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Paper for the Espanet Conference “Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in
Europa” Roma, 20 - 22 Settembre 2012
Politiche di contrasto a quale povertà? Esercizio della discrezionalità professionale degli assistenti
sociali e percorsi di tutela in un contesto locale
Elisa Noci
Sessione n. 03 Il nodo dell'accesso alle prestazioni di welfare:
i servizi socio-assistenziali come pratiche quotidiane
Lapps - Laboratorio sulle politiche e sui servizi sociali Dipartimento di Scienze dell'Educazione Università di Roma Tre Via Milazzo, 11/b [email protected]
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POLITICHE DI CONTRASTO A QUALE POVERTA'?
Esercizio della discrezionalità professionale degli assistenti sociali e costruzione di
percorsi di tutela in un contesto locale
Introduzione
Nella prospettiva dell'approccio cognitivo allo studio delle politiche sociali, una politica allo
stesso tempo veicola e deriva da una concettualizzazione (un referente) del determinato fenomeno
sociale sul quale interviene. Tali politiche sono in questo senso processi di costruzione di
rappresentazioni, entro i quali sono negoziate definizioni di bisogni sociali meritevoli di interventi
di protezione pubblica. A questi processi complessi partecipano in modo più o meno consapevole
ed esplicito molteplici attori, portatori di interessi non sempre coincidenti. Gli assistenti sociali
deputati all'implementazione di politiche sociali entro un sistema di welfare locale assumono un
ruolo cruciale in quest'ottica: nell'esercizio della loro discrezionalità professionale - assai più ampia
e articolata rispetto a quella di altri street level bureaucrats - al tempo stesso rendono percorribili
percorsi alternativi e concorrono a costruire rappresentazioni sociali di fenomeni suscettibili di
ricevere pubblica tutela.
L'ambito delle politiche di contrasto alla povertà risulta particolarmente significativo per
esplorare tali questioni, tanto per l'attualità del tema, quanto per l'annosa assenza in Italia di una
misura universale di contrasto che riconosca il diritto a specifiche prestazioni. La frammentarietà di
questo settore assegna un ruolo fondamentale all'azione degli enti locali e rende particolarmente
significativo l'esercizio della discrezionalità professionale degli assistenti sociali
nell'implementazione delle misure previste. In questo senso, le pratiche professionali degli assistenti
sociali contribuiscono a definire quale povertà viene contrastata oggi in uno specifico contesto
locale e incidono profondamente sugli assetti di diritti sociali di cittadinanza effettivamente fruibili
sul territorio.
Il paper approfondisce questa cornice teorica, in tre paragrafi dedicati rispettivamente al
livello dell'implementazione delle politiche e al ruolo peculiare che gli assistenti sociali vi
rivestono, all'approccio cognitivo allo studio delle politiche sociali nella formulazione di Pierre
Muller e alle politiche di contrasto alla povertà. Sono poi esposti i risultati di uno studio di caso
focalizzato sull'accesso alle prestazioni di contrasto alla povertà entro un sistema di welfare locale
(Prato, in Toscana). Lo studio ha adottato una metodologia qualitativa attraverso la realizzazione e
3
l'analisi tematica di trentadue interviste semistrutturate ad assistenti sociali nel contesto di
riferimento1.
1. Il livello dell'implementazione delle politiche sociali e il ruolo peculiare degli assistenti sociali L’importanza del livello dell'implementazione delle politiche è ben noto agli studiosi di
politiche pubbliche2. In linea teorica, si tratta di un aspetto non problematico: una volta delineate, le
politiche devono essere attuate da un attore (ad esempio, l'amministrazione pubblica) deputato
all'esecuzione delle azioni previste. Nella realtà, però, le cose non vanno così. All’implementazione
delle politiche contribuiscono moltissimi soggetti (amministratori ai diversi livelli di governo,
professionisti di estrazioni diverse, altri attori della società civile, destinatari delle politiche stesse)
portatori di interessi, valori, obiettivi non necessariamente coincidenti. Nel caos del mondo reale
non si verificano praticamente mai quelle condizioni di perfetta disponibilità di risorse finanziarie,
temporali, strumentali e di controllo gerarchico di ogni soggetto che renderebbero semplice e
1 Le tracce di intervista hanno incluso cinque vignette, casi tipici attraverso i quali sono state ulteriormente indagate le posizioni degli intervistati. Le interviste integralmente trascritte sono state sottoposte ad analisi tematica e lessicale anche con il supporto del software NVivo 8.0. Il paper riporta i risultati di una parte di uno studio più ampio, nell'ambito del quale sono state analizzate le politiche sociali di contrasto alla povertà a livello locale, regionale, nazionale e comunitario attraverso lo studio dei relativi atti normativi e la realizzazione di dieci interviste a testimoni privilegiati. 2 In questa sede, tra le molteplici possibili si prendono a riferimento le seguenti definizioni. Le politiche pubbliche possono essere definite in senso molto ampio come corsi di azione promosse da attori pubblici che intervengono su problemi ritenuti di rilevanza collettiva. Tali corsi di azione comprendono tanto l’identificazione del loro scopo quanto quella dei mezzi per raggiungerlo. Se il ruolo dell’attore pubblico (tipicamente, lo Stato) è centrale nella produzione di queste politiche, è ormai riconosciuto che molti altri attori, pubblici e privati, prendono parte al processo che con un’espressione inglese molto pregnante viene chiamato di policy making. Le politiche, benché possano avere tra i propri punti di riferimento anche oggetti concreti come i testi di legge, non sono oggetti ma costrutti, che risultano dall’interazione tra molteplici attori. Ciò che conta nel determinare una politica è proprio il processo stesso attraverso cui è costruita e implementata, sono gli schemi di comportamento adottati dagli attori coinvolti, più che i singoli atti normativi prodotti [Regonini, 2001]. Non soltanto le azioni proposte, ma la stessa selezione e determinazione dei problemi meritevoli di interesse passa per questa dinamica interattiva, nella quale quindi ogni attore cerca di imporre una propria visione del mondo In questo senso Capano [1995] identifica le politiche pubbliche come «processi intenzionali in cui un numero non prevedibile di attori, portatori di specifici interessi ed idee, interagisce continuamente al fine non solo di mantenere, acquisire o aumentare il proprio potere ma anche di affrontare e risolvere problemi che si ritiene abbiano una rilevanza e/o un impatto collettivo» (p. X). Le politiche sociali possono essere definite come quei corsi di azione «volti a risolvere problemi e a raggiungere obiettivi di natura “sociale”: problemi e obiettivi che hanno a che fare, in senso lato, con il benessere (welfare) dei cittadini»” [Ferrera, 2006, p. 12]. Più nel dettaglio, le politiche sociali sono un «insieme di interventi pubblici aventi scopi ed effetti sociali variabili che vanno da una più equa distribuzione societaria di risorse ed opportunità, alla promozione di benessere e qualità della vita e che, infine, hanno anche lo scopo di limitare le conseguenze sociali prodotte da altre politiche» [Naldini, 2007, p. 19]. Attraverso le politiche sociali, dunque, sono identificati pacchetti di risorse e opportunità ritenuti particolarmente influenti sulle condizioni di vita dei cittadini, nonché stabiliti i criteri e organizzate concretamente le modalità di accesso, produzione e distribuzione di tali pacchetti In altre parole, per questa via sono sanciti i diritti sociali (o diritti di cittadinanza sociale), intesi come titoli di accesso e fruizione a risorse e opportunità rilevanti per le condizioni di vita, e viene garantita la protezione sociale dei cittadini rispetto a determinati rischi e bisogni. Per quanto riguarda l'espressione welfare state, in questa sede, prendiamo a riferimento la proposta definitoria di Maurizio Ferrera [2006]: «un insieme di politiche pubbliche connesse al processo di modernizzazione; tramite le quali lo Stato fornisce ai propri cittadini protezione contro rischi e bisogni prestabiliti, sotto forma di assistenza, assicurazione o sicurezza sociale; introducendo, fra l’altro, specifici diritti sociali nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria» [p. 17].
4
lineare questa fase3. Questa affermazione risulta tanto più pregnante nell’attuale contesto
caratterizzato dalla governance multilivello delle politiche, dall’affermazione del principio di
sussidiarietà, dalla conseguente diffusione di strumenti normativi che favoriscono processi di
concertazione e partecipazione tra più soggetti pubblici e privati nell’attuazione delle politiche4. E’
a livello locale che si manifestano effettivamente sia i percorsi di rischio e bisogno cui sono esposti
gli individui, sia i percorsi di protezione percorribili, in relazione alle caratteristiche specifiche del
contesto, alle risorse e alle criticità presenti [cfr. Saraceno, 2004].
In questa cornice, assume un rilievo particolare il ruolo degli operatori che sono
concretamente deputati all’implementazione delle azioni previste dalle politiche, come osservato
già da Lipsky con le sue ricerche sulla street level bureaucracy [Lipsky, 1980; cfr. Ferrari, 2010;
Saruis, 2008]5. L’autore evidenzia come per capire il funzionamento effettivo delle policies sia
necessario guardare alle organizzazioni in cui queste sono gestite, scendendo a livello locale. La
dimensione organizzativa, infatti, costituisce «un elemento di connessione tra la dimensione delle
relazioni dirette (tra gli operatori, tra gli operatori e gli utenti) e le dimensioni delle politiche sociali
(nazionali, regionali e locali), come il luogo in cui vengono elaborate ed agite, ovvero si concretano,
le politiche e i servizi locali» [Ferrari, 2010, p. 30]. L’organizzazione, inoltre, non costituisce
un’entità omogenea e indifferenziata al suo interno. Al contrario, il funzionamento organizzativo è
il risultato di dinamiche complesse in cui entrano in gioco molteplici dimensioni formali e
informali, tra cui hanno particolare rilievo le relazioni e le interazioni che si sviluppano tra i diversi
settori e tra gli individui che ne fanno parte, sia in senso verticale sia in senso orizzontale. In questa
cornice, «ciascun attore, oltre ad agire – almeno in apparenza – secondo un fine condiviso, può
perseguire pervicacemente il proprio, utilizzando le risorse disponibili a questo scopo» [Ferrari,
2010, p. 30].
All’interno dell’organizzazione, quindi, l’attenzione può essere concentrata sul ruolo degli
operatori a diretto contatto con l’utenza dei servizi, che di fatto realizzano la prestazione finale.
Lipsky osserva così come gli obiettivi e le strategie elaborate a monte, attraverso le complesse
interazioni che costituiscono il processo di policy making, in definitiva non sono altro che ciò che
ne fanno gli operatori, che rivestono quindi un ruolo cruciale6. Gli operatori esercitano tale ruolo
gestendo una più o meno ampia discrezionalità. Ad un estremo ci sono casi in cui le politiche
3 Per un approfondimento di questi temi cfr. Howlett e Ramesh, 2003. 4 Si può parlare a questo proposito di passaggio da amministrazione burocratica a amministrazione post-burocratica, con il cambiamento da un impianto gerarchico caratterizzato da un forte orientamento alle regole ad un impianto di governance che favorisce la rete, gli accordi, l’orientamento allo scopo. Cfr. sul tema Howlett e Ramesh, 2003. 5 Nelle sue ricerche Lipsky non si occupa solo di operatori sociali ma in generale tutti quegli operatori che lavorano in un ambito organizzativo a diretto contatto con l’utenza, ad esempio poliziotti e insegnanti. 6 Tuttavia, va sottolineato che la prospettiva di Lipsky non è meramente micro-sociologica: le politiche pubbliche non si riducono ad una somma di pratiche quotidiane; è la dinamica tra diversi livelli e ruoli che conta.
5
definiscono in modo rigido le procedure e i criteri di attuazione; anche in questo caso resta un
margine di scelta non indifferente per gli operatori che devono interpretare le norme e ricondurre la
multiforme varietà della vita reale alle categorie previste dagli atti normativi. All’estremo opposto
ci sono casi in cui le norme non sono definibili a livello centralizzato ma richiedono
necessariamente un’osservazione specifica e personalizzata delle situazioni; si tratta della situazione
tipica per molte politiche locali di assistenza sociale. Chiaramente, in questi casi la discrezionalità è
molto ampia. Risulta quindi estremamente rilevante per la definizione degli esiti finali delle
politiche comprendere come tale discrezionalità viene gestita dagli operatori e come si realizza
l’interazione con i destinatari delle politiche. Come osserva Dubois [1999], che ha svolto numerose
ricerche in Francia nella prospettiva della street level bureaucracy, è a questo livello che si rendono
fruibili o meno i diritti sociali di cittadinanza, qui si concretizza la relazione tra istituzione e
cittadini; in questa relazione non si trasmettono solo prestazioni assistenziali ma si negoziano anche
ruoli e identità sociali, ed è qui che si esplica anche la funzione di controllo sociale e produzione del
consenso delle politiche pubbliche.
Tra gli operatori deputati all’implementazione delle politiche sociali, il ruolo degli assistenti
sociali è del tutto peculiare. Rispetto agli operatori ‘di sportello’, infatti, gli assistenti sociali sono
un gruppo professionale7 il cui specifico non coincide con la gestione di prestazioni e servizi,
rispetto alle quali tuttavia occupano una posizione di assoluto rilievo esercitando una più o meno
ampia discrezionalità con riferimento a teorie, metodi e tecniche; e a principi e valori etici e
deontologici propri.
La letteratura nazionale e internazionale sul servizio sociale come professione e come
disciplina mette in luce il percorso tortuoso e tutt'altro che concluso compiuto dalle origini ad oggi
sotto entrambi i profili8. Le caratterisiche cruciali del servizio sociale contemporaneo sono ben
sintetizzate dalla definizione attualmente riconosciuta a livello internazionale:
Il servizio sociale professionale promuove il cambiamento sociale, la soluzione dei problemi nelle
relazioni umane, l’empowerment e la liberazione delle persone al fine di migliorarne il benessere.
Utilizzando conoscenze teoriche relative al comportamento umano e ai sistemi sociali, il servizio
7 La discussione sulla appropriatezza della definizione di professione applicata al servizio sociale esula dagli interessi di questo testo e per un approfondimento si rimanda alla ricca bibliografia esistente. Basti evidenziare in questa sede come senz'altro gli assistenti sociali condividono alcune caratteristiche che differenziano nettamente la loro situazione rispetto a quella di altri street level bureaucrats: ad esempio, hanno un proprio titolo di studio legalmente riconosciuto, un ordine nazionale al quale devono iscriversi previo superamento di un esame di Stato, un proprio codice deontologico. 8 Per un approfondimento su questi temi cfr. ad esempio Neve, 2008, Gui, 2004, Dominelli, 2005, Fargion, 2009, Lorenz, 2010.
6
sociale interviene nelle situazioni in cui le persone interagiscono con il loro ambiente. I principi
relativi ai diritti umani e alla giustizia sociale sono fondamentali per il servizio sociale9.
La definizione esplicita gli obiettivi principali propri del servizio sociale, per la realizzazione dei
quali l'azione professionale deve esercitarsi a livello del rapporto tra individuo e ambiente, tenendo
insieme la prospettiva individuale con quella strutturale e di contesto e delineando un impegno
rivolto tanto alla promozione del singolo individuo quanto allo sviluppo della giustizia sociale. La
definizione richiama inoltre l'importanza delle teorie e dei principi etici di riferimento per il servizio
sociale.
Nell'esercizio della propria azione professionale, gli assistenti sociali sono quindi chiamati a
realizzare i propri specifici obiettivi, restando coerenti ai valori e ai principi di riferimento. Sono
cioè portatori di un determinato mandato professionale. Operando in stretto rapporto con il livello
contestuale e comunitario e con le istituzioni di appartenenza, gli assistenti sociali sono però
portatori anche di un mandato sociale e di un mandato istituzionale10. In particolar modo, gli
assistenti sociali che operano nell'ambito delle istituzioni locali di welfare sono chiamati a
implementare politiche sociali che, nell'ottica dell'istituzione stessa, possono presentare dissintonie
e incoerenze rispetto al dettato professionale. Gli assistenti sociali si trovano così a dover riempire il
possibile gap esistente tra i propri riferimenti professionali e le prescrizioni normative e
organizzative11. Il modo in cui questa azione viene svolta assume grande rilievo. Quanto più gli
assistenti sociali riusciranno a giocare il proprio ruolo al livello dell'implementazione delle politiche
sociali restando coerenti con il mandato professionale, tanto più agiranno per la promozione della
giustizia sociale e dei diritti umani - con una ricaduta potenzialmente positiva sui percorsi di tutela
effettivamente fruibili ai singoli individui nei contesti locali. Certamente, più sarà ampio il gap tra
professione e istituzione, più gli assistenti sociali potranno incontrare difficoltà nel restare coerenti
con la propria specificità. Si tratta di un problema particolarmente significativo nel costesto attuale,
in cui si parla ormai da alcuni decenni di crisi del welfare - una crisi economica, certo, ma anche di
legittimazione nei confronti degli strumenti e dell'opera dei sistemi di welfare dei paesi occidentali
sviluppatisi nei decenni del Secondo Dopoguerra, entro i quali si è collocata tradizionalmente
l'azione del servizio sociale.
9 Si tratta della definizione elaborata nel 2001 dall’ International Federation of Social Workers e dall’International Association of School of Social Work: A seguito delle critiche mosse a tale definizione, è stato avviato un processo di revisione che ha avuto inizio nel 2009 e dovrebbe concludersi nel 2012. Tale processo è stato impostato garantendo la massima partecipazione a livello internazionale, in modo da produrre una definizione più condivisa possibile. 10 Per un approfondimento sulla questione del triplice mandato del servizio sociale e per una definizione specifica dei tre mandati si rimanda a Bartolomei e Passera [2005]. 11 Questo spazio di esercizio della discrezionalità professionale può essere definito implementation gap. Cfr. Bertotti, 2010
7
2. L'approccio cognitivo allo studio delle politiche sociali
L'approccio cognitivo allo studio delle politiche sociali può fornire strumenti concettuali
particolarmente appropriati per un'analisi dell'azione del servizio sociale professionale al livello
dell'implementazione delle politiche, nella cornice delle osservazioni riportate nel paragrafo
precedente. In particolare, il riferimento teorico qui adottato è costituito dall'approccio cognitivo
all'analisi delle politiche pubbliche nella elaborazione di Pierre Muller12. Senza alcuna pretesa di
esaustività, impossibile in questa sede, vediamo di seguito i tratti essenziali di questo approccio.
Per Muller, ogni politica pubblica può essere vista come un tentativo di agire sulla società
per raggiungere determinati obiettivi. Tali obiettivi sono definiti a partire da una rappresentazione
del problema, delle sue conseguenze e delle soluzioni perseguibili per risolverlo:
In questa prospettiva, le politiche pubbliche sono molto più che processi di decisione ai quali
partecipano un certo numero di attori. Esse costituiscono il luogo in cui una data società costruisce il
suo rapporto con il mondo, cioè a se stessa: le politiche pubbliche devono essere analizzate come
processi attraverso i quali vengono elaborate le rappresentazioni che una società si dà per
comprendere e agire sul reale per come essa stessa lo percepisce: quali sono i pericoli che la
minacciano? Come redistribuire le risorse? Quale posto accordare allo Stato? [Muller, 2006, pp. 59,
corsivo dell’autore, trad. mia].
Elaborare una politica pubblica per Muller significa quindi innanzitutto costruire una
rappresentazione condivisa, un’immagine della realtà sulla quale si intende intervenire. Gli attori
organizzano la loro percezione del problema e le loro proposte di soluzione in riferimento a questa
immagine cognitiva, che viene quindi definita référentiel (referente). Un referente può essere
12 I cosiddetti approcci cognitivi all'analisi delle politiche pubbliche cercano di analizzare le politiche pubbliche come delle matrici cognitive e normative, dei sistemi di interpretazione del reale entro i quali i diversi attori pubblici e privati inscrivono la propria azione. Si tratta di una tradizione di ricerca poco consolidata in Italia ma con una notevole tradizione – risalente agli anni ’80 - negli Stati Uniti e nei paesi francofoni, dove si parla appunto di approcci (al plurale) perché «l’analisi cognitiva delle politiche pubbliche non costituisce un approccio unificato ma rinvia ad una pluralità di procedure teoriche e metodologiche» [Muller e Surel, 2000, pp. 187-188, trad. mia]. Il punto comune tra i diversi approcci consiste appunto nel ritenere che «le politiche pubbliche sono il frutto di interazioni sociali che danno luogo alla produzione di idee, rappresentazioni e valori comuni. Più precisamente, questi approcci ritengono che le politiche pubbliche sono determinate da credenze condivise dagli attori pubblici e privati coinvolti, le quali definiscono il modo in cui gli stessi attori osservano i problemi sociali e concepiscono le risposte appropriate a tale percezione dei problemi» [Surel, 2000, pp. 235, trad. mia]. In altre parole, il punto di partenza dell’analisi cognitiva consiste nella constatazione che il rapporto tra azione pubblica e problemi pubblici è molto più complessa rispetto all’idea intuitiva per cui le politiche sarebbero semplicemente risposte ai problemi esistenti in un contesto. In questo ambito, l’approccio cognitivo di Pierre Muller appare particolarmente convincente sia per il livello di definizione dell’elaborazione teorica, sia per la fruttuosa applicazione empirica che ne è stata fatta dall’autore e dai suoi collaboratori. Pierre Muller è ricercatore senior (direttore di CNRS) presso il Centro di studi europei dell’istituto Sciences-Po di Parigi. E’ uno dei pionieri dell’analisi delle politiche pubbliche in Francia. Tra le ricerche che sono alla base dell’elaborazione dell’approccio cognitivo se ne ricordano in particolare due, la prima relativa alle politiche agricole, la seconda alla politica aeronautica civile.
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definito come una struttura di senso, un insieme di valori, di norme, di legami causali, di immagini
associati ad un’azione pubblica. Un referente in questo senso possiede tre dimensioni
interconnesse: una dimensione cognitiva che mira a comprendere il reale; una dimensione
normativa che definisce i valori cui fare riferimento nell’affrontare un problema; una dimensione
strumentale in quanto definisce i principi d’azione – coerenti con i valori – che devono orientare
l’azione. In altre parole, si tratta di una struttura di idee e di norme che specifica sia gli obiettivi
delle politiche e i tipi di strumenti che possono essere mobilitati per raggiungerli, sia la natura stessa
dei problemi13. Ogni referente, inoltre, possiede un nucleo centrale ed una cintura protettiva. Il
nucleo centrale è costituito dall’insieme di credenze e di principi strategici che definiscono il campo
delle azioni accettabili e inaccettabili. Il nucleo non può essere modificato che di fronte a gravi
difficoltà o contraddizioni che ne mettono profondamente in discussione la validità. La cintura
protettiva è costituita da elementi più variabili, ossia quell’insieme di piani, programmi e azioni che
mettono in atto i principi del nucleo.
I referenti possono essere di due tipi, tra loro ordinati: referente globale e referente
settoriale. Il referente di una politica pubblica, per Muller, è sempre l’esito di un referente globale e
di un referente settoriale tra loro interagenti. Le relazioni tra le due parti sono dette rapporto
globale-settoriale.
Il referente globale è una rappresentazione generale della società intorno alla quale si
ordinano e si articolano le diverse rappresentazioni settoriali. Comprende un insieme di valori
fondamentali che costituiscono le credenze di base di una società, e di norme basilari che
permettono di scegliere tra più condotte possibili. In questo senso, costituisce la rappresentazione
che una società si fa del suo rapporto con il mondo a un momento dato. Muller specifica che il
referente globale non è una visione uniforme e coerente del mondo: i valori che lo compongono
sono oggetto di conflitto. I referenti sono sempre e comunque costrutti sociali dei quali la coerenza
non è mai perfetta. Quindi, «il referente globale non è consensuale ma circoscrive il campo
intellettuale entro il quale si organizzano i conflitti sociali» [Muller, 2006, pp. 65, trad. mia]. E’
tuttavia un sistema gerarchico, nel senso che in un dato contesto alcune norme risultano prioritarie
su altre: in altre parole, i referenti globali sono grandi quadri di interpretazione del mondo, che 13 Un referente si articola in quattro livelli di percezione del mondo analiticamente distinti sebbene strettamente connessi: valori, norme, algoritmi e immagini. I valori sono le rappresentazioni più profonde di ciò che è bene o male, desiderabile o da rifiutare; definiscono la cornice globale dell’azione pubblica perché indicano cosa è giusto perseguire. Le norme definiscono uno scarto tra il reale percepito e ciò che si ritiene auspicabile. Identificano quindi dei principi d’azione, esprimendosi in massime come: “bisogna diminuire il costo delle spese amministrative”. Gli algoritmi sono delle relazioni causali che esprimono una teoria di azione. Possono essere espressi sotto la forma “se… allora”: “se i disoccupati fossero meglio formati, troverebbero più facilmente lavoro”. Le immagini, infine, sono dei vettori impliciti di valori, di norme o di algoritmi. Comunicano in modo immediato una certa idea, lasciando implicite le sequenze di ragionamento sottostanti. In questo senso, possono veicolare in modo potente stereotipi e pregiudizi, e costituiscono un elemento centrale del referente. Va specificato che affinché determinate norme, algoritmi o immagini si impongano non è necessario che esse siano empiricamente fondate.
9
specificano il ruolo dei diversi attori e mettono ordine tra i diversi sotto-universi di senso che
costituiscono settori o domini dell’azione pubblica14.
Il referente settoriale è la rappresentazione di un settore o di un dominio dell’azione
pubblica15. Il suo primo effetto consiste nel definire i confini di un settore. Come sottolinea Muller,
in effetti, la configurazione di un settore come il sociale o i trasporti dipende strettamente dalla
rappresentazione che ci si fa del posto del sociale o dei trasporti nella società [Muller, 2006, pp. 68].
I confini di un settore quindi non sono dati ma sono oggetto di un conflitto permanente, anche
perché legati all’inserimento di determinate questioni nell’agenda degli interventi pubblici. Tra i
numerosi referenti settoriali in conflitto, tende generalmente a prevalere quello più coerente con la
gerarchia generale di norme e valori esistente nel referente globale.
Tra gli attori che sono coinvolti nella costruzione di referenti globali e settoriali, Muller
identifica degli agenti che rivestono un ruolo di grande importanza e che definisce mediatori. I
mediatori sono attori (individuali o collettivi) che realizzano la costruzione e la trasformazione del
referente di una politica pubblica in un settore, gestendo in particolare le fasi di cambiamento e il
rapporto con il livello globale. Osservando l’azione dei mediatori, Muller sottolinea che il referente
di una politica pubblica non si identifica necessariamente con i discorsi e le prese di posizione delle
élite, dei decisori politici o degli intellettuali nel senso classico del termine: i mediatori più efficaci
di frequente coincidono con i gruppi coinvolti in una determinata questione. Un referente perciò
può incorporare la visione che un gruppo ha del suo stesso ruolo nella società, e contenere una
componente identitaria molto forte. Quindi, «l’elaborazione di una politica pubblica è allo stesso
tempo un processo di costruzione di nuove forme di azione pubblica e, in modo indissolubile, un
processo attraverso il quale un attore collettivo lavora sulla propria identità sociale» [Muller, 2006,
p. 70, trad. mia.]. Come conseguenza di tutto ciò, è impossibile studiare la costruzione di un
referente senza analizzare il ruolo e le interazioni dei diversi attori coinvolti, le loro caratteristiche,
le strategie adottate e i rapporti di potere esistenti. Esiste una relazione circolare tra i due aspetti: un
attore (individuale o collettivo) può assumere la leadership in un settore perché ne definisce il
nuovo referente, ma allo stesso tempo quel referente si impone e viene accettato perché sostenuto da
chi detiene il potere maggiore. Idee e interessi sono strettamente connessi.
14 Muller in quest’ottica ricostruisce i diversi referenti globali che si sono succeduti in Francia nel corso del XX secolo, mostrando i passaggi avvenuti: ad esempio, secondo l’autore a partire dagli anni ’80 si è imposto il referente globale del mercato, portatore di nuove norme per l’azione pubblica: la limitazione della spesa pubblica, la gestione “aziendale”. Anche i processi di globalizzazione introducono successivamente un cambiamento di referente globale, portando a una ridefinizione profonda del ruolo e dello spazio di azione dello Stato. 15 Va specificato che ogni volta che Muller parla di settore dell’azione pubblica non intende semplicemente un comparto della pubblica amministrazione, ma più in generale un ambito di interesse collettivo in un dato contesto. Il concetto di azione pubblica riguarda quindi tutti gli attori che agiscono su ambiti ritenuti di interesse collettivo.
10
Nello specifico, in questa sede si è adottata la definizione di referente proposta da Muller; si
assume l'idea che in ogni determinato contesto sociale e spaziotemporale prevale un dato referente
globale, che esprime un certo rapporto tra le diverse sfere della società e rimanda ad una certa base
valoriale – in senso ampio, ad una certa idea di società giusta. Con il termine referente settoriale si
indicano nel presente lavoro i referenti propri di determinati settori, ambiti o istituzioni della
società: del mercato del lavoro, della famiglia, di un'istituzioni pubblica e così via.
Si introduce, inoltre, il concetto di referente specifico come proprio, appunto, di specifiche
politiche pubbliche o sociali - da intendersi anche come referente proprio di determinati gruppi
sociali o professionali su determinate questioni oggetto di politiche pubbliche o sociali.
Questi diversi livelli interagiscono tra di loro ed un referente specifico ha più possibilità di
affermarsi tanto più risulta coerente con il referente settoriale e globale di riferimento. Individui e
gruppi sociali hanno un margine di libertà nell'agire per imporre un proprio referente specifico -
tuttavia non esiste completa libertà di azione né completa consapevolezza proprio perché il carattere
costruito dei referenti di ogni livello tende a sparire, ed il referente globale in particolare tende ad
imporsi come dato di fatto.
Il processo di elaborazione e diffusione di referenti farà ovviamente ricorso anche a
informazioni, dati, statistiche, esiti di ricerche sociali - quelli più coerenti al proprio fine. Se la
realtà sociale è fotografabile e raccontabile in molti modi diversi (e tutti veri) le informazioni e i
dati possono essere viste in effetti come tessere di un mosaico che può essere composto e
ricomposto secondo disegni alternativi - e tutti validi per descrivere una stessa realtà. Un referente
specifico offre appunto la possibilità di dare una cornice entro cui assemblare tali tessere, e legarle a
dimensioni valoriali e strategiche: in questo senso prescinde dai dati e li precede. Referenti specifici
diversi avranno gradi di efficacia diversi nel far presa sul reale offrendo letture più o meno
convincenti e consentendo di agire su di esso - tale valutazione di efficacia sarà strettamente legata
al referente globale, all’idea di vita buona e di società giusta ampiamente condivisa in un contesto
determinato. Anche per questo un referente specifico incoerente con il referente globale stenterà ad
affermarsi.
3. Le politiche di contrasto alla povertà
L'ambito delle politiche sociali di contrasto alla povertà costituisce un settore di estremo
interesse e particolarmente appropriato per uno studio dell'azione professionale del servizio sociale
nella prospettiva dell'analisi cognitiva, per diversi ordini di ragioni.
11
Innanzitutto, il tema della povertà - e delle relative politiche di contrasto - è di estrema
attualità: prima ancora della odierna crisi finanziaria, le trasformazioni economiche e sociali degli
ultimi decenni hanno portato all'emersione di rischi di pauperizzazione inediti, di fronte ai quali
anche i sistemi di welfare tradizionalmente più solidi si sono trovati poco attrezzati. Il contrasto alla
povertà ha assunto perciò una centralità crescente nell’azione comunitaria a livello europeo, prima
con la strategia di Lisbona, poi con la strategia Europa 2020. E' certamente vero che «siamo ancora
lontani dall'individuare un vero e proprio stato sociale europeo»; come evidenzia Romano [2009 pp.
317-318] «non esiste un'unitaria e organica politica sociale europea, ma un insieme disomogeneo e
disorganico di azioni comunitarie il cui corpus normativo è limitato ai settori tradizionali del diritto
del lavoro, mentre i settori chiave del welfare tra cui l'assistenza sociale sono oggetto di forme
deboli e poco trasparenti di coordinamento delle politiche nazionali i cui effetti significativi si sono
dimostrati marginali». Tuttavia, va ricordato che il percorso che ha portato all'Unione Europea è
nato nel Secondo Dopoguerra con l'obiettivo prioritario di definire politiche comuni in ambito
economico; solo in anni molto più recenti si è affacciata l'idea della possibile rilevanza di comuni
politiche sociali - anche in quanto funzionali allo sviluppo economico. In quest'ottica, pur con molti
limiti e difetti, già la Strategia di Lisbona e il Metodo di coordinamento aperto, attuato in ambito
sociale nel primo decennio del Duemila, hanno dato un impulso forte ad una riflessione comune sul
tema del contrasto alla povertà. Dal 2000 molti passi avanti sono stati compiuti, e il rilancio
effettuato con il 2010 anno europeo della lotta alla povertà e con l'adozione di Europa 2020 fa ben
sperare per il futuro. La nuova strategia, infatti, assegna una centralità maggiore al tema della
povertà, definendo per la prima volta un obiettivo quantitativo di riduzione della povertà da
raggiungere sulla base di una batteria di indicatori che colgono la multidimensionalità del
fenomeno, e individuando la Piattaforma europea contro la povertà tra le iniziative faro della
strategia. In questa cornice, si può auspicare l'avvicinamento all'obiettivo individuato da Pochet:
«ridefinire i principi di giustizia sociale nel quadro di un'economia povera di carbonio, rivedere
indicatori di sviluppo e criteri di progresso sociale [...] pervenire alla società più giusta possibile, in
Europa e altrove» [Pochet, 2009, p. 29].
L'Italia, in questa cornice, si presenta per molti versi in controtendenza. Il nostro paese è
tradizionalmente molto carente in questo settore di politiche sociali; la lotta alla povertà è da sempre
basata su misure categoriali, destinate essenzialmente a chi ha impedimenti specifici all'impegno sul
mercato del lavoro (anziani, invalidi), o delegata alla famiglia. In definitiva la povertà non è mai
stata oggetto di specifiche e organiche politiche di contrasto e a tutt'oggi, nonostante i ripetuti
richiami comunitari, l'Italia resta l'unico paese della UE 27 (insieme alla Grecia) privo di una
misura universale di protezione del reddito. L'esperienza della sperimentazione del reddito minimo
12
di inserimento, infatti, si è conclusa senza l'estensione della misura a tutto il territorio nazionale e la
questione sembra oggi del tutto accantonata. Gli ultimi dieci anni non hanno fatto che aggravare le
lacune delle politiche sociali in quest'ambito; si è assistito al sommarsi di più fattori che hanno
inciso negativamente in questa prospettiva - non solo la presenza di una maggioranza di governo
poco sensibile a questi temi ma anche la riforma del Titolo V della Costituzione che ha fornito un
forte alibi istituzionale con il passaggio della competenza normativa esclusiva in ambito sociale dal
livello nazionale al livello regionale, ad esclusione della definizione dei livelli essenziali di
assistenza, a tutt'oggi peraltro non realizzata. Un altro alibi potente è stato poi reso disponibile dalla
crisi economica degli ultimi anni. Di fatto, le misure introdotte nell'ultimo decennio (una su tutte, la
carta acquisti) si presentano episodiche e frammentarie, certamente non in grado di incidere in
modo efficace su un simile fenomeno complesso, e tutt'altro che in calo dal punto di vista
dell'intensità.
In questa cornice nazionale le Regioni hanno esercitato la loro potestà legislativa nell'ambito
del contrasto alla povertà secondo orientamenti divergenti. Si possono distinguere in particolare tre
gruppi [Ranci Ortigosa e Guglielmi, 2008; Mesini, 2009]: in alcuni casi sono state introdotte misure
di sostegno al reddito familiare in qualche modo ispirate alla sperimentazione del reddito minimo
di inserimento o comunque finalizzate alla tutela del minimo vitale, anche sotto forma di indennità
una tantum; in altri si è cercato di intervenire in modo preventivo sul rischio di povertà provocata
da condizioni di vulnerabilità sociale, ad esempio con progetti di finanza etica e prestiti sull’onore;
in un terzo gruppo si sono implementate misure finalizzate a sostenere l'integrazione delle fasce più
deboli, ad esempio attraverso il finanziamento di progetti del terzo settore rivolti alle marginalità
estreme con recupero e distribuzione delle eccedenze alimentari16. In generale, tra le Regioni
emerge una positiva attenzione al problema, ma anche una estrema eterogeneità e una forte
polarizzazione tra assistenza economica tout court (decisamente prevalente) e interventi di
inserimento sociale e lavorativo, con una notevole difficoltà a integrare politiche appartenenti a
16 Tra le Regioni del primo gruppo si ricordano: Valle d'Aosta, province autonome di Trento e Bolzano, Campania, Basilicata, Lazio. Rientrano nel secondo gruppo tra le altre Calabria, Abruzzo, Puglia. Appartengono invece al terzo gruppo ad esempio Lombardia, Emilia Romagna, Sicilia. Per quanto riguarda la Toscana, regione entro la quale è stata svolta la ricerca presentata nel paper, sebbene la Regione sia notoriamente ritenuta all'avanguardia dal punto di vista dello sviluppo delle politiche sociali e delle tutele rispetto ai diritti sociali di cittadinanza, va sottolineato che nello specifico del contrasto alla povertà non è presente una legislazione incisiva che garantisca un adeguato livello di tutela. La Toscana non rientra tra le regioni che hanno provato a sperimentare una misura modellata sul reddito minimo di inserimento dopo la conclusione della sperimentazione nazionale. La legge quadro regionale 41/2005 Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale in linea di principio apre alla possibilità di sperimentare ciò che nella legge viene indicato come reddito di cittadinanza sociale (art. 58, III comma; art. 14, IV comma). Baldini, Lemmi, Sciclone [2005] riportano a questo proposito i risultati di una simulazione sull'introduzione della misura in Toscana, mostrando come questa avrebbe un evidente effetto redistributivo e di riduzione della povertà, ma, al tempo stesso, valutandolo estremamente costoso e difficilmente sostenibile al livello regionale. In ogni caso, l'introduzione di questa misura non è mai stata concretamente ipotizzata in Toscana e ad oggi niente si muove in questa direzione.
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settori separati [cfr. Mesini, 2009]. Insomma, gli interventi regionali non fanno che aumentare la
frammentarietà di questo settore di politiche sociali e le disuguaglianze presenti sul territorio.
Entro un quadro simile, assumono grande rilievo gli interventi gestiti a livello locale rispetto
a contributi economici e interventi volti all'inclusione abitativa e lavorativa. Il livello di
disomogeneità territoriale delle politiche di contrasto alla povertà è in definitiva municipale
piuttosto che Regionale, e i percorsi disponibili a chi si trova a sperimentare una condizione di
povertà tendono a variare da comune a comune. E' proprio a questo livello che si situa l'azione
professionale degli assistenti sociali, che tendenzialmente rivestono un ruolo chiave
nell'implementazione delle politiche di contrasto alla povertà a livello locale, potendo contare su
margini più o meno ampi di discrezionalità.
Inoltre, va evidenziato che il tema del contrasto alla povertà si presta in modo
particolarmente adeguato ad un'analisi cognitiva per le carattertiche della povertà stessa in quanto
fenomeno sociale. Il concetto di povertà, infatti, appartiene contemporaneamente al linguaggio
comune ed all’elaborazione teorica di diverse discipline, che ne hanno espresso la complessità
proponendo concettualizzazioni molteplici e differenziate: restano a tutt’oggi aperte le questioni
relative alle adeguate tecniche di rilevazione e alla definizione stessa di povertà. Tradizionalmente
la povertà viene definita come deficit o deprivazione di risorse materiali necessarie per coprire i
costi di produzione e riproduzione di un dato soggetto individuale o collettivo; in quest’ottica la
rilevazione avviene prevalentemente attraverso indicatori monetari del benessere basati sulla
ricchezza, il reddito o i consumi. Si cerca, cioè, di definire la povertà su base esogena, facendo
riferimento a dati oggettivi, in senso assoluto o relativo. In particolare, nella prospettiva della
povertà assoluta si identifica un paniere di beni necessario a sostenere uno standard di vita minimo
socialmente accettabile; in ottica relativa, invece, la povertà è definita da una disponibilità di risorse
inferiore rispetto a quella media della popolazione di riferimento [cfr. Atkinson, 2000; Tangorra,
2009]. A queste misure tradizionali possono affiancarsi indicatori di povertà soggettiva, basati cioè
sulla percezione individuale [cfr. Stranges, 2006].
Da tempo, tuttavia, si sono diffuse visioni più articolate della povertà, che cercano di
definire il fenomeno senza basarsi né sulla mera deprivazione economica né soltanto sulla
valutazione soggettiva. In questa cornice si sottolinea il carattere multidimensionale, cumulativo e
dinamico della povertà nelle società postmoderne occidentali. Multidimensionale perché tale
fenomeno può coinvolgere molteplici fattori individuali e contestuali: non solo la dimensione
economica, quindi, ma anche il tessuto relazionale, la struttura familiare, le condizioni psicofisiche
dell’individuo. Cumulativo perché nella sua complessità sintetizza elementi diversi che
interagiscono e si ripercuotono vicendevolmente. Dinamico perché presenta un andamento
14
processuale, configurandosi come un circolo vizioso, una sindrome che può risolversi ma anche
aggravarsi nel tempo fino alla cronicizzazione. Per tutte queste ragioni, per focalizzare le
disuguaglianze e le situazioni di deprivazione esistenti non è sufficiente un indicatore unico come
l’insufficienza di reddito o di consumo: a parità di condizione reddituale possono darsi livelli di
benessere molto diversi tra loro [cfr. Brandolini e Saraceno, 2007].
Negli ultimi decenni, coerentemente con queste osservazioni, tanto in letteratura quanto
nell’ambito delle politiche sociali a livello europeo al concetto di povertà sono stati affiancati quelli
di esclusione sociale e di vulnerabilità. Tali concetti hanno il vantaggio di richiamare la
multidimensionalità della povertà, innanzitutto evidenziando condizioni di disuguaglianza relative
anche all’accesso a risorse immateriali, quali il potere, la circolazione delle informazioni
significative, la partecipazione attiva alla vita della società. In una seconda accezione, il riferimento
è invece ai processi che possono impedire o indebolire i meccanismi di integrazione sociale e di
appartenenza a reti sociali significative [Negri e Saraceno, 2003]. Il termine vulnerabilità, nello
specifico, fa inoltre riferimento all’esposizione a tutti quei processi sociali suscettibili di condurre a
condizioni di disagio nel contesto attuale, come la perdita o l’instabilità del posto di lavoro, il
mancato accesso a forme di tutela pubbliche, il disagio abitativo, le rotture familiari [cfr. Taylor-
Gooby, 2004, Castel, 2004, Ranci, 2002]. Nell’ambito degli approcci multidimensionali alla
povertà, occupa inoltre una posizione di tutto rilievo tanto per la ricchezza analitica quanto per la
vasta eco ottenuta a livello internazionale il capability approach del premio Nobel per l’economia
Amartya Sen17.
Appare evidente che l'adesione a definizioni alternative di povertà comporta rilevanti
conseguenze che non si esauriscono sul piano descrittivo del fenomeno. Definizioni diverse
comporteranno non solo diversi strumenti di rilevazione (e quindi fotografie alternative del
medesimo fenomeno), ma saranno collegate anche a obiettivi e strategie di contrasto non
coincidenti. Proprio per questo la povertà si presta particolarmente a essere osservata nell'ottica
17 I concetti chiave dell’analisi di Sen sono functionings e capabilities. Con functionings si intende l’insieme delle azioni e dei modi di essere che una persona realizza nel corso della propria vita. I functionings sono quindi elementi costitutivi dello status effettivo di una persona, e variano dai più elementari come la possibilità di nutrirsi, vestirsi, avere cura della propria salute, fino ad aspetti più complessi come l’autorealizzazione o la possibilità di partecipare alla vita comunitaria. Le capabilities, invece, indicano i diversi assetti di functionings che il singolo individuo può scegliere di conseguire e riuscire a ottenere: «la capability di una persona non è che l’insieme delle combinazioni alternative di functionings che essa è in grado di realizzare. È dunque una sorta di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative di functioning (o, detto in modo meno formale, di mettere in atto più stili di vita alternativi)» [Sen, 1994, p. 70]. Un terzo concetto che appartiene al modello di Sen è quello di commodities, ossia i beni e le risorse a disposizione di un individuo. Il passaggio da commodities (mero possesso di un bene, ad esempio una bicicletta) a functioning (andare in bicicletta) è regolato dai fattori di conversione, che si distinguono in condizioni o caratteristiche personali e sociali o ambientali. Ovviamente, i fattori di conversione influiscono sulle capabilities intese come opzioni effettivamente disponibili all’individuo. Per ottenere una visione articolata e fedele del tenore di vita degli individui, quindi, non è sufficiente guardare alle commodities (beni posseduti) né ai functioning già realizzati: per Sen nella catena beni (commodities) – caratteristiche dei beni – capabilities – functionings, quella che conta è la categoria della capabilities intesa come possibilità che le persone hanno di scegliere e realizzare la vita che apprezzano.
15
dell'approccio cognitivo. Diversi referenti di povertà comporteranno approcci diversi al fenomeno
dal punto di vista cognitivo, normativo e strumentale; con un impatto decisivo sui percorsi di tutela
resi fruibili agli individui. A costo di semplificare, può essere utile fare un esempio per spiegare
meglio il senso di questa affermazione. Una persona povera può contemporaneamente avere reddito
scarso, essere inserita in una rete sociale misera, avere scarsa capacità di perseguire gli obiettivi di
vita cui attribuisce valore. Una definizione diversa di povertà porterà però a descrizioni diverse
della stessa situazione: se si pensa che la povertà dipende innanzitutto dallo scarso reddito, si
cercherà di misurarla oggettivamente usando un indicatore di reddito, e si offrirà una descrizione
che tiene conto solo di questo aspetto, rischiando di lasciare gli altri in secondo piano o, addirittura,
di non vederli affatto. Una volta descritto così il fenomeno, se si ritiene giusto che un attore
pubblico offra un'integrazione al reddito per chiunque si trovi sotto un certo livello, si riterranno
indispensabili politiche che mirano a integrare le risorse economiche a disposizione del singolo. Se
si ritiene giusto che il povero abile si guadagni da vivere in completa autonomia, si proporranno in
primo luogo politiche di inserimento lavorativo.
Il referente della povertà al quale gli assistenti sociali fanno riferimento nel momento in cui
si approcciano a questo fenomeno ed esercitano la propria discrezionalità professionale
nell'implementazione delle politiche locali di contrasto ha quindi un'importanza decisiva. Tale
referente potrà risultare più o meno coerente con il mandato professionale del servizio sociale; più o
meno coerente con quanto elaborato dai decisori delle politiche ai vari livelli di governo - in altre
parole, con i referenti specifici, settoriali e globale di riferimento. Gli assistenti sociali hanno
l'occasione di agire da mediatori nel proporre un referente della povertà il più possibile coerente con
i valori e gli obiettivi specifici della professione; allo stesso tempo possono svolgere una rilevante
azione di advocacy rispetto alle istanze della comunità con le quali entrano in contatto.
4. L'azione professionale degli assistenti sociali in un contesto locale
Delineata la cornice teorica, vediamo in questo paragrafo alcune osservazioni emerse della
ricerca. Saranno riportati in primo luogo gli esiti dell'analisi tematica delle interviste semistrutturate
svolte con gli assistenti sociali nel contesto di riferimento. In particolare, attraverso l'analisi delle
interviste si è cercato di delinare i referenti della povertà cui gli assistenti sociali si riferiscono
nell'esercizio della discrezionalità professionale volta all'implementazione delle politiche di
contrasto alla povertà a livello locale. Sono state indagate le diverse dimensioni del referente -
cognitiva, normativa, strumentale. Si è, inoltre, posta attenzione alla relazione tra referente della
16
povertà, mandato professionale e mandato istituzionale18. Relativamente alla definizione di povertà
proposta nelle interviste è stata svolta anche una analisi lessicale che potesse confermare o meno le
osservazioni tratte dall'analisi tematica. In secondo luogo, sarà descritta l'analisi effettuata attraverso
l'utilizzo delle vignette - casi ideali che sono stati sottoposti agli intervistati per evidenziare la
relazione tra referente della povertà e azione professionale. Infine, saranno riportate alcune
osservazioni conclusive.
Per quanto riguarda l'analisi tematica delle interviste effettuate, si è potuto osservare
innanzitutto come in effetti esistano referenti diversi di povertà evocati dagli assistenti sociali
intervistati. Pur avendo raccolto le opinioni espresse da un campione qualificato rispetto al tema,
omogeneo per profilo professionale e con riferimento al medesimo contesto territoriale appare
evidente come non esista uniformità tra i punti di vista espressi. Sono diverse le definizioni
proposte; non esiste una netta prevalenza di un’immagine della povertà rispetto ad altre. Le
intervistate evocano profili molto diversi tra loro, senza una netta prevalenza anche nel momento in
cui viene richiesto esplicitamente quale sia secondo loro la categoria più presente nel contesto
attuale. Questa osservazione sembra offrire una prima conferma dell’impatto della dimensione
cognitiva di un referente: l’idea che abbiamo di un certo fenomeno può influenzare ciò che
vediamo.
I referenti che emergono sono in particolare due. Si registra una ampia diffusione tra i
professionisti ascoltati di un referente che potremmo definire individualistico della povertà - ossia,
un referente in cui la povertà è definita come problema del singolo individuo, conseguenza
principalmente di comportamenti e caratteristiche individuali e quindi risolvibile agendo a questo
livello piuttosto che sulla dimensione strutturale e di contesto. Tale referente prevale largamente
rispetto ad un referente complesso in cui viene messo in primo piano il carattere multidimensionale
della povertà e la rilevanza dei fattori strutturali19.
Questa prevalenza emerge dall'analisi di tutte le dimensioni in cui il referente può essere
scomposto (definizione, profili di povertà prevalenti, cause della povertà, strategie ritenute più
adeguate, obiettivi auspicabili). Per quanto riguarda i profili , per esempio, due sono riconosciuti
come i più diffusi: i cosiddetti membri dello zoccolo duro della povertà e i nuovi poveri vittima
della crisi. I primi sono ritenuti poveri essenzialmente per carenza di risorse personali dovuta alla
propria storia personale e familiare - esiste in altre parole una lacuna educativa e culturale sulla
quale è necessario intervenire. I secondi sono poveri essenzialmente per ragioni economiche legate
18 Solo una parte delle osservazioni emerse dall'analisi delle interviste saranno riportate in questa sede. Nel lavoro complessivo ampio spazio è stato dedicato anche al rapporto tra diversi livelli di referenti (globale, settoriale, specifico) nell'attuale assetto di governance multilivello, con particolare attenzione alle politiche di contrasto alla povertà. 19 Solo in nove casi su trentadue viene espresso un referente tendenzialmente complesso (nel senso che almeno per cinque l'attribuzione è netta, per quattro incerta).
17
alla recente crisi occupazionale. Sebbene in modo generalizzato venga citata l'esistenza del secondo
profilo (la cui incidenza è confermata anche dai dati disponibili sugli accessi dei nuovi utenti al
servizio nel 2010 e 2011), la maggioranza degli assistenti sociali intervistati richiama il primo come
quello del tipico, del vero povero. Anche dal punto di vista delle cause della povertà si registra una
prevalenza di quelle individuali (malattia e problemi psichici; scarsa rete familiare e sociale;
trasmissione intergenerazionale; carenza di risorse personali) rispetto a quelle strutturali (crisi
economica e del mercato del lavoro; alto costo della vita; inadeguate politiche pubbliche)20.
L’analisi statistica lessicale effettuata sui nodi relativi alla definizione di povertà è coerente
con le riflessioni derivate dall’analisi tematica e offre una conferma al predominio del referente
individualistico. Osservando le occorrenze presenti nei nodi e nei sotto-nodi oggetto di interesse si
ottengono i seguenti risultati21:
persona + persone + personali: 260 difficoltà + mancanza + bisogno + problemi + esigenze + difficile + disagio + problematiche + fragilità + bisogni + necessità: 218
povertà + povero + povera + povere + poveri: 218
familiare + famiglie + famiglia + familiari: 128 (+moglie 12, minori 11, adulti 10, nuclei 10, nucleo 9, genitori 7, giovani 7: 66) 128+66: 194
risorse + strumenti + capacità + caratteristiche: 103
lavoro + pagare + economica + economico + reddito + l’affitto/affitto + economiche + materiale + lavorare + lavorato + lavora + mangiare + disoccupazione + lavoravano + mercato + affitti + ammortizzatori + bollette + lavorava + materiali + tessile + economici: 424
Sono molto rappresentati i termini che hanno a che fare con la sfera personale, relazionale,
economica, lavorativa e familiare, così come i lemmi risorse, strumenti, capacità; spesso citati
vocaboli che richiamano la caratterizzazione in negativo della condizione di povertà (difficoltà,
mancanza e così via). Il termine crisi viene citato 24 volte; sicuramente il tema della crisi del
mercato del lavoro è molto presente. Molti termini legati ad una definizione strutturale della povertà
però compaiono pochissimo o addirittura non sono mai citati. La stessa cosa si può dire per i
vocaboli legati alla sfera dei diritti e della giustizia sociale. In effetti i concetti legati alla
dimensione sociale e strutturale del fenomeno sono decisamente sottorappresentati nelle definizioni
20 Le cause individuali di povertà sono citate in 38 brani (porzioni di testo associate ad un tema) contro i 28 delle cause strutturali. 21 La ricerca lessicale è stata effettuata su vocaboli di almeno sei lettere - tuttavia è stata fatta una ricerca ad hoc per crisi. I nodo e i sottonodi coinvolti nello specifico sono quelli relativi ai temi definizione – profili – dimensione longitudinale – evoluzione storica del fenomeno
18
proposte. Nessuno definisce la povertà come forma strutturale di ingiustizia sociale, di
disuguaglianza sociale, di ineguale distribuzione di risorse materiali e immateriali.
7 volte: società
5 volte: contesto, contesti, partecipazione, diritto
4 volte: autonomo, autonomia, assoluto, benessere
3 volte: ascolto, esclusione, autonomi, temporanea, soglia
2 volte: assoluto, benessere, diritti, responsabilità, autonoma, complessa, dignità, progetto,
socialmente, giustizia
1 volta: assoluta, inclusione, ammortizzare, complesso, liberazione, libero, liberato,
progetti, relativa, programmazione, promozione, sicurezza, socioeconomico, valore,
valori, valorizzare, politica, politiche, tutela, empowerment, ingiustizia, indigenza
MAI : complessità, liberi, libera, progettazione, politiche o politica, tutelare, garanzia o
garanzie o garantire, contrasto, protezione, strutturale, disuguaglianza, distribuzione o
redistribuzione, multidimensionale, dinamico, autodeterminazione, qualità, agency,
disturbo/disturbi, vulnerabilità, precarietà
Per testare l’efficacia analitica dei due referenti costruiti a partire dall’analisi tematica, si è
provato ad applicarli a quanto emerso dalle interviste a proposito delle vignette. Ossia, si è
verificato se le soluzioni proposte per le vignette possono essere efficacemente ricondotte
all’applicazione dell’uno o dell’altro referente emerso.
La vignetta A e la vignetta B sono relative a situazioni di working poors. Nella prima si
racconta la situazione di una donna sola con una figlia minorenne a carico, con marito in carcere,
che nonostante l’impegno sul mercato del lavoro non riesce a far fronte alle spese quotidiane –
compreso l’affitto. Nella seconda si presenta il caso di una famiglia marocchina con tre figli in cui
solo il padre lavora – anche qui con difficoltà a far fronte alle spese della vita quotidiana. Entrambe
le situazioni rientrano nei parametri previsti dal comune di Prato per l’erogazione di contributi
economici. Ciononostante, nella maggioranza dei casi, sia per la vignetta A sia per la vignetta B si
esprime un parere contrario all’erogazione di un contributo economico continuativo, che potrebbe
generare passività e dipendenza assistenziale. La maggioranza è contenuta rispetto alla vignetta A
(dodici contro nove), schiacciante per la vignetta B (dieci contro zero). E’ contemplata la possibilità
di erogare solo contributi integrativi una tantum, o eventualmente proporre un aiuto in generi
alimentari. Nel caso della donna sola si ritiene poi opportuno invitare la signora ad incrementare il
proprio impegno lavorativo part time, oppure a riprendere i contatti con la famiglia di origine
19
residente nel Sud Italia per cercare di farsi aiutare. Nel caso della famiglia di immigrati è
considerato imprescindibile che anche la madre sia accompagnata e indirizzata alla ricerca di un
lavoro. Questa impostazione risulta del tutto coerente con il referente individualistico della povertà -
che in effetti è espresso da tutti i casi che propongono queste soluzioni. I nove casi che,
relativamente alla vignetta A, propongono un contributo economico continuativo che possa
integrare lo stipendio della donna e sostenerla anche a lunga scadenza, coincidono con coloro i quali
esprimono un referente complesso – in questo caso, siamo di fronte ad un profilo di povertà che non
ha niente a che fare con lo zoccolo duro, il contributo non viene considerato di per sé sempre e
comunque nocivo.
La vignetta C presenta un tipico caso di nucleo familiare appartenente allo zoccolo duro
della povertà: una donna di quarant’anni con figlia di diciannove, entrambe mantenute dalla
pensione del nonno con loro residente in una casa di edilizia pubblica, con alle spalle progetti di
inserimento lavorativo falliti sia per la madre (forse con disturbi psichiatrici che rifiuta di far
valutare e curare), sia per la figlia che non ha nemmeno conseguito la licenza media. Qui l’adesione
al referente individualistico della povertà è palese e generalizzato: in ventitre casi contro tre si
afferma che non deve essere garantito nulla benché la situazione economica del nucleo rientri nei
parametri che consentono l’erogazione di un contributo. Ogni forma di sostegno deve essere
sospesa finché le due donne, e la giovane in particolare, non saranno disposte ad aderire a un
progetto di autonomia. Senza dubbio, in questo caso siamo di fronte a una situazione in cui la
povertà non può essere risolta con un minimo vitale garantito. Ma davvero questa forma di
ultimatum, con la conseguente espulsione dal servizio sociale del nucleo familiare, può essere un
intervento funzionale? Quante altre volte è stata già tentata questa strada con questo nucleo, e con
quali esiti? Fino a che punto sarà possibile mantenere fermo il rifiuto di intervenire? Molte
intervistate mettono in evidenza come una tutela avrebbe dovuto essere garantita se nel nucleo fosse
stato presente un minorenne. Se la ragazza di diciannove anni restasse incinta si ricomincerebbe a
erogare contributi economici? D’altronde lavorare con chi è povero di risorse dovrebbe essere uno
dei terreni specifici del servizio sociale: non ci sono altri strumenti più costruttivi per farlo? Sono
questi interrogativi che vengono posti dalle tre intervistate che rifiutano la soluzione dell’ultimatum
- tutte e tre appartenenti al gruppo che esprime un referente complesso della povertà.
Quali osservazioni possiamo trarre da questo tipo di analisi? Una prevalenza del referente
individualistico della povertà presenta non pochi rischi, tanto del punto di vista dell'azione
professionale del servizio sociale, quanto da quello dei percorsi di tutela effettivamente fruibili dagli
individui.
20
Dal punto di vista professionale, la prevalenza del referente individualistico richiama una
concettualizzazione della professione stessa sbilanciata sul singolo - e che quindi lascia in ombra
una parte essenziale dello specifico professionale del servizio sociale. Il servizio sociale
professionale potrebbe rivestire un ruolo significativo come mediatore nella elaborazione e
diffusione a livello istituzionale e sociale di un referente complesso; il rischio è che invece l'azione
professionale contribuisca a sdoganare anche agli altri livelli una deresponsabilizzazione collettiva
nell'ambito del contrasto alla povertà.
Il pericolo più grave è relativo alla sottovalutazione delle cause di contesto del fenomeno –
che, in definitiva, può condurre a scaricare la colpa della povertà sui poveri stessi. Per questa via, si
rischia di proporre una funzione giudicante e paternalistica del servizio sociale, del tutto
incompatibile con i valori e i principi centrali della professione. Allo stesso tempo, esiste il rischio
che la condizione di quei nuovi poveri vittime della crisi economica e di una situazione strutturale
venga trascurata e non trovi alcuna risposta efficace. Si tratta in effetti di un problema sociale
emergente che richiede specifici percorsi di tutela e misure di protezione – che non possono
evidentemente coincidere con i percorsi adeguati per chi appartiene allo zoccolo duro della
povertà22.
La diffusione di un referente individualistico può inoltre condurre a conseguenze
paradossali. La retorica dell’attivazione, ad esempio, è generalizzata tra gli assistenti sociali: e
sicuramente l’idea di poter potenziare le risorse del singolo individuo in un’ottica di autonomia e
autodeterminazione non può che risultare coerente con i valori del servizio sociale. L’attivazione
che si intende promuovere, però, può finire per coincidere meramente con l’inserimento nel mercato
del lavoro. Non si prende in considerazione il fatto che il lavoro è sì importante fonte di
gratificazione oltre che di reddito – ma in relazione anche alle condizioni contrattuali e
occupazionali, oltre che al tipo di lavoro.
L’ assistenzialismo compare nei trascritti come uno dei rischi fondamentali da evitare
nell’elaborare strategie di contrasto alla povertà. Nelle riflessioni che emergono l’assistenzialismo
viene visto come uno stile di vita, che porta le persone a cercare soldi facili piuttosto che impegnarsi
mettendo a frutto le proprie risorse in un percorso di autonomia, instaurando con i servizi rapporti
strumentali e non trasparenti, relazioni Bancomat che si riducono alla richiesta e al preteso
ottenimento di denaro. Il riconoscimento di un diritto all’integrazione al minimo vitale è considerato
22 Sulla necessità di pensare strategie diverse per profili di povertà diverse, con particolare riferimento alla necessità di usare strumenti diversi per contrastare la povertà cronica e quella transitoria cfr. Esping-Andersen 2005. Secondo l'autore, mentre per la povertà transitoria i trasferimenti economici possono risultare particolarmente efficaci, per la povertà cronica gli interventi più significativi sono quelli per la prima infanzia, sia per le occasioni educative e di socializzazione offerte ai minori provenienti da nuclei disagiati, sia per la possibilità di conciliare famiglia e lavoro offerte ai genitori.
21
una fonte quasi certa di assistenzialismo: come se fossero gli aiuti economici che, di per se stessi,
portano gli individui ad adagiarsi nell'aiuto, preferendo il sostegno economico ad un'attività
lavorativa. Si può in effetti dare per scontato che sia così? Molto rare sono riflessioni che si
esprimono diversamente, vedendo l’assistenzialismo come non necessariamente causato
dall’erogazione di prestazioni monetarie23.
Dai risultati di altre ricerche sul tema, in effetti, è emerso come i dati non confermino che
aiuti economici più generosi generino automaticamente passività: anzi, dare la sicurezza di un
sostegno anche economico adeguato sarebbe funzionale a riacquistare fiducia per impegnarsi in un
proprio autonomo progetto di vita [cfr. Saraceno, 2004]. Come si può promuovere autonomia
mantenendo persone (tutte le persone, anche quelle che si trovano in difficoltà per motivi legati al
contesto) in una situazione di continua incertezza? Un simile dubbio è pressoché assente nei
trascritti. In nome dell’attivazione a ogni costo, del rifiuto diffuso per il riconoscimento di un
minimo vitale si rischia da un lato di stigmatizzare e in definitiva abbandonare proprio chi è più
fragile, più debole; dall’altro di non offrire strumenti adeguati per risollevarsi a chi ne avrebbe tutte
le capacità.
Nei trascritti è diffusamente presente una distinzione tra utenti classici e famiglie normali
che prima non si sarebbero mai rivolte ai servizi che evoca un’idea di servizio sociale residuale,
non rivolto alla generalità degli individui in un determinato territorio. Certo, è un’idea che discende
dalla storia dell'assistenza sociale in Italia. Ma continuare ad affermarla, fino al punto di ritenere
che gli unici legittimi destinatari dell’azione del servizio sociale sono soggetti con certe
caratteristiche personali, riproduce quell’idea di servizio sociale e allo stesso tempo applica
immediatamente agli utenti una connotazione negativa. Un conto è affermare che i soggetti più
deboli devono essere destinatari di azioni prioritarie, e che l'azione professionale rivolta a tali
soggetti fa profondamente parte dello specifico del servizio sociale. Altro è dimenticare che fa
altrettanto parte dello specifico professionale la promozione della giustizia sociale, l'azione volta al
superamento di cause strutturali di disuguaglianza e all'introduzione di forme di tutela rivolte a tutti
i bisogni sociali emergenti nel proprio territorio di riferimento. Allo stesso modo, la convinzione
generalizzata che la povertà sia cronica può avere effetti negativi sull’efficacia stessa dell’azione
professionale – con lo stesso meccanismo della profezia che si autoavvera.
Se la consapevolezza che esistono nuovi poveri che si affacciano al servizio sociale senza
trovare risposta non viene elaborata, confortata da ulteriori osservazioni più approfondite, articolata
in una richiesta di attenzione alle istituzioni, il servizio sociale professionale trascura una parte del
suo ruolo. Rientra nello specifico professionale la rimodulazione di un proprio referente specifico 23 Sull'assistenzialismo come esito di una specifica modalità di rapporto tra servizio sociale e individuo piuttosto che come conseguenza di prestazioni economiche si veda Negri e Bosco [2002].
22
sulla base dell’evoluzione di un fenomeno sociale, che accolga il punto di vista di settori più ampi
della popolazione, per poi porre la questione nelle arene pubbliche e istituzionali adeguate,
contribuendo in modo attivo alla costruzione di referenti nuovi, di letture articolate e pregnanti della
realtà sociale, di politiche ad esse coerenti.
L’esistenza di un referente della complessità, sebbene minoritario, è un buon punto di
partenza in questa direzione. Le assistenti sociali che esprimono un referente di questo tipo sono le
stesse che riconoscono come parte del proprio specifico progetto professionale tanto l'azione sul
singolo caso, quanto un'azione a livello comunitario, delle politiche, che consenta di intervenire
sulle cause strutturali e contestuali del disagio. Il referente individualistico della povertà, invece,
sembra collegarsi a uno sbilanciamento sul lavoro sul singolo caso che finisce per comportare un
disimpegno su una parte fondamentale dello specifico del servizio sociale - l'impegno politico e
centrato sulla relazione individuo-ambiente.
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