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Filosofia
Platone
Le Leggi
353-347 a.C.
PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO
A quasi ottant’anni Platone redige un programma politico che, pur non rappresentando
l’ideale descritto nella Repubblica, permette di calare le sue idee nella realtà. L’opera,
intitolata le Leggi, è la più lunga di ogni altro suo scritto, e costituisce una sorta di codice
voluminoso in cui nessun dettaglio della vita degli individui (cittadini, stranieri o schiavi)
sfugge alla regolamentazione: non sono dieci comandamenti, ma diecimila, e per ogni loro
violazione è prevista una pena commisurata. Fintanto che i filosofi non governano, sembra
dire Platone, il meglio che si possa sperare è di avvicinarsi alla vita buona imponendola
dall’alto, non tollerando deviazioni né libertà di scelta. Le differenze stilistiche e di
contenuto rispetto alla Repubblica, scritta molto tempo prima, sono notevoli, ma questo
non significa che Platone abbia cambiato le proprie idee. Nella Repubblica Platone aveva
affrontato il tema della politica da un punto di vista ideale; nelle Leggi lo affronta da un
punto di vista realistico. In entrambe emerge comunque un modello di società chiusa e
autoritaria.
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PUNTI CHIAVE
La Repubblica descriveva lo Stato ideale, le Leggi descrivono uno Stato ottimo di
second’ordine
La Legge viene rivalutata come strumento di convivenza concreta tra gli uomini
La pace interna è il sommo bene politico
La moderazione, cioè il rispetto per la Legge, è la maggiore virtù dei cittadini
La costituzione migliore è un sistema misto di monarchia e democrazia
Le concessioni alla democrazia sono in realtà assai limitate
Un’evoluzione ciclica porta alla nascita e al dissolvimento degli Stati
L’aumento eccessivo della ricchezza e della popolazione genera conflitti e ingiustizie
La libertà sfrenata di Atene è stata rovinosa per lo Stato quanto il dispotismo della
Persia
La famiglia e la proprietà sono strettamente regolamentate
I cittadini si dedicano alla politica e non alle attività economiche
Lo Stato deve basarsi su un credo religioso ufficiale e deve reprimere le eresie
L’educazione pubblica è centrale per la formazione dei cittadini
Al vertice dello Stato vi è un ristretto Consiglio notturno
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PLATONE – Le Leggi
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RIASSUNTO
La rivalutazione delle Leggi
Le dottrine esposte nella Repubblica e nelle Leggi sono molto distanti tra loro. Nella prima
opera l’autorità conosce perfettamente il bene dei cittadini e dello Stato, quindi non vi è
bisogno di leggi. Questa idea che gli uomini debbano stare permanentemente sotto la tutela
dei governanti-filosofi contrastava però con le profonde convinzioni dei greci sul valore
morale dell’autogoverno e della libertà limitata solo dalla Legge. Il pensiero politico di
Platone sembrava quindi inadeguato a esprimere gli ideali della Polis. Questa constatazione
determinò probabilmente l’indirizzo successivo del suo pensiero politico.
In questa sua opera conclusiva Platone cercò quindi di restituire alla Legge il posto che le
competeva nella valutazione morale dei greci, che lui stesso in precedenza aveva cercato di
rimuovere. Mentre nella Repubblica aveva descritto uno Stato ideale diretto da uomini
appositamente educati e addestrati, e per questo liberi dai vincoli di qualsiasi norma, nello
Stato proposto nelle Leggi governati e governanti sono ugualmente soggetti alla Legge
sovrana.
Platone però non afferma mai che la dottrina esposta nella Repubblica sia erronea. Egli
infatti dichiara più volte nelle Leggi che il suo intento è quello di presentare uno Stato di
secondo ordine, non uno Stato ideale. Lo Stato retto da leggi anziché da filosofi rimane una
concessione all’imperfezione della natura umana. È una città terrena inferiore alla città
celeste.
La corda d’oro della legge
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Se l’intelligenza e la virtù umana non sono sufficienti a rendere effettiva la possibilità del
re-filosofo, la soluzione umanamente migliore è quella di affidarsi alla saggezza contenuta
nella legge, nei costumi e nelle consuetudini. Lo Stato, con le sue leggi tradizionali, va
concepito dunque come una sorta d’imitazione della città celeste. Infatti non ci può essere
dubbio che la Legge sia migliore della volontà arbitraria di un tiranno, di un plutocrate o di
un demagogo.
In politica il sommo bene è la pace sociale, e non c’è male più grande della guerra civile e
della sedizione. Una costituzione che abbia come proprio fine la pace deve far leva su tutte
le virtù umane, imbrigliate però dalla “corda d’oro” della Legge.
Supponiamo che ciascuno di noi, scrive Platone, sia una sorta di burattino, un “ingegnoso
pupazzo degli dei, inventato per loro gioco o creato per un proposito serio”. I nostri affetti
interni sono come dei fili o delle corde che ci trascinano avanti e indietro, anche in direzioni
contrapposte: a volte verso la virtù, a volte verso il vizio. Tra tutte queste forze propulsive
ce n’è una che ciascuno dovrebbe sempre seguire e in nessun modo abbandonare, per
neutralizzare così la scossa degli fili: si tratta della corda conduttrice, aurea e sacra, della
pubblica Legge dello Stato. Mentre le altre corde sono dure e rigide e di ogni forma e
immagine possibile, solo questa corda è flessibile e uniforme perché è d’oro. Con questa
corda eccellentissima della legge noi dobbiamo sempre cooperare. Questa corda direttrice
ha bisogno di aiuti per assicurare che la natura aurea che è in noi possa vincere le altre
nature.
La virtù suprema della temperanza
Lo Stato dunque viene tenuto insieme dalla corda d’oro della Legge, e per questa ragione il
suo principio etico e organizzativo è diverso da quello della Repubblica. La Legge ora diventa
il sostituto di quella ragione su cui Platone aveva cercato di fondare l’ordine politico
perfetto. Se ne nello Stato ideale la virtù suprema era la giustizia astratta, nello Stato di
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second’ordine la saggezza si è cristallizzata o congelata nella legge. L’adesione
completa dell’individuo allo Stato non è possibile, ma il rispetto dei dettami della legge
rappresenta, tutto sommato, il meglio possibile.
Per queste ragioni la virtù suprema in uno Stato retto da leggi è la temperanza o il dominio
di sé, che significa una disposizione a rimanere nella Legge e uno spirito di rispetto verso le
istituzioni dello Stato, cioè la volontà di subordinarsi ai suoi poteri legali. Nei primi tre libri
delle Leggi Platone critica quegli Stati che, come Sparta, hanno adottato come fine
principale della loro educazione la virtù del coraggio, subordinando così tutte le virtù civili
al successo militare.
La guerra, afferma Platone, non può essere il fine dello Stato. Il bene supremo è l’armonia,
cioè la pace tanto nelle relazioni interne che in quelle esterne. L’unica sua garanzia, in
assenza di uno Stato basato sulla divisione dei cittadini in tre classi governato da filosofi, è
l’obbedienza alle leggi. Lo Stato descritto nelle Leggi è dunque costruito sulla moderazione
come sua virtù essenziale, che mira all’armonia promuovendo lo spirito di obbedienza alle
leggi.
La costituzione mista
I manuali di storia del pensiero politico ricordano che le Leggi di Platone presentano per la
prima volta una dottrina che per molti secoli successivi ricevette il consenso della maggior
parte dei pensatori che si occuparono di problemi politici e costituzionali: il principio dello
“Stato misto”, il quale cerca di creare l’armonia con l’equilibrio di forze che si compensano
vicendevolmente. La stabilità viene così raggiunta grazie alla combinazione di diversi
principi di differente tendenza, analogamente al noto principio della divisione dei poteri
proposto da Montesquieu molti secoli dopo. La costituzione mista abbozzata da Platone è
una combinazione del principio monarchico della saggezza col principio democratico della
libertà.
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Uno Stato buono, anche se non è una monarchia, deve contenere almeno il principio
monarchico, cioè il principio del governo saggio e vigoroso subordinato alla Legge. Ma per
lo stesso motivo deve contenere, se non la democrazia, il principio democratico della
partecipazione del popolo al potere, a sua volta naturalmente soggetto alla Legge.
Per contemperare questi principi Platone cerca da un lato di avvicinarsi alla saggezza
favorendo l’età, la nascita o la proprietà, che possono essere considerati sintomi di capacità
superiori alla media; dall’altro prevede forme di elezione e di sorteggio per riguardo alla
democrazia. Questo modello viene considerato da Platone una fusione di monarchia e
democrazia, ma in realtà il compito dell’assemblea generale dei cittadini si riduce
all’elezione di un consiglio supremo dei magistrati, composto da un gruppo di trentasette
uomini detti “Custodi della Legge”. Il sistema di votazione, per di più, è decisamente
escogitato per aumentare i voti dei più abbienti. La concessione alla democrazia è minima
e fatta a denti stretti.
Lo sviluppo storico delle costituzioni e delle forme di governo
Poiché le Leggi trattano Stati reali e non ideali, il metodo della ricerca puramente astratta
usata nella Repubblica sarebbe qui fuori luogo. Per questa ragione Platone deve affrontare
da un punto di vista storico le cause della nascita e della decadenza degli Stati. Egli svolge
dunque una specie di storia filosofica in cui traccia lo sviluppo della civiltà umana, ne segue
i momenti critici, osserva le cause di progresso o di declino, e dall’analisi complessiva trae
delle leggi di stabilità politica che il governante sapiente deve rispettare per tenere sotto
controllo i cambiamenti che minacciano la stabilità delle società umane.
Alle origini gli uomini vivevano in una sorta di “stato di natura” come pastori in famiglie
isolate, senza conoscere l’arte della lavorazione dei metalli, le distinzioni sociali e tanti
difetti della vita civilizzata. Vivevano in pace perché non erano ancora apparse le cause di
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conflitto che caratterizzano le società più ambiziose. Quando gli uomini aumentano di
numero, l’agricoltura progredisce e nascono nuove arti manuali, le famiglie si riuniscono in
villaggi. Alcuni statisti riuniscono poi questi villaggi in una città.
Egli parla quindi di un ciclico generarsi e dissolversi degli Stati. La tendenza dell’autore è
sempre quella di vedere nella ricchezza e nell’aumento demografico degli eccessi che
conducono a conflitti ed ingiustizie. L’estremismo, in un senso o nell’altro, è sempre una
causa di decadenza. Sparta ad esempio deve la sua caduta all’organizzazione
esclusivamente militare, dato che “l’ignoranza è la rovina degli Stati.” Anche il potere
arbitrario della monarchia e della tirannide è stato causa di decadenza in Persia. Il regime
persiano è l’esempio tipico del dispotismo monarchico, dove il potere smisurato corrompe
le virtù e dove la corruzione accresce le terribili conseguenze dell’accentramento.
Tuttavia anche ad Atene la democrazia sfrenata era crollata per eccesso di libertà.
Entrambe, la Persia e Atene, avrebbero potuto prosperare se si fossero accontentate di un
governo moderato che moderasse il potere con la saggezza e la libertà con l’ordine.
L’estremismo è stato però rovinoso per l’una e per l’altra.
Egli prende poi in considerazione la posizione geografica della città e le condizioni del cielo
e del clima più appropriate. La posizione sulla costa a suo avviso non è la migliore, perché il
commercio con l’estero corrompe i costumi e può portare ad abusare della potenza navale
della propria flotta, come è successo ad Atene. L’ideale è una comunità dedita
principalmente all’agricoltura su un territorio che garantisca l’autosufficienza ma che sia
aspro, dato che la terra aspra produce popolazioni più forti e più calme.
La proprietà e la famiglia
Nelle Leggi Platone non fa mistero di considerare ancora il comunismo come il sistema
ideale, ma troppo elevato da praticare per la natura umana. Concede quindi
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all’imperfezione umana i due istituti della famiglia e della proprietà privata, ma
rigidamente regolamentati. Sono ammessi il matrimonio e le unioni monogame
permanenti, con delle pene per chi non si sposi entro i trentacinque anni e rigide
disposizioni sulla procreazione e sulle abitudini sessuali.
La proprietà privata viene rigorosamente regolata secondo un modello analogo a quello
vigente a Sparta. Il numero dei cittadini è fissato in 5040 e il territorio è diviso in un numero
uguale di lotti ereditari, che non possono essere né divisi né venduti. La terra viene coltivata
dai servi, che pagano un affitto sotto forma di parte del prodotto. Il prodotto della terra
viene consumato in comune in una pubblica mensa. Per eliminare le differenze eccessive
tra ricchi e poveri che nella storia greca erano state spesso causa di lotte civili, Platone
prevede che nessun cittadino possa possedere dei beni di valore superiore a quattro volte
quello di un lotto di terra.
I cittadini non possono occuparsi di industrie e commercio, né avere una professione o
un’occupazione. Queste attività vengono svolte dagli stranieri, che sono liberi ma non
cittadini. Sono inoltre proibiti il prestito a interesse e il possesso di oro e d’argento. Lo Stato
deve avere solo una moneta fiduciaria, forse simile alla moneta di ferro spartana. È chiaro
quindi che il diritto di proprietà dei cittadini è notevolmente circoscritto.
Lo Stato di second’ordine si fonda dunque anch’esso su una divisione del lavoro, che si
applica a tutta la popolazione residente e non solo ai cittadini come nella Repubblica.
Questa divisione non è però meno esclusiva. Viene stabilito infatti che l’agricoltura sia la
funzione speciale dei servi o degli schiavi, il commercio e l’industria quella di una classe di
uomini liberi non cittadini, mentre tutte le funzioni politiche spettano ai cittadini. Nelle
Leggi dunque i cittadini non svolgono attività produttive, e lo Stato si fonda sui privilegi
economici.
L’educazione e la religione
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Platone dedica un largo spazio delle Leggi alla questione educativa. Il modello pedagogico
rimane sostanzialmente quella della Repubblica, con lo studio della musica e della
ginnastica, la censura rigorosa della letteratura e dell’arte, l’educazione della donna uguale
a quella dell’uomo, l’educazione obbligatoria per tutti i cittadini. In quest’opera però
Platone si interessa maggiormente dell’organizzazione scolastica, prevedendo un corso
completo di istruzione svolto in un sistema di scuole statali con insegnanti pagati.
Nelle Leggi si nota anche un maggior interesse di Platone per la religione, che dev’essere
soggetta alla direzione dello Stato proprio come l’educazione. È proibita ogni forma di
pratica religiosa privata; i riti devono essere compiuti in templi pubblici da sacerdoti
autorizzati. Egli ritiene che lo scetticismo religioso sia fonte d’immoralità, e quindi prevede
un credo ufficiale. Lo Stato deve pertanto punire gli eretici, i miscredenti e agli atei. Platone
distingue tre forme di ateismo, tutte vietate con la prigione o, nei casi peggiori, con la
morte: negazione dell’esistenza degli dei; diniego ch’essi s’interessino della vita umana;
credenza che si plachino facilmente per un peccato commesso. Queste proposte
rappresentano una delle prime teorizzazioni della persecuzione religiosa, ma erano molto
distanti dall’esperienza greca.
Il Consiglio notturno
Nell’ultimo libro, le sue ultime intuizioni consegnate alla parola scritta, Platone parla dei
vertici dello Stato e del loro ruolo, prevedendo un organo piuttosto estraneo all’impianto
istituzionale tracciato fino a quel momento. Si tratta di un Consiglio ristretto, un’oligarchia
del pensiero e della virtù, formata dai dieci membri più vecchi dei trentasette Custodi.
Quest’organo non riesce a collegarsi con gli altri, e sembra contrastare con un progetto di
Stato dove la Legge è sovrana. Pur essendo extralegale, questo Consiglio controlla e dirige
infatti tutte le istituzioni dello Stato, che è in pratica nelle sue mani. Il Consiglio Notturno
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ha evidentemente preso il posto del filosofo-re della Repubblica, ma la sua presenza
sembra violare tutta la fiducia che Platone aveva posto in uno Stato di second’ordine retto
dalle Leggi.
Alla fine della sua vita Platone ci lascia con una precisa visione dell’organizzazione politica:
uno Stato regolato in ogni sua parte possibile da princìpi espressi in canoni legislativi molto
precisi, con un gruppo di uomini superiori che ne seguono l’attuazione. Nello sviluppo del
pensiero politico molti pensatori si richiameranno a questa lezione.
CITAZIONI RILEVANTI
Il conflitto politico
«Ospite ateniese … con il tuo ridurre all’essenziale il discorso l’hai senz’altro reso più chiaro,
cosicché anche tu potrai facilmente renderti conto che or ora si è parlato rettamente,
quando si sosteneva che nella dimensione politica tutti sono nemici di tutti e in quella
privata ciascuno è in conflitto con sé» (p. 1461).
Le costituzioni archetipe
«Fra i vari generi di costituzione, due sono simili alle madri, in quanto non sarebbe errato
sostenere che gli altri tipi traggono origine proprio da essi. Di questi uno si può chiamare
indubbiamente monarchia; e l’altro democrazia. Ed il prototipo del primo genere è la
costituzione dei Persiani, mentre quello del secondo è il nostro modello di costituzione.
Come ho detto, le altre forme di governo quasi per intero sono variazioni di queste. Ora, se
si vuol salvaguardare la libertà e la concordia insieme alla saggezza, è assolutamente
necessario che lo Stato abbia ambedue le forme: ed è esattamente questa tesi che il nostro
discorso vuole sostenere, quando afferma che mai una Città potrebbe essere ben
amministrata se prescinde da tali tipi di governo … Una società ha prediletto la forma
monarchica, l’altra ha scelto la libertà; ambedue, però, sono andate oltre il segno, al punto
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che nessuna ha saputo mantenere la giusta misura» (p. 1517).
Il Consiglio notturno
«Membri permanenti saranno i dieci Custodi delle leggi più anziani; a questi si
aggiungeranno nelle riunioni i cittadini che hanno primeggiato nella virtù, nonché gli
osservatori che sono andati in missione all’estero. Costoro avevano il compito di cercare da
qualche parte almeno un’istituzione che in patria fosse degna di considerazione in funzione
della salvaguardia delle leggi; e solo dopo essere tornati moralmente integri – da qui la
necessità di un’attenta valutazione – furono ritenuti adatti ad essere assunti nel Consiglio ...
Veramente questo Consiglio, per quanto il presente ragionamento ci va dimostrando, deve
essere dotato di ogni virtù; e fra tutte queste senz’altro predomina la capacità di non
disperdersi inseguendo mille obiettivi, ma, guardando a un unico obiettivo, dirigere sempre
verso di esso ogni iniziativa come dardi verso il centro» (p. 1736-1738).
L’AUTORE
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Platone nacque nel 427 a. C. ad Atene in una famiglia aristocratica sia per parte di madre
che per parte di padre. Dal 407 al 399 a.C. fu discepolo di Socrate, che rappresentò
l’incontro più importante della sua vita. La condanna a morte del suo maestro lo gettò in
una profonda crisi e lo rese ostile nei confronti del regime democratico. Volle dedicare
l’intera esistenza al filosofare ed alla realizzazione del proprio ideale di Città, che provò a
rendere effettiva a Siracusa, nei tre viaggi che egli compì presso la corte dei tiranni locali dal
388 al 360 a.C. Questo progetto fallì, ma la sua fama e la sua influenza, generati anche dalla
fondazione in Atene dell’Accademia, lo resero così importante da farne uno dei filosofi per
antonomasia. Morì ad Atene nel 347 a.C.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Platone, Le leggi, Rizzoli, Milano, 2005, p. 1102, introduzione di Franco Ferrari, traduzione
di Franco Ferrari e Silvia Poli.
Si è utilizzata la versione contenuta in: Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano, 1991, a cura
di Giovanni Reale.