto a lei. La luce sul mobiletto illumina appena la stanza. La sento muoversi, e senzaguardarmi sussurra:«domani ne dobbiamo parlare seriamente Davide, io non riesco più a sopportare tutto questo dolore.Ci fa troppo male». Piccola, riesce ancora ad infilare nel suo discorso un “ci”, come se la nostrastoria fosse ancora una storia viva, una storia con un futuro. Non rispondo. Senza fare tropporumore mi spoglio e mi infilo sotto le coperte anch’io. Cerco di abbandonarmi al sonno ma non ciriesco, la fatica della giornata, questa scenata, i soliti problemi di soldi, mi impediscano diaddormentarmi serenamente. Cerco di distrarmi ascoltando il disco che ormai metto tutte le sere perrilassarmi. Il respiro di Caterina adesso è più tranquillo e regolare. Si è calmata, le sposto e capellida dietro le spalle, e l’abbraccio dolcemente. Le nostre gambe si intrecciano secondo uno schemaormai consueto. Si è finalmente calmata. Le do un altro bacio leggero sulla fronte. Lei mi prendeuna mano e se la stringe tra i suoi seni. Alla fine ci addormentiamo così.

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Capitolo UnoTerza parte:

La notte vola via tranquilla, senza scossoni. Anche i vicini, particolarmente rumorosi stranamenterispettano la nostra ritrovata pace. La burrasca della sera precedente sembra essere passata senzalasciare traccia. Suona la sveglia, fuori albeggia appena e Caterina è ancora addormentata, o per lomeno fa finta di esserlo. Meglio così, non ho voglia di affrontarla. Faccio attenzione a non fare ilminimo rumore mi vesto ed esco di casa per andare al lavoro, fermandomi come al solito al mio barpreferito per fare colazione. Meccanicamente ripeto gli stessi gesti che ormai compio da anni e miritrovo davanti alla Ditta, pronto per un’altra giornata di lavoro.Sono in anticipo di qualche minuto ma trovo già ad aspettarmi davanti al mio ufficio quattro deicinque ragazzi che si sono candidati per lo stage che sto organizzando in Ditta. Me lo erocompletamente dimenticato. Entro in ufficio e li osservo di sfuggita. C’è una bella ragazza bionda,vestita molto elegantemente, due ragazzi uno fotocopia dell’altro con tanto di giacca e cravatta, edun tipo non più giovanissimo vestito normalmente, con jeans e scarpe da tennis su una bellacamicia. Li saluto cordialmente e gli faccio cenno di avvicinarsi: «Buongiorno ragazzi» gli dico:«Sono il dottor Davide Sole. Nella saletta qui accanto al mio ufficio troverete dei moduli dacompilare. I moduli sono numerati nell’ordine con cui faremo il primo colloquio di presentazione,decidete voi che verrà per primo». Dico questo accompagnandoli all’interno dell’informalesalottino. Senza farmi notare, o almeno sperando questo scruto li scruto con più attenzione. I duecandidati vestiti uguali non sono già più in grado di distinguerli, così perfettamente stereotipati almodello di successo. Guardo questi ragazzi con curiosità ed un pizzico di invidia mentre sisistemano intorno allo stretto tavolino decidendo chi sarà il primo a venire da me. Intantocontinuando a parlare nel modo più informale possibile aggiungo:«Ragazzi, io rappresento per voi il primo contatto con il mondo del lavoro. Non sarò certo io chedeciderò del vostro futuro, ma sarò comunque quella persona che alla fine dovrà decidere, per altri(e dicendo “per altri”, sollevo lo sguardo verso il soffitto, verso i piani alti dell’Azienda) chi divoi sarà il candidato più opportuno per questo stage. Vi lascio dieci minuti per rispondere alledomande del modulo poi, seguendo l’ordine che deciderete, venite nel mio ufficio, qui di fianco. Seil ritardatario si presenta dopo le nove e cinque ditegli pure di andare a provare da un'altra parte».Battutina che scatena la classica risatina di compiacimento.Mi diverto un mondo a fare il duro, anche se non voglio impressionare nessuno. Esco dalla saletta eritorno nel mio ufficio. Accendo il monitor del PC che per comodità lascio sempre acceso, e scorrorapidamente l’elenco delle e-mail arrivate per posta elettronica per verificare se ci sia qualcosa diparticolarmente interessante o urgente da fare. Dopo questa rapida occhiata, apro le finestre perrinfrescare la stanza. Torno al computer e sposto nella cartella “Caterina” le email arrivate da leinegli ultimi giorni, leggo poi qualcosa di sfuggita, senza la minima attenzione.Passati i dieci minuti, esco dal mio ufficio e mi avvicino alla porta del salottino annunciando che iltempo necessario per compilare il modulo è scaduto. Ritiro i moduli. Nessuno di loro mi ha chiestouna penna, e questo è già un buon punto di partenza. Odio chi si presenta ad un colloquio di lavorosenza portarsi una penna.In realtà il mio giudizio su di loro non sarà così importante e definitivo, non sarò certo io a decideresul loro futuro, però questo loro non lo sanno, ed un po’ mi piace giocarci. Il mio è solo un giudiziotecnico, sulle potenziali capacità professionali. La decisione finale sarà presa dal Direttore, aprescindere da tutti i giudizi e le altre considerazioni, compresa sicuramente la mia.Per prima entra, come speravo la ragazza bionda:«Buongiorno Signorina?...» Le chiedo cortesemente: «Vanni, Vanni Ilaria», mi risponde mettendo ilcognome prima del nome «Bene, signorina Ilaria venga si metta pure comoda». L’affrettato primogiudizio trova le sue scontate conferme. E’ davvero una bella ragazza, alta, slanciata, ben formatacon un profumo che si avverte nettamente ma allo stesso tempo né troppo fastidioso né troppo

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invadente. Un viso dolce e pulito, dove intelligenti occhi azzurri leggermente asimmetrici miscrutano più timorosi che curiosi:«Allora Ilaria, ci diamo del tu, va bene?» Lei risponde con un cenno del capo appena accennato. Glileggo negli occhi il timore, la paura di un altro approccio, un altro che ci prova:«Dicevo, noi stiamo cercando una persona, molto preparata e motivata che dovrà trasferirsi per iprossimi due anni all’estero, dove si occuperà, inizialmente di consolidare i rapporti tra la nostraDitta ed il partner locale e, in un secondo tempo di sviluppare una nuova linea di prodotto ad hoc daoffrire sul mercato secondo criteri derivati da un’indagine di marketing che il candidato stessodovrà ideare e sviluppare. Lei come organizzerebbe l’approccio a questa attività?».E’ incredibile come si riesca a dire queste cose prendendosi poi sul serio, e tutte le volte misorprendo, è come se ci fosse un’altra persona a parlare al mio posto. Ilaria, la ragazza bionda,senza esitare un attimo glissa sulla mia domanda e comincia ad elencarmi di fatto tutti i suoirisultati scolastici ottenuti fino a quel momento. Una brillante laurea in ingegneria gestionale con110 e lode, un Master di approfondimento e vari corsi di aggiornamento e perfezionamento tuttibrillantemente superati. Il mio tono informale deve averla tranquillizzata, non leggo più quellapaura dovuta ad una interpretazione sbagliata delle mie prime parole.Trovo conferma del suo racconto sul curriculum ricevuto giorni prima che sto scorrendo ora per laprima volta. All’ennesimo racconto di corso di perfezionamento superato brillantemente decido diinterromperla bruscamente per chiederle in modo diretto:«Ma hai capito bene dove avremo intenzione di spedirti per i prossimi due anni? In un posto lontanoda tutti e da tutto, dove si lavora tutti i giorni e se necessario anche tutte le notti, dove non sia piùuna vita privata e dove farsi una doccia, anche una volta sola a settimana sarà un lusso da nonpotersi sempre permettere».Ho affondato la mia stoccata, devo solo aspettare la sua reazione. La guardo con più attenzione,cerco di capire se sono riuscito a smuoverle qualcosa, magari solo farle venire qualche dubbio.Niente, assolutamente niente. Non riesco davvero a capire se sia già così “smaliziata” oppure sedavvero non ha la più pallida idea di cosa le sto dicendo. Ci raccontiamo altre banalità e la congedo.La vedo alzarsi, voltarsi ed uscire dalla mia stanza, con una malizia ed una femminilità non ancorasfruttate ed affinate completamente, ma sicuramente innervosita e scocciata da questo colloquiocosì diverso da tutti quelli che probabilmente aveva fatto fino a quel momento. La vedo aprire laporta, mentre sta per uscire dal mio ufficio. Il mio istinto è quello di chiamarla indietro, cercare dispiegarle come sono in realtà e di come sia costretto a fare e dire queste cose. Spigarle che questoche ha incontrato non sono io, ma solo una brutta e poco interessante controfigura, vorreiraccontarle le mie storie, i miei progetti, parlare di cose davvero interessanti, chiederle un parere suCaterina e la nostra storia. Ma non posso. Entrambi sappiamo che il suo futuro non sarà in qualchepolveroso cantiere stradale, o su una piattaforma petrolifera del Nord, ma bensì nel centro delmondo, completamente circondata dalle attenzioni che in realtà probabilmente merita.Senza esitare si presenta sulla porta uno dei miei gemellini. Decido però di farli entrare insieme,anche per cercare di metterli uno contro l’altro. Anche in questo caso un buco nell’acqua. Insieme,mi espongono parallelamente, il loro percorso identico, ed assolutamente perfetto. L’unicasoddisfazione che mi tolgo in questi casi è cercare di intaccare le loro certezze da ventenni appenaaffacciati sul mondo. Rivolgendomi a caso ad uno di loro chiedo a bruciapelo:«sig. Carlo, mi dica, ma lei quando gioca a poker con i suoi amici riesce a vincere regolarmente? Saè importante per saperlo, i veri vincenti si vedono in tutti i campi, non solo sul lavoro».Non aspetto la sua risposta, e mi rivolgo al suo amico/rivale cercando di sfruttare ancora quelbriciolo di sorpresa che una domanda del genere può provocare e chiedo: "sig. Giacomo faccio anche a lei una domanda che potrebbe sembrare bizzarra ma che di fatto nonlo è perché la costringe a ragionare oltre quello che ha studiato, oltre gli schemi che le hannoinsegnato. Lei, è in situazione di emergenza, ed ha assolutamente bisogno di soldi. E’ domenica ènon può prelevare dal bancomat o chiedere a qualche amico. E’ costretto quindi a trovare dei soldipartendo da quelli insufficienti che ha. Come pensa di fare? Non ha altre alternative, e deve

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prendere rapidamente una decisione, ed alla fine decide di giocarseli alle corse dei cavalli, dei canio a quello che vuole lei. Come si comporta? Le gioca tutti in un colpo solo sperando di indovinare ilcolpo giusto oppure divide la scelta spalmandola su più opportunità differenti?» La scena seguentevale la pena di essere raccontata. Il ragazzo mi guarda confuso, non riesce a capire.Sapeva che gli avrei fatto una domanda strana, ma questa lo ha davvero spiazzato. Non riesce aintuire dove voglio arrivare, l’utilità di questo esercizio, poi dopo un solo attimo di smarrimento tirafuori dal taschino il suo cellulare ultramoderno e usandolo come calcolatrice comincia a fare i suoicalcoli:«Si, dottore... » odio quando mi chiamano “dottore”, e continua:«in effetti se calcoliamo la percentuale di esito positivo in rapporto al possibile risultato, possiamovedere come le probabilità di vincita e quindi di rischio siano molto differenti tra di loro in rapportoalla strategia che intendiamo adottare...». Lo lascio continuare. Ascolto la risposta, ovviamentestatisticamente perfetta. Poi con tenerezza, lo interrompo e gli dico:«Bene Giacomo, analisi perfetta, ma risposta sbagliata. La risposta corretta era semplicemente “vagiocato quello che vince”...».Questi ragazzi hanno davvero il mondo in mano e non ne hanno ancora neanche il sospetto.Prima di intervistare l’ultimo candidato mi prendo una pausa di cinque minuti per un caffè giù alpiano di sotto, quello un po’ più attempato aspetterà. Provo a telefonare a Caterina, ma ha ilcellulare spento, non raggiungibile. Nervosamente allora scrivo sul display un altro numero ed invioun breve sms. Un numero scritto e cancellato mille volte dalle rubriche di tutti i miei vecchitelefonini, un numero che difficilmente potrò dimenticare.: “ti ho sognato stanotte” E con questoanche la “puttana” è servita.Mi bevo in un sorso quello che assomiglia più ad un brodo di risciacquatura piuttosto che ad uncaffè e rientro in ufficio per scoprire che i tre aspiranti già intervistati se ne sono andati. Mi rivolgoa quello rimasto:«Sai che fine hanno fatto gli altri?» Un po’ preoccupato il tipo risponde: «Non lo so, è venuto unsignore con giacca e cravatta, a letto da un foglio i loro nomi ed ha chiesto di seguirli. Invece a meha detto di rimanere, forse perché non ho ancora fatto il colloquio? Sarà sicuramente così, non èvero?»Non riesco a capire cosa possa essere successo, in ogni caso non vale la pena starci a pensare più ditanto. Mi rivolgo al mio nuovo amico e gli dico:«Dai vieni, tocca a te!»Solite presentazioni, ma appena inizia a parlare lo interrompo bruscamente per chiedergli:«Marco, saltiamo a piè pari tutte le formalità. Vedo che hai interrotto l’università per sei anni. Possochiederti perché?»Senza imbarazzo o qualche patetico tentativo di nascondere qualcosa, mi risponde:«Ho dovuto smettere di studiare, per motivi di soldi. Ho avuto la possibilità di iniziare a lavorareper una Ditta di Import/Export ed ne ho approfittato. Ho viaggiato molto, Cina, Taiwan, e Indiaprincipalmente. Dopo questi 6 anni ho lasciato il lavoro per riprendere e l’Università e finire glistudi, e credo di aver fatto la scelta giusta, anche se non ne sono pienamente convinto. L’ambienteuniversitario è quello che é, un mondo completamente a parte rispetto al mondo del lavoro con tuttele sue regole ed i suoi percorsi, ad anni luce di distanza».Lo guardo incuriosito perché so di cosa sta parlando, e gli chiedo se può farmi qualche esempio.Marco riflette per un secondo e risponde:“Guardi, le faccio questo esempio che mi è capitato proprio in sessione di laurea. Stavo discutendo,con un membro della commissione degli aspetti connessi alla gestione logistica e amministrativa diuna spedizione in container dalla Cina in Italia, praticamente il lavoro che ho fatto ogni giorno neimiei 6 anni all’esterno, quando questo mi interrompe per puntualizzare su una piccola miaimprecisione sulle dimensioni standard dei container. Lo guardo perplesso e gli rispondo chetrattandosi appunto di uno standard questo dato è sicuramente un aspetto importante ma secondariorispetto alla procedura di containerizzazione del materiale, la scelta del vettore per il trasporto, i

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termini di resa della spedizione, la documentazione e le dichiarazioni necessarie per l’import/exported altre cose del genere, ma non c’è stato niente da fare. Chi mi stava di fronte reputava questarisposta fondamentale per l’esito della mia laurea, rincarando la dose chiedendomi se avessi unavaga idea di quello che gli stavo dicendo. Gli ho risposto che l’argomento della discussione siriferiva semplicemente ad un lavoro che ho svolto per anni, ma niente da fare. Era talmente evidenteche non aveva la più pallida idea di cosa voglia dire organizzare una spedizione di quel genere, cheha troncato la discussione dicendomi di non fargli perdere altro tempo. Ho dovuto pagare l’affronto,e mi hanno tolto dei voti dalla valutazione finale con la giustificazione che queste cose vanno“assolutamente sapute”.Purtroppo, penso, è vero, è una cosa che capita quotidianamente ma non solo all’università, ma nelmondo in genere, e cioè essere costretti a confrontarsi con persone che sfruttano il loro poteregerarchico per nascondere la loro inadeguatezza. Osservo con attenzione la persona che mi siededavanti, sarebbe la persona ideale per questo lavoro. Ha già fatto un’esperienza di lavoro simile aquanto richiesto, è capace di prendersi responsabilità ed è abbastanza alla mano per poter affrontareun impegno così gravoso, lontano da casa. Gli chiedo: «Ti piacerebbe ritornare a lavorare?»lasciando intendere che per me il posto poteva essere suo.Alla fine le cose si sistemeranno da sole, penso. La bionda mozzafiato finirà in qualche studio diConsulenza Globale, i gemellini diventeranno dei Top Manager di un Marketing di qualche aziendaleader nel proprio settore, e Marco felicemente immerso nello suo nuovo lavoro all’estero. Tuttiperfettamente a loro agio nel proprio mondo.Una musica interrompe i miei pensieri. Le prime note della Tocca e fuga in re minore, miannunciano l’arrivo di un messaggio sul cellulare. Sblocco con avidità la tastiera per leggere ilmessaggio sperando sia la risposta al mio precedente. Delusione, é Caterina che mi ricordal’appuntamento che abbiamo per pranzo. Il solito messaggio, che a intervalli regolari invio a Marina(mi scoccia chiamarla come ama chiamarla Caterina), sarà stato ancora una volta ignorato ocancellato. Chiedo a Marco se ha altri incontri previsti in Ditta. Mi risponde di no. Gli comunicoche per me è sufficiente così e che quindi lo posso accompagnare all’uscita. Usciamo dal mioufficio parlando del più e del meno come vecchi amici e lo accompagno in portineria. Ci salutiamocalorosamente. Ho davvero conquistato la sua fiducia.Rientrando in ufficio lungo le scale incontro il Direttore che mi fa cenno di seguirlo nel suo ufficio.Lo seguo senza dire niente. Mi siedo alla sua scrivania, e rimaniamo in silenzio uno di fronteall’altro, fino a quando lui decide di interrompere questa strana atmosfera sospesa: «Daahaavìde»,ha sempre questo strano modo di chiamarmi per nome, con la “a” molto lunga e strascicata per poifermarsi con un accento della “i” veramente troppo pronunciato. «Daahaavìde» ripete: «la cosa si èfinalmente sbloccata, se sei d’accordo torni a fare il lavoro che facevi prima di questa sistemazioneprovvisoria, e se accetti ci sarà anche un piccola gratifica per te!» Rimango stupito. Questa novitànon me lo aspettavo proprio. Sono proposte queste che non si possono né rifiutate o contrattare,sono semplicemente delle notifiche da accettare, specialmente se accompagnate dal biscottino di unpiccolo aumento: «E cosa dovrei fare di preciso?» Il Direttore distratto dalla luce intermittente diavviso di chiamata che si è accesa sul telefono aspetta un attimo prima di rispondermi: «C’è dariorganizzare l’intera rete informatica aziendale, cambiare tutti i computer dei dipendenti, trovareidee nuove per la gestione del network e dei nostri siti web. Ci sono anche dei soldi da spendere,sono soldi di un progetto europeo finanziato, tu ti occuperai anche della parte amministrativa delprogetto». Anticipando la mia scontata domanda, il Direttore continua: «si, inizi subito già da oggipomeriggio. In sala macchine sono già stati avvertiti e ti stanno aspettando!» Contento epreoccupato, mi alzo ed esco dall’ufficio, mentre il Direttore alza la cornetta del telefono perrispondere alla telefonata che ormai aspettava da qualche tempo. Lo sento mentre inizia a discuteresottovoce. Sulla porta, mi fermo e mi volto interrompendo la sua conversazione: «E per lo stage?Cosa devo fare con i candidati per lo stage».Il Direttore, senza nessun tono di rimprovero per averlo interrotto nella sua telefonata mi guarda, ecoprendo il microfono della cornetta con una mano risponde: «Niente, tanto abbiamo già deciso da

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tempo: la ragazza viene con me in Direzione, e quello di Milano lo prendiamo per lo stageall’estero». Provo a ribattere: «Quello di Milano?”. Ma è uno dei due gemellini, dico sottovoce, perpoi ribattere: “Ma Direttore non sono d’accordo! Probabilmente non è la scelta migliore, quello piùpreparato per questa posizione è Marco, il candidato più anziano.» Il Direttore mi guarda scuotendola testa come se non avessi ancora capito nulla di come funzionano queste cose: “Lo so anch’io miocaro, ma forse non hai fatto troppo caso al cognome che porta quello. Me l’ha chiesto direttamentesuo padre sai, di fargli avere questo posto». Già, ora che ci penso, non avevo neanche immaginatoche quel cognome portasse in dote quel tipo di parentela, sembrava più una coincidenza che altro.Provo a stemperare la mia delusione: «Ma Direttore è quello del poker o quello dei cavalli?» IlDirettore riabbassa il telefono e mi guarda incuriosito: «Come? Che dici, non capisco!» Era ormaiabituato ai miei tentativi di humour non sempre troppo ben riusciti: «Niente, niente» rispondo io:«Vado subito giù in sala macchine a presentarmi ai miei nuovi colleghi». Il direttore mi fa un cennocon la mano di aspettare un momento mentre con l’altra prende una busta dal primo cassetto dellasua scrivania «Aspetta», aggiunge, «mi stavo quasi dimenticando di darti questa». E’ una piccolabusta bianca, con il logo della Ditta. Mi avvicino, prendo la busta e senza dire nulla gli stringo lamano. E’ la busta con la notifica del mio aumento! La apro e dentro ci trovo tre fogli: lacomunicazione del mio passaggio ad un altro incarico, e la notifica dell’aumento di 180 euro lordimensili e la piantina con la mia nuova collocazione. Centottanta euro lordi per comprarsi latranquillità per la sua coscienza. Sicuramente un buon affare, per il Direttore.Nel chiudere la porta alle mie spalle, penso alla promessa fatta a Marco che non sarà mantenuta eme ne dispiaccio. Avrà altre occasioni, è un bravo ragazzo. Scendo meccanicamente le due rampe discale e mi ritrovo, esattamente da dove ho iniziato in questa Azienda tanti anni prima. Davanti allaporta della sala macchine, come ormai viene chiamata da sempre l’ufficio tecnologico della Ditta.A fatica riesco a ricordarmi che sono a pranzo con Caterina.

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Capitolo UnoQuarta parte:

Mi affaccio.La sala macchine! E’ stato il primo lavoro. Ho ancora fresco il ricordo di quanto mi stupiinell’entrare qua dentro per la prima volta.Mi ero sempre immaginato un ufficio come un luogo sempre pieno di fermento e di attività, dimacchine sempre in movimento, con il sottofondo di suoni di telescriventi e telefoni ed invecequesto posto assomigliava all’aula delle mie vecchie scuole elementari, con due file di banchidisposte parallelamente secondo la lunghezza della stanza, e di fronte una scrivania più ampia, nondel maestro ma di quello che sembrava essere il capoufficio, un uomo distinto che sedeva sopra unapiccola piattaforma di legno che gli permetteva di dominare questo schieramento dall’alto.Su ogni banco di lavoro, c’era un piccolo un monitor che emanava una pallida luce verde ed unagracchiante stampante ad aghi disposta all’interno delle due file. Notai subito che per arrivare alposto di lavoro o uscire dalla stanza si doveva obbligatoriamente passare dall’esterno, lungo lepareti. I banchi erano sei per ogni fila. Dei dodici posti tre erano vuoti: due con segnali di vita, carteammucchiate, matite, appunti sparsi, mentre l’altra in fondo ad una delle due file, era perfettamentepulita ed evidentemente pronta ad accogliermi. Il mio primo contatto lo ebbi con il capoufficio diallora, il sig. Lupi, che dall’alto della sua postazione, appena mi vide mi fece un breve cenno disaluto venendomi incontro. Mi presentò immediatamente alle persone presenti, in maniera moltogenerica e poco cordiale. Venni accolto con qualche sforzato sorriso di benvenuto non troppoconvinto e con molta indifferenza, e questa cosa mi suonò davvero strana, abituato come eroall’ambiente cordiale ed un po’ goliardico dell’Università appena terminata, dove si diventaimmediatamente amici di tutti senza troppi filtri e reticenze. Finita questa rapida presentazione ilsig. Lupi, mi accompagnò alla mia postazione. Arrivati, rivolgendosi alla persona seduta lì vicino,disse in modo educato ma distante: «sig. Bimbi, come le avevo accennato questo è il dottor Sole, cidarà una mano in questo lavoro. Lo affido a lei, gli insegni tutti i trucchi del mestiere, miraccomando, so già che farà un buon lavoro, come sempre del resto!».Già quel lavoro, me ne ero proprio completamente dimentica. Era di una banalità e di unaripetitività devastante. La stampante un paio di volte al giorno sputava fuori una lista piena di dati enumeri relativa alla merce smistata da tutti i punti vendita della Ditta sparsi per l’Italia e l’Europa. Ilnostro compito era semplicemente quello di riportare manualmente su un’altra lista consegnata almattino, questi movimenti in modo da avere a fine giornata il flusso totale del materiale spedito. Lalista di riferimento che ci veniva data al mattino era formata da una quarantina di fogli stampati conla carta a modulo continuo, e rappresentava senza nessun ordinamento logico la disponibilità dellamerce a magazzino, praticamente la chiusura della sera precedente. Mi ricordo che appenasistemato nella mia nuova scrivania, completamente spaesato e perso, con un tono molto fiero ilSig, Bimbi mi introdusse così questo lavoro: «Vedrai che imparerai presto. E’ vero che è un lavorodifficile ma lo imparerai presto lo stesso, non ti devi spaventare, anche se ci vuole una grandissimaesperienza, e non tutti secondo me alla fine lo possono fare, questo lavoro intendo. Vedi, peresempio dovrai imparare che, i tubi di gomma non sono tutti uguali, ci sono quelli di diametro dadue pollici che li trovi a pagina trentasei, qua in fondo vedi, ma che mai e poi mai dovraiconfonderli con quelli da due pollici e tre quarti che invece sono a pagina undici, in basso, vedisopra i barattoli di vernice gialla! Vedrai, vedrai come imparerai presto! ». Cercava evidentementedi impressionarmi. In quello stesso giorno, il mio primo giorno di lavoro in Ditta, mi venneconsegnata una scatola di cartone con dentro il materiale di cancelleria. C’era un fermacarte, duepenne, una spillatrice, una gomma per cancellare, una penna a sfera nera ed una rossa, un blocchettoper le note, un tempera matite un paio di forbici ed un mazzetto di matite colorate, insieme ad unaricevuta che, firmandola mi impegnava ad aver cura di questo materiale ed a riconsegnarlo nellestesse condizioni una volta andato in pensione, gomma per cancellare e matite comprese.

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A intervalli più o meno regolari il sig. Bimbi continuava con metodo la sua lezione: «Davide (si eraentrati immediatamente in confidenza), per i primi giorni è meglio che vedi soltanto come faccio io,sai è un lavoro difficile e potresti sbagliare sai. Fai un solo errore e zackkkk salta tutto! E come si fapoi a rimediare?. E più che provava a spiegarmi che i bulloni, quelli per i dadi da sei erano all’iniziodi pagina dieci, e più che non riuscivo a capire dove era il trucco. Non riuscivo a capire dove era ladifficoltà di questo lavoro. Sapevo che c’era un trucco ma non riuscivo a trovarlo. E’ possibile cheuno passi cinque anni di elementari, tre di medie, cinque di liceo scientifico e poi altri sei, sette diuniversità se gli va bene per ricordarsi a memoria che i bulloni per i dadi da sei sono all’inizio dipagina dieci o i tubi da due e tre quarti sopra i barattoli di vernice gialla? Ci doveva essere un truccoper forza, era talmente evidente.Il mio apprendistato finì un lunedì, il giorno della mia indipendenza. Emozionato entrai puntualealle otto, e mi fu consegnata la mia prima distinta di magazzino da completare. Il nostro compito eraquello, una volta finito di annotare tutti movimenti, di portare la lista così completata al collega inprima fila, che avrebbe a sua volta sommato tutti i movimenti indicati dagli altri colleghi della filaalle sue spalle. Funzionava pure così anche per altr’altra parte. Finite le due somme parziali, i duelà davanti si scambiavano le proprie liste per ricontrollarle una seconda volta, annotando “a pennarossa” gli eventuali errori.Finita questo controllo incrociato, il risultato di questo eccezionale lavoro veniva consegnato al sig.Lupi. Due blocchi di fogli scritti a mano pieni di numeri, cancellazioni e correzioni dell’ultimomomento. Il compito del sig. Lupi, era quello di trascrivere sul sistema informatico aziendale ilrisultato finale.Mi sedetti alla mia scrivania in attesa, pronto per gettarmi in questo nuovo mondo vorticoso dinumeri, colori e tubi di gomma, mi autenticai sul sistema e mi misi ad aspettare che accadessequalcosa.Improvvisamente la mia stampante cominciò a gracchiare stampando i dati che avrei dovutocontrollare e trascrivere. Dati che simultaneamente scorrevano veloci sul monitor verde, ilterminale, come era chiamato da quei miei misteriosi e tristi colleghi.Il Sistema Informatico Aziendale, il SIA come veniva chiamato, era un programma sviluppato inambiente DB2, il precursore di tutti i database relazionali. Avevo appena discusso la mia tesi dilaurea dove, utilizzando un linguaggio macchina molto simile, avevo realizzato un programma dianalisi di un sistema chiuso (l’esempio nel programma era un lago abitato da soli pesci, che dopo unpo’ di tempo morivano tutti per mancanza di cibo, qualunque parametro iniziale provassi a mettercidentro...).Incuriosito, dal fatto che i dati scorrevano sul terminale in contemporanea all’uscita della stampaprovai a cercare con il mio terminale la coda di stampa, per verificare se si poteva utilizzare inqualche modo. Con mia somma sorpresa non trovai nessuna barriera e nessuna password perl’accesso al server dei dati e con facilità trovai immediatamente tutto quello che cercavo, compresoi dati di vendita stampati ai miei colleghi, insieme alla comune distinta di magazzino.“Strano”, pensai, “sul sistema ci sono già tutti i dati archiviati e qui fanno il lavoro a mano, comemai?” Non riuscivo a capire il perché di quella organizzazione particolare del lavoro. Rivolgendomial sig. Bimbi gli chiesi: «Ma come mai fate questo lavoro a mano? A cosa serve il terminale, se poisi deve fare tutto il lavoro a mano?». Il sig. Bimbi mi guardò allibito, sconcertato da quelladomanda. Deluso come se tutte le sue faticose spiegazioni non fossero servite a niente. Quelladomanda appena formulata era la scontata conferma di quanto fosse realmente difficile quel lavoro,anche per un laureato appena uscito dall’Università. Il suo scolaretto, nonostante tutti i suoi sforzinon aveva capito niente delle sue spiegazioni: «Ma come a cosa serve Davide!» Mi disse conprofonda delusione: «Te l’ho già spiegato, mi sembra. Serve per sicurezza! E se tante volte lastampante sbaglia a stampare, dove li verifichi poi tu i dati, eh? Devi sempre controllare che i datiche escono dalla stampante siano li stessi che hai sul terminale! Sempre! E’ importantissimo! Avolte la stampante sbaglia a stampare, è già successo!». Intuii chiaramente a cosa stesse pensando,mi vedeva come un ragazzetto che credeva di sapere tutto, ma che in realtà non aveva ancora capito

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niente. Il lavoro era quello, era così da anni, ed era l’unico modo di lavorare, ed era sicuramente ilmodo migliore.Non contento della sua spiegazione, mi rivolsi direttamente al capoufficio, che se ne stava insilenzio sulla sua bella piattaforma di legno rialzata: «sig. Lupi, mi scusi non ho capito una cosa,posso chiedere?» Lui rispose: «Certo dica pure sig. Sole» non alzando gli occhi da quella infinitalista di numeretti scritti a mano che aveva sulla scrivania: «Perché questo lavoro viene fatto a mano,quando ci sono già tutti i dati registrati sul S.I.A.? Con due righe di codice macchina inserite neldatabase si potrebbe fare in modo che tutti questi abbinamenti si creino in automatico, sarebbe unbel risparmio di tempo, non crede?» Il sig. Lupi, alzò gli occhi abbandonando per un attimo ilproprio lavoro, scrutandomi per qualche secondo prima di parlare: «Che dice sig. Sole!Ammettendo pure che così fosse, chi si potrebbe fidare di un lavoro fatto completamente dalterminale?» indicando la lista dei numeri colorati che adesso mostrava con orgoglio a tutti quanti:«Vede, sig. Sole, già abbiamo dei seri dubbi che il S.I.A. stampi esattamente i dati che arrivano, siimmagini quindi se mai potremo fidarci di un eventuale lavoro fatto in automatico. No, il verolavoro, la vera sicurezza l’abbiamo solo con il lavoro fatto manualmente, ordine per ordine, riga perriga, come facciamo ora, come facciamo da anni. Come vede, non ci sono alternative».Sconcertato provai ad insistere: «Guardi che non è così, il terminale, il sistema non può sbagliare, semai è il lavoro fatto a mano che potrebbe portare a degli errori, mi faccia per lo meno provare!». Ilsig. Lupi aveva riabbassato gli occhi sul foglio, ritornando sommare e sottrarre i numeri scritti concalligrafie e colori differenti. Il suo tono di voce non era più cordiale come lo era stato per le primerisposte: «sig. Sole, se fosse possibile l’avremmo già fatto, non crede! Adesso non perda altrotempo e non si distragga più. Bisogna finire in tempo e senza errori! Basta soltanto che uno di noisbagli un conto per far saltare tutto! Torni subito al suo lavoro e non disturbi gli altri». Provai adincrociare gli occhi degli “altri”, i miei colleghi. Non trovai nessun segno di solidarietà, nessunacomplicità, nessun barlume. Nessuno aveva capito di cosa stessi parlando.Benvenuto nel mondo del lavoro Davide, pensai.Dopo qualche giorno mi stufai di quel lavoro fatto mano, e feci quello che avrei dovuto fare sindall’inizio. Dal mio terminale creai il codice macchina necessario per le mie analisi e sfruttando idati del database riuscii a compilare il mio lavoro di un giorno in pochi attimi che apparve come permagia sul mio monitor a fosfori verdi, pronto per essere copiato, senza errori. Andò avanti così per idue anni e mezzo che rimasi in quel posto. Nessuno ne seppe mai nulla, e nessuno si domandò maiperché dal mio arrivo, da quella mia discussione il premio mensile destinato al lavoro fatto conmeno errori fu sempre e soltanto mio. Premio inventato dal sig. Lupi per stimolare al massimol’efficienza del suo ufficio.

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Capitolo UnoQuinta parte:

L’appuntamento per il pranzo con Caterina è in centro per le una. Il ristorante scelto per i consuetinostri pranzetti veloci è un locale ricavato in un seminterrato di in vecchio palazzo signorile. Ilsoffitto ad archi, le impronte che grossi anelli di ferro hanno scavato nel muro di mattoni a vista,suggeriscono che quell’ambiente una volta doveva essere una stalla, o comunque un ricovero peranimali da lavoro.Arrivo di corsa e da fuori, attraverso i vetri scorgo Caterina già seduta che mi sta aspettando. Inquesto locale, non ci sono i tavolini classici di ogni ristoranti, ma due enormi assi vicino le paretidella stanza costruiti con traversine di legno riciclate da una vecchia ferrovia. Una lunga ed unicapanca è ricavata utilizzando i vecchi abbeveratoi presenti lungo tutto il muro. Spesso ci si devesedere e pranzare in mezzo a dei perfetti sconosciuti. E’ la caratteristica di questo locale.Caterina è nell’angolo opposto all’ingresso, nel nostro solito posticino preferito, alla estremità diuna delle due lunghe panche. Mi avvicino e mi siedo di fronte a lei, dalla parte del muro, nel postopiù scomodo. Senza neanche salutarmi inizia subito a parlare con il solito stile a mezzo tra unlamento ed un rimprovero: «Ciao caro. Ho già ordinato anche per te, tanto prendi sempre le stessecose, tu non fai mai niente di nuovo. Non mi stupisci mai. Sei sempre e solo l’inutile accessorio allemie solite giornate di merda». L’accento ed il tono della frase, mi ricorda, come se ce ne fossebisogno, che anche oggi non sarà il solito pranzo tranquillo da fidanzati modello. Non replico,sarebbe inutile, e provo a distrarla cambiando discorso. Sorrido e le passo il foglio della Ditta doveufficialmente mi si comunica il mio piccolo aumento e le dico con un pizzico di orgoglio:«Guarda un po’?»:

Dott. Davide Sole,siamo felici di comunicarle, che facendo seguito l’indicazione del suo diretto superiore le è statoriconosciuto un aumento retributivo lordo mensile di 180 Euro, a decorrere dal 1° Ottobre diquest’anno.Questo riconoscimento conferma ancora una volta come la nostra Ditta sappia riconoscere egratificare l’impegno di propri dipendenti.Cordiali Saluti, il Responsabile Ufficio del personale.

Caterina, prende il foglio e lo legge con calma, lo gira un paio di volte per vedere se ci fosse scrittoqualcos’altro, lo piega con cura, lo alza in alto sopra la testa, e lo lascia cadere sul tavolo.Svolazzando il foglio finisce proprio nel cestino del pane: «Non vedo cosa cazzo ci trovi di positivoin tutto questo» dice, e continua: «per quello che fai, per l’impegno che ci metti ed il ruolo che haidovresti avere uno stipendio e degli aumenti molto più alti di quello che hai ora. Figurati poicentottanta euro lordi. Saranno a malapena cento euro netti. Non sei nemmeno in grado di fartirispettare dal tuo capo, ti trattano sempre come l’ultimo arrivato. Ti vedo già come lo ringrazi perquesta elemosina!». “Ecco”, penso, adesso non posso più fare niente per evitare lo scontro anche seho imparato con l’esperienza che in quelle occasioni, è sempre possibile limitare i danni restandopassivamente in silenzio: «vedi!», insiste Caterina calcando sul tono della voce, «ti preoccupisempre di tutto quello che fanno gli altri, ma di me, DI ME, non te ne preoccupai mai, mai una voltache facciamo un viaggio insieme, mai che tu mi chieda che cosa ho fatto oggi! Ti ricordi dell’ultimavolta che abbiamo fatto un viaggio insieme? Eh? Ti ricordi quando era? Mi fai schifo, non tisopporto! Pensi solo e sempre per te, e basta mi fai schifo, schifo!!!» Abbasso gli occhi. Oggi nonho voglia di affrontare gli stessi discorsi di ogni giorno. Stranamente mi sento più a disagio per lapromessa che non sarà mantenuta fatta a Marco che per quello che sta accadendo in questomomento. Distolgo lo sguardo dagli occhi indagatori di Caterina e fisso lo spazio vuoto davanti ame. Tattica questa sempre vincente. Non ascolto più quello che dice e senza rendermene conto mi

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trovo a fissare ragazza che le siede proprio accanto. Noto i suoi capelli, decido che ha almeno 10anni meno di noi e mi fermo senza volerlo sullo scollo aperto della sua camicetta. Caterina intantocontinua a parlare, parlare e parlare....Di colpo lei si accorge del mio sguardo fisso. Si volta e vede la ragazza. La guarda per un istante,poi guarda il ragazzo, probabilmente il suo ragazzo che le siede di fronte seduto accanto a me, perpoi tornare sullo scollo incriminato.Faccio appena in tempo a cogliere nello sguardo di Caterina il pericolo imminente che lei si alzadalla tavola si sbottona quasi completamente la camicetta e si sposta dietro alla ragazza. Sorridestrizzando gli occhi e si inclina in avanti e mostra al tipo il suo seno, contenuto a stento da unreggiseno nero di pizzo alzandolo e stringendolo con entrambe le mani: «Vedi? Vedi come sonomolto più grosse e belle di quelle della tua troietta qui sotto, ti piacciono eh?»! Poi, indicandomicon lo sguardo: «E invece il bastardo preferisce fissare le tettine della tua amichetta. Spiegaglielo te,se ci riesci, stronzo!» Ritorna al suo posto si richiude la camicetta e abbracciandola bacia la ragazzasulla bocca sussurrandole: «Piccola non te la prendere, non ce l’ho con te. Imparerai presto aconoscerlo bene il tuo bastardo, stai tranquilla». La ragazza è pietrificata non dice nulla, non muoveun muscolo. Caterina adesso si mette a trafficare nella borsetta per tirare fuori un mazzo di chiaviche lascia cadere pesantemente sul tavolo: «Sono le chiavi di casa, le ultime copie che avevo. L’horipulita bene stavolta, non ci troverai più nessuna traccia di me, niente dischi, niente libri e nienteregali. Le piante che ti avevo regalato sono nel cassonetto di fronte alla strada però nel biologico, edil pescetto rosso è finito nel cesso, come il mio amore per te. Addio bastardo, non provare mai più acercarmi. Me ne vado per sempre». E se ne va uscendo dal locale e dalla mia vita, almeno secondole sue buone intenzioni.Io e la coppia di ragazzi ci guardiamo senza dire niente, lei visibilmente scossa, lui con un sorrisinomisto tra compiacimento e solidarietà. Provo a chiedere scusa in qualche modo ma non ci riesco. Unistante dopo arriva il cameriere con il mio hamburger con insalata e pomodoro senza maionese, lamia porzione di patatine fritte ed una birra media. I ragazzi si spostano in due posti liberi un po’ piùin là.

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Capitolo uno.Sesta parte:

Ci sono voluti cinque minuti buoni per riportare la tranquillità all’interno della giovane coppia.Adesso la ragazza sembra quella più divertita dei due da quanto accaduto.Con una patatina mescolo le salse che mi hanno portato insieme al panino e alle patate. Sto soltantofacendo passare il tempo creando un quadro astratto a base di strisce rosse e gialle di maionese eketchup. Le solite otto note dell’inizio della sonata in re minore di Bach mi avvertono di un nuovomessaggio in arrivo. “Eccola” penso, “questa volta ha resistito per ben tre minuti”. Un piccolorecord rispetto a come si comporta in queste situazioni.Guardo il cellulare, e sulla lista dei messaggi in arrivo non leggo nessun nome, ma solo un numero.Non è un numero privato ma il mio cellulare non lo conosce, non lo ha in memoria. E’ una cosanormale. Ho cambiato di recente il vecchio con questo che ho ora e non ho ancora completamentetrascritto la rubrica. Osservo il numero prima di aprire il messaggio. E’ un numero che conosco mache non riesco ad associarlo a nessuno dei miei amici. Senza dar troppo peso alla cosa, premo iltasto “ok” e lo leggo: “Ciao Davi, sei in giro? Ti devo assolutamente parlare. E’ urgentissimo.Marina”. Non mi rendo subito conto del genere di messaggio. Ho bisogno di leggerlo una secondavolta per capire bene. Alla fine realizzo! E’ Lei! Mi ha risposto, anzi no! E’ lei! E’ Marina che miha cercato! Non è una risposta ad un mio precedente messaggio. E’ una sua iniziativa! Chiudo ilmessaggio e controllo il numero. Si, è proprio il suo. Strano come lo conosca a memoria per averloscritto chissà quante volte, mentre non sono stato in grado di riconoscerlo una volta visto sulpiccolo display del mio cellulare.Cerco di pensare. Devo riflettere su come comportarmi. La chiamo, non la chiamo? Le mando unmessaggio di risposta? Forse un atteggiamento più freddo andrebbe meglio, in fin dei conti è Leiche mi ha cercato. Decido di rispondere con un messaggio neutro, informale, giusto per darmi unsuccessivo piccolo margine di manovra: “Sono alla Madia a pranzo, ma sono di fretta”. Sonoveramente eccitato. Marina è qui in giro, è qui vicino da qualche parte e vuole vedermi subito.Perché mi chiedo? Il posto lo conosce bene, quando si stava insieme ha lavorato qui perguadagnarsi i soldi per la sua Università.Pensandoci bene forse, è proprio per questo motivo che ho sempre scelto questo posto per venire amangiare. Una specie di masturbazione mentale, un contentino ai miei ricordi.Il tempo adesso sembra non passare mai. Guardo l’orologio appeso alla parete, sono trascorsi soloquattro minuti dall’arrivo del messaggio e dall’invio della mia risposta. La parete di fronte, ètappezzata da tovaglioli incorniciati con sopra le dediche lasciate da personaggi più o meno notipassati da questo posto: giocatori di calcio, attori e attrici che si sono esibiti nel teatro qui a duepassi. C’è anche la foto con dedica di un noto chitarrista con il suo cesto di capelli ricci, e le suaclassica maglietta a righe orizzontali, probabilmente passato di qui dopo un concerto.Passano altri due minuti senza che accada niente di speciale. Poi, il campanellino cinese, legatoproprio sopra la porta di ingresso del locale avverte che è appena entrato qualcuno.Incredibile è proprio Lei! E’ Marina! Vestita come al solito di scuro. Scarponi di pelle nera dovespariscono al loro interno i fuseaux messi per evidenziare le sue lunghe ed affusolate gambe.Gonnellina di velluto nera con funzione più che altro decorativa, un maglioncino a collo alto, edinfine il solito cappellino, anche quello rigorosamente nero, dal quale spuntano solo alcune ciocchedei suoi lunghi capelli biondi. Ha un pesante giaccone in mano che stona non poco con la graziadella sua figura: «ciao Davi, con questa stagione non si sa mai cosa mettere» mi dice adagiando ilpesante fardello sulla sedia di fronte a me, sorride per un attimo ed insiste: «la mattina è freddo, maadesso si sta talmente bene che verrebbe la voglia di andare al mare e fare un bel bagno!». Continuaa parlare mentre sposta la sedia, quella con il giaccone appena riposto, ne prende una libera e sisiede davanti a me, nello stesso posto dove fino a pochi minuti prima era seduta Caterina: «Davide.Quanto tempo eh? Come va, tutto bene?».

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Mi viene naturale ed immediato fare un confronto, Caterina ha dei bellissimi capelli ricci e neri,occhi scuri, con sguardo caldo e provocante e con forme che farebbero la felicità di qualunque altromaschio normodotato, come amava rimproverarmi quando non la consideravo troppo.Banalmente per descriverla con termini ormai abusati, una bella ragazza solare e mediterranea.Marina invece è esattamente l’opposto, viso asciutto e allungato, corporatura molto esile, e senzacurve evidenti. Biondi capelli lunghi e lisci. Sguardo sempre arrabbiato e sospettoso, sguardo di chiha sempre dovuto combattere per ottenere qualcosa.Appena seduta prende il mio bicchiere di birra e ne beve un sorso: «Phew che sete, ne avevoproprio bisogno». Si toglie il cappellino e lascia andare i suoi lunghi capelli biondi e lisci sullespalle coperte dal maglioncino nero a collo alto. Il contrasto di colori è evidente e ben studiato:«Davi, non ho risposto perché ero qui vicino e sono venuta subito. Sono di corsa, tra cinque minutidevo andare...».Marina è sempre di corsa. Ha fatto una vita di corsa, fa una vita di corsa. Prima lavoretti per pagarsil’Università, adesso un lavoro impegnativo a tempo fisso che sembra non lasciarle mai spazio peraltre cose.Non sono mai troppo bravo in genere a reggere una conversazione, e con Marina poi non riesco maidominare la scena. Mi lascio trascinare da cosa accade, vado dietro agli eventi e aspetto sempre lasua prima mossa. Ogni cosa che provo a dire mi sembra sempre completamente fuori luogo eassolutamente banale e scontata. Marina, con decisione, si avvicina ancora di più al bordo del tavolofino ad appoggiarvisi, sposta il cestino del pane (con ancora la comunicazione della mia gratificadentro) e unisce le mani sotto il mento, appoggiando i gomiti sul tavolo. Guardandomi diritto negliocchi sospira il mio nome: «Davide...», poi apre le mani con un gesto lento e misurato e le uniscecome se pregasse coprendosi la faccia fino agli occhi, quasi nascondendo completamente il viso.Sta solo aspettando il momento giusto per colpire, per dire quello che deve dire, senza reticenzecome del resto ha sempre fatto. Adesso la guardo con attenzione. Il respiro è più pesante, la vocenon più brillante e sicura come lo era stata fino a quel momento. Le narici pulsano al ritmo delrespiro che cerca più ossigeno. Le sue piccole vene sulla fronte sono gonfie per la tensione. Haqualcosa di importante da dirmi, non riesco ad immaginarmi null’altro che non sia una teneraconfessione del suo amore ritrovato per me. Certo non sarà facile gestire il suo ritorno, ma è la cosache ho più desiderato negli ultimi due anni. Non farò più gli errori del passato, non farò gli stessisbagli che ho fatto anche con Caterina, farò di tutto per tenerla con me, almeno questa volta.Marina chiude gli occhi, inspira più aria possibile e mi prende le mani. Le stringe e poi se le portasul cuore: «Davi, senti! Senti come mi batte forte». Trattiene per un attimo il respiro, per poilasciare andare fuori tutta l’aria insieme, velocemente. Il suo cuore sta impazzendo, in un ritmoaccelerato, continuo. Un ritmo che mi ricorda altri tipi di incontri molto più intimi e soddisfacenti.Di colpo si fa seria, lascia andare le mie mani e si allontana dalla tavola. La respirazione tornanormale, le vene sulla fronte spariscono di colpo: «Davide!», adesso non mi guarda più diritto negliocchi, la confessione del suo amore ritrovato non può più essere rimandata: «Davide», ripete: «sonoincinta di quattro mesi, è un maschio. Lo vorremmo chiamare Davide come te, non ti dispiace mica,vero?». Si avvicina di nuovo al tavolo, allunga le sue mani per prendere le mie: «ho dovuto dirtelo,tanto prima o poi lo avresti saputo, almeno questo, in fin dei conto, te lo dovevo». Rimangofolgorato da questo annuncio, non sono preparato per una simile notizia. Non si è mai preparati peruna simile notizia. Mi stringe ancora le mani: «Sei contento vero, non è che ti dispiace se lochiamiamo così, non è vero? Eh Davi?». Mi guardo intorno completamente perso e disperato. Nonriesco a capire se quello che sta succedendo stia accadendo davvero.Marina, nel suo più perfetto stile ha fatto quello che doveva fare, precisa come un cobra, senzanessun rimorso. Velocemente si sistema i capelli, raccoglie il suo cappello sempre più nero dallasedia accanto e se lo mette nascondendo perfettamente il biondo dei suoi capelli stavolta. Allontanala sedia dal tavolo e lentamente si alza. La gonnellina di velluto nero rimane impigliata nella borsascoprendo, per quanto possibile le sue belle e lunghe gambe, e il suo sedere davvero perfetto. Giraintorno al tavolo, mi viene vicino e mi da un tenero bacio sulla fronte: “Davi ti prego, non cercarmi

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più, non mi scrivere più, non rendermi le cose più difficili di come sono ora, adesso che ho storitrovato un mio equilibrio. Promesso?” E senza più guardarmi, con lo stessa tranquillità di chi haappena pagano la bolletta del gas alle Poste, o una multa per divieto di sosta sparisce seguendo leorme già percorse qualche minuto prima da Caterina. Rimango per la seconda volta in poco tempoda solo in quello che è adesso probabilmente, il mio piccolo EX ristornate preferito. Guardo dinuovo l’orologio sulla parete di fronte. Sono passati solo quattro minuti da quando lei è tornatanella mia vita e uno da quando ne è sparita di nuovo, decisamente per sempre (o almeno per unsacco di tempo). Faccio davvero fatica a riprendermi.Il ragazzi mi fissano intensamente, lui con ammirazione e complicità lei con rassegnazione. Chissàse hanno intuito qualcosa di ciò che è accaduto in questi ultimi 5 minuti.

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Capitolo primoSettima parte:

Rimango immobile a fissare la lancetta dei secondi dell’orologio sulla parete di fronte. Non mi sononemmeno accorto dell’arrivo sul tavolo dell’insalata mista ordinata da Caterina, comparsaassolutamente dal nulla.Sono inebetito, devo reagire ma non so proprio cosa fare. In ogni caso, anche se non so cosa fare, lodovrei fare davvero in fretta. Ho solo altri quindici minuti di pausa pranzo, e non voglio rientrare inritardo. Questa volta non è colpa della mia ossessione per la puntualità, è semplicemente per colpadel regolamento interno della Ditta, che obbliga un recupero serale minimo di mezzora anche per ilritardo di un solo secondo nel rientro dalla pausa pranzo. La leggera impronta di rossetto lasciata daMarina sul bicchiere di birra mi ricorda che tutto quello che è avvenuto è accaduto veramente, non èstato il frutto di nessuna fantasia. Marina qualche minuto prima era proprio lì davanti a me.Mi avvicino alla cassa, chiedo il conto e pago con la mia ultima banconota da 50 euro presente nelmio portafoglio e nel mio conto bancario. Vorrei pagare anche il conto dei due ragazzi, una speciedi piccolo risarcimento morale, ma davvero non posso. Metto via con cura il resto ed esco perstrada. Con quei soldi devo assolutamente arrivare almeno alla fine del mese, domenica compresa.Ho anche la dote di una buona manciata di spiccioli sparsi nelle tasche dei miei pantaloni, penso chece la dovrei proprio fare.Fuori posso tornare a respirare. E’ una bellissima giornata di Ottobre, il cielo è incredibilmentesgombro di nuvole e completamente azzurro, in contrasto alla grigia giornata piovigginosa di ieri.Dovrei seguire il consiglio di Marina, mollare tutto ed andarmene al mare, ma devo sgomberare ilmio vecchio ufficio, prendere le mie cose e trasferirmi nella nuova scrivania che mi aspetta nelmoderno open space della nuova sala macchine. Fare conoscenza dei miei nuovi colleghi. Allungoun po’ il passo, gli uffici della mia Ditta sono dall’altra parte della città. Alzo gli occhi per vederel’ora sul grande campanile che domina il lungofiume. Mi tranquillizzo, ho molto più tempo diquanto credessi. Arriverò per tempo.Attraverso il ponte e mi butto giù per il corso più in della città. Una specie di borgo antico sul qualesi affacciano negozietti, librerie, studi di noti professionisti, banche ed alcune Facoltàdell’Università.Mi lascio trasportare dalla folla, con le parole dette da Marina che ancora mi corrono su e giù per lostomaco. Arrivo ad una piazzetta, esattamente nel centro nel senso della lunghezza del borgo, metapreferita dei miei pomeriggi da studente universitario, anzi la meta preferita di tutti gli studentimaschi dell’ateo, infatti in quella piazzetta c’è l’ingresso principale della facoltà di Lettere eFilosofia notoriamente frequentata dalla maggior parte da ragazze. Avvicinandomi osservo il via vaidegli studenti. Mi ritornano a gola i ricordi delle mille volte ho aspettato proprio in questo postoMarina uscire da quel portone.C’è la solita folla, ragazzi e ragazze seduti sui gradini indaffarati nei loro traffici, e la solitaammucchiata di vecchie biciclette rubate e rivendute per pochi euro.«Signore, per favore una firma!» Mi sveglio dal torpore. Una ragazza mi indica la piccola scrivania,all’interno dell’ingresso della Facoltà. Faccio finta di niente ma subito un altro ragazzo,teletrasportato in quella piazzetta da una macchina del tempo direttamente dagli anni settanta,insiste nel chiedere il mio intervento per salvare il mondo da qualcosa di terribile: «Signore perfavore una firma, è importante!». Li scruto entrambi con attenzione. Lei trascurata, malvestita con icapelli sporchi e cotonati ma oggettivamente molto carina, lui con barba lunga, maglione di lanagrossa in tinta unita e con l’immancabile sciarpa rossa di protesta a corredo. Noto delle piccolebriciole di pane sia sulla barba che sul maglione: «E per cosa dovrei firmare?» gli chiedo. Laragazza con un moto di sufficienza e con davvero poco rispetto per la differenza di età mi indicaalzando il mento un tabellone attaccato nell’ingresso dell’ateneo: «devi firmare per quello!».Attaccato alla parete, proprio sotto la targa della facoltà di Lettere e Filosofia, c’è un cartello con

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sopra scritto a mano con un pesante pennarello blu questa frase: «Centro Raccolta Firme per lostupro delle donne nella guerra nei Balcani». Lo rileggo una seconda volta per sicurezza e mirivolgo ai ragazzi adesso seduti dietro la scrivania con la penna in mano pronta a raccogliere la miafirma: «poverine, già hanno la guerra ed i loro problemi, poi facciamo anche una petizione per farleviolentare, non vi sembra di essere un po’ troppo crudeli con loro?» L’espressione del ragazzocambia di colpo. Adesso non è più così amichevole. Ha la fronte bassa, gli occhi troppo vicini tra diloro per poter sembrare intelligente: «Non hai capito, noi lottiamo per salvarle! Siamo contro laviolenza! Cosa vuoi dire eh? Siamo pacifisti noi! » Si alza e mi viene vicino, sfidandomi, con i suoi15 centimetri di altezza e buoni 40 kg in meno. E’ già pronto a saltarmi al collo, aspetta soltanto unapiccola reazione da parte mia. Non ho voglia di fare a botte con un rinsecchito studentello di letterefuoricorso, e con il tono di voce più calmo e rassicurante che trovo, indicandogli il cartellone dico:«Scusate se mi avete frainteso, volevo solo dire che sarebbe stato meglio scrivere “contro lostupro”, invece che “per lo stupro”, ma poi se volevate fare le cose proprio per bene,probabilmente la scritta migliore poteva essere “per la lotta contro lo stupro”, non vi sembra? Inogni caso adesso non posso firmare, ma grazie lo stesso, sono terribilmente in ritardo e devoscappare. Dopo, quando esco dal lavoro, se ci siete ancora passo di nuovo. Promesso!». I dueragazzi si guardano tra di loro, e poi guardano insieme il cartellone. La ragazza, spazientita si alza elo va a togliere: «adesso lo riscrivo come hai detto te, contento?», gettando un’occhiatacciainceneratrice al suo amico mentre gli bisbiglia un rimprovero incomprensibile. Sparisce dentroun’aula li vicino. Il ragazzo adesso ha la stessa mia identica espressione di tristezza assoluta, mi siavvicina, stavolta con fare dimesso e mi dice: «Ma cosa gli avrò fatto di male io a quella. E’ semprecosì con me. Mi accusa sempre per ogni cosa, sempre. Perché? Cosa le avrò fatto di male?». Quantosono lontani dai miei gemellini con giacca e cravatta di ordinanza.

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Capitolo UnoOttava parte:

Arrivo in Ditta. Riesco pure a timbrare il cartellino con qualche minuto di anticipo, nonostante letravagliate vicende della guerra nei Balcani.La sala macchina è al piano terra del fabbricato, mentre il mio vecchio ufficio è al secondo. Salgo ledue rampe di scale, e mi fermo davanti alla porta a vetro. Non è un grande ufficio il mio o un ufficioestremamente funzionale, sono solo due metri per quattro ricavati in uno spazio non utilizzato eisolato dal resto dell’ambiente da dei pannelli prefabbricati. In ogni caso una piccola oasi felicenell’era moderna degli open space. Un’altra di quelle tante innovazioni importate nei nostri modellisenza pensarci su troppo. Apro la porta ed entro. Immediatamente avverto subito un fastidiogenerato da un forte odore dolciastro, odore di cui non riesco ad intuire l’origine e l’essenza. Odoreche non c’era quando ho lasciato il mio ufficio poco prima.Lascio la porta aperta ed arrivo alle finestre che danno sul cortile e le apro. Mi affaccio per vederese non ci sia nessuno che fuma la sotto, non vorrei peggiorare la situazione. Dalle cose che scorgosulla mia ex scrivania scopro che il mio successore ne ha già preso possesso. Foto con moglie efiglio rinchiusa in una ordinaria cornice di plastica bianca, computer portatile, raccoglitori pieni discartoffie. Nello spazio tra la porta e la parete della stanza c’è una piccola scatola di cartone consopra incollato un foglio con il mio nome. E’ tutta la mia roba. L’hanno già preparata. Prendo lascatola e l’appoggio sul vecchio mobiletto dove, fino a poco tempo prima tenevo una piccolastampante a colori adesso guasta. Dentro la scatola ci sono tutte le mie cianfrusaglie raccolte in annidi vita da burocrate, gadget offerti da fornitori, oggettistica da ufficio non più funzionante c’è pureil mio un vecchio termometro a mercurio, compagno fedele di tanti raffreddori dovuti alle uscite dipesca in notturna. Lentamente il flusso d’aria generato dalla finestra aperta riesce a diluire l’odoredolciastro che non avverto quasi più. Mi guardo ancora intorno, cerco di capire, da tutti gli indizipresenti chi possa aver preso il mio posto. Dalla porta aperta vedo avvicinarsi una persona chericambia lo sguardo. Con un gesto amichevole prova a salutarmi, picchiettando con l’indice sulvetro della porta. Gli faccio cenno di entrare. Entra e si chiude la porta alle spalle. Istantaneamentelo stesso odore dolciastro e nauseabondo ritrova tutta la sua intensità originale: “Buongiorno” dice“sono l’ingegner Motta, mi hanno appena spostato in questo ufficio. Prima ero giù in salamacchine”.“In sala macchine? Uno scambio”, penso, “è stato fatto uno scambio”: “Salve” rispondo, ancorarimuginando sulla strana mossa del Direttore, “sono soltanto passato a prendere le mie cose, mavedo che sono già state preparate, le prendo e me ne vado subito”. Il tipo senza rispondermi mi siavvicina. Adesso questo odore dolciastro è davvero insopportabile. E’ un misto di una qualche salsain agrodolce tipica dei ristoranti cinesi, e l’acidulo di vestiti sudati portati da giorni, una misturamicidiale. Questa persona, l’ingegner Motta l’avevo già notata in passato in Ditta, ma solo oggi loconosco per la prima volta di persona, per di più chiuso dentro il mio vecchio ufficio due metri perquattro. Mi si avvina ancora, la sua presenza è proprio fastidiosa. E’ quel tipo di persone chequando ti deve dire una cosa si deve avvicinare quasi a sussurrarti le cose nell’orecchio, ha bisognodel contatto fisico per comunicarti i suoi segreti di toccarti per siglare una confidenza. Mi mette unamano sulla spalla e con un filo di voce, quasi sussurrando mi dice: “Mi dovrò occupare dellestrategie di sviluppo alternative della Ditta! Vede questo incarico me l’ha dato il Direttore inpersona. Il Direttore, lei capisce, vero!!!”. Si allontana un po’ per togliersi la giacca che appoggiasulla sedia destinata agli ospiti. Lo osservo meglio. Sono tanto incuriosito quanto schifato da questostrano personaggio. E’ vestito con una elegante camicia in tessuto scuro sulla quale porta benevidenziata una cravatta che termina con una punta talmente larga da sembrare un tovagliolo. Siasulla camicia che sulla cravatta fanno bella mostra di se generazioni di macchie, l’una accavallataalle altre, sugo, caffè, sbrodolature di ogni tipo e di ogni dimensione. Mi sposto indietro, cerco diavvicinarmi più possibile alla finestra aperta. Appena mi muovo per allontanarmi da lui, il mioospite, girando intorno alla scrivania, si frappone tra me e l’unica sorgente di aria respirabile, la

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finestra aperta. Mi torna ancora vicinissimo, quasi fino a sfiorarmi, stavolta mi prende per unbraccio e avvicinandosi ancora di più (per un attimo ho pensato che mi volesse baciare) mi dice: “IlDirettore in persona, ma ci pensa!!! Finalmente si sono accorti del mio valore, se si è scomodato ilDirettore”. Sono all’angolo. Non ho più nessun modo di sfuggire da questa morsa micidiale. Lascrivania da una parte, e lui dall’altra, proprio davanti alla finestra, non ho nessuna possibilità difuga, a meno di non scavalcare la scrivania con un salto, o passarci di sotto carponi. Il sole che filtradalla finestra aperta illumina di taglio la camicia in tessuto scuro perfettamente stirata. Mi chiedocome si possa stirare una camicia che non si lava da settimane in maniera così perfetta e maniacale.In prossimità dell’attaccature della maniche noto il disegno formato dall’intrigo aloni lasciati dalsudore di tanti giorni diversi. Sulla camicia, fa pure bella mostra di se la cifra “C.M.” ricamata acaratteri dorati proprio sotto il taschino. Mi chiedo da quanti giorni, quella camicia non vengalavata, e sopratutto il perché. L’odore che sta saturando il vecchio e violentato ufficio è proprioquello, una mistura micidiale tra sudore inacidito e da una dose incredibilmente generosa diprofumo dozzinale comprato nel primo discount e utilizzato a copertura senza risparmio.Lentamente la tenaglia che mi obbliga a subire tutto questo si allenta, e posso provare a fuggire.Senza dire niente o inventare scuse prendo la scatola con la mia roba e mi avvicino alla porta.Uscendo, con curiosità morbosa, getto un’occhiata verso la foto che ha sulla scrivania. Una bellasignora bionda vagamente somigliante a Stefania Sandrelli, ha in braccio un bimbo. Senza che gliabbia chiesto niente l’ingegner Motta, la prende e me la porge con gentilezza: “E’ il secondo, sichiama Stefano, ha fatto due anni a Settembre. E’ proprio un bel bimbo eh?” Prendo la foto e laguardo con più attenzione. E’ propria bella come foto, infonde serenità ad osservarla. Mi chiedocome facciano a stargli vicino tutto il giorno. Sopratutto come è’ possibile che lei sopporti tuttoquesto. Non posso credere che sia sua complice. Senza aggiungere niente la poso esattamente doveera sulla scrivania.Apro la porta, e mi volto a guardare per l’ultima volta quello che è stato il mio rifugio per anni:”Arrivederci ingegnere, per favore lo tratti bene, mi raccomando”. Esco badando di chiudereermeticamente la porta alle mie spalle. Senza esitare mi dirigo nell’ufficio del Direttore per esigerespiegazioni. In Ditta sono uno dei pochi dipendenti, forse l’unico, che può permettersi di andare dalDirettore senza un appuntamento. Arrivo davanti al suo ufficio, lascio la scatola con tutti le miecianfrusaglie sulla scrivania della segretaria ed entro, bussando appena per far capire che stoarrivando. Appena il Direttore mi vede, mi saluta con un cenno della mano dicendomi: “Daahavidè,vieni entra pure e chiudi la porta. Come ti trovi nel tuo nuovo posto, eh?”. Rimango sulla porta,senza avvicinarmi e gli rispondo: “non sono ancora andato, sono solo passato dal mio ufficio perprendere le mie cose”. Poi, lentamente mi avvicino camminando sulla soffice moquette, nella stanzaperfettamente insonorizzata e climatizzata e gli chiedo: “Ma dove lo avete trovato quello?” IlDirettore, con una mezza risata mi risponde: “Eh!? Hai capito perché l’abbiamo dovuto togliere dadove era. Ormai si rischiava un’insurrezione. Se potevo l’avrei licenziato, ma sfortunatamente non èpossibile licenziare un dipendente solo perché non si lava, o che non si cambia mai d’abito. L’hodovuto spostare in un posto isolato, il posto più lontano possibile da tutte altre persone, ed il tuoufficio mi è sembrato sicuramente il posto migliore, scusa mi dispiace”. Il mio Direttore, come delresto tutti i Direttori non guarda mai in faccia a nessuno per risolvere un problema in Ditta. Almenolui lo fa senza reticenze, divertendosi pure. E’ quello che apprezzo in lui, come lui credo che di meapprezzi sopratutto la mia estrema ed assoluta sincerità. Il mio modo di comportarmi sempresecondo una mia etica precisa. Due caproni a confronto. Arrivato alla sua scrivania mi metto asedere e gli domando: “So già che non mi risponderà, ma io la domanda la faccio lo stesso. Perchéc’é stato questo scambio? La mia non è sicuramente una promozione, e non mi è mai sembrato diaver fatto qualcosa di sbagliato in tutto il tempo che ho lavorato per Lei, anzi!”. Adesso il Direttoresi fa serio, apre un cassetto della sua scrivania, prende dei fogli per mostrarmeli, ma poi ci ripensa,li posa e richiude il cassetto: “Davide” con un tono solenne e preoccupato senza distorcere il mionome, “Adesso non posso dirti niente di più, ma sappi che c’è una ragione precisa dietro a questospostamento. Lo so che quello che vai a fare non è un bel lavoro, ma devi aver pazienza. Purtroppo

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tra non molto le cose saranno più chiare e capirai cosa c’è veramente dietro a questa faccenda. Midispiace ma di più non posso dirti, davvero, ti chiedo solo di fidarti di me. Alla fine capirai e per tesi apriranno prospettive nuove ed interessanti”. Resto a guardarlo per un qualche secondo senza direniente. E’ vero, penso, c’è qualcosa di grosso dietro, non l’ho mai visto così serio, ma l’unica cosache posso fare è adeguarmi e fare quanto mi chiede, del resto come faccio sempre: “Bene, aspetterò.Ora vado!”. Ci salutiamo, prendo la scatola di cartone con tutta la mia roba, chiedendomi se nelnuovo posto avrò ancora tutta la libertà che avevo prima nel poter utilizzare il mio computer edinternet senza farmi vedere da nessuno.Incredibile, sono stato barattato per centottanta euro lordi il mese e per una qualche ragione oscurache al momento non posso conoscere, anche se ho intuito che è sicuramente qualcosa di molto diserio da non sottovalutare. Scendo le due rampe di scale senza incontrare nessuno ed arrivo nel mionuovo ufficio.La sala macchine è stata ristrutturata, pur utilizzando lo stesso spazio angusto di 14 anni fa. E’ statoaggiunto un contro soffitto con pannelli insonorizzanti per smorzare il rumore di fondo, ed al postodel vecchio pavimento di mattonelle bianche quadrate adesso c’è un bel piano di metallo lucido, cheriflette la luce dal basso. Quando ci si passa sopra sembra quasi di essere sospesi a mezz’aria.Solo l’ingresso è rimasto uguale, una piccola porta in legno laminato. Nell’angolo opposto rispettoall’ingresso, costruito con gli stessi pannelli prefabbricati del mio, c’è l’ufficio del capo, del mionuovo, spero provvisorio capo. Alla destra ed alla sinistra rispetto alla ipotetica diagonale costruitatra l’ufficio prefabbricato, e l’ingresso dove sono ora, ci sono due postazioni di lavoro costruite da 4scrivanie contrapposte a due a due, separate soltanto da un piccolo pannello in legno non alto più di40 centimetri. Delle due finestre, l’unica utilizzabile è quella rimasta all’interno dell’ufficio. L’altraè stata bloccata per impedire che aprendola potesse interferire con la struttura delle scale diemergenza costruite all’esterno dell’edificio. Entro, e nessuno fa caso a me, tutti concentrati sui loromonitor accesi. Esattamente la stessa aria che c’era 14 anni fa. Non è cambiato assolutamenteniente. Aiutandomi con la planimetria del Direttore mi avvicino al mio posto. Sono nella struttura amargherita a sinistra rispetto alla porta, proprio di fronte all’ingresso dell’ufficio del capo. La primacosa che provo a controllare è se dall’interno del suo ufficio, si possa vedere il monitor del miocomputer. Purtroppo si, e sono nella posizione peggiore, perché lui può vedere me, ma io, dischiena non posso vedere lui. Un fatto positivo è che nessuno altro dei miei colleghi presenti è ingrado di sbirciare quello che faccio.Due dei tre posti della mia zona sono occupati da due ragazzi meno fortunati di me perché dando lespalle al centro della stanza chiunque è in grado di vedere cosa stiano esattamente facendo in unqualunque momento del giorno. Sembrano però due ragazzi molto tranquilli. Il quarto posto, quellodavanti a me è libero.Mi metto seduto, e mi guardo intorno. Mi sento come se avessi semplicemente fatto un salto inavanti nel tempo di 14 anni. Di quanto accaduto nel mezzo non c’è già più traccia. Mi alzo e mipresento ai miei nuovi colleghi di lavoro. Ho l’impressione, non troppo velata che sembrano tuttimolto più sollevati per aver perso l’ing. Motta piuttosto che essere felici nell’avermi conosciuto.Sono soddisfatto, non mi aspettavo nulla di più.

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Capitolo UnoNona parte:

La mia nuova postazione di lavoro è già perfettamente funzionante. Al posto del mio portatile,ormai troppo vecchio anche se ci ero davvero affezionato ne trovo un’altro nuovo, fisso stavolta,perfettamente formattato, con i soli programmi standard istallati sopra. Fortunatamente mi sonofatto una copia di tutte le istallazioni che mi interessano. Ben in evidenza sul desktop c’è l’iconadella Policy Aziendale. Una presentazione che tenta di spiegare il corretto uso del computer. C’èanche la spiegazione di come funziona il nuovo filtro aziendale che consente l’accesso ad internetsolo a particolari indirizzi WEB, siti considerati utili per il lavoro. Leggo con curiosità tutte lepagine della presentazione, e non me ne preoccupo, so come funzionano questi filtri e so comesuperarli senza farmi scoprire. E’ veramente banale, ed è patetico il tentativo di oscurare e limitarel’accesso al web senza aver la più pallida idea di come funzioni una rete.Tutti i miei vecchi file di lavoro e personali adesso sono raccolti nella mia penna USB. Aspettanosolo di essere liberati e ritrovare la loro giusta posizione nell’HD vergine del PC. Copio i file dallapenna in una cartella provvisoria e inizio la ricostruire quello che una volta era il mio archiviopersonale. All’improvviso uno dei due ragazzi con cui divido la margherita, attira la mia attenzione:“Scusi, guardi!” già non si ricorda più come mi chiamo: “Guardi, c’è Fragioni che la stachiamando”, indicando l’ufficio prefabbricato del mio nuovo capo. Mi volto e vedo questa personasulla porta dell’ufficio, arrivata dal nulla con l’indice della mano sinistra puntato nella miadirezione mentre con altra mi sta indicando di entrare nel suo ufficio. Gesti che ricordano da vicinoquelli che i vigili urbani fanno per accelerare il traffico nei pressi di un incrocio o di un incidentestradale. Ecco, penso, adesso conosco quello che dovrebbe essere il mio nuovo capo. Rispondo conun sorriso mentre mi avvicino. Alto, con giacca e cravatta grigia intonata all’arredamento triste edinformale del suo ufficio, capelli neri corti, e barba ben curata, stranamente senza nessun pelobianco nonostante abbia sicuramente più di cinquant’anni. Arrivo sulla porta del suo, ufficio, e losaluto presentandomi: “Buongiorno, sono Davide Sole, mi hanno trasferito qui da oggi”. Non mirisponde e mi fa cenno di entrare indicandomi la sedia di fronte alla sua scrivania: “Si metta pure asedere”. Non chiude la porta, e va a sedersi sulla sua sedia, dall’altra parte della scrivania.Guardandomi diretto negli occhi, e sollevando appena la testa indietro, come per guardarmidall’alto in basso, con tono davvero informale mi dice: “Sono il sig. Frangioni, il suo nuovoResponsabile Diretto. Lei da oggi è sotto di me. Come le avranno già detto si dovrà occupare dellaparte gestionale ed amministrativa di questo nuovo Progetto”. E tira fuori da raccoglitore unacartellina di cartone rigido piena di fogli che appoggia sulla scrivania: “Che cosa ha seguito fino adoggi in Azienda? Computer? Inglese?”. La mia prima impressione su di lui, purtroppo è confermatain pieno. Persona sgradevole, senza umorismo, talmente piena di se da considerare un essereinferiore chiunque gli stia davanti. Ho abbastanza esperienza per capire che mi devo muovere conprudenza. Mi ritrovo in una situazione paradossale dove io devo raccontare ad un altro cosa faccioin azienda, ma mi adeguo partendo con cura meticolosa dal mio primo giorno di lavoro fino a fino aquel momento. Arrivato circa a metà racconto vedo Frangioni, abbassare la testa in avantiincassando il volto tra le spalle chiudendo per un attimo gli occhi contemporaneamente ad unpiccolo sussulto. Riprende la posizione normale, sposta la mascella in avanti ed emette, soffiandoverso di me, il frutto di tale sussulto. Un vomitevole odore di cibo in fase di digestione mi prende inpieno. “Cazzo! Mi ha ruttato in faccia!”, penso. Sono sempre più spiazzato. Il disagio di trovarmi inquella situazione si trasforma ben presto in rabbia, e la rabbia in aggressività. Faccio fatica acontrollarmi. Cerco di finire in fretta il racconto del mio passato in Ditta, quando stavolta ilFrangioni, tirandosi indietro sulla sua seggiola alza le braccia che incrocia dietro la testa. Resta inquesta posizione per qualche secondo, dopodiché sbadiglia senza pudore con la boccacompletamente spalancata. Uno sbadiglio profondo, con relativa colonna sonora fatta di sussulti egemiti intermittenti.

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Questa volta non resisto e interrompendo il mio racconto con un tono di rimprovero gli dico: “Disolito, sig. Frangioni, quando una persona sbadiglia si copre la bocca con una mano, di solito”.Frangioni esterrefatto mi guarda con gli occhi sgranati, buttandosi in avanti sbattendo i palmi dellemani violentemente sulla scrivania. Urla in modo che tutti gli altri nell’ufficio possono sentirechiaramente quello che mi dice: “Ma come si permette di rivolgersi così a me! Chi gli ha imparato aLei l’educazione. Io le persone maleducate proprio non le sopporto, chi gli ha mai detto che puòrivolgersi così un suo superiore, eh? Per di più una persona più anziana. Io queste manifestazioni dimaleducazione non le sopporto, proprio”, ripete. Si alza di scatto, va verso la porta dell’ufficio,urtando la mia spalla destra con violenza, apposta, e non un gesto deciso la chiude sbattendolaviolentemente. Tutta la struttura prefabbricata dell’ufficio trema e rimbomba per l’urto: “Si scordidi dove era prima, perché qui da noi si lavora e si rispetta chi si ha di fronte!”. Ritorna a sedere,prende la cartellina e la getta verso di me. La cartellina prima sfiora il bordo della scrivania, poiurtando le mie gambe si apre, lasciando cadere parte del contenuto per terra: “Capirà come funzionaqui. Esigo educazione e rispetto da tutti i miei sottoposti”. Senza dire niente sposto la sedia dallascrivania e raccolgo tutti i fogli sparsi per terra. Tutto il mio corpo trema paurosamente dalla rabbia.Io sono un tipo vendicativo, non sono in grado di fare la guerra in campo aperto. Preferiscoprendermi le mie rivincite in altro modo e sopratutto non replico mai in nessun modo alleprovocazioni che ricevo: “Adesso può andare, in quella cartellina ci sono le istruzioni per le suenuove mansioni e le scadenze da rispettare. Se ne vuole parlare con me, prenda prima unappuntamento dalla segretaria”. Adesso non urla più, non è più necessario, le pareti prefabbricatesono insonorizzate, e gli altri impiegati non potrebbero sentire niente di quello che sta dicendo,inoltre ha già marcato il suo territorio come fanno i cani, la sua superiorità, almenoistituzionalmente parlando.Esco dall’ufficio e torno al mio posto con lo sguardo basso per la vergogna e la rabbia, trattenendo astento le lacrime. Mi metto a sedere per pensare, devo riflettere a fondo, capire come comportarmi.Mi volto per controllare se Frangioni stia guardando da questa parte oppure no. Lo vedo mentre sista preparando per uscire, per andare in una qualche ed inutile e misteriosa riunione di lavoro.Aspetto che esca e mi metto al lavoro sul mio PC. Ho ancora un account funzionante di un dirigentedel personale andato in pensione anni fa. Dovevo cancellarlo quando ero il responsabile dellagestione degli dati personali di tutti i dipendenti, ma non l’ho mai fatto. Avere un accountfunzionante di un Dirigente dell’ufficio personale è sempre molto utile, permette un sacco dioperazioni sulla propria scheda che nessuno si immagina. Mi autentico sul sistema e vado a vederela mia pagina delle timbrature di entrata e uscita. Sposto indietro la quella del mattino alle 8.00, inmodo da permettermi di uscire alle 17.00 in punto senza dover recuperare il ritardo mattutino ed inpiù inserisco per il giorno dopo una giornata di ferie, regolarmente vistata dal mio precedenteresponsabile. Questo account è una miniera d’oro, ma deve essere usato con attenzione.E’ praticamente impossibile scoprire questi trucchi, ma è sempre meglio essere prudenti. Finisco disistemare i miei vecchi file ed arrivo alle cinque. Apro la mia cartellina del mio progetto da seguiree lascio i fogli sparsi sulla scrivania, ed esco dall’ufficio e dall’Azienda senza salutare nessuno. Ilsole è sempre alto.Cammino distratto per strada e penso con malinconia a quando, tra non molto, verrà tolta l’oralegale. Da quel giorno in poi dalla Ditta potrò uscire solo quando sarà buio. Dovrò aspettare finoalla prossima primavera per rivedere la luce del sole dopo il lavoro. Non ho voglia di tornare subitoa casa. Caterina è scomparsa dai miei pensieriDecido di dar sfogo a alla crescente malinconia rivisitando i posti che frequentavo durantel’Università, le paninoteche e birrerie ed i pub, dove con le mie vecchie 5mila lire era ancorapossibile mangiare in compagnia di amici ed amiche. Dopo un infinito numero di anni passo puredalla sala corse, dove in poco più di 20 minuti brucio però gli ultimi soldi del mese. Passo puredalla panchina dove io e Marina ci siamo baciati per la prima volta. Lo devo proprio fare, ogni tantosono costretto a pagare il mio tributo al passato. Controllo se ci sono dei messaggi in arrivo sulcellulare e decido di tornare a casa. Non ho più notizie di Caterina dall’ora di pranzo. Sembra

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davvero sparita nel nulla. Mi immagino che sia a casa, e che mi sta preparando una cena a sorpresa,ho davvero proprio bisogno di un gesto affettuoso dopo una giornata come questa carica diavvenimenti.Arrivo alla stazione, e salgo sul treno dei pendolari. Mi lascio cullare dal vagone per tutto ilpercorso, dodici minuti al mattino ed altrettanti la sera. Riesco anche a dormire un po’. Della rabbiaesplosa dall’incontro con Frangioni non c’è più traccia. Vado direttamente a casa, senza fermarmi afare un po’ di spesa, tanto non serve.Il mio, è un piccolo appartamento al piano terra, con un lungo corridoio, centrale dal quale si apronoa circa la metà, una di fronte all’altra due porte. La cucina ed a un piccolo salotto con un tavolotondo comprato ad un’asta fallimentare quella di sinistra, la camera da letto, ed uno piccolo studiocon la libreria, una scrivania ed il computer l’altra. C’è anche un piccolo bagno dalla parte dellacamera. Il corridoio di ingresso termina con un’altra piccola porta che si affaccia su un minuscologiardino rinchiuso da palazzoni moderni costruiti durante il boom economico degli anni 50.Caterina non c’è, come non c’è neanche tutta la sua roba, ha davvero mantenuto la promessastavolta. Appena entro in casa la mia adorata gattina sentendomi mi si fionda incontro attraverso levecchie e un po’ arrugginite sbarre di ferro della finestra in cucina che si affaccia sul minuscologiardino. E’ l’ora della sua cenetta.La lettiera è perfettamente pulita, e la ciotola è ricolma dei suoi croccantini preferiti. Accanto aquesta, l’altra ciotola piena di acqua pulita e trasparente. Caterina prima di andarsene deve averlesistemate con cura. Faccio il giro della casa per controllare meglio. Nessuna traccia né di Caterinané della sua roba, non ci sono più le piante ed il pesce rosso. Finalmente, penso, avrò la serata tuttaper me, senza che lei mi rimproveri per ogni cosa che faccio o che dico, o per il tempo perso agiocare al computer. Vado in camera da letto, lascio le scarpe in mezzo alla stanza, sulla moquette,e mi spoglio gettando i vestiti a caso sul letto. Accento lo stereo e mi metto il mio pigiama preferito.Apro una bottiglia di vino bianco e me ne verso un bel po’ in un boccale da birra. Caterina miavrebbe ucciso per questo. Ritorno nello studio. Adesso sono pronto a gustarmi la mia serata,finalmente libero.

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Capitolo due.Prima parte:

Durante il week-end non ho sentito Caterina, non si è mai fatta viva. Né una telefonata, né unmessaggio, niente, nessun cenno di vita. E’ sparita completamente, svanita nel nulla ormai daquattro giorni. A pensarci bene non mi manca assolutamente, e stranamente non mi manca neancheMarina, averla incontrata, aver sentito dalle sue labbra che era incinta di un altro ha completamenterimosso il mio interesse per lei. Non riesco però a capire se si tratta di un disinteresse passeggerooppure se presto tornerà nei miei pensieri, come credo.Mi sveglio presto e seguo i gesti ripetuti ogni giorno, per ogni giorno degli ultimi quattordici annisenza nessuna motivazione, senza nessuno stimolo. Sveglia alle sette, colazione nel bar vicino acasa, l’annuncio del consueto ritardo del treno dei pendolari, il breve tragitto verso la città. Arrivoin Ditta e mi ritrovo seduto chissà come alla mia nuova postazione, con i fogli della cartellina delmio progetto da seguire ancora sparsi esattamente come li avevo lasciati, nessuno li ha toccati.Posso dire questo perché nel corso degli anni ho elaborato un metodo per verificare se qualcunocontrollasse o leggesse i miei documenti, sovrapponendo in modo particolare gli angoli dei fogliapparentemente sparsi per caso sulla scrivania, in modo da verificare con una rapida occhiata sefossero stati toccati da qualcuno al mio rientro la mattina successivaRaccolgo questi fogli e prima di rimetterli nella cartellina cerco di capire cosa siano. C’è lafotocopia di una circolare interna firmata direttamente dall’Amministratore Delegato dove siufficializza la volontà di utilizzare il finanziamento europeo per l’ammodernamento del sistemainformatico della Ditta, e una piccola pubblicazione con la copertina bianca di non più di ventipagine scritta in doppia lingua, inglese ed italiano con sopra il simbolo della Comunità Europea,probabilmente il bando di concorso. Trovo pure alcuni indirizzi di siti internet della ComunitàEuropea da visitare per approfondimenti. C’è anche, dentro una busta gialla personalizzata con illogo aziendale un modulo da compilare, e firmare per presa visione ed accentazione dal titolo:“Richiesta accessibilità siti internet per scopi lavorativi”. E’ un documento da riempire con gliindirizzi web necessari per il proprio lavoro, da far firmare dal proprio responsabile per ottenernel’accesso al web in modo ufficiale dal proprio computer solo per questi siti particolari. Trovo pure ilmio mansionario, con le varie scadenze legate ai passaggi autorizzavi necessari per ottenere ilfinanziamento, ed un ultimo foglio che è una specie di regolamento interno probabilmente redattodal Frangioni, scritto in un italiano davvero scolastico e stentato.Mi soffermo su questo su questo ultimo documento dove vengono ricordate le principali regole daseguire estratte dal più ampio Regolamento Aziendale, con l’aggiunta, successiva di alcuneprecisazioni. Tra le altre, di particolare perversione risulta essere la precisazione che, “essendonecessario lavorare per almeno due ore consecutive prima di effettuare una pausa di dieci minuti, è“palesato” che questa potrà essere “usufruttata” solo dopo le ore dieci, di conseguenza le pauseeffettuate “precedentemente” non sono in linea con il regolamento”. C’è anche la precisazione chel’uso di internet a scopi personali è tassativamente proibito anche durante l’ora della pausa pranzo eanche “per scopi lavorativi l’uso continuativo è profondamente sconsigliato”. Davvero bizzarra è laprecisazione che non è possibile adoperare apparecchi ”elettronici e audiovisivi” durante l’orario dilavoro, come se qualcuno si portasse da casa una tv da 22 pollici. Geniale, per il personaggio è ladescrizione dei punti di “demerito” che ognuno di noi accumulerà se scoperto ad infrangere ilregolamento. Ogni 3 punti di demerito c’é un richiamo ufficiale. Ogni 2 richiami ufficiali un giornodi sospensione, con relativo taglio dallo stipendio della giornata. In fondo al foglio c’e’ anche laclassifica aggiornata delle penalità. Per fortuna nessuno è vicino al giorno di sospensione, anche sequalcuno ha già sperimentato il richiamo ufficiale. Mi chiedo come sia possibile che accada tuttoquesto in un’epoca dove la comunicazione globale è l’elemento che riesce ad accomunare tutti gliessere umani di questo mondo. Un delirio assoluto, una evoluzione dell’assoluta mediocrità datadalla mancanza del contatto con il mondo esterno, il provincialismo fatto regola di vita. L’ebbrezza

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di quel potere che si è sempre subito e che adesso è possibile riversare sul nuovo venuto di turno. Intutto questo clima di oppressione e controllo c’è un qualcosa di positivo: il silenzio. Un silenzioassoluto dove nessuno si impiccia degli affari altrui, o prova ad alzare la voce.Mi guardo intorno, cerco di scoprire un po’ alla volta cosa stiano facendo i miei nuovi colleghi dilavoro. Scopro che i due ragazzi che dividono con me la postazione lavorano all’help deskaziendale, devono rispondere a tutte le domande che i clienti fanno sui nostri prodotti, sullegaranzie, sulle novità e sulle offerte, fortunatamente tutto per posta elettronica.L’altra postazione di lavoro, quella dall’altra parte della stanza è occupata da quattro persone, tutteun po’ in la con gli anni. Si dividono il lavoro di data entry, di smistamento e registrazione dellefatture e degli ordini, e ovviamente della gestione del magazzino e delle vendite, procedurafinalmente automatizzata su un mio progetto. Di vecchio c’e’ solo rimasta la solita aria triste dellaripetitività ed inutilità di quel lavoro, la stessa che avevo respirato tanti anni prima.La giornata scorre banalmente tranquilla. Dalla lettura del bando mi rendo conto di quanto lagestione di questo progetto sarà semplice. E’ un progetto europeo con un finanziamento a fondoperduto per tutte quelle Aziende che decideranno di modernizzare la propria rete informaticaadeguandosi ai nuovi standard di comunicazione. In effetti la nostra Ditta, con il suo vecchiosistema ha tutte le caratteristiche necessarie per ottenere quei fondi. La documentazione necessariaper avviare la pratica del finanziamento deve essere inviata entro il 31 Marzo dell’anno successivo.Ho davvero un sacco di tempo per capire cosa devo fare. Un tempo veramente più che sufficiente.Il librettino del bando ha nella seconda di copertina una custodia rigida vuota, uno spazio doveoriginariamente doveva essere contento un CD, che però adesso non c’è più. In quel momento notoFrangioni che sta uscendo dal proprio ufficio. Provo a fermarlo per chiedere delle spiegazioni: “Sig.Frangioni, mi scusi, nel bando di concorso ci doveva essere pure un CD, un disco, sa mica perchénon c’è più, e se è possibile avere una copia?”. Frangioni si ferma per un attimo osservandomiancora una volta in quel suo strano modo dall’alto in basso, inclinando la testa verso l’indietro econtemporaneamente inclinando lo sguardo verso il basso per mettere a fuoco il suo interlocutore:“Il disco l’ho tolto io, ed è stato gettato, sicuramente non serviva per il suo lavoro, mi sembra deltutto inutile ripeterle che non sono permesse divagazioni, o distrazioni, ed un CD non può chedistrarre, è per questo motivo che vi ho proibito l’uso delle apparecchiature audiovisive edelettroniche, non siete in grado di gestirvi.” ed esce dall’ufficio per andare chissà dove. Rimangobasito, ogni volta rimango scioccato da queste esternazioni del pensiero umano. Ma non ho vogliadi seccare nessuno con questa storia. Dal computer, che per adesso non posso ancora sentire mio,accedo direttamente sul sito internet del concorso per cercare di scoprire cosa contenesse questopericoloso CD mancante. In due minuti riesco a trovare la home page del progetto ed a scaricare ilcontenuto del CD, che come pensavo conteneva la modulistica necessaria per la presentazione delladomanda di accettazione. Con un semplice click del mouse decido di scaricarlo. Come sempre mitrovo rapito nell’osservare le variazioni del tempo necessario per il completamento del download, sipassa dai pochi secondi a qualche ora, per poi ritornare ai minuti, il tutto a seconda delladisponibilità di banda delle rete aziendale, un ballo davvero divertente. Così divertente che non mirendo nemmeno conto che Frangioni rientrato in ufficio sta pesantemente bussando sul vetro dellaporta del suo ufficio indicando e chiamando il sig. Brasso, un abitante dell’altra misteriosa isola,alla stessa maniera con cui aveva chiamato me il mio primo giorno: “Oooooh! Brasso!” non urlandoma comunque a voce più alta del necessario: “Brasso, sto ancora aspettando il report dellaproduzione dai nostri uffici esteri, verifichi perché non mi sta arrivando. L’aspetto nel mio ufficioappena ha fatto, tra qualche minuto”. Senza un “grazie” o una qualunque altra forma di cortesiasparisce la dentro chiudendo pesantemente la porta. “Dai nostri uffici di all’estero?” penso, micasono tuoi gli uffici all’estero, ma che tipo di personaggio è? Come è possibile essere cosìperversamente ostili e arroganti e sopratutto stupidi?Il sig. Brasso si alza dal proprio posto di lavoro e si porta nel centro della stanza, sufficientementelontano dall’ufficio chiuso di Frangioni per non farsi sentire o vedere: “E come faccio io a scoprireperché questo report non è ancora arrivato? Poi, non so neanche l’inglese, non posso telefonare per

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sentire come mai e poi, perché lo chiede sempre a me di fare queste cose eh? Non lo sa che non loso fare?” Immediatamente mi rendo conto, che questa richiesta di lavoro così perversamentearticolata non è casuale. Non è’ stata fatta per necessità, ma solo semplicemente per mettere indifficoltà il sig. Brasso, umiliarlo davanti a tutti, per rimarcare la sua netta superiorità ed autoritàassoluta.Decido di intervenire per aiutare il mio nuovo collega in evidente affanno: “Scusate se miintrometto” dico a tutti, “ma il Frangioni fa spesso queste richieste?” Matteo, uno dei due ragazziche mi siede vicino, risponde: “Seeeh! Figurati, questo non è nulla, dovresti vedere quando siarrabbia con noi perché regolarmente non riesce ad aprire resoconto dei nostri interventi di garanziache gli mandiamo tutti i giorni. Ogni volta gli dobbiamo spiegare che quello è un file che deveessere aperto con un’altro programma e non con quello che sta utilizzando in quel momento. Ed èchiaramente è sempre colpa nostra!”.Mentre ascolto la risposta di Matteo mi accorgo che il sig. Brasso, adesso sta guardando nella miadirezione in modo supplichevole, senza però chiedermi nulla. Cosa vorrà? Devo telefonare io perlui? In ogni caso avevo già deciso di aiutarlo. Senza dire nulla, provo ad aprire una connessionediretta FPT con l’estero, giusto per verificare lo stato della linea. Provo un paio di volte, ma inentrambi i casi non riesco a connettermi, è probabile che non ci sia linea dall’altra parte. Mi ricordodi un sito internet che è in grado di indicare, in tempo reale lo stato della rete in qualunque parte nelmondo, e nel caso ci sia qualche interruzione riesce pure ad indicarne anche il motivo. Verifico, escopro che gran parte della città sede dei nostri uffici esteri è priva di corrente elettrica da oltre 12ore. Ecco perché non arrivava il report del Frangioni! Per un problema semplice e banale, non c’ècorrente elettrica. Stampo il risultato della ricerca, e mi alzo per andare a prendere il foglio, nellastampate comune a tutti sistemata accanto all’ufficio di Frangioni, proprio sotto la finestra cheadesso non è possibile aprire, prendo il foglio e lo porgo al sig. Brasso dicendo: “Sig. Brasso, nonhanno corrente elettrica da 12 ore, è per questo motivo che non arriva il report. Non possonospedirlo, probabilmente l’ufficio è anche chiuso. Le ho anche stampato una pagina con l’eventualeorario di ripristino della corrente a seconda della zona della città”. Prendo il foglio e glielo mostro:“Vede, la corrente nella zona dove ci sono gli uffici della Ditta dovrebbero ripristinarla tra poco, quidice al massimo tra due ore”. Anche Matteo incuriosito si alza e ci raggiunge. Lascio al sig. Brassoanche il secondo foglio e mi torno verso il mio posto nello stesso preciso istante in cui si sente lavoce di Frangioni che affacciato alla porta del suo ufficio ci dice con un tono severo di rimprovero:“E adesso che cosa facciamo qui? Una festa? Cos’è tutto questo via vai?”. Il sig. Brasso, con i mieifogli in mano trionfante gli si avvicina e mostrandoli gli dice ad alta voce allo stesso modo, il modoin cui tutti possono sentire: “Guardi cosa ho scoperto Signor Frangioni, il Report dai nostri ufficiall’estero non può arrivare perché non c’è corrente, vede stavo giusto spiegando ai colleghi come èpossibile scoprire queste informazioni, sa sono giovani e tante cose ancora non le sanno, se vuolesapere le cose sicure le chieda sempre a me, Signor Frangioni” Il sig. Frangioni gli strappa di manoi fogli, gli da una rapida lettura e risponde, senza nessun particolare tono nella voce, adesso piùcalma: “Bene, però tornate tutti a lavorare, adesso”. Il sig. Brasso, senza guardarmi, e senzaguardare nessuno altro ritorna al suo posto. Getto un’occhiata interrogativa sia a Matteo che aGiacomo, i miei compagni di scrivania. Giacomo, che fino a quel momento era stato zitto adosservare la strana scena ricambia il mio sguardo e mi dice: “Lo so Davide, qui sembra che funzionicosì, ognuno in lotta contro l’altro. Mi dispiace”, sorpreso da questa sua risposta gli dico: “E percosa ti devi dispiacere Giacomo? Mica è colpa tua se qui le persone sono così senza nessun rispettoper niente e nessuno!” Mi siedo e mi metto ad osservare il sig. Brasso. Adesso è lì tranquillo, senzanessuna espressione particolare del volto. Lo osservo con attenzione mentre sta violentando latastiera del suo computer, premendo un tasto alla volta, con il solo dito indice della mano destra, stasolo aspettando le 5 del pomeriggio per scappare via, esattamente come me. No, penso, non sono enon posso essere arrabbiato con lui, lui è semplicemente il risultato del lavoro del Frangioni, che asua volta è diventato così perché ha subito le stesse angherie da un altro Frangioni qualunque.

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Mi chiedo se mai un giorno potrò arrivare fare anch’io una cosa del genere, comportarmi in modocosì scorretto con un collega di lavoro. Mi sembra veramente impossibile, e mi rispondo con unsicuro “no, non potrei mai!”.

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Capitolo secondoSeconda parte:

Il lunedì sera non ho mai troppe cose da fare. Spesso rimango più del solito in ufficio, non perqualche ispirazione stacanovista-masochista, ma solo perché non ho altro da fare e non voglia ditornare a casa troppo presto per poi trovarla vuota, gattina a parte. Mi scoccia ammetterlo maCaterina comincia a mancarmi, anche se non è giusto dire così. Non è Caterina che comincia amancarmi è il ruolo che Caterina aveva nella mia vita che comincia a mancarmi.Caterina era in grado di riempire ogni momento libero della mia giornata, e di conseguenza farmigustare ogni piccolo istante strappato al suo dominio ed alla sua presenza. Che gusto c’è giocare acarte sul computer per ore ed ore, senza che Caterina mi rimproveri ad ogni istante? La sera poifaccio fatica a dormire da solo dopo tanto tempo fatto con accanto una persona, tutto sommatomolto gradevole, almeno per l’aspetto fisico.Poi c’è anche questo aspetto dei ritardi che ho iniziato ad accumulare al lavoro che mi preoccupa.Quando c’era Caterina era sempre una lotta per svegliarla, per spingerla di forza nel bagno, dirle eripeterle ogni dieci secondi di muoversi e di sbrigarsi, alla fine però si usciva sempre in orario, enon arrivavo mai in ritardo al lavoro. Adesso senza Caterina mi sveglio controvoglia, scopro che lestesse cose che facevo prima con lei in pochi istanti adesso mi costano enormemente più fatica.Distrattamente guardo l’orologio del mio computer e scopro che sono le sette di sera passate. E’davvero ora di andare a casa, anche perché altrimenti rischio di perdere l’ultimo treno ad oraridecenti. Sistemo i soliti fogli sul ripiano della scrivania ed esco dall’ufficio per andare a casa.Dalla finestra del corridoio mi accorgo che del mio vecchio ufficio c’è ancora la luce accesa. Ilpalazzo della Direzione della Ditta, dove c’è il mio vecchio e rimpianto ufficio, è una vecchiacostruzione, realizzata con due ali laterali a più piani ed unico grande ingresso comune di raccordo,una grande “U” squadrata. Da un’ala è possibile vedere l’altra, e quindi verificare facilmente, se cisia ancora qualcuno al lavoro dalle finestre illuminate, è per questo motivo che posso dire che ilMotta è ancora làPreso dalla nostalgia e dalla curiosità di rivedere il vecchio ufficio decido di andarlo a trovare.Attraverso l’ingresso di raccordo tra le due costruzioni ed in breve mi ci ritrovo davanti. L’ing.Motta è ancora al lavoro, ed appena mi vede, con la consueta gentilezza, mi fa cenno di entrare. Contimore apro la porta, ed entro. Il Motta mi saluta con entusiasmo: “Buonasera Davide, che piacerevederti, vieni pure, mettiti a sedere che parliamo un po’, è tutto il giorno che sono da solo in questoufficio ed un po’ mi annoio”. La sua gentilezza un po’ mi spiazza. Forse non è una persona cosìterribile come le la sono immaginata. Obbedisco meccanicamente e, dopo essermi messo a sederecominciamo a parlare del più e del meno: “Davide, posso darti del tu vero? in fondo abbiamo lastessa età, no?” La conversazione continua su argomenti e problemi di lavoro, poi di colpo si slittasu un argomento che non mi sarei mai aspettato: “Sai che il Direttore sta organizzando una cena pertutti i dipendenti della Ditta per queste feste? Ti ha ancora chiamato? Siamo tutti invitati sai?”Sapevo dell’esistenza di questa cena, simile ad tante altre organizzate specialmente a fine anno inoccasioni delle feste natalizie. Fino adesso sono sempre riuscito a evitarle, complice anche Caterinastranamente d’accordo come me su questo punto. Non riesco a capire perché Motta me lo chiedaproprio adesso, non vorrà mica che vada con lui?. Indugiando appena, per prendere un po’ di tempoper pensare e rispondo: “Non lo so, non ho mai partecipato, magari questa volta ci faccio unpensierino, ma credo proprio di no” Motta strizzandomi un occhio a cenno di intensa mi risponde:“Guarda che questa volta ci divertiamo, stiamo organizzando la serata, sai dopo la cena vogliamoandare in uno di quei localini, sai dove ci sono le ragazze che ballano mezze nude...”. La lapdance,questo mi vuole portare a vedere la lapdance, ma per l’amor di Dio, penso! Glisso sull’argomento, eprovo a spostare la discussione in altre direzioni. Rivolgo la mia attenzione verso l’orologio appesoalla parete, ed indicandolo dico al Motta: “scusa, ma devo proprio andare, altrimenti perdo l’ultimotreno per casa, ne riparliamo un’altra volta eh?”. Mentre mi alzo dalla sua sedia noto con stupore

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come abbia sistemato, sul muro dietro la porta dell’ufficio non visibili dall’esterno delle vecchiecopertine di 33 giri. C’è la facciona di “In the court of the Crimson King”, Animals dei Pink Floydcon il maiale che svolazza sulla Battersea Power Station, a sorpresa c’è anche un disco di Bach, leVariazioni Goldberg suonate da Glenn Gold, probabilmente la stessa versione che ho io in CD.Davvero curioso, ma sono troppo in ritardo per il mio ultimo treno e devo scappare. Escodall’ufficio con uno spirito ritrovato, sollevato per aver conosciuto un po’ più a fondo una personatutto sommato piacevole, anche se la sua proposta di complicità per la fuga dalla sua routine mi hadato un po’ fastidio. Lo giustifico pensando che in fondo non sono in grado di capire le dinamichedi una vita di coppia fatta di serate passate in casa tutte uguali, e gesti ripetuto fino alla noia, per cuianche la prospettiva di una emozione diversa dalle altre può essere considerata veramente unaoccasione da non perdere. Lo saluto ricambiando la sua cortesia, e mi riprometto di approfondirel’argomento dei suoi dischi appesi. Arrivato alle scale mi blocco. C’è qualcosa che non mi torna, unparticolare che non riesco a mettere a fuoco. Poi di colpo capisco cosa sia, ma per verificarlo dovreiritornare nel suo ufficio. L’ultimo treno è alle diciannove e quarantacinque, in ogni caso non dovreiperderlo. Torno sui miei passi e con una scusa banale rientro nell’ufficio dal Motta. Incredibile, nonc’è più traccia dell’odore dolciastro che aveva caratterizzato il nostro primo incontro. Anche lacamicia in tessuto scuro stirata ed indossata una infinità di volte è sparita, lasciando spazio ad unadiscreta camicia chiara di velluto, lo guardo con curiosità. Motta intuisce quello che mi sta passandoper la testa e anticipando una mia possibile domanda mi dice: “Davide, a volte ci si deve adattare, emodificare le nostre abitudini per ottenere quello che ci interessa”. Non dico nulla e mene vado. E’davvero una persona interessante, anche se un po’ troppo banale e superficiale per i miei gusti.

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Secondo capitolo:Terza parte:

La mia vita senza Caterina scorre via monotona e piatta, senza nessuna accelerazione, senzanessuna novità. E così il mese di novembre se ne va senza lasciare nessun motivo per esserericordato. No, in realtà una novità c’è è il mio processo di implosione si sta facendo sempre piùpreoccupante, non ho più voglia di vedere nessuno, non vado più al lavoro in treno per evitare diincontrare persone che conosco. Non vado neanche più alla partita del mercoledì sera con i mieiamici di sempre. L’unico dei miei amici che ogni tanto ancora si fa sentire è Luca, con la solitadiscrezione ed educazione di sempre. Al contrario, al lavoro mi incontro e mi vedo spesso il Mottache, mi malgrado tutte i mie rifiuti vuole ad ogni costo trascinarmi e rendermi complice del suotrasgressivo progetto post cena aziendale.Oggi poi, è stata una giornata particolarmente pesante. L’unica persona che mi ha rivolto la parola èstata il fattorino che mi consegna la posta al mattino e mi ha dato pure del “Lei”, chiamandomi“Dottor Sole”. Adesso passare tutte le sere in casa da solo è diventato davvero pesante, potreichiamare Caterina, ma non voglio concederle questo vantaggio morale, dargli la chiave perricattarmi per sempre, arrendermi insomma. Devo ritrovarla e riallacciare i rapporti facendolosembrare un caso, non una cosa voluta. E’ buffo vedere come non ho più notizie né Caterina che diMarina da quel giorno a pranzo alla Madia, in questo strano parallelismo dove io rappresento perCaterina quello che Marina rappresenta per me, con la differenza che Marina è lontana cinque annied un figlio in arrivo, mentre Caterina invece è qui dietro l’angolo che aspetta solo un mio segnaleper tornare tra le mie braccia.Passo le mie sere da solo a giocare con la gattina ed a guardare distrattamente la televisione. Mi giroe rigiro nel letto. Non riesco ad addormentarmi. Ed è così da un sacco di tempo ormai. Troppo.Stasera poi è anche peggio del solito. Provo a leggere qualcosa per risolvere l’impasse. La gattinami guarda distrattamente dal suo posticino preferito sulla mensola di legno accanto alla finestra,proprio sopra la griglia del riscaldamento. Sta giocando con un filo di lana che fa capolinotrasportata dalla corrente di aria calda che sale da li. Appena si accorge che la sto fissando, con unbalzo salta sul letto, e si stira allungandosi in avanti nel modo classico dei gatti. Facendo le fusa simuove verso di me, e si arrotola proprio sul libro che stavo leggendo. Deve attirare su di se tutta lamia attenzione, non ci deve essere niente nel mezzo, neanche un libro. Il suo “miao~Miao~MIAO”ha un significato ben preciso: “Hey, stupidone, quand’è che ritrovi un’altra come Lei?”, ed ancora“miao~Miao~MIAO!”: “è bella, ha dieci anni meno di te ed è innamorata e pronta a seguirtiovunque. Lei vuole essere solo amata, non cerca altro, e poi io mi annoio da morire a stare tutto ilgiorno in casa da sola ad aspettarti la sera! Quando è che torna?”. La vedo mentre si accomoda sullibro stropicciando le pagine, continuando a fare le fusa. Spengo la luce e provo a dormire, mi sache ha ragione proprio lei, devo fare di tutto per farla tornare. Ormai è deciso! Adesso arriva laparte più difficile, cercare di incontrarla al più presto, e far sembrare questo incontro il più casualepossibile. Mi addormento così, accarezzando la pancia della mia gattina.

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Secondo capitoloQuarta parte:

Seguendo il classico rituale di ogni inizio mese tolgo dal mio calendario il mese appena terminato.Appare dicembre, mentre novembre con tutte le sue note di appuntamenti e scadenze finisceappallottolato nel cestino. Quest’anno i giorni di festa cadono in modo perfetto. Con solo sei giornidi ferie è possibile fare due settimane complete di vacanze, rientrando poi ad anno nuovo, dopoBefana. Mentalmente sto ancora calcolando l’abbinamento migliore per sfruttare al massimo i mieigiorni di ferie quando suona il telefono. Rispondo: “Buongiorno, Davide Sole, dica pure”, è la solitatelefonata del Motta, che ormai ha preso l’abitudine a chiamarmi almeno un paio di volte al giorno,per pianificare al meglio l’organizzazione della serata dopo la cena aziendale: “Ciao Davide, sonoMotta, l’hai letta l’email del Direttore? L’ha mandata oggi a tutti i dipendenti, vedi un po’!”Rispondo che non ho ancora letto la posta, e che l’avrei chiamato appena lo avessi fatto. Sblocco,inserendo la mia password il PC e accedo alla mia casella di posta. Ho dovuto inserire questapassword in seguito alla scoperta casuale di alcuni “log” sospetti. C’è stato qualcuno che hautilizzato il mio computer in mia assenza, magari solo per navigare in rete, ma è meglio nonrischiare. A pensarci bene dato il maldestro tentativo ti nascondere le tracce potrebbe essere statoanche il Frangioni in persona. In ogni caso ad oggi in poi non lo potrà più fare. Aspetto il terminedella procedura di autenticazione mentre ancora penso a come potrei fare per incontrare Caterina.Una serie di brevi bip mi avvertono dell’arrivo di alcuni messaggi di posta elettronica. Velocementescorro i titoli: sono solo spam, due e-mail di lavoro di cui una in inglese dall’ufficio della CE equella anticipata dal Motta del Direttore indirizzato a tutti i dipendenti. La apro e la leggo. Questo èprobabilmente il passo più interessante ed equivoco:

“Egregi collaboratori,purtroppo la nostra Ditta non ha raggiunto gli obiettivi di target che ci eravamo prefissati ad inizioanno. Non ho niente da rimproverarvi, questa difficoltà è nata dal difficile contesto economicointernazionale e non da una scarsa concentrazione e applicazione sul lavoro...devo perciò amalincuore confermarVi che quest’anno il previsto Bonus legato al raggiungimento degli obiettivinon sarà elargito... resto fermamente convinto che l’anno prossimo riusciremo a recuperare quantoperso....inoltre colgo l’occasione di inviarvi a Voi ed a tutti i vostri famigliari i più sentiti auguri,sperando che l’anno prossimo sia migliore di questo....”.

“Non c’è il premio di produttività quest’anno”, penso. Non è che sia un premio particolarmentesostanzioso, l’anno scorso, con lo stesso livello che ho quest’anno presi a malapena duecento eurolordi, no, non sono i soldi è il messaggio in se che è ambiguo non avendo mai sentito in precedenzail Direttore lamentarsi per come andassero gli affari in Ditta. Sposto nel cestino le lettere di spam,archivio con cura le email di lavoro e del Direttore e decido di andarci a parlare, anche per evitarel’imminente ed inevitabile telefonata del Motta. Per pietà per i miei colleghi alzo il ricevitore deltelefono. Nessuno mi potrà telefonare mentre suono fuori ufficio.Lungo i corridoio della Ditta incontro diversi gruppetti di colleghi, che discutono animatamentedella novità, evidentemente comunicata a tutta l’azienda. C’è ci preannuncia delle inevitabilirestrizioni, chi invece suggerisce di non preoccuparsi più di tanto, perché a detta sua la situazioneeconomica non può che migliorare, avendo toccato di fatto il fondo.Arrivo nell’ufficio del Direttore. Fortunatamente non c’è la segretaria che cerca ogni volta dibloccarmi. Busso sulla porta, come al solito per presentarmi ed entro. Il Direttore è al telefono, edha di fronte una persona che non conosco. Appena mi vede, continuando a parlare al telefono mi facenno di entrare, come se mi aspettasse. Mentre aspetto che termini la sua telefonata mi presento altipo, che in modo molto informale mi passa il suo biglietto da visita:

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Enterprise ConsultingDott. Franco Turini

Senior Manager

Un consulente? E’ raro trovare dei consulenti a spasso per la Ditta, sovradimensionati come siamonon ne abbiamo bisogno. Appena terminata la sua telefonata il Direttore indicando con lo sguardo ilsig. Turini mi dice: “Davide, immagino tu abbia letto l’email che ho mandato a tutti. Cosa tisembra? Che impressione ti ha fatto?” Guardo per un attimo il sorriso di compiacimentocompletamente fuori luogo del tipo seduto accanto a me e rispondo: “Credo sia la prima volta chenon viene pagato il premio di produttività, almeno da quando sono in Ditta io, non mi sbaglio vero?Però se la sua lettera doveva essere una minaccia, è davvero poco minacciosa, se invece dovevaessere un incoraggiamento è troppo poco incoraggiante. Non ha un indirizzo preciso, anche se sicapisce che c’è qualcos’altro dietro, che non sia finita lì». Il dott. Turini in silenzio mi guarda consoddisfazione, cose avessi detto proprio la cosa giusta: “Vede dott. Turini” continua il Direttore:“Davide è in Ditta da noi da molto tempo, ma solo da quando è venuto a lavorare direttamente perme qualche anno fa che ha potuto esprimere tutte le sue qualità, pensi, tutta l’organizzazione dellevendite è adesso strutturata su un programma realizzato da un prototipo scritto da lui in meno di unmese, dopo anni di tribolazioni continue. Lavoro che se commissionato ad una ditta esterna cisarebbe costato cento forse mille volte tanto, per non parlare poi del tempo risparmiato», poirivolgendosi direttamente a me: «Ho dato incarico al dott. Turini, di dare una nuova struttura alnostro organico, cercando di tagliare i rami secchi e migliorare il rendimento in generale nella Ditta.Inutile dire che è una argomento di massima riservatezza. Dovrai, anche tralasciando i tuoi normaliimpegni, che ti serviranno più che altro di copertura, dargli una mano, per qualsiasi cosa gli possaservire. Ho già parlato con Frangioni, che è d’accordo, ovviamente. In questa Ditta quando si parlacol Direttore sono sempre tutto d’accordo, solo tu, Davide, mi dici esattamente le cose come stanno,senza reticenze e non per farmi contento, ed è anche per questo tuo modo di essere che ti ho sempreapprezzato». Quello che ha appena detto il Direttore in fin dei conti è la pura verità, anche se lamotivazione è completamente differente da quella che si immagina. A me non me ne frega niente nédella carriera, né di compiacere ai miei superiori, niente io vedo un lavoro come un obbligo daassolvere e basta. La mia non è una missione, vedo il lavoro come una attività distaccata, una cosada fare, sempre al massimo delle proprie possibilità ma senza particolari coinvolgimenti emotivi. E’sempre stato questo atteggiamento, così distaccato e oggettivo che mi ha sempre aiutato: «Davide,prima di andare ti devo dire ancora una cosa». Il Direttore aveva un modo molto gentile ma decisoper congedare i propri ospiti: «Dica», gli rispondo usando il “lei” perché in presenza di estranei:«come sai c’è la cena aziendale questo venerdì. Quest’anno, questa cena ha uno scopo preciso,bisogna fare gruppo, è un’occasione per trovarsi tutti insieme farsi vedere e conoscersi tutti un po’più a fondo, tutti quanti. So come la pensi, ma questa volta cerca di esserci, è importante, moltoimportante. Fidati di me e prova a fare uno sforzo stavolta, vedrai che ti divertirai pure». Quello chenon ha potuto Motta in due mesi di telefonate quotidiane, l’ha potuto il Direttore in due minuti. Dibotto rispondo: «certo, ci sarò, sicuramente».Il resto della giornata passa via tranquilla, tra le solite scenate di gelosia e ripicche dei miei colleghipiù anziani in odore di battaglia, niente per cui valga la pena soffermarsi. Ho detto a Motta che sareiandato alla cena, ma gli ho fatto anche intendere che proprio quella sera avrò sottomano una tipainteressante, separata da poco, e che quindi non potrò seguirli, a malincuore, nelle loro avventure.Intanto il primo tentativo di incontrare casualmente Caterina è fallito. Prima di venire a stare da meabitava insieme ad un amica in un miniappartamento in centro. Oggi, durante la pausa per il pranzoè stato il primo posto dove sono andato a controllare. Sul campanello, in alto a destra fanno peròmostra di se due nomi bizzarri, stranieri, probabilmente arabi. Mi aveva già accennato al fatto che lasua ex compagna di casa, dopo che lei l’aveva lasciata sola si era trasferita. Tornando in Ditta hocontrollato pure tutti i ristoranti e pizzerie del centro, senza trovare né lei né nessuna delle sueamiche. Certo non mi devo certo scoraggiare al primo tentativo. So che non sarà facile incontrarla e

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poi convincerla a tornare. Conosco Caterina praticamente da sempre, anche se è solo da due anniche la considero come una donna e non come una bambina, e conosco perfettamente il suo caratteremolto ruvido anche se magnificamente spontaneo.L’ho incontrata la prima volta, tanti anni fa, a cena con Marina da mia sorella. Mia sorella, viveall’ultimo piano in pieno centro con una stupenda terrazza. Un posto assolutamente privilegiato perl’osservazione dei fuochi artificiali, spettacolo tradizionale della festa patronale della mia città.Caterina, appena quattordicenne era stata invitata insieme ai suoi genitori. Almeno, questo è semprequello che mi ha raccontato Caterina, perché io di quella bimba appena adolescente non ricordoveramente nulla. Avevo appena conosciuto Marina, ed avevo occhi solo per lei. Erano i miei primianni dell’Università, e per arrotondare e avere qualche soldo in più facevo delle lezioni private dimatematica e fisica per i ragazzi delle scuole medie e superiori, i miei “bimbi”. Ed ero propriobravo, perché non essendo mai stato uno studente modello sapevo e conoscevo perfettamente ledifficoltà ed i problemi dei ragazzi con quelle materie. A settembre dello stesso anno dopo circa tremesi da quella cena Rachele, mia sorella mi chiese se potevo seguire ed aiutare la figlia di una suaamica, in difficoltà con a matematica, e la ragazzina in questione era proprio Caterina. Il nostrosecondo incontro (il primo, almeno per me) lo ricordo bene. Abitavo ancora a casa dei miei genitori,e quel giorno si presentarono in tre: Rachele, Caterina e sua madre. Caterina era al primo anno delLiceo Classico, ed aveva appena finito il Ginnasio. Una scuola vera, dove ancora si bocciava peruna materia non superata a settembre. Ricordo che era vestita con dei improbabili pantaloni gialli divelluto a coste larghe, scarpe basse tipo ballerina, camicetta e con un pesante zaino sulle spalle.Caterina aveva un’aria persa, impaurita, l’aria di chi ancora bimba deve affrontare e confrontarsicon un adulto estraneo.Ho seguito Caterina per i tre anni del liceo, fino alla maturità. Già dalla prima lezione si capiva chenon ne aveva assolutamente bisogno, ma complice l’eterna gara contro le «bimbe brave dellaclasse» e le mie modestissime pretese economiche le nostre lezioni continuarono fino alla fine delsuo liceo. L’ho vista crescere, trasformarsi da una impaurita adolescente di quattordici anni ad unapromettente bella ragazza di diciotto. Dopo l’ultima lezione non la rividi più per molto tempo, pertanti anni. Soltanto una volta la intravidi in treno con le amiche. Rimasi nascosto ad osservarla perl’intero tragitto. Erano passati 5 anni dall’ultima lezione e quella ragazza che osservavo non eranemmeno la lontana parente della ragazzina spaurita con i pantaloni di velluto giallo, checonoscevo. La mia storia con Marina aveva iniziato ad andare a rotoli, e non me la sentii diincontrare quella che era diventata una splendida ragazza, un po’ perché non avrei saputo cosa dirle,un po’ per evitare di fare delle brutte figure. «Magari tra qualche anno» pensai. Povera Caterina, ècomprensibile pensare a quanto odiasse Marina. L’ha sempre avuta davanti agli occhi, è cresciutacon questa presenza costante, una figura da prendere come riferimento. Una rivale praticamenteinvincibile.La settimana passa veloce, come veloci ed assolutamente infruttuose sono passate le mie vanericerche. Niente, nessuno sembra sapere più niente di Caterina e delle sue amiche. Sembrano tuttesvanite nel nulla.

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Secondo CapitoloQuinta parte:

Ed arrivò il venerdì, quello della cena.La cena aziendale è organizzata in agriturismo. Un vecchio cascinale di campagna costruito sullasommità di una piccola collina e riportato in vita per queste occasioni. Per raggiungere l’ingresso ènecessario percorrere una stradina alberata leggermente in salita, percorso rotto ad intervalli regolarida dei piccoli canali trasversali costruiti per impedire che durante delle giornate di pioggia, lacorrente d’acqua che si forma possa in qualche modo trascinare giù il pietrisco del selciato. Ilparcheggio è giù in basso ai piedi della collinetta. Arrivo molto presto e lascio l’auto rivoltastrategicamente verso l’uscita, in modo che nessun’altra, anche parcheggiata nel modo più barbaropossibile possa impedirmi di andarmene quando voglio. Verifico che ci sia la copertura per il miocellulare ed attacco la stradina in salita, saltando da un canaletto trasversale all’altro. Alcuni personeche non conosco si mostrano assai divertite da questi miei salti. E’ una limpida serata di dicembre,non troppo fredda e senza vento. In breve arriviamo tutti quanti all’ingresso dell’agriturismo.All’interno l’ambiente è riscaldato dai numerosi caminetti, e gli ampi saloni accolgono unamoltitudine di tavoli tondi, da dodici posti l’uno. Per favorire il clima della serata, ed il senso diappartenenza ad un gruppo i posti a sedere non sono già fissati ma vengono sorteggiati. Accantoall’ingresso fa bella mostra di sera una vecchia giara ricolma di gadget raffiguranti il logo aziendale.Legato con un filo di lana rosso, ad ogni gadget c’è una piccola busta sigillata con all’interno unbigliettino con una sigla che rappresenta il posto. Intorno a questa giara c’è una piccola ressa dipersone, tutti colleghi vestiti con la giacca buona tirata fuori per l’occasione, stranamente non cisono donne. Faccio fatica a riconoscere qualcuno. E’ possibile che siamo così tanti in Ditta? Miavvicino, scocciato dalla ressa ed infilo la mano all’interno del recipiente per scegliere il mio posto.Prendo la prima bustina che mi capita a tiro e la apro per vedere quale sia il mio posto. Sul bigliettoc’è scritto solo una sigla: 1-B-7. Sul muro, proprio appesa sopra la giara c’è una piantina delle duesale con le indicazioni necessarie per individuare il tavolo giusto. La mia sigla, indica che il mioposto è nella prima stanza, al tavolo B, al posto n° 7. Senza fare troppo caso a quello che misuccede intorno, mi metto a cercare il tavolo B della prima stanza. Ci sono una ventina di tavoli persala, con posti sufficienti per i circa 400 dipendenti della Ditta. Davvero tanta gente! E’ naturale chenon conoscessi quasi nessuno. Trovo facilmente il tavolo, ed il mio posto estratto a sorte. Mi tolgoil maglione di lana pesante e lo sistemo sulla seggiola, rimanendo solo con una delle mie classichecamice portate fuori dai pantaloni, forse un look un po’ tropo giovanile per i miei anni. Gli altriposti del mio tavolo sono occupati solo per metà. Osservo le giacche sistemate con cura sullespalliere delle sedie, esattamente alla stessa maniera di come ho sistemato il mio maglione. Miguardo intorno. Un bell’ambiente. I tavoli sono spostati verso una parte della stanza, mentredall’altra parte, quella rimasta libera fa bello sfoggio di se un buffet completamente imbandito, duecaminetti accesi, ed un braciere circolare con sopra una potente cappa aspiratrice. Accanto albraciere un bancone frigo molto più piccolo del precedente con sopra allineate diversi tipi di carnipronte per essere arrostite. Mentre osservo tutto questo sento una voce sconosciuta alle mie spalle:“Mi scusi, posso disturbarla”? Istintivamente mi volto. Un distinto signore sui cinquanta,perfettamente vestito, rasato e cravattato, visto qualche volta di sfuggita in azienda mi si rivolge inmodo gentile, quasi supplichevole: “Mi scusi”, ripete, “posso chiederle, se per lei è lo stesso, dilasciarmi il suo posto?” Lo guardo con più attenzione, cerco di capire il motivo della sua richiesta:“Certo si figuri, ma perché?” Senza imbarazzo e con prontezza mi risponde: “sa, così sono vicinoai miei colleghi, non vorrei che poi, sa come succede, ci possano separare, poi non conosconessuno, mi farebbe davvero una grande cortesia, loro hanno preso il posto a questo tavolo, mifarebbe davvero un grosso favore, vede....”. “Bene”, penso, tutto sommato per me è lo stesso, poiquesto è uno dei primi tavoli ed è troppo vicino alla porta di ingresso, non voglio sorbirmi tutto ilvia vai di chi entra ed esce per l’intera serata. Accetto volentieri, e gli lascio il posto, avviandomi

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divertito per la seconda volta alla lotteria. A questo punto la ressa davanti alla giara è davveroincontenibile, tutti li intorno pronti a prendere il proprio posto, senza però che nessuno si azzardi afare la prima mossa. Finalmente scorgo due persone che conosco. Ci sono anche i miei due giovanicolleghi di scrivania, Giacomo e Matteo che hanno già fatto la loro pescata: “Com’è andata?” glichiedo: “ci hanno separato” risponde Giacomo: “io sono nella seconda stanza, Matteo nella prima.Meglio così non lo avrei sopportato anche questa sera!”.La serata è aperta ovviamente anche a moglie e mariti, e per loro, la scelta del posto ad estrazionenon è vincolante, se vogliono possono rimanere vicini, oppure separarsi, dipende solo da loro. Miavvicino, e sotto gli attenti sguardi di tutti faccio la mia seconda pescata: 2-P-10. Bene sono nellaseconda stanza. Un paio di super-cravattati mi si avvicinano immediatamente, strappandomi quasi ilbiglietto di mano per capire dove fossi finito. Appena dico che sono nella seconda stanza, si ritiranodelusi senza rivolgermi più la ben che minima attenzione. Matteo è ancora li a osservare questaparticolare riffa, e mi avvicino per chiedergli: “Matteo, ma te hai capito cosa accade? Ma sonoimpazziti tutti quanti?”. Matteo sorridendomi mi sposta da una parte e parlando sottovoce mirisponde: “Credo di aver capito cosa succede, i posti per i dipendenti, sono sorteggiati a caso,mentre la Dirigenza no. Loro sono stati inserti a scalare, secondo l’importanza, sui vari tavoli. Unmodo di dare la possibilità a tutti di conoscere qualcuno della dirigenza. Vedi, dove eri capitato tu?Guarda chi c’è al tavolo ora!” Mi volto e vedo seduta esattamente di fronte a dove ero capitato io, lasig.ra Antolini, la Direttrice dell’area Risorse Umane e Sistemi Informativi, una delle cariche piùimportanti ed influenti della Ditta. “Meglio così” penso, magari il tipo saprà sfruttare meglio di mel’occasione, in fin dei conti se lo è meritato quel posto, davvero. Saluto i miei giovani colleghi eattraverso tutto il primo salone, salutando distrattamente il sig. Frangioni, seduto, manco a dirlo, aduno dei primi tavoli. Conoscendolo anche lui avrà usato lo stesso stratagemma. Il secondo salone èla copia esatta del primo, con l’unica differenza di una porta laterale che conduce ad una piccolastanza appena illuminata. Al posto del braciere c’è invece un bancone con i dolci e la frutta.Essendo l’ultima stanza ovviamente non c’è nessuna altra porta. Mi avvicino al mio tavolo, sperodefinitivo, a questo punto. Già seduti, c’è una coppia un po’ in la con gli anni, le due ragazzedell’accettazione materiale, sedute una accanto all’altra. Le osservo con attenzione per la primavolta, sono davvero carine, ma non fanno per me. Le saluto e mi seggo. Questo posto è decisamentemigliore rispetto al primo, almeno per le mie esigenze. Alla spalle ho il muro della stanza, sonoabbastanza lontano dal fumo del caminetto e sopratutto riesco a controllare tutta la scena perinterno. Posso osservare tutti quanti senza essere praticamente visto, e questo mi piace. Da dovesono riesco pure a vedere i tavoli più importanti della prima stanza. Noto l’arrivo del Direttore,accompagnato da un nuvolo di corteggiatori che gli svolazzano intorno ammiccando e cercando diottenere un po’ di considerazione.In un tavolo più centrale scopro pure il Motta. Ci incrociamo lo sguardo. Appena mi vede mi fa uncenno con la mano che ricambio prontamente. Lo vedo però alzarsi e venire nella mia direzione.Arriva al tavolo e si mette a sedere accanto a me, dalla parte opposta alle due tipe che intantoparlano fitte tra di loro: “Allora Davide, siamo d’accordo eh?” attacca, abbiamo già preparato tutto,siamo un bel gruppo una ventina di persone. Abbiamo prenotato qualche tavolo al Babilon, quivicino, stasera c’è anche uno spettacolino speciale apposta per noi!” Mentre parla, visibilmenteeccitato mi lascia andare dei colpetti con il gomito sul fianco, come per sigillare il nostro accordo:“Guarda, sono venuto con Claudia, è la seduta la tavolo, se poi vieni te la presento, ma miraccomando non dire niente di quello che abbiamo intenzione di fare dopo eh? Siamo d’accordoallora!”. Ascolto il Motta e mi rendo conto di come io sia più spaventato che scocciato. Un gruppodi venti persone allupate, probabilmente sbronze che si riversano in un locale di lapdance. L’unicofinale di una serata così architettata non può essere altro che al comando della Polizia o alla salettadi aspetto del pronto soccorso: “Motta, non te la prendere, ma ora non lo so, come sai ho quelmezzo appuntamento con quella signora... sai, sono occasioni che non si ripetano spesso. Ti facciosapere eh? Sto aspettando un suo messaggio da un momento all’altro”. Il Motta, non cambiandoatteggiamento continua: “Va bene, Davide ti capisco, in fin dei conti siamo tra uomini. Però mi

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farebbe piacere se venissi a cena al nostro tavolo, così ti presento pure Claudia, la mia Signora! E’incredibile, penso, già sono abbastanza angosciato della mia situazione sentimentale, con Caterinasparita ormai da mesi e Marina con il pancione per potermi permettere di sorbirmi una serata incompagnia dei coniugi Motta o dei miei più tristi colleghi. Gli rispondo che preferisco stare dovesono, e che sicuramente più tardi sarei andato a conoscerla (cosa che avrei comunque fatto pereducazione).Lentamente le stanze vanno riempiendosi, ed al mio tavolo si aggiunge solo un’altra coppia. Nonhanno il gadget preso dalla giara, semplicemente vogliono starsene per conto loro nel posto menofrequentato della sala. Inutile dire che hanno tutta la mia ammirazione.Finalmente inizia la cena, e le portate si susseguono con una lentezza esasperante. Il Motta continuaa fissarmi ed a farmi l’occhiolino di tanto in tanto, sorridendomi e ammiccando in segno di intesa.Magari poi la finisce, spero. Intanto controllo il cellulare. Nessun messaggio in arrivo e nessunachiamata persa. Uffa, chissà cosa speravo. Il clima della serata non certo mi aiuta, ed il disagio cheprovo adesso si fa troppo insopportabile, devo scappare da li, trovare assolutamente il modo dirintracciare Caterina, e passare il resto della serata con lei. Devo fare il modo di trovarla, di farmichiamare. Di colpo l’illuminazione. “Ecco come fare!” Prendo il cellulare, ed attraverso unasemplice procedura provo a ricaricare il suo numero di telefono sottraendo il credito dal mio. E’ unaoperazione che in passato ho fatto già altre volte per lei. La ricarica fatto in questo modo è del tuttoanonima, e lei potrà avere solo il sospetto che sia stato io a farla, non la certezza, obbligandolaquindi a chiamarmi. Completo la procedura, tolgo la suoneria al cellulare e lo lascio ben in vistasulla seggiola vuota accanto la mia. Rinfrancato e sollevato da questa improvvisa svolta trovofinalmente il gusto di apprezzare una cozza ripiena del mio antipasto di mare. Dopo solo pochisecondi vedo il cellulare illuminarsi. E’ arrivato un messaggio! Finalmente, penso, è sicuramentelei, lo sapevo, avrebbe ceduto subito, di schianto!”. Lascio passare un po’ ti tempo, sonoconcentrato sul mio antipasto. Poco dopo arriva anche un secondo messaggio, ed istantaneamenteun terzo. E’ il momento di rispondere, non vorrei che poi inizi di nuovo a telefonarmi ogni cinqueminuti, conoscendola. Prendo il cellulare leggo i messaggi. Eccoli in ordine:

Il primo:“Si conferma la Vostra richiesta di una help-ricarica di 5 euro al numero selezionato”.

Il secondo:“Siamo spiacenti di informala, che il tentativo di ricarica effettuata al numero selezionato NON èandata a buon fine”.

Il terzo:“Ricarica NON effettuata, numero inesistente. L’importo della ricarica inviato al numeroselezionato è stato riaccreditato sull’utenza di origine”.

Come è possibile che il numero sia inesistente? Controllo e verifico che il numero utilizzato èquello giusto. C‘è qualcosa che non torna, ma per essere sicuro devo fare una prova, devochiamarla. Mi alzo, e mi metto alla ricerca di un telefono pubblico. Appena mi vede alzarmi ilMotta, temendo che me ne potessi andare senza di lui mi chiama a viva voce, facendo cenno diraggiungerlo al tavolo indicandomi una signora seduta accanto, sicuramente la moglie. Rispondo amia volta con un cenno della mano, portandomi il pollice all’orecchio ed il mignolo alla bocca amo’ di cornetta telefonica, promettendo a gesti che sarei tornato da loro al più presto appena finitala telefonata. Nell’ingresso, proprio tra le doppie porte a vetri trovo un telefono pubblico. Miavvicino, inserisco qualche moneta e provo a fare il numero di Caterina. Immediatamente mi sentorispondere da una voce meccanica in questo modo: “Attenzione il numero selezionato è inesistente”.Provo una seconda, una terza volta per sicurezza. Non si tratta del suo telefono spento, come avevopensato inizialmente, ha proprio disattivato la scheda, cambiato il numero. La cosa è molto più seria

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di quando credessi, probabilmente ho sottovalutato sin dall’inizio questa sua definitiva, anche seminacciata da sempre sparizione, cavolo sta facendo le cose sul serio. Questa novità mi fa di nuovopiombare nella tristezza più cupa. Adesso non so proprio cosa fare. Guardo distrattamente il displaydel telefono che indica che sono appena le 10 e mezza appena passate. Riflettendo sul da farsimentre torno al mio posto, passo accanto ai coniugi Motta ignorandoli completamente. Tanto valegustarsi le cena e poi filarsela di corsa a letto.Al mio tavolo, intanto si è accesa una discussione sui nostri stipendi e su come sia difficile arrivarea fine mese con quei pochi soldi. Una delle due ragazze, quelle della ricezione materiali insiste:“Non so come fate voi, io sono in affitto, e tolte tutte le spese fisse non mi rimane nient’altro che isoldi per mangiare. Di extra non se ne parla, vacanze e sfizi meno che mai”. Al tavolo si è aggiuntoanche un’altro personaggio, vestito come al solito senza nessuna fantasia e immaginazione con ilsolito completino di ordinanza. La discussione procede sullo stile delle normali discussioni che sifanno in azienda davanti alla macchinetta del caffè, un misto di banalità, qualunquismo esciocchezze assolute. Non riesco però a non intervenire: “In effetti, con i nostri stipendi non cipossiamo permettere nessun extra particolare, probabilmente anche perché non siamo in grado dirinunciare a nulla di quello che ci piace, e di cui potremo fare anche a meno, tu magari”rivolgendomi alla ragazza che aveva parlato poco prima: “tu, magari vai in palestra, fai qualcheseduta di massaggi per levarti la cellulite che non hai e cose del genere. Prova ad andare a correresul viale invece, che è gratis e fa molto meglio!” La ragazza mi guarda perplessa, senza trovare laforza di rispondere. Mi sono fatto un’altro nemico. La discussione prosegue, senza un costruttoaccompagnando il susseguirsi delle portate, condite da un vino veramente modesto, probabilmenteun sangiovese di qualche azienda agricola di secondo piano e spacciato come il non plus ultra delChianti classico toscano.Alla fine scocca l’ora “x”, l’ora della trasgressione. Vedo il Motta alzarsi da tavola, baciare lasignora accanto a lui, e dirigersi verso di me. Mi sta indicando di andargli incontro. Ci troviamocosì a mezzo via nel centro della sala: “Allora Davide, si va eh? Muoviamoci che ci stanno giàaspettando! Gli altri sono già partiti, io non ho potuto liberarmi prima dalla moglie, via che si va!”E’ ansioso, non vuole perdersi nemmeno un altro istante della serata così condita, non vuolerimanere indietro rispetto agli altri già andati: “Senti Motta”, gli rispondo: “mi sono arrivati tremessaggi dalla tipa”, gli dico mentre gli mostro il cellulare con i tre messaggi in arrivo, quelli dellamancata ricarica a Caterina: “abbiamo appuntamento tra poco, a mezzanotte da lei. Non ce la faccioa venire, poi devo anche passare da casa a rinfrescarmi un po’, non mi posso mica presentare inqueste condizioni?!” Il Motta adesso mi guarda spaventato e mi dice: “Ma allora come faccio io conClaudia, le avevo detto che saremo andati, noi, insieme...” Gli metto una mano sulla spalla e glidico: “Tranquillo, se ti serve una copertura con la signora, stai pure tranquillo, puoi contare su dime, sia siamo tra uomini no?”, replicando il suo precedente discorso. Il Motta immediatamente sitranquillizza, adesso non è più necessario che io vada con lui, è tutto a posto, si può fidare di me.L’unica cosa importante adesso è che deve andare là, con gli altri, con tutti gli altri. Si volta verso ilsuo tavolo, verso la moglie e gli fa un cenno dello mano, indicando che è tutto ok, poi rivolgendosidi nuovo a me dice: “Davide, guarda, mi basta che mi accompagni fuori, aspetti li due minuti e poite ne vai dove vuoi, ma non farti vedere da Claudia eh? Mi raccomando!. Le ho detto che saremoandati a trovare dei vecchi amici. Mi basta che usciamo insieme. Mi raccomando non dirle niente,reggimi la parte!”. Accetto, un fin dei conti è davvero una soluzione che mi costa poco, ed in più mida un pretesto per scappare da quel posto. Ritorno verso il mio tavolo e saluto i miei compagni dicena, prendo il maglione dalla sedia, e torno verso il centro della stanza, uscendo poi insieme alMotta dal nostro stanzone. Ignorando ancora una volta sua moglie. Che cafone penso, non mi sonopresentato alla Signora. Che figuraccia ho fatto, ma malgrado tutto devo reggere la parte, ormail’ho promesso. Il mio disagio verso la signora Motta però sparisce subito, giustificato dal fatto dicome sia possibile bersi una balla simile, ma non sono certo affari miei!. Raggiungo il Motta edinsieme, uno accanto all’altro attraversiamo la prima sala, dove adesso, ai primi tavoli è concentratal’intera l’elite aziendale.

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C’è sempre il tipo al quale avevo ceduto il mio posto che terminata la corte alla tipa delle risorseumane si è gettato su qualche altro pezzo grosso della Ditta. Passiamo oltre velocemente.Sorrido al pensiero di come per il Motta la voglia di trasgressione sia più importante del tentativo diaggraziarsi qualche pezzo grosso! All’improvviso, però mi sento chiamare da una voce provenienteda uno dei primi tavoli dello stanzone: “Daahhaviiiidee!” e poi ancora più forte “Daahhaviiiidee,dai vieni qui un attimo!” E’ il Direttore, il pezzo forte della serata, che mi chiama e mi fa cennoamichevole di avvicinarsi. Immediatamente il brusio che caratterizzava la scena si smorza di colpo,tutti i corteggiatori (e sono davvero tanti) sono interessati a questo tipo in camicia e maglionesalutato così calorosamente dal Direttore.Congedo il Motta che vedo sparire all’esterno della sala, e mi avvicino passando tra gli sguardi diinvidia di due ali di corteggiati delusi: “Dai prendi una sedia, Davide e mettiti qui vicino a me, tiprometto che ti trattengo un minuto solo”, facendo cenno ad un tipo li vicino di spostarsi perlasciarmi il posto: “raccontaci come sta andando la serata, se ti è sembrata una cosa benorganizzata”. Prendo la sedia offerta, e mi siedo ed attacco: “Come è stata organizzata la serata?Carina l’idea della lotteria per i posti. La cena tutto sommato ottima se si considera il numero dellepersone messe a tavola, il servizio, è stato troppo lento. Ma se devo trovare qualcosa di veramentenegativo una cosa c’è ed è il vino. Davvero troppo dozzinale, per una cena, come già dettosufficientemente buona come questa!” Questa mia dichiarazione, da lo spunto ad un tipo trasparentedi riconquistarsi un po’ del terreno inopportunamente strappato. E’ arrivato il momento per lui dimettersi in mostra. Smanacciando per farsi notare da tutti dice ad alta voce nel solito modo che tuttipossono sentire: “mi scusi sa, se mi permetto di contraddirla”, e mi attacca in modo direttobrandendo la carta dei vini: “guardi, che il vino ci hanno servito è un Chianti Toscano, da ben 16euro a bottiglia, sa, come è possibile dire che è un vino mediocre, addirittura dozzinale come hadetto lei, è evidente che non se ne intende!” lasciando capire di saperla lunga lui sui vini, calcandocon accenti cadenzati le parole. Lo guardo, sospiro annoiato, e mi volto verso il Direttore cheadesso, insieme a tutti gli altri si aspetta una mia replica. Ritorno sul tipo guardandolo negli occhied rispondo alla sua modesta bordata: “Uno: Chianti vuol dire solo che è stato prodotto in una zonageografica particolare rispettando il relativo disciplinare, e la Toscana, almeno da queste parti ètutta “Chianti”. Due: un sangiovese, come quello che ci hanno servito questa sera di un solo annonon ha nessun significato specialmente se è stato fatto al risparmio come questo. Non c’è stato ilrigoverno tipico di questi vini, ed i suoi 11 gradi di etichetta lo dimostrano ampiamente. Tre: datal’elevata acidità non metterei nemmeno la mano sul fuoco che sia stato vinificato secondo le regole,smussando le asperità con la seconda fermentazione, la mallolatticca. Vede questo sembra quasi unnovello tanto è poco corposo e acido, il sangiovese, il vitigno principe del Chianti ha bisogno dicure, di sacrifici di affinare almeno due, meglio tre anni per svolgere tutte le sue qualità, peresplodere in tutti i suoi profumi e sapori, che poi sono i profumi ed i sapori di questa terra! Questo èun vino che, come ce lo hanno servito stasera, non può valere che un decimo di quanto ce lo hannofatto pagare, anzi di quanto lo hanno fatto pagare all’azienda, visto che la cena ci è stata offerta!” Iltipo, e tutta la platea mi guarda a bocca aperta senza trovare una parola per rispondermi, al contrariodel Direttore che invece molto divertito non rivolgendosi a nessuno in particolare dice: “Lui è così,va preso come è, deve dire sempre quello che pensa, ce ne fossero come lui in Ditta!”. Ladiscussione poi si sposta su aspetti veramente secondari, dove appena posso, mi defilo lasciando ilposto più ambito al rampante di turno. Mi sento davvero soddisfatto. Mi sono sfogato, homantenuto la promessa al Motta e sono fuggito da quel posto.Fuori fa veramente freddo, ed il maglione non basta più. Corro giù lungo la stradina sia per farprima possibile sia per cercare di scaldarmi. Il vino, anche se modesto mi arriva diretto alla testa.Stranamente mi sento leggero, quasi felice, arrivo alla macchina e mi blocco. Ho come lasensazione di essermi dimenticato qualcosa, controllo velocemente e scopro che non ho il cellularecon me. “Cavolo”! dico a mezza voce, l’ho lasciato sulla sedia, quella vicino a dove ero seduto. Edè già passato un sacco di tempo. Percorro in senso inverso la stradina in salita ed arrivo ansimantealla doppia porta e vetri. Devo aspettare che un bel gruppo di persone, liberi l’ingresso prima di

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poter entrare. Passo di corsa la prima sala, quasi completamente deserta tranne il tavolo dell’elite alquale ho dato spettacolo poco prima, ed entro nella seconda preoccupato di non trovare più il miocellulare. Ai tavoli non c’è quasi più nessuno, ci sono solo due gruppetti di persone, uno vicino aduno dei caminetti accesi, ed un altro affacciato alla piccola porta laterale, proprio dietro al bancodelle torte. Arrivo al mio tavolo e trovo il cellulare esattamente dove lo avevo lasciato.Sul tavolo c’è ancora una mezza bottiglia di vino, e sul banco frigo, fanno ancora mostra di se dellegenerosissime porzioni di crostate e torte varie. Decido di approfittarne, anche per recuperare dallacorsa appena fatta, anche perché non c’è traccia della signora Motta che deve essere andata via pocodopo suo marito e mi posso muove tranquillamente. Mi verso un mezzo bicchiere e mi avvicino albancone, e mi scelgo una fetta di crostata di more, che con questo vino non ci sta poi così male.Davvero buona la crostata. Il vocio sommesso che proviene dalla stanzetta li dietro si smorza, elascia spazio ad un pianoforte, ad una melodia conosciuta. Qualcuno sta suonando l’introduzione diFirth of Fifth. Incredibile! Rapito da quello che è da sempre uno dei miei pezzi preferiti, trascinato aforza tralasciando qualsiasi prudenza dettata dal patto con il Motta mi affaccio alla stanza pergustarmi il brano e vedere chi sta suonando. Dentro ci sono solo tre persone. Le due ragazze dellaricezione merci quelle che erano prima al tavolo con me e, purtroppo la signora Motta che stasuonando.

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Secondo capitoloSesta parte:

Rimango sulla porta ad ammirarla, ormai mi ha visto e non posso più scappare via. Avrò provatomille volte ad imparare a suonare uno strumento musicale senza nessun risultato, malgrado ami lamusica al di sopra di ogni altra forma di arte. Di conseguenza la mia stima per chi è capace disuonare a questi livelli è praticamente infinita.La signora Motta sta suonando senza nessun spartito, a memoria. Rimango estasiato a seguire lepiccole variazioni che inserisce nel brano, abbandonando per un attimo il tema originale per poiritrovarlo con assoluta linearità e precisione. Le ragazze seguono il motivo in modo distaccato,colpite dalla musicalità del pezzo ma non coinvolte tanto quanto lo sono io. Non è un brano moltoconosciuto, almeno per le generazioni più giovani ed è possibile quindi che lo stessero ascoltandoper la prima volta. Appena finito il brano la signora Motta si volta prima verso le ragazze, poi versodi me: “E tu cosa ci fai qui? Non dovresti essere con gli altri a trovare i vecchi amici?” Certopensandoci bene Motta gli avrà parlato di me per tutta la sera, per coprirsi la propria fuga. Mi sa cheho rovinato tutto ed il suo alibi adesso vacilla, devo sistemare in fretta questa cosa, trovare unascusa plausibile. Intanto la signora Motta mi guarda con curiosa intensità scorrendo lo sguardo unpaio di volte dall’alto in basso, soffermandosi con insistenza sul bordo della camicia portata fuoridai pantaloni: “Non ti sforzare nemmeno ad inventarmi un scusa caro. Lo so benissimo dove sonoandati tutti quanti i tuoi amici, e se non ti sbrighi ti perdi pure la parte migliore dello spettacolo!”.Non c’è nessun tono di rimprovero nella sua voce. Quello che mi da è davvero solo un consiglio,non c’è acredine nelle sue parole. La osservo meglio, e nonostante l’avessi vista per tutta la serasolo adesso noto che non ha più i capelli lunghi come aveva nella foto che ho visto nell’ufficio delmarito. Ora porta un caschetto di capelli neri e lisci, portati appena sopra le spalle, un volto nonparticolarmente attraente e con qualche chilo di troppo aggiunti nei posti sbagliati, purtroppo per lei(ed per suo marito...), indice di una tranquillità raggiunta. Sorridendo provo a dire: “non ci crederaima per me, stasera lo spettacolo migliore a cui potessi assistere è stato quello che mi hai appenaregalato, sei bravissima. Poi Fifth of Firth è uno dei brani che amo di più, in assoluto”. Il suosguardo adesso si fa più curioso, ed un piccolo sorriso addolcisce il volto, rendendolo di colpodavvero più piacevole: “davvero conosci questo pezzo! Pensavo che da voi in Ditta fossero tutticome mio marito. Sei il primo che mi da questa soddisfazione”. Non mi è mai piaciuto sentirchiamare il proprio compagno o compagna in questa maniera distaccata usando il termine “marito”o “moglie”, mi da istantaneamente l’impressione che ci sia qualcosa che non va nel rapporto, unvoler prendere le distante da un qualcosa che ormai non piace oppure che non soddisfa più. Lasignora Motta, rimanendo sempre seduta al pianoforte allunga una mano verso di me porgendomelaper presentarsi: “anche se so praticamente tutto di te, ci dobbiamo comunque presentare. SonoClaudia la signora Motta, piacere”. Intanto le due ragazze, non so se intuendo un qualcosa diparticolare oppure per qualche altro loro ignoto motivo, ci salutano e ci lasciano da soli. Rispondoalla sua presentazione: “Ok, giochiamo! Io sono Davide”, rispondo stringendole la mano emettendomi a sedere accanto a lei provando a premere quasi a caso qualche tasto del pianoforte: “Tiposso portare qualcosa? Di là c’è rimasto ancora dei bei pezzi di torna e di crostata”. Claudia,indicandosi i fianchi dice: “non dovrei, ma tanto ormai il danno è stato fatto, e poi chi se ne frega,ormai...”. Non replico, vaccinato dalla inevitabile e sanguinosa discussione che avrebbe portato unamia qualunque risposta ad una eventuale stessa osservazione fatta da Caterina e le rispondo: “Tiporto un assaggino di tutte le torte e crostate che trovo, guardo se poi riesco a trovare anche unbicchiere di vino, magari non quel detersivo che ci hanno dato da bere per tutta la sera”. Claudia, sialza per seguirmi al buffet: “no, vengo anch’io, ti accompagno”. La guardo alzarsi, e subito mimeraviglio di quanto sia più alta e aggraziata di quanto immaginassi: “Sei brava a suonare, poi io houn’ammirazione infinita per chi è in grado di suonare uno strumento musicale, figurati poi se misuona anche il mio pezzo preferito del mio gruppo preferito, quando hai iniziato a suonare?” Mi

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pento subito per questa domanda fatta con troppo entusiasmo, mi sto facendo prendere troppo dallasituazione. Ma lei apparentemente a suo agio mi risponde: “Ho studiato piano per dodici anni” mirisponde prendendosi un bel pezzo di torta al cioccolato, “poi ho conosciuto mio marito e nel giro diun anno mi sono ritrovata sposata, con un bimbo da crescere e senza più un momento di tempo perme. Ho dovuto abbandonare gli studi, e non sai quanto mi è pesato e mi pesa tuttora”. Poi,prendendo un altro pezzo di torta simile alla precedente continua: “anche perché è frustrante parlaredi musica con uno che a Natale come regalo, ti porta immancabilmente per tutte le volte lacompilation di turno, pensando di averti fatto il regalo più bello che si potesse fare”. La guardodivertito: “Dai, almeno degli dargli atto che si impegna, almeno ci prova”. Claudia, rapita dallavisione della moltitudine di torte e crostate che il buffet offre abbandona il pezzo di torta appenaassaggiato, per cercarne uno di un altro tipo: “Si impegna è vero, ma lo fa solo per mettersi laconoscenza in pace, per assecondarmi. Figurati che non è in grado di distinguere un pezzo dadiscoteca da un concerto per solo organo. Per lui semplicemente la musica non esiste è unaccessorio inutile, un assoluto spreco di energie e di intelligenza, come ama definirla. Pensa te! Ioche a quindici anni, nel 1982 sono scappata di casa per andare a vedere il mio primo concerto”.Mentre mentalmente provo a fare due conti per scoprire l’età esatta di Claudia la vedo gettarsi suun’altro pezzo di torta, questa volta con un generoso strato di panna sopra per gustarseneimmediatamente una generosa porzione. Appena è in grado di parlare, guardandomi con aria stranami dice: “come vedi, noi donne golose, sappiamo assaporare tutti i piaceri della vita, e quando cicapitano delle belle occasioni di solito non ce le facciamo sfuggire, di solito” e con naturalezza miprende per mano trascinandomi di nuovo nella stanza con il pianoforte: “fammi un po’ compagniamentre suono, almeno fino a quando non ci cacciano fuori da questo posto, ho proprio bisogno disuonare ancora un po’”. Tra le tante bottiglie aperte e non ancora terminate che sono sul buffetriesco a trovare un Franciacorta, uno dei migliori spumanti italiani vinificati con il metodo classico,decisamente una bottiglia fuori logo per quel tipo di serata. Sicuramente un errore di qualchecameriere. La prendo, insieme a due bicchieri ancora puliti. In breve la stanzetta si trasforma in unbizzarro juke-box dove “Book of Saturday” trova posto tra “Life on Mars” ed una suonata per solopiano di Saint Sain, pezzo che francamente non conoscevo. Debussy che si intromette nel controcoro di “Pensieri e Parole” cantata a due voci.Il resto della bottiglia ci accompagna sempre più coinvolti ed intersecati nella nostra inaspettataserata fino a quanto un assonnato cameriere ci urla dalla sala che bisogna proprio andare via.Claudia fa un piccolo cenno con il capo all’invadente cameriere mentre delicatamente primasistema un panno sopra i tasti, e poi chiude la pesante copertura in legno del pianoforte.Rivolgendosi a me, mentre cerca nella borsa il suo cellulare con voce seria mi chiede: “Sei inmacchina da solo, vero Davide?” Senza troppo pensare rispondo:“Si, certo!” Claudia, sblocca ilcellulare e con la stessa grazie e precisione di prima preme in sequenza una serie di tasti, e senzadistogliere lo sguardo dal display scrive ed invia un messaggio: “ecco fatto, possiamo andare hoappena avvertito una mia amica di non aspettarmi, che torno via da sola”. Attraversiamo le duestanze, ormai completamente vuote e buie. Prima di uscire dall’ombra, per avvicinarsi all’uscitaClaudia si ferma, si guarda in torno e mi getta le braccia al collo e sussurrando appena mi dice:“Davide, vai avanti esci ed aspettami fuori, giù in fondo alla strada al parcheggio, è meglio che nonci vedano uscire insieme. Sai come funziona da voi no? Io arrivo tra due minuti, il tempo di salutaregli altri che mi stanno aspettando”, e mi congeda con un leggero bacio sulla labbra.Ha ragione. Per essere bollati in Ditta basta davvero poco e meccanicamente eseguo il suo l’ordine.Nell’ingresso ci sono ancora una serie di gruppetti di persone, persi negli ultimi discorsi dellaserata. Esco dall’agriturismo, scendo per la seconda volta la stradina che porta giù al parcheggio emi piazzo esattamente dove mi aveva chiesto Claudia di aspettarla, “speriamo faccia presto, qui sigela” penso. Dopo pochi minuti dal basso della stradina la vedo apparire insieme ad un altrogruppetto di persone. Mi passano davanti senza considerarmi, come se fossi assolutamentetrasparante. Claudia, rimasta leggermente indietro, mi manda un’occhiata di intesa, facendomicapire di aspettarla li. Finalmente riesco a realizzare cosa sta accadendo. Un calore improvviso ed

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una voce mi arriva su da dentro, dal basso e la sento urlare: “Hey Davide, non ti farai mica degliscrupoli vero? Qui è da tre mesi che non si batte chiodo, non fare lo stupido, fregatene! Tanto è leiche lo vuole!”. Mi sposto leggermente verso la parte più nascosta del parcheggio, dietro agli alberi,sia per aver un riparo maggiore dal freddo, sia per capire dove fosse sia finita. Di colpo la sentoarrivare dalle mie spalle: “Davide?, Davide dove sei?”. Le vado incontro, lei mi vede e si avvicinavelocemente. Mi si ferma davanti, mi guarda solo un attimo prima di abbracciarmi e baciarmi conpassione. Mi prende una mano e se la infila sotto il maglione, mentre con l’altra mi tiene fermopremuto a se. Soddisfatta da questo primo approccio allenta un attimo la presa per chiedermi diandarsene di li. Mi segue senza dire niente fino alla mia auto. Appena saliti, mi guarda senzaimbarazzo e mi dice: “i ragazzi li ho portati dai nonni, e mio marito fino alle quattro di domattinanon si farà vivo, poi voglio proprio vedere se avrà pure il coraggio di dirmi qualcosa, andiamo”.Metto in moto, e parto lentamente, ormai incastrato in un ruolo che a questo punto devo recitarefino in fondo, mio malgrado: “Andiamo? Do-dove?” provo a dire balbettando. Claudia adesso miguarda davvero divertita: “Ma quanto sei imbranato! Andiamo a casa tua, che da me non si può,tanto lo so che abiti da solo, me lo avrà detto cento volte mio marito stasera”.

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Secondo capitoloSettima parte:

“Bene Claudia, brava!” penso tra me e me guidando verso casa. Il marito che si affanna per mesi acercare un alibi per una innocente scappatella e lei con un solo messaggino all’amica si sistema unben altro tipo di serata.Guido con calma, e ogni tanto, di nascosto guardo cosa stia facendo. Adesso ha la sua borsetta sullegambe, sta trafficando con una serie di creme e batuffoli di cotone per struccarsi. Non ha ancoradetto niente da quando è salita in macchina. Non riesco a capire se fa tutto questo per spirito divendetta oppure perché semplicemente funziona così. Non credo che sia perché gli piaccio, nonsembra il tipo che sceglie una avventura dal menù proposto dalla serata come ha scelto le torte pocoprima. Ci deve essere dell’altro, qualcosa di profondo e maturato. Forse più tardi proverò a scoprirecosa sia, anche se sicuramente ci deve incastrare quel nostro feeling per la comune passione dellamusica.Per fortuna il viaggio è breve e velocemente si arriva a destinazione. Non aspettavo ospiti, e miscuso subito per il gran disordine della casa. Appena entrati Claudia si sofferma a guardarel’enorme poster dei Blues Brothers, quello in bianco e nero, con la Blues Mobile in primo piano,che ho proprio dietro la porta di ingresso, poi si volta e togliendosi il pesante cappotto dice: “Dovreiandare un attimo in bagno. Intanto metti su un disco, mi raccomando che sia una scelta degnadell’occasione”.Preoccupato dello stato del bagno, le dico di aspettare un attimo per controllare. Tolgoammucchiandola da una parte della biancheria usata che avevo lasciato nel piatto della doccia, lecerco un asciugamano pulito e con un po’ di carta igienica ripasso velocemente le ceramiche, etorno da lei con un bel sorriso: “Claudia, ora è tutto tuo”. Mi fermo nella mia camera, e mi metto apensare alla scelta migliore per il disco da mettere. La scelta non è determinante per l’esito dellaserata (credo a questo punto scontato), ma per il futuro, per i miei ricordi. Il disco scelto saràindelebilmente legato a filo doppio a questa serata, a prescindere da ogni altra cosa che potràaccadere. Riconosco che è davvero una mania per me abbinare ogni evento ogni istante ad unparticolare disco, anche se ricordo di aver letto qualcosa di simile in uno degli ultimi romanzi cheho letto. Per me ha sempre funzionato così, come fu per Tereza e Tomas, e molti dei miei dischi miricordano una persona, un incontro oppure un momento importante. Sento chiudere la porta delbagno, è Claudia che mi dice: “Eccomi sono pronta, dammi solo un altro istante. Non ti voltareadesso, però”. Obbedisco ancora una volta senza obiettare, mi piace questo ruolo che Claudia mi stadipingendo addosso. Rapidamente consulto i miei dischi nei diversi raccoglitori verticali perscegliere quello che reputo il più adatto, la sento infilarsi sotto le coperte del mio letto. Alla finefaccio la mia scelta. E’ il “Das Wohltemperirte Clavier” di Bach. Apro il cofanetto, prendo il primodisco e senza voltarmi verso di lei e lo vado a inserire nel lettore. Le prime note del preludio inizialeaccompagnano il sorriso e la soddisfazione di Claudia: “bravo, davvero una gran bella scelta”.Claudia, completamente nuda mi aspetta sotto le coperte, proprio dalla parte dove normalmentedorme, o meglio dormiva Caterina: “Spogliati anche te, dai vieni qui, presto”, è davvero moltoimpaziente. Ubbidisco ancora e mi infilo sotto le coperte, entrando dalla parte di letto menospaziosa dove si è sistemata lei, in modo da costringerla a spostarsi dalla parte opposta più libera,dalla parte dove normalmente dormo io. Nei miei intenti una specie di rispetto che ho ancora versoCaterina.Appena infilato nel letto, Claudia senza nessun tipo di preliminare, mi sale sopra ed aiutandosi conuna mano unisce i nostri corpi. La vedo soffrire per un attimo con una profonda smorfia di dolore,per poi lasciarsi subito andare al piacere dato dal contatto dei nostri corpi e dalla musica cheaccompagna i nostri movimenti sincronizzati.Riesco appena ad entrare in sintonia con i suoi ritmi quando Claudia, dopo uno spasmo più forte silascia andare completamente senza peso su di me per spostarsi di lato subito dopo. L’unico contatto

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che ci unisce ancora è il suo braccio che stringe con violenza il mio collo fino a quasi farmi male:“Claudia?” le dico spostandole appena i capelli dalla faccia. Lei, si tira leggermente su, visibilmentescossa ed ancora ansimante: “Scusa Davide, è solo che ne avevo veramente bisogno. Erano unsacco di tempo che non lo facevo più, non mi ricordo nemmeno da quanto”, poi mi si avvicina: “loso che ti ho lasciato a mezzo, anzi che non hai nemmeno incominciato!” aggiunge con una risatina:“ma fammi gustare questo momento per un po’ di tempo, è tutto così tranquillo e sereno qui. Stoproprio bene”. Ed appoggia il suo visto sul mio petto, abbracciandomi adesso completamente.Provo ad accarezzarla, prima i capelli e poi la schiena. Toccandola così scopro che è completamentecoperta da una infinità di goccioline di sudore, praticamente madita. Ovunque. Senza spostarmi ecercando di non darle troppo fastidio riesco a prendere il piccolo asciugamano di servizio che tengosempre li vicino, e comincio ad asciugarla dolcemente, prima la schiena poi il collo e le braccia. Leisi volta, ed io continuo con i seni e la pancia, le gambe adesso mossa da un respiro tornato quasinormale: “Davide, sei davvero dolce, nessuno ha mai avuto questa cura per me, anzi se il solo chenon sia rimasto particolarmente colpito da questa mia cosa”. Rimango rapito dalla profondatristezza delle sue parole, e di come la vita possa portarsi dietro infinite sorprese. Provo ancora adaccarezzarla, ma lei con una mossa decisa, mi prende ed insieme ci ribaltiamo, con io sopra e leisotto. Adesso sono io che comando le operazioni, Claudia mi tiene fermo, legato a se con le suegambe incrociate sulle mie e con le braccia che mi stringono dietro la schiena: “come mi devocomportare?” le chiedo mordendole appena un orecchio: “non ti preoccupare, fai pure, sono aposto!”. E’ una sensazione strana per me questa, non sono abituato a lasciarmi completamenteandare. Marina prima e Caterina poi non hanno mai voluto prendere la pillola, ed io non ho maiamato troppo usare il preservativo. Devo fare fatica per convincermi che è veramente tutto a posto,per chiudere il cerchio aperto poco prima da Claudia.Bach è ancora li che suona. Abbasso leggermente la musica, sta diventando sempre più alta efastidiosa nella quiete assoluta del dopo. Approfittando di questa interruzione Claudia prende il suocellulare e traffica con i tasti: “ho messo la sveglia per le tre e mezzo, ti va se dormiamo un po’? Poianticipandomi: “no Davide, non ti preoccupare! Non mi devi riaccompagnare, passa una mia amicada qui, e già tutto a posto.

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Capitolo secondo.Ottava parte:

Per la prima volta da anni arrivo al lavoro veramente preoccupato. I dubbi lasciati dall’avventuradella sera precedente sono lì che aspettano solo di saltarmi al collo. In più non so comecomportarmi con Motta, non so nemmeno se e quando ha avuto occasione di parlare con Claudia.Se è arrivata prima lei a casa oppure no. Pensandoci bene però non ho niente di cui preoccuparmi.Claudia mi ha offerto, come se ce ne fosse ancora bisogno, un’altra prova di come le donne sianopiù solidali e pronte nell’aiutarsi rispetto a noi maschi. Io non lo avrei fatto per nulla al mondo dipassare a prendere un mio amico alle tre e mezzo di notte, magari a chilometri di distanza da casamia solo per coprire una sua scappatella.Appena entro nel mio ufficio Matteo mi blocca immediatamente: “Davide, finalmente sei arrivato,non se ne può più di rispondere al telefono per te. E’ il Motta, ti avrà cercato dieci volte da stamani!Per favore digli di darsi una calmata eh?”. “Guai in vista”, penso, per che altro mi cercherebbe contanta insistenza. Il telefono suona ancora, rispondo: “Si, Davide Sole?”. E’ lui che con vocesollevata mi dice: “Ah! Davide, finalmente se arrivato. Ti devo parlare subito, puoi venire da me?Grazie, grazie!”. Mi tranquillizzo subito, non è la voce di una persona chi ha appena scopertol’infedeltà della moglie. Gli rispondo con il tono di voce più naturale che mi riesce inventare: “Si,guarda, sistemo la posta ed arrivo subito, dammi cinque minuti”. In tanto il Frangioni, avvicinatosenza farsi notare con insolita educazione mi saluta: “buongiorno, dott. Sole, come va stamani?Smaltita la serata di venerdì eh? Se ha bisogno di me può trovarmi quando vuole nel mio ufficio”.Che mutazione! Il sig. Frangioni di solito, il lunedì non esce mai dal suo ufficio prima delle undici,e se per caso infrange questa sua abitudine, lo fa solo per rimproverare ed urlare contro qualcuno isuoi soliti insulti. Stupido da questa nuova sua versione gli rispondo: “Si grazie, è stata una bellaserata!”. Vedo Frangioni che prima mi sorride e poi ritorna nel suo ufficio per chiudersi dentro,come al solito. Matteo, davvero stupito mi guarda e mentre sto uscendo per andare dall’ing. Mottadice: “Ed alla fine il Frangioni ha scoperto che sei amico del Direttore. Hai visto come è cambiato ilsuo atteggiamento verso di te eh? Che Ditta siamo!”. E’ vero, io ho sempre taciuto la mia amiciziacon il Direttore con tutti, perché la ritengo un fatto personale. Altre persone invece l’avrebberousata per vantarsi, o per migliorare la propria posizione oppure per sentirsi importanti. A me di tuttoquesto non me ne importa un fico secco. Salgo le tre rampe di scale, la prima con otto gradini,quella nel mezzo di cinque e la seconda di dodici e vado deciso per il mio ex ufficio. Più miavvicino alla mia meta e più divento e più sicuro e tranquillo. Si, Claudia non si è lasciata scapparenulla, sono certo.Arrivo e vengo accolto dal Motta con un sorriso rassicurante: “Davide! Grazie! Vieni, che non tiancora ringraziato abbastanza!”. Non capisco, non riesco a capire, è la terza volta mi ringrazia perqualcosa, ma non capisco proprio cosa sia. Mi siedo veramente curioso, avvertendo di nuovo, manon così forte il suo caratteristico odore dolciastro. Appena seduto il Motta inizia a raccontare:“Davide, la serata è stata un disastro. Al Babilon due di noi hanno perso la testa, e si sono permessidelle libertà di troppo con le ballerine, addirittura uno le ha seguite nel privè, senza chiedere ilpermesso a nessuno! Guarda è successo un casino che non ti dico!”. Mi rallegro immediatamentedella mia scelta mentre penso: “lo sapevo, era scontato che succedesse, cosa ci si poteva aspettare didiverso? Non era così difficile prevederlo, poi c’è sempre questo tono di fratellanza che odio neisuoi racconti, quel modo dire di usare il “noi”, quell’accomunarsi quando sono tutti insieme.Davvero non lo sopporto, è indice di poca personalità”. Lo guardo fingendo di essere interessatoalla storia e gli chiedo di andare avanti nel racconto: “E poi?. Il Motta aspetta un attimo e poiriprende: E poi? E poi sono arrivati i buttafuori e ci hanno cacciati a spintoni e schiaffi, ma non èfinita li, ci hanno fatto pagare 85 euro a testa per due aperitivi. Ma aspetta! Ad aspettarci, fuori,c’erano due pattuglie, una per ogni lato della strada perché secondo me i buttafuori, devono averchiamato la polizia, la stradale. Ci hanno fermato subito dopo appena 20 metri che si era partiti”. Il

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racconto si fa interessante, non conosco a fondo le dinamiche da night club, e la cosa mi divertemolto: “per fortuna non guidavo io. Ci hanno fermato ed hanno fatto fare la prova del palloncino alCarli che guidava, sai quello dell’amministrazione. Gli hanno tolto la patente subito e gli hannopure fatto una bella multa a 3 cifre! A quel punto per vedere chi di noi poteva guidare hanno fattofare il palloncino a tutti, e naturalmente siamo risultati tutti positivi. Nessuno di noi poteva piùguidare. Ci hanno tenuti li fino alle sei del mattino. Abbiamo dovuto aspettare che la moglie delCarli arrivasse con una amica per prenderci e riportarci a casa!”. Non ce la faccio a non ridere,immaginandomi la scena. Lui con in bocca un palloncino di lattice da riempire in mezzo alla stradaalle 3 del mattino, con la moglie del Carli che corre il loro soccorso: “Sono arrivato a casa erano lesette passate. Pensavo che Claudia non mi facesse neanche entrare, che mi aspettasse in piedi,invece era a letto che dormiva, profondamente e tranquilla”. Lo guardo con attenzione, cerco dicapire se quello che racconta sia la verità oppure sia una trappola per cercare di farmi dire qualcosain più, per tradirmi insomma: “Claudia si è svegliata, mi ha visto, ha guardato l’orologio e non miha rimproverato niente, anzi, mi ha detto che tu gli avevi spiegato la situazione, e che anche lei, perfare un favore ad un amico avrebbe fatto lo stesso. Non so come hai fatto o cosa gli hai detto ma seistato davvero in gamba, un grande! Grazie ancora Davide!” Stavo per dirgli che non le avevo dettoniente, poi per evitare di far nascere degli inutili sospetti gli rispondo: “Si è vero, l’ho incontrata alpianoforte e siamo rimasti li fino alla chiusura nel locale, si è anche cantato insieme, è davverobrava a suonare”. Adesso Motta è visibilmente più rilassato: “Senti Davide, meno male ci haipensato tu, perché altrimenti chissà cosa sarebbe successo. Stamani a colazione, per sdebitarmi leho accennato al fatto che vorrei inviarti a cena una sera di queste, dai mi piacerebbe che in fondo ciconoscessimo un po’ meglio, che ne pensi non è davvero una bella idea?”.Non mi va di vedere i coniugi Motta insieme, poi io non sono abituato a questo genere di intrighi,mi tradirei in un istante. Provo ad inventare una scusa: “Volentieri, ma non sto passando un buonperiodo, sentimentalmente parlando, intendo”. Ed è vero, non vedo Caterina, ormai da più di tremesi e non so come rintracciarla, ed insisto: “Da solo non me la sento di venire, mi farebbe troppomale, ma ti prometto che se le mie cose miglioreranno accetterò l’invito molto volentieri. Capisci,adesso sono da solo e mi farebbe troppa tristezza, vedere voi così felici ed uniti, ed io invece... mifarebbe troppo male”. Lo so, sono una carogna a dire queste cose, ma li sul momento non mi vienein mente altro: “Davide, mi dispiace che stai male, ma se c’è una qualunque cosa che posso fare,avvertimi subito che sarò ben felice di aiutarti”. “L’unica cosa che ora mi potrebbe aiutare èrintracciare il nuovo numero di Caterina, tu sai come si fa?”. Mentre esco dall’ufficio mi chiedocome mai non mi abbia chiesto niente della mia avventura con la tipa organizzata per la serata divenerdì. Può darsi che se lo sia semplicemente dimenticato.

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Seconda parteCapitolo nove

Non ci siamo proprio promessi l’amore eterno io e Claudia. Anzi non siamo proprio rimastid’accordo in nessun modo. Nemmeno la classica frase da personaggio di ruolo, un qualcosa chepotesse assomigliare ad un “possiamo rivederci”, oppure un “è stato bello?”, niente di niente.Quando è suonata la sveglia Claudia si è alzata, ha preso tutta la sua roba che aveva ordinato concura ripiegandola sulla sedia vicino al letto, e se ne é andata nel bagno a vestirsi. Poi mi ha lasciatosalutandomi appena. Mi ha chiesto solo il numero di telefono del cellulare, e se poteva chiamare ose era meglio mandare dei messaggi. Ha solo insistito un paio di volte sull’opportunità di nonchiamarla, per non crearle dei problemi e che, in ogni caso si sarebbe fatta comunque viva lei.Claudia anche se è una bella donna, non soddisfa in pieno i miei abituali canoni, anche se devoammettere che ha un bel volto ed un modo molto istintivo ed animalesco di comportarsi nel privatodelle lenzuola. Certo il nostro primo incontro non è stato un incontro che rimarrà nella storia, però èstato comunque soddisfacente per entrambe le parti, almeno così sembra.Oggi inizia l’ultima settimana di lavoro di Dicembre, e siamo davvero a ridosso delle feste natalizie.Ho voglia di vedere Caterina, devo assolutamente riuscire a ritrovarla, anche se tutti gli sforzi fattifino ad oggi non hanno prodotto nessun risultato. Tra tre mesi, a fine marzo, dovrebbe nasceDavide, e per affrontare la cosa devo avere un rapporto stabile su cui appoggiarmi, una eventualeuna spalla dove piangere e farmi consolare. Claudia non potrà aiutarmi ed in fin dei conti non lovorrei neanche. E’ solo che forse per la prima volta nella mia vita ho davvero voglia di stabilità, e diabitudini da seguire, la routine insomma, tornare a casa la sera e trovare ad aspettarmi qualcuno chenon sia la mia solita gattina, la cena pronta, degli amici invitati. Si, mi scoccia dirlo ma Caterinacomincia a mancarmi e non solo il suo ruolo. Non credevo che potesse capitare, forse ho tropposottovalutato i miei sentimenti verso di lei. Sicuramente non ho mai capito quanto fosse importantelei per me.Anche oggi, il consueto giro per ristoranti che ho preso quotidianamente a fare durante la pausapranzo non ha dato nessun frutto. In ufficio non ho molto da fare e come al solito sto soloaspettando le cinque per andare via. Poi di colpo, accade qualcosa. Contemporaneamente suona iltelefono dell’ufficio ed arriva un messaggio sul cellulare. Rispondo al telefono econtemporaneamente leggo il messaggio. Al telefono riconosco immediatamente la voce del Motta:“Davide, ciao sono Motta”. Mentre ascolto il mio nuovo insistente amico provo a leggere ilmessaggio. Mentre apro il contenuto del messaggio sento il Motta che insiste: “Senti, per quel tuoproblema, ho fatto un po’ di telefonate, credo di poterti aiutare”, ascoltandolo riesco pure a leggereil messaggio: “Davide, tieniti libero. Venerdì sera, sei mio. Claudia”. Rimango sconvolto dalcontenuto del messaggio e non do troppo peso all’importante novità che mi sta annunciando ilmarito dell’autrice del messaggio appena letto: “Ho un amico che lavora nel più importante negoziodi telefonia della città, sei dai il nome completo, ti trovo il numero della tua Caterina, lo so che nonsi potrebbe, ma mi deve un favore, e per te lo faccio volentieri!”. Mi riprendo e rispondo a Claudiascrivendo un laconico “ok” mentre per prudenza cancello il messaggio appena arrivato, non si samai. La notizia data dal Motta, non mi rende particolarmente contento. Non credo che si possarintracciare un numero privato, ma se così fosse questa improvvisa disponibilità mi mette a disagio:“Davvero? Bene, sto uscendo però. Ti lascio il nome completo di Caterina se per caso scopriqualcosa avvertimi. Te li sto mandando per posta elettronica”.Lo saluto, gli scrivo l’e-mail promessa con i dati promessi ed esco senza curarmi di nessuno. Salutosolo i miei amici di scrivania. Sono appena le cinque del pomeriggio. Fuori è già buio, ed io ho daassassinare almeno altre sei ore prima di trovare la forza per andare a letto. Mi devo sforzare pernon chiamare Claudia, per farla venire subito da me.

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Capitolo DueDecima parte

Il tempo scorre via lento, senza nessun sussulto, e senza che nulla possa cambiare il mio statod’animo. Neanche l’acquisto in massa di videogiochi in offerta riesce a sollevare le mie serate dalsolito grigiore. Solo la gattina sembra non accorgersi di niente, per lei la felicità è un piattino pienodei suoi croccantini preferiti ed un filo di lana per giocarci delle ore. Quello che non riesco proprioa digerire di questa situazione è il fatto che aspetto l’incontro con Claudia come l’evento risolutivo,il punto di arrivo di tutte le mie energie settimanali. Poi c’è questo clima di festa per le strade checomplica un po’ tutto, li vedi indaffarati tra i loro pacchi regalo, apparentemente tutti molto felici.No! Non può essere solo ipocrisia, sono sicuro che in mezzo a loro c’è qualcuno che si crederealmente felice. Sono persone che tutto sommato invidio. Anche quando stavo insieme a Caterinaho passato molte serate da solo in casa, specie nel fine settimana, ma sapere di avere un’alternativaè un aiuto che non avevo assolutamente intuito. Un conto è passare la serata da soli in casa sapendoche da un momento all’altro accada qualcosa che sai non potrà accadere, e che comunque quellesono ore rubate da un menage ormai consolidato, altra cosa è sapere che quelle ore di libertà sonosemplicemente il frutto di situazione ben precisa e non di una scelta. Cerco di fare dei programmiper il mio futuro: dopo le feste mi iscrivo di sicuro ad un palestra, ritorno a vedere i miei amici, efare qualcosa di sociale e socievole. Devo comunque dare una svolta. Sono solo le sette di sera evorrei già andare a dormire. Inganno il tempo chattando un pochino in rete con uan tipa di NewYork, giusto per ripassarmi un po’ di inglese prima di infilarmi tra le coperte, ancora intrise delprofumo di Claudia. Non fa molto freddo, ma mi faccio la consueta borsa di acqua calda perscaldarmi i piedi. Faccio fatica a tenere gli occhi aperti. Fortunatamente anche questa notte mi volavia.Eccoci arrivati all’ultimo venerdì di lavoro dell’anno. Normalmente non siamo troppo occupati inquesto periodo dell’anno e questo giorno di solito viene dedicato per fare tutti quei piccoli lavorettiche altrimenti non potremo mai fare durante le “normali” giornate lavorative come svuotare icassetti, pulire la tastiera ed il mouse, mettere in ordine i documenti già consultati e non piùnecessari per il lavoro. C’è pure da dare una pulitina all’hard disk del computer ed alle propriecartelle in rete, cancellando tutte le cose inutili raccolte durante l’anno.Sveglia, bagno, vestiti, colazione al bar e solito tragitto, prima in treno e poi a piedi per arrivare alsolito posto. Come sempre, come per tutti i giorni. Stavolta però davanti ai cancelli della ditta c’èuna strana confusione. Ovunque si vedono dei fogli ciclostilati. Sono per terra, attaccati ai muri, suivetri della macchine in mano a tutti i colleghi, svolazzano da tutte le parti. E’ davvero raro, perquesti tempi di mezzo, vedere una scena simile. Da una parte scorgo tutti i miei colleghi di ufficioraccolti in un unico gruppo. Sembrano discutere animatamente. Per un secondo mi tornano allamente le immagini di un documentario visto alla TV sulla vita di animali che si raggruppano inmomenti di difficoltà o per difendersi dall’attacco di qualche predatore. Buffo no? Cancello questaimmagine dalla mente e provo a capire cosa stia accadendo. Probabilmente in questi volantini c’è larisposta. Ne prendo uno, raccogliendolo da terra ed inizio a leggere.E’ una comunicazione aziendale. Si annuncia per le dieci della mattina un’assemblea generale neilocali della mensa, di fatto l’unico ambiente grande abbastanza per contenerci tutti. Non è dato dicapire altro, anche se la frase sottolineata e scritta in grassetto “la direzione comunicherà gravi edimportanti notizie sullo stato economico della Ditta” non lascia presagire niente di buono.In effetti negli ultimi tempi ci sono stati molti segnali di sofferenza, l’abolizione della gratificaNatalizia, l’obbligo ad esaurire i giorni di ferie per evitare che gravino sulla chiusura del bilancioannuale, la continua ed assillante richiesta di maggior impegno e attenzione alle spese. Tutti piccolimessaggi precisi, che vanno tutti in una unica direzione. Non bella.Non ci provo nemmeno. Non passo dal Direttore, anche perché non saprei cosa chiedergli e vadodiretto nel mio ufficio, al solito cercando di ignorare tutto quello che mi sta intorno. Dentro si

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respira la stessa aria di incertezza che si respirava fuori: “Ma, secondo voi cosa è successo? Cosaavranno da dirci?” I più preoccupati sono ovviamente gli impiegati più anziani che hanno giàvissuto in passato situazioni simili. Mi fermo ad ascoltare i loro commenti, quando provo a chiedere“Cosa ne pensate della scelta di questo giorno? E’ una scelta strategica praticamente perfetta! Nonci lasciano spazio per organizzarci!” La mia è una osservazione talmente evidente che lasciaperplessi tutti quanti. Sandro, un amico del calcetto ormai abbandonato mi chiede: “Davide, tu seiamico del Direttore sicuramente sai più cose di noi, di cosa si tratta?2 Senza nemmeno provare agiustificarmi rispondo: “Davvero non lo so, tra poco lo scopriremo tutti insieme, manca pocoall’appuntamento in mensa”.A distanza di una sola settimana ci si ritrovava tutti insieme. Il venerdì prima per la cena aziendaleofferta e organizzata dalla direzione, ed adesso in questa spoglia ed informale sala mensa, pronti adascoltare notizie che inevitabilmente influenzeranno il nostro futuro.Arrivo all’appuntamento e mi vado a sedere in un posto libero in una delle prime file. Mi volto ecomincio ad osservare la sala che lentamente si va riempiendosi. Mi diverto a riconoscere lepersone incontrate il venerdì precedente, cercando di ricollocarle nella loro posizione originale. Laprima parte della sala mensa che si riempie è quella più lontana dal piccolo bancone organizzatocon due microfoni, dove tra poco parleranno i vertici aziendali. Stavolta non c’è la corsa a stargli ilpiù vicino possibile. In una delle prime file, vedo Motta. Stavolta sono io che vado da lui.Sul bancone pronti a parlare ci sono quattro persone. Il Direttore, il dott. Turini, la tipa responsabiledel personale e quello che dovrebbe essere il nostro rappresentante sindacale: “cosa ti sembra?”chiedo al Motta che mi risponde: “Non lo so, non sembra una bella cosa. Si dice in giro che ci sia lanecessità di qualche taglio al personale. Poi c’è quella figura con il Direttore, il dott. Turiri, non sose lo conosci. Me ne hanno parlato. Lavora per una Ditta specializzata in riorganizzazione delpersonale. Non mi piace per nulla!”. Mi sento un po’ in colpa per il lavoro “sporco” che sto facendodi nascosto con il dott. Turini ed il Direttore. Mi sento un po’ responsabile di quello che staaccadendo. Ho lavorato con il dott. Turini senza pensarci troppo, un po’ nel mio stile,fregandomene del mondo intero.Il Direttore prende la parola, con un paio di colpi di tosse raccoglie l’attenzione della platea cheimmediatamente fa silenzio ed inizia a raccontare di quante e quali siano state le difficoltàeconomiche dell’anno appena passato, e di come non si prevedano cose buone per l’anno prossimo.Spicciola pure una serie di cifre e percentuali, che però annoiano i più. Ne approfitto per scrivere unmessaggio a Claudia, tanto il marito non la può certo scoprire, almeno stavolta. Un messaggiosemplice e banale: un solo punto interrogativo.Appena finita l’introduzione del Direttore prende la parola il dott. Turini. Solo adesso riesco avederlo nella sua vera dimensione. Una persona al di sopra delle parti che decide sulla sorte di noidipendenti allo stesso modo con cui si sceglie una marca di detersivo dallo scaffale delsupermercato. E siamo tutti in fila, belli esposti con i nostri prezzi, nessuno escluso. Ormai il tagliodato a questa assemblea è completamente delineato. Il messaggio è semplice e preciso: “la Ditta nonè in grado più di sopportare l’attuale numero dei dipendenti e se la situazione economica nonmigliora ci dovranno essere dei tagli. L’esposizione del dott. Turini è fredda informale. Ci raccontacome lui in realtà sia costretto a fare questo lavoro, e come se potesse ne farebbe volentieri un altro,il coltivatore diretto, il pescatore. Non ci casca nessuno, la sua vera vocazione è questa, licenziare ilpersonale in eccesso nelle ditte in difficoltà. Finalmente la sala riesce a reagire, prima con un brusiosommesso, poi con schiamazzi ed urla sempre più forti. Per calmare gli animi prova ad intervenire ilrappresentante sindacale. Adesso quasi tutti sono pentiti della scelta fatta da tutti noi eleggendolo.Non sembrava se ne avesse davvero bisogno. Il poveretto è stato trascinato la nel mezzo alle belvesolo perché si era interessato più di altri a problemi secondari, farci avere il caffè migliore allemacchinette, una carta igienica più decente nei bagni. L’assemblea continua, senza aggiungere altrenovità: “Davide, certo ci hanno augurato proprio un bel Natale! Però potrebbe essere una bellaopportunità per chi ha la possibilità di ricollocarsi in tempi brevi. Pare che ci siano dei bei incentiviper chi vuol dimettersi” E’ Motta, che accanto a me sta facendo le sue considerazioni

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sull’assemblea appena conclusa: “Dimettermi per cosa?” lo guardo perplesso: “per avere sette oottomila euro in più sulla liquidazione? E dopo lo ritrovo io un lavoro a quarant’anni suonati!”L’idea di poter perdere il lavoro non mi era mai passata per la mente prima. Un senso di sconfortomi assale. Motta deve aver intuito questo, ed aggiunge: “Davide, non ti devi preoccupare siamoblindati qua dentro, nessuno ci può mandare via, almeno che non lo vogliamo noi”.Ritorno in ufficio e mi metto seduto davanti al mio computer. Mille dubbi adesso mi assalgono. Seperdessi questo lavoro non saprei proprio cosa fare. Guardo l’orologino sul monitor: è l’ora dipranzo. Credo però in pochi torneranno in sala mensa oggi.Come abitudine anche oggi cercherò un po’ Caterina, anche per distrarmi da quanto accaduto piùche per un effettivo bisogno. Uscendo dall’ufficio mi accorgo che c’è un messaggio sul cellulare. E’Claudia, che mi avverte che sarà da me, verso le sette e mezzo di stasera. Non sarà una serataesaltante, ma sicuramente sarà meglio delle precedenti. Mi scopro a sorridere come un idiota mentresto uscendo dal lavoro per andare a pranzo.

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Capitolo DueUndicesima parte

Prima di arrivare a casa, mi fermo nel mio solito supermercato a fare un po’ di spesa. Ho voglia difare il carino e di far trovare a Claudia qualcosa di goloso da mangiare. Prendo dei formaggi, unpaio di bottiglie di vino, uno bianco ed un rosato, degli affettati, un po’ di verdure da cuocere allagriglia.Arrivo a casa mi metto subito a preparare una bella serie di stuzzichini con tanto di paneabbrustolito in forno, e vino servito alla temperatura esatta, curo anche la presentazione dei piatti infin dei conti anche l’occhio vuole la sua parte. Mi sento a posto. Non posso dire di essereparticolarmente soddisfatto del mio rapporto con Claudia, ma ritornare a preoccuparmi perqualcuno, darmi da fare riesce a dare un senso a queste lunghe giornate altrimenti vuote e tutteuguali. Due squilli del cellulare mi avvertono che sta arrivando.Vado ad aprire. Lei entra di corsa: ”finalmente, fuori si gela!”. Provo ad abbracciarla ma lei si tiraleggermente indietro, sfuggendomi: “ho freddo, è meglio andare di la!”, la seguo con gli occhi e lavedo sparire in camera. Rimango per un attimo fermo sulla porta ancora aperta perplesso, questosua risposta, e questo suo negarsi mi ha ferito. Ma sono davvero così permaloso? Cosa mi aspettavodi più da Lei? Cerco di capire questo suo atteggiamento, ma non ci riesco. Non so proprio comemuovermi, non la vorrei aggredire, ma allo stesso tempo non vorrei che si sentisse trascurata.Finalmente chiudo la porta dell’ingresso di casa, e mi affaccio alla camera. Lei è seduta,rannicchiata sopra il termosifone acceso con la testa in avanti, bassa: “Claudia, ma come seivestita?” Claudia indossa una tuta di ginnastica, rosa, almeno un paio di misure più grandi delnecessario. Alzando piano la testa mi risponde: forse te lo sei scordato, ho un marito e due figli incasa, e questi di solito si fanno delle domande se la moglie o la mamma esce di casa truccata e benvestita, specialmente se questo accade alle sette e mezzo di sera”. E mentre dice questo, facendoleva con la punta del piede si toglie, senza scioglierle le scarpe: “Ti ho preparato qualcosa damangiare, degli stuzzichini vuoi?” Lei mi guarda più seccata che contenta: “Da mangiare? Che dici,non abbiamo tempo!”. Con un gesto rapido mi passa accanto e si infila nel letto sotto le lenzuola,stavolta dalla parte gusta. Stesa nel letto flette il busto in avanti per un momento e si toglie ipantaloni della tuta. Ripete il curioso gesto anche per la parte superiore. Poi si allunga di lato perlasciar cadere di fianco al letto il suo bel completino rosa: “spogliati anche te dai, vieni qui cheabbiamo davvero poco tempo!” allungando le braccia verso di me come per invitarmi.Meccanicamente spengo le luci, sia quelle del corridoio, sia quelle della stanza. Con un gesto mitolgo la felpa che porto sempre quando sono in casa, mi siedo su bordo del letto e mi tolgo ipantaloni ed i calzini: Claudia mi abbraccia da dietro e mi trascina sotto le coperte: “Caro, se ti toglipure le mutandine ci divertiamo di più!” Stavolta, oltre a saltare a piè pari i preliminari si salta purequasi tutto il resto. Claudia, rimane supina, praticamente inerme, senza il trasporto, che se pur dibreve durata aveva caratterizzato il nostro primo incontro. Consumiamo velocemente, o almeno ioconsumo velocemente, seguendo il suo suggerimento ripetuto più volte di non preoccuparmi diniente, che lei a posto così. Appena svolto le mie veloci funzioni Claudia, altrettanto velocementeprende la sua roba rimanendo però sotto le lenzuola. Si vergogna a farsi vedere nuda? Senza direpraticamente niente sgattaiola fuori dal letto e si infila nel bagno. Dopo neanche un minuto sentol’acqua che scorre e Claudia che riappare, vestita. Vedendola adesso nessuno potrebbe intuirequello che è accaduto non più di tre minuti fa: “Davide, scusami davvero ma devo proprio scapparestavolta, perdonami. Per queste feste non mi cercare. Se c’è la possibilità mi faccio viva io. Ok? Melo fai questo favore?”.Si rimette le sue scarpe e se ne esce come è arrivata.Rimango a lungo seduto sul letto inerme. Non c’è una spiegazione logica per questocomportamento, oppure se c’è semplicemente mi sfugge e non riesco ad intuirla. Non riesco adcapire quello che invece dovrei, ed è così lampante. Mi rimetto qualcosa addosso e, attraversando ilcorridoio me ne torno in cucina. Tanto vale approfittare della cenetta che le avevo preparato. Solo

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adesso mi rendo conto di quanto in realtà l’avessi preparata per me, per soddisfare la mia voglia dinormalità, al limite di banalità, il tornare dal lavoro facendo la spesa, per cenare poi tutti insieme.Questa cosa comincia a seccarmi davvero, ed ho ancora un venerdì sera, ed un lunghissimoweekend da inventare per poterlo poi uccidere.

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Capitolo TrePrima parte

Non ho mai festeggiato per il 6 Gennaio. Ho sempre vissuto la festa della Befana come un eventonefasto, da sempre sin dai primi anni di scuola. E’ la fine delle vacanze ed il rientro al lavoro.Quest’anno invece ho aspettato il 6 Gennaio come la soluzione di tutti i miei problemi, un modo perritrovare il solito tran-tran di tutti i giorni.Claudia si è fatta sentire solo il primo dell’anno per un saluto informale e freddo esattamente nellostile del nostro ultimo incontro. Di Caterina nessuna traccia, anche perché non ho insistito molto nelscandagliare tutti i nostri locali e posti che di solito frequentavamo. Di nuovo ho rispolverato solo ilmio vecchio hobby della pesca, anche se il periodo dell’anno proprio non concilia, con il freddo e lapioggia costante.In ufficio, e da tutte le altri parti della Ditta non si respira più quel clima di ipocrita tranquillità checaratterizzava le nostre ultime giornate di lavoro dell’anno precedente. L’ultima assemblea in salamensa ha lasciato un segno profondo, uno stacco deciso tra il prima ed il dopo.Frangioni a malincuore è sempre più disponibile e mieloso verso di me al limite del fastidio,sottraendo di fatto quel poco di umanità che aveva nei rapporti con i miei colleghi che adesso hannoveramente dei grossi problemi a confrontarsi con lui. Il guaio è che tutti sappiamo da cosa dipende,e cioè dall’aver scoperto il mio particolare rapporto di amicizia con il Direttore.Finisce la prima settimana di lavoro dell’anno nuovo, un anno che tutti quanti sappiamo non saràfacile.Verifico con cura tutte le email provenienti da indirizzi sconosciuti sperando di trovare qualchenotizia di Caterina. Conoscendola avrà fatto con i suoi indirizzi email lo stesso di quello che ha fattocon la scheda del telefono, magari sbagliando apposta la sua password a ripetizione fino a bloccarnel’accesso. Non trovo nessuna email sua, come del resto nessuna email di lavoro, solo la solitaquotidiana missiva dal Motta. Il resto è tutto spam.Sento posare una mano sulla mia spalla. E’ Frangioni che ha avuto la cortesia, almeno questa volta,di venirmi a dire dirittamente quello che ha da dire senza urlarlo come fa di solito dalla porta delsuo ufficio: “Davide, mi ha chiamato il Direttore” parla sottovoce, quasi per non farsi sentire,violentando il suo stile: “mi ha chiesto di dirti di andare subito da lui, che ti sta aspettando”. Loguardo incuriosito: “Come il Direttore ha chiesto a Lei di dirmi questo? Perché non mi hatelefonato!”. Frangioni, alzando le spalle risponde: “mi ha chiesto di lasciarti un po’ più scarico dilavoro, ti deve far fare qualcosa di importante, almeno così mi ha fatto capire, non è che mi avrebbespiegato molto”. “Abbia”, provo a indicare, senza però cogliere nel segno. Premo i tasti necessariper bloccare l’accesso al mio personal scrutando il Frangioni per cercare di capire se la battutaprecedente sia stata presa o meno: “allora sarà meglio che vada subito”.Il Direttore mi sta effettivamente aspettando. Non mi saluta con il consueto slancio e mentre entro,al contrario di sempre mi fa cenno di chiudere la porta del suo ufficio alle mie spalle. Sembradavvero molto preoccupato. Mi siedo sulla solita sieda davanti alla sua scrivania.Sul tavolo ci sono una serie di cartelline di cartone, ognuna con il nome di un dipendente, la suafoto in formato tessera fissata con una clip sul bordo ed l’ID del tesserino aziendale benevidenziato: “Guarda qua Davide!” mi dice facendo il cenno di disappunto con la testa portandosi lemani sulle tempie: “queste sono parte delle schede che il dott. Turini, in collaborazione con ilpersonale ha fatto di tutti i nostri dipendenti. E’ una tragedia! Siamo una ditta vecchia, troppo! Piùdella metà di loro non parla inglese e non sa usare un computer come si deve. E queste persone lestiamo pagando almeno il doppio, se non il triplo di quanto pagheremo un giovane ingegnereneoassunto”. Adesso mi guarda diritto negli occhi: “Dai, non prendiamoci in giro Davide, te da soloinsieme ai due ragazzi dell’help desk sareste in grado di portare avanti quell’ufficio, molto megliodi come funzioni ora. Ed invece siete in nove, e malgrado tutti i loro sforzi quello è un ufficio checrea un sacco di problemi amministrativi!”. Rispondo al suo sguardo con attenzione, non sono in

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grado di capire lo scopo di questo incontro, anche se non mi piace troppo la piega che staprendendo. Dopo una breve pausa il Direttore riprende: “Davide, parlerò molto francamente con te,siamo messi male, molto male. Se non ci riorganizziamo tagliando al massimo i costi inutili digestione e del personale in eccesso non si arriva a fine anno, e allora sarà davvero una tragedia pertutti”.Non dico nulla, mi allontano con la sedia di qualche centimetro dalla sua scrivania ed inizio apensare. In Ditta si era intuito la gravità della situazione. Molti avevano fatto delle previsioni, chipiù allegre, chi più funeste. Un conto era sentirle alle macchinette del caffè, un altro sentirle diredirettamente dal Direttore. Facevano proprio tutto un altro effetto. Mi sento mancare letteralmente ilterreno sotto i piedi: “Possiamo utilizzare gli strumenti di legge, prepensionamenti, scivoli, ma nonci basta questo!” Adesso sono veramente spaventato: “Si Davide, ci mancano 40/50 posti daliberare, e se non troviamo chi si dimette autonomamente, magari con degli incentivi e con tutti gliaiuti possibili, questi esuberi andranno trattati secondo i termini previsti, cioè neoassunti, chi hameno carico sociale e così via. Praticamente perderemo chi in realtà sta tirando avanti questabaracca, gente come te Davide!”. A sentire queste parole mi prende la stessa reazione che ho avutoquando Marina mi disse di essere incinta, quel pugno sullo stomaco, con tutto il sangue che haiaddosso che d’improvviso sparisce per lasciarti completamente privo di forze, senza riferimenti, conla testa vuota che ti gira fischiando. Il Direttore continua a rovistare nelle varie cartelline che hadavanti prendendone una: “per esempio guarda qua, questo lo conosci lavora nel tuo ufficio, è il sig.Brasso. E’ in Ditta da 25 anni, è sposato con i figli ancora all’università. Non parla inglese, amalapena riesce ad inserire qualche dato nel sistema. Non ha mai finito le scuole superiori. Quandoè entrato avevamo bisogno di gente come lui, gente che lavorava a testa bassa, capace di macinaretutto e tutti. Turini ha stimato che il suo rendimento è al massimo il 10~15% rispetto ad unneoassunto diplomato senza nessuna esperienza di lavoro. Ma ti rendi conto. Abbiamo provato afargli fare dei corsi di aggiornamento, ma non è servito a niente, nessuno di loro può seguire uncorso di aggiornamento si sentono tutti troppo superiori. Sanno che hanno fatto la storia della Ditta,capisci e si sentono superiori, intoccabili! E’ questo il loro vero problema, hanno perso la voglia dimigliorarsi e di studiare. Si sentono assolutamente indispensabili senza rendersi conto di quanto inrealtà siano un peso”.Non voglio interromperlo, il Direttore è un torrente in piena, prende le schede a caso le apre per unmomento per poi lasciarsi andare allo sconforto più profondo: “NO!!! No! No!” continua a dire: “èincredibile, guarda questo. Qui siamo al limite dell’assurdo. Abbiamo questo ufficio. Vent’anni faaveva una ragione di esistere, ma adesso! Vent’anni fa era necessario fare una copia di tutta ladocumentazione cartacea emessa, copiare e custodire su schede perforate tutti i nostri dati gestionalie sensibili. Non c’era altro modo per garantire la conservazione dell’informazione, ma oggi chesenso ha? Questo ufficio oggi fa le stesse cose si facevano vent’anni fa! Sono in cinque più ilcapoufficio, schedano, archiviano, raccolgono fax, email, dati di vendita, ricerche di mercato,movimenti di magazzino TUTTO, dico TUTTO in enormi faldoni di carta. Stampano i dati dalsistema per archiviarli su carta. L’e-mail!! Ti rendi conto che archiviano le e-mail che ci scambiamosu carta!!!! Solo questo ufficio ci costa mezzo milione di euro l’anno, e sono mezzo milione di eurol’anno gettati via, ci si potrebbe automatizzare uno dei nostri più grandi magazzini con quella cifra..No, Davide, non ci possiamo più permettere tutto questo”. Bisogno trovare la forza di rinnovarci pernon sparire per sempre.

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Capitolo TreSeconda parte

La situazione descritta dal Direttore mi ha profondamente turbato. Come mi ha profondamenteturbato la sua richiesta di collaborazione per riuscire ad individuare quelle persone in quellaparticolare fascia di anzianità di servizio che potrebbero a seguito di una offerta calibrata sulle loroesigenze abbandonare spontaneamente l’azienda. Persone che ormai hanno dato tutto alla Ditta chenon hanno però ancora i requisiti necessari per poter essere allontanati senza il loro consenso. Perintenderci la generazione dei Brasso. Il piano ideato da Turni è finalmente esploso in tutta la suaefficacia. E’ riuscito a mettere contro le diverse generazioni di impiegati presenti nella Ditta.Non ho accettato subito la proposta fatta dal Direttore, mi sono preso del tempo per riflettere, percapire se davvero voglio e posso fare una cosa del genere. Devo tornare da lui nel pomeriggio percomunicargli la mia decisione. La mia non è una tattica, no non è così, sono proprio indeciso sul dafarsi. Non mi sembra proprio un lavoro adatto alle mie possibilità. Estorcere delle confessioni apersone che si fidano di me, per poi riferirle di nascosto al Turini o al Direttore, proprio non mipiace.Evito con cura ogni possibile incontro, anche casuale con il Motta e torno in ufficio. Arrivo, mimetto a sedere ed inizio a trafficare con la lista dei papabili passata poco prima dal Direttore. IlFrangioni mi spia dall’interno del suo ufficio. Una voce mi distrae dai miei pensieri: “Davide!” èMatteo, ormai siamo diventati amici: “C’è il Motta che avrà chiamato cinque o sei volte. Per favore,dobbiamo lavorare, digli di darsi una calmata, ok?”. E’ quasi l’ora di pranzo e di lavorare non se neparla più, decido di andare a trovarlo, anche per mantenere la pace nel mio ufficio.Lo vedo seduto su quella che una volta era la mia sedia. Appena mi vede comparire dalle scale, sialza e mi corre in contro borbottando gioiosamente qualcosa: “..trov...tono...ina..!”.Non capisco niente di quello che mi dice: “Scusa, Motta, non ho capito nulla, abbi pazienza. Haiiniziato a parlare da dentro l’ufficio”. Senza essere minimamente seccato Motta ripete quello cheaveva appena detto: “Si scusa, Davide. Ecco, ho il numero di telefono. Conosco il numero ditelefono della tua Caterina ed anche l’indirizzo. Mi hanno portato una copia del suo nuovocontratto. C’è voluto un po’ di tempo perché si è trasferita in periferia, ma alla fine ce l’abbiamofatta!” Sempre questo senso di appartenenza che mi da davvero fastidio, quel “ce l’abbiamo fatta!”sullo stile del racconto già fatto per la serata passata nel locale di lapdance. Lo vedo armeggiaredentro un cassetto della scrivania, mentre rimango in piedi sulla porta ad aspettare, affacciandomiappena: “Motta, perché hai tolto le copertine dei dischi che avevi sulle pareti, non ti piacevano?Senza dare troppo peso alla mia domanda Motta, dopo aver trovato il foglio del contratto diCaterina mi viene incontro con un’espressione davvero interrogativa: “Dischi, quali dischi parli,scusa?”. Ancora una volta non riesco a capire il senso di quello che mi dice, c’è una sorta diincomunicabilità oggi tra di noi: “I dischi che avevi appeso alla parete, quello dei King Crimson conla facciona, la Power Station a Battersea, a Chelsea, lo sai che una volta sono andato a Londra soloper vederla?” Lo vedo illuminarsi: “ahhhh! I dischi di Claudia! Pensavo parlassi dei dischi delcomputer. Mi chiedevo, cosa ci dovevo fare con dei dischi del computer appesi alla parete? NoClaudia li ha rivoluti indietro, a detto che tanto qui erano sprecati. A volte proprio non la capisco!”.“Claudia!” penso, tutte le volte mi dimentico che Claudia è sua moglie, e visto che l’ha nominataper primo lui, provo a strappargli qualche informazione: “Già Claudia! Che cafone che sono stato,non le ho fatto nemmeno gli auguri per Natale. Potevo anche telefonarvi una volta, ma avevo pauradi dare fastidio”. Motta risponde secco: Darmi fastidio, ma che dici Davide, perché. Anzi! Claudia èsempre sola non parla mai con nessuno così riservata, sicuramente le avrebbe fatto piacere. Staseraa casa gli dico io di chiamarti ok, magari organizziamo una cena?”. Ecco ho paura di aver fatto unguaio a questo punto, ma ho più paura di farne uno ancora più grosso per cercare di rimediare: “Dai,non importa, sicuramente non si ricorderà nemmeno chi sono!”. Lascio cadere l’argomento perritornare su Caterina. Prendo il foglio del contratto, e senza leggerlo lo piego e lo nascondo nel

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portafoglio. Per adesso può aspettare: “Motta, dicevi sul serio che potrebbero dare dei soldi a chi silicenzia? Sai quanto? E te quanto vorresti?”. Stavo già, entrando nella mia nuova parte. Il Direttorela sa molto più lunga di me. Probabilmente è per quello che si diventa Direttore. Non è un caso.Uscito dall’ufficio del Motta, ritorno sui miei passi e vado diretto nell’ufficio del Direttore percomunicarli, senza enfasi che avrei accettato la sua proposta. Uscendo dal suo ufficio mi sentochiamare: “Davvhiiiide? Ma non hai da dirmi nulla di più?” Mi volto e rispondo: “no, non misembra, perché?”. Il Direttore, con un fare paterno di rimprovero mi rimprovera: “Caro Davide, cosìnon farai mai carriera in Ditta. E questo lo dico per il tuo bene. Io al tuo posto, non solo avreiaccettato subito il lavoro, ma avrei chiesto ed ottenuto un grosso aumento di stipendio, anche unapromozione! E’ così che si sale! Ricordatelo per la prossima volta, mai dare niente per niente!” Piùferito che umiliato da queste parole gli rispondo con la mia solita franchezza, non curandomi deirispettivi ruoli: “Direttore non siamo tutti uguali, io non ho mai chiesto niente a nessuno, poi i soldinon li ho mai chiesti in casa nemmeno quando avevo dodici anni. E’ vero i soldi me li sono sempresputtanati ma me li sono sempre guadagnati per conto mio. Non mi abbasserò mai a chiedere deisoldi a nessuno. Tanto meno per il lavoro che faccio. Mai”, e senza aspettare la replica del Direttoreesco dal suo ufficio salutandolo con rispetto come faccio sempre.

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Capitolo TreTerza parte

Il contratto del nuovo telefono di Caterina è rimasto nascosto nel mio portafoglio per tutta lasettimana. E’ venerdì sera, e ho tutto il weekend a disposizione per organizzare al meglio le miericerche. Mi siedo davanti al mio computer, e tiro lo fuori dal mio portafoglio. Lo apro con cura econ altrettanta cura ne leggo il contenuto.Ecco perché non riuscivo più a trovarla!. Ha dato davvero un taglio netto con il passato, via ilvecchio numero del cellulare, via i vecchi account di email conosciute, via la vecchia casa in centro.Il nome della via non mi è familiare, ma da una rapida ricerca scopro che si tratta di una viuzza inperiferia, chissà come ha fatto a trovarla quella casa, penso. Stasera non cucino e preferiscomangiarmi una pizza mentre da una foto dal satellite ad alta risoluzione cerco la sua nuova dimora,la casa dove Caterina è andata a vivere da quando se ne è andata da qui, devo capire cosa posso fareper portare a termine il mio piano.Il cellulare sulla scrivania si mette a vibrare. E’ una telefonata senza numero, probabilmente fatta daun telefono pubblico. Rispondo e sento Claudia che parlando ad alta voce per superare un brusiomusicale di sottofondo dice: “Ma sei proprio un cretino! Cosa gli vai a dire a mio marito!”. Non èun rimprovero quello di Claudia, che anzi sembra divertita. Confuso provo a rispondere: “Ma, ionon ho detto nulla” poi, continuando a giustificarmi: “ha fatto tutto lui, da se. E’ lui che ha insistitoper invitarmi a cena da voi”. Claudia è costretta ad urlare per superare la musica ad alto volume:“Si, si lo so, scemotto, lo so. Sei in casa? Sono in palestra, se mi aspetti passo a salutarti, dammisolo dieci minuti e sono li”. Certo e dove vuoi che vada mi dico: “si va bene, ti aspetto, devo fareperò qualche telefonata per liberarmi, ma non c’è problema vieni pure quando vuoi, ti aspetto. Giàche ci sei. Mi fai un favore? Mi porteresti qualcosa da bere che oggi non ho fatto la spesa?”.Il tempo di trovare esattamente il posto della nuova abitazione di Caterina che sento bussare allaporta. Attraverso lo spioncino vedo Claudia. Apro subito: “perché non hai suonato?” Claudiaentrando risponde: il portone era aperto e sono entrata. Fa freddo fuori e sono vestita troppoleggera!” Insieme a Claudia entra un gradevole profumo speziato, forse sandalo. In palestra deveaver appena fatto la doccia: “Non ti ho preso niente, sono venuta di corsa, avevo troppo voglia divederti, e poi non sono truccata, mi vergognavo”. Appena chiude la porta alle sue spalle, Claudia sitoglie la parte superiore della solita tutina rosa, rimanendo nuda per metà. Mi si getta addossobaciandomi e contemporaneamente cercando di togliermi la solita felpa che tengo in casa quandosono solo. Comicamente rimango incastrato tra la felpa e la t-shirt che porto. Nonostante tutti i mieisforzi non riesco a liberarmi. Sento Claudia che scoppia a ridere mentre se ne sta sparendo incamera da letto. Sta ridendo come una matta.Stavolta consumiamo con trasporto reciproco, niente a che vedere con quanto accaduto le due volteprecedenti. Anche stavolta Claudia è di fretta: “Devo proprio andare via subito. Devo fare cena airagazzi”, mi dice sussurrandomi queste parole all’orecchio: “ma ti prometto che domenica staremodi più insieme, mio marito porta i ragazzi dai nonni, e nel pomeriggio avremo sicuramente un po’ ditempo per noi. Tranquillo! Ok?”. Adesso siamo supini, completamente nudi nel letto, al buio unoaffianco all’altra. Claudia ancora guarda nervosamente l’orologio del suo cellulare e dice: “Semprecosì, sempre a fare le cose di corsa, ma una volta che mi posso rilassare. Cinque minuti e poi devoproprio andare”. E nel dire questo si seduta sul letto per sistemarsi un po’ i capelli. Questo suomovimento mi scopre leggermente: “Ti andrebbe di sdraiarti un po’ sulla mia schiena, così mi aiutia stirami, mi fa un po’ male?” Mi volto affondando la faccia sul cuscino mentre sento il corpoumido di Claudia che si plasma sulla mia schiena. Ne approfitto per rilassare tutti i miei muscoliindolenziti. Rimaniamo in questa strana posizione immobili per un paio di minuti. Poi, mentre leimi accarezza dolcemente sfiorando con le dita di un mano il mio volto, la sento respirare sempre piùvicino. Adesso le sue labbra mi toccano quasi il collo, provano a mordermi appena un orecchio. Lasento stringersi ancora più forte. Riesco a distinguere nettamente gli schiocchi della sua lingua sul

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palato e contro i denti, mentre canta sussurrando uno dei miei pezzi preferiti, da sempre. La suavoce, questo improvvisato concerto mi assorbe completamente. I nostri corpi sono solo il tramiteche serve per farci arrivare in fondo all’anima. Mi sento trasparente, leggero completamenteimmerso e trasportato chissà dove da questa melodia. Siamo una cosa unica, fusa insieme, le nostreanime si stanno parlano. Mi sento completamente preso e inerme. Poi, lentamente con lo sfumare diquesta melodia la stanza riprende la solita forma, ritrovo tutti gli oggetti che conosco così bene.Claudia ha smesso di cantare.La sento piangere, mentre mi accarezza la schiena. E’ solo un attimo, perché poi si riprende subito:“Davide, devo andare. Guarda però di riposare bene perché ho progettato un lunghissimopomeriggio da passare insieme. Fatti trovare in forma, mi raccomando”La guardo mentre con cura ricostruisce le sembianze mansuete di mamma e moglie. Adesso èpronta, si avvicina, appoggia un ginocchio sul letto, e si sposta in avanti per darmi un bacio. Unbacio dolce leggero, senza nessun carico o pretesa di sorta.Appena sento il portone di sotto chiudersi, mi alzo ancora intorpidito dal letto. Meccanicamente miavvicino al raccoglitore dei dischi, quello dove tengo i miei preferiti. Ho il bisogno di riascoltare ilbrano appena cantato da Claudia. Trovo il disco, ed apro con cura la copertina e prendo il secondoCD dal doppio cofanetto. Lo infilo nel lettore selezionando il track numero 5. La calda voce di PeterGabriel prova inutilmente a riempire il vuoto che Claudia ha lasciato ha appena lasciato nel miomondo. Mi sdraio sul letto dove eravamo insieme fino a un paio di minuti fa perfettamente fusiinsieme. Trattengo a stento le mie lacrime. Seguo il brano imparato a memoria, è buffo come cisiano tante analogie tra il testo ed il nostro incontro appena terminato, forse è proprio per quello cheme lo ha cantato, perché esiste una specie di sintonia assoluta tra di noi che ci porta ad essere cosìvicini? Mi soffermo su passaggio in particolare, facendo andare indietro il letture CD una decina divolte per risentirlo di nuovo, una parte del brano che mi ha sempre coinvolto più di altri, un pezzodi una tristezza struggente:

“They move in a series of caressesThat glide up and down my spine...”

Probabilmente anche Claudia ha fatto il mio stesso percorso quando ha iniziato a piangere pocoprima. Penso a Claudia con un sorriso, sono davvero contento di averla conosciuta.

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Capitolo TreQuarta parte

Claudia ha mantenuto la minaccia. E’ venuta trovarmi subito il sabato mattina presto, si è presa unabreve pausa durante la sua tradizionale spesa del mercato settimanale. Ci siamo dati senza troppedivagazioni in maniera un po’ asettica, quasi distanti. Vorrei chiederle spiegazioni sul suo modo diagire, cercare di approfondire l’argomento, capire qualcosa di più su questo strano comportamento,ma non ci riesco, lei arriva, si spoglia, si infila nel letto per rimanerci solo lo stretto necessario persoddisfare i propri impulsi. Non mi dispiace questo modo di vivere la nostra relazione, tutt’altro, enemmeno mi scoccia avere un ruolo del tutto subordinato alle sue esigenze. Anche se è sempre leiche decide il dove ed il quando, la mia è solo curiosità. Non ho neanche dei sensi di colpa verso ilMotta, in fin dei conti mi sto portando a letto la moglie di una persona che crede che io gli siadavvero amico.La domenica mattina è spesa tra pulizie di casa, visite ai parenti, e tutte quelle attività che nontrovano spazio durante la settimana. E’ una scoperta recente per me la domenica. Fino a non più diun paio di anni fa questa era una giornata completamente dedicata al calcio, come del resto granparte del tempo libero durante la settimana. La mia domenica tipo era sempre uguale e monotona,ritrovo in sede alle 9.30, lunghe trasferte, sempre e comunque lo stesso pranzo con pasta alpomodoro, prosciutto e parmigiano per chiudere con l’immancabile crostata, con il rientro a casasempre tarda sera. Diversa e sempre assolutamente magnifica l’emozione di quelll’ora e mezzopassata a giocare, con qualsiasi tempo, su qualche campetto sperduto per tutta la regione. Per me ladomenica era un giorno come un altro, di routine. Solo adesso comincio ad apprezzarne la sua veraessenza, oziare per tutto il giorno.E’ appena passata l’ora di pranzo quando Claudia arriva, e questa volta facciamo le cose con calma.Ha portato qualche disco da ascoltare, alcune cose conosciute altre no. Rimaniamo insieme per granparte del pomeriggio, nessuno dei due sente il bisogno di approfondire più di tanto quello che ci staaccadendo, un po’ per non rompere l’incantesimo un po’ perché davvero non ne sentiamol’esigenza. Solo Claudia si lascia andare ad un mezza confessione su come si senta molto più liberae leggera qui da me. Riusciamo pure a dormire per un po’.Il rientro dei ragazzi è previsto per la tarda serata, ma lei non vuole farsi trovare fuori casa, e miabbandona molto prima dell’ora di cena. Questo appena passato sarà un weekend difficile dadimenticare, non per la qualità dei nostri rapporti ma per la quantità, ed il leggero dolore cheavverto ne è la più viva testimonianza. Sento in ogni caso il bisogno di uscire di casa. Sono duegiorni pieni che non metto naso fuori, ma non saprei proprio dove andare.Il piano per rintracciare Caterina, è stato nuovamente accantonato, da quando conosco il suo nuovonumero di telefono ed il suo indirizzo la mia necessità di rintracciarla a tutti i costi è completamentesvanita. Marina invece no, è tornata prepotentemente e profondamente nei miei pensieri per unsemplice motivo. La desidero così tanto perché so che non sarà mai più mia, specialmente adessoche è in arrivo Davide.

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Capitolo TreQuinta parte

Sono passate tre settimane dal nostro ultimo incontro e Claudia non si è più fatta via, né unmessaggio o una telefonata, è sparita di nuovo. Speravo davvero di rivederla ancora, ormai lei èl’unico aggancio che ho con la realtà, l’unica persona che non si rivolge a me usando il “lei”. Allavoro sono completamente preso dal mio nuovo incarico, passo le giornate a rubare le confessionidei miei colleghi per riportarle fedelmente nel mio archivio privato destinato al Direttore ed allostaff che segue questa crisi, una specie di contabilità dei desideri di ognuno di noi.La cura “Turini” sta avendo il suo effetto. Ciascuno vede nel proprio compagno di scrivania unnemico da combattere, la causa dei mali della Ditta, la colpa del suo possibile fallimento.Come ogni mattina vado a trovare il Direttore. Non ho argomenti nuovi, ma devo comunque passareper il consueto rendiconto giornaliero. Trovo il Direttore nel suo ufficio, molto più rilassato rispettoai giorni precedenti. Appena mi vede mi accoglie con un sorriso dicendomi: “Davide! Vieni, ho unpo’ di cose da raccontarti”. Mi metto a sedere, e apro il mio quaderno pronto per scrivere eventualiappunti: “Finalmente la situazione si sta schiarendo. Tra poco potremo ufficialmente dar via alprogetto di ridimensionamento e riorganizzazione. Abbiamo fatto un bel lavoro, ed a oggi mancanosolo una decina di persone per raggiungere il nostro obiettivo”. Ascolto queste parole del Direttorecon un po’ di imbarazzo. Anche se direttamente non ho partecipato a nessuna trattativa, mi sento incolpa per tutte quelle persone che da li a breve sarebbero state in qualche modo allontanatedall’Azienda. Il Direttore intuisce il mio disagio e prova a stemperarlo: “Davide, non ti devipreoccupare per chi deve andarsene. E’ tutta gente che ha già un altra opportunità, attività benavviate, altri interessi vedrai presto ti convincerai anche te che è un bene per tutti”. Ci rifletto su, escopro, ancora una volta che il Direttore ha semplicemente ragione, mentre mentalmente mi ripassoalcune delle confessioni carpite di nascosto. Chi decide di andarsene lo fa perché ha già un’altrasoluzione pronta, una scelta dettata da un puro calcolo di convenienza. Esco dall’ufficiorimuginando su come andrà a finire questa brutta storia. Ormai in Ditta tutti mi evitano o quasi, ilmio accordo con il Direttore non è più così segreto.Prima di tornare nel mio ufficio decido di passare dal Motta, anche per tentare di scoprire qualcosasu Claudia, così misteriosamente scomparsa dalla mia vita. Mi dispiace che se ne sia andata pure leie comincia a mancarmi. Come tutti gli altri anche lui è un po’ di tempo che mi evita. Arrivo allaporta a vetro e lo scorgo all’interno del suo ufficio, mentre discute animatamente al cellulare. Mivede arrivare e mi fa cenno di non entrare, di aspettare fuori. Io per educazione mi allontanofacendo un paio di passi indietro, abbastanza lontano per non riuscire a sentire niente di quello chedice, ma sufficientemente vicino per leggere dai movimenti delle labbra qualche parola. Lo vedoripetere una paio di volte il nome di Claudia, seguito dopo una leggera pausa da un qualcosa tipo“ascolta” o ascoltami”, il tutto ripetuto più volte con intervalli sempre diversi, ma con lo stesocarico di drammaticità. La discussione è sempre più animata, la mano libera, quella senza ilcellulare rotea per aria per poi posarsi sul volto, come a coprirsi la faccia, vedo le punta delle ditementre spariscono dentro la sua bocca. Poi il Motta si appoggia di schiena alla porta, e non riescopiù ad intuire niente di quello che accade. Sono preoccupato. Da quando lo conosco non gli ho maisentito alzare la voce, figuriamoci con la moglie poi, mai una volta, anzi pensandoci bene non l’hoproprio mai visto alzare la voce con nessuno, malgrado non sia una persona piacevole è comunquemolto educato e sopratutto molto rispettoso verso chi gli sta di fronte, al contrario del fare comunequa dentro. La telefonata finisce, lo vedo armeggiare con il cellulare. Lo guardo mentre lo posadelicatamente sul piano della scrivania. In altre occasioni si sarebbe già precipitato fuoridall’ufficio, ma stavolta no, lo vedo ancora pensare, è visibilmente scosso e preoccupato. Riprendeil cellulare e prova di nuovo a chiamare qualcuno, senza successo. Stavolta il cellulare non vienechiuso ed adagiato delicatamente ma gettato con disprezzo sulla sedia. L’urto lo fa aprire e caderein terra. Non riesco a capire, tra i vari argomenti che mi possono venire in mente mi balena anche

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l’idea che in qualche modo abbia potuto scoprire l’infedeltà di Claudia, forse sa addirittura di noi,anche se non credo. Di colpo, si volta e mi cerca con lo sguardo. Apre la porta dell’ufficio edaffacciandosi con un filo di voce dice: “Davide dove sei finito? Con il sole che illumina questocazzo di vetrata non si vede mai nulla. Scusami se ti ho fatto aspettare, ma ero impegnato”. Nonl’ho mai sentito parlare con questo tono, è ancora molto arrabbiato, è sicuramente scosso da quantoaccaduto. Spero non sia qualcosa di grave, di importante. Mi sento a disagio, non ho voglia dopo lapesantezza di queste giornate incontrare una persona così poco serena. Cerco in ogni modo diliberarmi, di scappare via giustificandomi: “Motta credimi, non importa, se vuoi posso ripassare,non mi sembra il momento adatto ora!”. Senza rispondermi il Motta torna nell’ufficio prende la suagiacca, lascia il cellulare distrutto in terra, e torna indietro verso di me dicendo: “No Davide è tuttoa posto, devo fare due passi, mi devo distrarre. Ho bisogno di pensare, di rilassarmi, sta accadendoqualcosa di non chiaro, ho bisogno di riflettere a lungo, devo capire. Ti va di accompagnarmi?Magari mangiamo qualcosa fuori insieme eh?”. Sono veramente spiazzato, il disagio lascia il postoalla paura di non saper gestire la situazione. Motta ha davvero scoperto qualcosa, ma probabilmentenon è in grado di collegare l’infedeltà di Claudia a me, a meno che Lei non glielo abbia detto diproposito. Questa idea mi balena nel cervello all’improvviso! Forse una vendetta, una litigata perqualcosa e zak! Lei che gli sputa in faccia la verità! Provo ad immaginarmi la scena ed arrivo allaconclusione di escludere una simile eventualità, non è possibile, si è dimostrata troppa brava eprecisa per rovinare tutto per uno scatto di orgoglio. Nel frattempo senza dire una parola usciamodalla Ditta. Meccanicamente mi annoto mentalmente l’ora di rientro. La scimmia che ho sulla spalladella routine dell’ufficio non mi abbandona mai. Fuori è una brutta giornata di fine gennaio, nientesole, con un vento gelido di tramontana che rende il tutto ancora più triste, se possibile.Camminiamo a fianco ancora un po’, poi all’improvviso il Motta decide di confessare le sueangosce, di colpo in modo diretto: “Davide, non so se te lo posso dire, ma è successo qualcosa aClaudia. Ormai la conosco, stiamo insieme da quando eravamo piccoli, non abbiamo mai avutosegreti tra di noi, ci conosciamo alla perfezione, non ci siamo mai tenuti nascosti niente, mai nessunsegreto l’uno per l’altra.”. Lo guardo negli occhi, devo capire se mi sta mettendo alla prova. La suatristezza però sembra vera è davvero turbato da qualcosa, è sempre meglio stare più sul genericopossibile, non lasciarsi coinvolgere, non devo provare nessun tipo di empatia. Non me lo possopermettere. Tanto se avrà voglia di raccontarmi qualcosa lo farà senz’altro senza che io debbachiederlo. Il Motta con un gesto che non aveva mai fatto prima, allunga una mano e mi afferra unaspalla, un gesto, un contatto fisico che gli serve da supporto per continuare ad aprirsi: “Davide, poic’è questa situazione in Ditta che non mi piace. Lo so che non dovrei preoccuparmi, sono sposatoho un incarico delicato, direi insostituibile, ma è comunque una brutta situazione. Non sopporto nonavere tutto sotto controllo. Lo so che non dovrei chiedertelo, ma tu sei amico del Direttore qualcosadi più ti dovrà aver certamente detto. Tutte le volte che ho provato a chiedere un appuntamento perparlargli me lo ha sempre rifiutato”. Senza volerlo Motta mi dava una bella possibilità di glissare suClaudia: “si in effetti è così, dico, in questa confusione questo non sapere le cose è fatto ad arte perfar crescere l’ansia ed il senso di precarietà in Ditta, per esasperare. Di più non posso dirti, ancheperché tanti dettagli non li conosco, ma a breve forse addirittura entro la fine di Febbraio sapremomolte cose”. Motta lascia delicatamente la presa e fa un paio di passi indietro allontanandosi da me,quasi spaventato per quello che ho detto: “allora è vero quello che si dice in Ditta, che ci sarannodegli esuberi, e degli incentivi per chi vuole andarsene?” Guardo il Motta e per la prima volta lovedo come un essere umano con le sue paure le sue ansie e i suoi sogni, non più come quello che miha rubato l’ufficio oppure come il marito di Claudia: “si” rispondo avvicinandomi: “E’ così, é comehai detto, ci saranno degli esuberi specialmente tra il personale vicino alla pensione, ma non basterà,siamo messi male”, Motta riprende a camminare passandomi accanto davvero preoccupato. Staragionando, in questi pochi attimi probabilmente è riuscito a mettere insieme tutti i tasselli che nonriusciva a mettere a posto, si allontana ancora di qualche passo. Poi si ferma e voltandosi mi dice:“Allora, allora questa potrebbe essere una soluzione Davide, potrebbe. Ho molte proposte di lavorointeressanti che mi arrivano dalle Ditte della mia zona, sai io sono nato e vissuto in Lombardia, e

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questa potrebbe essere l’occasione giusta, per lasciare questo lavoro, guadagnarci un extra e portareClaudia lontano da qua”. Ancora Claudia, è evidente che sia lei il punto focale dei suoiragionamenti. Orami è chiaro che qualche cosa è stata scoperta, ma davvero non riesco a capirecome e cosa. Ho lasciato il mio profumo sulla sua pelle? Oppure l’avrà seguita fino a casa mia?Cosa avrà scoperto? Non ho nessuna voglia di essere coinvolto in una qualche scenata di gelosia,adesso ho veramente timore ma devo reggere la parte, se non sa niente lui non si deve insospettire:“e Claudia cosa dice di questa tua idea, gli piacerebbe spostarsi?”. Motta si guarda intorno, siavvicina e parlando con un filo di voce e mi confessa: “Davide, se io decido di andare via, lo facciosolo per lei, per salvare quello che c’è ancora di buono nel nostro matrimonio, per i nostri figli. Ladevo portare via da qua, lontano da questa posto, da tutta questa gente”.

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Capitolo TreSesta parte

Con l’avvicinarsi della scadenza del bando relativo al finanziamento che sto seguendo le miegiornate di lavoro diventano sempre più frenetiche. Devo registrate tutte le ore spese dal personale,le trasferte, i materiali acquistati, tutte le fatture anche quelle insignificanti (per esempio oggi horegistrato l’acquisto di due pile stilo AA per una calcolatrice...), gli ordini in emissione ed ogni sortadi documentazione richiesta. Un mare di carta straripante, un assurdo, come è assurda la burocraziafine a se stessa. Questo mio alienarmi nel lavoro mi aiuta a sopportare la mia nuova solitudine.Arrivo a casa per inerzia, una cenetta al volo e via a infilarmi nel letto sempre più presto, semprepiù solo. Anche la gattina sembra soffrire di questa solitudine. Ogni tanto la vedo girovagare percasa in cerca di Caterina, annusa di qua salta di là per poi tornare da me con aria interrogativa.Anche il sabato e la domenica, normalmente frenetici sono dedicati al riposo assoluto. Di Claudianon ho più notizie da un paio di mesi, anche Caterina non appartiene più che ai miei ricordi.L’unico pensiero che ancora mi lega al mondo delle mie ex è dubbio se sia nato o ancora no Davideil figlio di Marina. Se sia andato tutto bene come spero.Al lavoro vivo i miei quotidiani appuntamenti con il Direttore in modo distaccato, tengo lacontabilità degli esuberi e delle dimissioni volontarie con lo stesso trasporto con il quale si annotanole spese e le bollette da pagare. Sto diventando ogni giorno più cinico ed indifferente. La sofferenzaaltrui mi scivola addosso senza ormai più lasciare le tracce che lasciava prima.C’è da dire però che grazie anche al mio lavoro, in poco più di due mesi siamo riusciti ad otteneregrandi risultati. Probabilmente nessuno di chi vuole rimanere sarà mandato via dalla Ditta contro lasua volontà, ed in fin dei conti questo è un risultato che in parte mi alleggerisce la coscienza daisensi di colpa.Anche Motta ha presentato le proprie dimissioni, richiesta prontamente accettata e gratificata da unbonus. Alla fine si è deciso. Decido di parlarne con il direttore, devo capire assolutamente di più suquesta storia, approfondire anche quei punti che quella vecchia confessione mai più ripetuta halasciato di fatto aperti, so che in qualche modo Claudia è coinvolta, che è lei la causa di tutto. Daquel giorno non l’ho più praticamente visto. Si è reso invisibile, impalpabile. Ho bisogno di averequalche informazione di più dal Direttore e chiedo: “Anche il Motta ci lascia? Ha contrattato per lesue dimissioni o ha accettato subito la sua proposta?” Il Direttore scorrendo sul monitor del suocomputer la lista aggiornata della situazione mi risponde: “Il Motta, hum non ricordo, fammivedere, si ecco qua! No, strano, non ha contrattato, ha accettato la nostra prima offerta, veramenteuna miseria e se né andato. Credo abbia già lasciato la Ditta, oppure lo farà in questi giorno non loso, e francamente me ne interessa poco”. Davvero se ne sta andando? Il mio pensiero corre subito aClaudia: “ma ha lasciato detto qualcosa? Ha motivato questa sua scelta?” Il Direttore non capisce ilmio interessamento, in genere non mi occupo di questo aspetto, e non entro mai nei dettagli di ognisingola operazione. Probabilmente questo mio atteggiamento insospettisce il Direttore, checomunque mi risponde: “No, Davide, no ha detto nulla, credo se ne sia andato per motivi personali,molto personali. Credo di sapere di cosa si tratta, ma non ho le prove, e quindi non voglio parlare diuna persona che tutto sommato si è comportata sempre molto onestamente con noi, anche se a menon è mai stato troppo simpatico. Scusa ma perché mi fai queste domande?”. Guardo il Direttorecon aria interrogativa, ma non faccio accenno ha quanto appena detto: “Sa dove è andato?” IlDirettore mi guarda adesso con più attenzione: “Davide, è tornato a lavorare dalle sue parti, vicino aVarese credo. Da quel che so probabilmente si è già trasferito con tutta la famiglia, moglie e figli.Eh? Davide hai combinato un bel guaio, lo sai eh?”. Non colgo immediatamente la battuta delDirettore che mi scivola addosso senza lasciare traccia. Poi cambiando completamenteatteggiamento e genere aggiunge: “Ti ricordi la signorina Vanni, le hai fatto un colloquio tempo fa,ti ricordi?. Dalla settimana prossima entra in Ditta, per adesso part time, sai non possiamo assumerementre stiamo licenziando metà personale, pensavo di metterla nel tuo vecchio ufficio lasciato

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libero dal Motta, cosa ne pensi?”. Ilaria, me ne ero completamente dimenticato di quella bellaragazza: “bene, è sicuramente una persona in gamba e preparata anche se deve crescere molto,sicuramente si troverà a suo agio in un ufficio da sola” lasciando intendere che almeno così sarebbestata più protetta dalle inevitabili avances dei colleghi: “chiaramente Davide, conto sul tuo aiuto,ora che la situazione si va normalizzando puoi seguirla da vicino. Aiutala per i primi tempi, senzaperò darle l’impressione di farlo. Seguirà il lavoro avviato dal Motta. In futuro quando si saràinserita avevo idea di darle qualche incarico di responsabilità in area commerciale, che ne pensi?”.Ascolto il Direttore senza decifrare quello che dice. Sono completamente assorbito dall’idea cheClaudia sia andata via senza nemmeno un saluto, una giustificazione. Ripensandoci poi anche tutti inostri precedenti rapporti sono stati caratterizzati da un comportamento del tutto simile, maicompletamente risolto da parte mia. Mi andava bene e basta.Saluto il Direttore e vado nel mio ex ufficio che in poco più di sei mesi ha visto passare me, ilsignor Motta ed adesso aspettava di accogliere l’avvenente signorina Ilaria. Sicuramente un belprogresso. Mi metto a sedere alla scrivania completamente vuota. Anche le pareti sono spoglie. Cisono ancore le tracce sulla parete dei miei vecchi calendari e dei poster che avevo sistemato inquell’ufficio nel corso della mia presenza. Cancelleranno tutti questi ricordi con una bella mano divernice bianca. Penso ancora a Claudia, sul fatto che probabilmente non potremo mai più rivederci,figuriamoci pensare di aver ancora qualche storiella, e non so davvero cosa pensare, anche se con iltempo ho maturato un sospetto, un’idea troppo diabolica per essere vera, anche se tutti i tassellicominciano a combaciare perfettamente. Non credo di aver sbagliato qualcosa, e anche se ne sonoandati via di nascosto senza salutare praticamente nessuno intendo rispettare questo loro modo dicomportarsi, in fin dei conti molto simile al mio. Mi chiedo se saremo potuti diventare buoni amicinoi tre con il tempo. Immerso ancora nei dubbi e nei ricordi faccio ritorno nel mio ufficio,ormaidecimato dalla cura dimagrante imposta dalla crisi. Dei nove in origine siamo rimasti solo incinque, sia il sig. Brasso che altri due colleghi di postazione hanno lasciato il posto. A breve ancheil sig. Frangioni ci lascerà, sembra abbia accettato l’ultima proposta fatta dal Direttore. Davvero lafine di un’epoca per la Ditta.

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Capitolo quattroPrima parte

Finalmente! Con l’inizio della primavera ed il ritorno dell’ora legale è possibile tornare a vedere ilsole all’uscita dal lavoro. Tutto ne trae beneficio, compreso la mia vita sociale che riprende vigore.Ogni sera mi ritrovo in un localetto del centro aperto da un mio amico per un aperitivo incompagnia di vecchi e nuovi amici. Davvero un bel gruppo eterogeneo, un appuntamento divertenteanche se scarsamente frequentato da presenze femminili di rilievo. Spesso ne approfitto per unacenetta al volo con gli stuzzichini offerti insieme agli aperitivi.In Ditta la vita è tornata tranquilla e fila via senza scossoni, esattamente come era molto tempoprima di perdere Caterina, e trovare per poi perdere definitivamente Claudia. Anche il mio progettoper il finanziamento europeo segue senza ritardi o particolari impedimenti il suo iter. Tutto filaliscio perfettamente, senza intoppi. Claudia è ormai dimenticata, Caterina è ancora presente solocome una giustificazione per una possibile via di fuga e Marina appare e scompare dai miei sogni.Davide ormai dovrebbe essere nato, semplicemente non ho il coraggio di chiamare per avernenotizie. La città è piccola e prima o poi ci incontreremo, di questo sono sicuro.La parte principale delle mie energie extralavorative è occupata dalla organizzazione delle mieprossime ferie estive, non voglio certo ripetere la tragica esperienza dell’estate scorsa, passata alitigare ogni giorno con Caterina, senza mai prendere una decisione, che andasse bene ad entrambi.Questi sono mesi che passano velocemente ed in perfetta tranquillità senza però lasciare un ricordoindelebile. Mi sto abituando a stare da solo, non sento più quell’oppressione che provavo nei primimesi senza nessuno in casa.Soltanto la domenica, ogni tanto provo ancora questo senso di inquietudine, dato dall’essere sempree comunque senza un’alternativa, una via di fuga dalla routine, ma è uno stato d’animo che ti fasentire vivo, pieno di energia, che ti impone uno sforzo particolare per cercare di superare questiostacoli apparentemente insuperabili. Una sensazione comunque positiva.Oggi è una bellissima giornata, un assaggio dell’estate sta per arrivare. Ho finito tutti i lavoretti dicasa e mi lascio tentare. Decido di andare, a prendere un po’ di sole sul mare. Il primo sole dellastagioneManco dirlo il mio approccio ad una giornata di mare è sempre lo stesso, un asciugamano, un libro,le immancabili parole crociate ed il mio fedele lettore MP3 sempre a portata di mano, e sempre conle stesse musiche dentro.Mi gusto il breve tragitto mettendo al massimo il volume del mio stereo, e mi ritrovo nella piccolaspiaggia libera che ancora resiste all’assalto degli stabilimenti balneari. Un piccolo paradiso senzacabine ed ombrelloni anche d’estate.Fortunatamente non c’è tantissima gente, anzi a parte qualche coppia sparsa sull’arenile sonopraticamente da solo. Scelgo il mio solito posto e piazzo il mio asciugamano appena a ridosso dellabattigia al riparo dal leggero vento di terra. Mi ci stendo, a pancia in giù mi lascio cullare da questasensazione di assoluta pace e benessere, nessun rumore fastidioso, nessun ragazzino che urla o checorre, niente di niente la pace assoluta. Un caldo abbraccio sole mi culla in un benessere assoluto,con il sottofondo di un leggero rumore di risacca di un mare appena mosso. Rimpiango di non averportato le mie canne da pesca. Mi lascio rapire da tutto questo fino a quando un ronzio fastidiosointerrompe questo mi galleggiare nel limbo. E’ il mio cellulare che suona, mi sono dimenticato dispengerlo.Devo comunque rispondere, ho lasciato questo numero a diversi contatti di lavoro, potrebbe essereanche il Direttore. Frugo nervosamente nello zainetto, e fra i miei vestiti trovo il cellulare. Appenariesco a prenderlo smette di suonare. Cerco di capire chi sia. E’ una chiamata da un numero privatoche non conosco non riesco ad immaginare che possa essere. Non do troppo peso alla cosa, ripongoil cellulare nello zainetto per ritornare immediatamente ai miei sogni. Passano appena pochi secondied il telefono suona di nuovo. Si ripete la solita scenetta comica, e come accaduto precedentemente

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il fastidioso tono di chiamata si interrompe appena provo a rispondere. ‘Sarà qualcuno che prova achiamarmi da un posto dove c’è poca copertura rete, penso, capita spesso durante le mie giornate dilavoro di ricevere queste telefonate anonime dai colleghi in giro per il mondo, che si interromponosenza motivo per molte volte di fila.Prudentemente spengo il cellulare, non voglio più in nessun modo essere interrotto nei miei sonni.Alzo al massimo il volume del mio lettore MP3 e lascio sommergere dalle onde del mio mondopreferito, una soave musica barocca di un quartetto per archi. Provo un sottile piacere fisico, chiudogli occhi, mi abbandono completamente cullato dal sole, dal leggero vento, dall’equilibrio perfettodi questa giornata. Il rumore del mare leggermente mosso, fa da cornice a questo splendidopomeriggio di sole.Riesco di nuovo a rilassarmi. Di colpo, un improvviso un fastidio mi strappa dai miei sogni. Facciofatica a capire di cosa si tratti, non riesco a mettere a fuoco cosa stia succedendo.Il volume troppo alto del mio lettore mi impedisce di definire i rumori che provengono dallaspiaggia. A stento, riesco ad aprire gli occhi. Ho della sabbia che mi copre il volto. Non riesco acapire come mi possa essere finita in bocca, nel naso e negli occhi. Sento i granelli di sabbia chestrusciano all’interno delle palpebre, che mi scricchiolano tra i denti. A tastoni con una mano cercola piccola bottiglia d’acqua che porto sempre con me per provare a sciacquarmi. Un ragazzino deveessere passato correndo proprio di qui!Al secondo tentativo la trovo, e con l’acqua rimasta riesco a pulirmi, prima gli occhi, e poi la bocca.Lentamente riesco a mettere a fuoco la situazione, forse un ragazzino, forse un colpo di vento,insomma qualcosa o qualcuno mi ha gettato della sabbia addosso, sul volto.Dal primo spiraglio di luce riesco a vedere, ferme davanti a me due caviglie sottili, una delle qualiimpreziosita da una catenina d’oro, con attaccata una lettera, la “C.” impreziosita da una gemma alposto del puntino. Riesco appena in tempo a mettere a fuoco la scena, per vedere come l’estremitàdi quella caviglia sottile con la catenina d’oro improvvisamente si immerga nella sabbia fino asparirne completamente. Un colpo secco ed un’altra piccola nube di sabbia mi investe in pieno. Nonfaccio in tempo a proteggere la bocca, gli occhi. Completamente accecato, impacciato neimovimenti mi tolgo con rabbia gli auricolari, mentre con la parte superiore dell’asciugamano cercodi pulirmi almeno gli occhi, l’acqua è quasi terminata. Faccio fatica a respirare. Sono fuori di medalla rabbia. Passando da una poco elegante posizione carponi, mi metto seduto sulle ginocchia,riesco ad intravedere la figura, che dall’alto in basso mi sta scrutando con le mani posate sui fianchi.Lentamente ritorno in possesso dei miei sensi, della mia vista. Davanti a me le due caviglie sottilianticipano dei fianchi meno prosperosi di quanto ricordassi, ben fasciati da un aderentissimocostume viola. La pancia è perfettamente liscia e già perfettamente abbronzata, nonostante si siasolo all’inizio della stagione, ed i suoi seni davvero generosi sono fasciati dal top abbinatoall’aderentissimo costumino viola, appena visibile sotto i folti ricci neri, come al solito ben curati.Il sorriso incattivito di Caterina si trasforma rapidamente in una smorfia di disappunto: “come cazzoho fatto a stare così male per te per tutto questo tempo! Guardati come fai schifo sei una mozzarellagrassa e pelata. Hai pure la cellulite sulla pancia, ma fai davvero schifo lo sai!”. Caterina, invece sepossibile è ancora più bella. Ha perso i suoi soliti chili di troppo e oltre ad una perfetta abbronzaturasfoggia una invidiabile forma fisica, con i suoi inediti addominali appena scolpiti, mai visti prima:“Caterina!”, la mia esclamazione di gioia e sorpresa è davvero genuina: “Caterina, come ti sei fattabella!” Ho immaginato e vissuto questo incontro moltissime volte, cambiando i dettagli, lesituazioni, inventandomi tutte le possibili evoluzioni, un esercizio che di solito faccio quando mivoglio far trovar pronto ad un appuntamento importante: “Davvero, Caterina, sei bellissima”. Mettoda parte la rabbia, mi avvicino alla battigia e finisco l’opera di pulizia. Ritorno verso di lei:“Ho provato a cercarti, ma non sono mai riuscito a trovarti?”. L’atteggiamento aggressivo ed ostiledi Caterina non muta: “Tu invece no, sai. Non mi sei mancato proprio per niente. Anzi l’avertilasciato, perché sia chiaro che ti ho lasciato io, mi aperto a tante nuove possibilità, come vedi adessosono proprio felice!” Caterina sta indicando nella direzione di un bel ragazzo alto, moro, con icapelli tirati indietro raccolti in una piccola coda sulla nuca. Nonostante sia ad almeno una decina di

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metri riesco a distinguere perfettamente i suoi muscoli ben scolpiti ed in rilievo con delle bellissimeampie spalle ben proporzionate all’altezza. Davvero un bel ragazzo, anche se con le gambe un po’troppo secche, siluette tipica dei palestrati.Quella che sta per iniziare adesso con Caterina è probabilmente la più importante partita a scacchiche dovrò affrontare con lei, un gioco di dire e non dire, mostrarsi e nascondersi, cercare di apparirevulnerabili ma allo stesso tempo irraggiungibili. Non c’è modo di rimandare, questa partita vagiocata adesso, e devo essere così abile da prevedere ogni sua mossa, ogni suo pensiero per poterloanticipare e sfruttare in mio favore.Lentamente mi avvicino, da dietro le spalle di Caterina vedo il tipo che incerto sul da farsi accennadue passi nella nostra direzione. E’ incuriosito da questa scena, ma non sa cosa fare se intervenire ono, dopo tutto è stata Caterina che è venuta da me aggredendomi, non sono stato io che ho fatto laprima mossa.Adesso ho l’opportunità di apprezzare Caterina per intero, le gambe perfettamente lisce e depilate,come non le avevo mai viste, il costume di tessuto molto elasticizzato che si adatta fin troppointimamente alle curve del suo pube, lasciando intendere che quella perfetta depilazione si spingaben oltre le parti lasciate scoperte. I capelli come al solito bellissimi e perfettamente curati, con deilievi riflessi bluastri indicano una nuova cura per la persona che non conoscevo prima.Nell’immaginarmi tutte le varie possibilità di incontro con Caterina questa mi era proprio sfuggita.Mi soffermo ad osservala meglio, apprezzandone ogni dettaglio. Né Marina, né tanto meno Claudiapossono tenere il confronto con questa splendida trentenne, solo adesso perfettamente conscia dellesue armi. Decido di spararmi la prima cartuccia mentendo: “Caterina, mi fa piacere vedere che seifelice, davvero, poi ti trovo davvero in forma, stai proprio bene! Brava, stare lontano da me ti hamigliorato. A chi devo fare i complimenti?” Stavo evidentemente cercando di prendere tempo, nonavevo ancora ben chiaro di come si potesse evolvere questo incontro. Posso solo adeguarmi alle suemosse, seguirla ed assecondarla senza cercare di comandare la discussione. Avrò tempo e modo diaffondare le mie stoccate definitive più tardi. Ho solo bisogno di uno spiraglio, di un piccoloappiglio a cui agganciarmi. Da quanto ne so può essere davvero l’ultima volta che ho la possibilitàdi parlarle. Caterina, facendo un piccolo passo in direzione del ragazzo insiste con il suo solito tonodi disprezzo: “Te invece fai sempre più schifo, Davide!” Cogliendo il gesto di Caterina il tipoadesso si avvicina con decisione, ha finalmente deciso come comportarsi. Mi metto al riparo daqualsiasi possibile fraintendimento, ed assumo un atteggiamento quanto più possibile dimesso. Misposto indietro, allontanandomi da loro di un paio di passi. Non voglio offrire nessuno motivo perinnescare una discussione. Anche se evidentemente la tensione inizia a salire. Lui gli arriva allespalle, gli si ferma di fianco e la abbraccia passandole un braccio dietro la schiena, facendo poiscivolare la sua mano giù lungo il fianco, più in basso del costume, all’altezza della coscia. Unachiara dichiarazione di proprietà, un messaggio che vuole urlare: ‘amico non so chi sia tu, ma siachiaro che qui c’è mio!’ Caterina ricambia l’abbraccio, pizzicando il tipo su un gluteo: “Davide, luiè Marco, ci vediamo un da po’ tempo, bel ragazzo eh? Te invece quando me la presenti la tua nuovaragazza eh?. Dove l’hai lasciata allo ospizio?” E nel terminare questa battuta Caterina si mette aridere come una matta, lasciando l’abbraccio del ragazzo per piegarsi in avanti portandosi le manisulle ginocchia, in un modo evidentemente troppo artificiale per essere vero, per dimostrare il suodivertimento. Approfitto di questa sua sceneggiata per presentarmi al ragazzo: “Salve Marco, sonoDavide. Un vecchio amico di Caterina. Sono stato suo professore di matematica, una volta” gli dicoporgendogli la mano per siglare la nuova amicizia. Marco, evidentemente non a suo agio nonricambia il gesto e farfuglia qualcosa di incomprensibile, prima a me e poi a Caterina. Forse hotrovato l’anello debole, è nervoso, è in soggezione, magari se insisto lo posso mettere in difficoltà:“Ed invece te Marco, cosa fai, insegni anche te? Fisica forse?” La mia era ovviamente unaprovocazione, fatta per sondare il terreno per confonderlo ancora di più. Marco ignorando la miadomanda si volta verso Caterina e l’afferra con rabbia per un braccio e la strattona: “Dai vieni via,lascialo perdere questo qui”. Eccola! Penso, mossa sbagliata amico, davvero sbagliata. InfattiCaterina smette di colpo di ridere, e con uno sguardo capace di incenerire chiunque si rivolge al tipo

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scandendo bene e differenziando tutte le sillabe: “Te-lo già det-to mil-le vol-te di non par-lar-micosì, caz-zo! Quante volte te lo devo dire eh? Cento, mille? Stai attento su, ripeti con me, non midevi mai dire cosa devo fare, su non è difficile da capire”. Caterina questa volta nelle parti delcarnefice si sta prendendo la sua rivincita contro il genere maschile. Con uno strattone più forteCaterina si libera dalla presa, continuando ad insultarlo senza ritegno alzando il più possibile lavoce. Divertito osservo la scena, questo è il momento buono per giocarmi le mie carte, un “all-in”decisivo, un gesto che può spostare l’equilibro della partita appena iniziata decisamente dalla miaparte: “Ragazzi, per favore smettetela! Sono venuto al mare per riposarmi, se volete litigare fatelopure ma lontano da qui. E questo vale sopratutto per te Caterina. Picchiatevi, offendetevi purequanto volete, ma da un’altra parte, lontano da qui. Non ho bisogno di avere a che fare con dueragazzini alle prime turbe sentimentali!”. Caterina rimane folgorata da questa mia uscita. Di colposmette di parlare, e con un’altra occhiata, se possibile ancora più terribile della precedenteincenerisce quello che resta del povero Marco. Senza voltarsi indietro, Caterina torna verso il loroasciugamano, prende le sue cose con rabbia, getta lontano quelle del ragazzo e si allontana dallaspiaggia verso la passerella di ingresso. Marco indugia, non sa veramente cosa fare, mi guardasmarrito, mi minaccia con l’indice di una mano dicendo qualcosa di incomprensibile e poi si gettadi corsa all’inseguimento. Lo sento implorare Caterina di fermarsi e di aspettarlo. Li seguo con losguardo mentre spariscono dalla spiaggia diretti verso il parcheggio. Caterina davanti inflessibile,Marco dietro a supplicare di fermarsi e di parlare.Mi gusto la scena facendomi i complimenti. Sono stato proprio bravo. Chissà se sarà sufficiente,penso. Decido però che tutto sommato vale la pena aspettare e godersi la giornata di mare. Quandosi è in vantaggio conviene sempre fermarsi ad aspettare. L’avversario nel tentativo di rimontare faràsicuramente uno sbaglio, ed io sarò li pronto per approfittarne.Pulisco con cura l’asciugamano pieno di sabbia, recupero il mio libro, e riprendo esattamente dadove ero stato interrotto, abbassando di poco il volume del mo lettore, per sicurezza. Ripenso aCaterina vorrei davvero riuscire in tutti i modi a riallacciare i rapporti con lei, quando mai ne ritrovoun’altra così? In fin dei conti non ha tutti i torti, sono ingrassato e faccio schifo, non ho piùtrent’anni e sopratutto non mi sento più bello ed attraente come pensavo di esserlo un tempo. No,un’altra come Caterina non la ritroverò mai più. Smanetto sul mio lettore e seleziono la secondatraccia della Suite per Orchestra n° 3 di Back, la BWV 1068 ed imposto su “on” il tasto repeat inmodo da sentirla di continuo, all’infinito. Questo che sento adesso è un brano diventato famoso (suomalgrado) per colpa di sigla di un noto programma di informazione scientifica. Un brano di unamalinconia struggente ed unica, specialmente nella versione che ho io.Mi sdraio sull’asciugamano, per lasciarmi trasportare da questa nuova pace ritrovata. Conl’immagine fresca di Caterina nella mente non mi accorgo mi sto addormentando.Rimango incosciente per chissà quanto tempo. Quando mi sveglio scopro di aver un braccio sotto latesta completamente intorpidito. Non riesco a muovermi. Intorno non c’è rimasto nessuno, neanchepiù in là dove c’erano prima Caterina e Marco insieme ad altri ragazzi.La luce è cambiata, non c’è più il sole alto come prima, e non c’è più quel tepore a riscaldarmi. Miaccorgo che il sole, adesso sceso basso sull’orizzonte proietta un’ombra di una persona ferma dietrodi me alle mie spalle. Mentre cerco di riprendermi seguo i suoi movimenti con lo sguardo, la vedoindugiare per poi avvicinarsi in modo deciso per fermarsi di fianco. Completamente intorpidito dalfreddo e stordito dal sonno sento alcuni leggeri colpetti sul fianco, dati gentilmente con la punta diun piede. Distinguo nettamente la sua voce che in tono supplichevole mi chiede “Davide ti prego.Mi porti a casa? Ti prego, sto male!”. Alla fine riesco a voltarmi, e la vedo sfumata contro il solebasso, avvoltolata dentro al suo asciugamano: “E’ più di un’ora che ti guardo dormire. Pensavo nonti svegliassi più. Fa freddo, andiamo ti prego!”. Mi alzo in piedi e mi avvicino, le accarezzodolcemente i capelli con il palmo della mano, e le do un piccolo bacio in fronte. Le passo le manidietro la schiena, appena sopra il costume e la stringo dolcemente: “Ma dove eri finita Piccola?” Lechiedo. Caterina adesso mi guarda diretto negli occhi, non risponde fa solo un piccolo cenno con la

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testa, vedo delle piccole lacrime che gli scendono dagli occhi. La stringo appena un po’ più fortesussurrandole: “Amore mio, quanto ti ho fatto soffrire!”.Raccolgo la mia roba e senza dire nulla, per mano ci allontaniamo dalla spiaggia, fino allamacchina, fino in città, fino a casa mia, anzi nostra. Appena entrati la gattina incuriosita dal rumoresi affaccia dalla porta della cucina. Resta un attimo incerta, ma appena riconosce il nuovo ospite lecorre incontro, passandomi tra le gambe ignorandomi. Gli si getta tra i piedi arrotolandosi eribaltandosi nel modo che hanno i gatti per dimostrare il loro affetto e riconoscenza. Il più belbenvenuto che si poteva aspettare. Adesso io e la gattina siamo sicuri: questa casa ha finalmenteritrovato l’anima che aveva perso.

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Capitolo QuattroSeconda parte

Caterina si inginocchia per ricambiare tanta affettuosità. Poi, lentamente si rialza in piedi e con lavoce incerta e tremante mi chiede: “Ho ancora freddo. Devo assolutamente farmi una bella docciacalda, però ti devo chiedere se per favore prima controlli che non ci sia roba in giro di qualche altradonna, sai che non lo sopporterei”. La guardo con tenerezza e le rispondo nel tono più rassicurantepossibile: “No, da quando sei andata via non c’è stata nessun’altra qui”. E’ una piccola bugia, dettaa fin di bene anche perché le poche volte che Claudia è venuta a trovarmi non ha mai portato nientecon se. Non hai voluto marcare il territorio con la sua presenza, non ne ha mai sentito bisogno. Nonlo potrei giurare, ma credo che non sia neanche mai entrata in cucina, e sicuramente non è mai statain giardino. L’unico suo tragitto è stato dalla porta al letto, con qualche piccola divagazione inbagno, e poi dal letto alla porta. Niente altro.Caterina mi prende per mano e mi accompagna in camera da letto, anticipati dall’allegrotrotterellare della gattina. Appena entrati, lascia la presa della mia mano per prendere l’unica sediapresente nella stanza. La trascina vicino al mio armadio, ce l’appoggia contro e con gesti lenti emisurati ci si arrampica sopra. La vedo allungarsi per arrivare a prendere una scatola di cartonenascosta là sopra, che non avevo mai notato perché appoggiata contro il muro molto all’interno,praticamente invisibile dalla stanza. Mi gusto la sua figura slanciata ed i suoi piccoli gemitiintermittenti emessi per la fatica mentre cerca di arrivare alla scatola. Vista da così, dal basso versol’alto è ancora più bella, con le sue belle gambe affusolate e i capelli sciolti lungo la schiena. Conun ultimo sforzo arriva alla scatola, riesce ad afferrala ed a trascinarla verso il bordo dell’armadio.La sposta ancora un po’ fino a farla cadere in terra, smorzando a malapena la caduta. Al contattocon il pavimento quella scatola nascosta laggiù per chissà quanto tempo genera una nuvoletta dipolvere. La gattina impaurita scappa in cucina a nascondersi sotto qualche mobile.Scende dalla sedia, prende la scatola da terra la solleva e ce la appoggia sopra: “Una spolverata ognitanto eh?” Mi rimprovera. Caterina rompe con una certa difficoltà il sottile filo di spago grigio chela tiene chiusa la scatola e sollevando il coperchio mi dice: “chissà come sarò buffa con questa robadi due taglie più grandi, dimagrita come sono ora”. Dalla scatola tira fuori un completino da notte inpile rosso, un paio di mutandine, una t-shrit, un paio di ciabatte di pelo, vari altri capi di biancheria,un tanga ed un piccolo contenitore di plastica trasparente con dentro la sua solita collezione dicampioni di creme, saponi ed oli profumati: “adesso ho solo bisogno di un paio di asciugamanipuliti, e che poi magari mi prepari qualcosa di caldo. Un the o una camomilla, quello che hai. Tisembra abbastanza? Lo sai che hai da farti perdonare un sacco di cose”. Dice queste cose concalma, come gustandosi ogni singolo istante di questo momento solenne, non c’è nessun tono dirivincita nelle sue parole. Prende le sue ciabattine di pelo e lascia cadere in terra. Si toglie le scarpeed i pantaloni, per rimanere con solo il costume, lo stesso che aveva poco prima al mare, insieme adun paio di minuscoli calzini ed una maglietta leggera di cotone. Si infila le sue ciabatte e senza direnulla sparisce nel bagno. Mi avvicino alla scatola per osservarla meglio. Si, in tutto questo temponon sai riuscito a notarla sopra l’armadio e la polvere depositata sopra lo dimostra ampiamente.Quella scatola dimostra una cosa sola, che lei ha sempre saputo che un giorno sarebbe tornata.E’ bello averla di nuovo qui, e forse non è stato neanche un male avere avuto questa interruzione,che entrambi si sia avuto delle storie con altre persone, anche se Marco non riesco proprio aconsiderarlo un rivale. Non sarà certo un argomento facile da affrontare anche se semplicementeevito di pensarci, non sarò certo io che approfondirò questo discorso, anche se sarà impossibile nonparlarne, prima o poi.Sento l’acqua della doccia scorrere, Caterina è la sotto, riesco a malapena sentirla tra il rumoredell’acqua: “Allora me li porti questi asciugami, daaaai......!”Riemergo dai miei pensieri, apro l’armadio e le prendo il mio accappatoio di spugna ed un piccoloasciugamano di servizio. Mi affaccio dalla porta del bagno. In terra, in ordine sparso ci sono i due

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pezzi del suo costume, un paio di fantasmini a righe colorate, e la sua maglietta che aveva fino adun istante prima. Lei è ancora nella doccia, riesco solo ad intravederla attraverso il vetro dellacabina appena opacizzato dal vapore. A fatica mi impedisco di affacciarmi per guardarla, megliotornare in cucina a prepararle qualcosa di caldo. Non ho né the né camomilla ed allora le metto sudel caffè e del latte. Ci sono dei biscotti al cioccolato, male che vada faremo la nostra prima nuovacolazione insieme in ritardo di otto mesi e dieci ore.Mentre tolgo il latte dal fuoco la sento armeggiare per la camera: “Metto un disco per festeggiare ilmio ritorno? Spero però di non trovare una delle solite palle che ascolti tu, speriamo sia qualcosa dicarino!” Gli rispondo: “Vai, fai partire pure il disco che c’è già dentro!” Tolgo dal fuoco anche ilcaffè appena passato e torno da lei in camera. La trovo in piedi accanto al letto, girata di spalle. Hale sue buffe ciabattine, ed indossa il completino da notte in pile rosso appena tirato fuori dallascatola, i capelli sono raccolti sotto il piccolo asciugamano: “Ti ho preparato del latte caldo, non hoaltro, però ci sono dei biscotti!” si volta e mi prende il volto con entrambe le mani, sfiorandomiappena le labbra con un leggero bacio: “meglio di nulla, va bene anche il latte caldo, certo non seiproprio migliorato tanto. Ti ritrovo esattamente come ti ho lasciato, ma sei riuscito a fare qualcheprogresso?” Ci abbracciamo e ci teniamo stretti senza fare o dire altro. A lei non ha mai dato troppofastidio, ma stavolta la differenza tra lei appena uscita dalla doccia pulita e profumata ed io ancorapieno di sabbia e un po’ sudaticcio è troppo evidente: “Mi devo fare una doccia anch’io. Facciopresto. Promesso. In cucina c’è il latte caldo ed il caffè, io arrivo subito.” Non abbiamo fatto ladoccia insieme semplicemente perché fisicamente due persone insieme non ci stanno dentro il miopiccolissimo bagno, oppure semplicemente perché non ci abbiamo pensato. Cerco di fare piùvelocemente che posso, e mi metto le prime cose che trovo in bagno. Un paio di pantaloncini, senzale mutande sotto ed una maglietta a maniche lunghe. Lei però è ancora in camera che mi aspetta, c’èpure la gattina che ripresa dallo spavento si sta gustandosi la scena sdraiata sui cuscini del letto.Ci trasferiamo tutti in cucina dove lei si serve la sua tazza di latte caldo mentre si appoggia dischiena al frigorifero: “Davvero, come è possibile che durante tutti questi mesi tu non abbia maiavuto una donna. Non ci credo, è impossibile, neanche una storiella di letto? Siamo sicuri?”Caterina ha sempre avuto questa facoltà di capirmi, di intuire da dettagli insignificanti cosa le stessinascondendo oppure a cosa stessi pensando. Mi ricordo una volta riuscì ad indovinare una parolaimpossibile di un giochino da tavolo, solo guardandomi con attenzione, mentre per tentativi provavaad avvicinarsi alla soluzione dell’enigma. Questa volta è diverso però, probabilmente a lei noninteressa conoscere la verità, anzi: “No, nessuna. Anzi, sai che ho fatto cose impossibili perrintracciarti, ma tu hai fatto di tutto per non farti trovare, hai cambiato addirittura il numero delcellulare.... “.Caterina abbassa gli occhi e chiude le braccia a croce sul petto nel suo classico atteggiamento didifesa: “Non è stato facile sai. Sono stata malissimo. I primi mesi poi... ho passato le primesettimane in casa, senza mai uscire, nella sola speranza che tu mi telefonassi. Dormivo abbracciataal cellulare. Poi per sopravvivere ho dovuto prendere la decisione di cancellarti completamentedalla mia vita e così l’ho fatto”. La guardo per capire fino a quanto fosse sincera; “E Marco?”, conancora le braccia chiuse a croce mi risponde: “Marco l’ho incontrato l’ultimo dell’anno ad una cenaa casa di amici, hanno quasi dovuto prendermi di peso per convincermi ad andarci a quella cena. Loso, tanto è argomento che dovrà essere affrontato, quindi è meglio parlarne subito”. E’ vero,bisognerebbe parlarne subito, penso anche se non ne ho propria voglia. Io posso nasconderleClaudia, è facile, non ci ha mai visto nessuno insieme, e poi adesso si è trasferita a quattrocentochilometri da qui chissà dove, quando mai lo scopre, ma Marco no, Marco non si può nascondere,anche se probabilmente credo pesi più a lei che a me: “Certo, se ne vuoi parlare...” Cerco diassumere un atteggiamento neutro, non voglio sbilanciarmi, non per la mia solita tendenza adevitare situazioni dove non posso controllare tutto, ma perché devo ancora capire cosa possa ancorarappresentare per Caterina quel ragazzo: “all’inizio è stato bello. Mi ha aiutato molto. Per un breveperiodo ho creduto di potermi innamorare di lui, anzi ne ero proprio convinta. Pensa dopo diecigiorni che si stava insieme mi ha portato una settimana a Sharm, sul mar rosso, poi tornati siamo

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andati a sciare sulle Dolomiti. Lui fa l’animatore in un villaggio turistico ed ha un sacco di contattie di agevolazioni. E’ veramente una bella persona”. Nonostante Caterina faccia di tutto permagnificarmi quel ragazzo, io non riesco ad esserne geloso, e questa mia mancanza di gelosia l’hasempre fatta arrabbiare moltissimo. E’ meglio tenere la parte, facendo finta di esserlo un po’:“Sicuramente è un bel ragazzo, ma non mi è sembrato questo gran genio”. Ignorandocompletamente quello che ho appena detto lei continua il suo racconto: “poi i nostri rapporti si sonoraffreddati, ed ho cominciato ad avere dei dubbi sui miei sentimenti verso di lui. Non ti vantare, nonè per colpa tua, pensavo davvero che tra noi fosse finita. Poi un giorno, poco tempo fa, ti ho vistoper caso per strada, ed in un attimo è crollato tutto è come se non fosse mai passato un solo istante.Da quel momento non ho più smesso di cercarti, volevo capire fino in fondo quanto eri ancorapresente nella mia vita, quanto eri ancora importante per me. Sapevo che ti avrei trovato prima opoi, cosa credi ci fossi andata a fare al mare proprio in quel posto? E quelle telefonate sulla spiaggiachi credi sia stata, volevo solo essere sicura che fossi tu, da lontano non capivo bene.” Adesso è dinuovo rilassata, beve a piccoli sorsi il suo latte caldo, tenendo la tazza con entrambe le mani perscaldarsi un po’: “mi hai visto? Dove?” non sono preoccupato, con Claudia in pubblico, a parte laprima sera alla cena aziendale non ci siamo mai fatti vedere: “vicino a casa di Marco, un mese fadirei, eri in giro, cercavi qualcosa, avevi in mano un foglio, una piantina forse io stavo giustoandando via, si era appena partiti con la moto. Mi sono voltata per guardarti, ma tu non mi hai vista.Sono rimasta voltata a guardarti per un sacco di tempo mentre ci si allontanava, anche quandoormai non ti potevo proprio più vedere. Volevo scendere, volevo urlare a Marco di fermarsi, ma nonce l’ho fatta, è in quel momento che ho capito che ti dovevo ritrovare, e in tutte le maniere, eratroppo importante per me riuscire a capire”. “Caterina”, sussurro mentre lei continua a descrivermiil nostro incontro, e come la sua storia con Marco stava rapidamente esaurendosi. Attacca di nuovola sua tazza e finisce il latte. Per prenderne dell’altro si avvicina alla tavola. Ma dopo il primo passoall’improvviso si ferma, c’è qualcosa che la disturba. Posa la tazza e con rabbia si toglie sia la partedi sotto del completino da notte in pile rosso che le sue mutandine, per poi rimettersi subito ipantaloni, lasciando le mutandine in bella mostra, per terra: “quel cretino mi ha convinto pure adepilarmi completamente, adesso che ricrescono o mi depilo ancora oppure non posso mettermi piùniente! Mi bucano! E per cosa poi, ma! E’ meglio lasciar perdere, che stupida!” La guardoaffascinato è così, lei non è capace di filtrare niente di quello che pensa, lo deve dire e basta. Siversa il latte, e ritorna esattamente nella stessa posizione di prima, dando un calcio alle mutande chespariscono sotto il tavolo di cucina, inseguite di corsa dalla gattina: “Me lo sentivo che oggi al mareti avrei incontrato, ne ero assolutamente convinta. Ho fatto di tutto per farmi portare, Marco non erad’accordo, voleva andare ad un raduno di moto di epoca o chissà che cosa. Ora che sono qui, dinuovo con te è come se non fosse passato tutto questo tempo, come se ci si fosse salutati appena ierisera, senza esserci persi per tutto questo tempo. E’ davvero difficile cercare di spiegare quello cheprovo adesso. Marco, è diventato di colpo un estraneo, addirittura un peso. Ho avuto paura che percolpa sua tu non mi volessi più. Ma oggi al mare mi è bastato parlarti per un secondo per far spariretutti i miei dubbi, per capire. Tornare qui è la cosa che ho desiderato di più in tutto questo tempo,ecco” La guardo con un misto di orgoglio e preoccupazione mentre mi racconta tutto questo.Orgoglio perché fa sempre piacere sentirsi dire queste cose, preoccupazione perché per la primavolta mi sento responsabilizzato verso di lei, forse sarà solo per il rimorso per averla fatta soffrireinutilmente per tutto questo tempo, forse no, c’è dell’altro, ma non riesco a mettere bene a fuoco. Sosolo che per la prima volta mi sento in dovere di fare qualcosa in più per lei, perfino a pensare in“noi”, metterla davanti a tutte le mie esigenze e le mie voglie ed i miei vizi: “Ma Marco come laprenderà! Gli hai già parlato, devo parlarci io? Lei alza gli occhi e fissandomi con decisione mirisponde: “Marco? Marco non sa nulla, e non saprà mai nulla gli ho solo detto che era finita e basta,nessuna giustificazione, d’altra parte quando decidi che una persona debba uscire per sempre dallatua vita mica gli devi dare delle spiegazioni, è già tanto se glielo dici e basta”. Poi, con un gestolento e misurato si toglie l’asciugamano che raccoglie i capelli, e con entrambe le mani aperte comedei grandi pettini se li distende. Sono ancora completamente bagnati: “Caterina, hai sempre i capelli

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bagnati, forse è meglio che provi ad asciugarti meglio, non credi? Non vorrei che ti ammalassiproprio ora”. Senza curarsi troppo della mia osservazione lascia la tazza di latte sul frigo e siavvicina appoggiandomi l’indice della mano destra sulle labbra per poi sussurrarmi: “certo hairagione, mi asciugherò i capelli anche se in realtà avevo altri progetti. Intanto potresti iniziare a fartiperdonare del tutto il tempo che ci hai fatto perdere sistemandomi la schiena, con il tuo solitomassaggio poi, se ti comporti bene, vedremo cosa altro possiamo fare”.Non aggiunge altro, attraversa il piccolo corridoio e sparisce in camera, mi sento chiamare. Nonposso fare altro che assecondarla e seguirla, per niente turbato dell’accavallarsi velocemente dellevicende. Qualche ora fa ero ancora un single alla ricerca della mia ex fidanzata sparita chissà dove!Ed ora è’ seduta sul letto aspettando il mio solito massaggio ristoratore. Rimango ad osservarla,cercando di reprimere a fatica tutte le mie voglie rimaste tali ormai per mesi. Con i capelli appenapiù asciutti la vedo togliersi la parte superiore del completino da notte per poi sdraiarsi a pancia ingiù sul letto. Noto immediatamente che non ha il segno del costume, ed anche se è un dettaglioinsignificante è un sintomo evidente di come sia profondamente cambiata. Sistema i cuscini. Unotra il collo ed il seno, e l’altro sotto la testa per stare più comoda, piega le braccia leggermente inavanti per appoggiarle alla piccola spalliera in legno del letto. La sento sospirare profondamente,mentre si sistema in quella posizione.Mi siedo accavallato sopra i glutei. La sento mentre li stringe con forza nel tentativo di prendermi inmezzo e farmi male. Con dolcezza le sposto i capelli dalla schiena e prendo una delle sue boccettinedi olio profumato dal ripiano della mensola sopra la spalliera del letto, spostandomi appena inavanti. Per sicurezza strofino il flaconcino tra le mani per scaldarlo appena, anche se non sarebbenecessario. Mi verso un po’ di olio sulle mani, ed un po’ sulla sua schiena, che immediatamente siinarca al contatto con il liquido. In silenzio assapora ed assorbe ogni singolo dettaglio, ogni miogesto. Il disco che c’è ora non è adatto ne devo scegliere uno nuovo che sia in grado diaccompagnare per sempre il suo ritorno miei ricordi. Non ho troppo voglia di starci a pensare eprendo, quasi a caso uno degli ultimi dischi sentiti e che sono ancora aperti vicino al lettore. Il casosceglie la seconda parte di “The Wall”. Adesso è davvero tutto pronto e posso iniziare il rito del miomassaggio. Con una leggera pressione dei pollici, parto dal centro della schiena, proprio sullacolonna vertebrale e forzo verso l’esterno. I miei movimenti di distensione si contrappongono adaltrettante serie di pressioni verso l’interno. Parto dalla zona del collo e scendo giù in basso fino aquella piccola “v” che i suoi glutei descrivono congiungendosi appena sotto il bordo elasticizzatodel suo pigiama in pile. Segue poi la parte meccanicamente più impegnativa, la manipolazioneprofonda, e talvolta dolorosa dei muscoli delle spalle e del collo. Caterina nonostante il dolore cheprova riesce a sorridere. Un paio di volte sono costretto a spostarmi di lato per poterle far ruotare lespalle per distenderle completamente.La pelle di Caterina sta rapidamente assorbendo l’olio e così posso iniziare a farle quello che tra dinoi chiamiamo “lo scuoiamento”, cioè il creare un piccola onda di pelle, che viene trascinata su egiù per tutta la schiena utilizzando soltanto il movimento rotatorio dei pollici e degl’indici dellemani. Un’operazione dolorosissima, forse la più dolora di tutte.Intanto il lettore prosegue la sua corsa. Un paio di volte completamente assorbito dall’atmosferacosì intima e avvolgente mi allungo per rimettere da capo qualche brano, alla fine, replicandobiecamente quanto fatto da Claudia a suo tempo, mi sdraio sulla sua schiena e le canto sopra lamusica questa strofa all’orecchio:

When I was a child I caught a fleeting glimpse,Out of the corner of my eye.I turned to look but it was gone.I cannot put my finger on it now.The child is grown, the dream is gone.

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Nonostante avessi sentito questo disco per decine di volte, conoscendone il testo a memoriasolo ora mi trovo a riflettere per la prima volta sul significato di questa parte, il provare adafferare un qualcosa che ti sta sfuggendo, il rendersi conto che ormai l’occasione è statainesorabilmente persa e che non ricapiterà mai più e renderseno conto solo dopo tantissimotempo che non potrà ritornare. Solo ora riesco davvero a rendermi conto di quanto sono statofortunato ad incontrare una persona come Caterina, e di quanto fossi stato stupido ad averlafatta andare via.Sulla prima nota dell’assolo di Gilmour, la schiena di Caterina si copre di una infinita serie dipiccole protuberanze ed è percorsa da piccole scosse di brividi. La vedo mentre scorreleggermene di lato, spostandomi delicatamente di fianco. Lentamente si toglie i pantaloncini delsuo bel completino da notte in pile rosso per rimane completamente nuda, mostrandosi senzanessun podure, con assololuta naturalezza. La guardo, come se fosse la prima volta che la vedo.La accarezzo e la bacio dolcemente, sul collo, sulle labbra e sulla pancia, riconosco le sue formei suoi odori ed i suoi sapori. Lei aspetta solo un attimo e poi si infila sotto le coperte, adesso lesue intenzioni sono davvero chiare, e ne sono felice. Ci prendiamo senza dirci più nulla. Ci sonodei brani musicali che sembrano fatti apposta e per questo tipo di occasioni, e questo assolo dichitarra elettrica che ha accompagnato e ufficializzato il suo ritorno è semplicemente perfetto.La bacio ancora, la accarezzo, e poi la bacio di nuovo, mi sento per la prima voltacompletamente preso e trasportato dalla sua presenza, dalla sua profonda bellezza.Rimaniamo abbracciati nella stessa posizione per un po’ di tempo, io sotto, lei sopra incastratatra le mie gambe. Tengo la mia mano destra all’interno del suo ginocchio sinistro spostatoleggermente in avanti mentre lei appoggia la sua testa sul mio petto. E’ passata l’ora di cena eoggi è stata una giornata lunga e pesante e la fame si fa sentire, anche se entrambi preferiamostare ancora sdraiati a coccolarci. Per la cena c’è ancora tempo, e preferiamo rimanere a cosìancora un po’.

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Capitolo QuattroTerza parte

Mi sveglio per primo. Lei è profondamente addormentata di fianco a me. Non riesco a capire cheora possa essere. Fuori, dalla finestra appena aperta non si vede nessuna luce, e non si sentenemmeno il classico via vai tipico di una strada piena di negozi come è quella dove abito. Anche ildisco è finito e chissà da quanto tempo. La luce fredda del display illumina senza disturbare questascena. Comincio solo ora a rendermi conto dell’importanza di quanto è accaduto oggi. Caterina nonè il male minore, non è un ripiego. No. In questi mesi ho capito che Caterina ha significato esignifica per me molto di più di più di quanto avessi mai creduto. Credo sia arrivato il momento dicrescere, di assumersi delle responsabilità precise. Basta auto giustificazioni su speranze di ritorniche non ci potranno mai essere. Ho già sacrificato troppe cose per Marina, e per colpa del suofantasma stavo per perdere di nuovo una persona a cui voglio davvero bene. E’ arrivato il momentodi tirare una linea e fare una separazione netta tra il prima ed il dopo. Non dico gettare via tuttoquello che c’e’ stato con Marina, in fin dei conti la nostra storia nelle varie riprese è durata in tuttopiù di dieci anni, ma devo riuscire definitivamente a darle una collocazione precisa, trovarle un“posto nei nostri cuori” dove non possa fare più danni. Anche se a pensarci bene non sono mairiuscito a capire fino le ragioni che l’hanno spinta a prendere le sue ultime decisioni riguardo ilnostro rapporto. A distanza di anni non sono ancora riuscito a capire quale siano stati veri motiviche l’hanno spinta lontano da me. Certo la prima volta che Marina mi lasciò era pienamentegiustificabile, non ero altro che un borioso studentello fuori corso. Ma dopo no, non sono piùriuscito a seguirla nelle sue decisioni. Forse aveva semplicemente esaurito tutte le energie nelrincorrermi dietro a tutte le mie piccole manie. Il problema vero è che io e Marina siamo troppouguali, è triste dirlo ma per essere felici in amore si deve soffrire, ed è impossibile farlo in due ed èimpossibile che avvenga contemporaneamente. Non è vero che dopo non ci abbia mai provato, c’e’stato pure un periodo in cui mi dovevo giustificare con lei per farle dei favori, mi prendevo tutte lecolpe anche quando non ne avevo pur di stargli vicino. Ma abbiamo entrambi questa tendenza a nonsaper accettare i difetti delle persone a cui si vuole davvero bene. Più si stima e si ama una personae meno siamo in grado di accettare e perdonare ogni piccola ed insignificante lacuna. Quella piccolamancanza che ci affascina e ci colpisce in un estraneo diventa automaticamente fastidiosa seritrovato tra di noi. Magari non è andata nemmeno così e tutte le sue manifestazioni di insofferenzahanno una ragione più semplice, più superficiale, e cioè banalmente non mi amava più. Di Marinasono stato davvero profondamente innamorato, e forse lo sono tuttora e lo sarò per sempre, ma èanche vero che non eravamo fatti per stare insieme. Non puoi avvicinare i poli uguali di duecalamite fino a farli toccare senza fare una fatica enorme, e più vuoi che stiano vicini e più faticadevi fare. Poi basta un improvviso calo di questa intensità, una piccola distrazione e vedi questi duepezzi di metallo che scappano via uno dall’altro senza speranza di vederli tornare insieme da soli, ameno che uno dei due non decida di abbandonare il suo punto di forza ribaltando completamente lasua posizione di 180°. La “seconda” e “terza” Marina, ma forse anche la “quarta” sono state tuttoquesto per me, uno sforzo continuo ed inutile di rimediare ai miei troppi errori commessi nel primorapporto, un darmi ed umiliarmi senza nessuna speranza, offrire tutte le facce possibili della miacalamita all’altra parte che ormai era troppo lontana per poterne essere attratta. Ma tutto questo oggipuò finire, anzi deve finire, e deve finire ora. Devo guardare in faccia la realtà, rivolgere versoCaterina tutta l’energia che ho speso inutilmente in tutti questi anni per Marina. La vita è fatta discelte, a anche se queste scelte non ci piacciono devono essere comunque prese e seguite fino infondo. Marina avrà sempre il mio aiuto, il mio amore e la mia presenza, ma non avrà mai più il mioorgoglio, non avrà mai più la mia anima. Non accetterò mai più compromessi. Questo che staarrivando è uno dei momenti fondamentali della mia vita, un momento in cui le decisioni prese sirifletteranno inevitabilmente nel corso degli anni, forse per sempre. Caterina merita di più di quello

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che ha avuto fino ad oggi da me e lo avrà, avrà tutto da me, tutto quanto Farò tutto il possibile perfarla essere sempre felice, e sopratutto non la lascerò mai più da sola.Penso tutto questo fissandole il volto, il suo bel volto. Mi accorgo che mentre dorme sorride, èdavvero felice. Un brontolio sordo proveniente dal mio stomaco mi avverte che è arrivato ilmomento di smetterla con questi pensieri e di darsi da fare per cose più terrene. Mi alzo dal lettodelicatamente cercando di non svegliarla per andare di là, in cucina per preparare qualcosa damangiare. Anche Caterina avrà fame, di sicuro.Metto su l’acqua, e prendo dal frigo il necessario per arrangiare qualcosa, non aspettavo ospitistasera. Apparecchio con cura la tavola, metto a scaldare quel poco pane che mi è avanzato nel miopiccolo e fedele fornino elettrico, unico oggetto che mi ha sempre seguito nei miei innumerevolitraslochi, insieme forse alla piccola pentola dove metto a scaldare l’acqua per la borsa invernale cheda sempre mi accompagna a letto. Ordino con precisione le posate sulla tovaglia, e cerco di renderepresentabile quelle poche cose che ho trovato nel frigo. Di colpo però mi sento osservato, mi volto ela vedo, in piedi appoggiata allo stipite della porta che ancora mezza addormentata mi staosservando. Mi guarda e non capisce, e tutto così nuovo per lei, non è abituata a vedermi indaffaratoe preoccupato per lei, mi avvicino e le dico: “è quasi tutto pronto, ti avrei chiamato appena finito.Mi sa che però ci dovremo arrangiare però ci sono i bicchieri giusti per il vino ed il pane ascaldare”. Non dice niente, è semplicemente stupita di quello che vede e sente, probabilmente si stachiedendo quanto tutto questo potrà continuare.Ci mettiamo a sedere uno di fronte all’altra. Alla fine si decide a parlare: “Ma tu sai che razza di oresono?”. Non rispondo e continuo a guardarla sorridendo. Lei continua: “Non lo so se te l’ho detto,ma nel tempo che non ci siamo più visti ho cambiato lavoro, adesso non sono più part-time ilpomeriggio, mi hanno finalmente presa a tempo indeterminato e faccio l’orario pieno. Ho anchecambiato ufficio, adesso ne ho uno tutto per me! Mi ci trovo davvero bene, abituata come eroprima! La guardo davvero sorpreso e rispondo: “Ma è una bella notizia, davvero. Poi non lo sapevo,non potevo nemmeno immaginarlo. Se lo avessi saputo non ti avrei fatto fare tardi, mi dispiace!”.Mi fissa per un istante, come per valutare la sua risposta e poi dolcemente mi dice: “e come facevi asaperlo. E’ solo dall’inizio del mese che ho cambiato orario, e poi scusa, non riesco ancora adabituarmi a vederti così premuroso e carino con me. Prima mi avresti semplicemente detto che sevolevo la cena me la potevo pure preparare da sola, di non ‘sbriciolarti le palle’ e adesso mi sveglioe trovo tutto apparecchiato ed in perfetto ordine! Mi sa che hai da farti perdonare qualcosa eh?”Riesco a prendere la sua battuta per quello che è, una battuta e niente altro. La stessa frase dettadalla prima Caterina avrebbe scatenato una litigata interminabile. Le sorrido ancora, mi avvicino ele verso del vino nel bicchiere: “dai raccontami come è andata mentre ceniamo, ti va? Mi farebbepiacere saperlo!” Con sospetto prende il bicchiere e ne beve un piccolo sorso e dolcemente mirimprovera: “Davide, lo sai che con l’insalata e la verdura in genera non si serve mai del vino,specialmente se è rosso, ma per te stasera farò una eccezione!”. La cenetta scorre via tranquilla eallegra, mentre mi racconta tutte le novità riguardo il suo lavoro. Scopro che praticamente adessoabbiamo due vite quasi parallele, facciamo un lavoro simile, abbiamo gli stessi orari e lavoriamopraticamente a meno di trecento metri l’uno dall’altro. Domattina per la prima volta potremoandare a lavorare insieme, fare colazione insieme.Finita la cenetta la accompagno a letto. Le impedisco di forza di aiutarmi a sparecchiare. Di colpoperò si avvicina di nuovo alla sua vecchia scatola. La vedo frugare dentro per smettere solo quandotrova una piccola busta di carta gialla. La prende e ritorna in cucina chiedendomi di trovargli delnastro adesivo trasparente. Mi ricordo che forse nel bagno, nella scatoletta degli attrezzi qualcosac’è. Lo trovo e ritorno in cucina.Adesso è seduta, con davanti a se sparsi sul tavolo il puzzle di una vecchia mia foto in bianco e nerostrappata in tanti piccoli pezzi: “L’avevo strappata il giorno che me ne ero andata, ma non ho avutoil coraggio di gettarla via”.Dai brandelli riconosco subito una mia vecchia foto in bianca e nero fatta moti anni prima duranteuna settimana bianca. Una foto sfocata, sviluppata e stampa male e per questi motivi davvero unica.

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Alla fine, aiutandoci a vicenda completiamo il restauro. Certo non sarà mai come era prima, ma perlo meno adesso ha ritrovato la sua integrità, prendendo il posto di una piccola stampa appesa allaparete, proprio di fronte al frigo. Si riparte da dove si era rimasti, la foto che torna a fare mostra dise, la gattina felice che corre impazzita per tutta la casa ed io che ho ritrovato il mio prezioso tesoroperduto. La prima vera notte di pace e tranquillità dopo un sacco di tempo.

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Capitolo QuattroQuarta parte

Passa l’estate e passa pure l’autunno. Caterina è cambiata e molto, e non solo a causa del nuovolavoro, o della sofferenza inutile che le ho fatto provare. E’ Cresciuta, ho paura di aver ucciso i suoisogni. Spesso mi scopro a spiarla di nascosto, esattamente come faccio adesso attraverso il riflessoche la sua immagine lascia sull’ampia vetrata del bar dove tutte le mattine prima di andare al lavoroandiamo a fare colazione. Sono alla cassa e lei non può vedermi in nessuna maniera, Ha appenaappoggiato la sua borsa sul tavolino ed è immersa come al solito nei suoi mille tubetti e flaconicolorati di creme e trucchi. Alla fine abbiamo prenotato. Passeremo le nostre vacanze natalizie daqualche parte in Francia. Non potevamo permetterci di più. Saranno comunque le nostre primevacanze insieme, lontano da tutto e da tutti, anche perché durante l’estate non siamo stati in grado diorganizzare niente presi dal suo trasloco a casa mia, e dai mille problemi dati dai nostri lavori. Cibastava stare insieme, ed era sufficiente. Penso a tutto questo mentre la guardo truccarsi con cura ilvolto, con dei ritocchi intorno agli occhi.Da quando è tornata le settimane passate insieme sono davvero volate via. Mai una litigata, mai unoscrezio. Tutto sembra davvero perfetto, forse troppo. La guardo ancora, sembra davvero felice,anche se da un po’ di tempo un’ombra sembra mascherarle il suo splendido sorriso. Non sembraessergli pesato tornare a vivere dove è stata infelice per così tanto tempo. Non ne ha mai volutoparlare, ha sempre evitato l’argomento nonostante le mie ripetute ed insistenti sollecitazioni. Ecco,adesso ha finito di sistemarsi, ed ha rimesso a posto tutta la sua attrezzatura di bellezza. Stacontrollando qualcosa sul cellulare, forse l’ora. Sembra davvero impaziente di andare. SalutoFederico, il proprietario del bar ed attraverso il piccolo locale per andare da Caterina che mi staaspettando per uscire. Quando mi vede arrivare la sua espressione non muta, non ricambiando ilmio sorriso. Lentamente sposta la sedia, cercando di non fare rumore, e si alza, controlla di non averdimenticato niente e semplicemente mi passa davanti per avvicinarsi all’uscita, ignorato come unperfetto estraneo: “Scusa Davide, dobbiamo proprio andare, non vorrei fare tardi. Lo sai, non vogliodare una brutta impressione di me”. Non provo nemmeno a rispondere, lei è già giù per strada chemi anticipa impaziente. Recupero la mia giacca ed esco anch’io da quel piccolo bar. Ci salutiamocome al solito con un piccolo bacio appena accennato sulle labbra. Io non ho più fretta di andare allavoro, l’anno appena passato in Ditta mi ha lasciato più di una cicatrice addosso, non prendo più imiei impegni seriamente come prima. La guardo andarsene, la rincorro con lo sguardo fino a doveposso seguirla lungo la grande curva che questa strada disegna. Chissà se è davvero felice, oppureno, che cosa sia successo. Non riesco a rendermi conto se tutti questi dubbi hanno davvero unmotivo, o se vivono solo nella mia fantasia. Forse sono solo io che sono cambiato non lei, non misento più così a mio agio, non riesco più a rilassarmi completamente. C’e’ sempre stata una cosache mi ha dato profondamente fastidio in tutte le mie cose, ed è quella di non poter capire fino infondo quello che sta accadendo, anche se la mia natura non mi spinge mai toppo ad indagare. E’sempre successo così, non riesco mai a cogliere i segnali evidenti, come quelli mandati a suo tempoda Claudia, o ancora prima da Marina. Mi accorgo che sta per succedere qualcosa solo quandoquesta cosa accade davvero.In Ditta ho di nuovo cambiato lavoro. Terminata la gestione del finanziamento per laristrutturazione della rete aziendale ho cambiato ruolo prendendo il posto che era del Frangioni siafisicamente nel suo piccolo ufficio come per la responsabilità che ricopriva. Praticamente non devofare niente di nuovo per gestire questo mio nuovo incarico. L’help desk viene portato avanti inmaniera semplicemente perfetta da Matteo e Giacomo, mentre la gestione amministrativa è seguitada un nuovo gruppo creato appositamente, di gente esperta e brava. Io non intervengo mai sul lorolavoro. L’unica cosa che ogni tanto faccio è portare avanti una specie di piano di impegnoregistrando le scadenze e i vari avanzamenti dei lavori in corso. Sarebbero perfettamente in grado dicavarsela da soli, e questa attività che organizzo, con non più di una o due riunioni a settimana serve

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più che altro a dare un ruolo alla mia figura, più che a verificare e controllare veramente il lavorosvolto. Parte della mia giornata la passo a smistare e firmare documenti, leggere e rispondere ainutili e-mail, partecipare a riunioni aziendali dove ognuno racconta quello che deve fare e perché,ed altre cose del genere. Tutto perfettamente inutile ma necessario.In ogni caso sono davvero orgoglioso di come sono riuscito in poco tempo a cambiare l’aria che sirespirava nell’ufficio riorganizzando il lavoro. Non c’è più quel clima di oppressione edinevitabilità che si respirava prima. I miei rapporti di lavoro con i miei collaboratori sono davveroottimi. Sono riuscito a conquistare la loro fiducia semplicemente coinvolgendoli al massimoresponsabilizzandoli nel loro lavoro. Prima svolgevano i loro compiti solo per non prendersi irimbrotti del Frangioni, adesso, lo stesso lavoro è fatto per soddisfazione personale, per fare beneuna cosa a cui si tiene.L’esempio classico è quello dell’help desk, Giacomo non conosce bene le lingue straniere e quindinon ama rispondere a e-mail in arrivo dall’estero, mentre Matteo al contrario ama proprio le linguestraniere. Frangioni non aveva ma sentito ragioni, ognuno di loro doveva rispondere alla richiestearrivate alla loro casella a prescindere da che regione del mondo provenissero, io, semplicementeinserendo dei filtri nella posta in arrivo sono riuscito a selezionarle in modo che a Matteoarrivassero solo quelle dall’esterno, togliendole da quella di Giacomo. Una operazione banale,istantanea senza nessun costo o difficoltà tecnica che mi ha permesso di guadagnareimmediatamente il loro rispetto e la loro fiducia. Ho anche dato il permesso a tutti in ufficio diutilizzare internet per motivi personali nei momenti di pausa, sia a pranzo che dopo l’orario dilavoro, ed altre tante piccole concessioni. Dove prima c’era un ufficio di otto persone che nonriusciva a lavorare ed a rendere per quel che poteva, adesso ce ne uno nuovo che con meno dellametà delle persone di prima, che svolge in maniera perfetta e con un nuovo entusiasmo i propricompiti.Alle dieci ho appuntamento con il Direttore, e sono appena le nove e venti. Devo impegnare questiquaranta minuti in qualche modo. Decido di dare una pulita alla mia casella di posta privata. Ormaila controllo una volta ogni tanto ed il rischio di trovarla intasata di spam è davvero reale. Tanto gliunici messaggi degni di nota che ci trovo ormai da un po’ di tempo sono le notifiche di qualcherisposata dei miei interventi su qualche forum, pubblicità varie, preventivi di assicurazioni onlinenon sfruttate e indagini statistiche dove ti promettono fantastici premi se rispondi a decine didomande.Mi collego distrattamente. Ho una serie di e-mail nella casella dedicata allo spam, ed una decina damittenti conosciuti e registrati. Cancello per prima quelle che non mi interessano per dedicarmi conpiù calma a quella decina da leggere. Scorro velocemente i mittenti, quando uno in particolare attirala mia attenzione, nell’oggetto leggo: “Ciao Davide, come va? E’ un sacco di tempo che...”. E’Marina che a distanza di quasi un anno e mezzo si fa di nuovo viva. Rimango incerto sul da farsi.Intanto per prima cosa leggo velocemente e cancello tutte le altre lettere, che come previsto nonhanno niente di interessante, lasciando la sua per ultima.So quello che dovrei fare, e cioè cancellarla direttamente senza leggerla, al limite fare come feceCaterina a suo tempo bloccando l’account apposta inserendo per tre volte di fila una passwordsbagliata, ma non ci riesco. Senza che io lo possa impedire la freccia del mouse si ferma sopral’unica riga di posta rimasta. Il primo click la evidenzia di un celestino pallido, mentre il secondo laapre.E’ una mail corta, di poche righe. La leggo al volo, avidamente:

“Ciao DaviCome stai? E’ un secolo che non ci si sente più, ed ho un sacco di cose da raccontarti, certo anchetu ogni tanto fatti sentire eh? Sono sempre io quella che deve fare la prima mossa. Volevo farticonoscere Davide, è davvero un bel bimbo, cosa ne dici se una sera di queste ci si trova per unaperitivo da qualche parte? Fammi sapere. Ho cambiato il cellulare, quello nuovo è questo,chiamami pure quando vuoi, anche all’ultimo momento.

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Marina”.

Rileggo la sua lettera tre, quattro volte. Cerco di capire, ma come al solito non riesco. Perché mivuole vedere? Quella di Davide puzza di scusa lontano un miglio. C’è un altro motivo che come alsolito non riesco a cogliere. Al contrario di tutte le volte precedenti non provo nessuna emozioneparticolare, la stessa e-mail l’anno scorso mi avrebbe fatto precipitare in un baratro senza fine,anche se ho davvero voglia di conoscere Davide. Devo solo decidere se tenere nascosta a Caterinaquesta cosa o no. Non sono così sicuro che capirebbe. Scrivo due righe di risposta lasciando apertol’argomento. Adesso sono le dieci passate, ed il Direttore mi sta già aspettando. Vado da lui.Lo incontro mentre sta uscendo dal suo ufficio. Appena mi vede il suo volto si illumina di un belsorriso: “scusa Davide, ho una riunione improvvisa e devo andare. Volevo solo ricordarti, chequesto venerdì c’è la solita cena che tutti gli anni organizziamo prima di Natale. Quest’anno faremouna cosa un po’ più sobria, e saremo in pochi. Tu chiaramente sei invitato e stavolta mi farai lacortesia di portare con te la tua signora. Passa pure dalla segretaria, per prendere l’inviti”. Mi da unapiccola pacca sulla spalle e sparisce cercando di rispondere, non riuscendoci al suo nuovo cellulare.Oddio, penso, la solita cena aziendale. Me ne ero completamente dimenticato. Magari Caterina saràcontenta, lei ama queste cose.

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Capitolo QuattroQuinta parte

La Cena è fissata per le ventuno.Come anticipato dal Direttore non si tratta della solita cena becera aperta a tutti, stavolta si tratta diuna cena organizzata privatamente, limitata ad una piccola cerchia di dipendenti ed amici, unaspecie di ringraziamento per il lavoro fatto in Ditta dalle persone più fidate, non più di una ventinadi persone, Direttore e consorte inclusi.Caterina quando vuole farsi notare sa come fare. Decolté generoso, tubino aderente su biancherianera e capelli tirati su con solo qualche ciocca evidenziata da dei riflessi bluastri lasciata libera sullespalle, calze opache e scarpe con un tacco solo accennato, nemmeno un filo di trucco. Non c’èinganno in quello che si vede, la merce è tutta genuina, evidenziata anche da una leggeraabbronzatura mantenuta sfruttando le ultime domeniche di sole dell’anno.La cena non è organizzata nel solito agriturismo dell’anno precedente, ma in uno dei ristorante piùin della città. Anche l’umore delle persone presenti è totalmente diverso, non si respira la stessa ariadi ansia e precarietà. Stavolta non ci sono lotterie. Non c’è ne bisogno, i posti sono già assegnati,nell’unica tavola apparecchiata nella saletta privata. Io e Caterina sediamo proprio di fronte alDirettore accompagnato dalla sua Signora, insieme ad altri personaggi della Ditta che non ho maiavuto occasione di conoscere. Invitata c’è pure Ilaria, la adesso neo dipendente sistemata a titolodefinitivo nel mio vecchio ufficio. Gli sguardi al tavolo sono tutti per loro, Caterina la brunamediterranea e la bionda Ilaria elegante e raffinata. Naturalmente entrambe irraggiungibili per tutti,o quasi.Ci sediamo e aspettando le prime portate penso come le cose con Caterina stiano funzionandodavvero bene. La nostra è ancora una luna di miele profonda ed intensa, anche se talvolta trascorsada un filo di nostalgia che non riesco a decifrare. Essersi ritrovati dopo mesi di distanza ha fattobene al nostro rapporto. Nessuno scontro, nessun litigio, un sacrificarsi e darsi all’altrospontaneamente senza nessun doppio fine, senza ragionamenti, un accetarsi come non era maiaccaduto. Probabilmente il cambiamento maggiore lo fatto io, la tranquillità del nuovo impiego, ilpericolo scampato del fallimento della Ditta e tutto il resto hanno fatto la propria parte, come purequesta serata. Davvero tutto sembra dedicato alla pace ed alla serenità. Anche il Direttore immersoin questa atmosfera riesce perfino ad accettare i soliti complimenti ammiccanti dei pochi dipendenticaccia-occasioni presenti. In altri periodi li avrebbe liquidati con la solita battuta velenosa etagliente.I tempi dilatati che intercorrono tra una portata e l’altra sono dei piacevoli momenti diconversazione (sembra una cosa di cui non potrò mai liberarmi), ed anche il vino è ottimo eperfettamente abbinato ai cibi offerti. Di colpo e senza nessun preavviso il Direttore fa cenno a tuttiquanti di riempirsi il bicchiere per fare un brindisi, si alza in piedi e guardandomi dice: “Davide,questo brindisi è per te, devo farti davvero i complimenti, sospettavo che avevi buon gusto, ma mihai davvero sorpreso”, indicando con lo sguardo Caterina. In altri tempi una battuta del genere nonsarebbe mai stata perdonata da Caterina, ma stavolta il Direttore riesce a passarla liscia. Mi guardointorno e vedo come tutti gli occhi degli invitati siano solo per noi. Il nostro è il posto più invidiatocosì vicino al Direttore. Dopo il primo sorso del brindisi lui continua: “Caterina, anche lei èfortunata sa! Davide è sicuramente uno dei collaboratori migliori che abbiamo in Ditta. E’ ancoraun po’ grezzo ma su di lui ci si può contare ad occhi chiusi”. Caterina stavolta però non può fare ameno di rispondere: “perché lei non lo conosce come è a casa, è sempre così premuroso, semprepronto a sacrificarsi pur di farmi felice, un vero cavaliere!”. Le risate del tavolo coprono per unattimo il mio patetico tentativo di replica. Fortunatamente l’attenzione viene subito rapita da altridiscorsi che si susseguono rapidi su svariati argomenti, anche se le faccende di lavoro e della Dittala fanno da padrone, fino al momento in cui un troppo insistente collega chiede al Direttore: “SignorDirettore, però che peccato tener nascosta una bella ragazza come la signorina Ilaria in quell’ufficio

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isolato, magari le potrebbe trovare un posto nuovo, magari nel nostro ufficio, ci servirebbe perrallegrare l’ambiente”. Ilaria non riesce a replicare arrossisce ed abbassa gli occhi. La battuta nonviene presa da tutti nella stessa maniera, non è altro che un tentavo di humour di basso livello senzacattiveria, ma per Ilaria sembra risultare davvero offensiva. Il Direttore ne capisce l’imbarazzo, enon potendo bacchettare pubblicamente l’autore di tale modesta prova si vendica a suo modorivolgendosi a me: “Già! Ti ricordi Davide, quando ti ho dovuto togliere da quell’ufficio per farciandare quel tipo, si quello che era impazzito, cavolo, ma come si chiamava? Vede Ilaria, ci sonocerte persone che ti passano in Ditta e che non lasciano nessuna traccia, come quasi tutti gli altri delresto guardando negli occhi lo sventurato autore dell’infelice battuta!”. Ancora una volta con questarisposta il Direttore dimostra a tutti come non sia possibile competere con lui, poi rivolgendosidirettamente a Caterina dice: “Davide in quell’occasione fu davvero superbo, non so come riuscì aconvincerlo a dare le dimissioni senza nemmeno patteggiare un rimborso adeguato. Pensi che solocon quella trattativa abbiamo risparmiato non meno di venti-trentamila euro!”. Caterina lo fissa perun momento, poi con calma si arricciola nel suo solito modo una ciocca di capelli e con un sorrisoun po’ forzato replica: “E’ vero, con quei soldi Davide ci ha cambiato la macchina mi sembra diricordare!” Non so se Caterina voleva metterlo in difficoltà oppure rimproverarmi per il modo cheho di accettare passivamente le cose, specialmente al lavoro ma fatto sta che adesso tocca a metrovare il modo di stemperare, anche se niente sembra poter rovinare questa serata: “Ingegner MottaDirettore, quella persona si chiama ing. Motta e non si chiamava e poi non sono stato io aconvincerlo ad andarsene, è stata una sua decisione”. Senza volerlo mi stavo avvicinando ad unburrone senza fine. Non sono mai riuscito ad accettare e fare mio il fatto che Claudia ed il Mottasiano moglie e marito e non due perfetti estranei, per via del rapporto indipendente e separato cheho avuto con loro. Cerco di far cadere l’argomento, distraendomi su una etichetta di una bottiglia divino mentre ascolto il proseguo di questa pericolosissima conversazione: “E’ vero!” replica Ilaria:“L’anno scorso quando ho fatto il primo colloquio in Ditta, proprio con il dottor Sole si era inquello che ora è il mio ufficio, sapete che non avevo mai collegato. Però non sapevo che per uncerto periodo sia stato dato a questo signore. Cosa gli è successo perché ha detto che è impazzito,come mai? Tanto ormai si può dire se non lavora più da noi, no?” Il Direttore incalzato daglisguardi di Ilaria e sopratutto dalla curiosità dello sguardo di Caterina decide di raccontare la storiadel Motta, i suoi segreti. Storia che ignoravo del tutto: “Si, ora ricordo, si l’ingegner Motta. Si, ilnome è quello. No Ilaria, niente di particolare. Era già qualche anno che era con noi, poiall’improvviso venne ricoverato in Ospedale. Un’infezione credo, proprio mentre la Signora stavaaspettando il loro primo figlio. Una cosa banalissima, una piccola ferita non disinfettata a dovere.Poveretto è stato un sacco di tempo in ospedale, e quando è rientrato dopo quasi un anno non erapiù la stessa persona, si era chiuso era diventato introverso, cupo, credo abbia rischiato di morirediverse volte, cosa che deve averlo davvero sconvolto se poi ha cominciato a comportarsi in quelmodo.” Cerco di distrarre Caterina con la bottiglia del vino che ho in mano, ma non ci riesco. Ormailei è eccitata sia dalla possibilità di conoscere qualche cosa di piccante sulla mia mai tropporaccontata vita di azienda, ma soprattutto dal mio mal celato imbarazzo ed ignorando i miei tentativiinsiste con un fare di sfida nei miei confronti: “Perché cosa ha fatto di strano questo signore quandoè ritornato dall’ospedale? Sa Direttore, Davide a casa non ne parla mai, e sono davvero curiosa, edun’occasione come questa non me la lascio certo scappare, anche perché calcolando bene i tempi,questa cosa potrebbe davvero interessarmi”. Le cose peggiorano rapidamente, mi sonocompletamente dimenticato dell’analogia dei tempi di questi fatti con la nostra crisi, non vorrei chepoi alla fine le ricordasse qualcosa di spiacevole. Il Direttore non raccoglie i miei sguardisupplichevoli ed insiste nel raccontare: “Caterina, questa persona dopo l’ospedale, al ritorno allavoro non si... anche se è brutto dirlo a tavola..... ma tanto non scenderò in particolari.... dicevoquesta persona”, e mentre parla abbassa il tono della voce quasi per aumentare il mistero: “questapersona non si lavava più, veniva ogni giorno al lavoro sempre con lo stesso vestito anche per unmese di fila, era impossibile stargli vicino. Alla fine ho dovuto fare un cambio, spostandolonell’ufficio di Davide, gli altri non lo volevano più con loro. Ti ricordi, ti ho anche dato quella

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miseria di aumento, ma erano altri tempi”. Caterina di colpo si irrigidisce, non sorride più, smettepure di giocare con i capelli: “che strano comportamento però, che cosa gli sarà successo di cosìsconvolgente?”. Nessuno le risponde e tutti quanti ci si osserva senza dire niente, in un tacitoaccordo per far cadere l’argomento, quando però il solito corteggiatore folle di prima, sicurostavolta di fare colpo su tutta la platea, Caterina compresa, spara la sua chance che mi trapassa daparte a parte come una freccia avvelenata: “come non lo sapete! A seguito del lungo ricovero perl’infezione, anche se secondo me sono state più le cure, ma non è importante questo, dicevo, aseguito di tutto quello lui non può più avere figli,” e mentre parla non riuscendosi più a controllarsidal ridere insiste: ”ha ha! Non può più avere figli! almeno lui, intendo, si perché la Signorainvece....” La crisi di riso adesso è davvero incontrollabile e contagia tutto il tavolo, tranneovviamente me, e per un motivo ben importante.Sono l’unico che non ride al tavolo e Caterina lo nota, ne sono sicuro, anche se non riesce a capirnela vera ragione. Devo fare subito qualcosa. Mi avvicino e sussurrando nell’orecchio le dico: “nonmi piace come trattano questa persona, l’ho conosciuto bene al tempo e non è giusto parlare di luicosì, senza che poi possa difendersi o intervenire, non mi piace”. Caterina, non mi risponde, eguardandomi appena si allontana divertita, presa come è da piacevole conversazione.Ritorno a giocare con la mia bottiglia di vino, questa rivelazione mi ha sconvolto. In un attimocollego tutto, il modo di comportarsi di Claudia, il suo strano modo di venire a letto con me e farel’amore in modo distante asettico ma allo stesso tempo profondo, con uno scopo ben preciso, cheahimè al tempo non avevo assolutamente intuito. Momenti, emozioni che si accavallano l’unoall’altro, un rincorrersi di ricordi che solo ora trovano la loro giusta collocazione e sequenza.Ripercorro mentalmente ogni momento passato con Claudia, ogni singola parola detta, ogniaccenno, ho davvero la risposta a tutto pronta, una risposta che non mi piace neanche un po’ quandoil tipo, senza pietà sfodera il colpo di grazia: “il Direttore ha ragione quando dice che è andato via disua spontanea volontà senza contrattare, è vero aveva fretta ed aveva un motivo molto semplice”, ementre si gonfia il petto per scoccare l’affondo decisivo alzando la mano sinistra per fare il gestodelle corna dice: “la moglie era rimasta incita, e sicuramente come sappiamo tutti lui non puòesserne il padre. Si dice addirittura che sia uno della Ditta. Sembra che lei abbia fatto una volta unamezza confessione ad una sua amica, e che questa poi sia andata a raccontare tutto al marito! Si diceche il fattaccio sia accaduto proprio l’anno scorso di questi tempi, alla cena organizzata dalla Ditta”,vi immaginate? Una vera tragedia. E’ per questo che è scappato così di corsa!”

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Capitolo QuattroSesta parte

Giove o Saturno non fa nessuna differenza per me. Io non sono più seduto a quel tavolo, ma chissàdove. Claudia aspetta un bambino, ed il padre non può esser suo marito. E’ possibile che sia io?Non posso nemmeno dare per scontato che lei non abbia raccontato tutta la verità al marito.Dramma su dramma la faccenda non è passata sopra Caterina senza danni, e conoscendola potrebbeaver capito tutto, al contrario del resto del tavolo, almeno lo spero. Impaurito scruto rapidamente glisguardi di tutti gli invitati nella ricerca di qualche indizio, di una conferma alle mie speranze chenessuno abbia capito, solo ogni tanto scopro il Direttore a fissarmi senza luce negli occhi. Questoincrocio di sguardi mi gela. Ripensandoci bene, tra tutti quelli presenti alla famosa cena potrebbeaverci visto insieme. E’ vero che per non dare nell’occhio si era usciti in due momenti diversi, mapoi dopo giù al parcheggio non siamo stati troppo prudenti, ed inoltre abbiamo passato più di un’orainsieme al pianoforte. Bastava guardarci per un istante per capire e collegare dopo. Chissà. Certo ilsuo sguardo la dice veramente lunga. Non è uno sguardo accusatore, ma solo di curiosità. Magari sista chiedendo come mai, avendo una donna come Caterina mi sia poi lasciato andare con un’altra.Poi, all’ennesimo scambio di sguardi d’improvviso un flash ed il ricordo di quella sua battuta:

“Davide, è tornato a lavorare dalle sue parti, vicino a Varese credo. Da quel che so probabilmentesi è già trasferito con tutta la famiglia, moglie e figli. Eh? Davide hai combinato un bel guaioeh?”.

Cosa voleva dire? A che guaio si riferiva, non può essere un guaio che il Motta sia andato via senzacontrattare, anzi. Il Direttore sa. Anzi il Direttore ha sempre saputo, come è possibile! Mi si apre unnuovo mondo davanti, e tante piccole battute, tanti riferimenti non colti trovano la lorocollocazione. Mi guardo intorno. Osservo ancora con cura tutte le persone la tavolo. Devo esseresicuro che solo il Direttore sappia questa cosa. Di colpo ci troviamo di nuovo a fissarci senza direnulla. In modo intenso e profondo. Con gli occhi gli faccio la domanda, e lui sempre con gli occhimi da la sua risposta. Lo sa, è sicuro adesso. Non credo dia dei giudizi su questo miocomportamento, anche perché il suo atteggiamento nei miei confronti non è mai mutato. Sa cheadesso è un problema mio e che tale deve rimanere. Caterina non vuole figli, e non li vorrà mai èsempre stata chiara ed esplicita su questo argomento, e tra l’altro mi ha sempre trovato d’accordo.Ma adesso le cose sono cambiate e parecchio. Questa nuova rivelazione mi pone davanti a dei dubbia delle conseguenze che adesso non sono in grado di valutare. Devo fare qualcosa, devo riconoscerequello che in qualche modo sarà mio figlio? Dovrò dirlo a Caterina? Devo provare a parlare conClaudia? Tutte queste domande mi frullano per la testa per la tutta la sera e me le porto dietro fino acasa prima ed a letto poi senza essere riuscito a dare una minima risposta. Niente. FortunatamenteCaterina sembra non essersi accorta di niente. Decido che è meglio tacere su tutto, sia questa storiache la lettera di Marina. Devo capire bene prima. È meglio non fare tutto di getto come di solitofaccio. Sono argomenti troppo seri per essere affrontati così con superficialità, comeinevitabilmente tenderei a fare, per colpa di questo mio carattere.Fortunatamente i nostri giorni di vacanza in Francia mi trascinano lontano da questa storia, anche sevedo ad ogni angolo, ad ogni incrocio la signora Motta con un culla che mi viene incontroindicandomi ed urlandomi qualcosa, con al fianco il marito che mi punta al collo un affilatissimocoltello.Le vacanze finiscono e ci ritroviamo tutti di nuovo gettati nella nostre quotidiane routine.Il mio lavoro procede nel migliore dei modi, passo le giornate solo ad amministrare il lavoro deglialtri. Dalla cena non ho più parlato con il Direttore. Io no ho cercato lui e lui non ha cercato me,comportamento alquanto strano, visto che prima non passava giorno che non volesse vedermi perun qualche motivo. So che dovrò fare io la prima mossa, ma per adesso credo sia meglio

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soprassedere. Il menage con Caterina continua invece nella più normale tranquillità. Nessunaaccelerazione, nessuno screzio, niente di niente. Ci prendiamo sempre di meno, ed ogni volta misembra sempre meno soddisfacente, ma non per colpa sua. Non capisco. Prima, quando le cose miandavano male mi sentivo vivo, ogni giorno era passato a combattere contro qualcosa o qualcuno,mentre adesso qua seduto davanti a questo inutile computer aspetto solo che accada qualcosa dinuovo. Mi sta scivolando via tutto dalle mani e non riesco a fermare nulla.Così passano i mesi del nuovo anno, ed i miei leggeri tentativi di rintracciare Claudia non hannodato nessun frutto. Poi improvvisamente, una mattina la novità.La citazione per comparire davanti al giudice di pace è fissata per le dieci e trenta di giovedì 23prossimo. Sono preoccupato, fino ad oggi non avevo mai niente avuto a che fare con la Giustizia, siqualche multa non pagata, ma mai cose serie. E questa citazione, arrivata per raccomandata nonpromette niente di buono. Chissà cosa vuole da me un giudice di pace? Chi può avermi denunciato eper cosa? Sull’atto allegato non c’è nessun riferimento, solo il nome del giudice e qualche fraseminacciosa riferita ad un mio mancato rispetto dell’appuntamento, niente altro. Riesco a tenere lacosa segreta a Caterina, per adesso non voglio coinvolgerla in una avventura che non so nemmenocosa sia. Penso di tutto, anche al fatto di poter essere stato eletto giudice popolare in qualcheintrigato ed interminabile processo.Non mi passa neanche per un momento in testa il non andare e puntuale mi presento all’ufficioindicato, accompagnato da Luca il mio amico di sempre che fortunatamente di mestiere fa propriol’avvocato. Anche lui non mi ha saputo dare nessuna spiegazione, è una pratica inusuale . Scoprocon mia sorpresa che almeno per queste cose l’orario previsto è un orario vero che viene rispettato.Oltre a me ed a Luca, presente nella piccola stanza c’è il giudice di pace ed un altro signore che sipresenta come avvocato di una inafferrabile parte avversa. Appena terminate le presentazioni e leformalità di rito il giudice inizia a parlarci: “Signor Sole, prima di tutto mi preme dirle che non sideve assolutamente preoccupare, non è successo nulla. Quello di oggi spero sia il nostro primo el’ultimo incontro su questo argomento. Il signore qui presente l’avvocato Gabbani le consegnerà inmaniera non ufficiale la notifica dell’intimazione a non provare più a cercare, importunare ocomunque incontrare la sua cliente, la Signora Zambolla”. Guardo il giudice con stupore edincredulità. E’ possibile che si tratti un errore di persona? Io non conosco nessuna signoraZambolla! Ne faccio cenno a Luca e successivamente mi rivolgo direttamente all’avvocato: “Lasignora Zambolla? E chi è? Io non conosco nessuna Signora Zambolla!”. L’avvocato ed il giudicerimangono per un momento sconcertati dalla spontaneità della mia affermazione, anche Luca, chenel suo mestiere deve averne viste tante non sa dire nulla di più. Probabilmente anche a loro èpassata per la mente la possibilità che questo incontro sia frutto di un errore, di uno scambio dipersona. L’avvocato, ritorna con lo sguardo su di me e mi chiede, in modo gentile: “Dunque leiSignor Sole, afferma di non conoscere nessuna signora Zambolla, residente a Schiranna in provinciadi Varese?” Lo guardo sempre più perplesso, è sicuro, si tratta di uno errore, di uno scambio dipersona, ed insisto: “a parte di non conoscere nessuna signora Zambolla, francamente non soneanche dove sia Varese, figuriamoci il paese che ha detto lei e che già non ne ricordo il nome”. Lamia protesta è davvero genuina e spontanea e mette in difficoltà sia il giudice che l’avvocato. Ineffetti pure loro si rendono conto che è per lo meno improbabile che qualcuno che abita ad oltre500Km di distanza si senta minacciato da un persecutore, tanto da dover far intervenire una diffidaufficiale. A questo punto il giudice fissandomi senza particolari espressioni fa un piccolo cenno conla testa all’avvocato, suggerendogli di mostrarmi una foto. L’avvocato apre la sua bella borsetta, emi passa una foto, una piccola foto tessera. La prendo. Riconosco immediatamente la donnaraffigurata, interrogando poi con lo sguardo sia l’avvocato che il giudice che al volo cogliel’occasione per incalzarmi: “Allora lei dunque conosce la donna della fotografia?”. Guardo Luca egli faccio un cenno con il capo allargando le braccia in segno di resa: “Certo che la conosco, è laSignora Claudia Motta, è la moglie di un mio ex collega di lavoro che si è licenziato dalla mia Dittadue anni fa. Francamente però non capisco il motivo di questa ingiunzione, da quando se ne sonoandati, non ci siamo mai né più visti e nemmeno più sentiti, neanche per posta, neanche una

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telefonata. Niente! Ed io non ho mai provato a cercali, davvero! La replica dell’avvocato non si faattendere: “Ne è davvero sicuro? Sappiamo per certo che qualcuno da un po’ di tempo sta seguendola Signora, con innumerevoli tentativi di approccio, campanelli e telefono che suonano alle ore piùdisparate della notte, lei di tutto questo non ne sa nulla, vero?” Non rispondo subito e mi avvicino aLuca, parlandogli piano nell’orecchio, in modo che loro non possono sentire: “Luca, non so cosasuccede, si ho provato a fare qualche telefonata a Claudia, ma mai di notte, e non sono mai andato acercarla di persona. Cosa sta succedendo?”. Luca che fino a quel momento ero stato in silenzioprende finalmente la parola: “Signori, perché state accusando il signor Sole di questi fatti? C’è unadenuncia precisa al riguardo? Perché se c’è una denuncia precisa dovremmo avere qualche notiziapiù precisa, e questo colloquio non avrebbe più senso a continuare in questa sede ed in questamaniera.” L’avvocato, riprendendosi la foto risponde: “Certo lo sappiamo, infatti questo non è unincontro ufficiale, il nostro vuole essere semplicemente un invito, nel caso sia lei quella persona cheimportuna la signora di smettere immediatamente evitandoci di procedere oltre. Se lei è estraneo aquesta faccenda, come del resto crediamo, lei non ha davvero niente da temere”.Guardo entrambi per prendere tempo e riflettere. E’ chiaro che Claudia ed il Motta, non mi voglionointorno. Per il bene del figlio, immagino. Non conosco per niente cosa dice la legge, se potreichiedere la paternità, oppure no, se ho comunque qualche dovere o peggio qualche diritto sul quelloche è naturalmente mio figlio. Figuriamoci, poi io mi spavento a morte per queste cose. Vedo già ilblindato della polizia che alle sei del mattino mi viene a prendere a casa, come pure sento le vocidei miei vicini che urlano “bravi avete fatto bene a prenderlo, è un poco di buono!” ed anche “si, silo sapevo che prima o poi lo avrebbero preso!”. Un “allora?” detto a mezza voce dall’avvocato miriporta sulla terra, in questo strano palcoscenico: “Signori”, replico, “Francamente non so cosa dire,è una cosa talmente strana che non riesco a capire. Non sono io quella persona che state cercando,anche se una volta o due ho provato a telefonare più che altro per educazione visto che volevo faregli auguri di Natale, a quelli che ritenevo essere due miei amici, ma mai di notte e ripeto non sonomai andato di persona”. A questo punto l’avvocato, stranamente più sollevato dice: “Guardi, comele aveva accennato il giudice, questo non è un incontro ufficiale, non si deve né arrabbiare népreoccupare. Per noi è sufficiente quanto ci siamo detti. Basta che lei ci prometta che non intenderàin nessun modo approfondire la sua relazione con la Signora, o cercare di scoprire di più di quelloche sa ora. Anche perché a questo punto la vera ingiunzione scatterà e si troverà di fronte un giudicenella sua vera funzione, non come adesso!” Adesso i due giocano a carte scoperte, meno male.Finalmente ho capito, è davvero una mossa preventiva, vogliono tenermi lontano dai Motta, non c’ènessuno che ha dato loro fastidio. Cerco di ragionare nel modo più veloce possibile, analizzando difatto tutte le varie opzioni che ho. Arrivo a due conclusioni diametralmente opposte: continuare afare finta di nulla, oppure approfittare dell’occasione per contrattaccare e chiedere spiegazioni,capire se posso far valere qualche mio diritto di padre.Ovviamente, anche su suggerimento di Luca decido per la via di fuga più breve e sicura e confermo:“Credo si sia finalmente spiegato tutto, a quanto pare è stato un errore, uno scambio di persona. Ionon ho niente a che fare con questi fatti. Se non c’è altro io direi di chiudere qui la faccenda.”L’avvocato ed il giudice dopo un piccolo cenno di intesa si alzano e mi vengono incontro con lamano tesa: “Certo signor Sole, è quello che abbiamo pensato sin dall’inizio. Anche per noi lafaccenda si chiude qui. Ci scusiamo davvero per il disturbo arrecato, ma non potevamo farealtrimenti, lo creda per il bene di tutti”. Gli stringo la mano pensando che sia davvero la soluzionemigliore per tutti. Luca nel frattempo si avvicina al suo collega, e senza dirmi nulla si scambiano inprivato qualche frase che non intuisco.Claudia voleva un altro figlio e l’ha avuto. E’ stata solo colpa mia che mia che mi solo lasciatocoinvolgere in quel suo progetto. Punto ed a capo. Finito tutto e me ne devo andare. E mentre aprola porta dell’ufficio per uscire mi sento chiamare: “Signor Sole?”, è il giudice che parla, “si ricordiche questo è stato solo un appuntamento informale, niente di più, ma le devo chiedere di non farriferimento con nessuno di quanto ci siamo detto. Anche perché per noi il nostro lavoro non è finito.Noi quella persona la dobbiamo trovare, dobbiamo sentire altri persone coinvolte”. Faccio un cenno

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con il capo, non ho davvero motivi per non fare quello che mi hanno chiesto. Appena fuoridall’ufficio, appena chiusa la porta io e Luca iniziamo a parlare su quanto accaduto. Quello che mipreme sapere è se davvero posso correre dei rischi, se quelle due telefonate che ho fatto possonodavvero mettermi in difficoltà. Luca sorride e mi risponde: “Ma che stai dicendo Davide, di cosadevi preoccuparti, non vedi che hanno inventato tutto per spaventarti e far finire la cosa senzaandare oltre, però ti devo dare una brutta notizia, non si sono inventi nulla, c’è davvero qualcunoche ha fatto e sta facendo tutto quello, fidati. Lascia perdere tutto e dimentica”. Continuando aparlare si esce dal vecchio edificio e ci ritroviamo giù in strada, nel parcheggio, Luca non ha volutodirmi nulla su cosa sia siano detto in privato. Accompagno Luca alla sua macchina, io rimarrò inCittà. Ho preso il pomeriggio di ferie. Ad un tratto una visione che mi inquieta non poco.Parcheggiata proprio di fronte alla sua c’è la macchina presidenziale della Ditta. Mi avvicino e posola mano sul cofano del motore. E’ caldo, chiunque sia deve essere arrivato da poco, mi rivolgo aLuca: “Guarda che strano la macchina della dirigenza. Chissà cosa ci fa qui!” Mi guardo intorno manon trovo nessuna persona conosciuta. Luca si avvicina, e mi guarda serio e preoccupato, forse perla prima volta in oltre venti anni di profonda amicizia: “Davvero una strana coincidenza Davide, madammi retta, non indagare oltre, non ti posso dire di più l’ho promesso al mio collega di Varese, mati posso dire che la faccenda è molto più complicata di quanto sembra. Come ti ho detto quellapersona esiste e ti è molto vicina e ti conosce bene. Loro sanno esattamente chi è, e si sono volutigarantire il tuo silenzio con questa messa in scena. Ti ho pure detto già troppo. L’argomento èchiuso, per tutti, ok?” e senza aggiungere mi saluta per andarsene.Questo strano colloquio mi ha davvero infastidito e disturbato profondamente. Io ho un equilibriodelicato e basta niente per distruggerlo, poi mi serve sempre un sacco di tempo per ricostruirlo.Decido di ritornare verso il centro della città per trovare un posto dove mangiare qualcosa che nonsia il solito panino di sempre, mi merito qualcosa di più oggi. Arrivo sul fiume, e attraverso il ponte.Mi fermo a riflettere. E’ solo una coincidenza oppure c’è qualcosa di più dietro. Quella macchina inDitta la posso utilizzare solo pochissime persone, due, tre al massimo ed io ne conosco solo una chenormalmente la usa. Costruisco e distruggo mille congetture differenti, nessuna sta in piedi, quandomi sento chiamare: “Davide?”. Non realizzo subito, non riesco mai a fare due cose insieme quandosono distratto da qualcosa che non riesco a decifrare. Sento questa voce insistere: “Davide, cosa cifai qui?”. Lentamente mi volto. La prima impressione che ho colgo è come una gravidanza ed unparto non abbiamo minimamente alterato la sua perfetta siluette, soltanto i suoi capelli sonocambiati, portati adesso molto più corti: “Marina, perché ti sei tagliata i capelli così corti?” lechiedo. Marina si avvicina, mi abbraccia, contenta e stranamente sorridente prendendomi entrambele mani: “Non ci vediamo da due anni, ho avuto un figlio, ti trovo nell’ultimo posto dove pensavo diincontrarti e tu mi chiedi del perché mi sono tagliata i capelli? Forse è anche per questo che unavolta ti amavo, riesci sempre a stupirmi”.

All change!

Lo scenario di colpo muta di nuovo, via Claudia, via la macchina della Ditta ed entra Marina senzanessuna presentazione: “Dai Davide, sto andando a pranzo mi fai compagnia così ci raccontiamocosa abbiamo fatto in questo tempo, eh?”. E sempre per mano iniziamo a camminare verso unameta precisa. La sento parlare ma non l’ascolto, io intervengo nei discorsi ogni tanto solo conqualche breve accenno, mi sento solo trascinato via verso il nostro solito vecchio posto. Ciritroviamo esattamente nelle stesse posizioni, uno di fronte all’altro, a distanza di anni dall’ultimavolta. Senza dire più niente Marina apre la borsetta e tira fuori una serie di fotografie e me le passa.E’ Davide: “è un bel bimbo vero? Ne sono molto orgogliosa, è la cosa più bella che mi sia maicapitata, davvero!”. Non so cosa rispondergli. Mi sento come un tipo che va al pronto soccorso peruna scheggia di legno infilata sotto un’unghia quando poi arriva un ambulanza che porta dentro dicorsa un ragazzo che ha avuto un incidente in moto completamente insanguinato e agonizzante.Cosa gli dovrei dire? Che ho un posto nuovo al lavoro? Che Caterina è tornata ma che ogni giorno

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la sento sempre più distante? Che ho vinto un sacco di soldi scommettendo sulle partite di calcio?Niente, non c’è una sola risposta. Devo solo accettare il ruolo che ho e far finta di essere felice perlei.Prendo le foto e le osservo con cura, ma mentre le rendo noto che non ha la fede al dito e le chiedo,così distrattamente il perché non si sia spostata, nonostante il figlio. La sua risposta mi taglia in duecome al solito, come è in grado di fare solo lei: “lo sono stata, per sei mesi. E’ durata sei mesi, èfinita davvero male con Ale.” Mi rendo conto di come sia la prima volta che sento il nome del miorivale e di come non riesco nemmeno a gustarmi le mie solite ed adorate patatine fritte. Marina nonriesce più a trattenersi e continua senza che io le debba chiedere niente:“sai Davide, adesso stomeglio ma ho passato un periodo di inferno, a Natale dell’anno scorso, Davide aveva appenafesteggiato il primo compleanno quando ho conosciuto una persona. Si era tutti e tre ad una cena traamici, io Davide e Ale intendo. Lui non ha fatto niente o detto qualcosa di speciale, ma in cinqueminuti è riuscito a distruggere la mia esistenza, cancellato tutto quello che avevo costruito fino aquel momento. Dopo quei cinque minuti non esisteva più Ale, più Davide, più il mutuo appena fattoper la nostra nuova casa. Esisteva solo lui, lui nella sua tranquilla bruttezza”. La guardo, ascolto ilsuo racconto, non può essere vero, non può essere accaduto ancora. E’ scappata di nuovo. Riescoperfino a sentirmi vicino a questo Ale, a provare empatia per chi mi ha portato via per sempreMarina. Una empatia spontanea, sincera. Adesso però non la seguo più. Perché ha avuto la necessitàdi raccontarmi tutto questo. Che sia rimasta davvero così sola? La sento continuare a parlare, manon riesco a capire quello che dice concentrato sul flusso di idee ed associazioni che questa notiziami ha provocato. Come? penso, per anni mi hai fatto sempre credere che la nostra storia sia finitasolo per colpa mia, perché non sono mai stato in grado di darti quella sicurezza e quelle attenzioniche hai sempre recriminato e tu quando trovi tutto questo scappi con il primo venuto? Mi haisempre accusato di non averti mai dato la sicurezza che volevi, di averti sempre fatto sentire da solae poi scappi così. Ma allora non è stata colpa mia la nostra fine, sarebbe successo comunque primao poi. Questo Ale deve averti dato tutto quello che volevi, e non è servito a niente! Cosa mi hai fattocredere per anni? Hai lottato una vita per ottenere quello che avevi e se questo può essere spazzatovia da un tranquillo bruttino solo perché ti parla con dolcezza e ti racconta di come è il suo mondovuol dire che non avrei mai potuto fare niente per evitare di perderti. Ti avrei perso comunque. Nonti potevo bastare io, non ti sarebbe mai potuto bastare se alla fine tutto può essere spazzato via in unattimo da un gesto da un frase detta all’improvviso da uno sconosciuto.La guardo senza dire niente. Dopo tanti anni mi sento sollevato, felice direi. Ho finalmente rimossoe risolto tutte i nodi non sciolti con lei, i dubbi che mi erano cresciuti dentro. No, non mi ferisconopiù i suoi giudizi sferzanti le accuse di leggerezza e incoerenza che mi ha sempre rivolto. Prima miferivano, ma adesso mi fanno solo sorridere, se penso da chi sono detti e sopratutto a chi sonorivolti. Se basta uno sguardo, una frase per farti dimenticare tutto, si allora lo posso dire, che le tuecritiche ed i tuoi rimproveri non possono che rendermi più forte, perché è solo un semplice epatetico tentativo di nascondere tutte le tue paure ed incertezze,. Accusare una persona che ti haamato incondizionatamente per tutti questi anni sacrificando ogni cosa ed ogni persona per te, persentirsi dire che è bastato uno sguardo, che delusione. Cara Marina, in questo c’é qualcosa diprofondamente ingiusto e sbagliato, ma non ti posso rimproverare niente. La verità l’ho sempreavuta sotto gli occhi e non l’ho mai voluta vedere.Finiamo, e le offro il pranzo. Mi chiede se posso accompagnarla a prendere Davide dai nonni e poia fare delle spese, se mi farebbe piacere vederlo. Rispondo di “si” meccanicamente, comemeccanicamente le parlo della mia storia con Caterina, del mio nuovo impiego, e dei soldi vinti conle partite.Poi la seguo senza dire più nulla, dai nonni, al supermercato, fino a casa sua. Più stiamo insieme epiù mi sento assorbito dalla sua presenza, e la rabbia provata dopo la sua confessione sparisce perlasciare il posto al mio vecchio amore per lei.Per un breve periodo ho vissuto realmente una di quelle mie proiezioni che mi sono sempreimmaginato, prendere il bimbo dai nonni, passare a fare la spesa al supermercato, sistemare delle

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cose in casa, cucinare, lavare i vestiti del bimbo, cambiarlo. Tempo che vola via in un attimo, in unistante. Marina e Davide sono adesso sulla porta di casa pronti ad uscire di nuovo. E’ incredibilecome queste due ore passate con loro siano volate via così. Marina cerca le sue ultime cose, prendele chiavi di casa rovistando in un portavasi sul mobiletto lì vicino, e le infila nella serratura dellaporta, pronte ad essere utilizzate.Accarezza Davide con un gesto affettuoso. Si piega sulle ginocchia e gli abbottona con cura ilcappottino, gli sistema pure il cappellino di lana fatto a mano. Davide si trasforma in un pupazzettocon ai piedi un paio di stivaletti gialli appena regalati da me. Marina sorride e lo bacia, prima sullafronte poi sulle mani. Lo accarezza ancora: “E’ tutta la mia vita!” mi dice. L’ultimo rapidocontrollo, e continuando a sorridere continua: «Noi siamo pronti e possiamo andare eh?». Davidesorride a sua volta mentre Marina mi dice: «Sei stato davvero gentile, ma ora devo proprio andarevia, ci accompagni alla macchina?». Si alza ed apre la porta di casa, ed in un attimo siamo tutti lìfuori. Mi sento trascinare via. Tutto quello che sento e provo adesso è mescolato in un frullatoregigantesco che ho al posto delle viscere. Ricordi, immagini, emozioni di una vita che non ho maivissuto si mescolano, emergono per poi essere nuovamente sommerse da un’altra nuovo tipo disussulto. Davide inciampa e casca con i suoi nuovi stivaletti gialli. Senza rendermene conto, mitrovo proiettato fuori della casa, da quel mondo che ho appena assaporato ed amato da lontano. Ionon voglio andare via, non voglio! Voglio rimanere ancora là dentro, voglio giocare ancora conDavide. Voglio parlare ancora con Marina, accarezzarla, baciarla, averla. Adesso il “noi” usato daMarina per indicare se stessa, Davide ed il nuovo suo compagno non mi da più così fastidio, non èpiù importante. L’importante è stare più a lungo possibile ancora con loro, respirare la loro aria,annusare i loro profumi, ascoltare le loro voci. L’urto metallico del cancello sul battente in ferro miriporta alla realtà. Siamo fuori, in strada, nella piccola stradina privata lunga una ventina di metriche dal parcheggio porta alla casa di Marina. E’ una stradina privata non asfaltata, ma non vedonessun pericolo per Davide. «Fa freddo!» dice Marina mentre mi prende sotto braccio,appoggiandosi un po’ tenendo Davide, per mano, che intanto continua a ridere ed a giocare con isuoi belli stivaletti gialli.Si arriva alla fine della stradina, ed io non riesco a pensare a niente, non riesco a dire niente, nonriesco a fermare niente. La violenta luce dello spazio aperto del parcheggio mi dice che il tempo conDavide e Marina è finito. Provo un violento dolore fisico quando Marina si lascia andare dal miobraccio per prendere in collo Davide. Si avvicinano alla loro auto. Marina apre la portiera e mettedentro il bimbo controllando ancora una volta con cura meticolosa che tutto sia a posto. Gli da unaltro bacio e chiude con prudenza la portiera. Davide mi guarda e sorride attraverso il finestrinochiuso, apre e chiude la manina per salutarmi. Lei, mi si avvicina mi mette una mano aperta appenasotto la spalla sinistra, proprio vicino al cuore che intanto batte per conto suo in un modo talmenteaccelerato da mettermi paura: «Grazie davvero, Davi” mi dice guardandomi diretto negli occhi: “miha fatto davvero piacere ritrovarti dopo tanto tempo ma devo proprio andare, lo sai». Sento le suelabbra posarsi su una mia guancia e la pressione del suo corpo su di me. Mi concentro per assorbiretutto quello che posso da questo contatto, tutto il possibile. Adesso Davide non mi sorride piùimpegnato in un suo nuovo interesse. Intorno a me tutto il resto non esiste più, riesco solo a vederelui e Marina, mentre sparisce all’interno dell’auto. Vivo quei secondi di un altro mondo in un altromodo, come se qualcosa di me si stesse strappando via. Ho sognato questa vita da sempre ed averlaassaporata solo per qualche istante non mi basta più.L’auto si allontana lungo lo stradone che esce dal parcheggio. I fanalini posteriori diventano semprepiù piccoli in una visione che si fa più liquida tremolante e confusa.Un flusso continuo di lacrime fuoriescono dai miei occhi. Adesso il mio cuore è tornato tranquillo epulsa piano, anche il respiro è tornato normale, sono solo i miei occhi che piangono e nessun’altraparte del mio corpo sembra coinvolta. Lacrime grosse e pesanti mi scorrono giù lungo le guance,lungo la linea della labbra, sul collo. Ai due minuscoli puntini rossi si aggiunge un’altra luceintermittente, l’auto di Marina e Davide da li a poco sparirà dalla mia vista. Mi sento vuoto e inutileed ho bisogno di sedermi. Arrivo di corsa ad una panchina e mi ci lascio cadere sopra. Rimango

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immobile. Devo decidere se odiarla o amarla ancora di più per avermi regalato queste due ore divita passate con loro.Piano piano riesco di nuovo a mettere a fuoco il mondo che mi circonda. A piedi percorro la stessastrada percorsa un attimo fa dalla loro, voltando dalla parte opposta rispetto a quella a dove sonospariti. Tutto torna più chiaro, i contorni delle cose sono più netti, la luce dei pochi lampioni tornaad illuminare nitidamente la città che ho davanti.Mi devo sbrigare se voglio arrivare in tempo da Caterina, all’uscita dal lavoro.

Fine