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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA
FACOLTÀ DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE
TESI DI LAUREA
PMI E MERCATO GLOBALE: IL CASO DEL
TESSILE/ABBIGLIAMENTO
Relatore:
Ch.mo Prof. GIOVANNI TONDINI
Laureando:
GIOVANNI CAROLLO
Matricola n. VR063004
ANNO ACCADEMICO 2008 – 2009
2
3
INDICE
Introduzione 1
Parte I: Un’analisi macroeconomica
Capitolo 1. Il settore del Tessile e Abbigliamento 5
1.1. Struttura e geografia del settore 6
1.2. Il modello delle oche volanti 13
1.3. Il modello gravitazionale e il fattore “distanza” 16
1.4. La liberalizzazione del settore 20
1.5. Rigurgiti protezionistici 24
Capitolo 2. L’impatto della liberalizzazione 27
2.1. Gli effetti a livello mondiale 27
2.2. Il GAFTT 37
2.3. Gli Stati Uniti 39
2.4. L’unione Europea 45
2.5. La reazione europea 50
2.6. La Cina 54
Parte II: Un’analisi microeconomica
Capitolo 3. Il caso italiano 63
3.1. Il T/A in Italia 63
3.2. La realtà della PMI 69
Capitolo 4. Strategie di internazionalizzazione per la PMI 75
4.1. I motivi dell’internazionalizzazione 75
4.2. Pianificazione strategica dell’internazionalizzazione 78
4
Capitolo 5. Il caso Bailo Spa 89
5.1. La storia 89
5.2. L’azienda oggi 94
5.2.1. Aspetti societari 94
5.2.2. Il mercato di riferimento 96
5.3. Strategie di internazionalizzazione a confronto 105
Conclusioni 115
Bibliografia e risorse web 121
1
INTRODUZIONE
Il Tessile e Abbigliamento (d’ora in poi, T/A) è uno dei settori che maggiormente
alimenta il commercio internazionale, rappresentando circa il 6% del totale delle
esportazioni a livello planetario.
Si caratterizza per la presenza di una lunga e variegata filiera di attività tra loro
complementari, localizzate in svariate aree geografiche in funzione della presenza di
vantaggi comparati e che, interagendo tra loro, danno vita ad un intenso flusso di
scambi internazionali, laboratorio ideale per uno studio sul commercio estero.
La progressiva liberalizzazione del settore in atto dalla nascita del WTO a oggi ha
profondamente ridisegnato la cartina geoeconomica, spostando sempre più il
baricentro della produzione verso i paesi emergenti dell’Asia, primo fra tutti la Cina,
ormai leader mondiale indiscusso nel settore abbigliamento e player di rilievo nel
tessile.
Il “migrare” della produzione in direzione del Sud Est Asiatico ha condizionato
l’attività dei protagonisti lungo tutta la filiera. Dai produttori di filati e tessuti,
costretti a rivedere e rafforzare i propri fattori critici di successo e vantaggio
competitivo, alle imprese di abbigliamento, che hanno dovuto adeguare il loro
modello di business alla maggiore complessità intrinseca nella gestione di rapporti
commerciali con partner situati in aree geografiche anche molto lontane.
Come osserva Michele Tronconi, Vice Presidente di Sistema Moda Italia, il T/A è un
iceberg di tante e diversificate imprese che concorrono a formare una filiera completa,
di cui i grandi marchi, che si muovono con successo a livello internazionale, sono
solo la punta più visibile.
2
Infatti, a fronte di un alto indice di internazionalizzazione dei comparti del T/A, a cui
fa seguito un alto grado di complessità insito nel confrontarsi con un mercato globale,
il settore si caratterizza per essere composto principalmente da imprese di dimensioni
medio-piccole, il che rende pressante la necessità di implementare strategie adeguate
per reggere la sfida globale, per far sì che la mano invisibile del mercato si traduca in
un’opportunità di sviluppo piuttosto che in una minaccia di estinzione.
Al fine di una chiara esposizione dei temi dello studio, la tesi è stata organizzata in
due parti: nella prima parte verrà delineata la cornice macroeconomica entro cui si
collocano i fenomeni oggetto di analisi, partendo da un quadro sulla regolamentazione
del commercio internazionale in generale, seguito da un focus sugli aspetti negoziali
inerenti allo specifico settore del T/A; nella seconda parte si daranno delle indicazioni
di natura microeconomica in relazione alle diverse strategie attuabili dalla piccola e
media impresa operante nel T/A in risposta agli stimoli evoluzionistici in atto nel
settore e, a titolo di esempio, si citerà il caso della Bailo Spa, piccola impresa italiana
che opera da più di trent’anni nel settore dell’abbigliamento sportivo da montagna e
che, come vedremo, ha saputo rispondere alla sfida lanciata dall’apertura dei mercati,
creando un mix di strategie di internazionalizzazione.
3
Parte I
Un’analisi macroeconomica
4
5
Capitolo 1. Il Tessile e Abbigliamento
Alla data del 2003 il commercio di tessile e abbigliamento rappresentava il 5,7% delle
esportazioni mondiali. In 40 anni, il commercio mondiale di T/A è aumentato di più
di 60 volte (più del commercio di tutte le altre merci, che è aumentato di 48 volte),
passando da meno di 6 miliardi a 342 miliardi di USD nominali1.
Tale crescita ha riguardato principalmente il comparto dell’abbigliamento. Negli anni
’60, infatti, il valore del commercio mondiale di tessile era doppio rispetto a quello di
abbigliamento. Negli ultimi 40 anni il settore abbigliamento è aumentato di 128 volte,
contro le 36 del tessile.
Di conseguenza oggi il T/A è costituito per il 60% dall’abbigliamento e per il 40% dal
tessile2 (v. Figura 1.1).
Figura 1.1. La ripartizione del settore T/A nei due comparti
1 Commission Staff Working Paper, “Evolution of trade in textile and clothing worldwide – trade figures and structural data”, Commission of the European Communities, Bruxellels, 21/11/2003. 2 Ibidem.
6
La dimensione dell’aumento del commercio internazionale dei prodotti del T/A,
avvenuto pur in presenza di restrizioni quantitative agli scambi, può spiegare le
motivazioni alla base del ricorso a politiche economiche di stampo protezionista
adottate dagli stessi paesi membri degli accordi GATT, in deroga ai principi libero-
scambisti di riferimento. Vedremo, infatti, nel corso della trattazione, che il settore del
T/A ha rappresentato un’eccezione alla regola generale tesa all’abbattimento delle
barriere agli scambi tra le Nazioni.
Oggi, nonostante sia stato seguito un percorso diverso rispetto alle altre industrie,
anche il T/A è giunto all’appuntamento con il libero scambio, ed è ora anch’esso
assoggettato alle regole del GATT, a seguito del recente processo di liberalizzazione.
1.1. Stuttura e geografia del settore
Il T/A è un settore composto da molteplici attività svolte lungo una complessa filiera
produttiva ed è caratterizzato dalla frammentazione del processo di produzione in
funzione dei relativi vantaggi comparati. La filiera comprende svariate attività:
dall’estrazione e lavorazione della materia prima, passando per l’industria del filo,
del tessuto, dell’abbigliamento, fino a raggiungere il consumatore finale mediante il
canale distributivo (v. Figura 1.2)
7
Figura 1.2.: La catena del valore nel settore del Tessile e Abbigliamento
Fonte: The Global Textile and Clothing Industry post the Agreement on Textile and
Clothing, H.K. Nordas, WTO.
Per facilitare la comprensione delle diverse attività di filiera, prendiamo l’esempio di
uno dei capi più semplici da produrre: la t-shirt.
La produzione di una maglietta è resa possibile dalla realizzazione di una serie di
attività, ognuna delle quali è indispensabile all’intero processo. Se volessimo andare
oltre l’apparenza, ogni volta che entriamo in un negozio e vediamo una t-shirt su un
appendino, “dentro” di essa dovremmo riconoscere:
• La produzione di fibre naturali (per esempio la coltivazione di cotone, quindi
attività agricola) o la produzione di fibre artificiali (per esempio derivanti dal
riciclo del PET);
• La preparazione del filato e del tessuto (attività capital-intensive);
• L’assemblaggio (taglio-confezione) del tessuto e degli accessori per la
produzione del capo finito (attività labour-intensive);
• L’attività di retailing del capo finito (in genera esercitata dal titolare del brand,
attraverso diverse strategie distributive).
8
Il settore tessile e quello dell’abbigliamento differiscono in relazione all’impiego dei
fattori produttivi: il primo è relativamente più capital-intensive del secondo e si
caratterizza per elevati livelli di automazione, specialmente nei paesi sviluppati.
L’industria del tessile consiste in filatura, tessitura e finissaggio, e le tre attività sono
spesso intraprese all’interno di impianti integrati.
La sua alta intensità di capitale spesso si traduce in lunghi tempi di adeguamento delle
macchine e alti minimi di ordine. Per questo l’industria del tessile risulta meno
flessibile rispetto a quella dell’abbigliamento in termini di velocità di aggiustamento
ai gusti dei consumatori.
Per contro il settore dell’abbigliamento è labour-intensive, quindi il fattore di cui si
serve è principalmente umano. Il lavoro impiegato è principalmente di tipo non
qualificato ed è caratterizzato da elevati livelli di occupazione femminile e sempre più
localizzata nei paesi a basso salario.
A livello organizzativo, si nota come il modello d’impresa operante nel settore si sia
evoluto nel tempo, in linea con i paradigmi propri dell’organizzazione snella, o lean
organisation. Nei primi anni del suo sviluppo industriale il T/A era generalmente
caratterizzato da un’organizzazione di tipo verticale, che accentrava al suo interno le
varie fasi del processo produttivo, a valle e a monte della filiera. In molte aziende si
passava dalla lavorazione del filo, alla realizzazione del tessuto, fino alla confezione
del capo di abbigliamento finito.
Nel tempo la tendenza è stata quella alla specializzazione in singole fasi produttive
della filiera, riconosciute come core business, data anche la diversità dei fattori
produttivi impiegati nel processo. Il risultato è stato la nascita di tante piccole e medie
imprese specializzate e tra loro interrelate da una fitta rete di scambi e di accordi
commerciali.
9
Dimensioni significative ha assunto nel tempo il fenomeno dell’outsourcing, che in
questo settore ha permesso la nascita e la crescita di un corposo numero di aziende
specializzate nella realizzazione di lavorazioni in c/terzi, soprattutto per quanto
riguarda la fase di confezione dei capi finiti, permettendo alle aziende titolari dei
marchi, di focalizzarsi sulle attività a più alto valore aggiunto, quali il design delle
collezioni e le azioni di marketing volte allo sviluppo di forti identità di brand, che
hanno portato, nel corso del XX secolo, ad una radicale trasformazione dei capi di
abbigliamento da commodities a specialties, ovvero da semplici indumenti a prodotti-
ego, contornati da forti e penetranti valori immateriali.
L’ulteriore evoluzione, iniziata verso la fine degli anni Settanta e accelerata nel corso
della fine del secolo scorso, è quella che ha ridisegnato la geografia del settore e che,
essendo oggi ancora in atto, porta con sé la necessità di una rimessa in discussione dei
modelli di impresa fin qui adottati, nella prospettiva della sopravvivenza e della
crescita in un mercato sempre più grande, complesso e competitivo.
Il riferimento è al fenomeno della delocalizzazione produttiva attuata mediante il
ricorso a fornitori terzi situati nei paesi stranieri a più basso salario, il c.d.
outsourcing offshore, che oggi non è più una tendenza ma un consolidato modello di
organizzazione, la cui applicazione è ormai condicio sine qua non per la
sopravvivenza nel mercato.
Il fenomeno ha interessato principalmente il comparto dell’abbigliamento, come
abbiamo visto il più sensibile al costo della manodopera e che, già “abituato” ad
essere “delegato” ad aziende terze vicine, non ha trovato difficoltà ad essere
“delegato” ad aziende geograficamente più lontane, in concomitanza con la
progressiva riduzione delle distanze percepite dall’uomo a seguito della convergenza
spazio-temporale permessa dall’evoluzione dei trasporti e delle comunicazioni.
10
Se Ricardo avesse voluto individuare un’industria per dimostrare con mezzi empirici
la validità del suo modello dei vantaggi comparati, non avrebbe potuto trovare di
meglio del T/A. Esso si caratterizza oggi per la localizzazione delle varie fasi del
processo produttivo in funzione della presenza di vantaggi comparati. In realtà anche
il modello di Heckscher-Ohlin trova una buona rappresentazione in questa industria.
I processi produttivi a monte della filiera (filatura, tessitura), ovvero quelli
caratterizzati da sfruttamento intensivo del fattore capitale, si localizzano infatti nei
paesi in cui c’è più disponibilità di tale fattore, ovvero nei paesi tecnologicamente più
avanzati (UE, USA in primis, con una presenza sempre maggiore delle NIEs, le New
Industrialised Economies, Corea del Sud e Taiwan in particolare). A fronte di ciò, i
processi produttivi a valle della filiera (confezione di abbigliamento) tipicamente
labour-intensive, si localizzano nei paesi in cui è più alta la disponibilità del fattore
lavoro, specialmente quello non qualificato. Tali attività si insediano quindi nei PVS e
anche nei LDCs (Least Developed Countries), tra quelli che gravitano attorno alle
aree più sviluppate (come Messico per gli USA e Europa orientale e bacino del
Mediterraneo per l’UE) e sempre di più nel Far East asiatico, Cina su tutti.
In effetti il commercio internazionale di T/A può ben identificarsi in una forma di
commercio di tipo Nord-Sud, ovvero tra paesi “ricchi“ e paesi “poveri”, una forma di
commercio che, a livello empirico, attribuisce coerenza al modello di Heckscher-
Ohlin, confermando la validità della sua tesi3.
Il T/A, e in special modo l’abbigliamento, essendo, come abbiamo visto, un settore
labour-intensive, ha rappresentato la leva di crescita privilegiata dai PVS nel loro
percorso di emancipazione da un’economia basata sul solo settore primario,
consentendo loro l’inizio del processo di industrializzazione.
3 Per approfondimenti, si rimanda a P. Krugman, M. Obstfeld, “Economia Internazionale 1”, Terza Edizione, Hoepli.
11
Sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso i PVS nel loro insieme hanno superato i
paesi industrializzati per quanto riguarda la quota di esportazioni mondiali di T/A,
raggiungendo il 50% del totale nel tessile e il il 70% nell’abbigliamento.4
La Cina è oggi il primo esportatore mondiale di abbigliamento, seguita da UE (in cui
l’Italia è primo produttore) e USA. Nel Tessile il predominio è europeo, seconda è la
Cina e terzi gli USA.
Come osserva Miro Radici, del gruppo Itema-Radici, azienda bergamasca leader
mondiale nei macchinari tessili: “dieci anni fa la produzione tessile era così distribuita
sul pianeta: il 35% in Cina, il 65% nel resto del mondo. Oggi la proporzione si è
esattamente rovesciata: i due terzi dell’industria tessile mondiale sono sulla costa
orientale della Cina, tra Shangai e Nanchino, il Fujian e il Guangdong. “I miei
concorrenti giapponesi e nordeuropei sono venuti tutti qui a produrre macchinari e
telai tessili, se non venivo anch’io perdevo tempo prezioso. Nel nostro mestiere è
fondamentale il servizio dopovendita, la qualità dell’assistenza. Essere vicini ai clienti
è decisivo e i miei clienti più grossi ormai sono qui.”5
Di contro alle esportazioni, le importazioni mondiali di T/A si concentrano
massicciamente nei mercati dei paesi industrializzati e specialmente in USA e in UE.
Nel 2000 in questi due mercati affluivano il 52% delle importazioni mondiali di
tessile e ben il 71% di quelle di abbigliamento.
Nonostante il ranking nella classifica mondiale, tali paesi risultano essere anche i
meno dipendenti dal T/A, almeno in confronto ai PVS, per le cui economie tale
industria rappresenta un settore molto importante se non fondamentale in termini di
esportazioni, occupazione e valore aggiunto.
4 Commission Staff Working Paper, “Evolution of trade in textile and clothing worldwide – trade figures and structural data”, Commission of the European Communities, Bruxellels, 21/11/2003. 5 F. Rampini, “L’impero di Cindia”, Mondadori, 2006.
12
Per i LDCs e per alcuni paesi del Mediterraneo si può parlare a pieno titolo di
dipendenza dal T/A. I paesi più dipendenti risultano essere il Bangladesh (con una
quota del 95% di esportazioni di T/A sul totale delle esportazioni), Laos (93%),
Macao (89%), Cambogia (83%), Pakistan (73%), Sri Lanka (71%), Nepal (61%),
Tunisia (46%), Marocco (43%), Turchia (38%), India (30%) e Romania (27%).6 La
Cina, nonostante ne sia il primo esportatore mondiale, risente delle esportazioni di
T/A solo per una quota del 12% sul totale delle proprie esportazioni.
La figura 1.3. mette in evidenza la quota di esportazioni di T/A in termini relativi sul
totale delle esportazioni e la dimensione quantitativa delle esportazioni di T/A in
termini assoluti, evidenziando come i paesi più dipendenti detengano una trascurabile
quota del commercio mondiale, e siano così i più esposti ai rischi della
liberalizzazione in atto.
Gli accordi regionali di libero scambio e gli schemi tariffari preferenziali accordati ai
PVS e ai LDCs dai paesi industrializzati, in aggiunta alle misurie protezionistiche
adottate nei confronti dei competitors più potenti mediante il sistema delle quote (in
particolar modo verso la Cina) hanno probabilmente favorito tale dipendenza. Si pensi
che le esportazioni di T/A da alcuni paesi del Mediterraneo verso l’UE e quelle dal
Messico verso gli USA ammontano a più del 90% del totale delle loro esportazioni).
6 Commission Staff Working Paper, “Evolution of trade in textile and clothing worldwide – trade figures and structural data”, Commission of the European Communities, Bruxellels, 21/11/2003.
13
Figura 1.3. La dipendenza dal T/A
Fonte: Euratex
1.2. Il modello delle oche volanti
Oltre ad essere in accordo con il modello dei vantaggi comparati e con quello di
Heckscher-Ohlin, la localizzazione della produzione di T/A sembra aver seguito, e
sembra tuttora seguire, un altro schema evolutivo preciso, riconducibile al c.d.
modello delle oche volanti, formulato originariamente dal giapponese Akamatsu nel
1932, ragion percui procederemo a citarne brevemente i fondamenti.
Tale modello è stato adottato dall’UNCTAD nel 1996 come la spiegazione più
convincente per spiegare i fattori di crescita dell’Asia orientale.
Secondo tale teoria, le nazioni intraprendono il loro percorso di crescita disponendosi
in un gruppo che ricorda la forma di una “V” rovesciata, come è la disposizione delle
14
oche volanti, in cui l’oca di testa guida le oche in seconda posizione, le quali a loro
volta guidano le oche in terza posizione e così via.
Il fenomeno asiatico, secondo questo modello, è da ricondursi all’”apertura della
pista” da parte del Giappone, l’oca di testa, il quale ha trascinato nel suo sviluppo i
paesi limitrofi, primi fra tutti le famose 4 tigri asiatiche, dette anche NIEs, ovvero
Hong Kong, Taiwan, Singapore e Corea del Sud. Queste, a loro volta, hanno
coinvolto nel processo di crescita i paesi dell’ASEAN e la Cina, fino a far diventare la
regione asiatica uno dei principali poli dell’economia mondiale.
In pratica nello sviluppo industriale vi è una sorta di ciclo che prevede la
ricollocazione dei settori ad alta intensità di lavoro verso paesi più poveri, mentre il
paese più ricco si specializza in nuovi prodotti. Perciò vi sono paesi a diverso livello
di industrializzazione e di sviluppo che crescono insieme grazie al fatto che, di volta
in volta, si specializzano nella produzione di beni di diverso livello tecnologico. C’è
così un’oca di testa che guide tutte le altre. Il ciclo del prodotto si combina con le fasi
di crescita dei paesi dell’area. In Asia, il Giappone è l’oca di testa con i prodotti
tecnologicamente più avanzati, seguono i NIEs con beni manifatturieri tradizionali,
poi vengono i paesi dell’ASEAN e la Cina con i prodotti a più alta intensità di lavoro
e minor contenuto tecnologico. Gli investimenti diretti esteri, ma anche gli scambi
commerciali, sono lo strumento per trasferire tecnologia e capitali nei paesi che
stanno dietro nel ciclo di vita dei settori.
L’evidenza empirica sembra confermare tale teoria anche nel mondo del T/A: non è
raro il caso di collezioni di abbigliamento con marchio e design giapponese (i fattori a
più alto valore aggiunto), prodotte con tessuti coreani o taiwanesi (mediante processi
capital-intensive) e confezionate in Cina (mediante processi labour-intensive).
15
Il modello delle oche volanti implica il concetto di mobilità del vantaggio
comparato, situandosi come ponte tra il modello dei vantaggi comparati di Ricardo e
la teoria del ciclo di vita del prodotto, ai quali aggiunge una prospettiva più dinamica.
La localizzazione produttiva del T/A sembra in linea con le previsioni di sviluppo
consigliate da tale modello, e non solo per quanto attiene la regione del Sud Est
asiatico.
Anche in Europa orientale, il modello di sviluppo pare rispondere al paradigma delle
oche volanti, caratterizzato dalla mobilità del vantaggio comparato.
Nella fase di delocalizzazione produttiva attuata dalle imprese dei paesi europei più
avanzati verso i PVS dell’ex blocco sovietico, si è assistito a periodici spostamenti
della produzione verso paesi meno avanzati, a mano a mano che nei primi paesi
interessati dalla delocalizzazione, aumentava il livello di know-how tecnologico.
La produzione di abbigliamento si è spostata in un primo momento in Romania e
Repubblica Ceca. Poi, a seguito dell’aumento del livello tecnologico verificatosi in
tali paesi, a cui è seguito un aumento dei livelli salariali, la produzione si è spostata in
paesi meno sviluppati, quali la Bulgaria e la Moldavia. Oggi, si assiste a flussi verso
l’Ucraina, il cui costo della manodopera è tra i più bassi in Europa, almeno finora.
Tale modello risulta interessante anche in chiave prospettica, poichè può fornirci delle
direttive per prevedere possibili scenari futuri per quanto riguarda la geografia del
settore nel medio-lungo periodo.
Se oggi la Cina è la regina incontrastata nella produzione di abbigliamento, in virtù
del proprio vantaggio comparato dato dalla disponibilità di manodopera a bassissimo
costo in un settore labour-intensive, il modello delle oche volanti ci suggerisce che
anche tale vantaggio comparato sarà destinato a spostarsi, in qualche paese meno
sviluppato, a mano a mano che la Cina crescerà dal punto di vista tecnologico.
16
In un altro senso il modello può fornire anche delle linee guida ai fini
dell’impostazione di un piano strategico per l’industria di una Nazione.
Se consideriamo il T/A italiano, appare sconveniente interessarsi ancora della
salvaguardia dell’industria delle confezioni. Fatta eccezione per pochi prodotti di
nicchia, appartenenti alla categoria del lusso e del super-lusso per cui l’alto costo
della manodopera è compensato da attributi di prodotto ai quali il mercato riconosce
un premium price, è probabilmente ora di riconoscere che le operazioni di façon più
elementari sono ormai di competenza dei paesi meno evoluti. E bisogna anche
riconoscere che questo è un bene, poichè le risorse che si vengono a liberare dal
processo di delocalizzazione possono e vanno riconvertite in produzioni a più alto
contenuto tecnologico e di conoscenza, elevando la qualità e differenziando le
competenze distintive del nostro paese.
A questo proposito vanno valutati positivamente e con crescente interesse alcuni
progetti che hanno visto la luce negli ultimi anni, volti per l’appunto a impegnare
risorse in attività di R&S, e che mirano a consolidare e a rafforzare il già presente
vantaggio comparato dei paesi industrializzati nelle attività a più alto valore aggiunto
della filiera7.
1.3. Il modello gravitazionale e il fattore distanza.
Oltre a quello delle oche volanti, esiste un altro modello in grado di fornire degli
spunti di riflessione sulla distribuzione geografica della produzione mondiale di T/A.
7 Per una trattazione più approfondita in merito ai progetti attivati in ambito europeo si rimanda al capitolo 2.5. del presente lavoro.
17
Il riferimento è al modello gravitazionale, il quale, in estrema sintesi, attribuisce una
forte rilevanza al fattore distanza, determinante nell’ influenzare le decisioni di
commercio internazionale.
Nella sua versione di base, il modello gravitazionale assume che solo la distanza e la
dimensione del reddito dei paesi siano importanti per il commercio, secondo la
seguente relazione:
!
Tij =A "Yi "Yj
Dij
dove: Tij è il valore del commercio tra il paese i e il paese j
A è una costante
Yi è il reddito del paese i
Yj è il reddito del paese j
Dij è la distanza tra il paese i e il paese j
Lasciando da parte ogni considerazione sul reddito, che esula dai fini della presente
esposizione, vediamo le implicazioni del modello sui flussi di commercio
internazionale di T/A in relazione alla variabile “distanza”.
In letteratura, le stime degli effetti della distanza ottenute con i modelli gravitazionali
suggeriscono che un aumento dell’1% nella distanza tra paesi si associa ad una
riduzione nel volume degli scambi compresa fra lo 0.7% e l’1%.8
L’esistenza di una relazione inversa tra la distanza tra due paesi e i volumi degli
scambi tra di essi ci suggerisce che, nonostante l’aumento del commercio
internazionale con paesi molto distanti come quelli asiatici, e in particolar modo con
la Cina, potrà ben conoscere un ulteriore incremento in funzione del sempre maggiore
livello di liberalizzazione dell’economia mondiale, tale incremento troverà comunque
8 Laboratorio di Economia Internazionale, Michele Di Maio, Università di Macerata, 2007-2008
18
un limite nella distanza che, per quanto significativamente diminuita grazie
all’evoluzione dei trasporti e delle comunicazioni, rimane ancora una variabile in
grado di influenzare i volumi degli scambi.
Questo è ancor più vero se si prende in considerazione l’ipotesi (per alcuni analisti
una certezza) di un progressivo aumento del prezzo del greggio nel prossimo futuro,
in vista del raggiungimento del picco del petrolio, dopo il quale la domanda mondiale
supererà l’offerta mondiale, innescando un’impennata dei prezzi dell’oro nero9.
In considerazione del fatto che, almeno per il momento, una risorsa energetica
alternativa al petrolio di effettiva adozione non è ancora stata trovata, tale scenario
potrebbe portare ad una contrazione del volume degli scambi a lunga distanza, in
favore di un commercio più ristretto a zone geografiche più vicine.
Anche la presenza di accordi regionali di libero scambio all’interno dei blocchi
economici continentali costituisce un argomentazione a favore della previsione di un
commercio internazionale limitato a scambi con nazioni vicine.
Di contro, l’adozione di politiche doganali volte a favorire il commercio con i PVS e i
LDCs, come per esempio è il Sistema di Preferenze Generalizzate adottato dall’UE,
suggerisce una propensione ad incentivare forme di commercio anche a lungo raggio,
almeno fino a quando tali politiche non si dimostrino minacciose per la salute delle
proprie industrie nazionali.
Per esempio la Cina, pur rientrando nella lista dei paesi beneficiari del Sistema di
Preferenze Generalizzate concesse ai PVS10, di fatto rimane esclusa dall’applicazione
9 Vedasi a proposito le teorie di Hubbert sul picco del petrolio. 10 Il Sistema di Preferenze Generalizzate (Generalized System of Preferences, GSP) è un accordo commerciale autonomo attraverso il quale l’UE concede un accesso preferenziale non reciproco al proprio mercato in favore di 176 paesi in via di sviluppo (PVS). Il Regolamento (CE) N. 980/2005 del Consiglio del 27 giugno 2005 prevede l’istituzione di tre separati regimi:
19
del regime tariffario preferenziale per quanto concerne i prodotti dell’abbigliamento,
roccaforte delle pulsioni protezionistiche dei paesi sviluppati nei confronti del
gigante asiatico.
Tuttavia, l’assoggettamento dei capi di abbigliamento cinesi al dazio intero, non
sembra per ora scoraggiare le importazioni di tali prodotti, visto che i bassissimi costi
della manodopera più che compensano il pagamento di dazi interi, nonché gli attuali
costi di trasporto.
In definitiva, per ora il fattore distanza non sembra rivestire grande importanza nel
determinare i flussi internazionali di T/A. Tuttavia potrebbe assumere maggior peso
nel prossimo futuro e lo scenario potrebbe cambiare in favore di un ritorno a forme di
scambio a raggio più corto in conseguenza dell’aumento dei costi di trasporto
innescato dal probabile raggiungimento del picco del petrolio.
1. un regime generale (standard GSP), che accorda preferenze tariffarie a 176
PVS e Territori su oltre 6300 categorie di prodotti; 2. un regime speciale di incentivazione per lo sviluppo sostenibile e il buon
governo (c.d. GSP Plus, abbreviato GSP+), che prevede un’ulteriore riduzione tariffaria alle merci provenienti da paesi considerati “vulnerabili” che si sono impegnati a ratificare e implementare una serie di Convenzioni internazionali relative al rispetto dei diritti umani, ai diritti del lavoro e altre convenzioni relative ai principi ambientali e di buon governo;
3. un regime speciale a favore dei paesi meno sviluppati (il c.d. EBA, da Everything But Arms, che si rivolge a 50 paesi meno sviluppati, i LDCs), accordando loro la totale sospensione dei dazi della tariffa doganale su tutti i prodotti ad eccezione del capitolo comprendente “armi, munizioni, loro parti e accessori”.
Dal 1° gennaio 2009 è in vigore il Regolamento (CE) N. 732/2008 del Consiglio del 22 luglio 2008, che , di fatto , proroga il sistema previgente per il triennio 2009-2011. La maggior parte dei prodotti che entrano in territorio comunitario usufruendo dei benefici derivanti dal Sistema delle Preferenze generalizzate appartengono alle categorie del T/A. I regolamenti succitati classificano le merci in due principali categorie:
1. prodotti “sensibili”, ovvero considerati meritevoli di più “protezione”; 2. prodotti “non sensibili”, per i quali i produttori europei sono meno esposti ai
rischi della concorrenza estera. Tra i prodotti sensibili, esclusi dal sistema delle preferenze, si annoverano i prodotti tessili e dell’abbigliamento della Sezione XI(a) e XI(b) del TARIC, provenienti dalla Cina.
20
1.4. La liberalizzazione del settore
Dopo la seconda guerra mondiale, mediante vari trade round, ovvero incontri di
negoziazione, i membri del GATT hanno provveduto ad abbassare progressivamente i
dazi vigenti, con l’obiettivo di creare un unico grande mercato mondiale ispirato ai
valori del libero scambio. In contrapposizione alla ratio ispiratrice dei negoziati,
alcuni settori sono rimasti esclusi dal processo di liberalizzazione, in quanto ritenuti
strategici per le economie nazionali e per questo degni di protezione.
Uno di questi settori è il T/A, assoggettato ad una regolamentazione parallela a quella
del GATT e caratterizzata dall’imposizione di limitazioni quantitative agli scambi
internazionali, per lo più in forma di VER (Voluntary Export Restraint).
Le pressioni per l’adozione di una politica multilaterale di tipo protezionista
provenivano per la maggior parte dai paesi industrializzati, le cui lobby erano
certamente ben consce delle ripercussioni negative che un’apertura “selvaggia” del
mercato avrebbe avuto sulle proprie industrie nazionali.
Sicuramente le lobby del T/A devono avere avuto un notevole peso politico, se si
pensa che alcune stime suggeriscono che la protezione del settore abbia imposto ai
consumatori statunitensi un costo superiore a quello sopportato a causa di tutte le
forme di protezionismo nel loro insieme11.
Le quote alle esportazioni di prodotti tessili e di abbigliamento furono concordate per
volere dei Paesi industrializzati con quelli in via di sviluppo per la prima volta nel
1959, anno in cui fu stipulato il cd. Short Term Cotton Agreement, con il quale veniva
adottato un sistema di VER nei confronti dei prodotti di cotone. Nel 1962 si sentì
11 Opera citata, P. Krugman, M. Obstfeld, “Economia Internazionale 1”, Terza edizione, Hoepli.
21
l’esigenza di prolungare l’accordo, giungendo così al Long Term Cotton Agreement,
mediante il quale 22 Paesi in via di sviluppo contingentavano le loro esportazioni di
tessile e abbigliamento verso i paesi industrializzati; nel 1974 l’accordo prese il nome
di Multifibre Agreement (MFA), andando ad includere nel sistema delle quote anche
fibre diverse dal cotone, quali, lane, sete ecc. e relativi prodotti di abbigliamento, da
cui il nome dell’accordo; nel 1995, in seguito all’Uruguay Round, venne stipulato il
cd. Agreement on Textiles and Clothing (ATC), il mezzo attraverso il quale, in
adeguamento alla ratio ispiratrice la nascita del WTO, procedere verso la totale
liberalizzazione del settore (v. Tabella 1).
Tab. 1: Cronologia della regolamentazione del settore Tessile-Abbigliamento
1960 - 1961 Short Term Cotton Agreement
1962 - 1973 Long Term Cotton Agreement
1974 - 1994 Multifibre Agreement (MFA)
1995 - 2004/31/12 Agreement on Textiles and Clothing (ATC)
Fonte: WTO
L’Accordo Multifibre aveva come principale obiettivo, dichiarato all’Art. 1, quello di
espandere i volumi di commercio internazionale, ma con un’ integrazione graduale
nel mercato mondiale del T/A, per assicurare uno sviluppo equo e regolato del settore
onde evitare effetti dirompenti nelle economie dei paesi importatori ed esportatori.
In realtà era solo agli Artt. 3 e 4 che si parlava di misure restrittive: “[…] in alcuni
casi i paesi aderenti possono adottare misure bilaterali per evitare effetti dirompenti
nelle proprie economie”.
22
La spiegazione di tali effetti dirompenti e dei requisiti per attuare le restrizioni ai
flussi commerciali di T/A erano definiti in due allegati all’Accordo e sostanzialmente
precisavano che i danni alle industrie nazionali dovevano essere stati causati da un
aumento consistente nell’importazione di un particolare prodotto oppure da un prezzo
della merce d’importazione notevolmente inferiore a quello vigente nel paese
importatore.
Nel 1995 l’accordo venne smantellato dalle ferree regole sul libero scambio della neo
istituita organizzazione mondiale del commercio (WTO) attraverso un piano
decennale di ridimensionamento delle quote con tappe di progressiva liberalizzazione.
Il piano prevedeva una progressiva abolizione dal sistema delle quote di una
percentuale delle 143 categorie di prodotti individuate dal MFA, dato 100 il flusso in
volume dell’anno 1990: nel 1995, anno di inizio dell’ATC, il 16% di tali categorie
venivano liberalizzate; in un secondo momento, nel 1999, veniva liberalizzato un
ulteriore 17% (quindi un 33% cumulato); nel 2001 si procedeva ad abolire dal sistema
delle quote un altro 18% di prodotti giungendo così alla liberalizzazione del 51%
delle categorie MFA; la parte residua, pari al 49% veniva interamente liberalizzata nel
2005, anno di scadenza dell’ATC e di adeguamento integrale del T/A alle regole del
GATT.
È interessante notare come il sistema delle quote abbia manifestato i suoi effetti non
tanto in una riduzione del commercio internazionale, bensì in un commercio più
selettivo: visto che le quote erano stabilite bilateralmente da ogni paese, è certo che i
paesi industrializzati hanno cercato di penalizzare con quote più restrittive i paesi più
efficienti, mentra hanno lasciato un tetto più o meno ampio per i paesi meno
sviluppati. Questi ultimi avevano quindi un’opportunità di rendersi più produttivi
aumentando le loro esportazioni, rubando fette di mercato ai paesi più penalizzati. Di
23
conseguenza, alcuni paesi meno competitivi sono stati avvantaggiati dalle quote
perché hanno garantito loro una fetta di mercato dato che sono stati in grado di
inserirsi nel vuoto lasciato da altri grandi paesi contingentati.
È così che, una volta che il Giappone ha avviato i suoi contingentamenti verso gli
USA, nel giro di poco tempo è salito il peso delle esportazioni di altri paesi asiatici,
Cora del Sud, Taiwan e Hong Kong su tutti.
Un altro effetto dell’Accordo Multifibre è stato quello di far aumentare i flussi di IDE
dai paesi maggiormente colpiti dalle quote verso i paesi meno colpiti, e caratterizzati
da basso costo della manodopera. I paesi più efficienti erano, infatti, motivati a
investire in attività tessili e dell’abbigliamento nei PVS limitrofi, al fine di evadere le
quote impostegli. L’accordo sembra dunque aver incentivato gli IDE da parte dei
paesi esportatori più dinamici del settore verso i paesi meno industrializzati,
contribuendo ad alimentare il modello di sviluppo individuato da Akamatsu.
Senza il Multifibre tali investimenti diretti esteri sarebbero stati molto più scarsi e
sporadici, poiché il loro scopo era proprio quello di aggirare le quote imposte dai
paesi industrializzati. Gli IDE erano spesso finanziati grazie alle rendite da
contingentamento (o quota-rent) che derivavano dalla gestione delle licenze.
Si stima che il quota-rent di Hong Kong negli anni Ottanta consistesse in svariati
milioni di dollari che venivano reinvestiti in attività tessili e di abbigliamento in altri
paesi del sud est asiatico.12
12 A. Cuomo, “L’accordo Multifibre, la sua evasione, la sua fine – Storia del Bangladesh”.
24
1.5. Rigurgiti protezionistici
Lo scadere dell’ATC, nonostante gli intenti, non ha di fatto liberalizzato
completamente il T/A, almeno non fino all’inizio di quest’anno (leggasi: 2009), primo
vero anno senza quote per questo settore.
Questo è stato dovuto all’applicazione della clausola di salvaguardia specifica
(China Textile Safeguard) uno dei requisiti e delle condizioni dell’adesione della
Cina al WTO e valida fino al 31 dicembre 2008, concernente le importazioni dalla
Cina verso i paesi membri del WTO di prodotti tessili e di abbigliamento disciplinati
dall’ATC.
Grazie a questa clausola, è stato possibile contingentare ulteriormente i prodotti del
T/A provenienti dalla Cina, al fine di risolvere o prevenire eventuali effeti dirompenti
nel mercato provocati da un aumento incontrollato di importazioni di tali prodotti.
Oltre alla clausola di salvaguardia specifica, il protocollo di accesso della Repubblica
Popolare Cinese al WTO, prevedeva anche, all’articolo 16, le c.d. Product Specific
Safeguard Measures (PSSMs).
Le PSSMs furono applicate per la prima volta nei confronti del Giappone al suo
ingresso come paese membro del GATT nel 195313. Sulla base di tale clausola ogni
paese aderente al GATT poteva unilateralmente adottare misure per proteggere la
propria industria domestica da eventuali danni causati da effetti dirompenti sul
mercato conseguenti alle importazioni di prodotti tessili e di abbigliamento
provenienti dal Giappone.
13 Yu Fei, “Some issues on Product-specific Safeguard Measures Against China”, WTO Focus, 2004.
25
Per quanto riguarda la Cina la situazione è oggi analoga a quella appena descritta: nel
corso del processo di liberalizzazione verso i prodotti cinesi, i paesi membri del WTO
possono adottare misure di salvaguardia transitorie per difendere specifici settori
dell’economia che possano entrare in grave crisi a seguito dell’improvvisa apertura
alla concorrenza cinese.
Preme sottolineare il carattere transitorio di tale clausola, che giustifica la “T” iniziale
dell’acronimo (Transitional Product Specific Safeguard Measures, TPSSM):
l’accordo è valido solo per i 12 anni successivi all’entrata della Repubblica Popolare
Cinese nel WTO. Questo significa che le TPSSM saranno applicabili non oltre il
2013.
Il carattere transitorio riguarda, inoltre, la durata di applicazione della misura di
salvaguardia, che deve corrispondere allo stretto tempo necessario a correggere le
distorsioni del mercato.
26
27
Capitolo 2: L’ impatto della liberalizzazione
Dal quadro normativo sopra delineato emerge che il T/A, nonostante i citati rigurgiti
protezionistici, si è di fatto “emancipato” dal sistema delle quote a partire dall’inizio
dell’anno in cui scriviamo (leggasi 2009). Ciò significa che le aziende importatrici
non sono più soggette al rilascio di licenze di importazione, ma possono importare
liberamente tutti i tessuti e tutti i capi di abbigliamento che desiderano, con l’ulteriore
beneficio di un sostanziale snellimento delle procedure burocratiche necessarie per le
pratiche di importazione.
Risulta interessante, ai fini del nostro studio, esporre una panoramica sugli effetti
dell’abolizione del sistema delle quote previsti da alcune tra le più importanti
istituzioni internazionali quali il WTO e la World Bank, nonché da organizzazioni di
categoria, nazionali e sovranazionali, quali il NCTO per gli USA, l’ Euratex per l’UE,
formulata prima dello scadere dell’ATC.
Procederemo poi a fornire dei dati empirici in merito ai cambiamenti effettivamente
realizzatesi in questi primi anni di liberalizzazione del T/A, per verificare la
fondatezza o meno dei timori sulla minaccia cinese.
2.1. Gli effetti a livello globale
Per quanto riguarda il livello previsionale, interessa esporre una panoramica dei
risultati dei numerosi studi condotti, a partire dagli anni ’90, da praticamente tutti i
più autorevoli organismi sovranazionali (OCSE, WTO, IMF, World Bank) e da una
28
moltitudine tra i principali centri di ricerca, governativi e non, che hanno provato a
stimare gli effetti economici e commerciali della liberalizzazione del T/A. I risultati di
tali studi delineano lo scenario seguente:
• un aumento del benessere mondiale, benché di ampiezza assai
variabile, oscillante tra i 6,5 e i 324 miliardi di dollari14;
• un consistente incremento del commercio internazionale nel settore;
secondo alcune stime, l’abolizione del sistema delle quote porterà ad
un aumento delle esportazioni in volume tra il 17% e il 72% nel tessile
e tra il 70% e il 190% nell’abbigliamento15;
• un aumento della quota di mercato dei produttori dei PVS,
soprattutto asiatici, e una parallela contrazione per i paesi
industrializzati16;
• diminuzione dell’occupazione nei paesi industrializzati, mentre
sono previsti effetti positivi in termini occupazionali nei PVS
(soprattutto in Cina). Alcune ricerche dimostrerebbero come ad ogni
posto di lavoro salvato in un paese industrializzato, attraverso quote e
dazi, corrisponderebbero 35 posti di lavoro persi in un paese in via di
sviluppo17;
14 OECD (2003), “Liberalizing Trade in Textiles and Clothing: A survey of Quantitative Studies”, Working Party of the Trade Committee, TD/TC/WP (2003), January, 2003. 15 J.S. Francois, B. McDonald, H. Nordstom, “The Uruguay Round: a global general equilibrium assessment” Discussion Paper n° 1067, Centre for Economic Policy Research, London, 1997. 16 “The textile and clothing speficity – facts and figures”, at The 6th WTO Ministerial Conference – Hong Kong, Euratex, 2005. 17 H.P. Lankes, “Market Access for Developing Country Exports”, Finance & Development, September 2002.
29
• un consolidamento della produzione a favore dei grandi gruppi, in
seguito ai vantaggi dovuti alle economie di scala, a discapito delle
PMI;18
• effetti positivi per i consumatori, dovuti alla maggiore concorrenza
nei mercati internazionali e la conseguente riduzione dei prezzi e ad
una maggiore efficienza nella distribuzione delle risorse.
A proposito di questo ultimo punto, si ricorda che, in un mercato di concorrenza
perfetta, lo spostamento della produzione da paesi in cui il costo marginale è alto a
paesi in cui il costo marginale è più basso non può che provocare un aumento della
produzione e una riduzione dei prezzi, con conseguente aumento del surplus del
consumatore. Nel grafico seguente abbiamo preso in considerazione gli effetti su
produzione e prezzo di un ipotetico spostamento della produzione dall’Italia, la quale
ha una curva del costo marginale relativamente alta, alla Cina, la quale presenta una
curva del costo marginale più bassa rispetto alla prima.
18 ICE, Area Studi, Ricerche e Statistiche, “La liberalizzazione del Tessile/Abbigliamento: impatti e strategie”, dicembre 2004.
30
Figura 2.1. Effetti sull’equilibrio del mercato dell’abbigliamento di un’ ipotetico
spostamento della produzione dall’Italia alla Cina.
P
1
MC Italy
2
D MC China
0 Q
Fonte: ns. elaborazione
Lo delocalizzazione della produzione dall’Italia alla Cina sposta l’equilibrio del
mercato dal punto 1 al punto 2, in cui il prezzo è più basso e la quantità prodotta è più
alta. Dal punto di vista dell’allocazione delle risorse tale situazione è di certo
preferibile a quella del punto 1.
31
Questo ragionamento dovrebbe suggerirci che, in un sistema di mercato di
concorrenza perfetta (in questa semplificazione non teniamo conto degli attributi
immateriali quali brand, design…, che caratterizzerebbero un mercato di concorrenza
monopolistica), completamente liberalizzato e senza altre variabili in grado di
influenzare le decisioni di produzione, quali costi di transazione e di trasporto, la
produzione di capi di abbigliamento generici dovrebbe interamente spostarsi nei paesi
che presentano costi medi più bassi, aumentando così l’efficienza del mercato.
In considerazione del fatto che, specialmente per quanto riguarda la produzione di
abbigliamento, la voce più significativa dei costi è attribuibile alla manodopera, ci si
potrebbe aspettare che la produzione di tali articoli si localizzi nei paesi in cui il costo
del lavoro è più basso. Questo è chiaramente in linea con quanto detto nei capitoli
precedenti a proposito della presenza di vantaggi comparati e della maggiore
disponibilità del fattore lavoro non qualificato nei PVS e nei LDCs.
Tuttavia, a livello empirico la previsione di un aumento della quota di mercato dei
PVS e dei LDCs ai danni dei paesi industrializzati sembra venire confermata solo in
parte.
Quello che si sta delineando sembra infatti più uno scenario in cui è principalmente la
Cina, assieme a India e Pakistan, a guadagnare fette della torta mondiale, ai danni del
Resto del Mondo, compresi gli altri PVS e in particolare i LDCs, le cui economie,
come visto fortemente dipendenti dal T/A, sembrano tra le più minacciate dal
processo di liberalizzazione.
Durante l’accordo Multifibre, molti PVS e LDCs esportatori di abbigliamento
protestavano che la regolamentazione di stampo protezionistico vigente frenasse il
loro sviluppo e chiedevano a gran voce l’abbattimento delle quote, con il
32
convincimento che la liberalizzazione avrebbe portato ad un aumento critico delle
proprie produzioni.
Tali pretese si riassumevano nel motto “Trade not Aid”, che divenne una sorta di
prescrizione per i paesi di Asia, Africa e Sud America. La World Bank aveva, infatti,
stimato che il sistema delle quote, limitando di fatto l’accesso ai mercati, deprivava le
nazioni povere del doppio di quanto esse ricevevano sottoforma di aiuti stranieri.19
Quando, nel 1995, gli Stati Uniti e l’Unione Europea si accordarono per
l’eliminazione delle quote come parte del progetto di costituzione del WTO, i paesi in
via di sviluppo plaudirono a tale accordo.
Questo, però, avvenne prima che la Cina, dopo 13 anni di negoziati, entrasse a far
parte del WTO stesso.
Si comprende la preoccupazione dei PVS esportatori di T/A di fronte all’ingresso
sulla scena di un competitore quale la Cina, la quale, oltre a disporre di un
relativamente maggiore potere demografico, infrastrutturale e anche politico, in virtù
delle sue vastissime dimensioni, risulta più competitiva anche in relazione ai salari.
Al basso costo della manodopera di altri PVS, quali i 75$ al mese dell’Indonesia, i
102$ della Repubblica Dominicana e i 300$ dell’Honduras, la Cina risponde con una
media di 73$ al mese per un lavoratore dell’industria dell’abbigliamento.
Oltre a ciò, la Cina può contare sul controllo di Hong Kong, punto nevralgico del
sistema finanziario del sud-est asiatico, nonché crocevia internazionale e paradiso
fiscale, senza dimenticare l’apporto del sistema economico sviluppato di Taiwan.
Grazie alle numerose compagnie di trading ivi insediate, la Cina è in grado di spedire
rapidamente le proprie merci nei negozi di tutto il mondo, a migliaia di chilometri di
distanza dai propri stabilimenti produttivi.
19 “Where Free Trade Hurts”, Business Week, December 15, 2003.
33
Oltre a questo, la produttività del lavoro in Cina nel settore del T/A è in progressivo
aumento, grazie all’ammodernamento degli impianti produttivi e agli investimenti resi
possibili dai lauti incentivi e sussidi che il governo cinese mette a disposizione di un
settore considerato strategico, mentre in molti altri PVS l’industria rimane ancora
caratterizzata da deficit di efficienza e da livelli infrastrutturali quasi medievali, il che
rende davvero aspra la sfida di competitività anche in un’ottica di lungo periodo.
Risulta a questo punto indicativo prendere in esame gli effetti che si sono manifestati
sulla produzione e sul commercio internazionale in relazione a dei beni sottoposti al
processo di liberalizzazione già da qualche anno, per verificare se esiste
effettivamente un trend in grado di delineare un possibile scenario futuro e
soprattutto, per verificare se i timori di quasi tutti i paesi nei confronti della Cina
devono considerarsi giustificabili.
Per quanto riguarda l’abbigliamento da bambino, liberalizzato nel 2004, si è assistito
ad un incremento dell’826% nell’export della Cina verso gli USA e, come
controbilancia, a un calo del 50% nella produzione di questo prodotto in Tailandia, in
Indonesia e nelle Filippine. Nella Repubblica Dominicana l’export è calato del 70%,
fino a quota 8,2 milioni di dollari.20
In uno studio condotto dall’ISAE, l’Istituto di Studi e Analisi Economica, nel quale
vengono analizzati gli effetti della liberalizzazione nei tre principali mercati europei
(Italia, Francia e Germania), emerge che, in confronto al 1993, nel 2003 la quantità di
prodotti di provenienza cinese ha avuto un sostanziale incremento, in particolare in
Francia dove è triplicata e in Italia dove è più che raddoppiata, raggiungendo il 44%
del totale delle importazioni del settore abbigliamento. Tale espansione quantitativa è
stata favorita da un drastico calo dei prezzi unitari che, tra il 1993 e il 2003, hanno
20 Ibidem.
34
subito un decremento del 20% circa in Francia e in Germania e addirittura del 60%
nel mercato italiano.21
In lieve controtendenza rispetto a quanto detto sopra, l’EURATEX,
un’organizzazione no-profit con sede a Bruxelles, dedicata alla promozione
dell’industria del T/A europea, sembra individuare una tendenza ad un incremento di
quote di mercato non solo da parte della Cina e a discapito del Resto del Mondo, ma
anche a beneficio di altri PVS. In un suo studio22, presentato alla sesta conferenza
ministeriale WTO tenutasi a Hong Kong, emergono dati a sostegno di tale tendenza.
Dall’osservazione della “torta” dell’export mondiale di T/A (v. figura 2.2) emerge che
i paesi che hanno incrementato maggiormente le loro esportazioni nel periodo
considerato sono il Marocco (3 volte), il Messico (2,3 volte), China e Bangladesh (2
volte). Altri paesi che hanno incrementato l’export sono la Turchia (1,75 volte), India,
Pakistan e Sri Lanka (1,5 volte). Di contro, Hong Kong, il Giappone, la Corea del
Sud, la Malesia e Taiwan hanno visto ridursi il valore delle loro esportazioni. Gli
esportatori europei e gli Stati Uniti hanno anch’essi visto una buona crescita del loro
export, ma ben al di sotto delle performance degli altri maggiori esportatori, il che si
traduce in una perdita di quote di mercato.
21 ISAE, “La liberalizzazione commerciale del settore tessile e abbigliamento”, Marzo 2005. 22 “The textile and clothing speficity – facts and figures”, at The 6th WTO Ministerial Conferente – Hong Kong, Euratex, 2005.
35
Figura 2.2 – Quota sulle esportazioni mondiali di TA (1995-2003)
Fonte: “The textile and clothing speficity – facts and figures”, at The 6th WTO
Ministerial Conferente – Hong Kong, Euratex, 2005.
Indicativa risulta essere anche l’osservazione del grafico dell’evoluzione del
consumo di fibre nel periodo 2000 – 2004 (v. figura 2.3).
Quello che risalta subito all’occhio è che praticamente la metà del consumo mondiale
di fibre nel 2004 è rappresentato da Cina e India, principalmente grazie all’incremento
della quota della Cina, che ha portato la sua quota dal 24,3% nel 2000 al 38,0% nel
2004, con un aumento quasi del 14%.
Di contro, Giappone, UE e USA hanno visto ridursi il volume dei loro consumi di
fibre, pur continuando a rappresentare il 17% della produzione mondiale nel 2004,
che era pari, però, al 25% nel 2000. Meno consumo di fibre significa meno
36
produzione di tessuti e di abbigliamento, il che, in effetti, è quello che è avvenuto nei
paesi industrializzati.
Figura 2.3 – Quota sui consumi mondiali di fibre (2000 – 2004)
Fonte: “The textile and clothing speficity – facts and figures”, at The 6th WTO
Ministerial Conferente – Hong Kong, Euratex, 2005.
In merito al consumo di fibre risulta d’interesse un’osservazione: dato che, come si
può vedere dalla figura, esso cresce a livello mondiale, mentre la disponibilità di terra
rimane costante, dobbiamo aspettarci che le fibre artificiali e sintetiche derivate dal
petrolio, quali poliestere, poliammide, polipropilene, acrilico, aramide e acetato,
rappresenteranno una quota crescente del consumo globale di fibre in futuro,
nonostante la previsione di un aumento del prezzo dell’oro nero.
Tali fibre rappresentano quindi sempre di più una direzione di sbocco per gli
investimenti, e possono costituire un’occasione per incrementare il vantaggio
37
comparato dei paesi industrializzati nel settore tessile, visto il significativo impiego di
capitale tecnologico necessario per la loro lavorazione (si noti che anche i NIEs sono
già molto competitivi nella produzione di tessuti sintetici, soprattutto Corea del Sud e
Taiwan).
Oltre a ciò, ci sono segnali che suggeriscono un’accelerazione per quanto riguarda
l’innovazione delle fibre tessili in ottica di salvaguardia dell’ambiente e
razionalizzazione dell’impatto ambientale. Basti pensare che di recente sono state
introdotte sul mercato fibre derivanti dai fondi del caffè (vedasi S.Cafè dell’azienda
SINGTEX di Taiwan), dal cocco23 e dalla lavorazione del bamboo (utilizzato anche
da Bailo Spa, l’azienda oggetto del nostro approfondimento24).
2.2. Il GAFTT
In risposta alla minaccia rappresentata dalla liberalizzazione del T/A seguita
all’Uruguay Round, 91 gruppi operanti nel settore, provenienti da 49 paesi del mondo,
hanno costituito la c.d. Allenza Globale per un Equo Commercio del Tessile (Global
Alliance for Fair Textile Trade – GAFTT). L’obiettivo dichiarato di tale alleanza è
quello di prevenire la conquista del mondo del commercio del tessile e
dell’abbigliamento da parte della Cina.25
Il GAFTT include gruppi provenienti dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea, da
Turchia, Messico, Bangladesh, Filippine, Sri Lanka, Uganda, Sud Africa, Marocco,
Perù, Argentina, Bolivia, Venezuela e da molti altri paesi. L’allenza è, quindi, formata
sia da paesi industrializzati sia da PVS sia da LDCs, il che sembra confermare la tesi
23 http://www.coconafabrics.com 24 Per un approfondimento sull’azienda Bailo Spa si rimanda alla parte II del presente lavoro. 25 http://www.fairtextiletrade.org/
38
che il processo di liberalizzazione rischia di favorire solo la Cina, ai danni del Resto
del Mondo.
Tra i firmatari della Dichiarazione di Istanbul, con cui ha preso vita il GAFTT, si
contano anche cinque associazioni italiane e segnatamente: l’ Associazione Italiana
Industrie della Filiera Tessile Abbigliamento (AIIFTA); l’Associazione Tessile
Italiana (ATI); l’Eurocoton; il Joint Committee of the Textile Finishing Industry in
the E.U. (CRIET); l’International Association of Users of Artificial and Synthetic
Filament Yarns and of Natural Silk (AIUFFAS).
Il GAFTT si pone sostanzialmente come un gruppo di pressione nei confronti del
WTO, con l’obiettivo di salvaguardare gli interessi delle Nazioni che saranno
svantaggiate dalla fine del sistema delle quote nel T/A e che sarebbero, secondo le
stime e l’osservazione dei primi dati empirici, pressoché tutte le Nazioni del mondo
ad eccezione di Cina, India e Pakistan, le uniche a guadagnare quote di mercato in
seguito alla liberalizzazione.
Il GAFTT, nel corso degli ultimi anni, ha proposto alcune misure da adottare per
fermare la minaccia cinese. Le più significative sono state essenzialmente due: un
effettivo utilizzo del China Textile Safeguard da parte di USA e UE.; un incontro di
emergenza in sede WTO, non con lo scopo di estendere il sistema delle quote, ma di
esaminare approfonditamente cosa deve essere fatto per prevenire quella che
potremmo chiamare un hostile takeover bid, una scalata ostile da parte della Cina al
mercato del T/A che, a detta dell’Alleanza, avrebbe effetti disastrosi sulle industrie
dei suoi paesi membri.
Per quanto riguarda il primo punto, sappiamo che non rimane più nulla da fare dato
che, come abbiamo visto, la clausola di salvaguardia specifica è scaduta il 31
dicembre 2008.
39
Il China Textile Safeguard fa parte di quelli che abbiamo soprannominato “rigurgiti
protezionistici” adottati in sede di WTO.
È da notare come, secondo il GAFTT, il China Textile Safeguard non sia mai stato
utilizzato effettivamente.
Nei casi in cui gli Stati Uniti lo hanno utilizzato, la Cina è stata in grado di
guadagnare fino al 40% del mercato prima che esso manifestasse i suoi effetti e,
inoltre, il safeguard durava per un anno o anche meno, prima che gli stessi problemi
di prima si ripresentassero.
Secondo il parere dell’Alleanza, l’accordo di salvaguardia sul tessile avrebbe dovuto
essere utilizzato con meno parsimonia, visto che gli effetti dell’incremento delle
importazioni provenienti dalla Cina e dirette verso i paesi WTO non potevano essere
definiti meglio se non dall’aggettivo “dirompenti”.
Per quanto riguarda il secondo punto, sembra che, nonostante le pressioni del
GAFTT, in sede di accordi WTO non ci sia l’intenzione di cambiare marcia, né tanto
meno direzione. “La liberalizzazione s’à da fare”, sembra essere il motto
dell’Organizzazione mondiale del commercio. Per quanto riguarda i tempi, non ci
sono indizi di rallentamento. Da quest’anno non è più in vigore l’accordo di
salvaguardia specifica. Ora non rimane che fare appello al TPSSM, ma, come
abbiamo visto, solo fino al 2013, anno in cui solo i più forti rimarranno sul mercato,
senza “se” e senza “ma”.
2.3. Gli Stati Uniti
Gli USA sono il terzo esportatore mondiale di prodotti tessili al mondo, per un valore
pari a 16,5 miliardi di dollari nel 2006.
40
Negli Stati Uniti l’industria del tessile e abbigliamento impiegava 700.000 lavoratori
nel 2007.26 Un anno dopo, nel 2008 l’industria subisce la perdita di 35.000 posti di
lavoro, portandosi a quota 675.000 lavoratori27.
Il salario medio di un lavoratore statunitense nell’industria tessile è pari a 524$ alla
settimana, mentre il salario di un lavoratore impiegato nell’abbigliamneto è pari a
222$ alla settimana28.
In una nota del Marzo 2009 il presidente della National Council of Textile
Organisations (NCTO) C. Johnson, sollecita l’Amministrazione Obama a mettere in
atto il Programma di Monitoraggio sulle importazioni di prodotti tessili come
promesso il 24 ottobre 2008 in una lettera dell’allora senatore dell’Illinois al NCTO29.
Johnson pare preoccupato dai risultati statistici pubblicati dal Dipartimento del
Commercio statunitense, dai quali si evince che le importazioni dei prodotti di
abbigliamento cinesi liberalizzati dal 1° gennaio del 2009 stanno letteralmente
volando e la Cina sta riducendo drasticamente i prezzi con l’intento di guadagnare
quote di mercato.
In effetti quello che sta succedendo sembra confermare tutte i timori precedenti
all’eliminazione delle quote. Emblematiche sono le previsioni effettuate da uno studio
del WTO30 nel 2004, secondo il quale la Cina, in seguito all’eliminazione delle quote,
avrebbe visto crescere vertiginosamente la propria quota di mercato negli USA e,
segnatamente, avrebbe raggiunto un 18% di quota di mercato nel settore tessile e
addirittura un 50% pieno nell’industria dell’abbigliamento (v. figure 2.4 e 2.5).
26 NCTO, “United States Files Case against Illegal Chinese Textile Subsidies”, December 19th, 2008. 27 NCTO, “Imports of Chinese Apparel Soar after Safeguards Remove – NCTO Urges Obama Administration to Begin monitoring Program”, March 16th, 2009. 28 Ibidem. 29 Letter from Senator Obama to NCTO, October 24th, 2008. 30 H.K. Nordas, “The Global Textile and Clothing Industry post the Agreement on Textile and Clothing”, WTO Discussion Paper No 5.
41
Tabella 2.1: Aumento import dalla Cina negli USA – Categorie abbigliamento sottoposte a
processo di Safeguard
Description Category Number Percent Increase
(Jan 08 - Jan 09)
Men's cotton knit shirts 338 2%
Women's cotton knit shirts 339 58%
Men's cotton woven shirts 340 10%
Men's cotton trousers 347 39%
Women's cotton trousers 348 50%
Cotton underwear 352 33%
Man-made fiber underwear 652 39%
Men's man-made fiber woven shirts 640 -36%
Men's man-made fiber trousers 647 31%
Women's man-made fiber trousers 648 16%
Men's man-made fiber shirts 638 2%
Women's man-made fiber shirts 639 57%
338, 339, 340, 347, 348, 352,
All categories 638, 639, 640, 647, 648, 652 36% Fonte: U.S. Departement of Commerce
Negli Stati Uniti gli effetti della liberalizzazione non si sono fatti sentire solo
sull’aumento della quota di mercato della Cina, ma anche sui livelli di occupazione:
nei primi due mesi del 2009, infatti, sono andati persi ben 20.000 posti di lavoro che,
assieme ai 35.000 già persi nel 2008, iniziano a rendere la situazione preoccupante,
con effetti che sempre più vanno verso la definizione di “dirompenti”, tanto che anche
il NCTO, come il GAFTT, sta prendendo posizione in sede di WTO perchè vengano
prese in esame le pratiche commerciali e di politica economica attuate dal governo
cinese.
Già nel Settembre del 2007, il presidente NCTO Cass Johnson, in una lettera a Mr.
Scott Quesenberry, allegava una lista di sussidi che il governo cinese elargisce in
favore delle propria industria del T/A, nonché casi di dumping (entrambe pratiche
vietate dal WTO).
Dalla lettura di tale lista risulta interessante notare come, oltre a sussidi
all’esportazione e a incentivi fiscali per gli investimenti e programmi di sviluppo, il
42
governo cinese offra incentivi monetari per la partecipazione a fiere nazionali ed
internazionali e a supporto delle attività di brand building, inclusa la partecipazione
ad incontri e manifestazioni di formazione svolte all’estero dal management delle
imprese cinesi.
L’obiettivo del governo cinese sembrerebbe essere quello di rafforzare le competenze
del proprio paese anche nel comparto delle attività correlate al T/A, quelle con più
alto valore aggiunto, caratterizzate da lavoro qualificato e, come detto sopra,
localizzate principalmente nei paesi occidentali, USA e UE in primis.
Se i cinesi dovessero rivelarsi competitivi anche sul piano del design, della creatività,
del marketing e del branding, le attività di filiera in cui gli occidentali (e in particolar
modo l’Italia) conservano il più sostanzioso vantaggio comparato, allora la sfida
diventerebbe ancora più aspra, e la Cina si evolverebbe definitivamente dal ruolo di
“terzista” dell’Occidente a vera e propria protagonista di tutta la filiera produttiva.
In sintesi, il quadro per l’industria del T/A statunitense non sembra rassicurante. Varie
associazioni di categoria, quali l’AMTAC, UNITE HERE e il gia citato NCTO,
sembrano d’accordo sull’attribuire alla “cieca fiducia” nel libero commercio le
responsabilità del crollo, preannunciato e ora in corso, della loro quota sulla
produzione mondiale.
Gli interventi per arginare la situazione sembrano rivolti, perlopiù, alla denuncia
presso il WTO delle pratiche commerciali, non conformi agli accordi, messe in atto
dal governo di Pechino, in modo da diminuire, per quanto possibile, l’enorme
vantaggio che la produzione cinese sta progressivamente guadagnando nei confronti
di quella statunitense.
43
Figura 2.4: Quote di mercato prima e dopo l’eliminazione delle quote, tessile,
USA
PRIMA
DOPO
Fonte: WTO
44
Figura 2.5: Quote di mercato prima e dopo l’eliminazione delle quote,
abbigliamento, USA.
PRIMA
DOPO
Fonte: WTO
45
2.4.1. L’Unione Europea
L’UE è il maggior esportatore mondiale di prodotti tessili e il secondo esportatore di
prodotti dell’abbigliamento dopo la Cina31.
Le esportazioni di tessile nel 2007 ammontavano a 33,7 miliardi di Euro, pari all’8%
sul totale dell’export mondiale.
Se negli Stati Uniti la situazione sembra precipitare in seguito all’abolizione delle
quote, in Europa gli effetti sembrano meno estremi, ma comunque rilevanti.
Dallo stesso studio del WTO in precedenza citato 32, emerge una situazione per l’UE
in linea con quanto detto per gli USA: le previsioni danno la Cina in progressiva
conquista di quote di mercato, nel tessile ma soprattutto nell’abbigliamento. La Cina
passa da un 10% a un 12% nel tessile e da un 18% a un 29% nell’abbigliamento, con
un incremento previsto dell’11% (vedi Figure 2.4 e 2.5)
31 “Tessili e Abbigliamento: riunione del Gruppo ad Alto Livello per preparare raccomandazioni sul futuro del settore tessile UE”, Gruppo di Alto Livello sul Tessile e Abbigliamento, Bruxelles, 29 giugno 2004. 32 H.K. Nordas, “The Global Textile and Clothing Industry post the Agreement on Textile and Clothing”, WTO Discussion Paper No 5.
46
Figura 2.4: Quote di mercato prima e dopo l’eliminazione delle quote, tessile,
UE
PRIMA
DOPO
Fonte: WTO
47
Figura 2.5: Quote di mercato prima e dopo l’eliminazione delle quote,
abbigliamento, UE.
PRIMA
DOPO
Fonte: WTO
48
I dati forniti dal Ministero delle Attività Produttive italiano, seguiti a osservazione
empirica di alcuni prodotti già sottoposti a liberalizzazione, delineano una prospettiva
di crescita ancor più favorevole per la Cina (v. Tabelle 2.2 e 2.3).
Tab. 2.2. Quote di mercato e prezzi cinesi nell’UE prima e dopo la
liberalizzazione
Periodo Quota mercato UE Prezzi export della Cina Cina (€/pezzo)
2001 15% 18,28 2002 55% 10,00 2003 74% 7,60
I sem. 2003 63% 7,85 I sem. 2004 74% 6,82
Fonte: Ministero delle Attività Produttive
Tab. 2.3. Impatto della Cina sul mercato T/A in UE dopo la liberalizzazione del
2002
Prodotto Variazione quota di Variazione mercato Cina dei Prezzi
Giacche a vento (cat. 21) +168% -45% Tute ginnastica (cat. 73) +83% -52% Stoffa tessuta in pile +87% -42% (cat. 32)
Fonte: Ministero delle Attività Produttive
Come si evince dall’osservazione dei dati forniti, anche in Europa la Cina sta
guadagnando grosse fette di mercato mentre i prezzi in pratica si sono già dimezzati.
A proposito del tessile tecnico risulta interessante sottolineare come, soprattutto negli
ultimi anni, sia andata incrementando la presenza di produttori asiatici a
manifestazioni fieristiche in Europa. All’interno dell’ultima fiera internazionale
dell’abbigliamento sportivo invernale, l’ISPO Winter 2009, tenutasi in Febbraio a
Monaco di Baviera, si può affermare che si fosse ricreato un microambiente che
49
riproduceva su piccola scala lo scenario geografico che contraddistingue il mercato
del T/A a livello mondiale, nella fattispecie quello relativo all’abbigliamento sportivo
tecnico: nei padiglioni dedicati all’esposizione dei marchi di abbigliamento, si poteva
notare il predominio dei brand occidentali, sintomo che le attività a maggior valore
aggiunto della filiera (branding, design ,marketing, comunicazione), sono ancora
appannaggio delle imprese dei paesi industrializzati; nei padiglioni dedicati
all’esposizione dei fornitori di tessuti e di façon, la presenza era, invece, quasi
totalmente asiatica, in prevalenza proveniente da Cina, Corea del Sud, Taiwan, India e
Pakistan.
Le fiere sono da sempre un’ottima occasione per fare affari, per vendere ma anche per
trovare nuovi partner commerciali, o nuovi fornitori. Il fatto che tra i fornitori di
tessuti le aziende occidentali si contassero sulle dita di una mano33 può suggerirci che
molti contratti di fornitura siano stati conclusi con fornitori asiatici, il che non fa che
confermare il trend sopra delineato. Per quanto riguarda la façon la situazione era
ancora più drastica: Cina, Cina, tanta Cina.
Sempre in Europa, si registrano maggiori presenze asiatiche a fiere di tessuti come
“Premier Vision” a Parigi, nonché la nascita di nuove fiere europee dedicate quasi
interamente a vetrina per produttori provenienti dal Far East asiatico, come la
manifestazione itinerante “Performance days”, che fa tappa a Verona, Monaco e
Stoccolma, dedicata ai tessuti tecnici per l’abbigliamento sportivo, giunta alla sua
seconda edizione quest’anno.
33 Le poche aziende occidentali presenti erano le major del settore: basti citare Gore-Tex e Shoeller su tutte.
50
2.4.2. La reazione europea
Alla aggressiva conquista di quote di mercato da parte dei PVS, soprattutto asiatici,
l’UE risponde con la formazione, nel Febbraio del 2004, di un gruppo di
osservazione e consultazione, il Gruppo di Alto livello sul Tessile e Abbigliamento
(High Level Group on Textile and Clothing).
Tale gruppo, composto di Commissari comunitari, Ministri degli Stati membri e
rappresentanti del Parlamento Europeo, rappresentanti del mondo dell’industria,
associazioni di categoria, unioni di imprese, retailers, importatori e distributori, ha il
compito di analizzare dettagliatamente il mercato del T/A europeo, la cornice
macroeconomica in cui si colloca, nonché di fornire raccomandazioni alla
Commissione Europea e ai suoi Stati membri in merito alle azioni da intraprendere
per la salvaguardia e lo sviluppo dell’industria.
Il Gruppo di Alto Livello ha individuato i pilastri della propria strategia generale nei
seguenti punti:
• completamento dell’area di libero scambio Euro-Mediterranea;
• innovazione nel campo della tecnologia per l’abbigliamento, nel cui ambito
spicca il progetto LEAPFROG;
• un piano di azione nei confronti della Cina;
• accesso al mercato preferenziale per i paesi del terzo mondo (riduzione dei
dazi, eliminazione delle barriere non tariffarie);
• favorire la formazione e l’occupazione;
• protezione dei diritti di proprietà intellettuale (Intellectual Property Rights,
IPR);
51
• assicurarsi che la struttura di regolamentazione interna all’UE rimanga
attrattiva per gli investimenti34.
Secondo il Gruppo di Alto Livello, sarebbero numerosi i motivi per cui non
assisteremo alla scomparsa del T/A europeo a vantaggio della conquista mondiale del
settore da parte della Cina.
Su tutti, in accordo con la tesi del modello gravitazionale, il problema della
“distanza”. In uno studio sulle prospettive del settore da qui al 2020 viene preso in
esame l’aumento previsto dei costi energetici e principalmente quelli legati al petrolio
che, i “seguaci” di Hubbert danno in progressivo e incontrovertibile aumento nei
prossimi anni, in funzione del superamento della domanda rispetto all’offerta
mondiale. Un aumento dei costi energetici si traduce in aumento dei costi di trasporto,
il che già da solo è un argomento in favore della preferenza per prodotti realizzati
meno lontano da un punto di vista geografico.
La commissione rimane convinta che sia possibile trovare soluzioni sostenibili per le
sfide strutturali che il settore deve affrontare mediante il rafforzamento dei vantaggi
competitivi dell’industria europea e con strutture adatte.
I progetti messi in atto a livello comunitario per la salvaguardia e il rilancio del T/A
europeo sono numerosi e, per onor di cronaca, ne elencheremo alcuni: EUROPA
INNOVA, NETFINTEX, AVALON, FASHION2FUTURE, CLEVERTEX,
WEBTEXPERT, TRANSITION, SPACE2TEX project, Tex-Map, TEX-SPIN…
I suddetti progetti di Ricerca & Sviluppo sono promossi da Euratex, Autex e
Textranet e si inseriscono nell’agenda del Future Textile and Clothing (FTC), la
“Piattaforma Tecnologica Europea” dedicata al T/A.
Le Piattaforme Tecnologiche Europee (PTE) sono partnerships pubblico-private che
34 High Level Group Report and First Recommendations, June 2004.
52
coinvolgono industrie, istituzioni di ricerca, istituzioni finanziarie e autorità di
regolamentazione, nate con lo scopo di definire delle roadmap dell’attività di R&S, al
fine di rafforzare la competitività dell’industria europea.
Tra i progetti messi in atto ce n’è uno che spicca in particolar modo, in quanto
affronta di petto il principale problema dell’industria europea, ovvero quello dell’alto
costo della manodopera nel comparto abbigliamento. Tale progetto è stato
denominato LEAPFROG, un acronimo che sta per Leadership for European Apparel
Production From Research along Original Guidelines. Il suo obiettivo, dichiarato nel
suo nome, è quello di riconquistare e consolidare la leadership del T/A europeo
attraverso linee guida originali per la ricerca. Tra l’altro, in inglese la parola
“leapfrog” significa “salto della rana”, e si potrebbe ludicamente immaginare che il
progetto intenda far spiccare al T/A europeo un bel salto in avanti.
Si pensa di raggiungere l’obiettivo descritto attraverso tre principali linee guida e,
segnatamente:
1. Accentuare i contenuti tecnologici dei prodotti con:
• Fibre speciali e materiali compositi per prodotti tessili innovativi;
• Nuovi processi di funzionalizzazione delle strutture tessili;
• Biomateriali, bio e nanotecnologie, processi ecologicamente
compatibili.
2. Estendere le applicazioni del tessile a nuovi settori di utilizzo:
• Tessili medicali, protettivi e per lo sport attivo;
• Tessili tecnici (trasporti, costruzioni, usi industriali);
• Tessili per un abbigliamento “intelligente” (smart textiles).
3. Realizzazione di produzioni mirate alle specifiche esigenze dei clienti:
53
• Personalizzazione della produzione di massa (mass customisation);
• Nuove tecnologie di design e di produzione;
• Revisione della supply chain e della logistica;
• Gestione del ciclo di vita del prodotto e qualità totale.
Il Leapfrog si pone, entro il 2010, di cambiare le regole e raggiungere un nuovo mix
di vantaggi competitivi, attraverso una maggiore produttività e un migliore time to
market, nonché con un valore aggiunto superiore.
Il progetto è finanziato dall’UE per 15 milioni di Euro e vede la cooperazione di una
cinquantina di partner industriali, che contribuiscono con un importo di pari entità.35
Oltre allo studio di soluzioni per quanto riguarda la produzione di nuove strutture
tessili con tecnologie avanzate, la prototipazione virtuale e la diffusione dei c.d. smart
textiles (tessuti intelligenti), il Leapfrog appare interessante per quanto riguarda lo
studio di fattibilità di processi di confezione automatizzati con l’utilizzo di robotica.
L’orientamento di fondo sembra essere il seguente: essendo l’attività di confezione
sostanzialmente labour intensive e , essendo che i nostri competitors asiatici hanno un
vantaggio comparato sul fattore lavoro, una mossa astuta potrebbe essere quella di
rendere tale attività più capital intensive, ribaltando la situazione, disponendo noi di
un vantaggio comparato in tale fattore. Si inizia a parlare così di “produzione
automatizzata”. A tale proposito, è stato sottolineato36 come le fasi produttive dei
manufatti tessili, specie quelle a valle della tessitura, siano ancora basate sul lavoro
umano, assistito da macchine per cucire non dissimili da quella brevettata da Singer
oltre un secolo fa. L’Europa, per difendersi dalla concorrenza dei paesi a basso costo
di manodopera, dovrà da un lato ridurre drasticamente il fabbisogno di operatori non
35 G. Belletti, “Il grande salto”, Confezione, Settembre 2006. 36 Intervento di Rezia Molfino, dell’Università di Genova (PMARlab –DIMEC) ad un convegno c/o la Federazione SMI-ATI, 2006.
54
qualificati, dall’altro adottare forme di automazione flessibile, basate sull’uso di
robot di nuova generazione. Questo processo, che mira alla cooperazione uomo-robot
e non alla totale sostituzione dell’intervento manuale, trarrà vantaggi dai progressi in
corso per quanto riguarda la sicurezza della interazione uomo-macchina, la crescente
flessibilità e facilità di programmazione (anche con comandi vocali), la diminuzione
dei costi e il maggior numero di fasi produttive che possono essere velocizzate e
automatizzate, in linea con tre obiettivi: “better, cheaper, faster” . Si muove in
questa direzione anche il lavoro della tedesca Modern Sewing Technology, che ha
sviluppato un processo tridimensionale, con alimentazione e cucitura automatica delle
parti tagliate su uno stampo 3D. Tale tecnologia, attualmente adottata nell’industria
automobilistica (sedili, poggiatesta…), prevede l’uso di un modello di dimensioni
fisse, ma dovrà svilupparsi ulteriormente per conseguire la maggiore flessibilità
richiesta dall’abbigliamento, ove le taglie variabili e i cicli di design più veloci
richiedono sagome tridimensionali versatili e sofisticate.
L’utilizzo di robot al posto della manodopera non qualificata sembra in effetti la
soluzione più intelligente individuata per rispondere all’esodo dell’industria delle
confezioni nel Far East. Tuttavia, per quanto riguarda la sua fattibilità in termini di
ritorno degli investimenti, la questione è , almeno per ora, tutt’altro che risolta.
2.5. La Cina
La Repubblica Popolare Cinese è il primo esportatore mondiale di abbigliamento e il
secondo esportatore mondiale di tessile.
L’apertura dell’economia cinese ai mercati internazionali risale alla fine degli anni
Settanta quando, con la fine del regime di Mao, prende il via il nuovo modello di
sviluppo contraddistinto da una radicale rottura con il passato. Il superamento del
55
dogma maoista dell’autosufficienza consente l’avvio della politica della “porta
aperta” di Deng Xiaoping, fondata sull’adozione di una sorta di socialismo di mercato
e sullo sviluppo delle relazioni internazionali (prima di allora assolutamente bandite).
Questo drastico mutamento di prospettiva ha prodotto una serie di conseguenze
notevoli. Da un lato ha imposto una repentina trasformazione del tessuto produttivo
del paese, che è stato avviato verso una fase di intensa industrializzazione, tuttora in
corso. La riforma industriale, iniziata nel 1984, ha fatto sì che il settore industriale
fornisca oggi il contributo più importante alla formazione del reddito nazionale, a
scapito del settore agricolo, che oggi genera circa il 15% dl PIL, ma con oltre il 44%
degli occupati. Dall’altro lato, ha favorito l’afflusso di IDE e stimolato il commercio
internazionale, che ha conosciuto un’ulteriore accelerazione a partire dal novembre
2001, dopo l’ingresso nel WTO. A tale ingresso, si è tuttavia accompagnato solo un
parziale adeguamento delle normative commerciali, specie in materia di tutela dei
marchi e di lotta alla contraffazione, e un impegno ancora incompleto relativamente al
contenimento delle politiche di erogazione di sussidi e di riduzione delle barriere
tariffarie.
Nel complesso le riforme introdotte negli ultimi due decenni sono state in grado di
avviare un robusto processo di crescita – assimilabile a quello già precedentemente
sperimentato dalle cosiddette tigri asiatiche e prima ancora dal Giappone – che ha di
fatto collocato la Cina tra i maggiori attori economici nel contesto internazionale. Nel
periodo 1980-2000 l’economia cinese ha infatti conosciuto una fase di sviluppo –
quasi ininterrotta, contraddistinta da tassi di incremento del PIL pari al 9,5% annuo37.
In termini aggregati il valore del PIL , valutato ai cambi correnti di mercato, la pone
al sesto posto della graduatoria mondiale (4% circa del PIL mondiale) mentre,
37 Fonte: World Bank
56
passando ad una valutazione espressa in termini di PPP, il PIL cinese rappresenta
quasi il 13% di quello mondiale. Il reddito pro-capite, pur in veloce crescita, è stimato
in $1.060 (valutato a cambi correnti), il doppio dell’India ma circa la metà di quello
russo, un decimo di quello coreano, un ventesimo di quello europeo: un segnale
evidente di quanto sia ancora intenso lo sforzo che l’economia cinese deve compiere
per completare il processo di catching-up.
D’altro canto, è risaputo che spesso il reddito medio non è rappresentativo del reddito
dei cittadini di un paese; come spiega bene l’aneddoto di Trilussa sulla media: un
pollo a testa significa che una persona ne mangia due e un’altra salta il pasto.38
La forbice tra i pochissimi cinesi ricchissimi e la maggioranza della popolazione
praticamente in miseria non è infatti rappresentata dalle stime sul PIL pro-capite, ma
rimane comunque una caratteristica di questo paese, nel quale la classe media stenta
ancora a delinearsi.
Parlando di rapporti con l’estero, la quota dei mercati mondiali detenuta dalle
esportazioni cinesi è passata dall’1 al 6%, grazie ad una fortissima crescita
dell’attività di export – costituito al 90% da manufatti che si stanno velocemente
spostando dai settori tradizionali a quelli elettronici o ad alto contenuto tecnologico –
che ha collocato la Cina al quarto posto nella classifica dei maggiori esportatori
mondiali. La consistente apertura nei confronti dell’estero ha consentito anche di
attirare una quota crescente di investimenti diretti esteri. Nel 2002, l’8,1% del totale
mondiale di investimenti diretti all’estero è approdato in Cina, che è diventato il
primo mercato di destinazione fra i paesi emergenti. Nel 2003, secondo l’OCSE, il
mercato cinese è addirittura diventato il primo al mondo, sopravanzando quello
statunitense, con un flusso netto di IDE superiore ai 53 miliardi di dollari.
38 A. Alesina, F. Giavazzai, La crisi, Il Saggiatore, 2008.
57
Come è stato detto, la Cina è il paese che sta traendo i maggiori vantaggi dal processo
di globalizzazione in atto e , in particolar modo, dal processo di liberalizzazione del
T/A, un settore nel quale vanta notevoli vantaggi comparati che, fino all’inizio di
quest’anno, non hanno potuto manifestarsi in tutta la loro potenza, a causa delle
politiche protezionistiche adottate dai paesi industrializzati.
La Cina si avvia a diventare la seconda, se non la prima economia mondiale entro il
2050, e oggi si assiste ad un progressivo spostamento della produzione industriale
verso quella che è ormai la “nuova fabbrica del mondo”.
Lo studio dei fattori di vantaggio competitivo della Cina esula dai fini del presente
lavoro, ma merita un breve accenno l’enunciazione di quelli che sono i punti di forza
dell’industria cinese del T/A.
Il più riconosciuto vantaggio comparato della Cina è senz’altro da ricondursi al
bassissimo costo della sua manodopera. A fronte di stipendi della classe manageriale
in crescita, la classe operaia è tra le meno retribuite al mondo. Questo di per sé
potrebbe già fornire una valida spiegazione della leadership di mercato della Cina nel
settore dell’abbigliamento, come sappiamo caratterizzato da un utilizzo intensivo del
fattore lavoro nella produzione.
A questo vanno aggiunte una serie di circostanze favorevoli per l’industria cinese,
quali:
• una moneta, il renmimbi, a detta di molti analisti fortemente sottovalutato nei
confronti del dollaro, con conseguente vantaggio per le esportazioni;
• una politica economica volta alla crescita del settore, mediante l’elargizione di
incentivi fiscali, sussidi all’export e condizioni finanziarie di prestito fuori
dalle logiche del mercato, che permettono alle imprese che ottengono dei
58
finanziamenti di dover rimborsare solo la quota di interessi e non la quota di
capitale.39
Tali politiche economiche vanno ad incrementare il già affermato vantaggio
competitivo della Cina nei confronti del Resto del Mondo, accelerando la sua
conquista di quote di mercato.
Oltre a questo, non è da dimenticare che la Repubblica Popolare Cinese può contare
sui rapporti strategici con Hong Kong e Taiwan, che sono tra le regioni più sviluppate
del continente asiatico.
CRESCITA ORIENTATA ALLE ESPORTAZIONI
Nonostante negli ultimi anni si sia assisitito ad un aumento della domanda interna a
seguito della crescita economica e del conseguente aumento del potere di acquisto, la
Cina ha perseguito, e tutt’oggi persegue, un modello di sviluppo orientato alle
esportazioni. La dipendenza dell’economia cinese dal commercio estero si attesta
intorno al 60% e sta alimentando dibattiti all’interno del paese in merito alla
sostenibilità di tale modello di sviluppo40.
Il timore di alcuni economisti cinesi è che tale dipendenza possa tramutarsi in una
minaccia alla crescita economica, nel caso di crisi dei propri partner commerciali. Si
pensi che la Cina è, dopo il Giappone, il secondo creditore mondiale nei confronti
degli USA, il paese più indebitato al mondo e, come abbiamo potuto osservare nel
corso della storia recente, non immune a crisi economiche, anche di proporzioni
significative.
39 Where Free Trade Hurts”, Business Week, December 15, 2003. 40 Liu Guangxi, Chen Taifeng, “To use connotation of the dependency ratio of foreign trade scientifically and China’s countermeasures under the WTO”, International Business Research, 2004.
59
Nel passato in Cina, l’implementazione di una politica economica orientata alle
esportazioni, ha di fatto guidato molte imprese a focalizzarsi sul vantaggio di prezzo,
piuttosto che su quello di qualità.
Il vantaggio competitivo veniva ricercato sui bassi costi del lavoro, il che ha garantito
alla Cina di guadagnare quote di export mondiale, ma tale export è stato caratterizzato
da prodotti a basso valore aggiunto e a basso contenuto tecnologico.
La competizione sul prezzo ha nel tempo suscitato reazioni protezionistiche che si
sono manifestate in numerose investigazioni e misure antidumping, un ulteriore
strumento adottato da molti paesi del WTO per frenare le esportazioni del colosso
asiatico.
A fronte di questo molti economisti sostengono la necessità per l’economia cinese di
investire in innovazione, con l’obiettivo di aumentare il valore aggiunto e i contenuti
tecnologici dei propri prodotti.
Per quanto concerne la dipendenza dell’economia cinese dalle sue esportazioni, è
possibile prevedere che, nonostante non ci siano segnali indicativi di un calo
dell’export nel prossimo futuro, si assisterà ad una compensazione dovuta ad un
incremento della domanda interna di consumi, in conseguenza dell’aumento del
tenore di vita, nonché delle influenze culturali di stampo occidentale/consumistico che
ormai si sono miscelate alla millenaria cultura locale, cosicché l’incidenza delle
esportazioni sul PIL dovrebbe ridursi.
60
61
Parte II
Un analisi microeconomica
62
63
Capitolo 3. Il caso italiano
3.1. Il Tessile-Abbigliamento in Italia
L’Italia riveste un ruolo centrale nel panorama mondiale del settore T/A. Essa è
infatti, con circa 22.000 aziende esportatrici del sistema moda, il secondo esportatore
mondiale dopo la Cina. È il primo produttore ed esportatore europeo, con una quota di
mercato del 34,8% nel tessile, con un notevole distacco dagli altri leader come la
Germania che detiene il 13,5% e la Francia, che detiene il 12,6%. Nel settore
dell’abbigliamento il peso dell’Italia è ancora più rilevante: è, infatti, al primo posto
per livelli di produzione con un 43% sul totale europeo, contro il 12,7% della
Germania e il 12% della Francia, rispettivamente secondo e terzo produttore
europeo41.
La produzione di abbigliamento è sempre più rivolta alla soddisfazione della domanda
estera: la quota delle vendite estere di abbigliamento sul fatturato complessivo ha
raggiunto la soglia del 61,7%, con un’importanza crescente dei mercati extra UE.
L'offerta delle imprese italiane si colloca verso la fascia alta dei prodotti e si rivolge
sia ai mercati tradizionali europei (attualmente in calo il mercato tedesco), USA e
Giappone che ai nuovi Paesi emergenti. Per l'abbigliamento l'incremento di mercato
più notevole si è avuto in Russia (+ 23,5%) e in Cina (+ 14,8%). Gli elevati livelli di
sviluppo economico ed il rapido aumento dei consumi di questi Paesi ne fanno aree
prioritarie d'intervento.42
Uno dei vantaggi competitivi del nostro paese è senza dubbio la capacità di “tingere”
41 Elaborazione Centro Studi Confindustria su dati Eurostat. Cfr. “La trasformazione industriale in Europa”, Centro Studi Confindustria, dicembre 2004. 42 “Ricerca sul mercato dei tessuti e dell’abbigliamento nella Federazione Russa”, a cura dell’ufficio ICE di Mosca, presentata presso il CNA Federmoda di Bologna l’11 giugno 2009.
64
di attributi intangibili l’altrimenti semplice e mercificato settore dell’abbigliamento. Il
design, la creatività, finanche la poesia che permettono ad un prodotto di
abbigliamento di passare il confine tra indumento e moda, sono attributi che nel
mondo sono generalmente associati con l’Italia, con il suo stile e il suo gusto.
Risulta altrettanto importante sottolineare come siano proprio tali attributi intangibili
a creare un indotto di attività correlate di terziario (design, branding, comunicazione)
che si traduce in un reale e tangibilissimo giro d’affari, che funge da mezzo di
sostegno e di sviluppo per tutte le altre attività lungo la filiera.
In Italia, complessivamente il sistema moda, includendovi anche attività quali design
e servizi dedicati, conta a fine 2003 quasi un milione di addetti (750.000 nel T/A,
220.000 nel comparto calzatura, pelli e cuoio, 30.000 nei servizi dedicati di filiera),
con una connotazione fortemente territorializzata nelle regioni del centro – nord e nei
relativi distretti industriali. Si tratta quindi di un pezzo importante dei circa cinque
milioni di addetti dell’industria manifatturiera nazionale, che rappresenta, come
recentemente dichiarato dal ministero dell’Industria, circa il 14% del PIL del nostro
paese.
Per vedere cosa pensano del settore gli addetti ai lavori, citiamo di seguito la
descrizione che ne viene data dal Sistema Moda Italia (SMI), un’associazione che,
contando circa 2.300 imprese, è una delle più grandi organizzazioni mondiali di
rappresentanza degli industriali del tessile e moda: “il Tessile-Moda, rappresentato da
SMI, costituisce da sempre uno dei settori di eccellenza del Made in Italy, come
attestano non solo i numeri del settore, ma soprattutto lo stesso posizionamento di cui
gode a livello internazionale. […] Tradizionalmente, l’industria Tessile-Moda italiana
si compone di una filiera particolarmente diversificata e completa, che vede sul
territorio nazionale la presenza sia di imprese operanti nelle fasi a monte della filiera,
65
come le filature, le tessiture e i nobilitatori, sia di imprese operanti nelle fasi a valle
(confezione). Oltre che in termini di processi, la filiera risulta completa anche sotto il
profilo delle fibre lavorate, in quanto coesistono imprese cotoniere e liniere, seriche,
laniere, così come imprese attive nella lavorazione di fibre artificiali e sintetiche.
La diffusione dell’industria Tessile-Moda interessa il territorio nazionale nel suo
complesso, sebbene vada segnalata la presenza di vere e proprie concentrazioni
spaziali delle industrie del settore in distretti industriali, tra cui, ad esempio, Biella,
Carpi, Castel Goffredo, Como, Prato, Vicenza, caratterizzati da economie esterne e
sinergie inter-aziendali. La produzione risulta organizzata prevalentemente in imprese
di dimensione piccola e media, altamente specializzate e operanti spesso in nicchie di
mercato, sebbene, specie nel segmento del lusso, non manchino veri e propri gruppi
multinazionali verticalizzati e integrati anche a livello distributivo.
Il know-how e le competenze diffuse, la flessibilità garanzia di quick response e di
personalizzazione, la continua innovazione incrementale (sia sui materiali sia sul
prodotto sia sul processo) lo stile e la creatività sono i principali asset che concorrono
a determinare la qualità e l’eccellenza dell’offerta italiana.”43
Come possiamo vedere, in Italia si localizzano le attività sia a monte sia a valle della
filiera, che sono esercitate da aziende principalmente di piccole e medie dimensioni.
Sia nel tessile che nell’abbigliamento l’Italia può contare su una tradizione di saper
fare riconosciuta a livello mondiale, il che le attribuisce un significativo e consolidato
vantaggio competitivo.
D’altra parte, però, sebbene, nel tessile, la caratterizzazione capital-intensive possa
fungere da protezione nei confronti della concorrenza estera, il comparto
abbigliamento sembra essere il più esposto ai rischi della competizione globale
43 http://www.sistemamodaitalia.com
66
crescente in seguito alla liberalizzazione del settore, soprattutto sembra sensibile alla
concorrenza proveniente dai paesi a basso e bassissimo salario per quanto riguarda le
attività di façon, svolte in Italia da un significativo numero di laboratori terzisti
specializzati che, pur offrendo un livello qualitativo delle lavorazioni superiore ai
competitors stranieri, devono fare i conti con un costo del lavoro anche più di dieci
volte superiore rispetto alle imprese dei PVS e dei LDCs.
Peraltro nemmeno il settore tessile può considerarsi immune da attacchi competitivi
da parte di nuovi protagonisti, NIEs in testa. Soprattutto da Taiwan, Corea del Sud e
Cina arrivano le maggiori minacce, dato che questi paesi possono vantare un buon
livello di infrastrutture e di tecnologia, che permette loro di produrre tessuti altamente
competitivi, specialmente per quanto riguarda i tessuti tecnici, i quali rivestono
un’importanza sempre maggiore nel mercato.
Per avere un’idea del trend in atto, si pensi al caso della Candiani di Robecchietto,
celebre azienda produttrice di denim per i jeans, di cui l’azienda americana Levi’s
assorbiva un terzo della produzione. Da poco la Levi’s ha smesso di comprare il suo
denim in Italia e ora si rifornisce solo in Cina.44
Taiwan, Corea del Sud e Cina hanno dalla loro parte anche la posizione geografica,
nel senso che la loro prossimità ai laboratori di façon situati, come abbiamo visto, in
numero sempre più consistente nei paesi a basso salario del sud est asiatico, facilita la
crezione di network di imprese nella regione, spingendo sempre di più le aziende
committenti le lavorazioni di confezione nei paesi asiatici, a scegliere nelle prossimità
dell’area anche i fornitori di tessuti. Questo è vero in entrambe le forme di
outsourcing, sia industrializzato che commercializzato45, dove in entrambi i casi il
44 F.Rampini, “L’impero di Cindia”, Mondadori, 2006. 45 Nell’industrializzato il terzista si occupa solo del taglio e della confezione di tessuti e accessori forniti dal committente; nel commercializzato il terzista si occupa anche
67
ricorso a fornitori limitrofi al luogo di confezione dei capi si traduce in una
diminuzione dei costi di logistica e di trasporto., nonché in un accorciamento dei
tempi di produzione.
Citando ancora il Rampini: “finchè la Cina ci sottraeva solo l’industria tessile dei
filati e degli stracci, la maglieria e i jeans, potevamo specializzarci nei mestieri più
avanzati, come i macchinari ad alto valore da vendere all’industria tessile cinese. Ma
la necessità per la Itema di venire a produrre in Cina è un campanello d’allarme serio.
È il segnale che, anche nel settore più sofisticato, il nostro vantaggio può avere le ore
contate.”46
Detto questo, se, come sostiene SMI, la qualità e l’eccellenza dell’offerta italiana sono
determinate da know-how e competenze diffuse, flessibilità a garanzia di quick-
response e personalizzazione, continua innovazione incrementale, stile e creatività,
possiamo affermare che la battaglia è aperta, dato che i paesi asiatici di nuova
industrializzazione di sicuro non stanno a guardare quando si parla di processi di
apprendimento, il che potrebbe in breve tempo portarli a sviluppare un know-how
simile al nostro. Per quanto attiene la quick-response, come osservato in precedenza,
lo spostamento della fasi di confezione nel sud est asiatico non fa che avvantaggiare i
fornitori di tessuti locali, a discapito delle nostre aziende, che hanno visto ridursi le
proprie quote di mercato a seguito del processo di delocalizzazione (è un po’ come un
gelataio di fronte ad una scuola: anche se il suo gelato è più buono, i suoi affari
sicuramente diminuiranno se la scuola verrà spostata in un altro quartiere, il tutto a
vantaggio del gelataio più vicino alla nuova scuola).
dell’approvvigionamento dei tessuti e degli accessori necessari al confezionamento. L’outsourcing commercializzato prevede quindi una delega più ampia rispetto all’industrializzato, a cui seguono solitamente differenze anche negli accordi sui pagamenti. 46 Opera citata “L’impero di Cindia”.
68
Anche per quanto riguarda l’innovazione di prodotto, c’è da dire che, a parte gli
apprezzabili sforzi compiuti mediante alcuni progetti ad hoc47, l’Italia non brilla per le
sue attività di R&S, al contrario dei NIEs, dove significative quote degli utili vengono
destinate ai processi atti a creare innovazione.
Oltre a questo si aggiunga che nel nostro paese la produttività del lavoro è statica,
mentre nei paesi asiatici cresce di anno in anno, avvicinandosi sempre di più al nostro
livello.
Rimane tra i principali asset individuati da SMI in merito all’eccellenza dell’offerta
italiana, il fattore stile e creatività. Su questo punto possiamo stare più tranquilli:
prima che i NIEs possano anche solo avvicinarsi al livello universalmente
riconosciuto come il top, proprio del nostro paese, devono passare davvero molte
primavere, o meglio, molte collezioni primavera/estate e autunno/inverno.
L’unico paese asiatico per ora in grado di competere, pur senza minacciare, con il
predominio italiano del gusto e della creatività, è forse il Giappone, il paese più
avanzato del continente, in cui hanno ricevuto i natali nomi importanti del design
contemporaneo, e in cui la ricerca sul fronte creativo assume dimensioni degne di
nota. Tuttavia tale ricerca risulta per lo più nell’affermazione su scala mondiale di
numerosi designer del Sol levante, i quali per lo più contribuiscono alla crezione di
collezioni per i brand occidentali (un esempio è Yoshi Yamamoto per Adidas), mentre
la presenza di brand nipponici sul panorama internazionale stenta ancora ad
affermarsi.
47 Vedasi il Progetto Tessuti Nanotecnologici, vincitore del bando Hi-Tex del 2006, cofinanziato da UE e Regione Toscana, allo scopo di sviluppare progetti innovativi nel settore tessile.
69
3.2. La realtà della PMI
Come abbiamo accennato, il settore T/A è caratterizzato dalla presenza massiccia di
PMI tra i suoi operatori.
Peraltro tale proporzione non è un fenomeno caratterizzante solo tale settore, bensì è
tipico di tutto il nostro sistema industriale, e anche di quello europeo. Per avere un
riferimento statistico, basti pensare che, dei 18 milioni di imprese presenti nel
territorio dell’UE nei settori non agricoli, oltre il 99% sono PMI. Esse occupano il
66% della manodopera e producono il 55% del fatturato complessivo.48
Quando parliamo di PMI, facciamo riferimento alla definizione prevista dall’attuale
disciplina comunitaria (2003/361/CE), entrata in vigore il 1 gennaio 2005.
Si definisce :
• media impresa quella che presenta un numero di addetti compreso tra le
50 e le 249 persone, un volume d’affari fino a 50 milioni di euro o un
totale di bilancio non superiore a 43 milioni di euro;
• piccola impresa quella con un numero di addetti compreso tra le 10 e le
49 persone, un soglia di volume d’affari o di totale di bilancio non
superiore a 10 milioni di euro;
• microimpresa, quella caratterizzata da un numero di addetti inferiore a 10
unità e da una soglia di volume d’affari o di totale di bilancio non
superiore ai 2 milioni di euro.
Oltre ai parametri quantitativi, viene definito anche il requisito dell’indipendenza, al
fine di identificare in maniera corretta la realtà economica delle PMI ed escludere
48 S. Maiorino, “Le strategie di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese”, documento Internet tratto dal sito http://www.tesionline.it.
70
dalla definizione quelle appartenenti a gruppi di imprese, il cui potere economico
risulta superiore rispetto a quello di una PMI.
L’attuale disciplina comunitaria distingue tre tipi di impresa (impresa autonoma,
impresa associata, impresa collegata) a seconda del tipo di relazione in cui si trovano
rispetto ad altre imprese, in termini di partecipazione al capitale, diritti al voto o di
influenza dominante.
Nello specifico, si definisce:
• impresa autonoma, quella che non possiede partecipazioni del 25% o più in
un’altra impresa; non è detenuta direttamente al 25% o più da un’impresa o da
un organismo pubblico, oppure congiuntamente da più imprese collegate o
organismi pubblici, a parte talune eccezioni; non elabora conti consolidati e
non è ripresa nei conti di un’impresa che elabora bilanci consolidati e quindi
non è un’impresa collegata;
• impresa associata (partner), quella che intrattiene relazioni di partenariato
finanziario significative con altre imprese, attraverso una partecipazione pari o
superiore al 25% del capitale o dei diritti di voto, senza che l’una eserciti un
controllo effettivo diretto o indiretto sull’altra;
• impresa collegata, quella appartenente ad un gruppo che controlla
direttamente o indirettamente la maggioranza del capitale o dei diritti di voto,
oppure ha la capacità di esercitare un influenza dominante su un’impresa.
Operare in un contesto internazionale, significa dover competere con aziende
provenienti da tutto il mondo, significa perciò competere anche con modelli di
business e di impresa differenti.
L’impresa italiana è da sempre caratterizzata da una struttura societaria di tipo
familiare, in cui non c’è divisione tra la proprietà e il controllo dell’azienda.
71
L’approvvigionamento delle risorse finanziarie avviene principalmente mediante
mezzi propri e ricorso al capitale di terzi rappresentato in prevalenza da finanziamenti
bancari, con tutti i vincoli (garanzie, fideiussioni…) che ne limitano l’erogazione.
Tale struttura rappresenta un difficile ostacolo all’espansione dimensionale delle
nostre imprese che, come abbiamo osservato, rimangono ancora oggi rilegate a
dimensioni medio-piccole, peraltro senza grandi prospettive di crescita.
Tale modello di business risulta arcaico e anacronistico se confrontato con il modello
anglosassone, in cui la separazione tra la proprietà e il controllo dell’impresa è
avvenuto già da molto tempo e i mezzi finanziari vengono raccolti tramite l’ingresso
nella compagine azionaria di grandi investitori (banche d’investimento, fondi) e di
masse di piccoli azionisti. Le imprese anglosassoni possono raggiungere grandi livelli
dimensionali, in virtù del loro essere public company, ovvero società “pubbliche”,
detenute da molti soggetti portatori di interessi. Il management è nominato dalla
proprietà, ma agisce con indipendenza. Sono gli amministratori i responsabili della
gestione dalla società e delle sue performance e, a fine mandato, vengono “giudicati”
dagli azionisti in base al loro operato e, quindi, più o meno confermati in base ai
risultati raggiunti.
Nonostante il sistema anglosassone non sia di certo immune da giochi di potere e altri
vizi, possiamo sostenere che si presenti, comunque, come un modello di impresa più
efficiente rispetto al modello tradizionale, come quello italiano, in cui
l’amministrazione dell’azienda è ancora in larga parte esercitata dall’imprenditore
proprietario, spesso non in possesso di requisiti di professionalità adeguati a scenari
complessi come quelli odierni, e spesso incapace di dare attuazione a processi di
delega fondamentali per la spersonalizzazione dell’impresa, il primo passo nella
direzione di un processo di crescita dimensionale.
72
La PMI italiana operante nel T/A si ritrova, pertanto, a competere con colossi esteri,
dotati di solide strutture finanziarie e in grado di estendere il proprio raggio d’azione a
livello mondiale con relativa semplicità.
Aziende come Nike, Adidas, The North Face, Abercrombie & Fitch, tanto per citarne
alcune, possono contare sulla partecipazione di azionisti del calibro di Barclays Plc e
JP Morgan & Co.49
Le uniche aziende italiane del T/A che possono vantare strutture finanziarie di questo
tipo sono soltanto i pochi colossi dell’alta moda riconosciuti a livello internazionale
che, peraltro, sono spesso in larga parte detenuti da capitali esteri.
Come abbiamo accennato in merito all’impatto della fine del sistema delle quote, uno
degli effetti previsti è quello di un consolidamento a favore dei grandi gruppi e a
discapito delle PMI.
Effettivamente risulta difficile immaginare uno scenario in cui i grandi colossi
multinazionali competono ad armi pari con le nostre PMI che tentano timidamente di
conquistare qualche nuovo mercato.
Da quanto detto sembrerebbe emergere un auspicio all’avvio di fenomeni di
concentrazione tra imprese, al fine di formare organismi con masse critiche sufficienti
a competere nel mercato mondiale, che sfruttino sinergie e aumentino il loro potere
contrattuale.
L’osservazione empirica fornisce dati confortanti in questo senso e delinea un trend
secondo il quale le imprese italiane del T/A hanno capito l’importanza di crescere a
livello dimensionale e di strutturarsi sulla scia del modello delle public company di
stampo anglosassone.
49 http://www.transnationale.org
73
Nella tabella sotto riportata è possibile osservare una crescita nel numero di
operazioni di fusione e acquisizione (M&A, da Merger & Acquisition) avvenute tra le
imprese di T/A nell’ultimo decennio. Si sottolinea, inoltre, il sempre maggiore peso
relativo del Private Equity nel finanziamento delle operazioni di M&A, segno che,
anche in Italia, sta prendendo piede questa forma di approvvigionamento di capitale,
che limita in parte il monopolio del ricorso al credito bancario.
Rapporto tra operazioni di M&A (Merger & Acquisition) e Private Equity Anno n° operazioni M&A Private Equity %
1998 59 7 11,9 1999 122 16 13,1 2000 158 18 11,4 2001 155 18 11,6 2002 162 16 9,9 2003 173 20 11,6 2004 170 34 20,0 2005 165 32 19,4 2006 158 39 24,7 2007 174 50 28,7 Totale 1496 250 16,7
Fonte: Pambianco Strategie d’Impresa srl
Se fino ad oggi il modello della PMI, con tutti i vantaggi dati da flessibilità e rapidità
di adeguamento al mercato, ha rappresentato un vantaggio competitivo per le nostre
aziende, non si può non ammettere che, nel confrontarsi con un mercato non più solo
italiano, ma mondiale, emergano tutti i limiti di un modello di impresa che può
puntare al massimo alla sopravvivenza, e non di certo alla crescita e alla conquista di
quote di mercato.
74
Detto questo, sarebbe opportuno studiare delle strategie rivolte alla crescita
dimensionale, che siano al contempo in grado di intaccare nel minor modo possibile i
vantaggi che caratterizzano la PMI. Il riferimento è alla costituzione di aggregazioni
di imprese nella logica del gruppo, quello che la normativa europea esclude dalla
definizione di PMI in virtù del suo maggiore potere economico, all’interno del quale è
possibile realizzare sinergie, economie e aumento del peso contrattuale, pur
mantenendo intatte le singole unità costituenti.
L’unione fa la forza e, per dirla con un gusto squisitamente orientale: “L’uno è più
della somma delle sue parti”.
75
Capitolo 4. Strategie di internazionalizzazione per la
PMI
4.1. I motivi dell’internazionalizzazione
Molto spesso si fa riferimento alla debolezza strategica da parte delle PMI nei mercati
internazionali, debolezza evidenziata dalla mancanza di un approccio strutturato e
pianificato e dalla conseguente relativa scarsa volontà di impegnarsi in un’ottica di
lungo periodo, dimostrata dalla prevalenza di sistemi di offerta indifferenziati e
dall’adozione di forme di internazionalizzazione poco coinvolgenti, quali la semplice
esportazione. D’altro canto, spesso il basso grado di integrazione nei mercati esteri è
associabile non tanto a “carenze strategiche”, bensì a limiti di carattere finanziario,
dovuti a forme di impresa non strutturate che faticano a trovare i mezzi necessari a
impostare un chiaro piano di entrata nel mercato globale.
Nello stesso tempo, oggi le PMI si vedono costrette ad affacciarsi sul panorama
internazionale, a causa dell’aumento della pressione competitiva proveniente dai paesi
esteri; oltre a questo ci sono valide motivazioni a sostegno della scelta di
internazionalizzarsi, come la possibilità di sfruttare risorse presenti in altri paesi
(come nel caso della delocalizzazione produttiva), o di conquistare mercati emergenti.
L’ideale sarebbe “prendere due piccioni con una fava”, ovvero realizzare entrambi gli
scopi in un’unica azione. Come vedremo l’azienda Bailo Spa è riuscita a realizzare
quest’impresa nel mercato coreano.50
Pertanto, l’impresa può assumere un atteggiamento passivo nei confronti
dell’internazionalizzazione, usandola come arma di difesa dalla concorrenza, oppure
può usarla come arma d’attacco, seguendo un approccio pro-attivo. Potremmo
50 Per approfondire l’argomento si rimanda al capitolo dedicato alla Bailo Spa.
76
indicare con metaprogramma “via da” il primo caso (nel senso di “via dal pericolo”) e
di metaprogramma “verso” il secondo (nel senso di “verso l’obiettivo”). Il concetto di metaprogramma viene in questa sede mutuato dalla scienza della
Programmazione neuro linguistica, una branca della moderna psicologia che
raggruppa un’insieme di tecniche psicologiche e comportamentali atte
all’individuazione e al ricalco dei comportamenti che portano al successo.
Possiamo paragonare il metaprogramma “verso” alla situazione in cui è presente e
delineata una chiara strategia, la quale alimenta e indirizza le azioni svolte
dall’impresa nella direzione del raggiungimento di un chiaro e raggiungibile obiettivo.
In presenza di una strategia le decisioni vengono prese per tempo, dopo un’analisi più
o meno approfondita delle variabili del gioco. Potremmo associare metaforicamente
tale tipo di intervento ad un motore diesel, il quale necessita di un po’ più di tempo
rispetto al motore a benzina per entrare a pieno regime. Ma questo motore è un diesel
capace, una volta partito, di prestazioni ben superiori a quello a benzina, benché nel
breve periodo della partenza quest’ultimo si inneschi più rapidamente.
Il motore a benzina a cui si fa qui riferimento è il caso di un’impresa che, in difficoltà,
come lo sono ora molte imprese che non hanno saputo prevedere l’entità della
concorrenza che stava bussando alla porta, si ritrovano nella necessità di trovare
velocemente delle soluzioni per reggere la competizione, sia dal punto di vista
produttivo che dal punto di vista distributivo, e non hanno ancora individuato una
strategia in tal senso.
Non è raro il caso, indotto anche dalla presenza di management non competente, di
ricorso a forme di internazionalizzazione che potremmo definire “selvagge”, ovvero
implementate senza un chiaro disegno strategico formulato a priori, ma inventate al
momento per scappare dal pericolo, in linea con paradigmi di tipo “via da”. In tali casi
77
è pur vero che nell’immediato sia anche possibile sopravvivere, innescando tutta la
potenza del motore a benzina, magari accordandosi con il primo produttore estero
incontrato o con l’unico importatore conosciuto in fiera, ma spesso tali tipi di
manovre non pagano nel lungo periodo e sono fonte di guai per gli imprenditori che vi
ricorrono.51
In un suo intervento al CNA Federmoda dell’Emilia Romagna52, il presidente
dell’ufficio ICE di Bologna, dott. U. Franco, sottolineava come i mercati vadano
affrontati in maniera sistematica mediante l’adozione di un’ottica di medio-lungo
periodo, giacchè le politiche di tipo “mordi e fuggi” (o hit and run), fino a poco
tempo fa applicabili, oggi sono sconsigliatissime, poiché non in grado di fornire
sostanza e durata alla presenza dell’impresa nel mercato prescelto e dato che,
soprattutto oggi, non basta entrare nel mercato, ma bisogna pure rimanerci.
Nell’approcciarsi ai mercati internazionali è, pertanto, oggi più che mai, necessario
munirsi di un orientamento strategico di fondo, che permei tutte le decisioni prese a
livello tattico, sempre mantenendo vivo e lucido l’obiettivo che si vuole raggiungere.
Detto questo, vediamo nel dettaglio quali sono le possibili strategie attuabili
dall’impresa che si affaccia sul panorama internazionale, e che vuole, dopo l’ingresso,
consolidare la sua presenza nel medio-lungo periodo, con l’obiettivo non solo di
salvarsi, ma anche di crescere e svilupparsi come realtà del mondo globalizzato.
51 Entrare da sprovveduti nei mercati internazionali può costare caro: non è raro il caso di aziende messe in ginocchio proprio a causa di “bidoni” presi all’estero. 52 “Ricerca sul mercato dei tessuti e dell’abbigliamento nella Federazione Russa”, a cura dell’ufficio ICE di Mosca, presentata presso il CNA Federmoda di Bologna l’11 giugno 2009.
78
4.2. Pianificazione strategica dell’internazionalizzazione
Il primo passo da compiere per l’impresa che punta ai mercati internazionali è
individuare il vettore di crescita (paese/mercato/prodotto) e quindi definire il paese,
o l’area geografica, in cui si decide di entrare, il segmento di mercato a cui si intende
rivolgere la propria offerta, e infine i prodotti che si decide di offrire nel mercato
individuato. Nell’individuare il vettore di crescita è importante prendere in
considerazione una serie di fattori condizionanti per la scelta, i quali vanno individuati
sia all’esterno sia all’interno dell’organizzazione. Bisogna in sostanza guardare fuori e
guardarsi dentro. Rispettivamente si andranno a valutare: condizioni di ingresso nel
mercato estero, variabili macro-ambientali del mercato estero, struttura e clima
competitivo del mercato estero, e struttura e clima competitivo del mercato nazionale,
per quanto riguarda le variabili esogene all’azienda; obiettivi dell’impresa,
valori/tradizioni/cultura/clima organizzativo dell’impresa, risorse disponibili,
forze/debolezze/vantaggi competitivi specifici, caratteristiche specificità del
portafoglio prodotti, per quanto attiene le variabili endogene da prendere in
considerazione.
A questo punto l’impresa può formulare la propria strategia di ingresso nel mercato
estero, articolando il processo di definizione della stessa in tre fasi fondamentali:
1. analisi del mercato estero (analisi esterna);
2. analisi dei punti di forza e di debolezza dell’impresa (analisi interna);
3. scelta della modalità di ingresso nel mercato estero.
1. L’analisi del mercato estero serve ad individuare nuovi mercati e si dovrebbe a sua
volta articolare in tre fasi:
79
a. selezione dei mercati con il maggiore potenziale, sulla base di esperienze
precedenti (dell’azienda o dei suoi dirigenti); imitazione di altre imprese; secondo
il metodo degli stadi di sviluppo, ovvero individuando la capacità di assorbimento
di un mercato in funzione del reddito pro-capite (che indica il potere di acquisto
medio) o della composizione settoriale del PIL; con il metodo dei fattori chiave,
mediante il quale si stabiliscono alcuni fattori chiave ritenuti indispensabili per
sottoporre il mercato ad ulteriori analisi (per esempio si fissa un livello minimo di
PIL pro-capite considerato necessario).
b. Analisi di mercato “a tavolino”, in cui vengono presi come criteri di riferimento:
• La situazione politica (forma di governo e stabilità dello stesso), economica
(tipo di regime economico, barriere all’importazione, economia “sommersa”)
e sociale (demografia, classi sociali, gruppi etnici), nonchè la disponibilità di
risorse naturali e la distanza geografica;
• Le macro-variabili economiche che incidono sull’andamento della domanda,
come il PNL (la sua origine e la sua destinazione, nonché il suo tasso di
sviluppo); la dimensione e il ritmo di crescita della popolazione; il livello del
reddito pro-capite e il suo ritmo di sviluppo;
• La domanda potenziale, quindi consumi e investimenti privati, consumi e
investimenti pubblici;
• Le relazioni con l’estero: composizione e andamento delle importazioni;
principali paesi fornitori; bilancia commerciale e bilancia dei pagamenti;
controlli alle importazioni, barriere tariffarie e non tariffarie (autorizzazioni,
contingenti, ecc.); rapporti di cambio;
• Nel caso di IDE, anche altre informazioni quali l’atteggiamento del paese nei
confronti degli investimenti esteri, le forme giuridiche per costituire le
80
imprese, la regolamentazione della concorrenza (protezione di marchi e
brevetti, licenze, ecc.), sistema fiscale e creditizio.
c. Analisi in profondità, ovvero l’indagine diretta sul mercato estero per
individuare la giusta combinazione prodotto/mercato. Questa fase, in tutto simile
all’analisi di marketing che si usa intraprendere nel mercato interno, si articola in :
• Analisi prodotto/mercato/segmento;
• Analisi della concorrenza;
• Distribuzione della domanda (per area geografica, per classi di potenziali
compratori);
• Profilo del consumatore (reddito, età, sesso, classe sociale, analisi delle
motivazioni d’acquisto, analisi dei canali di vendita, presenza di stagionalità,
individuazione fattori che agiscono su vendite e redditività); Individuazione
del marketing mix, tenendo conto del peso relativo attribuito alle varie fasi dal
mercato target;
• Vincoli riguardanti l’accesso al mercato, costituiti da limiti alle importazioni
(licenze, autorizzazioni), vincoli valutari, costi di trasporto e di assicurazione.
• Infrastrutture di marketing, ovvero si deve verificare la disponibilità e la
specificità nle mercato estero dei canali di distribuzione di comunicazione.
2. L’analisi dei punti di forza e di debolezza dell’impresa (analisi interna) è
riconducibile all’analisi SWOT, motivo per cui si rimanda ad un buon manuale di
marketing.
In aggiunta alle considerazioni valide per il mercato interno andrebbe valutata anche
la propria preparazione in relazione alla disponibilità di risorse finanziarie, necessarie
per far fronte ai maggiori investimenti fissi o al maggior capitale circolante richiesto
per rispondere a dilazioni di pagamento più lunghe, maggiori rischi finanziari e
81
problemi di cambio, tipici dei rapporti con l’estero, nonché andrebbe valutata la
propria capacità logistica e di rispettare regolamenti doganali e contratti
internazionali.
In merito a quest’ultimo punto può essere utile rivolgersi ad aziende specializzate che
offrono servizi di logistica internazionale per conto terzi.53
3. La terza fase è quella della scelta della Entry mode, ovvero della modalità di
ingresso nei mercati esteri.
In un primo momento l’impresa deve identificare e selezionare, tra tutte le possibili
modalità tra le quali può optare, quelle più rispondenti ai suo obiettivi.
L’impresa può scegliere tra i seguenti approcci:
• Approccio Naif, consistente nella scelta a priori di una specifica forma di
ingresso e dall’adozione di tale modalità in tutti i paesi, oppure nell’imitazione
delle scelte di altre imprese. Si noti che tale condotta non deriva dagli obiettivi
e dal vettore di crescita dell’impresa. Con questo approccio si risparmia lo
sforzo di cercare e verificare la coerenza con la scelta del
paese/mercato/prodotto e spesso ci si limita a seguire le mosse di altre
imprese. Pertanto tale condotta è riconducibile alla nostra metafora del motore
a benzina.
• Approccio pragmatico, che consiste nella selezione delle modalità di ingresso
privilegiando la riduzione del rischio. Tale approccio è usato solitamente in
presenza di una strategia di esplorazione, nella quale importanza assumono la
riduzione delle barriere all’uscita e la facilità di disimpegno.
• Approccio strategico, quello che si può considerare il meno “improvvisato” e
il più razionale. Esso adotta un’ottica di pianificazione di medio/lungo termine
53 Si cita qui la ditta Mazzoleni & Facori, la quale ci ha fornito valide informazioni per quanto concerne il trattamento doganale delle merci del T/A.
82
e tiene conto della necessità di investire e immobilizzare risorse, di acquisire
capacità e vantaggi competitivi specifici e della necessità di controllo delle
attività estere. Secondo tale approccio l’analisi delle modalità di ingresso va
realizzata comparando le caratteristiche del paese/mercato estero con gli
obiettivi dell’impresa, con le risorse necessarie all’ingresso, il grado di
controllo esercitatile sulle attività, il rischio percepito e i risultati conseguibili.
L’approccio strategico è quello che abbiamo metaforicamente chiamato
motore diesel, il quale, pur impegnando più tempo a partire rispetto per
esempio all’approccio Naif, una volta a regime permette performance ben
superiori e più durature rispetto al motore a benzina, il quale nello sprint
spesso esaurisce gran parte del carburante.
Indipendentemente dal tipo di approccio che l’impresa andrà ad adottare, le forme di
presenza nei mercati esteri possono fondamentalmente raggrupparsi in due modalità, a
loro volta divise in sottogruppi, ordinate in base al livello di coinvolgimento nel
mercato internazionale:
1. Modalità di presenza basate sull’esportazione
Esportazione indiretta
Esportazione diretta
2. Modalità di presenza contrattuali (integrazione con i mercati esteri)
Produzione all’estero
• Cessioni di licenze, Know-how, brevetti (contro
royalties)
• Contratti di produzione (outsourcing commercializzato)
• Contratti di assemblaggio di parti componenti
(outsourcing industrializzato)
83
• Apertura filiale di produzione (attraverso IDE)
Rete di distribuzione all’estero
• Franchising
• Piggy back
• Joint Ventures con imprese locali
• Apertura filiale di vendita (subsidiary) (IDE)
L’esportazione indiretta è quello che per molte imprese è stato il primo approccio al
mercato internazionale. Può essere utile per testare il mercato senza esporsi
significativamente con investimenti. Nel caso dell’esportazione indiretta, si ricorre
alla vendita di prodotti e servizi oltre confine mediante esportazione gestita
dall’utilizzatore o da un intermediario (importatore/distributore, trading company,
export broker, foreign buying service). Generalmente i rischi vengono assunti
dall’intermediario. È questa la forma più utilizzata in assenza di una chiara strategia, o
in mancanza di risorse finanziarie, o ancora in fase di esplorazione o in presenza di
una strategia “mordi e fuggi”.
Ad un livello di coinvolgimento più alto si trova il ricorso all’esportazione diretta e
della vendita diretta all’estero, attraverso cui l’impresa si avvicina al compratore. In
questo caso l’impresa assume direttamente l’iniziativa della penetrazione
commerciale. Avvia contatti diretti con i potenziali clienti o intermediari. Gestisce
trasporti, consegne, prezzi e modalità di pagamento.
I vantaggi sono la disponibilità di maggiori informazioni sul mercato, maggiore
sensibilità al cambiamento della domanda, la possibilità di assistenza pre e post-
vendita e la possibilità di affrontare i concorrenti locali ad armi pari.
A fronte dei vantaggi è necessario dotarsi di mezzi per rispondere alla maggiore
complessità: è necessario avere a disposizione un mark-up sul costo sufficiente a
84
coprire i costi di penetrazione commerciale, bisogna disporre di risorse e competenze
organizzative adeguate per l’attività in più mercati nonché è necessario fornire al
cliente estero la stessa assistenza dei concorrenti locali.
Ad un livello di coinvolgimento ancora maggiore, necessario al fine di stabilizzare ed
ampliare la propria posizione sui mercati esteri, l’impresa ricorre a forme di
integrazione nel mercato target, esportando la produzione o essendo direttamente
presente nella distribuzione.
Il ricorso alla produzione all’estero può essere dettato da esigenze di vicinanza ai
mercati di sbocco oppure, come è principalmente accaduto in relazione al settore
abbigliamento, da esigenze di abbattimento dei costi.
In riferimento a questo settore, si sottolinea come, inizialmente, il prinicipale
vantaggio, se non l’unico, del produrre nei PVS fosse il basso costo della
manodopera. Ma negli ultimi anni, soprattutto in Cina, i vantaggi sono andati
aumentando, in funzione della crescita del livello infrastrutturale nel paese. Come
osserva l’industriale Miro Radici “in Val Seriana aspettiamo da vent’anni una strada
decente per ridurre la congestione dei trasporti, qui, attorno all’aeroporto di Shanghai,
spuntano nuove autostrade ogni anno”.54
In più, quelli che fino a qualche anno fa erano visti solo come mercati di
approvvigionamento, stanno velocemente diventando anche interessanti mercati di
sbocco, sulla scia dell’aumento del potere d’acquisto della popolazione locale,
permesso dall’aumento del PIL, in parte dipeso dalle stesse delocalizzazioni.
54 F. Rampini, “L’impero di Cindia”, Mondadori, 2006.
85
Basti pensare che negli ultimi anni, come si è detto nel paragrafo dedicato al T/A in
Italia, il valore delle esportazioni di prodotti di abbigliamento dal nostro paese alla
Cina è aumentato del 14,8%55.
Riassumendo, le modalità di ingresso nei mercati esteri non sembrano essere l’una
alternativa all’altra, bensì appaiono come consequenziali, lungo un percorso di
progressiva integrazione con i mercati target.
La logica è, pertanto, quella di un aumento dell’integrazione in funzione della crescita
del tasso di assorbimento del mercato. Si potrrebbe così iniziare sondando il mercato
mediante il ricorso all’esportazione indiretta, per poi, una volta consolidati i volumi di
vendita, passare alla vendita diretta fino all’apertura di una propria filiale nel paese
estero.
Non va, però, dimenticato che, a maggior integrazione (e quindi controllo sul
mercato), corrisponde un più alto grado di rischio.
Infatti tra grado di controllo e grado di rischio esiste una relazione di proporzionalità
diretta, come si evince dalla figura 4.1.
55 Ricerca sul mercato dei tessuti e dell’abbigliamento nella Federazione Russa”, a cura dell’ufficio ICE di Mosca, presentata presso il CNA Federmoda di Bologna l’11 giugno 2009.
86
Figura 4.1. Trade off tra grado di rischio e grado di controllo
Produzione
ALTO
SOLE VENTURE
Grado di JOINT VENTURE rischio OUTSOURCING INDUSTR.TO
OUTSOURCING COMMERC.TO
LICENZE
BASSO Grado di controllo ALTO
Distribuzione
ALTO
Grado di SOLE VENTURE rischio JOINT VENTURE
FRANCHISING
EXPORT DIRETTA
EXPORT INDIRETTA
BASSO Grado di controllo ALTO
87
La modalità di presenza in assoluto più integrata, la quale è senz’altro implementata
seguendo una logica di lungo periodo, è il ricorso a forme di IDE.
L’investimento Diretto Estero è, secondo la definizione in uso56, “quel tipo di
investimento internazionale effettuato da parte di un soggetto residente in un dato
paese (investitore diretto estero), in un’impresa residente presso un altro paese
(impresa oggetto di investimento diretto estero). Tale investimento ha l’obiettivo di
ottenere un interesse durevole, cioè esso mira a stabilire una relazione di
lungo termine tra il soggetto partecipante e l’impresa partecipata, nonché un grado di
influenza significativo nella gestione dell’impresa.”
Come si evice dalla definizione il ricorso a IDE non ha niente a che fare con strategie
di tipo “hit and run”, ma presuppone un orientamento strategico di fondo che guarda
al lungo periodo.
Esso, pertanto, è solitamente accessibile ad aziende di dimensioni medio-grandi,
dotate di solide strutture finanziarie e organizzative, in grado di pianificare strategie
su livelli temporali dilatati.
Dato che l’adozione di una strategia basata su IDE risulta di difficile attuazione per la
PMI, oggetto del presente sudio, non ci dilungheremo nella descrizione di tale forma
di investimento, e ci limiteremo a citare le forme attraverso le quali può essere
realizzata, che sono essenzialmente due: l’investimento in sole venture, ovvero con
partecipazione dell’intero capitale della nuova impresa, a sua volta realizzabile
seguendo due differenti strade (il c.d. greenfield, che, come suggerisce il nome,
consiste nella creazione ex-novo di impianti, stabilimenti o filiali dell’impresa nei
56 Acocella, Pazienza, Reganati, “Le statistiche sugli investimenti diretti esteri e sull’attività delle imprese multinazionali”, Rapporto di ricerca della Commissione per la garanzia dell’informazione statistica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Luglio 2002.
88
luoghi prescelti; o con il ricorso all’acquisizione di imprese già esistenti, localizzate
nei paesi target); oppure ricorrendo a forme di joint venture, tra l’altro sconsigliate in
alcuni paesi, specialmente in Cina, in forza di alcuni vincoli relativi alla gestione della
società.
Sia nel caso di sole venture che di joint venture è altresì necessario valutare
attentamente il regime economico del paese di destinazione dell’investimento, onde
evitare spiacevoli situazioni legate a processi di nazionalizzazione messi in atto dai
governi locali.
In sintesi, le forme di internazionalizzazione a cui può ricorrere la PMI si riducono
generalmente a quelle che non prevedono il coinvolgimento del capitale all’estero.
Se gli IDE rimangono appannaggio di imprese dotate di dimensioni critiche per
significativi investimenti di capitale, le PMI possono pur sempre ricorrere a forme
meno integrate, ma comunque valide.
Il ricorso all’outsourcing offshore per quanto riguarda la produzione e
l’implementazione di una rete di agenti/distributori per quanto riguarda l’aspetto
distributivo, con magari l’aggiunta di qualche vendita diretta ottenuta con la
partecipazione a fiere internazionali, rappresenta una strategia di
internazionalizzazione pressoché alla portata di tutte le aziende, anche quelle di
piccole dimensioni.
Come vedremo nel capitolo che segue, anche la Bailo, pur rientrando nella categoria
della piccola impresa, ha saputo attuare una strategia di questo tipo.
89
Capitolo 5. Il caso Bailo Spa
5.1. La Storia
L’azienda nasce negli anni 20 del secolo scorso, come commerciale di tessuti e filati,
quando Tullio Zotta Bailo inizia la sua attività di commerciante, acquisendo la
materia prima nel Tesino e riportandola, una volta trasformata, nella sua valle, per
rivenderla.
Nel 1954 inizia l’attività produttiva a Castello Tesino, in provincia di Trento.
Negli anni settanta la Bailo assume la fisionomia di azienda industriale grazie
all’impulso dei fratelli Bruno e Livio Zotta Bailo, figli del titolare, che si
specializzeranno rispettivamente nello sviluppo dell’area commerciale e nella
gestione dell’area amministrativa e finanziaria.
Verso la fine degli anni settanta Bailo viene contattata dalla multinazionale
americana W.L Gore&Associati e selezionata tra cinque aziende italiane leader di
settore a cui fornire il proprio prodotto tessile: Il GoreTex (oggi riconosciuto a livello
mondiale come la fibra impermeabile e traspirante per eccellenza).
Tale partnership ha permesso all’azienda di posizionarsi come leader nella qualità e le
ha permesso di sviluppare prodotti studiati per la pratica degli sport più estremi quali
roccia e alpinismo ad alta quota. Già in questo periodo vedono la luce i primi tentativi
di penetrazione dei mercati esteri grazie all’inserimento in azienda del figlio di Livio,
Gianni Zotta Bailo, fresco di una lunga esperienza di studio all’estero. I risultati sono
però marginali.
Nei primi anni 80 l’azienda vive una fase di rapido sviluppo, tale da richiedere il
passaggio ad una struttura industriale organizzata.
90
Viene chiamato un consulente esterno per la ristrutturazione aziendale, con
conseguente trasferimento in Veneto di buona parte delle funzioni aziendali, lasciando
negli stabilimenti di Castello e Cinte, le fasi produttive.
Vengono fatte assunzioni a livello di quadri intermedi e quindi istituzionalizzato il
passaggio da una struttura organizzativa semplice ad una struttura accentrata per
funzioni, con un chiaro organigramma aziendale che ne evidenzi le competenze.
È negli anni ottanta che Bailo assume la denominazione di SPA con l’aumento di
capitale a 2,7 mln di lire.
Negli stessi anni, grazie ad un idea di Gianni Zotta Bailo, reduce da un viaggio nello
Yosemite Park in America, in cui intravede le potenzialità dell’emergente sport del
Free Climbing, nasce la linea Think Pink, che si afferma immediatamente sul mercato
e che è ancora oggi un marchio noto.
La tempestiva espansione della linea Think Pink e la richiesta di ingenti investimenti
in comunicazione, attirano pericolosamente molte delle risorse della Bailo spa
impattando non solo sulla dimensione organizzativa e viene così deciso di staccare la
linea e farne una azienda a sé stante.
Verso la fine degli anni 80, La Think Pink a seguito di un pericoloso disequilibrio
finanziario dovuto alla velocità di espansione dei volumi di vendita, insieme ad una
poco accorta politica di controllo, viene ceduta al gruppo Tecnica spa. La Bailo
interviene come supporto finanziario e professionale al perfezionamento della
cessione.
Indebolita dall’operazione Think Pink, ma con la volontà di riscuotere lo stesso
successo sul mercato della Think Pink, la Bailo mette in atto un’altra serie di
iniziative che però non riscuotono il successo auspicato.
91
L’azienda reagisce a questo periodo difficile riconcentrandosi sul rilancio della
tradizionale produzione Bailo.
Ma se in passato la produzione e la vendita di linee di abbigliamento specializzate ad
alto contenuto tecnico per la pratica degli sport estremi erano risultate sufficienti per
lo sviluppo dell’azienda, ora diventa necessario poter contare su più ampi mercati di
sbocco, raggiungibili con un offerta in grado di soddisfare le esigenze di un numero
maggiore di consumatori tra loro eterogenei. Vengono così inserite diverse linee sci e
sport attivo con fasce prezzi più aggressive ed in linea con le richieste del mercato.
Con lo scopo di individuare altre vie di espansione, Bailo inizia a partecipare ad
alcune gare d’appalto nazionali e /o regionali per la fornitura ad enti quali Enel, Vigili
del Fuoco, Vigili Urbani e Guardie Forestali, quelli che oggi vengono identificati
come “mercati speciali”.
È in questi anni che l’azienda avvia, per la prima volta, un processo di
delocalizzazione produttiva nei paese dell’est europeo (Romania e Repubblica Ceca)
e in Cina per poter avere una miglior razionalizzazione dei costi produttivi.
Gianni Zotta Bailo, nel 1999, presenta un ambizioso progetto di crescita dell’azienda
come conseguenza di un aggregazione di marchi complementari e sinergici che
avrebbe risolto il problema della dimensione di Bailo, garantendo importanti
economie di scala. Il progetto doveva essere finanziato da un’importante gruppo
bancario d’affari.
Per poter dare inizio al progetto senza attendere la firma definitiva con la Merchant
Bank individuata, Gianni Zotta Bailo si fa finanziare dalla Banca di Trento e Bolzano
e contemporaneamente Bruno Zotta Bailo firma un accordo d’uscita con il nipote, in
quanto, pur condividendo le linee guida del piano, aveva un’altra visione sui tempi ed
i modi di realizzazione.
92
Grazie al “finanziamento ponte” della Banca Trentina, nel dicembre del 2000, viene
acquisita la Silvy Tricot spa di Bolzano, marchio storico delle alpi Europee, e nel
2001 viene siglato un contratto di esclusiva con la sede della National Geographic,
per lo sfruttamento del marchio per la produzione e commercializzazione di prodotti
di abbigliamento nel mondo. A questo punto, nel 2001, la Bailo spa cambia
denominazione sociale in Discovery Enterprise spa.
Vengono triplicate le linee di prodotto e definiti contratti con agenzie di distribuzione
dislocate in tutto il mondo, e viene così implementata per la prima volta una
sistematica azione di penetrazione nei mercati esteri.
Purtroppo già nel 2001 il gruppo subisce un primo grosso colpo, dovuto al blocco dei
consumi in America per l’attentato terroristico dell’11 settembre. I volumi di fatturato
attesi tardano a venire, in parte per il rallentamento dell’economia ed in parte per la
mancanza di una politica diversificata e attenta per i tre marchi.
La banca d’affari che avrebbe dovuto fungere da capo gruppo al progetto liberando il
socio Bruno Zotta, non trova l’accordo definitivo con Gianni Zotta ed annulla la sua
promessa di impegno, rendendo nullo conseguentemente anche l’accordo di cessione
sottoscritto tra i due soci.
I costi aziendali nel frattempo sono cresciuti sensibilmente, l’acquisto della società
Silvy Tricot si rivela più oneroso di quanto si potesse intravedere dalla Due Diligence
affidata allora alla Arthur Andersen di Milano.
E’ il margine Bailo che faticosamente traina tutta l’azienda.
L’impresa si trova in una fase di stallo nella quale le risorse per investire nelle nuove
collezioni non sono più sufficienti. Bruno Zotta Bailo si trova a dover affrontare la
più grave e difficile crisi della storia della Bailo (allora Discovery Enterprise). Il
93
Presidente, Bruno Zotta, riprende in mano la gestione aziendale e inizia una lenta e
dolorosa fase di ristrutturazione con:
- la cessione, in licenza produttiva e commerciale, del marchio Silvy;
- la cessione del contratto con la National Goegraphic (per non dover sopportare i
minimi di volumi richiesti dal contratto);
- la negoziazione contrattuale per l’esodo di tutta la “neo assunta” classe
dirigenziale.
La proprietà sceglie senza dubbi di fare “marcia indietro” dal progetto di transizione
da azienda familiare ad azienda manageriale multimarchio, rimettendosi in gioco, per
ricominciare una nuova fase focalizzata sul marchio Bailo.
Nel 2007 i due soci trovano l’accordo per la cessione dell’intero pacchetto azionario
del gruppo a Bruno Zotta Bailo che ne acquisisce la piena proprietà divenendo
amministratore unico in tutte le società; la Bailo si riappropria del nome d’origine con
la ritrovata denominazione sociale Bailo spa.
Oggi Bailo si ritrova sulla linea di partenza, forte sicuramente di un significativo
bagaglio di esperienza, ma indebolita dalle vicissitudini degli ultimi anni che hanno
ostacolato ed impedito gli investimenti e le iniziative di rilancio concreto del
marchio. La potenzialità di quest’ultimo, confermata anche dal mercato
internazionale, insieme alla caparbia e determinata azione della famiglia, sono i
pilastri su cui l’azienda conta di costruire il nuovo futuro.
94
5.2. L’azienda oggi
5.2.1. Aspetti societari
Attualmente nel gruppo Bailo orbitano tre società. La capogruppo è Preapina Srl,
partecipata al 100% dal sig. Bruno Zotta Bailo; Prealpina Srl possiede l’82,10% di
Bailo spa. Il 12,10% è detenuto direttamente dal sig. Bruno Zotta Bailo ed il
rimanente 5,8% è detenuto dalla società Bailo Immobiliare srl, che aveva la proprietà
dell’edificio, oggi ceduto, e che attualmente possiede altre proprietà immobiliari.
Infine c’è la Silvy Tricot srl posseduta al 100% da Bailo spa (vedasi organigramma
alla pagina seguente).
Il fatturato nel 2007 si aggira sui 7,5 milioni di euro, in calo rispetto al 2006, in cui si
erano superati i 9 milioni. Generalmente il volume d’affari si conferma comunque
sempre sotto i 10 milioni di euro, ragion percui, in concomitanza con la presenza di
un numero di addetti inferiore a 49 (i dipendenti dell’azienda sono 42), è possibile
classificare la Bailo Spa come una piccola azienda, in conformità ai criteri di
classificazione adottati dalla Comunità Europea.57
Vedremo nel seguito una panoramica del mercato in cui opera Bailo, identificheremo
i principali competitors e vedremo le strategie di internazionalizzazione adottate da
queste aziende.
57 V. supra, La realtà della PMI.
95
96
5.2.2. Il mercato di riferimento
In questo paragrafo si riporterà una sintesi dei risultati dell’analisi di marketing svolta
dall’azienda per il mercato interno. Tale analisi è, peraltro, l’unica disponibile dato
che, come avremo modo di dire, l’azienda ricorre a forme di esportazione indiretta, il
che funge da ostacolo alla raccolta di informazioni utili a fornire un’offerta mirata e
ben calibrata per i mercati esteri.
L’azienda ricorre pertanto ad un approccio di marketing indifferenziato, ossia
all’offerta di un solo prodotto (in questa accezione inteso come una sola gamma di
prodotti) in tutti i mercati. L’unica differenziazione specificamente adottata in
funzione del mercato target riguarda il mercato coreano, come vedremo molto
significativo per le esportazioni Bailo, all’interno del quale vengono venduti dei capi
progettati con maniche più corte, in adeguamento alla diversa struttura fisica propria
degli abitanti della Corea.
I prodotti offerti da Bailo si inquadrano nel settore dell’abbigliamento sportivo per la
montagna.
Ogni anno l’azienda progetta e distribuisce due collezioni, una primavera/estate (P/E)
e una autunno/inverno (A/I); quest’ultima, data la tipologia di prodotto trattato, è di
gran lunga la più significativa.
All’interno delle collezioni stagionali vengono studiati prodotti indirizzati a due
mondi di riferimento: il Mondo Rosso, a sua volta suddiviso in tre linee, e il Mondo
Verde, che oggi comprende solo la linea da caccia, essendo stata, quest’anno,
eliminata l’altra collezione, la Mountain Road, che non offriva i necessari margini di
guadagno e distoglieva risorse necessarie allo sviluppo delle collezioni più redditizie.
Le tre linee appartenenti al Mondo Rosso differiscono tra loro in relazione al grado di
tecnicità incorporato nel prodotto e di conseguenza in relazione al prezzo. La ratio
97
della suddivisione è quella di coprire più segmenti di mercato, dall’alto al basso delle
fascie di prezzo.
La linea top di gamma è la Mountain Protection, comprendente capi di abbigliamento
pensati per un utilizzatore esperto della montagna (alpinisti, sci-alpinisti, free-
climbers…). I prodotti appartenenti a questa linea sono caratterizzati da un alto grado
di tecnicità, il quale garantisce protezione e funzionalità anche nelle situazioni più
estreme, quali sono quelle che si presentano in alta quota. La contropartita
dell’intensivo utilizzo di tecnologia è un prezzo che si situa nella fascia medio-alta del
mercato e che risulta appetibile solo per pochi utilizzatori sportivi esperti e consci
della tecnicità del prodotto. Questo si traduce in un apporto relativamente ridotto della
linea al fatturato complessivo. Tale linea permette però il posizionamento nel mercato
come brand sinonimo di qualità e tecnicità. Usando un paragone con il mondo
dell’alta moda, potremmo definire la Mountain Protection come l’Haute Couture di
Bailo, ovvero la linea che, pur apportando poco in termini di redditività, conferisce al
brand il ritorno di immagine fondamentale per la vendita del Pret-à-porter, le linee
meno costose e più redditizie.
Il grosso dei volumi di vendita proviene, infatti, dalle altre due linee, meno tecniche e
posizionate su fasce di mercato più basse.
Si chiama Winter Trekking la linea di abbigliamento pensata per il frequentatore della
montagna, anche non sportivo, il quale non necessita del contenuto tecnico presente
nella Mountain Protection e che è disposto a pagare decisamente meno per una giacca
invernale rispetto all’alpinista di professione.
Ad integrare la presenza sul mercato di Bailo c’è la linea Free Ride, ideata per la
pratica dello sci alpino. Si sottolinea che proprio quest’anno l’azienda ha vinto la gara
98
d’appalto per la fornitura delle tute dell’ AMSI (Associazione Maestri di Sci Italiani),
il che dovrebbe tradursi in un positivo ritorno di immagine.
Come accennato nel paragrafo relativo alla storia, è già da anni che Bailo partecipa a
gare d’appalto per la fornitura di prodotti a particolari enti e associazioni, riuscendo
nel tempo ad ottenere testimonial quali il Soccorso Alpino di Bolzano, le Guide
Alpine di Cervinia, alcuni reparti del Corpo di Protezione Civile, l’Esercito italiano
impegnato in missioni di pace all’estero, nonché una spedizione di scienziati e
ricercatori in Antartide.
L’azienda attribuisce rilevanza strategica a tali forniture, sia in termini di volumi di
vendita, e quindi di redditività, sia in chiave di marketing. A quelli che l’azienda
definisce “mercati speciali” è infatti preposta una area a parte della direzione
commerciale.
Per quanto riguarda il target di riferimento per i prodotti Bailo, recenti analisi di
mercato hanno individuato un profilo del consumatore principalmente di sesso
maschile, di età compresa tra i 35 e i 45 anni, libero professionista, dirigente o
artigiano. Questa classe di consumatori rappresenta il 56% del fatturato Bailo, il che,
a fronte della considerazione che tale tipo di consumatore sembra essere stato
limitatamente toccato dalla recessione, fa sperare in un andamento positivo dei
fatturati futuri.
Riportiamo di seguito il risultato delle analisi di mercato svolte dall’azienda, basate su
rilevazione effettuta con un questionario preparato ad hoc, rivolto alla forza vendita e
ai rivenditori.
99
Il target di consumatore Bailo è così suddiviso:
• Uomo: 79%
• Donna: 19%
• Bambino: 1%
• Accessori: 1%.
100
UOMO
Età
Da 25 a 35 anni 30 % Da 35 a 45 anni 61% Oltre i 45 anni 9%
Titolo di studio
Media inferiore 6% Media superiore 88% Laurea 6%
Professione
101
Impiegato 34% Libera professione 28%
Dirigente / Quadro sup. 14% Insegnante 3% Artigiano 14% Operaio 7%
DONNA
Età
Da 25 a 35 anni 57% Da 35 a 45 anni 35% Oltre i 45 anni 8%
Titolo di studio
Media inferiore 6% Media superiore 88% Laurea 6%
102
Professione
Impiegata 60% Libera professione 20% Dirigente / Quadro sup. 8% Insegnante 4% Operaia 8%
103
COMPETITORS DI RIFERIMENTO
I competitors che oggi sono più rappresentativi
SALEWA 30% THE NORTH FACE 21% MONTURA 14% COLUMBIA 14% MILLET 9% ALTRI (suddivisi in 6 marchi diversi) 12%
I competitors che, nei prossimi tre anni, saranno i più significativi
SALEWA 38% MONTURA 31% MILLET 7% THE NORTH FACE 5% COLUMBIA 5% MAMMUT 5% ALTRI (suddivisi in 4 marchi diversi) 9%
104
Le analisi di mercato sono uno strumento molto importante sotto l’aspetto strategico:
esse costituiscono una fondamentale parte del Sistema Informativo aziendale e
permettono alle aziende di conoscere l’ambiente in cui si muovono e quindi di
calibrare la propria offerta.
Per esempio, per quanto riguarda le consumatrici di sesso femminile, la stessa Bailo è
rimasta sorpresa nel constatare che l’età di riferimento per la donna è quella compresa
tra i 25 e i 35 anni, quando si era convinti che il target da tenere in considerazione
fosse quello delle over 35. Tale scoperta ha portato con sé una ridefinizione
dell’offerta, nella direzione di una maggiore attenzione ai colori, ai tagli e ai dettagli
per quanto strettamente inerente il prodotto, ma anche nel senso di una diversa
strategia di comunicazione, allo scopo di rendere la propria offerta più accattivante e
appetibile e dunque più idonea a soddisfare una domanda più giovane di quella che si
era prevista.
Tale “correzione del tiro” è stata resa possibile proprio grazie al ricorso all’analisi di
mercato svolta, senza la quale si sarebbe corso il rischio di uscire sul mercato con un
prodotto non idoneo al target.
105
Come abbiamo detto, tale analisi di marketing è stata realizzata mediante ricorso ad
un questionario ad hoc rivolto alla forza di vendita e ai rivenditori. Ovvero, tale
analisi è stata resa possibile dal contatto diretto con questi ultimi e, in definitiva, con
la vicinanza al mercato.
Si capisce a questo punto come la maggiore distanza e il relativo minor grado di
controllo che caratterizza la presenza sui mercati esteri, rappresenti un limite alla
raccolta di informazioni sensibili, tale da rendere più difficile l’adeguamento
dell’azienda ai gusti dei consumatori e, di conseguenza, si traduca in uno svantaggio
competitivo e ancora in una maggiore difficoltà a stare sul mercato.
Purtroppo la forma dell’esportazione indiretta rappresenta una scelta obbligata per
molte PMI, in ragione degli importanti sforzi, finanziari ma anche di organizzazione,
che si rendono necessari in conseguenza di strategie di maggiore integrazione con il
mercato estero.
5.3. Strategie di internazionalizzazione a confronto
La prima cosa da evidenziare, osservando i risultati dell’indagine di marketing
relativa ai competitors di riferimento, è la maggiore presenza di concorrenza straniera
rispetto al decennio scorso: se negli anni novanta i più significativi concorrenti di
Bailo erano Fila e Samas58, ovvero due aziende italiane, oggi i principali marchi in
competizione sono Salewa (dell’ Alto Adige ma con “mentalità” molto tedesca), The
North Face (USA), Columbia (USA), Millet (Francia), Lafuma (Francia), Mammut
(Svizzera). L’unica azienda italiana nella lista dei competitors è Montura.
58 Paola Zotta, “I processi di apprendimento organizzativo: il caso Bailo”, Università degli studi di Trento, A.A. 1994-95.
106
Come si vede il settore dell’abbigliamento sportivo da montagna non è rimasto
escluso dal processo di globalizzazione.
I competitors di Bailo differiscono in relazione alle forme di internazionalizzazione
adottate. Ad esclusione di Montura, che produce in Italia e in Romania, le altre
aziende localizzano la produzione nel far east asiatico, e soprattutto in Cina, anche se
diversa è la modalità di presenza adottata. I prodotti a marchio americano The North
Face vengono prodotti in Asia all’interno di stabilimenti produttivi di proprietà
dell’azienda, la quale ha dunque fatto ricorso a IDE per aprire le proprie filiali estere.
Tale strategia è resa possibile dalla solida struttura finanziaria a disposizione
dell’impresa titolare del marchio, del cui capitale partecipano numerose banche di
investimento e altri investitori istituzionali. Le altre aziende concorrenti ricorrono
invece, per lo più, a forme di outsourcing offshore di tipo commercializzato.
Per quanto riguarda l’aspetto distributivo, The North Face distribuisce mediante filiali
di proprietà sparse in tutto il mondo, mentre Salewa e gli altri marchi più piccoli
ricorrono ad un mix di esportazione diretta e indiretta nei mercati target. Un caso a
parte è il marchio Montura, per il quale il mercato estero incide in maniera poco
significativa sul fatturato.
Venendo a Bailo, le strategie di internazionalizzazione adottate, sia dal punto di vista
produttivo che da quello distributivo, sono riconducibili alle forme meno integrate
con il mercato estero.
La produzione viene allocata per l’80% in Cina, secondo una logica di
commercializzazione del prodotto. Ovvero, assieme alle quantità ordinate vengono
spedite ai produttori asiatici tutte le informazioni relative al prodotto mediante schede
tecniche, cartamodelli e tabelle misure. I fornitori, ultimate le produzioni, secondo un
107
piano concordato, spediscono FOB59 China alla destinazione indicata da Bailo, che si
cura della logistica.
Il restante 20% della produzione viene eseguita in outsourcing industrializzato nei
paesi dell’Est Europa, principalmente in Ucraina e in Romania. In questo caso è Bailo
che calcola la fattibilità ed il fabbisogno ordinando i materiali e gli accessori da
inviare in conto lavorazione presso i laboratori selezionati.
A queste due logiche produttive seguono diverse condizioni di pagamento che
influiscono inevitabilmente sull’equilibrio finanziario dell’azienda.
Per la produzione di commercializzato è d’uso la lettera di credito, o comunque il
credito documentario, solitamente da aprirsi subito dopo l’ordine fatto o, quanto
meno, prima della spedizione dall’Asia. Questo si traduce in un anticipo di gran parte
dei costi produttivi rispetto alla fatturazione, e può, in media, peggiorare anche di
quattro mesi l’esposizione finanziaria.
Per la produzione di industrializzato, solitamente la condizione di pagamento è la
ricevuta bancaria a 30-60 giorni, con evidenti vantaggi in termini di liquidità.
Chiaramente in questo secondo caso si ha l’esborso finanziario realtivo ai materiali-
tessuti che sono a carico di Bailo.
59 Acronimo di Free on Board. È una delle clausole contrattuali prevista negli Incoterms. Essa stabilisce che a carico del venditore siano tutte le spese di trasporto fino al porto d'imbarco, compresi eventuali costi per la messa a bordo della nave, nonché le spese per l'ottenimento di licenze e documentazioni per l'esportazione dalla nazione di origine e quelle per le operazioni doganali sempre di esportazione. Dal momento in cui la merce è considerata pronta per la partenza tutte le altre spese sono da considerarsi a carico dell'acquirente, compresi i costi di assicurazione. Per quanto concerne la responsabilità della merce questa passa dal venditore al compratore al momento in cui la merce stessa supera fisicamente la verticale della murata della nave. Nel caso del trasporto ferroviario, del trasporto via strada e del trasporto aereo il termine equivalente è Free Carrier (FCA) (Fonte: Wikipedia).
108
Un’altra differenza tra i due sistemi di outsourcing è relativo al trattamento doganale.
Mentre nel caso del commercializzato la merce entra in Italia in regime di immissione
in libera pratica, con pagamento del dazio sul valore intero del capo, comprensivo di
façon, tessuti e accessori (il dazio è del 12% sul valore del capo finito e non è ridotto
in funzione dell’appartenenza della Cina ai paesi beneficiari del Sistema di Preferenze
Generalizzate60, poiché, causa di un “rigurgito protezionistico”, i prodotti del T/A
sono esclusi dal regime preferenziale); nel caso dell’industrializzato è possibile
sfruttare i vantaggi del regime doganale del Traffico di Perfezionamento Passivo
(TPP) e conseguentemente pagare il dazio soltanto sul valore attribuibile alla
lavorazione, con abbattimento del dazio sui materiali componenti.
In entrambi i casi di outsourcing, il controllo sull’avanzamento della produzione è
essenziale ed è un nodo particolarmente complesso. Attualmente la politica di
controllo della qualità e dell’avanzamento dell’industrializzazione avviene mediante
la trasferta di personale aziendale italiano in loco e tramite la figura di un quality
controller esterno. L’azienda sta tuttavia prendendo in considerazione l’idea
dell’implementazione di una struttura, anche societaria, presente direttamente vicino
ai laboratori, in modo da consentire un controllo più stretto sul processo produttivo.
A livello contrattuale, emerge un deficit di forma nella disciplina degli accordi di
fornitura. O meglio, i contratti esistono, vengono stipulati e accettati nelle varie
clausole e, solitamente, viene individuato a Ginevra il foro competente in caso di
controversie, ma, nella prassi, tali contratti spesso non vengono nemmeno firmati.
60V. supra, nota 10 a pag. 18.
109
Insomma, gli accordi vengono rispettati fintanto che le cose vanno bene ma, nel caso
in cui si “litighi”, le sorti della controversia sono tuttaltro che definite.61
Per quanto riguarda la distribuzione all’estero, la fase di ingresso di Bailo nei mercati
internazionali è da ricondursi ai primi anni ’90, a seguito dell’incremento del
fenomeno di saturazione del mercato interno.
In quel periodo la entry mode prescelta è il ricorso ad una rete di distributori
indipendenti cui viene delegata la definizione delle politiche e delle strategie locali.
Anche oggi, Bailo ricorre quasi integralmente alla forma dell’esportazione indiretta: i
contatti vengono tenuti con una rete di importatori/distributori e di agenti presenti nei
mercati esteri di sbocco.
Tale modalità è sinonimo di distacco dal mercato e non permette all’azienda di
maturare la necessaria conoscenza per porsi in maniera più diretta con la clientela
oltrefrontiera e calibrare con più precisione la propria offerta.
Per questo Bailo guarda con sempre maggiore interesse ai gruppi di acquisto, che si
stanno imponendo come foma sempre più rilevante nella distribuzione su larga scala.
Attraverso queste strutture si cerca di incrementare in modo sostanziale il fatturato,
migliorando i margini di profitto a fronte di spese di intermediazione inferiori, senza
tralasciare i vantaggi derivanti da un rapporto più stretto con il mercato target, in
termini di informazioni a sostegno della strategia aziendale.
In più, sempre nell’ottica di aumentare il grado di integrazione con il mercato estero,
l’azienda stava recentemente valutando l’idea di aprire una filiale negli Stati Uniti,
con l’obiettivo di gestire direttamente le vendite all’interno del vasto mercato
americano. Tuttavia, l’attuale crisi economica, che ha colpito principalmente proprio
61 I partner cinesi dimostrano scarso interesse a formalizzare gli accordi e, forti di una lunga fila di aziende pronte a prenotare la produzione, ricorrono a spiegazioni che in italiano potrebbero suonare più o meno come “O così, o Pomì”.
110
gli USA, ha influenzato tale decisione, tanto da rimandarla a tempi più propizi, dato
che era stato previsto, in condizioni di mercato antecedenti alla crisi, un periodo di tre
anni per il raggiungimento del break even point, mentre, allo stato dei fatti, i tempi
previsti per il recupero dell’investimento si sono sensibilmente dilatati.
Tirando le somme: mediante il ricorso all’esportazione indiretta più qualche contatto
tenuto direttamente con qualche cliente, le vendite all’estero incidono per circa il 30%
del fatturato complessivo dell’azienda (vedi grafico)
Fatturato Bailo per area geografica
Fonte: Bailo Spa
All’interno di questo 30% di esportazioni, il peso relativo di ciascun mercato sul
totale è ripartito nel modo seguente:
• Corea del Sud: 21%
• Giappone: 19%
• Austria: 18%
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• Germania: 8%
• Spagna: 8%
• USA: 8%
• Taiwan: 6%
• UK: 5%
• Francia: 3%
• Polonia: 3%
• Rep. Ceca: 1%
Suddivisione del fatturato estero di Bailo
Fonte: Bailo Spa
Come si può osservare, il principale mercato estero di sbocco per i prodotti Bailo è
rappresentato dalla Corea del Sud.
112
Il motivo di questo è sicuramente attribuibile alla composizione del microambiente
coreano, caratterizzato dalla presenza di rilievi montuosi molto simili allo scenario
alpino, il che rende desiderabili i capi di abbigliamento outdoor. Ma, da un altro punto
di vista, una così significativa penetrazione in questo mercato è da attribuirsi alla
stretta rete di relazioni che si sono andate a instaurare dal punto di vista della fornitura
dei tessuti che, come abbiamo già accennato, provengono in misura notevole proprio
da aziende coreane. L’infittirsi dei rapporti commerciali con questo paese per
questioni produttive ha permesso di scoprire in esso anche un ottimo mercato di
sbocco per le proprie merci. Forse i coreani sono consci di guadagnare acquistando i
capi Bailo, dato che questi ultimi sono in larga parte prodotti con tessuti made in
Korea.
Forse la stessa cosa potrà verificarsi nel prossimo futuro in relazione al mercato
cinese. Per oggi, tuttavia, tale paese non risulta significativo per le esportazioni
dell’azienda, in conseguenza della segmentazione del mercato interno che vede, da
una parte una minoranza di consumatori ad altissimo reddito più propensi al consumo
dei brand del superlusso (italiani in testa) e, dall’altra, una maggioranza di
consumatori a bassissimo reddito, i quali non dispongono, almeno per ora, del potere
d’acquisto necessario per i prodotti Bailo.
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CONCLUSIONI
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Conclusioni PMI e mercato globale.
Suona un po’ come Davide contro Golia.
Nel corso della trattazione si è visto come nel T/A sia andata intensificandosi la
competizione a livello globale in seguito alla recente liberalizzazione.
La Cina è ormai leader indiscussa nella produzione di abbigliamento ed è sempre più
competitiva anche per quanto riguarda il tessile.
La contropartita dell’ascesa cinese è una diminuzione di quote di mercato subita dagli
altri maggiori players, UE e USA in primis.
All’interno dell’UE, l’Italia è il paese più danneggiato, a causa della sua maggior
dipendenza dal T/A in confronto agli altri paesi comunitari.
Le nostre PMI si trovano oggi a confrontarsi con un mercato di dimensioni mondiali,
in cui la legge del profitto non guarda in faccia nessuno.
La prospettiva più drammatica sembra essere quella delle aziende di confezioni in
conto terzi, le quali subiscono la concorrenza di laboratori cinesi nei quali il costo
della manodopera è dieci volte minore, in cui non esistono sindacati e le operaie
lavorano anche 16 ore al giorno, staccando solo una domenica ogni due.62
La massimizzazione del profitto implica la massimizzazione dei ricavi e la
minimizzazione dei costi.
Purtroppo tale ultimo obiettivo è di difficile raggiungimento in Italia, motivo per cui,
volendo essere franchi, non si vedono ragioni che possano frenare l’esodo della
produzione verso il far east, soprattutto verso la Cina.
L’unica soluzione individuata che appare degna di nota è quella emersa nell’ambito
del progetto Leapfrog. L’utilizzo di robot in sostituzione della manodopera a basso
62 F. Rampini, “L’impero di Cindia”, Mondadori, 2006
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costo sembra in effetti una soluzione intelligente ma, per quanto riguarda la sua
effettiva applicazione, per ora è ancora tutto da vedere.
Se quanto detto per le aziende di façon delinea uno scenario pessimistico, tutt’altro
stimolo si ricava dall’osservazione delle nostre aziende di abbigliamento titolari di
brand propri.
Per esse la liberalizzazione del settore rappresenta una ghiotta opportunità di
massimizzazione del profitto.
Queste aziende, infatti, già da tempo ricorrono all’outsourcing per le fasi di
produzione dei capi e l’effetto della liberalizzazione, con la conseguente possibilità di
acquistare in Cina a prezzi più bassi, non può che migliorare la loro situazione, dato
che i costi vengono così minimizzati.
Inoltre per esse la concorrenza non proviene dalla Cina, che nelle fasi della filiera a
più alto valore aggiunto è molto lontana dal nostro livello, ma proviene da altri paesi
industrializzati.
La Cina è, per le aziende con brand, un partner strategico e non un avversario, mentre,
per le imprese italiane specializzate nella sola confezione, è vero il contrario, ossia
che i cinesi sono la peggiore minaccia esistente.
Come si dice a proposito di qualcuno di grosso e potente: “meglio con lui che contro
di lui”.
Quanto osservato porta ad assumere che, nel prossimo futuro, sarà possibile assistere
ad una riqualificazione del personale delle aziende di façon. Essendo che, ormai, sia
la fase di produzione delle serie di collezione sia la fase di realizzazione del
campionario vengono eseguite in far east, l’azienda italiana di confezioni potrebbe
riconvertirsi a service esterno di progettazione e prototipia, le uniche fasi a contenuto
di lavoro qualificato e ancora richieste in Italia dalle aziende titolari dei brand.
117
Un’ultima cosa che potrebbe salvare la nostra industria dell’abbigliamento sarebbe un
aumento vertiginoso del prezzo del petrolio, ad un livello tale da non rendere più
conveniente il sourcing in Cina.
Ma il raggiungimento del picco del petrolio non avrebbe solo questa conseguenza,
bensì condurrebbe ad una sensibile riduzione del commercio internazionale in
generale, con una diminuzione del benessere collettivo tale da non giustificare
esultanze da parte di nessuna lobby, grande o piccola che sia.
È dunque nostra opinione, alla luce dei risultati del presente studio, che la tradizionale
confezione dei capi di abbigliamento in Italia rappresenti un’industria “morente”, che
dispone ancora di qualche anno per riconvertirsi, pena l’estinzione.
Tutta un’altra prospettiva si intravede, invece, per l’impresa titolare di marchio
proprio, che, anche se di medie o piccole dimensioni, può oggi, inserendosi al centro
di una rete internazionale di imprese che vanno dalla produzione alla distribuzione, in
linea con paradigmi di organizzazione snella, mettere in piedi il proprio business
globale, senza peraltro dover sopportare insostenibili sforzi in termini finanziari e
organizzativi.
Certo è che, nel momento in cui l’azienda volesse consolidare la propria presenza sul
mercato mondiale e innescare una fase di crescita, a quel punto si renderebbero
necessari maggiori sforzi, atti all’implementazione di strategie di penetrazione più
integrate con i mercati internazionali, per esempio con il ricorso a IDE.
Per fare questo la PMI dovrebbe ristrutturarsi al fine di raggiungere una dimensione
idonea a rispondere alla maggiore complessità, sia in termini finanziari che di
organizzazione.
Come si è visto, negli ultimi 10 anni sono molte le aziende italiane che si sono mosse
in tal senso, mediante ricorso a fusioni e acquisizioni, sempre di più finanziate con il
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Private Equity, una forma di approvvigionamento del capitale che si sta diffondendo
sempre più anche nel nostro paese.
In definitiva, la situazione si riduce ad una sorta di paradosso:
per vincere Golia, o Davide si fa snello, oppure si fa grosso!
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BIBLIOGRAFIA
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