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UN BARITONO AI TROPICI Il sogno d’America Quale remota ma potente seduzione ancora esercita, sul lettore contemporaneo, l’America vista o sognata da viaggiatori ed emigranti dei tempi in cui, per raggiungerla, ci voleva più d’un mese di navigazione transatlantica? Certo è che diari, lettere e memorie di viaggio saltati fuori dai vecchi bauli, di qua e di là dell’oceano, per restituirci intatto il profumo della vita nell’altro tempo e luogo, non finiscono mai d’alimentare l’archivio immaginario sul viagg io come metafora dell’esistenza – metafora che pare resistere ad anacronismi. Forse, che il tono sia eroico come nell’epopea delle lussuose traversate narrate da viaggianti illustri, grandi attori o divi dell’opera; oppure che sia il tono minore e quasi involontario delle testimonianze buttate giù in un italiano spesso precario dai viaggiatori della terza classe, è in queste microstorie che il lettore più percepisce la Storia come esperienza di vita, come vicissitudine. Nel mare di numeri in cui la Storia dell’Emigrazione spesso è obbligata a traghettare il lettore su zattere statistiche, archivi come l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare, istituito dal Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università di Genova, emergono come arche di Noè in cui sono confluite testimonianze, immagini e reliquie tramandate da nonno a nipote; ricordi rimasti impigliati nella tradizione dei racconti. Ciascuno di questi frammenti di memoria salvati al naufragio ha il valore di una tessera in un mosaico che si svela a poco a poco come viluppo di vite avventurose, mentre apre scorci caratteristici su un dato momento storico e convalida legami specifici tra territori apparentemente sconnessi. Il tragitto alla rovescia compiuto dal lettore, rimontando il puzzle della memoria dei viaggiatori, spesso svela sullo sfondo la città di Genova. Prima di costituire un porto d’approdo per tanti documenti e memorie di viaggio, la città fu durante un secolo il principale porto di partenza verso nuovi mondi dove cercare fortuna. Per gli emigranti che arrivavano da tutta Italia, Genova significava l’America. Era come se, ridotto l’oceano al primo colpo d’occhio sul mare avvistato dalla Stazione Marittima, l’America apparisse agli emigranti già all’orizzonte del porto della Superba . Nell’eccitazione della partenza imminente, annullata per un attimo l’immensa distanza dal traguardo, la luce di una speranza schiariva la scena tragica dell’addio: la speranza di sopravvivere e forse risorgere ad una seconda vita, più fortunata. Di modo che, nelle lettere e nei diari, la città appare più spesso come sinonimo di un destino, che di una destinazione. Genova: ovvero, il sogno

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UN BARITONO AI TROPICI

Il sogno d’America

Quale remota ma potente seduzione ancora esercita, sul lettore contemporaneo, l’America

vista o sognata da viaggiatori ed emigranti dei tempi in cui, per raggiungerla, ci voleva più d’un

mese di navigazione transatlantica? Certo è che diari, lettere e memorie di viaggio saltati fuori dai

vecchi bauli, di qua e di là dell’oceano, per restituirci intatto il profumo della vita nell’altro tempo e

luogo, non finiscono mai d’alimentare l’archivio immaginario sul viaggio come metafora

dell’esistenza – metafora che pare resistere ad anacronismi. Forse, che il tono sia eroico come

nell’epopea delle lussuose traversate narrate da viaggianti illustri, grandi attori o divi dell’opera;

oppure che sia il tono minore e quasi involontario delle testimonianze buttate giù in un italiano

spesso precario dai viaggiatori della terza classe, è in queste microstorie che il lettore più percepisce

la Storia come esperienza di vita, come vicissitudine.

Nel mare di numeri in cui la Storia dell’Emigrazione spesso è obbligata a traghettare il

lettore su zattere statistiche, archivi come l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare, istituito dal

Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università di Genova, emergono come arche

di Noè in cui sono confluite testimonianze, immagini e reliquie tramandate da nonno a nipote;

ricordi rimasti impigliati nella tradizione dei racconti. Ciascuno di questi frammenti di memoria

salvati al naufragio ha il valore di una tessera in un mosaico che si svela a poco a poco come

viluppo di vite avventurose, mentre apre scorci caratteristici su un dato momento storico e convalida

legami specifici tra territori apparentemente sconnessi. Il tragitto alla rovescia compiuto dal lettore,

rimontando il puzzle della memoria dei viaggiatori, spesso svela sullo sfondo la città di Genova.

Prima di costituire un porto d’approdo per tanti documenti e memorie di viaggio, la città fu durante

un secolo il principale porto di partenza verso nuovi mondi dove cercare fortuna. Per gli emigranti

che arrivavano da tutta Italia, Genova significava l’America.

Era come se, ridotto l’oceano al primo colpo d’occhio sul mare avvistato dalla Stazione

Marittima, l’America apparisse agli emigranti già all’orizzonte del porto della Superba.

Nell’eccitazione della partenza imminente, annullata per un attimo l’immensa distanza dal

traguardo, la luce di una speranza schiariva la scena tragica dell’addio: la speranza di sopravvivere e

forse risorgere ad una seconda vita, più fortunata. Di modo che, nelle lettere e nei diari, la città

appare più spesso come sinonimo di un destino, che di una destinazione. Genova: ovvero, il sogno

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d’America. Non a caso fu proprio da qui che, manipolando ambizioni, speranze e disperazione,

oculati impresari di compagnie di navigazione misero a frutto il gigantesco business del trasporto di

emigranti. L’emigrazione era stata una scommessa precoce tra i naviganti genovesi e intorno al

1850 già coinvolgeva altre classi sociali, allettando masse di contadini dall’entroterra ligure e dalle

pianure di là dei monti con la vaga promessa delle sterminate terre argentine e dell’inesauribile oro

californiano. Suggestioni messe in circolo dagli armatori liguri per corroborare l’immenso

potenziale d’attrazione del “magnete America”: quella capacità “di suscitare aspettative senza

deluderle mai tutte”.1 E chi, potendo far fortuna oltreoceano, si sarebbe accontentato di guadagnarsi

il pane in qualche nazione europea o sarebbe rimasto a morir di fame e di colera al paese? La

scommessa era abilmente gonfiata in una sfida per i migliori, lasciando il ruolo di vili per coloro che

vi rinunciassero.

A partire dalla metà del secolo, con l’inaugurazione delle prime linee a vapore da Genova

verso i principali porti latino-americani, il viaggio transatlantico in prima classe campeggiò sui

giornali come prodotto di lusso; mentre agenti sguinzagliati in tutto il Nord Italia arruolavano

lavoratori a contratto, garantendo condizioni da sogno, però nell’altro emisfero. Il viaggio poteva

durare anche 60 giorni e non era privo di rischi; ma né le condizioni d’estremo disagio della

traversata in terza classe né l’incertezza del futuro in un “altrove” tanto distante quanto ignoto

sembravano poter scoraggiare chi si trovava a dover pagare lo scotto di un quinquennio di cattivi

raccolti e di continue insurrezioni represse da eserciti di conquista. Nel Regno Sabaudo, meno

sconvolto dalle sommosse, si fuggiva alla leva ed alle crescenti tasse imposte dal governo per

riscattarsi da due guerre d’indipendenza. Una sorta di fanatismo migratorio contagiava non solo gli

intraprendenti commercianti liguri ma anche gli stanziali contadini lombardi, emiliani e veneti, fino

ai montanari dell’Appennino e delle rive del Garda, spingendo intere famiglie a richiedere il

passaporto per andarsene, appunto, “all’altro mondo”.

L’emigrazione temporanea della forza-lavoro eccedente, prima verso paesi europei come

Francia e Belgio e poi verso gli Stati Uniti e l’America Latina, era impresa supportata dall’accordo

familiare e pianificata collettivamente sulla base di una efficiente rete informativa: chi trovava

occasioni, le segnalava agli altri. L’obiettivo, a principio, era il rientro al paese, una volta

capitalizzati fondi sufficienti ad acquistare terre o ad avviare piccole imprese nei luoghi d’origine.

Ma mentre dal porto di Napoli salpavano per lo più piccoli proprietari gravati dalle tasse o artigiani

1 Marco Porcella, La fatica e la Merica, Sagep, Genova 1986

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estromessi dal mercato, diretti ai porti dell’America del Nord dove trovavano lavoro nelle industrie

come manodopera non specializzata; da Genova invece confluivano sui bastimenti soprattutto

contadini depauperati e mossi dalla speranza di trovare, in America Latina, terre in cui stabilirsi e

sopravvivere. Non a caso, dopo il fallimento di pochi tentativi pionieri, gli oculati armatori genovesi

continuarono ad investire sulle rotte latinoamericane, che garantivano grossi numeri consentendo di

mantenere al minimo le condizioni di vivibilità del viaggio; e lasciarono le destinazioni

nordamericane alla concorrenza francese in partenza da Marsiglia e da Le Havre. Uno dei primi

intraprendenti che sostenne l’opportunità di avviare un servizio di linea per il trasporto merci e

passeggeri da Genova sulla rotta per New York fu nientemeno che il capitano Giuseppe Garibaldi,

sul finire del 1849, appena rientrato dall’America Latina e dopo la fallita Repubblica Romana. Il

progetto, che poi (letteralmente) non andò in porto, prevedeva la costruzione all’uopo, nei cantieri

nordamericani, di una nave da 500 tonnellate che non avrebbe battuto bandiera italiana perché

“certe considerazioni speculative lo vietano ed io – ammette l’eroe dei due mondi che ne veniva da

scorribande contro le navi austriache e francesi sulle coste brasiliane, con un brigantino che

sbandierava il futuro tricolore – mercantile, ora! mi conformo”.2

A più riprese, in quel decennio, si tentò di fondare a Genova una Compagnia Transatlantica

che operasse la traversata con moderni vapori di modello americano (i potenti clipper: dei bestioni

di ferro da 1500 o 2000 tonnellate, spinti a propulsione meccanica) che potevano esser prodotti nei

cantieri genovesi. Osteggiata dalla prudente burocrazia del Governo piemontese, la Compagnia

ottenne infine parere favorevole da Nino Bixio; in un solo anno (1857)3 fu fondata ed affondata. Si

annunciò che la linea diretta Genova - New York non reggeva per esiguità di traffico. Insomma, gli

armatori preferivano tenersi “al vento” coi loro fidati brigantini a vela (detti scune) stipati di

poveracci, sulle rotte consuete (Montevideo, Buenos Aires, Valparaiso, Lima). Il Sud America fu

anche un miraggio pubblicitario grazie a cui per anni i pochi irriducibili che controllavano la rotta

verso quella destinazione lucrarono sul gigantesco mercato nero dei contadini messi in viaggio dalla

fame. Sembra suggerirlo, fra l’altro, il trattamento ottimistico delle informazioni da parte della

stampa ligure che finì per andare a vantaggio degli agenti delle compagnie di navigazione legati agli

interessi dei fazendeiros. In quel decennio, i titoli più neri riguardano le crisi d’occupazione in Nord

America, culminando in quella del 1860 a New York; mentre si sorvola sulle condizioni

2 Lettera a Lorenzo Valerio, direttore de La Concordia, giugno 1850. Vedi anche “Proposta di una società commerciale

per le linee transatlantiche periodiche tra New York e Genova”, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, Archivio

Garibaldi. 3 Il Corriere Mercantile, Genova, 20.8.1857

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schiavistiche di lavoro cui erano ridotti i contadini veneti finiti nel Rio Grande. Rosee descrizioni

sono riservate ai benefici effetti della “legge della terra” che nel 1850 abolì in Brasile le antiche

sesmarie ereditarie,4 trascendendo fino all’immagine idilliaca di una terra promessa ove insieme ai

lotti fertili vengono distribuiti cavalli, buoi e pane bianco. Insomma, per l’esercito degli illusi,

l’Eldorado era ai tropici. Per i più smaliziati, laggiù almeno non si moriva di fame.

Ad imbarcarsi volontariamente, senz’essere contrattati né richiamati da un famigliare, erano

individui di tutte le classi sociali ed atti a mille mestieri: impiegato, calzolaio, ortolano, vinaio,

fabbricatore di strumenti, attore. In verità, pur dichiarando all’imbarco una professione che

conoscevano appena o affatto, molti di questi avventurieri s’arrangiavano poi come ciarlatani,

musici ambulanti, lustrascarpe e con le mille arti girovaghe al confine con la mendicità – anch’essa,

in ogni caso, intesa come mestiere. Questa collocazione “vergognosa” delle frange più avventate

alimentò un perdurante stereotipo anti-italiano, è vero, anche se spesso corroborato dal

riconoscimento di un’abile tradizione del “saper fare”. L’italiano, all’estero, fu per molto tempo ed

ancor oggi, per presupposto, ritenuto abile ad ogni mestiere o capace di trarre profitto da qualsiasi

sapere pratico, reale o millantato; ed in più dotato di vocazione artistica, in specie canora. E

l’America era il mondo nuovo, ove occasioni certo non mancavano per chi volesse investire talento

e competenze; per questo, dietro al miraggio dell’Eldorado, molti emigranti trovavano il tesoro delle

molte opportunità. Nella definizione di Antonio Gibelli,5 l’America costituiva una “risorsa

integrativa”, ovvero la spinta fondamentale per intraprendere una “seconda vita” di maggior

successo.6

Sicché i talenti tradizionali ed i mestieri imparati a bottega, invece di perdersi, si

consolidarono, piazzando delle vere e proprie lobby d’influenza in fette di mercato specifiche, come

quella dei cantanti lirici a Rio de Janeiro nella seconda metà del secolo, ove gli italiani per parecchie

4 In realtà, tra i grandi possidenti perdeva la terra solo chi non poteva dimostrare il diritto alla proprietà neanche con

documenti privati, che era facile falsificare (all’uopo esistevano i grileiros). L’immigrazione dunque non scardinò

affatto il sistema del latifondo. Le grandi fazendas rimasero intatte nelle mani degli antichi occupanti, mentre i

lavoratori erano trattenuti dalla continua promessa di liberalizzazione del mercato. Vedi: Chiara Vangelista, Dal vecchio

al nuovo continente. L’immigrazione in America Latina, Paravia, Torino 1997 e Emilio Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina, Feltrinelli, Milano 1979. Sul tema

dell’emigrazione italiana in Brasile vedi: Angelo Trento, La dov’è la raccolta del caffè. L’emigrazione italiana in

Brasile, Antenore, Padova 1984 ed il saggio “In Brasile” in P.Bevilacqua, A.De Clementi e E.Franzina (a cura di),

Storia dell’emigrazione italiana, II. Arrivi, Donzelli, Roma 2002, pp. 3-23 5 “La risorsa America”, in Storia d'Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi, Einaudi, Torino 1994 6 L’estesissima bibliografia italo-brasiliana lo prova con storie di vita, vedi: Franco Cenni, Italianos no Brasil, Edusp,

São Paulo 2004; Rovílio Costa e L.Alberto de Boni La presenza italiana nella storia e nella cultura del Brasile (org.

Angelo Trento), Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1987 e N. Santoro de Constantino, Italianos na cidade. A

imigração italica nas cidades brasileiras, UPS, Passo Fundo 2000

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stagioni ebbero da affrontare appena una timida concorrenza locale. Pur essendo questo il caso

storico che indagheremo, il sorprendente viaggio di Giuseppe Banfi – sbarcato muratore nel 1856,

improvvisato corista nella capitale e poi mercante di “bigiotteria d’oro” nelle favolose lande del

Paranà – mostra ancora che la duttilità del viaggiatore nello scambio interculturale rendeva possibili

percorsi d’adattamento anche molto singolari, acquisendo via via i necessari strumenti

d’osservazione e di radicamento al territorio. Ne risulta che, pur quando approfittasse delle catene

d’appartenenza etnica o delle lobby d’influenza precostituite; pur quando da buon patriota

auspicasse l’Unità d’Italia e anche dopo che fu proclamata, l’italiano in America non intendeva la

propria nazionalità come un’identità obbligatoria o un certificato da cui attendersi privilegi. Al

contrario, come nota Gramsci rispetto al tipo intellettuale dell’italiano emigrante,7 la vocazione

pioniera lo spingeva piuttosto ad agire nel contesto sociale ampio, senza fare ghetto seppur tornando

sempre ad alimentarsi al patrimonio culturale d’origine.

La Parigi dei tropici

Il Brasile, come l’Argentina e l’Uruguay, fin dall’inizio del Risorgimento aveva accolto

insieme a naviganti, missionari e sedicenti imprenditori o artisti, molti veri esuli italiani: dalla

Toscana, dal Piemonte, dal Veneto e dalla stessa Genova – per tutti, porto di partenza – fuggirono

patrioti anche illustri quali Garibaldi e Giovan Battista Cuneo che svolsero dall’America Latina la

propria missione di fiancheggiamento ai moti rivoluzionari.8 Il breve periodo del Regno d'Italia

istituito da Napoleone rafforzava nei patrioti italiani l'aspirazione all’Indipendenza; la repentina

dichiarazione d’Indipendenza del Brasile, proclamata il 7 settembre del 1822 da Dom Pedro I sulle

sponde del fiume Ipiranga e poi a Rio de Janeiro, nel Campo che perciò fu detto “da Aclamação”,

mostrava agli esuli italiani la possibile realizzazione del sogno rimasto frustrato in patria. Mentre il

secolo avanzava, le centinaia di viaggiatori diventavano migliaia di emigranti, talvolta istruiti ma,

come gli altri, spinti ad attraversare l’oceano dal miraggio di una vita nuova in un paese giovane,

generoso e lanciato in una febbrile corsa al progresso.

Nel 1843, il matrimonio dell’Imperatore Dom Pedro II con la principessa napoletana Teresa

Cristina Maria di Borbone contribuì a propagare l’ammirazione imperiale per la cultura italiana

7 Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1950 8 Per le attività dei carbonari esuli in Brasile vedi M. Pace Chiavari, “Nel paesaggio di Rio de Janeiro il tricolore della

Giovine Italia”, in Il Risorgimento Italiano in America Latina, Atti del Convegno Internazionale, Affinità Elettive,

Genova-Ancona 2006

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come un entusiasmo alla moda ed indispensabile al transito sociale, il che ovviamente facilitava

l’inserimento di immigrati dal Bel Paese, a maggior ragione se artisti. Per gli altri, una scia di buoni-

a-tutto che a finire il secolo prese le forme di un inarrestabile esodo, provvedeva anche la patriottica

solidarietà dell’Imperatrice, dal 1856 patrona dell’articolatissima Società Italiana di Beneficenza e

Mutuo Soccorso di Rio che per prima cosa costruì l’imponente Ospedale della Misericordia.

Annunciando la fondazione della Società a Massimo d’Azeglio, il console sardo Fé d’Ostiani

includeva il nome dell’Imperatrice Teresa Cristina tra altri “compatrioti notabili” che in pochi anni,

fattisi una posizione, si disponevano a realizzare un progetto collettivo che poteva dirsi modello

d’unità nazionale prima ancora che si facesse l’Unità d’Italia. D’altronde fondare circoli,

associazioni ricreative benefiche e clubs era una mania a Rio de Janeiro dove ogni comunità di

immigrati, pur’anche esigua come quella inglese, ne vantava almeno uno, con splendidi saloni ove

ospitare eventuali viaggiatori illustri e celebrare date della storia del paese d’origine. Oppure,

incontrarsi per scambiar facezie e sfoggiare notizie, come molti italiani, per lo più intellettuali (quali

Luigi Persiani, presidente della Società di Mutuo Soccorso; Luigi Vincenzo de’ Simoni, medico

personale nonché consigliere di letture dell’Imperatrice), talvolta esuli (Luigi Bompiani, Arcangelo

Fiorito, Carlo Negri, Carlo Rossetti) usavano fare ogni pomeriggio nella libreria-tipografia di

Francisco de Paula Brito al Largo do Rossio (attuale Praça Tiradentes). La libreria, che fungeva

anche da sala da tè, era frequentata dal fior fiore dell’elite brasiliana: ci passavano i pomeriggi

l’attore João Caetano, il poeta Gonçalves Dias ed il romanziere Machado de Assis.9 Il circolo

costituiva “una specie di campo neutro dove lo scrittore al debutto chiacchierava col consigliere di

Stato e il cantante italiano se la rideva con l’ex-ministro. L’ultima novità del Parlamento? Il titolo

della prossima opera italiana? Insomma, le notizie che tutti volevano sapere? Bastava andare là”.10

La moda cosmopolita imperversava a Corte e gli stranieri prosperavano. Il barbiere parigino

Teyssier era tanto apprezzato che, quando tornò in Francia, il suo garzone adottò il nome insieme al

negozio. Sarte e modiste francesi spopolavano. Un certo signor J.Joly annunciava periodicamente

sul Jornal do Commercio l’arrivo di “un vasto assortimento di alberi da frutto e da fioritura europei,

i più belli e moderni”. I tedeschi aprirono una tipografia e vari ristoranti, uno dei quali serviva con

successo un vino ungherese. I portoghesi controllavano il commercio al minuto e gli italiani

generalmente si adattavano ai lavori più umili: conducevano le carrozze o suonavano l’organetto

9 Sulla passione di Machado per l’opera lirica e per la lingua italiana, appresa da autodidatta, vedi Edoardo Bizzarri,

Machado de Assis e a Italia,, Instituto Cultural Italo-Brasileiro, cad. 1, São Paulo 1961 10 Wilson Martins, História da inteligência brasileira, São Paulo 1978 (vol. II), p. 498

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agli angoli delle strade.11

La musica li riscattava. Se il francese era indispensabile nelle

conversazioni eleganti, era però l’italiano la lingua d’obbligo nell’istruzione musicale delle

fanciulle. Per stanare talenti e diffondere l’arte del bel canto anche tra le classi meno abbienti,

l’Imperatore aveva sovvenzionato la fondazione, nel 1841, del Conservatório Dramático e Musical

Brasileiro e finanziava le stagioni d’opera integralmente, tramite lotterie oppure stimolando la

fondazione di società ad hoc tra i dilettanti più abbienti. Il gusto per la lirica corroborava il progetto

imperiale di rifondare l’identità del giovane Stato emancipandolo dall’arretrato passato coloniale ed

avviandolo ad un futuro di progresso, perché, “oltre al pubblico diletto e all’orgoglio nazionale, pure

la tranquillità, la pace, i buoni costumi richiedono la protezione del governo per le compagnie

italiane”.12

Dom Pedro II sognava un Brasile civile e moderno, capace di conquistare i conquistatori

europei sfoggiando precoci risultati nelle più avanzate espressioni di modernità, senza però mai

perdere il senso dell’eredità umanista. Tale progetto, alimentato dalla raffinata cultura

dell’Imperatore che prediligeva l’Italia come patria del bello e culla delle arti, promuoveva

nell’immaginario di italiani e brasiliani una sorta di consanguineità elettiva che facilitava la

convivenza.

Allo straniero a passeggio per i viali della capitale, arredati come quelli di Parigi, poteva

sembrare d’essersi adattato fin da subito agli agî tropicali e cortigiani della borghesia locale, nel

caso riuscisse a dimenticare l’insalubrità del clima e delle acque nere che scorrevano a cielo aperto

giù per i declivi e nei campi adiacenti le vie pubbliche. La futura Parigi dei tropici però si mostrava

decisa a venire alla luce, divincolandosi dalle spoglie di capoluogo di una colonia tanto esotica

quanto primitiva. Nel giro di pochi decenni, tra la metà del secolo ed il 1870, la città che già contava

400.000 abitanti si dotò di acquedotti, pavimentò le strade del centro e le illuminò, tracciò le prime

linee di tramvai. Il governo imperiale fu all’avanguardia tra le grandi nazioni nella sperimentazione

di telegrafo e telefono, anche se con linee ridottissime; e fece fronte con inedita solerzia alla funesta

sequela di incendi che sbriciolarono per ben tre volte in dieci anni (1851, 1856 e 1859) l’unico palco

della Corte adatto all’Opera, il Teatro S. Pedro de Alcântara (já Real Teatro Dom João VI). La

superstizione popolare attribuì la cosa al fatto che l’edificio era stato costruito con pietre sottratte ad

un’antica chiesa. La prima volta si rimediò allestendo in tre mesi un palco provvisorio, detto

11 Notizie riportate da Luis G. de Escragnolle Doria, Cousas do passado, Rio de Janeiro 1909 e Fréderic Mauro, O

Brasil no tempo de Dom Pedro II, Cia. das Letras, São Paulo 1991. Cfr. anche Delso Renault, A vida da cidade refletida

nos jornais, MEC, Rio de Janeiro 1978 12 Relazione del 22.7.1835 del Ministero dell’Impero, apud Marco Lucchesi, Mitologia das platéias: a ópera e a casa de

ópera na corte (1840-1889), rivista Setembro, n.1, Rio de Janeiro 1986, p.13

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appunto Teatro Provisório e inaugurato con quattro balli pubblici nel Carnevale del 1852, appena in

tempo per accogliere la compagnia lirica italiana sbarcata prima di Capodanno. Col corpo di ballo

viaggiava Marietta Baderna, giovanissima étoile della Scala ed esule da Milano con il padre

carbonaro.13

Il teatro, che doveva servire per tre anni, ne durò ventitré, finché fu pronto per sostituirlo un

nuovo gigantesco teatro in muratura (l’Imperial Teatro Dom Pedro II) per la costruzione del quale

fu necessario indire tre lotterie. Nel Campo da Aclamação, appena decentrato dal centro (attuale

Campo de Santana, all’angolo tra Rua do Hospício e Rua dos Ciganos, attuali Buenos Aires e

Constituição) dove era stato sistemato il Teatro Provisório, migrò anche, nel 1854, il Museu

Nacional: una specie di enorme archivio etnografico che ospitava, tra altre curiosità, anche gli

studenti del Conservatório Dramático e Musical. Dirimpetto, nel 1858, fu inaugurata in pompa

magna la Estação Central (poi dai repubblicani ribattezzata Central do Brasil) nonché il primo tratto

di strada ferrata dell’America Latina: progetto pioniere che intendeva emulare il grandioso modello

nordamericano14

pur limitandosi ad un unico collegamento, dalla capitale alla vicina freguesia di

Queimados. Sulla locomotiva sbuffante, meraviglia del progresso, salirono per primi, dopo il taglio

del nastro, l’Imperatore e l’Imperatrice, con gran concorso di ministri e pubblico plaudente. Oltre il

Campo da Aclamação e la ferrovia, oltre la Rua da Valla, cioè del fossato, si stendeva a macchia

d’olio la Cidade Nova: senza fontane, senza vialetti, carrozze o tramvai, senza illuminazione a gas,

senza negozi né teatri e, ovviamente, senza fognature.

Da laggiù, senza scampo, arrivava il contagio. Fu di febbre gialla quello del 1851 in cui ci

rimisero la pelle i due terzi della compagnia lirica italiana, compreso il padre della Baderna. Colpiva

i bianchi e disseminava le strade di carcasse di animali. Il Municipio incaricava dell’eliminazione

dei rifiuti e della pulizia delle strade appositi Intendenti di Polizia, muniti di carrozze e di schiavi

neri che si caricavano sulle spalle i cadaveri e sulla testa barili di feci come fossero ceste d’arance.

Come se niente fosse, l’opera italiana debuttò il 25 marzo 1852, alla data prevista, col Macbeth di

Verdi, alla presenza delle Auguste Maestà Imperiali. Smentire il terrore che i giornali facevano

echeggiare dall’altra parte dell’oceano fu compito, fra altri, del console brasiliano a Genova

13 Per quanto riguarda l’affascinante destino brasiliano della Baderna, vedi Silverio Corvisieri, Badernão, la ballerina

dei due mondi, Odradek, Roma 1998 14 Già nel 1857 il Nord America disponeva di 43.549 km di ferrovia su 340 linee che sezionavano il paese in tutte le

direzioni. La ferrovia brasiliana, progettata dall’ingegnere inglese Edward Price per fungere da spina dorsale del paese

(doveva collegare Rio a Belém con ramificazioni in tutti gli stati) si limitò invece ai collegamenti tra Rio, Belo

Horizonte e São Paulo. Nel secolo XX, il progetto fu abbandonato.

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(Ernesto de Souza Le Conte) che negò ufficialmente l’epidemia.15

A metà di quell’anno, ancora in

pieno contagio, sbarcò in città la soprano Rosina Stoltz e fece furore; guadagnò in otto mesi quattro

volte lo stipendio di un ministro dell’Impero; poi fuggì in incognito, in piena crisi d’ipocondria.16

Il 1853 segnò l’apice della febbre di balli, esibizioni, concerti e feste con cui la Corte

rinnegava l’emergenza sanitaria e contrapponeva lo sfoggio delle ultime mode europee allo stato

d’arretratezza vigente nel resto del paese. Perfettamente accomodata nella Baia di Guanabara ma

priva di un movimento industriale che la rifornisse di prodotti, la capitale, pur avendo le carte in

regola per diventare in breve il maggior porto latinoamericano sull’Atlantico, si accontentava di far

commercio di lussi e vanità. Ogni genere di velleità era offerta in affitto sulla pagina d’inserzioni

dei giornali locali, compresi i servizi più comuni degli africani che erano doppiamente sfruttati dai

loro sfaccendati e spesso squattrinati proprietari. Nessuno degli aristocratici politici brasiliani osava

denunciare il traffico clandestino di schiavi, tanto meno si prendeva l’imbarazzo di rivendicare

l’abolizione della schiavitù, pur mostrando una nobile indignazione dinanzi a scene di ordinaria

amministrazione cui assistessero anche eventuali visitatori europei. E, noblesse oblige, nessun

aristocratico mancava alle occasioni mondane cui si faceva condurre in carrozza, lusso che a Rio de

Janeiro costava il triplo che a Londra. Sua Maestà apprezzava i valzer e apriva con stile le danze;

ma i suoi compositori preferiti – dunque i più gettonati nelle riunioni artistiche cui si degnava di

comparire – erano Verdi, Rossini e Donizetti.17

Nel 1854 l’epidemia fu di colera che, al contrario della febbre gialla, colpiva più facilmente i

neri e in un anno e mezzo fece 5.228 vittime dichiarate.18

Nel frattempo sbarcarono le dive Mme. de

la Grange e Mme. La Grua con una sfilza di bassi e tenori ed un esercito di coristi, tutti reclutati in

Europa. Il Teatro Provisório era sgraziato fin dal progetto: un capannone con 124 palchetti disposti

su quattro ordini sovrastati dalla galleria e una platea arrotondata (per ospitare, alla bisogna, anche il

circo) decorata con ritratti di Bellini, Verdi, Donizetti, Auber, Schiller, Catalani, Meyerbeer e

15 Bollettino Storico Commerciale Marittimo, Genova, 26.6.1851

16 Quando l’Imperatore la invitò a tornare nel 1857, la Stoltz chiese ed ottenne 320.000 franchi per sei mesi a patto di

cantare al massimo due volte la settimana, un beneficio di 50.000 franchi, viaggio e alloggio pagati, otto servitori due

carrozze e dodici cavalli a sua disposizione. Vedi: Vincenzo Cernicchiaro, Storia della musica nel Brasile dai tempi

coloniali fino ai giorni nostri, Riccioni, Milano 1926, p.220 17 I diari di viaggio dell’epoca registrano ogni genere di curiosità, vedi: Charles Expilly, Le Bresil tel qu’il est, Paris

1862 e i diari femminili citati da Miriam Moreira Leite, Livros de viagem (1803-1900), UFRJ, Rio de Janeiro 1997 18Josè Pereira Rego, Memória histórica das Epidemias da febre amarela e cholera,

morbus que têm reinado no Brasil, Rio de Janeiro 1873 (apud Corvisieri, op.cit).

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Rossini su un fondo rosa acceso, pare di pessimo gusto.19

Ma, pur brutto com’era, il teatro aveva

rivelato un’insospettabile qualità acustica, colta a tempo dall’orecchio degli impresari che ne fecero

il tempio della passione operistica.20

A maggio, in pieno contagio, fu reinaugurato in gran gala, con

l’Ernani sui manifesti ed una scintillante targa sul frontespizio: Teatro Lyrico Fluminense.

Fra tutti i palchi urbani ove i borghesi si osservavano e tentavano la scalata sociale,

disputando campionati d’etichetta, scambiandosi cortesie e combinando matrimoni, il Lyrico

Fluminense divenne quello più adatto all’esibizione di sé. Nei suoi quasi mille posti tra palchi,

galleria, balconata, prima e seconda platea, gli spettatori si distribuivano ciascuno secondo la

propria classe, come in un microcosmo ordinato da una gerarchia di potere visibile e concretamente

riflessa dal divario tra i prezzi delle poltrone. La sintassi dello spazio di un teatro è sempre

direttamente proporzionale al prestigio assicurato da ciascuna postazione, nella gamma dei valori di

visibilità (del vedere e dell’esser visto). Una gerarchia di potere al cui apice, nel caso del Lyrico,

troneggiava Sua Maestà nella tribuna imperiale appesa sul palcoscenico. Ben lo sapevano i gestori

della sala i quali, a partire dal 1854, condizionarono la vendita dei biglietti all’affitto stagionale

oppure all’acquisto definitivo della poltrona numerata, in alcuni casi contrassegnata con il nome dei

proprietari. Lo stesso Imperatore in quegli anni non si negava a presenziare le serate di gala,

facendosi annunciare sulle locandine. Dom Pedro II riconosceva nel teatro il topos del suo progetto

di nazione, accogliente ed ordinata secondo precise ambizioni politiche e culturali; tanto che molti

anni dopo – a partire dal 1888 quando, nei rientri tra un viaggio internazionale e l’altro, si trasferì

sulle alture di Petrópolis per sfuggire al collasso sanitario della capitale – la sua assenza della

tribuna imperiale significherà anche, agli occhi dell’opinione pubblica, una tragica diserzione dal

progetto di nazione.

Agli spettatori si vendeva, con il biglietto, l’artificiale e momentanea immunità da qualsiasi

pericolo, di cui solo il mondo dello spettacolo è capace. Più che la difesa dell’orgoglio patrio o

l’esibizione di qualità artistiche, si auspicava che gli artisti producessero occasioni di pubblico

divertimento e di evasione dalle strade infestate dai contagi. The show must go on. Gli artisti –

ignari o sprezzanti del pericolo, oppure messi alle strette dalla fame – arrivavano a sciami

dall’Europa, attratti come mosche al miele da vaghe ma generosissime promesse contrattuali.

19 All’inaugurazione, il Jornal do Commercio (29.3.1852) rimproverò il costruttore Vicente Rodriguez per la scarsa

eleganza del nuovo teatro. Altre informazioni sul Teatro Provisório sono fornite da Vivaldo Coaracy, Memórias da

cidade do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro 1965 e Augusto Mauricio, Meu velho Rio, Rio de Janeiro, s/d, p.128. 20 L’informazione è fornita da Gyorgj Miklos Bohm, Enrico Caruso na América do Sul: o mito que atravessa o milênio,

Cultura Editorial, São Paulo 2000

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Nell’aprile del 1855 aprì un nuovo teatro per la prosa, il Gynásio Dramático, gestito da portoghesi

nella vicina Praça São Francisco; subito dopo, approfittando della stagione di riposo in Europa,

sbarcarono le prime compagnie francesi di operetta e vaudeville. Il business dell’opera buffa mostrò

d’esser così promettente che in pochi anni s’inaugurò un salone apposito per il café chantant, a

nome Pavillon du Paradis (omonimo alla sala aperta da Offenbach a Parigi qualche mese prima),

proprio di fronte al Teatro Lyrico Fluminense. Nel 1859 il salone si dotò di séparés, denudò le cosce

delle soubrettes e prese il nome di Alcazar Lyrique. Le francesi circolavano liberamente per la città,

vestite alla moda parigina (con una stagione di ritardo) e sfoggiando carrozze, domestici e brillanti

enormi, dono d’incauti fazendeiros. Erano loro che occupavano le poltrone più in vista nei teatri;

mentre le dame brasiliane maritate si tappavano in case prive di libri e in severi abiti neri, le rare

volte che uscivano da sole, magari per andare alla messa. Accompagnavano i mariti all’opera, ma

con l’obbligo di restare invisibili, retrocesse al second’ordine di sedie nei palchetti di proprietà della

famiglia. Quello delle francesi era il contagio che più preoccupava la borghesia benpensante della

capitale: “l’influenza epidemica, perniciosa, palustre dell’Alcazar, tale che perfino Rossi e Salvini

ebbero a Rio qualche notte pressoché senza pubblico e ci volle tutto il prestigio della Ristori e

l’inesauribile tesoro del suo straordinario genio e profonda maestria artistica, perché non Le

accadesse la stessa cosa”.21

Rossi, Salvini, Ristori. Stelle peninsulari che brillarono nel firmamento tropicale e imposero

sui palcoscenici della Corte una moda italiana egemonica, una passione di massa prima per l’opera

lirica e solo poi per l’arte drammatica, a partire dal 1869, quando sbarcò a Rio de Janeiro Adelaide

Ristori. Pioniera, tra gli attori, ad intraprendere l’avventura dei viaggi intercontinentali, la Ristori

dopo la consacrazione nelle capitali europee (principalmente Parigi) aveva deciso di battere le rotte

trionfali dell’opera lirica ed era partita alla conquista di più ampli orizzonti. In Sud America, la

Ristori divenne un fenomeno di consumo ed inaugurò il mercato delle tournée transoceaniche,

lanciando mode come il debutto mondiale di un nuovo titolo in una capitale estera, l’attivazione

anticipata delle campagne promozionali tramite stampa, pre-vendita di abbonamenti, pubblicazione

di biografie encomiastiche e distribuzione sul mercato al dettaglio di gadgets legati al nome

dell’artista. La “moda Ristori”, proiettando nell’empireo dell’arte il nome della primadonna mentre

lo rendeva accessibile ai fans tramite redditizie pratiche di compra-vendita, decretò il suo successo a

Corte. Nel 1874, la Parigi dei tropici fece da trampolino di lancio del viaggio della Ristori intorno al

21 Joaquim M. de Macedo, Memórias da rua do Ouvidor, Rio de Janeiro 1887, pp. 111-112

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mondo, coperto in dettaglio per quasi due anni dalla stampa mondiale.22

Sulla rotta trionfale Rio –

Buenos Aires – Montevideo la seguirono quasi tutti i grandi nomi italiani (Salvini, Rossi, Emanuel,

Novelli, Pasta, Maggi, Giacinta Pezzana, Celestina Paladini e fino alla Duse) e anche francesi

(Coquelin, Sarah Bernhardt) con rispettivi mattatori e primedonne, spartendosi le cabine dei

transatlantici con i cantanti lirici, mentre nelle stive s’accalcavano le famiglie degli emigranti con le

loro miserabili carabattole.

Per riscattarsi dalle ristrettezze del mercato peninsulare, gli artisti italiani si facevano

concorrenza in America, però su ben altra scala di profitti e con la provinciale certezza che un

eventuale trionfo all’estero aumentasse il proprio potere di trattativa con gli agenti in patria.23

Diversamente dagli artisti inglesi e francesi, la cui presenza in America Latina era saltuaria, e dagli

spagnoli e portoghesi i quali, in virtù dell’affinità linguistica, facilmente fissavano residenza, i

teatranti italiani – tradizionalmente nomadi e con poche pretese – si lanciarono in massa nel

business delle tournées transatlantiche, allora chiamate “giri” che diventavano vere e proprie

trasferte della classe artistica durante la bella stagione europea, quando le condizioni climatiche

nell’emisfero sud apparivano meno minacciose. A temperatura appena tollerabile (diciamo sotto i

trenta gradi) qualsiasi città latinoamericana dotata del più precario palcoscenico poteva sembrare

l’Eldorado. Perfino Manaus, allora floridissima grazie all’estrazione della gomma dalla foresta, si

dotò di un teatro rosa che spiccava come un confetto tra le anse limacciose del Rio delle Amazzoni e

diventò tappa obbligatoria dei circuiti lirici e drammatici. L’eterna sfida tra l’estro degli italiani e

l’universale “scuola francese” divenne, a Rio come a Montevideo e Buenos Aires, materia di

pubbliche dispute che vedevano schierata la compatta tifoseria della locale comunità immigrata a

favore del celebre compatriota di turno. Poi, nei decenni a finire il secolo, mentre il Brasile, da

Corte di un Imperatore illuminato, scivolava di collasso in collasso (sanitario, finanziario, politico)

verso la slavata Repubblica che traghetterà il paese nel Novecento, il prestigio di quelle capitali

decadde ed evaporò anche per gli artisti europei il mito dell’Eldorado latinoamericano.

Delirio lirico

22 Sui favolosi viaggi della Ristori vedi innanzitutto Eugenio Buonaccorsi, “Adelaide Ristori in America”, in L’arte

della recita e la bottega. Indagini sul grande attore dell’800, Bozzi, Genova 2001. Per lo specifico dei viaggi brasiliani

vedi A. Vannucci, “La regina delle scene alla corte dell’Imperatore”, Studi Portoghesi e Brasiliani n.23, Roma 2003;

Uma amizade revelada. Epistolário entre o Imperador Dom Pedro II e Adelaide Ristori, Fundação Biblioteca Nacional,

Rio de Janeiro 2004 23 Su questo tema vedi A. Vannucci, “Gli attori viaggianti”, Letterature d’America, n. 97, Roma 2003

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Fu solo a partire dalla metà del secolo, dopo i primi vent’anni di un governo che Dom Pedro II

aveva assunto bambino, che la temperie cosmopolita della Corte corrispose pienamente alla

predilezione della famiglia imperiale per l’arte italiana. Gli immigrati italiani più in vista – in specie

se intellettuali o con ambizione di divenirlo, come quelli che si davano appuntamento alla libreria di

Paula Brito – s’impegnarono a lato dei brasiliani nella campagna per il finanziamento delle stagioni

d’opera italiana e per la ricostruzione del Teatro S.Pedro, oltre che nell’organizzare patriottiche

manifestazioni d’accoglienza per cantanti, mattatori e muse italiche di passaggio. La libreria

funzionava anche da box-office del Teatro Lyrico: vi si stampavano e vendevano abbonamenti,

libretti bilingui per le opere in programma e foglietti con le arie più celebri. Durante i

festeggiamenti per il compleanno dell’Imperatrice Teresa Cristina, il 18.3.1855, lo scrittore José de

Alencar, frequentatore assiduo, ebbe modo di ricordare ai suoi lettori quanto la cultura brasiliana

fosse debitrice alla “buona terra d’Italia”, e questo sia per le “belle notti in teatro che dobbiamo alla

scuola italiana ed ai suoi genî musicali; e sia perché è là, in mezzo a quelle rovine secolari, nel suolo

dove visse il popolo-re, nella terra in cui nacque Virgilio, che un poeta brasiliano può trarre la più

profonda ispirazione per imprimere nel suo poema nazionale quel carattere di grandezza e di

sublimità che il tempo ha lasciato nella storia di quel popolo. Tutto questo deve il Brasile

all'Italia”.24

Proseguiva annunciando lo sbarco di nuove celebrità provenienti dalla “terra classica

delle arti e del bello” con la certezza che “i buoni spettacoli, l’esempio e le lezioni degli artisti di

talento sicuramente favoriranno lo studio della musica italiana tra noi, contribuendo alla crescita di

talenti nazionali”.

La predilezione di Alencar per l’Italia non era una passione solitaria. Colleghi scrittori come

Machado de Assis, Martins Pena, Muniz Barreto e Gonçalves Dias, nonché giornalisti, attori e

spettatori da anni sognavano il gemellaggio culturale con la penisola, tanto che in quel 1855 un

gruppo di foliões rivendicò un carnevale ad imitazione di quello che allora si svolgeva a Roma.

Annunciando l’uscita, per i tipi di Paula Brito, del libretto bilingue degli Arabi nelle Gallie con

“nuovo sistema interlineare” di traduzione ad opera dello stimato prof. Galleano-Ravera (che era

anche autore del Metodo prático para aprender a língua italiana pubblicato proprio quell’anno) il

Diario do Rio de Janeiro si augurava “di fare presto dell’italiano una lingua famigliare a tutti in

24 Ao correr da pena, cronache pubblicate sul Correio Mercantil (1855), São Paulo 1874. 4a ed. a cura di João R.Faria,

Martins Fontes, São Paulo 2004. Il suggerimento fu preso alla lettera: l’Imperatrice Teresa Cristina indisse borse di

studio per l’Italia a favore di artisti brasiliani particolarmente dotati, come il compositore Carlos Gomes che grazie al

suo sostegno fece una carriera fulminante (debutta al Lyrico Provisório nel 1861 con A noite do Castelo, nel 1864 è già

a Milano, nel 1866 riceve il titolo di maestro al Conservatorio e nel 1870 debutta alla Scala con Il guaranì).

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Brasile. Tutti i dilettanti devono saperlo per forza. È incontestabile: per poter apprezzare l’opera,

bisogna saper l’italiano” (28.1.1855). Fra tutti gli amori italici, però, quello che più dilagava era il

gusto per il bel canto: un delirio lirico che in quel decennio non fece che crescere. Erano “i tempi

omerici del Teatro Lirico”, descrive Machado de Assis che, all’epoca diciassettenne, dedicò la sua

prima poesia “ad una italiana”:25

ovviamente una cantante. Era la favolosa Augusta Candiani, un

viso ed una voce che popolarono per molti anni i suoi ricordi di spettatore, come poi quelli della

Ristori, di Rossi e di Salvini. Del superiore talento drammatico italiano e del suo trionfo sui

palcoscenici della Corte, Machado fu uno dei più appassionati promotori: la sua passione teatrale

era però condizionata all’arte della declamazione ed all’uso della voce, di cui i grandi attori italiani

erano virtuosi. Quando, nel 1867, la Ristori debuttò con Medea di Legouvé proprio al Teatro Lyrico,

Machado annunciò la resurrezione della “musa tragica”, attribuendo la sua superlativa qualità

drammatica alla magia lirica della voce capace di sintetizzare diversi effetti sonori nel medesimo

contesto armonico ed allo straordinario strumento della lingua italiana, “tra tutte la più armoniosa:

uno dei più intonati strumenti della sonorità umana”.26

Invece non l’infiammarono affatto, anni

dopo, l’arte intimista e la voce naturale della Duse, perché – ammise – “io capisco solo l’italiano

cantato e la Duse non canta” (Gazeta de Notícias, 25.7.1885). Ebbene, la favolosa Candiani “non

solo cantava: metteva il cielo in bocca […] Quando sussurrava i versi della Norma c’era di che

rimanere tramortiti. Il pubblico carioca, che impazzisce per la melodia come le scimmie per le

banane, viveva allora la sua aurora lirica” (Ilustração Brasileira, 15.7.1877).

La soprano milanese che meritò il primo poema di Machado fu anche una delle prime che

sbarcò a Rio nel 1844 e diventò un mito in una sola notte, cantando la Norma di Bellini. Ventenne,

s’era imbarcata a Genova per un viaggio lungo e rischioso senza alcuna promessa d’ingaggio:

fidandosi delle promesse di un marinaio e della fama di melomani attribuita ai cittadini di Rio.27

La

moda fomentava il mercato ed attraeva frotte di cantanti d’opera, italiani – a volte pure italiani e

25 Pubblicata sulla Marmota Fluminense (15.7.1855), “giornale di moda e varietà” il cui redattore era lo stesso Paula

Brito. 26 A ciò attribuì “l’equivoco di presentare la Ristori come una cantante, quando in verità la sua declamazione rivela una

traduzione lirica e musicale degli intimi sentimenti dell’animo con tale arte che ricorda i cori della tragedia greca”.

Folhetim do “Diário do Rio de Janeiro”, s/d, in Homenagem a Adelaide Ristori, Dupont&Mendonça, Rio de Janeiro 1869, p. 55. Per l’opinione di Machado sugli altri artisti vedi Vannucci, “Gli attori viaggianti”, cit. 27 Sulla Candiani vedi Silverio Corvisieri, “Musica danza e belcanto. Il mito dell’Italia nel Brasile dell’Ottocento”, in

Letterature d’America, n. 97, 2003. All’arrivo, così giustificò l’impresa: “Noi sottoscritti, artisti di canto, dichiariamo

che il signor Pietro Pittaluga capitano del brigantino sardo Empireo, conoscendo la propensione e il desiderio degli

abitanti di questa capitale nei confronti della musica vocale italiana, di sua spontanea volontà ci ha proposto di unirci in

una società, dopo averci scelti in mezzo a molti altri e ha poi firmato con noi un contratto, che abbiamo accettato di

comune accordo”, secondo Ayres de Andrade, Francisco Manuel da Silva e seu tempo, Rio de Janeiro 1967 (vol. I), p.

196.

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basta, per privilegio di nazionalità subito acquisiti a ruolo di specialisti – e francesi o tedeschi,

dedicati all’arte del bel canto. “I brasiliani amano quell’arte! Qui non si canta altro che arie d’opera

persino nelle feste religiose. Bellini e Donizetti all’assalto dei pulpiti!”. È la scherzosa opinione di

un osservatore non sospetto come il pittore francese Charles Ribeyrolles, esule a Rio nel 1858-59

dopo aver partecipato al Quarantotto parigino. Quindici anni sono passati ma il vero divertimento

carioca “nonostante il caldo che fa” è ancora il teatro; ed il più ricco, il più affollato, il miglior teatro

di Rio è “il teatro lirico italiano”. Il Ginásio Dramático e il São Januário, “pur essendo degni di

molte piccole sale di Londra e Parigi, gli sono senz’altro inferiori” mentre perfino il circo equestre è

“meglio frequentato” del francese Alcazar Lyrique. “La direzione (del Lyrico Fluminense),

generosamente sovvenzionata, fa concorrenza alle più prestigiose accademie europee di musica e, se

non sempre voci fresche, riesce talvolta ad accaparrarsi qualche bel nome nella sua compagnia

franco-italiana”.28

Ecco il problema: nonostante la presenza costante dell’Imperatore e i suoi sforzi

pedagogici, quali le borse di studio e la sovvenzione pubblica al Conservatorio, l’arte italiana

restava indotto di artisti italiani o al massimo francesi...

Nel 1857, l’Imperatore raddoppiò la posta in gioco, sovvenzionando la fondazione

dell’Imperial Academia de Música e dell’annessa compagnia dell’Ópera Nacional (tenuta a

scritturare almeno metà del suo organico tra artisti brasiliani di nascita) perché facesse concorrenza

alla Compagnia Lirica Italiana, inamovibile carrozzone che aveva cambiato impresari, soprani e

coristi senza mai perdere il monopolio del gusto. Nessuno si stupì del fatto che della direzione

dell’Opera Nacional fosse incaricato il maestro italiano Gioachino Giannini, insegnante di Carlos

Gomes al Conservatório Dramático prima che questi partisse per Milano. Giannini, radicato in

Brasile da molti decenni, portava avanti con entusiasmo l’idea di una futura produzione operistica in

lingua portoghese.29

Uno dei più decisi sostenitori dell’idea era Paula Brito, che dalle colonne della

sua Marmota Fluminense affermò l’eccellenza dell’impresa nazionale ancor prima del debutto e

prese a pubblicare libretti con l’opera annunciata già bell’e tradotta in portoghese. Il momento clou

della querelle fu a metà ottobre, quando due Norme (una in portoghese, l’altra in italiano)

debuttarono contemporaneamente al Teatro S. Pedro de Alcântara (appena ricostruito dopo il

secondo incendio e diretto dall’attore João Caetano) e al Lyrico Fluminense. L’anno seguente, il

28 Brasil pictoresco. Álbum de vistas, panoramas, monumentos e costumes, Paris, 1861. Vedi anche João R.Faria,

Teatro realista no Brasil (1855-1865), Perspectiva, São Paulo 1993 e L.Hessel e G.Raeders, O teatro no Brasil sob D.

Pedro II, EDURGS, Porto Alegre 1979/1986 (2 voll.) 29 Cfr. Guimarães JR., Perfil biográfico, Rio de Janeiro, 1870 e Lafayette Silva, Artistas de outra era, Revista do

Instituto Histórico e Geografico Brasileiro, vol. 169, Rio de Janeiro 1939, pp. 1-196

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terzo incendio dell’unico altro palco adatto all’opera fece traballare le speranze di chi s’azzardava a

far concorrenza agli italiani quando si trattava di cantare. Morto il maestro Giannini nel luglio del

1860, l’Opera Nacional fu estinta, dopo due sole stagioni di vita finanziata.

L’episodio è uno spiraglio che rivela un particolare percorso di civilizzazione. La ricerca

dell’identità nazionale brasiliana, intrapresa con l’Indipendenza e quindi nella fase di distacco dal

Portogallo, si affermava a metà del secolo nell’imperativo di una nuova “europeizzazione” culturale

che, paradossalmente, partiva dalla squalifica delle potenziali qualità autoctone. La volontà di

potenza della giovane e gigantesca nazione guidava la marcia della civiltà, fomentando la

sensazione euforica del progresso ad ogni costo e negando la percezione del ritardo catastrofico,

dovuto alla distanza geografica e temporale della ex-colonia dall’ex-centro. Il vecchio mondo era

sempre, comunque, davanti al nuovo come un modello; per superarlo era necessario comprenderlo

ed acquisirlo se non profondamente, almeno letteralmente. L’apertura dei porti aveva accelerato il

processo. Dall’Europa s’importavano vini e acque minerali, spezie, profumi, cuochi e pasticcieri,

stoffe, cappelli, bastoni, gioielli, modiste e mode “da primo mondo” così come cantanti più brave e

prostitute più raffinate. Perfino il profumo della lavanda francese pareva insostituibile: e i nobili

mandavano le camicie in lavanderia a Parigi. Un’inserzione sul Jornal do Commercio (8.11.1858)

mostra bene l’assurda esterofilia che caratterizza in quegli anni il processo di emancipazione del

Brasile, Impero nuovo che pende dall’antico come da un sole intorno a cui, al più, potrà orbitare. Al

rispettabile pubblico di “dilettanti” della Corte, notasi una città incastonata nella foresta atlantica e

zeppa di specî canore, “offresi un gran numero di canarini, merli, usignuoli e altri passeri, eccelsi

cantanti, con grande assortimento di gabbie del più squisito buon gusto, tutto importato

dall’Europa”. Fenomenali opere del progresso quale “la canalizzazione del fiume Maracanã, il

telegrafo elettrico, l’illuminazione a gas o la costruzione della ferrovia perdono totalmente interesse

agli occhi dell’opinione pubblica dinanzi al fulgore di Mme. Stoltz” (Jornal do Commercio,

25.6.1852). La più sublime delle voci canterine, appunto.

Ben più che la causa dell’opera nazionale, la passione dei dilettanti animava risse tra opposte

tifoserie a favore di questa o di quella cantante italiana (o francese o tedesca) arrivata fresca fresca

da Vienna, Trieste, Parigi o Milano. In assenza di campi sportivi e di un parlamento democratico,

studenti, artisti ed intellettuali frequentavano i teatri con la smania di difendere la bandiera prediletta

ed attaccare gli avversari: il partito della Candiani contro quello della Stoltz, lagruisti contro

lagrangisti, i devoti della Baderna contro i suoi nemici. Quest’ultima, come racconta benissimo

Silverio Corvisieri in Badernão (op.cit.) portava sul palco carioca, che fin’allora aveva offerto poco

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più che un sonnolento rifugio alla borghesia cortigiana locale, il marchio di un passato sovversivo:

durante la sua ultima recita alla Scala, come étoile, aveva sputato sulla prima fila di ufficiali

austriaci. Le scorribande dei baderneiros, giovani repubblicani che onoravano il culto della loro

beniamina con manifestazioni d’incandescente ammirazione, cominciarono a costituire una

preoccupazione per l’ordine pubblico. Ad un certo punto Marietta, una silfide di neanche vent’anni

che viveva da sola e non rinunciava alle feste notturne coi suoi ammiratori sulle spiagge di Rio

(allora selvaggie), inserì nel programma ufficiale del balletto una umbigada, danza femminile di

origine africana. Intendeva fare omaggio alla sensualità delle donne nere con una danza a ventre

scoperto, giudicata oscena e censurata dalla società brasiliana schiavista; con evidente

provocazione, additava il re nudo e lo faceva dal palcoscenico più chic della Corte. Era il 1854. Lo

scandalo inebriò gli studenti e terrorizzò i borghesi, impose il nome della Baderna per mesi su

giornali, locandine e riviste prima che la direzione del teatro silurasse l’incauta ballerina. Fu così

che il balletto fu declassato dalla più sublime delle arti importate dall’Europa a divertissement

infilato negli intervalli delle opere italiane e bollato come scuola di prostituzione al pari delle

disdicevoli danze dell’Alcazar Lyrique.

Oltre a mostrare a quale livello di censura poteva giungere il complesso di sudditanza post-

coloniale, il subisso della Baderna e, con lei, delle sorti del balletto a Corte fa emergere la mancanza

di scrupoli di un personaggio che prenderà molto spazio nella nostra storia: l’influente impresario

José Manoel de Araújo, che aveva strappato la gestione del Lyrico Fluminense, con relativo

finanziamento, all’attore ed impresario João Caetano. Uno dei patti in convenzione era, appunto, la

creazione di un corpo di ballo; nonostante ciò, per i motivi sopradetti e con l’alibi di un necessario

aggiustamento di bilancio, Araújo dopo la Baderna falciò ballerini e coreografi, quasi tutti italiani e

senza rivali sulla piazza, perciò difficilmente sostituibili. L’aprile seguente, per rimpiazzare il

balletto negli intervalli del Don Pasquale, Araújo convocò la banda della fregata francese

Poursuivante ormeggiata in porto. I baderneiros insorsero in difesa dell’arte della loro eroina, ma le

contemporanee vicissitudini della soprano Arsène Charton-Demeur, scritturata da Araújo a Parigi

alla favolosa cifra di 120.000 franchi francesi per una sola stagione e già sbarcata con la sua corte di

accompagnatori, distrassero l’opinione pubblica. Solo il Jornal do Commercio ebbe a lamentare la

mossa di Araújo che decretava la decadenza del genere e la morte artistica di una stella. Un anno

dopo, un anonimo corrispondente da Rio informò i lettori del periodico milanese La Fama

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(13.6.1856) che la Baderna si trovava ancora in città “ma inoperosa” mentre la febbre gialla aveva

fatto fuori un altro cantante a Salvador, Bahia.30

Il 1856 fu un anno pieno di aspettative e colpi di scena, con il Teatro S.Pedro in cenere e il

Lyrico Fluminense sconquassato da battaglie campali a base di lancio di ortaggi, di versi e di fuochi

d’artificio tra bande di spettatori fanatici. “Una sera (racconta Machado) lo scontro fu di tale

violenza che sembrava di assistere all’Iliade. Stavolta fu Venere a rimanere ferita: un botto esplose

in faccia alla Charton-Demeur. Il furore fu incredibile e la patata bollente passò ai giornali:

vergogna eterna ai cavalieri che hanno sputato in faccia ad una dama! Diceva uno, e l’altro

replicava: se sarà il caso sfideremo a duello i vigliacchi che nell’atrio giurarono vendetta!

Miserabili! Birbanti!”.31

Queste “guerre tra rosmarino e maggiorana” avrebbero richiesto,

suggerisce Machado con il suo abituale understatement, una valutazione improntata alla “serenità e

qualche lezione di buon gusto”. Invece (secondo un altro cronista) erano “risse, risse e ancora risse.

Non si discute neanche più del merito degli artisti, né del modo con cui la direzione amministra il

teatro, cosa cui il pubblico avrebbe doppiamente diritto perché vi contribuisce con il proprio

denaro”. Un incendio subito domato, forse doloso ma poi attribuito ad una cenere di sigaro, bastava

per incutere il panico nella popolazione e infiltrare “il disgusto ed il sospetto tra gli artisti a scapito

dei giusti diritti altrui, specialmente dei dilettanti” (A palestra, 20.8.1855). Il fanatismo provocava

reazioni distorte e forse ingenue “così nei plausi come nei biasimi: non è raro il caso di veder

passare gli spettatori dall’uno all’altro partito senza ragione o, piuttosto, per istigazione di coloro

che pescano nel torbido” (La Fama, 24.3.1856).

Ma chi mai poteva desiderare di “pescar nel torbido”? Benché vigesse il divieto al pubblico di

eccedere negli applausi ed agli artisti di secondare le ripetute chiamate alla ribalta (in casi del

genere, interveniva la polizia e procedeva all’arresto degli spettatori più vivaci), l’acquisto del

biglietto dava il diritto inalienabile di patear. Ovvero, il pubblico poteva pestare i piedi

sull’impiantito, caso disapprovasse l’esecuzione che in tal modo veniva disturbata e talvolta

interrotta. L’ingenuità dei dilettanti finiva per fornire un ottimo alibi alla furberia dell’impresario,

che facilmente giustificava mancati pagamenti e dimissioni sommarie con la scusa della scarsa

qualità dell’artista che era stata pateada. Era stata questa la strategia con cui Araújo aveva

squalificato ed espulso il balletto dal palcoscenico del Lyrico: una perentoria pateada (da lui stesso

organizzata, si disse). Non sorprende che le cantanti meno amate dal pubblico arrivassero ad offrire

30 Corvisieri, op.cit. (cap. V). 31 A mão e a luva, Cultrix, São Paulo 1919 (cap. II).

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balli in maschera per promuovere il proprio partito di sostenitori, come quello dato per carnevale del

1855 al Teatro S. Januário da una (non meglio precisata) soprano italiana.

Una sventura simile accadde proprio alla celebre Charton-Demeur la quale, pochi giorni dopo

il suo arrivo, a detta dell’impresario già “faceva i capricci” in quanto pateada durante la

Semiramide. La Charton godeva di un’ottima reputazione da soprano oltre che di una paga notevole,

il che fa credere che preferisse risparmiarsi il confronto con la seconda voce femminile, la contralto

Annetta Casaloni (così suggerisce il settimanale l’Iride italiana, diretto dal prof. Galleano-Ravara,

genovese nonché dilettante sfegatato, che tentava di infilarsi tra Araújo e gli artisti come agente

intermediario). Colpita da una “febbre ai bronchi”, la Charton aveva fatto saltare tre repliche,

scatenando l’ira degli abbonati, la vendetta dell’impresario ma anche l’indignata reazione degli

intellettuali contro l’inciviltà del pubblico carioca. “Signori artisti, insorse il prof. Galleano-Ravara,

vittime innocenti delle ire donchisciottesche dei dilettanti: tenetevi di buon animo e state col

pubblico”(Iride italiana, 8.1.1855). Il 30.1.1855, rientrando in scena nella Semiramide, Mme.

Charton era stata nuovamente pateada “senza che la sua esecuzione desse motivo a tanto rigore” –

rimproverò il Diario do Rio de Janeiro – e provocando un tumulto cui seguì l’arresto di due

spettatori facinorosi. Un fiume di chiacchiere e disquisizioni sui limiti di urbanità da imporre

all’espressione delle passioni teatrali dilagò sulle pagine dei giornali. Il 6.2, una pubblicazione a

pagamento sul Diario, firmata “la civiltà” e indirizzata “all’esimio capo della polizia”, invitava a

riflettere sulla necessità di obbligare la platea allo stesso severo comportamento vigente nei

palchetti, giacché, mentre “anticamente si frequentava il teatro solo per rider e far rumore, oggi il

teatro è un luogo serio, soprattutto il Lyrico dove andiamo a sentir cantare e goderci lo spettacolo

del convivio di persone distinte e belle donne in un grande salone illuminato in modo da far

conversazione negli intervalli; tutte queste emozioni si confanno ad una Corte distinta mentre la

confusione creata dalle gallerie è sconveniente, a maggior ragione in presenza delle Loro Maestà

Imperiali”. La settimana seguente, nello stesso spazio, un cronista faceva notare che, seppur l’atto di

patear fosse usanza antica e quasi un diritto in passato, nello stato di civiltà attuale esso sconfinava

nella maleducazione. Il 19.3 Mme. Charton diede nuovamente forfait facendo saltare il debutto del

Trovatore, sostituito quella sera con gli Arabi nelle Gallie. Alla terza replica del Trovatore (27.3) il

tenore si diede per malato ma non trovò chi lo sostituisse per cui, piuttosto che doversi esporre

all’umiliazione della pateada proprio sul titolo che godeva della preferenza dei dilettanti, si scusò

avvisando che avrebbe cantato male. Per assistere al Trovatore senza intoppi, la platea dovette

attendere il 7 di settembre, commemorazione dell’Indipendenza, mentre nel Campo da Aclamação,

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antistante il teatro, impazzava il torneo romano con corse a cavallo, salti mortali, gare di cani, di

carrozze e lancio di palloni aerostatici. Il braccio di ferro finì per definire le sorti della cantante

francese che, avvilita dal trattamento poco cavalleresco ricevuto a Rio, se ne tornò in Francia non

senza raccogliere melanconici applausi all’addio (il 13.11 con la Fidanzata corsa). In attesa

dell’imbarco diede ancora, in dicembre, quattro trionfali repliche della Traviata, titolo in cui fu

giudicata “insuperabile”.

Nelle locandine dell’imminente stagione operistica (1856), sparita l’incompresa Mme.

Charton, brillano i nomi di Mme. Emy La Grua (mezzo-soprano) e Mme. Anna de la Grange

(soprano), mentre all’appello dei tenori rispondono Camolli, Devoto, Gentili e Ballestra-Galli: tutti

nomi nuovi. L’impresario s’era messo a battere le piazze europee a caccia di nuovi talenti da attrarre

oltreoceano con favolose promesse contrattuali. In quel momento, con il teatro S. Pedro in

ricostruzione, a Corte non esistevano che due palchi per l’opera lirica: il Lyrico Fluminense e il

piccolo Teatro Santa Teresa, a Niterói (cittadina situata dirimpetto a Rio, sull’altra riva della Baia di

Guanabara), gestiti dal medesimo impresario con identica programmazione. Ai cantanti che si

lasciavano irretire da Araújo appariva ben presto evidente, una volta sbarcati, di non avere

alternative, caso la realtà non rispettasse le promesse e l’impresario tradisse i termini della scrittura.

Fuori dal teatro, dal Campo da Aclamação alla Praça Tiradentes, la notte carioca era popolata

da vadios e capoeiras (cioè vagabondi e bande di africani, lottatori di capoeira) oltre che da solitari

spettatori dell’Alcazar Lyrique che vagavano a caccia di prostitute. Per la serie delle correzioni

morali, il Correio Mercantil nel luglio 1856 fece una campagna contro le proprietarie di pensioni

del centro perché, con quel viavai di clienti fino all’alba, fomentavano disordini. E, per la serie delle

peggiori figuracce sulla stampa internazionale, nell’ottobre del 1858 il Moniteur Universal sbatté in

prima pagina l’avviso di un viaggiatore inglese: “lo stato della città di Rio de Janeiro è una

vergogna per un paese civilizzato: in quasi tutta la città, immondizie d’ogni genere, animali morti e

porcherie da dar la nausea”. Un “indignato” firmò un pezzo a titolo “Teatro versus immondizia” in

cui metteva in ridicolo Araújo che da Parigi, ad ogni inizio di stagione, annunziava per il Lyrico

Fluminense un programma ancor più megalomane del precedente: “cose da primo mondo”. “Se non

abbiamo nient’altro di decoroso da mostrare agli stranieri, mostreremo loro le massime celebrità

europee sulla nostra scena lirica! Come? Scritturando un numero spaventoso di artisti che vengono

qui a vivere a sbafo del teatro, incassando paghe da favola senza cantare” (Jornal do Commercio,

7.11.1858). Due giorni dopo la Marmota fluminense pubblicò una corrispondenza del

fantasmagorico Araújo da Torino: “Ho trovato qui assai screditato il nostro Teatro Lyrico e ho

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temuto di far fiasco. Poi, valutate bene le forze dei miei nemici a Rio i quali hanno inondato

l’Europa di lettere a giornalisti ed artisti, ho deciso di affrontare la missione; e me la cavo

eccellentemente. Ho scritturato 59 artisti, tra i migliori qui in Europa, e non ebbi a scegliere tra

coloro che vollero venire, perché nessuno ricusò di firmare; insomma, ho trionfato sui miei nemici.

Nel 1859 il nostro Teatro Lyrico sarà il primo al mondo”. Le condizioni che Araújo affermava

d’aver ottenuto nelle nuove scritture corroboravano il suo trionfo: paghe più basse che in Europa e

riposo estivo (da dicembre a marzo) non retribuito, divieto di repertorio esclusivo (ovvero obbligo

di accettare nuovi ruoli) e compenso per notte cantata, sia a Rio che a Niterói.32

“I nemici –

concludeva – mi hanno reso famoso: tutti mi vogliono conoscere. Tornerò, se avrò deciso di non

accettare la direzione dei principali teatri che qui mi offrono”. Paula Brito sostenne l’impresario –

ne andava dell’onore dell’Impero, ma era anche un suo amico personale – garantendo ai lettori della

Marmota che giornali internazionali tenevano in gran conto il paese e il suo teatro lirico,

ufficialmente rappresentato da Araújo, perché “è noto che le nazioni civilizzate intendono il teatro

come un mezzo di governo”. Per scagionare il suo influente amico, il redattore della Marmota

intervistò le cantanti francesi passate per le sue grinfie. Sul numero successivo (17.12.1858) saltò

fuori che Mme. de la Grange, primadonna in carica che si era affermata nella Favorita, era felice a

Rio de Janeiro ove passava di festa in festa e di successo in successo; mentre la reietta Mme.

Charton-Demeur, da Parigi, spiegò di non aver mai sofferto a Rio di febbri né di mancati pagamenti

né, colmo dei colmi, d’esser giammai stata pateada; anzi, giustificò il diritto del pubblico a farlo,

caso la cantante non lo aggradi.

Nel frattempo, però, la guerra tra l’agente plenipotenziario ed i suoi “nemici” era rimbalzata in

teatro: il 21.11, senza alcun riguardo per l’eccezionale presenza in platea della soprano Sofia Lorini,

di passaggio a Rio, il pubblico carioca pateou il tenore Carlo Balestra-Galli durante il 2° Atto della

Traviata e questi per vendetta saltò la celebre “cavatina”. In galleria scoppiò il finimondo e la

polizia arrestò sei spettatori, fatto che il Jornal do Commercio (23.11.1858) commentò con

desolazione: “Così i dilettanti diserteranno sempre più quel disgraziato teatro: i cantanti sono di fatti

scadenti o magari insoddisfatti perché mal pagati”. Di fatto, Galli era in piena vertenza con la

direzione del Lyrico: era stato licenziato senza preavviso due giorni prima. Si disse che aveva fatto a

botte con un corista e, rimproverato dal maestro, aveva reagito da italiano: “gesticolando con

violenza e gettando a terra il cappello: una scena scandalosa alla quale assistettero diversi artisti”

32 Si tratta di clausole abbastanza anomale rispetto al modello vigente all’epoca in Italia, vedi: John Rosselli,

L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano dell’Ottocento, EDT, Torino 1984

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(secondo la versione di Dionysio Vega, amministratore del Lyrico sul Jornal do Commercio,

20.11.1858). Il tenore si difese in una pubblicazione a pagamento in cui non negava il

comportamento (evidentemente c’erano troppi testimoni) ma controbatteva, accusando

l’amministrazione di mancato pagamento. Aveva ricevuto solo due mesi di paga su quattro (dalla

firma della scrittura) pur avendo onorato i termini della scrittura e finanche le richieste cui non era

tenuto, come cantare a Niterói. La direzione del teatro invece mancava al dovere – denunciava il

tenore – e lui avrebbe fatto pubblicare proteste sempre più veementi finché il debito non fosse

saldato. L’amministratore ribatté d’aver anticipato a Balestra-Galli 18.000 franchi, corrispondenti a

sei mesi di paga, di cui solo due erano stati onorati finora; e inaspettatamente contrattaccò,

ingiungendo al tenore la restituzione del rimanente. Furibondo, Balestra-Galli reclamò d’aver

sostenuto spese per la rescissione del contratto con il San Carlo di Napoli superiori all’anticipo

ricevuto da Araújo, che di per sé non sarebbe bastato neanche a coprire il biglietto della nave.

Rivelò (il 21.11.1858) che la favolosa somma promessa da Araújo all’atto della scrittura era di

106.000 franchi annui e non di miseri 3.000 mensili; esigeva quindi che gli fosse corrisposta una

percentuale come compenso per la rescissione del contratto e per non “mettere in imbarazzo

l’agente plenipotenziario ancora in Europa”. Insomma venne fuori la bugna delle mezze promesse di

Araújo che Banfi avrebbe facilmente messo in imbarazzo in quel preciso momento, se avesse

pensato di inviare ai giornali europei la lettera controfirmata dagli artisti del Lyrico nelle sue stesse

condizioni. Invece la mandò solo ai giornali locali che nicchiarono perché subodorarono che, con il

buon nome di Araújo, se ne sarebbe andata in frantumi anche la reputazione nazionale. Solo il

Jornal do Commercio (20.11.1858) protestò: “Che insulto all’arte della musica! L’agente inganna la

direzione, mentre il pubblico paga per avere in cambio sarcasmo e prese in giro”.

Il 16.12.1858, mentre il giudice rifletteva sul caso, il Jornal do Commercio pubblicò una

lettera spedita da Milano due mesi prima (12.10) in cui G.B. Lampugnani, critico della Gazzetta dei

teatri, fustigava Araújo senza scampo. Accusava l’agente carioca di tentata corruzione: 200 franchi

perché “io non pubblicassi neanche una riga in favore o contro gli artisti del teatro di Rio, senza che

ne venisse l’ordine esplicita da lui”; e di altre “basse manovre per comprare il giornalismo europeo”.

Lo apostrofava (“voi che dall’esotico Brasile vi siete degnato di attraversare l’Atlantico per venire,

messaggero di civiltà, ad insegnar l’urbanità a noi, figli degenerati di questa vecchia Europa”)

perché chiarisse la questione che premeva a tutti: i contratti firmati in Europa erano garantiti in

Brasile, paga inclusa, oppure no? Testimoni d’accusa, secondo lui, non mancavano: i tenori Salviani

e Ciaffei, le primedonne Steffanone, Stella, Candiani, Laborde. Oltre a ciò, s’interrogava

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Lampugnani, “cosa mai sarà una sovvenzione di 300.000 franchi annui, più il fondo societario,

dinanzi alle paghe da favola che voi promettete agli artisti? Esaurito il fondo sociale, cosa che può

accadere in un batter d’occhio, buona notte a tutti! Chi garantirà per un artista che si trova già a Rio?

Nessuno! Quindi: buona biglietteria, si paga; biglietteria scarsa, si sospendono i pagamenti”. E

concludeva: “ficcatevi bene in mente che nelle scritture giammai si trova espressa la clausola che

l’artista debba esser d’aggrado al pubblico; è un problema dell’impresario se non sa scegliersi artisti

adatti alle sue scene”.

Nonostante il polverone provocato dalla lettera milanese ed i testimoni presentati dalla

presunta vittima Balestra-Galli, il Teatro vinse la causa di licenziamento e mise a tacere le pretese

del tenore con una sentenza seccamente sfavorevole: Balestra-Galli pagò i danni e uno dei tre

testimoni fu licenziato. In assenza di sindacati, il tenore provò ad esacerbare il contenzioso in un

caso nazionale. Fece appello a “chi di dovere” (intendeva dire l’Imperatore?) perché “valutasse

seriamente la situazione del Teatro Lyrico per prevenire casi ancor più disastrosi e meno onorevoli

al buon nome di questa nazione di cavalieri”. Cercò, ahimé tardi, di acchiappare il treno dello

scandalo internazionale con lo spauracchio della vergogna dinanzi alle superiori nazioni civilizzate:

tutta l’Europa ormai sapeva della morosità e dell’imprudenza di un’amministrazione “che permette

ad un agente screditato in patria di andare a sedurre grandi artisti perché vengano quaggiù ad esporsi

agl’imbarazzi pecuniari del Teatro Lyrico” (Jornal do Commercio, 30.12.1858).

Quella dello sguardo degli stranieri, vale a dire degli europei, era un’ossessione. Nel tentativo

di comporre il puzzle della propria identità (tra matrice portoghese, indigena, africana e modelli

importati dagli immigrati europei) il Brasile alimentava speranze di riconoscersi allo specchio della

civiltà occidentale. Il tropico appariva inattuale ed imbarazzante ai brasiliani ancor più che ai

viaggiatori stranieri i quali, osservando uno stile di vita così bizzarramente europeo per quel clima e

vegetazione, traevano un’impressione di anacronismo più che di distanza spaziale. Il viaggio in

Brasile era un viaggio all’indietro nel tempo che però non sembrava dar accesso alla primitiva

purezza idealizzata dai romantici – in cui natura e popoli del Nuovo Mondo apparissero liberi delle

perverse degenerazioni del Vecchio – bensì ad una società altrettanto se non ancor più

irreparabilmente corrotta da vizi e contagi. Una società meno esotica che démodé (come ebbe a dire

Claude Lévi-Strauss cinquant’anni più tardi).33

Quindi, più dello sguardo nostalgico dei romantici,

era lo sguardo perplesso dei viaggiatori moderni a fungere da paradigma ermeneutico, in quanto

33 Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1960. Vedi anche Carl von Koseritz, Imagens do Brasil, Martins, São Paulo, 1943

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esaltava le rivendicazioni di diversità del Sud America dal vecchio continente. Senza lo sguardo

europeo, che in un primo momento l’aveva esaltato a eldorado dei cuori più arditi e successivamente

lo declassava a selva selvaggia, periferica e pestifera, il Brasile non sapeva di esistere; mentre in

questo sguardo dell’altro finiva per riconoscere se stesso.

Per tornare alla vertenza degli artisti contro il Teatro Lyrico, la prossima ad abbandonare

l’osso fu Mme. de la Grange, che rientrò in Italia (a fine 1859, dopo un giro a Montevideo e Buenos

Aires) con la broncopolmonite e dicendosi vittima degli imbrogli dell’amministrazione. Il caso

suscitò in Europa qualche acido commento sull’insalubrità della nazione: “quanto sforzo per

dissuadere Mme. de la Grange, e con lei Medori, Graziosi, Michele Tosi e Borghi Vietti dall’intento

di andare nell’orrida capitale del Brasile. Tutto inutile! Se proprio il fato li spingeva a partire, che

imparassero prima il portoghese! Perché poi saranno obbligati a firmare un’infinità di carte di cui

non capiranno un’acca ed i dollari da brillanti si trasformeranno in carboni. Disgrazie!” La tosse di

Mme. de la Grange, tanto applaudita dal pubblico brasiliano nella Traviata (che pubblico cinico! era

tosse vera!) fece addirittura sospettare al giornalista italiano che l’impresario del Lyrico avesse

concepito “l’infernale progetto di scritturare i più noti artisti europei ed attrarli al loro funerale,

promettendo loro paghe da favola per infine sterminarli”.

Il baule del viaggiatore

Quest’ultimo ritaglio, in italiano e senza indicazione di testata, mi è saltato fuori dall’archivio

di Giuseppe Banfi, viaggiatore lombardo (nato a Varese il 29.3.1830) che all’età di ventiquattro anni

lasciò l’Italia, senza motivi riconducibili ad un’improvvisa miseria (era discretamente istruito e

lavorava) ma piuttosto ad una sopravvenuta libertà. Il giovane non era sposato né aveva parenti a

carico: aveva perso da otto anni il padre Baldassarre e la madre Maria Bianchi da cinque; in seguito

aveva lavorato per alcuni anni a Busalla, dove i cantieri di perforazione delle gallerie dei Giovi

(1850-54) offrivano un indotto occupazionale capace di attrarre dal lombardo-veneto una discreta

migrazione stagionale anche non specializzata. Finiti i lavori, Banfi scese (forse in comitiva con altri

muratori ormai disoccupati) a cercare opportunità a Genova. Era il 6 settembre del 1854 quando

salpò per Rio de Janeiro a bordo del bastimento Bricche Rosa. Portava con sé una piccola pistola e

un paio di vestiti buoni. Partiva per far miglior fortuna, forse trascinato dall’entusiasmo di qualche

compagno o forse dal sogno di una libertà politica che non gli era concessa in patria. Certo non era

disposto a tornare nella sua natale Varese, sottomessa al dominio asburgico, in età d’esser coscritto.

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Partiva per far l’America: non solo inseguendo un miraggio di successo e ricchezza ma anche

convinto di poter meglio investire la propria energia in un paese giovane, libero e lanciato in una

febbrile corsa al progresso. Come il Brasile.

Sbarcato alla Corte di Dom Pedro, Banfi s’impiegò subito come corista al Teatro Lyrico.

Non abbiamo notizie della sue competenze canore; solo che, forse perché non si sentiva all’altezza

dell’incarico, si iscrisse al corso di solfeggio del Conservatorio Dramático e Musical, che da

quell’anno aveva sede nel Museu Nacional, adiacente il teatro. Il suo nome non risulta sulle

locandine della Compagnia Lirica Italiana dell’epoca, mentre invece consta il nome di Gioachino

Giannini come maestro, di Marietta Baderna come prima ballerina, di Giuseppina Zecchini come

primadonna lirica, di Domenico Laboccetta e Giacomo Sicuro come primo e secondo tenore, di

Anselmo Brondi e Caterina Castelli come capi del coro di 24 elementi. La direzione del teatro spetta

a Dionysio Vega e il fatidico José Manoel de Araújo risponde al ruolo di direttore di scena. Il fatto

che non siano menzionati i coristi ci lascia supporre che tra essi ci fosse davvero Giuseppe Banfi;

ma è anche possibile che fosse stato preso solo in prova, sprovvisto com’era di credenziali salva la

presupposta dote nazionale. Un italiano, per natura, non poteva certamente essere stonato.

Il suo percorso in Brasile fu breve ma intenso. Indizi saltati fuori dal suo archivio gli

attribuiscono un inatteso ruolo da protagonista delle vicende fin qui narrate e ne fanno un prezioso

testimone di quel mondo. Un quaderno enciclopedico datato Rio de Janeiro, 15.1.1856, sul cui

frontespizio l’autore traccia il proprio nome con un carattere elaborato che non domina

perfettamente,34

registra la volontà di riscattare le radici del proprio sapere e fissarle sulla carta

come ancore a salvaguardia dell’identità e del senso della vita nell’altro luogo. La trascrizione di

alcuni canti della Commedia (primo, secondo e terzo canto dell’Inferno, inizio del primo canto del

Purgatorio e del primo del Paradiso) in bella calligrafia e pressoché esatta, senza vuoti di memoria

né strafalcioni, farebbe supporre una copiatura da volume reperito a Rio – se non seguissero alcuni

versi dell’Ernani, un sonetto dell’Ariosto, l’incipit dell’Orlando Furioso e due arie d’opera

(L’Amante Tradito e il Bel Zerbino) difficilmente reperibili all’epoca in Brasile. Probabilmente

aveva buona memoria che manteneva in allenamento con esercizi di calligrafia. Nelle pagine

successive, sotto il titolo “Storia Italiana”, una dettagliata cronaca della Congiura de’ Pazzi e una

scheda (“Annali degli Imperatori Romani dall’epoca di Cristo” con relativi commenti: buono, assai

pessimo, usurpatore, mezzo, scrupoloso) rivelano l’urgenza di riepilogare i fondamenti della propria

34 Sulla copertina, rifasciata di carta marrone con disegni rossi e neri, è scritto [Banfi giusepp] mancando spazio per la

[e] finale. Misura 23 x 33 cm. L’interno conta 19 fogli a righe quasi tutti utilizzati.

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cultura. Tra queste pagine e le cinque successive, dedicate ad argomenti geografici (in cui Banfi

descrive schematicamente Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Prussia,

Ungheria, gli Imperi Ottomano, Russo e Cinese, Grecia, Asia Minore, i possedimenti della

Compagnia delle Indie, l’Africa e l’America) emergono alcune righe di “Memorie”:

Il Padre mio morì nell’anno 1845, il dì 18 Novembre. La Madre mia morì nell’anno 1849, il dì 22

Marzo, entrambi a Varese io parti di detto luogo dell’anno 1850, li 5 Marzo, per Genova onde

Busalla, per mio domiciglio per quattro anni. Il dì 6 Settembre 1854, salpava dal porto di Genova a bordo del Bricche Rosa per Rio Janeiro ove in

breve fui impiegato come corista all’Imperiale Teatro e nel medesimo tempo era studente al

Conservatorio di Musica. Dal 1856 cominciai a fare funzioni di Chiesa ed dì 7 aprile sono stato

derubato di tutta la Robba che possedeva. 1858 a dì 18 Gennaio parti per l’interno del Brasile Come Negoziante di bijoteria. D’ivi abbiamo fatto 200, e più leghe a Cavallo. Le fatiche soferte in detto

viaggio sono molto estese in tutti i ponti. Provincia Paranà e S.Paolo. Il viaggio fu di tre mesi e mezzo

e poi di nuovo venni impiegato al Teatro il 21 Agosto detto guadagnai 920 milreis [920.000 reis] ciò fu di grande sollievo e dal medesimo giorno risolvetti la partenza dal Brasile a dì 23 Dicembre detto

salpava dal Porto di Rio al Bordo del Clipper Corriere alla volta di New York. Il 28 Gennaio abbiamo

avuto burrascha il 29 arrivammo. Il nolo fu da 750 fhi [franchi francesi].

Le lacune ortografiche, in un quadro di discreta dimestichezza con la scrittura, non

impediscono di cogliere l’accuratezza con cui sono riportate date e nomi: si tratta di un archivio

della memoria che ha come primo interlocutore colui che lo compila. Nella traiettoria di

un’esistenza, la decisione di archiviare fatti, date ed immagini in un virtuale “baule” autobiografico

risponde innanzitutto ad un’esigenza tutta privata di aggiustamento tra progetto di vita e frammenti

di vissuto. Nel caso di un viaggiatore, la rottura biografica della partenza induce ad una maggior

cura, talvolta ossessiva, nella compilazione e conservazione di questo baule di ricordi che, come

un’eclettica collezione di objets divers, sono testimoni unici della vita nell’altro luogo –

specialmente quando, come nel caso di Banfi, si tratta anche di un’altra vita: quella del cantante

d’opera, professione mai esercitata in patria né prima né poi. Segue infatti, in una pagina fitta fitta

sul cui primo rigo campeggia il titolo: “opere fate nel Teatro Lirico di Rio janeiro dal 1855, 26

genajo”, un elenco di titoli numerati (da 1 a 48, con tratto a matita forse segnale di un conteggio

successivo) e qua e là completati (a riprova dello sforzo di memoria) dal nome del compositore o

almeno della nazionalità.

Trovatore 1 L’ebreo 30 Verdi

Arabi nel gallie 2 L’elisir d’amore 31 Puccini Linda di sciamoni [Chamonix] 3 La Regina di Cipro

D. pasquale 4 Lucrezia Borgia 33

Semiramide 5 La Favorita 34 Luisa miller 6 Maria padilha 35 Verdi

Puritani 7 Il giuramento 36

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Sonabula Suonambula [sic] 8

Anna bollena 9 I martiri 37 Donizetti

Figlia del regimento 10 Fiorina 38

Maria rohan 11 Marco Visconti 39 Donizetti Otello 12 Mosé 40 Rossini

Nabucodonosor 13 Buondelmonte 41 Verdi

Norma 14 Don Giovanni 42 Bellini

Macbeth 15 Fausto Traggico 43 Verdi Foschari 16 Roberto il Diavolo 44 Verdi

Capuleti [e] Montecchi 17 Ugonotti 45 L’ebreo Apolloni

Fidanzata Corsa 18 Frai schinz 46 Traviata 19 Vespri siciliani 47 Verdi

Rigoletto 20 Medea 48 Verdi

Orazi [e] Curiazi 21 Marta Mercadante

La Saffo 22 Fra Diavolo Puccini Il Barbiere di Siviglia 23 Crespino Rossini

Ernani 24 Fausto Verdi

Attila 25 Giulietta [e] Romeo Verdi Poliuto 26 Donizetti

Domino Nero 27 francese

Damabiancha 28 francese Cenerentola 29

La precisione dell’elenco ci permette di comprovare la verità dei fatti.35

L’intraprendente

Banfi, giunto a Rio da pochi mesi, cantò come basso baritono nel Coro del Teatro Lyrico

Fluminense già nella Semiramide e nel Trovatore del gennaio del 1855, quando Mme. Charton-

Demeur, contestata dal pubblico, fece i capricci e si rifiutò di andare in scena; nonché negli Arabi

nelle Gallie di febbraio, quando la soprano fu sostituita da Giuseppina Zecchini; e nel Don Pasquale

del 14.3.1855, rappresentazione in gran gala per l’anniversario dell’Imperatrice, quando la banda

della fregata francese Poursuivante intonò l’Inno Nazionale brasiliano, insieme alla Marsigliese e,

probabilmente, alla Marcia Reale sabauda. Una rapida indagine comparativa conferma tutti i titoli

listati da Banfi come effettivamente realizzati al Lyrico nella stagione 1855-56 e seguenti, con un

discreto elenco di prime voci – come il basso profondo La Bouché (detto, all’italiana, Laboccetta) e

i tenori Sicuro e Dufrène – ad accompagnare, prima Mme. Charton (I Puritani di Bellini in aprile e

Anna Bolena di Donizetti a giugno; Dominò noir, opera comica di Scribe, nel febbraio del 1856) e

la Sra. Zecchini (Luiza Muller di Verdi a maggio del 1856), poi Mme. Déjane (L’ebreo di Giuseppe

Apolloni a luglio del 1856); poi Mme. La Grua (Ernani di Verdi nell’agosto del 1856) e infine

Mme. de la Grange (Rigoletto di Verdi nell’ottobre del 1857).

35 Un elenco completo degli spettacoli dati nei teatri di Rio in J. Galante de Souza, Teatro no Brasil, MEC, Rio de

Janeiro 1960

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Nella sua seconda stagione a Rio, Banfi registra anche un gran numero di lavori in chiesa, con

dettagli in cifre romane e arabe che forse corrispondono al ricavato.36

Solo ogni tanto compare

l’indicazione della parte sostenuta: funzione di Pasqua, Novena, Libera Me, Te Deum ma anche

“solo” e “duo” che comprovano la scherzosa testimonianza di Ribeyrolles: “Verdi, Rossini e

Donizetti all’assalto dei pulpiti!”. Le numerosissime chiese di Rio, quasi sempre a pianta centrale e

con la facciata decorata, in stile Borromini, ospitavano programmi musicali non religiosi;

naturalmente l’opera la faceva da padrona. Banfi cantò in chiesa sei volte nel 1856 (Candelaria, S.

Rosario, S. Ritta, N.S. Parto, S. Cristofano e S. Antonio di p. [Padova]); e ben cinquantadue volte

nel 1857: quasi una la settimana, di cui almeno otto come solista.

Praina [Prainha]

S. Bento duo

Funzione delle Ceneri alla Misericordia Carmo pascua

Candelaria

S. Giuseppe A la Lapa

S. Ritta solo

Candelaria solo S. Pietro

S. Cruce [Santa Cruz]

S. Anna solo

Ospizio alla Lapa 2° solo

S. Antonio della Cav.

S. Antonio della Cav. S. Cruce

S. Cruce solo

Arsenale di marina solo N. S. Rosario duo

N. S. Rosario solo

Cappella della M.S. del Carmo nel 1857: Li 1 Marzo, Li 4 Aprile, Li 15 Maggio, Li 6 Giugno, Li 7 Luglio, Li

1 Agosto, Li 6 Settembre, Li 3 Ottobre, Li 7 Novembre, Li 12 Dicembre. S. Croce Libera me

S. Croce Funzione

S. Croce Funz. S. Cruce Settimanale

Rosario Novena

N.S. Carmo Teatro Lirico

N.S. Lampados impresa N.S. della Lapa Te Deum

S. Giuseppe

S. da Candelaria Libera me

36 Non riportiamo le cifre in quanto non codificabili.

Page 29: prefacio - Un baritono ai tropici.pdf

N. S. della Praina

S. Antonio

Praja Grande Libera me

Sagramento Piccola Cosa S. Ritta solo

S. Bento

S. Antonio

N.S. do Ospizio Concezione

Trasordinario

S. Cristofano [São Cristovão]

Le cifre indecifrabili potrebbero rivelarci quale piccola fortuna Banfi riuscì ad accumulare in

due stagioni grazie al suo rivelato talento musicale che non gli fece certamente mancare opportunità,

vista l’estrema mobilità del mercato dei cantanti lirici a Rio in quegli anni. Se non che l’ultima riga

del quaderno enciclopedico ci riserva un bel colpo di scena. E d’altri benefici – scrive Banfi in

fondo alla lista di chiese – fui derubato a li 7 Aprile 1857 a ore 2. E sotto: Beneficio di 36 mila, un

bel gruzzolo se si considera che era di 3.000 la paga mensile in franchi rivendicata e mai corrisposta

al tenore Balestra-Galli l’anno successivo. Un furto di tale entità deve aver avuto conseguenze

traumatiche e difatti, dal “baule” di Banfi che attualmente ha le forme di una cartellina rossa,

emergono indizi di un repentino cambio di ambiente. Per un periodo s’impiegò in una fabbrica di

vetro; poi, il 3.12.1857, decise in società con l’amico Buzzone di investire i risparmi nell’acquisto di

una paccottiglia di bigiotteria d’oro e di andarla a vendere nell’interior del Brasile. Si tratta di una

nuova partenza: un ulteriore e ancor più ardito sogno d’America.

Misero in atto il proposito un mese dopo (il 15.1.1858) quando, pagata all’erario la tassa

dovuta per entrare e uscire per mare dal porto di Rio, i due amici s’imbarcarono alla volta di

Antonina nello Stato del Paranà, da pochi anni separato dallo Stato di São Paulo. Là furono accolti,

dodici giorni più tardi, da un sedicente Console Italiano che però non sapeva dirci di quale parte

d’Italia ne fusse il rappresentante. Seguirono via terra, con due cavalli per mezzo di trasporto

(registrati il 18.3.1858 dal pagamento di una tassa di settemila réis)37

e qualche lettera di

raccomandazione per viatico, raggiungendo Curitiba e Campo Largo, oltrepassando l’infido Passo

dos Garapatos e guadando i tre fiumi della Serra da Ribeira per giungere a Ponta Grossa e da lì a

37 Moneta coniata dalla monarchia brasiliana, il cui nome perdura fino ad oggi: real, pl. reais o réis.

Page 30: prefacio - Un baritono ai tropici.pdf

Castro, sulla divisa ideale dei monti che dividono il Paranà dallo Stato di São Paulo.38

Rientrarono a

Rio dopo tre mesi e mezzo e più di duecento leghe di strada nelle gambe.

Neanche stavolta era toccata ai due amici la sorte grande. Banfi, immediatamente dopo il

rientro, tornò a proporsi come basso-baritono e riebbe l’impiego al Teatro Lyrico, grazie alla

pressione di vecchi colleghi. Da maggio a dicembre del 1858 cantò spesso anche in chiesa,39

mentre

in città esplodeva la bomba contro il plenipotenziario Araújo ed i giornali pubblicavano le vane

rivendicazioni del tenore Balestra-Galli. Banfi s’inserì nella vicenda e riuscì in qualche modo a

38 Tutte le notizie geografiche sul Paranà tratte da Il Brasile e gli italiani, Bemporad, Firenze/Genova 1906 (pubblicazione a cura del Fanfulla, quotidiano italiano di São Paulo). 39

Registra ancora:

Mag. [maggio]

Madre degli uomini S. Gonçalves [Gonçalo]

S.Ritta

Giugno S. Giuseppe

San Giovan Praja Grande

Luglio

N.S. da Misericordia

S. Pietro

S. Bento

Festa do Majè [Maré]

Septenario alla Croce

N. S. do Carmo

Agosto

Alla Croce Tedeum

S. Teresa Alla Lappa Liberame

N.S. della Concezione

N. S. della Candelaria

Settembre

Ingegno Veglio [Engenho velho]

S.Cristoforo Novena TeDeum

N. S. da Lappa

S. Antonio

Ottobre

Largo do Masciado [Machado]

N.S. do Rosario novena N. S. do Rosario

S. Antonio

N.S. do Carmo

N.S. do Spassos [dos Passos]

Novembre

S. José

Dicembre

S. Antonio

Ospizio

S. Antonio

S. Lucia

Page 31: prefacio - Un baritono ai tropici.pdf

cavarne il gruzzolo che gli era necessario per fare il terzo salto di qualità che sognava: partire di

nuovo, lasciando Rio per New York, ove forse avrebbe trovato la vera “Merica”. Il 27 Agosto

guadagnai 920 milreis e ciò fu di grande sollievo poiché dal medesimo giorno risolvetti la partenza

dal Brasile, si segnò nelle “Memorie”. Evidentemente, dopo le fatiche dell’improduttivo viaggio al

Paranà, il rientro a Rio non faceva sperare oltre. Perciò, in vista della partenza, Banfi non si lasciò

allettare da nessun futuro progetto in loco. Il Brasile non valeva il sogno americano con cui

seduceva gli emigranti: al contrario, lì si rischiava di vedere i dollari da brillanti trasformarsi in

carboni.

Come riuscì a guadagnare la somma in così breve tempo? Piantò una grana (oggi si direbbe)

sindacale. O la pensò fin dal principio oppure le cose in teatro non andarono come previsto: sta di

fatto che a metà novembre, dopo l’Ernani, Banfi fu licenziato in tronco dall’Amministratore,

insieme a Ballestra Galli. La giusta causa fu d’aver polemizzato, rivendicando l’applicazione del

contratto ed il pagamento degli arretrati, non solo per sé, ma per tutti i colleghi che si trovavano

nelle stesse condizioni. Il Jornal do Commercio (23.11.1858) riporta la replica dell’Amministratore

con un riassunto dei fatti che riguardano il caso Banfi:

“[…] che egli entrò in teatro l’anno scorso senza contratto; che per tre volte fu allontanato per aver

fatto sorgere problemi e reclami in termini poco rispettosi. S’impiegò per qualche tempo all’Opera Nazionale che lasciò per rientrare nell’organico del Teatro Lyrico, promettendo di correggersi. Quando

mi si presentò esigendo d’esser pagato, con modi scontrollati, non gli era dovuto niente del suo salario

ma solo una gratificazione che io gli avevo promesso nel caso cantasse più di dieci volte in un mese. In

qualità di gerente e maestro di canto del Teatro Lyrico, non potevo tollerare, né sono tenuto a farlo ora, che qualsivoglia artista mi manchi di rispetto nell’esercizio delle mie funzioni. Questa è la ragione per

cui ho licenziato il corista Giuseppe Banfi e come lui licenzierò qualsiasi altro artista che voglia

imitarlo” [traduzione mia]

Banfi si buttò a capofitto nella polemica:

“In risposta al Sr.Amministratore del Teatro […] dichiaro francamente che quello si è inventato una

sfilza di falsità com’è facile provare: è falso che io fossi già stato altre volte licenziato dalla direzione del teatro, ma al contrario io stesso mi dimisi per fare un viaggio all’interno del paese; è falso che sia

andato a cercarlo per rientrare nel coro, promettendo che avrei corretto il mio comportamento, in

quanto non avevo nulla da rimproverarmi a maggior ragione poiché fu lui che mi cercò al ritorno da

sopraddetto viaggio, aumentandomi lo stipendio perché rientrassi nell’organico del Teatro. È falso che io abbia mai cantato nell’Opera Nazionale. È vero, invece, ciò che il Sr.Amministratore annunzia nella

sua lettera, cioè d’esser disposto a licenziare tutti quelli che volessero imitare il mio comportamento e

in ciò non si ravvede altro che una minaccia rivolta ai colleghi perché non osino reclamare il denaro che è loro dovuto da un mese e mezzo; denaro che appartiene loro per diritto e non in quanto

gratificazione; denaro che ancora non è stato loro pagato”.

Page 32: prefacio - Un baritono ai tropici.pdf

Nella risposta del 24.11, il tartassato Amministratore cambia tono e comincia a giustificarsi. In

realtà Banfi

“non mi parlò mai di un viaggio all’interno del paese, ed è ben vero che l’ho licenziato perché creava

problemi in termini irrispettosi. Quando ultimamente tornò a lavorare in teatro, fu per sua spontanea

volontà e di altre persone, quale Anselmo Brondi, capo dei coristi, che può confermare. Il sr. Banfi

deve prender atto di non essere ancora un corista abile al punto che io fossi tenuto ad aumentargli la paga. È anzi un principiante, tanto che prendeva lezioni di solfeggio nella classe del Conservatorio

quando entrò in teatro per la prima volta per un compenso bassissimo; e se ora ha il coraggio di

affermare che non cantava come corista nell’Opera Nazionale, andate a chiedere a tutti i suoi compagni coristi per verificare che mente. Infine io non minacciai nessuno per evitare che esigessero il

pagamento, giacché pago puntualmente e solo domani (25.11) è la scadenza del corrente mese”

L’ultima replica di Banfi, del 28.11, è tassativa. Specifica

“che non avevo nessun obbligo di illustrare i motivi del mio viaggio al Sr. Amministratore, essendo un

affare privato; il mio silenzio non lo assolve dal mancato pagamento. Che non ho insistito con nessuno

per rientrare in Teatro ma che fu per bontà dei colleghi o perché sanno riconoscere le mie capacità, quando qualcuno mi elogia ed io ne sono gratissimo! Che non fu il ritardo nel pagamento, nonostante

già siano passati venticinque giorni dalla scadenza del mese dovuto, il fatto che mi spinse a dimettermi

dal teatro, bensì le recite in soprannumero che non vengono pagate né a me né ad alcun compagno. Infine, che non ho mai fatto parte dell’Opera Nazionale”

Le accuse di Banfi amplificano la lamentela di Ballestra Galli, facendo di un caso individuale

una vertenza collettiva. Emerge la vessazione cui la compagnia era sottoposta: l’obbligo di repliche

gratuite al Teatro Santa Teresa di Niterói, non previste a contratto, che avrebbero dovuto essere

saldate a parte con una “gratificazione” che l’Amministratore tirava a non corrispondere. È evidente

che al Teatro fece più paura l’arrabbiato corista Banfi che l’offeso divo Balestra-Galli. Tutto ciò fa

supporre che l’Amministratore gli elargì una consistente buona-uscita la quale, aggiunta al gruzzolo

ricavato dalla vendita delle gioie in Paranà, permise a Banfi l’acquisto del biglietto per New York. Il

viaggio gli costò 120$, una cifra considerevole.40

S’imbarcò il 23.12.1858 su un piccolo clipper

americano (677 tonnellate spinte dalla macchina a vapore) che dichiarava alla dogana di trasportare,

oltre al “sardo” Giuseppe Banfi ed al “nordamericano” Theodor Whising, anche 6.080 sacche di

“caffè brasiliano”. Il clipper Courier salpò all’alba del 24 dicembre e giunse negli Stati Uniti ai

primi di febbraio. Qualche rudimento d’inglese Banfi l’aveva appreso a Rio. Aveva con sé un

indirizzo ove riparare allo sbarco (scritto e riscritto sul suo quaderno: U.S.A. Mr. Moretti, n.116

3°Av., New York). Forse lo accompagnava anche una crescente malinconia, un senso di lutto per la

distanza dalla patria e dagli affetti che sembrava aumentare sempre. Una nota in un canto del

40 Fino al 1862, il dollaro fu moneta bimetallica (oro e argento) di valore equivalente al peso. Ricevuta in inglese del

biglietto, datata “Rio de J decb 23/58” e firmata “J. Bensée”.

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quaderno registra l’ansia del viaggiatore che non prevede ritorno: Lì 14 aprile 1859 sognai di avere

accompagnato un morto alla sepoltura e li ultimi passi averlo io medesimo cantato. Il mio dubio è

che sia morta Isabella. Fuse mintira.

Si arrangiò in America facendo commerci per tre anni, prima di rimpatriare, nel 1861, con il

necessario per sposarsi (il 3.2.1862, a Busalla, con la giovanissima Caterina Rugo) e metter su casa

a Bolzaneto. Aprì un’attività di pizzicagnolo; nacquero due figli maschi: Achille (1863) ed Enrico

(1866). L’acquisita stabilità famigliare però non compensava l’ambizione del viaggiatore, ormai

contagiato dal virus dell’avventura americana. Come indica Gibelli per molti altri emigranti,

soprattutto liguri,41

Banfi trovò negli Stati Uniti quella “risorsa integrativa” che il Brasile gli aveva

negato: un luogo ove tentare la sorte, incontrare occasioni, investire il proprio talento e forse

approdare ad una “seconda vita” di successi. Periodicamente, per poi rientrare nella propria vita

“normale”. Già perché, nel suo eccezionale caso, il pendolarismo transatlantico significava la

possibilità di condurre anche una vita completamente diversa: una vita d’artista.

Pendolarismo transatlantico. Sono anni in cui il movimento migratorio esplode in un traffico

di manodopera semi-specializzata, lucrosissimo per gli armatori. La concorrenza impazzava sulle

linee in partenza da Genova, ove finalmente operavano (dal 1864) i veloci clipper a elica costruiti

dal capitano Giobatta Lavarello nei cantieri navali di Sestri Ponente. In due settimane, con le

correnti a favore, s’avvistava il Pan di Zucchero; qualche giorno in più per vedere le prime torri di

Manhattan. L’Eldorado non era più così lontano. Nel 1869 Banfi tornò a New York da solo per

correr dietro al suo sogno: fare il cantante. La prima ricevuta, del dicembre dello stesso anno,

registra modici 25$ per un mese di funzioni alla St.James Church. Nel frattempo, mise su un giro di

clienti cui smerciare prodotti alimentari e articoli di lusso provenienti dall’Europa.42

Cominciò a

rimettere alla famiglia cifre più consistenti, insieme ai ritagli di giornale su cui era stampato il suo

nome nei cartelloni dei teatri di Boston, Cincinnati, St.Luis, Chicago. Era uscito dal coro: gli

venivano affidati secondi ruoli di basso, con diritto al nome completo in locandina, paga e spese

rimborsate.

Tanto fece che al ritorno in patria, nel 1875, acquistò ad Acqui Terme una pensione (l’Albergo

Fiorito) e vi si trasferì con la famiglia. Non doveva più allontanarsene. Nascite, lutti ed altre

partenze marcano la sua maturità. I due figli maggiori morirono prematuramente, nel 1896; mentre

il figlio diciottenne Cesare nello stesso anno emigrò in Germania. Giuseppe Banfi morì ad Acqui il

41 Tra due sponde. L'emigrazione ligure tra evento e racconto, Sagep, Genova 1989 42 Ricevuta di spedizione del 26.11.1869 di un pacco di seta da Le Havre a New York, per Banfi.

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9 gennaio 1904. Il necrologio lo descrive come un “uomo onesto, stimato ed apprezzato da quanti lo

conoscevano per il suo carattere franco e leale” (Gazzetta d’Acqui, 10.1.1904). Lasciò la casa alla

moglie ed i beni suddivisi tra i due figli sopravvissuti (Adele e Cesare), i nipoti e un ospizio per

poveri. Il suo spirito d’avventura e l’intraprendenza li ereditarono quasi tutti i discendenti: chi

emigrò in Argentina, chi a New York, chi anche solo a Genova. A molte generazioni di Banfi il

“fuori” sembrò più promettente, per quanto selvaggio e oscuro, della tranquilla familiarità del “qui”.

“Poter levarsi dal morire d’invidia in questa città” è un destino fortunato agli occhi del

secondogenito Enrico che, da Acqui, scrive il 17.5.1896 al fratello Cesare partito da pochi mesi:

“Qui molti mi domandano di te e fanno la faccia lunga quando sentono che sei sempre in Germania, ti

assicuro che questi diventano sempre più annoiati, a tutti dico che siamo fortunati di poter levarsi dal

morire d’invidia in questa città. Sai, fuori ci saranno peripezie, lavoro, attività, tutto quello che vuoi, ma c’è il buio, si conosce almeno d’essere al mondo, qui invece conoscono di essere in mezzo a

quattro colline e che non cambia mai”

Selvaggio Eldorado

Abbiamo appreso dai documenti che Banfi decise di partire per l’interno del Brasile dopo

esser stato derubato di tutti i suoi risparmi. Con l’amico italiano Buzzone conosciuto nella fabbrica

del vetro e una cassetta piena di gioielli d’oro s’avventurò per mare fino ad Antonina e poi a cavallo

per 200 leghe passando per Curitiba nell’attuale stato del Paranà, attraversando le lussureggianti

foreste della Ribeira ed i pantani della serra di Paranapiacaba. Da lì, rientrarono a Rio de Janeiro

attraverso lo Stato di São Paulo, tre mesi e mezzo più tardi. Le fatiche soferte in detto viaggio sono

molto estese, rammenta nell’epigrafica “Memoria” scritta dopo il ritorno. Aveva conosciuto un

selvaggio Eldorado. Quanto l’aveva affaticato e talvolta terrorizzato l’avventura tra cespugli

giganteschi, piogge torrenziali, nebbiosi sottoboschi e vallate fangose, tanto ora lo seduceva il

resoconto del suo viaggio tra la più insolita, varia e difforme umanità. Brasileri veementi, apatici

indigeni, donne procaci, frati perduti nella selva e i soliti italiani all’arrembaggio: la memoria gli

restituiva un susseguirsi di colpi di scena, rivelazioni e apparizioni quasi magiche in quegli infernali

panorami. Insomma, nell’isolamento del viaggio al cuore del paese, molto più che nella sua

cosmopolita capitale, l’incontro tra culture produceva un bagaglio di sorprese, equivoci, reciproche

diffidenze, grate scoperte ed invenzioni comunicative che sarebbero andate sprecate se il viaggiatore

non se ne fosse fatto testimone. Così, come s’era improvvisato cantante e gioielliere, Banfi

s’improvvisò cronista ed inaugurò, retrodatandolo al 3 dicembre 1857 (giorno in cui decise

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d’intraprendere il viaggio e di fatto partì) un diario che si estende per tre quaderni numerati, sul

primo dei quali vergò in bella grafia il titolo: “Storia ed avventura di Giuseppe Banfi”.

Tra “storia” ed “avventura” i registri narrativi s’incrociano, ostentando fin dal titolo la scelta

di una dimensione pubblica che si conferma, più avanti, negli inviti al dialogo rivolti all’eventuale

lettore e nella definizione di un’incipiente organizzazione interna per capitoli. Strutturando ricordi e

riflessioni di viaggio in una “versione pubblica”, la memoria riaggiusta i frammenti di vissuto in

racconto autobiografico: ne emerge una regia, una visione del mondo, un progetto d’identità morale

senza il quale il senso dell’esperienza rischia di andar perduto. L’uso del passato remoto e la totale

assenza di disturbi grafici (quali macchie o pieghe nel manoscritto) conferma che il luogo della

scrittura è successivo al rientro, forse addirittura già in Italia quando, da un punto di vista stabile e

distante dal luogo narrato, è plausibile che il viaggiatore si metta a redigere in bella copia appunti

raccolti durante il viaggio. La distanza nel tempo e nello spazio tra questo punto di vista stabile del

narratore e lo spazio nomade delle vicende narrate produce una rappresentazione della memoria

molto riflessiva e quasi ritualistica. Le emozioni emergenti ed i margini frastagliati dell’esperienza

sono come raffreddati e smussati, nel tentativo di tradurli in tappe culturali e luoghi di stile

riconoscibili. Nel corso del racconto, il narratore Banfi sembra condurre il viaggiatore Banfi da un

Mondo totalmente sconosciuto ed incomprensibile ad un Mondo che si fa via via più familiare,

consentendo di applicare termini comparativi (anche se ibridi e talvolta paradossali) e di creare

miraggi di prossimità con il luogo in cui avviene la scrittura. È sintomatico che i pochi disegni

conservati (peraltro non databili) illustrino il viaggio attraverso tratti nient’affatto esotici: un cavallo

che trascina un carretto, una montagen (ovvero disegno inventato) con torri e castelli assai consoni

al panorama del basso Piemonte, un fiore, un viso di donna, un viso d’uomo con cappello da

gaucho, un caprone e finalmente un panorama tropicale di cui l’autore non rammenta il nome

(“Baragua o Maragoa”); oltre ad altri soggetti certamente ascrivibili al periodo trascorso negli Stati

Uniti. Il tutto riassunto dal titolo vergato su una pagina di carta velina: “Reminescenze americane”.

All’inizio del racconto, il primo impatto con la dimensione “altra” delle foreste del Paranà

(un luogo identificato sulle mappe dell’epoca da rilievi approssimativi e poco rassicuranti grovigli

di fiumi) produce una strana sorpresa che per giorni dà i brividi a Banfi. Tuttavia, riflette il

narratore eroico in procinto di tuffarsi in quella nuova cariera, era d’uopo di superar tutto e di

armarsi di quel coraggio che tante volte ognuno non sa d’averlo. Già la prima notte all’addiaccio

sottopone i due viandanti ad un crescendo di eventi ambigui ed inquietanti rumori fino al climax di

un colpo di pistola che poi si scopre sparato per errore dalla guida; già la prima alba s’impone con

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una densità letteraria quasi da manuale di stile romantico: una Vista che maraviliava l'occhio e nel

fratempo includeva Spavento. Il canone avventuroso del viaggio di scoperta s’impone da subito

sull’obiettività della cronaca: all’occhio dello straniero, immaginario e reale si sovrappongono

nell’eccitante ignoranza dell’entità del pericolo e qualsiasi evento richiede al protagonista decisioni

eroiche; ogni situazione è impregnata di destino. Come suggerisce Walter Benjamin, il codice

estetico s’impossessa della geografia ed i luoghi del viaggio si convertono in spettacolo, sempre

orrido o sublime o pittoresco o meraviglioso, per il viaggiatore-narratore: il percorso geografico

ospita un inventario di emozioni.43

Il gusto del narrare gli eventi come vicissitudini enfatizza col

tocco del fantastico situazioni descritte come ineluttabili e poi risolte dai più imprevedibili colpi di

scena, dall’intervento di personaggi alleati e dalla pronta audacia del protagonista che smaschera a

tempo i possibili antagonisti. Vediamo.

L’ospitalità pelosa di un patetico vecchio, tormentato dalla prepotenza e dalle scappatelle

della già matura moglie, non finisce in una tragedia di gelosia grazie alla provvidenziale soffiata di

un timido schiavo. La partenza è turbata dalle bizze del cavallo, barattato per un pugno di gioie

dall’indomabile matrona. La bestia si rivela altrettanto infedele; ma ecco che il nuovo padrone

subito lo doma facendogli sentire due grossi speroni nella pancia cosiche l’inteligente Cavallo

comprese che il suo unico mezzo era l’ubidienza. L’incontro con un iracondo italiano, un po’ sordo e

sedicente dottore svergognato dai pessimi risultati delle sue cure e dal sarcasmo della giovane

moglie, mostra l’assurda pretesa di superiorità della cosiddetta civiltà nella selva, dove i suoi valori

sono screditati proprio da coloro che dovrebbero esaltarli. Il racconta prende un piglio comico:

[…] rispondeva [il dottore], di questa matteria non sono molto cognitus in verus, io nel sentire

questo latino mi cominciava a venire da ridere, ma l’intrepido Dottore rivolgendosi a me diceva: e voi?

io, li rispondeva, canto ll Basso Baritono. ha? ha? facceva con riso piutosto stupido, voi un Maritimo [?] é imposibile [!] di questo poi m’intendo, che voi non potete mai essere stato maritimo. chiedo scusa,

ma io non dissi Maritimo; come? rippeteva l’indomabile Dottore rizzandosi in piedi, in Casa mia

smentire quello che avete detto [?] e con chi credete di parlare [?], io stava per rispondergli: con un imbecille, ma mi arestai nel vedere accomparire una bella fanciulla dicendo: non gritate cosi, Rondello,

sembrate un pazzo. a tale vista, lo sposo di fresco cercò di comporsi la bocca e si vedde ch’egli credeva

di fare un sorisetto e si atteggiava le gambe in modo singolare, il bello è che non si accorgeva che nella rabbia

li era sortito due bave dalla bocca e quindi li sciendevano penzoloni uniti al soriso, e tutto in strana caricatura si mise a camminare in contro a piccoli passi e dicendogli: Angelo mio, ha? quando ti vedo mi

sento tutto il sangue a correre per le vene. io nel vedere questo nuovo Apollo mi diedi a ridere e il mio

Compagno in tanto non faccieva altro che mettere prese di tabacco nel naso, di quando in quando rideva pure; la ragazza volgeva lo sguardo verso noi, nel mentre essa rideva pure, quando fu vicino prese la

fanciulla per la mano e rivolgendosi a noi sempre con le bave alla bocca, disse: vedete la mia sposa solo

può calmare il mio furrore, lei tiene il mio talismano. la Ragazza rideva sempre ed io mi teneva la pancia fra

le mani, il mio Compagno mi stava faccenda segni di far silenzio ma tutto era vano, io rideva sempre più

43 Angelus novus, Einaudi, Torino 1962

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forte, cessai soltanto quando vidi la Ragazza che per sbarazzarsi delle mani del Marito gli diede una spinta

talmente forte che poco li mancò al povero Marito di andare a battere sotto alla Tavola; hi? come é forte,

diceva il vecchio ribambito, in tanto che noi si ajutava ad alzarlo da terra, egli brontolava, […] ha, miei

cari, io so bene quello che ci vuole al Mondo...

In questo Mondo equivoco ed eccessivo, per comportamenti parole gesti e colori, non è tanto

l’ignoranza quanto la civiltà che si fa comica. Assurde esibizioni d’etichetta (l’ombrello in piena

selva; le posate d’argento a pranzo in un paese dove neanche la chiesa sopravvive alle erbacce; il

“latinorum” del dottore fanfarone) e preconcetta superiorità per titoli di merito (il dottore) o di

provenienza (italiano) son patacche che subito mostrano il loro fondo falso. È con sottile ironia che

Banfi descrive la supponenza del giovane che diceva essere il Console Italiano e non sapeva dirci

di qual parte d'Italia ne fusse il rapresentante. Ugualmente affronta con civile understatement la

volgarità del maestro di musica napoletano che millanta una improbabile ricchezza e disprezza

l’evidente generosità del suo ospite indigeno:

Non ci voglio più stare a istruire questi selvaggi, un signore della mia cualità. ma non sai, continuò a dire

che a Napoli, a casa mia, il governo mi confischiò per due miglioni di beni ma con tutto ciò mama mia

tiene due altri miglioni sul Banco d'Inghilterra cosichè come vedi questa gente non posono comprendere l’altezza della mia famiglia. allora li feci conoscere in atto amichevole che gli abbitanti di quel paese erano

in più altezza di Napoli. ha? mio caro tu prendi la cosa in ridere ma io ti posso dire che passa una grande

deferenza da noi signori a questi mamaluchi. risposi: in quanto a me ti posso dire di non avere nemeno numero della porta di casa al Mondo e tutto quanto poseggo sta in questa piccola Cassetta di

Biggiotteria in societtà con il mio amico.

L’adozione dell’io narrante e, quindi, la presa di distanza letteraria fa emergere, nel viaggio di

scoperta dell’altro, un percorso di conoscenza di sé stesso; e nell’incontro con la cultura altra, la

riscoperta della propria. L’ampliamento dello sguardo alla confluenza delle culture illumina aporie

ed audaci inversioni di valori in una visione ancor più europea, in quanto capace di giudicarsi come

europea. È proprio allontanandosi dalla civiltà ed avanzando nel selvaggio matto (ovvero nella

foresta intrecciata di migliaja o si potrebbe anche dire Milioni d’alberi di gran dimensione fino a la

Gran Montagna) che lo sguardo di Banfi si fa più cosmopolita. Il suo sentirsi “cittadino del mondo”

si traduce nella sensazione d’essere ovunque straniero: l’osservatore si osserva in quella situazione

ed acquisisce una distanza criticA che gli permette di smontare schemi comportamentali e giudizi

inibitori dettati dall’appartenenza ad una civiltà. Sa di non appartenere definitivamente al luogo che

visita – giacché il suo nomadismo esclude una sosta definitiva – ma al tempo stesso di non

appartenere più completamente a luogo alcuno. A rischio di smarrire la strada del ritorno, trasforma

le sue ansie in un fuoco di resistenza e cerca complici, anche se istintivamente sente di non esser

d’accordo con niente e con nessuno. È un viaggiatore “spaesato” cioè, secondo la definizione di

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Todorov, uno straniero che sente di non appartenere più a territorio alcuno44

e per questo vive

l’adattamento in modo particolarmente intenso. “Essere straniero”, intuisce Georg Simmel,45

“è una

forma specifica di interazione”, determinata dalle speciali condizioni – clima, percorso, incontri

dettati dalla fortuna o dall’istinto, cibi, bevande e contagi contratti o evitati, denaro – che rendono

concreto e quotidiano il viaggio.

Il viaggiatore romantico che veleggiava solitario verso lontane colonie pativa le tremende

fatiche ed i pericoli delle traversate ma godeva, nell’incontro con l’altro, dei privilegiati effetti del

colonialismo imperialista. Il suo “essere straniero” poggiava su una visione etnocentrica del mondo

conosciuto e misurato su valori e comportamenti referenziali all’identità culturale dell’osservatore:

ovvero valori da lui considerati normali, familiari ed accettabili, mentre quelli dell’osservato gli

parevano appunto “strani”, primitivi o esotici. Per quanto curioso ed adattabile fosse, il viaggiatore

europeo godeva comunque del vantaggio di appartenere all’unica civiltà che poteva permettersi di

viaggiare;46

mentre l’altro era quasi sempre recluso nei confini storici e geografici di una civiltà

locale e limitato ai contatti stabiliti dai viaggiatori stranieri. Non è rara, nei diari di viaggiatori

illustri e borghesi fino a tutto l’Ottocento47

la rappresentazione di sé e della propria cultura come

modello sovrano di identità e civiltà che tende ad oggettivare l’altro e la cultura dell’altro: a vederla

e descriverla dal proprio punto di vista privilegiato e implicitamente “superiore”.

Analizzando qualche altro resoconto di viaggio in Sud America, anche più tardo del nostro,

come L’Europa alla conquista dell’America Latina di NOME Macola (Venezia 1897), si ha

l’impressione che il disgusto ispirato dal destino degli emigranti in Brasile sia misurato “su una

scala di valori in cui gli italiani sono definiti discendenti dai dominatori del mondo”.48

Dall’ansia

per la condizione miserabile degli emigranti si passa alla sorpresa per i risultati ottenuti con il

lavoro, di modo che l’interferenza della “civiltà” viene esaltata in modo iperbolico (“L’Argentina

44 L’homme dépaysé, Ed. du Seuil , Paris 1996 45 “Excursus sullo straniero” in Sociologia, Comunità, Torino 1998, p. 580. 46 “La nozione che definisce certe categorie di persone cosmopolite (nomadi) mentre tutte le altre sono locali (nativi)

sembra essere prodotto ideologico di una potente cultura viaggiatrice”. James Clifford, Roots. Travel and translation in

the late twentieth century, Harvard University Press, London 1997 (trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999) 47

I tre relati di viaggio più vicini a Banfi per data sono femminili e di classe elevata (viaggiatrici al seguito del marito): Baronesa E. Langsdorff, Journal relatant son voyage au Brésil à l’occasion du mariage de S.A.R. le prince e Joinville

(1842), Les amis de Musée de la Marine, Paris 1954; Virginie Leontine, Lettres inedite sur Rio de Janeiro et diverses

esquisses litteraires, Imprimerie de Monnier, Evreux 1872 (il viaggio risale al 1856-57) ed Elizabeth C.Agassiz, Viagem

ao Brasil (1865-66), Companhia Editora Nacional, Rio de Janeiro 1938. 48 Vanni Blengino, La Babele nella pampa. L’emigrante italiano nell’immaginario argentino, Diabasis, Reggio Emilia

2005. Analizza anche tre diari di viaggio al Paranà: Alberto Manzi, Quello che ho veduto al Paranà, Bellini, Milano

1899; Giuseppe Bove, Note di viaggio nelle missioni ed Alto Paranà, Istituto Sordo-Muti, Genova 1885 e Adriano

Lucchesi, Nel Sud America. Alto Paranà e Chaco, Bemporad, Firenze 1936.

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senza l’emigrazione, specialmente italiana, sarebbe ancora incolta pampa alla balia degli indii”)49

e

produce euforiche profezie di terre promesse (“Che diventerebbe questo paese in mano di centomila

italiani, pensavo dall’alto del mio osservatorio. Chi lo riconoscerebbe da qui a cinquant’anni! I

villaggi si toccherebbero, nei fianchi delle colline ora sepolte da una impenetrabile boscaglia

crescerebbero i filari di vigneti […], le aspre vallate sarebbero rallegrate dagli ulivi, gli estuari dei

fiumi irrigherebbero le immense risaie”).50

L’Ottocento è anche il secolo delle grandi migrazioni, quando il viaggio transatlantico

diventa un gigantesco business di trasporto di manodopera a basso costo che gli agenti delle

compagnie di navigazione pubblicizzano come sogno di consumo. L’avventura romantica è ormai

alla portata di tutti. Eppure è vero, come nota Vanni Blengino, che ciò che scarseggia in questi diari

è proprio la dimensione dell’avventura. Eppure a scriverli sono esploratori, naturalisti, sacerdoti,

ingegneri che affrontano “esperienze insolite e paesaggi suggestivi con cornice di indios, deserti e

foreste […] I coloni che questi viaggiatori ritrovano nella pampa, per il solo fatto di essersi stabiliti

in quei luoghi deserti circondati da una natura esuberante, sono già di per sé protagonisti di una

storia che, vista dall’Europa, offre aspetti avventurosi”.51

Non manca lo strumento (sono

alfabetizzati e spesso colti) né i modelli di stile, invocati ma poi non raccolti: “Robinson, Cook,

Saint Pierre e altri capolavori della letteratura amena che sostituiscono i classici e decidono

dell’avvenire”.52

Forse, suggerisce Blengino (ibidem), è proprio l’esigenza analitica di quelle

intelligenze istruite al positivismo che impedisce maggiori risultati sul piano narrativo: “si privilegia

il fatto, l’avvenimento come dato sociologico, la ricerca dell’obiettività con un metodo che s’ispira a

quello scientifico” piuttosto che a quello letterario.

Inoltre, l’ingannevole propaganda dell’Eldorado non realizza le sue promesse d’integrazione

e successo se non per pochissimi; i ceti più bassi, di per sé meno predisposti all’acquisizione di una

nuova lingua e di nuovi costumi, spesso non possiedono neanche gli strumenti indispensabili

all’inserimento, quali la geografia del paese in cui sbarca ed il funzionamento della burocrazia

locale. “A differenza di altri popoli – del tedesco grande migratore – per ogni italiano un paese

[straniero] è sempre un’incognita: egli deve rifare colà il noviziato. E la ragione di ciò è da ricercare

nella trascuratezza del Governo verso i sudditi lontani e nella indolenza propria degli italiani e nel

balordo funzionamento dei Consolati e nella mancanza di diffusione di notizie riferentesi ai

49 G. Boschi, Dall’uno all’altro mondo, Fratelli Bianco, Pinerolo 1872, p. 5, apud Blengino, op. cit. 50 Bove, op. cit., p. 37 51 Blengino, La Babele nella pampa, cit., p. 108 52 Lucchesi, op. cit., p. I, apud Blengino, p. 108

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commerci ed alle emigrazioni”.53

Le condizioni di vita molto spesso insostenibili degli emigranti

sono descritte con indignato stupore da viaggiatori istruiti che, denunciando lo scandalo

dell’analfabetismo e della miseria che riguarda gli italiani all’estero, tendono a rimuovere la realtà

altrettanto desolata del proprio paese.54

Per altro verso, chi è emigrato nelle peggiori condizioni e

sopravvive alla deriva catastrofica del sogno americano difficilmente dispone degli strumenti

(l’istruzione o i modelli letterari) necessari ad ottenere visibilità e testimoniare la propria storia. Di

questo sguardo “minore” restano, in molti casi, solo indizi precari e testimonianze involontarie.

Lo sguardo di Banfi – un emigrante senza mezzi economici ma minimamente istruito, che

decide di amplificare i suoi appunti di viaggio in una versione pubblica – può aprire una prospettiva

antropologica interessante: uno sguardo “minore” che si fa testimonianza volontaria. La sua “storia

ed avventura” è il racconto autobiografico del viaggio tra due mondi di un emigrante – viaggiatore

che si fa volontariamente cronista. Raccontata come un romanzo, la spedizione al Paranà diventa un

viaggio d’iniziazione. Ne emerge un messaggio a sfondo morale diretto al lettore europeo. Lo

sguardo “minore” di Banfi illumina le fratture tra il business post-coloniale del sogno americano –

allettante come una nuova Conquista – ed il dramma dell’emigrazione ma, a sorpresa, inverte i

termini della retorica etnocentrica e spiazza il moralismo dell’elite istruita. Nel suo racconto, che

sembra una favola per gli europei se non per quelli che hanno viaggiato nell’interno dell’Africa e

delle Americhe, i quali per certo non troverebbero alcun punto di esagerazione, prende corpo un

libello di tolleranza in cui l’autore mostra l’incontro tra i barbari europei (avventurieri quasi sempre

brutali) e gli ospitali, leali e civili (benché spesso ingenui) indigeni. L’immaginario esotico del

viaggiatore romantico si colora così con i toni violenti dell’occupazione a scopo di lucro di una

landa primitiva ma nient’affatto vergine; ove, al contrario, prosperano vizi e miserie piantate

dall’arroganza dei più sbrindellati e famelici conquistatori spintisi all’estremo margine del Mondo

conosciuto.

Affondando in questa selva selvaggia dove l’umanità sembra smarrita, Banfi percorre una

specifica forma d’interazione, in quanto “straniero” dotato di uno sguardo “minore”. Stabilizza il

suo vagare in tappe di un romanzo di formazione, determinate da incontri significativi e sintomatici

riti di ospitalità; definisce il suo ruolo tra alleati ed antagonisti; rimodella la propria identità morale

53 Manzi, op.cit .p. 6 54 Per esempio, nota ancora Blengino, l’unanime condanna, da parte dei viaggiatori istruiti, del regionalismo e della

persistenza dei dialetti a discapito dell’italiano ribadisce la preoccupazione per il decoro dell’Italia, un valore che

accomuna tutti, soprattutto dopo l’Unità: “però si tratta pur sempre di un valore elitario. Il regionalismo ed il dialetto

non sono deviazioni, fanno parte della cultura popolare” (p. 102)

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e stilistica. Affranca le sue opinioni dal consenso della sua classe, istruzione ed origine quando, al di

là dell’esotico, riconosce valori positivi nel margine estremo e quasi nel rovescio della civiltà, dove

l’essere umano sembra esser tanto più “gentile” quanto più differente e “barbaro”. Trova

irriguardoso il comportamento dell’amico Buzzone che respinge il rancio a base di fagioli a

colazione e pappagalli a cena, giacché il rifiuto offende i generosi mulattieri che lo preparano,

invece, con enorme riguardo. Ha un’impressione strana quando assiste alla Messa insieme agli

indigeni seduti per terra in uno stanzone buio che gli pare un covo di scimmiotti accovacciati, ma

inverte subito i termini della metafora quando afferma che a suo parere veri scimmiotti sono i

cittadini della Capitale:

che, non sapete come me che questi Cittadini Brasileri quando un Europeo si presenta senza titolo di nobiltà viene in pochi giorni considerato come un Nero schiavo overosia credono che nei nostri paesi

siano come tanti Orsi affamati e vestiamo male e speccialmente noi Italiani ci dicono accatoni e più

come ben sapete ci chiamano col nome di calcamano. il mio compagno volle sostenere che ciò veniva dalla bassa plebbe di Citta come pure quelli della campagna. ho no, li dissi: voi ne siete in errore. la

prova è che questa gente del Campo ci parlano materialmente, se volete, ma con franchezza e i suoi visi

esprimono sincerità e un non so che di allegrezza nel udire la nostra Conversazione. il Cittadino poi

della Capitale ci guarda con indiferenza osia disprezzo con quel soghigno beffardo da veri scimiotti come lo sono e questo è il mio parere.

Come il binomio città / campagna, allo stesso modo i termini geografici Europa / America

sono metonimici di due mondi e modi di vivere la cui gerarchia valoriale può essere capovolta. Le

grandi distanze fanno emergere prospettive alternative, ravvisabili solo da chi esce dal proprio

guscio di abitudini e preconcetti – che non è sempre il caso del viaggiatore – e sofferma la sua

attenzione su particolari a prima vista banali, che si caricano di significato solo quando enfatizzati

dalla luce del vissuto individuale. Il maestro napoletano che si dice laureato (e che Banfi conosce fin

da Rio de Janeiro) dimostra d’esser assai più ignorante del suo ospite, leale e cortese, benché

indigeno e analfabeta. A salvare i due viandanti dall’atroce insensibilità del Dottore Francese – che

non li ospita pur avendone lo spazio ed il conforto, in una notte buia e tempestosa in cui la foresta

sembra ululare in balia delle fiere – è un umile boscaiolo:

bisogna che vi accomodate uno in questa Panca e l'altro in Terra perche nella Camera ove vi sono due letti

è ocupata da altri ospiti che sono venuti qui avanti notte, che quel maledetto Dottore Francese non gli a voluto dare Ospitalità, non importa […] alla mattina, doppo aver mangiato, durai gran fattica per fare

prendere qualche moneta al padrone de serviggi prestati, ma tutto fu invano. egli rispondeva continuamente

che è di dovere il soccorrere in caso dì bisogno quindi nula poteva accettare, io non potevo a meno di pensare quanta diferenza che passa dal Civilizzato Europeo, al si suol dire Selvaggio Americano, ossia

Brasilero.

Questo sguardo “minore” di viaggiatore non privilegiato mette in crisi lo sguardo auto-

affermativo del viaggiatore romantico. Banfi coglie il caratteristico dei luoghi senza affidarsi a

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oggettivazioni semplicistiche, quale potrebbe essere una percezione primitivista di aspetti evidenti

della cultura che visita. Ridurre gli indigeni a scimmie spensierate (negando la profonda civiltà di

quell’essere ospitali, benché oppressi) convaliderebbe un principio di modello unico molto

confortevole per il viaggiatore: ovvero, tradurrebbe la distanza spaziale in una distanza temporale.

La civiltà inferiore ed oppressa non sarebbe altro che una tappa nel nostro passato: una tappa più

infantile, arretrata, sottosviluppata e quindi bisognosa di un’evoluzione “guidata” che le permetta di

raggiungere i migliori risultati del modello occidentale. Così giustificato, l’oppressore farebbe il

bene dell’oppresso imponendogli i propri paradigmi culturali.

Al contrario Banfi, straniero “spaesato” e narratore autobiografico, esalta l’adattamento alla

cultura altra come prima necessità del viaggio e arte di sopravvivenza (non solo materiale) del

viaggiatore nell’era moderna. Che volete, ammette nella prima facciata del diario, ora incomincia il

doversi adattare a tutto. Non a caso, il valore che più lo radica al territorio è l’onesta disponibilità al

lavoro, come già a Rio de Janeiro quando, sbarcato apprendista muratore, s’era improvvisato

corista. Onesto in quanto limitato dalla consapevolezza delle proprie reali competenze, Banfi è

nondimeno sempre adattabile e disposto al compromesso: come nel caso esilarante dell’organo

rotto, che prima rifiuta di riparare perché non è il nostro mestiere e poi promette il contrario, per

evitar le conseguenze della cocente delusione del proprietario:

come? rispose foribondo il proprietario, ricusate[?] io so per avere inteso a dire che voialtri Europei sapete far tutto, io li tornai a dire: é imposibile, sappiate che ognuno di noi sa che un sol mestiere, e

per ciò questo non è nostro affare. Ed io vi dico di rangiarlo in qualche modo; allora vedendo

quest'uomo che li cominciava a sortirci gli'occhi dalla testa, comincia a dirgli: veramente lo potrei accomodare un poco ma ci manca i ferri, fra due mesi noi saremo di ritorno ed allora porteremo con

noi tutto l’occorente per accomodarlo come meglio potremo, in questo modo ne fu in parte

sodisfatto.

Quando, giunto a metà del percorso senza risorse per avanzare né per ritirarsi, è costretto a

privarsi del suo fedele orologio – un po’ guasto – si fa scrupolo di spiegarne per bene il

funzionamento e l’eventuale riparazione all’acquirente, che non ne ha mai visto uno. Non fa

diversamente altrove, dopo aver cenato con ospiti che portano devozione ad una statua in gesso di

Napoleone che scambiano per San Pietro perché la portò lì uno che viene dal Paese del S.Padre.

Commenta Banfi: compresi di dovere pure noi fare altrettanto, pasiensa, e ci voleva anche questa;

e s’inginocchia davanti al santo ammiraglio calzato di stivaloni. La curiosità e l’atteggiamento

dialogico (proprio dell’emigrante) lo predispongono positivamente ad equivoci interculturali che

non sono altro che effetti collaterali di un incontro avvenuto, sintomi di una crescita. Così,

tormentoni da repertorio narrativo inizialmente portati ad enfasi della distanza tra il luogo da cui si

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proviene e l’altro sconosciuto, come poli opposti (la città e la selva, l’abitato e l’inabitabile, lo

spazio civilizzato e quello incommensurabile), vengono poi anche usati in senso auto-ironico:

vedasi il terrore delle tigri, che – ripete con ossessione scaramantica – si diceva infestassero le

paludi del Paranà. Terrore che fa tremare il nostro eroe dalla testa ai piedi per un pomeriggio, al

crescente rumore di frasche smosse: non saprei dire se quel fremito fusse stato per paura che un Tigre

avesse mangiato il mio Compagno o pure che temese d’essere mangiato io. Alle ore di panico segue la

scoperta d’esser stato oggetto dei dispetti d’amore di un essere feminile che tenendo con ambo le mani il

grembiale al viso, più si avicinava e più crescieva un ridere stupido. La bellissima Negretta con la

ridarella è talmente contenta di incontrare uno straniero che insiste per ospitarlo, cosa che a Banfi fa

passar all’istante la paura:

montai a Cavallo e partii alla gran Carriera che in meno di mezz'ora ebbi ragionto il Compagno […] or bene,

li dissi è mestier di far Correre un poco i Cavalli che qui a pochi passi vi è una Casa onde potremo ricoverarsi dal temporale, ma come voi potete sapere che qui vicino vi sia una Casa, mi diceva il

Compagno, intanto cominciava a saltelare sul Cavallo ch'io perquotteva di dietro e li dicevo: coraggio

Buzzone non abbiate paura ch'io sono qui vicino, ma il povero uomo saltava d'un palmo sulla Sella e si mise a gritare: per l’amor del cielo? mi volete fare amazzare[?] ferma ferma…

Il cavallo del compagno diventa qui, come più avanti il proprio, un mezzo magico capace di

attraversare in un salto la frontiera tra la dimensione dello sconosciuto (bosco senza varco,

temporale, notte che avanza e tigri) ed il familiare (rifugio, focolare ed una ragazza calda,

disponibile ed allegra). La paura della frontiera vista come un luogo di non ritorno si dissolve

nell’istante in cui appaiono queste figure ibride tra realtà e immaginario (la donna velata o, altrove,

una madre che allatta o un canto femminile) che vengono riconosciute e normalizzate dal desiderio

del viaggiatore di trovarsi a proprio agio e come “in casa”. Ciò significa che, per quanto attraversi la

frontiera e penetri nello spaventoso “altro mondo”, il viaggiatore non disarticola completamente il

legame con il proprio mondo d’origine. Come nelle favole, il percorso è disseminato di segnali di

riconoscimento della via e da tappe di radicamento domestico in cui il viaggiatore riflette: io qui mi

ci conosco.

In generale, se è vero che gli emigranti rimpatriati sembrano scrollarsi di dosso la vita vissuta

nell’altro luogo e fanno una vita simile ai compaesani che non si sono mai mossi da casa (come poi

Banfi che tornerà a fare il pizzicagnolo a Busalla); è pur vero che quelli che invece non tornano

sembrano “radicalizzare la nostalgia” e fanno di tutto per ricostruire una parvenza di paese dall’altra

parte del mondo, come mostra magistralmente Emilio Franzina ne L’immaginario degli emigranti.55

55 Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero tra i due secoli, Pagus, Treviso 1992

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Il Frate genovese, ultimo e più emozionante ospite di cui Banfi racconta, si fa portare dall’Italia un

vino rosso che tien più caro dell’olio santo. Ha vissuto avventure inenarrabili che l’hanno portato al

cuore della selva, ove (come Kurz di Cuore di tenebra) regna – da malato qual è – su una piccola

comunità indigena perduta tra pantani inguadabili e tartassata da diluvi perpetui; eppure spera

ancora, se il Ciel vorrà, di vedere la mia bella Genova.

La necessità di riconoscersi, seppur a stento, in un luogo estraneo potrebbe esser collegato al

termine freudiano che definisce la tensione racchiusa nell’arte come unheimlich, cioé perturbante:

“quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”.56

La parola tedesca ha la sua radice nell’antitetico heimlich (da heim, casa) che indica ciò che ci è più

familiare ed abituale, lo spazio-tempo al quale si appartiene, il luogo popolato da persone amate,

dove ci si sente protetti e verso il quale tornare, il vissuto cui si partecipa pienamente. È perturbante

(unheimlich) un luogo oppure un’esperienza percettiva che somiglia oppure avviene nel nostro

ambiente domestico ma cela in sé l’angosciosa minaccia dell’ignoto. La partenza dell’emigrante,

giacché comporta lo sradicamento dall’ambiente d’origine e l’adattamento obbligato alla nuova

realtà, può produrre un trauma perturbante: una ferita insanabile, una dissociazione della memoria

che esplode l’identità biografica in versioni inconciliabili. Scrisse Prezzolini che, più che la somma

di due interi, la psiche dei trapiantati è risultato di due sottrazioni.57

Strappata alla radice, l’identità

galleggia e si ancora con disperazione a qualsiasi dettaglio familiare del nuovo territorio. Spaesato,

chi è partito senza ritorno si aggrappa ad un pezzettino qualsiasi del suo paese per esser se stesso

dall’altra parte del mondo. Neanche il rimpatrio annulla il conto dell’espatrio, perché nel frattempo

la vita trascorre e ridisegna l’identità del viaggiatore. La nostalgia estremizza l’entità della perdita e

produce spostamenti patologici di significati: il “mal di paese” per chi non fa mai più ritorno ed il

disadattamento per chi invece torna e non si sente mai più a casa. Essere stato un tano, un gringo, un

carcamano significa essere per sempre l’americano. Pur nella più estrema e favolosa avventura

oltreoceano, il valore delle radici si rivela nella profonda impossibilità di sradicarsi e si trasmette,

magari in modo involontario, nel racconto ai posteri. Il trauma trasferisce la sua patologia: quella

rottura che l’emigrato rientrato vuole dimenticare, il figlio la vuole nonostante tutto conoscere. Sai,

fuori ci saranno peripezie, lavoro, attività, tutto quello che vuoi, ma c’è il buio, però si conosce

almeno d’essere al mondo: è l’inquieta riflessione che il figlio secondogenito di Banfi indirizza al

56 Siegmunt Freud, “Il perturbante” in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1980

(vol.1) 57 Sulle cause e conseguenze del trauma dell’emigrazione vedi Piero Brunello, Pionieri. Gli italiani al Brasile e il mito

della frontiera, Donzelli, Roma 1994 e Augusta Molinari, Le navi di Lazzaro, ed. Franco Angeli, Milano 1988

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fratello minore quando questi emigra in Germania, forse perché é lui (già prossimo alla morte) che

legge in quella partenza un destino vero e diverso. Il padre Giuseppe invece morirà anziano, a casa e

forse sereno: a settantaquattro anni, godendosi gli agi accumulati in tre decenni di tranquillo tran-

tran d’albergatore ad Acqui. Le sue due vite sembrano separate dall’Oceano come due vicende

esistenziali e due identità lucidamente scisse: in America artista ed intrepido avventuriero; in Italia

piccolo-borghese e quieto padre di famiglia. Il suo trauma, se ci fu, si manifestò con altri sintomi:

forse – spesso accade a coloro che subiscono dislocamenti violenti, come l’emigrazione o la

deportazione – proprio nell’ansia di raccontare e lasciare registri della memoria, per se stesso e per

altri (i parenti, i compaesani, i futuri lettori).

È proprio nel racconto che Banfi trova il suo rimedio. Sorgendo in una dimensione

essenzialmente privata, la narrazione autobiografica ricompone i frammenti di vita vissuta in un

nuovo progetto di vita ed è perciò passaggio essenziale allo sviluppo della capacità progettuale. Nel

nostro caso, la disponibilità alla rielaborazione creativa della memoria in opera di finzione (“storia

ed avventura di Giuseppe Banfi”) proietta l’identità ricostruita dell’emigrante in una dimensione

pubblica, quasi una versione “per la fama”. Nel baule che torna al paese ha conservato le prove di

un destino compiuto altrove e che non sarebbe altrimenti condivisibile se non attraverso il racconto.

Per questo, gli oggetti si caricano di significato simbolico ed il baule coincide con l’archivio dei

testimoni che danno valore ad una vita.

Conservare l’intensità morale e l’eccezionale significato della sua irripetibile esperienza – che

la scrittura sintetizza in una serie di epifanie fugaci ed apparizioni simboliche – è ciò che stimola

l’emigrante Banfi a farsi narratore. Cercando di trarre un senso da ogni incontro e da ogni passaggio

traumatico, Banfi fa della quotidiana lotta contro l’annichilimento morale e fisico, in un panorama

sempre primitivo e minaccioso, un percorso di formazione e crescita dell’io dal punto di vista

(posteriore) del narratore. La perdita di sè e l’esercizio di ritrovarsi all’altro mondo, di fronte o forse

già dentro la morte, sono temi classici dei viaggi d’iniziazione: l’anima, temprata a resistere alla

paura attraverso successive prove, compie un’ascesi spirituale. Il canone della Commedia – come

abbiamo visto, un solido riferimento nella memoria enciclopedica di Banfi – ispira a Banfi la

progressiva caratterizzazione del viaggio in Paranà come un viaggio al cuore delle tenebre. Il timore di

sparire nella “selva selvaggia” senza lasciar traccia della straordinaria esperienza vissuta fa

emergere, in questo racconto a metà tra diario di un viaggiatore romantico e registro precario della

sopravvivenza di un povero cristo perduto nella foresta brasiliana, una preoccupazione simbolica

che trascende la cronaca: una pulsione poetica. Ciò che mette in tensione la scrittura, pur mascherata

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dall’ironico trattamento degli equivoci che il dialogo interculturale produce, è lo sconforto della

solitudine al di là di ogni comunicazione possibile. Lo sguardo dell’uomo smarrito nella selva è

colmo di destino: riconosce la valenza simbolica delle vicende come gestae di un’anima, il pericolo

di una metaforica morte in ogni tremito, crisi o fallimento e l’epifania mistica della Provvidenza in

ogni incontro salvifico – spesso, non a caso, con una figura femminile. Insomma, nel viaggio del

viaggiatore si cela l’altro viaggio: quello dell’anima intrepida al centro del mistero ineffabile.

Io devo pure confessare la mia paura che più volte pensava l’ essere imposibile di sortire da quello orrìbile

luogo. ma però non osava osia temeva il manifestarlo, e in me sentiva forza e Coraggio, non saprei come svolgere questo tema d’avere paura e coraggio nel medesimo tempo, già non c’era molto tempo di fare

riflessioni perche bisognava continuatamente curvarsi e sdraiarsi sul Cavallo per potere passare sotto i

rami e folti Cespugli e di sofrire continue graffiature […] e pure vi era un non so che di Ente Supremo [che] trasformava la cruda posizione in liberi e grandiosi pensieri e sentiva una gioja in me veramente

insolita il che non sapeva a cosa ne doveva atribuire.

Visto in questa luce vagamente dantesca, è carico di derive filosofiche anche il finale del diario,

sospeso dall’interruzione improvvisa della scrittura. Lasciando il compagno sulla riva di un pantano,

Banfi si avventura da solo, affonda per due volte e si salva solo grazie alla premonizione del magico

cavallo che si rifiuta di proseguire e poi, d’istinto, trova il passaggio in terra ferma. Avanzando ancora

nel girone infernale, il pantano si fa più infido e si presenta con apparenza di prato su cui il leale cavallo

ancora una volta rifiuta di poggiar lo zoccolo. Senza intravedere altra uscita, il cavaliere decide di

spingercelo a forza, invocando come estremo alleato il destino; ed ecco che…

sentendo che li mancava il tereno di sotto io guardava la foresta ed il cielo con animo costernato e nel mio

pensiero balenavasi un pensiero che diceva: posibile che io abbia di morire in queste foreste? ma in questo istante sentii una voce che sembrava di donna. oh quale consolazione che provai in quel momento [!] mi è

sembrata una voce del cielo che venisse in nostro socorso e fermo come una statua stava fermo sul mio

cavallo in aspettativa, ed ecco di nuovo la voce che diceva: fermi fermi [!] ed in pochi minuti ho potuto

distinguere una donna che ci diceva: venite qui in questa parte, d’altronde vi somergerete nel fango, quando fummo vicini ad essa, e che ci diceva: questo è il solo luogo di passare, quantunque che il passo

non fusse che di pochi metri, i nostri cavalli sono entrati nel fango che li arivava più alto dello stomaco ma

siamo pasati

Alessandra Vannucci

Genova, gennaio 2007