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SUL GROTTESCO PREFAZIONE AL CROMWELL * Il dramma che stiamo per leggere non ha nulla che lo raccomandi all'attenzione o alla benevolenza del pubblico. Non ha, per attirare su di sé l'interesse delle opinioni politiche, il vantaggio del veto della censura amministrativa e neppure, per conciliargli * Queste note sono state strappate all'autore come la prefazione. Tuttavia nel numero ce ne sono alcune che dipendono dalla prefazione, che ne fanno parte integrante, e che essa comportava naturalmente: quelle l'autore non rimpiange affatto di averle scritte. Tutte le altre, che non si ricollegano che al dramma, sono di troppo. Ci sono pochi versi di questo dramma che non possono dare luogo a estratti di storia, a sfoggio di scienza locale, talvolta a rettifiche. Con un po'di buona volontà, l'autore avrebbe potuto facilmente ampliare e dilatare quest'opera fino a farne tre torni in ottavo. Ma a che pro, fare degli ottanta o cento volumi ** i caudatari del presente libro che ha dovuto leggere e condensare in questo? Ciò che egli vuole dare qui è opera di poeta, non fatica da erudito. Dopo aver esposto davanti allo spettatore l'apparato del teatro, perché trascinarlo dietro la tela e mostrargli le squadre e le pulegge. Il merito poetico dell'opera guadagna un gran che da queste prove testimoniali della storia? Chi dubiterà, cercherà. Nelle produzioni dell'immaginazione, non ci sono pezze giustificative. È penoso vedere la poesia così ermeticamente sepolta sotto le note: è il piombo della bara. Probabilmente non si troverà nelle note quello che vi si cercherà: sono numericamente molto incomplete. L'autore le ha prese a caso da un ammasso enorme di sterro e di materiale; egli ha preso non le più importanti, ma le prime venute. Poco adatto a questo lavoro lo ha fatto molto male. Poco importa, eccole come sono. Si vedrà, dopo averle lette, che sarebbe stato meglio bruciare tutti questi trucioli. **Senza contare tutte le Memorie sulla rivoluzione d'Inghilterra, State Papers, Mémoirs [sic] of the protectoral Home, Hudibras, Acts of the Parliament , Eykon Basiliké, ecc. ecc., l'autore ha potuto consultare alcuni documenti originali, alcuni molto rari, altri perfino inediti, Cromwell politico, libello fiammingo, El hombre de demonio, libello spagnolo. Cromwell and Cromwell, e il Connaught-Register, che gli ha gentilmente comunicato un nobile pari d'Irlanda, a cui rivolge qui pubblici ringraziamenti.

Prefazione a Cromwell - Formattata

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SUL GROTTESCO

PREFAZIONE AL CROMWELL*

Il dramma che stiamo per leggere non ha nulla che lo raccomandi all'attenzione o alla benevolenza del pubblico. Non ha, per attirare su di sé l'interesse delle opinioni politiche, il vantaggio del veto

* Queste note sono state strappate all'autore come la prefazione. Tuttavia nel

numero ce ne sono alcune che dipendono dalla prefazione, che ne fanno parte

integrante, e che essa comportava naturalmente: quelle l'autore non rimpiange

affatto di averle scritte. Tutte le altre, che non si ricollegano che al dramma,

sono di troppo. Ci sono pochi versi di questo dramma che non possono dare luogo a

estratti di storia, a sfoggio di scienza locale, talvolta a rettifiche. Con un

po'di buona volontà, l'autore avrebbe potuto facilmente ampliare e dilatare

quest'opera fino a farne tre torni in ottavo. Ma a che pro, fare degli ottanta o

cento volumi ** i caudatari del presente libro che ha dovuto leggere e condensare

in questo? Ciò che egli vuole dare qui è opera di poeta, non fatica da erudito.

Dopo aver esposto davanti allo spettatore l'apparato del teatro, perché trascinarlo

dietro la tela e mostrargli le squadre e le pulegge. Il merito poetico dell'opera

guadagna un gran che da queste prove testimoniali della storia? Chi dubiterà,

cercherà. Nelle produzioni dell'immaginazione, non ci sono pezze giustificative. È

penoso vedere la poesia così ermeticamente sepolta sotto le note: è il piombo della

bara. Probabilmente non si troverà nelle note quello che vi si cercherà: sono

numericamente molto incomplete. L'autore le ha prese a caso da un ammasso enorme di

sterro e di materiale; egli ha preso non le più importanti, ma le prime venute.

Poco adatto a questo lavoro lo ha fatto molto male. Poco importa, eccole come sono.

Si vedrà, dopo averle lette, che sarebbe stato meglio bruciare tutti questi

trucioli.

**Senza contare tutte le Memorie sulla rivoluzione d'Inghilterra, State Papers,

Mémoirs [sic] of the protectoral Home, Hudibras, Acts of the Parliament, Eykon

Basiliké, ecc. ecc., l'autore ha potuto consultare alcuni documenti originali,

alcuni molto rari, altri perfino inediti, Cromwell politico, libello fiammingo, El

hombre de demonio, libello spagnolo. Cromwell and Cromwell, e il Connaught-

Register, che gli ha gentilmente comunicato un nobile pari d'Irlanda, a cui rivolge

qui pubblici ringraziamenti.

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della censura amministrativa e neppure, per conciliargli immediatamente la simpatia letteraria degli uomini di gusto, l'onore di essere stato ufficialmente rifiutato da un comitato di lettura infallibile. Si offre dunque agli sguardi solo, povero, nudo, come l'infermo del Vangelo, solus, pauper, nudus. Non è d'altra parte senza qualche esitazione che l'autore di questo dramma ha deciso di appesantirlo con note e prefazione. Queste cose sono di solito assolutamente indifferenti ai lettori. Essi preferiscono informarsi sull'ingegno di uno scrittore piuttosto che sulle sue opinioni; e, a prescindere dal fatto che un'opera sia buona o cattiva, poco interessa loro di sapere su quali idee si fondi e da quale intento sia prodotta. Non si visitano le cantine di un edificio di cui si sono percorse le sale, e ci si cura poco della radice di un albero quando se ne mangia il frutto. D'altra parte, note e prefazioni sono a volte un mezzo comodo per aumentare il peso di un libro e per accrescere l'importanza di un lavoro, almeno in apparenza; è una tattica simile a quella di certi generali d'armata che, per rendere più imponente il loro fronte di battaglia, schierano perfino le salmerie. Poi, mentre i critici si accaniscono sulla prefazione e gli eruditi sulle note, può accadere che l'opera vera e propria sfugga loro e passi incolume attraverso i loro tiri incrociati, come un esercito che si tragga d'impiccio tra un combattimento di avamposti e uno di retroguardie. Questi motivi, per quanto importanti, non sono stati quelli decisivi per l'autore. Questo volume non aveva bisogno di essere gonfiato: è già fin troppo grosso. Inoltre, e l'autore non sa come ciò avvenga, le sue prefazioni sincere e ingenue sono sempre servite a comprometterlo piuttosto che a favorirlo nei confronti dei critici. Lontano dall'essere per lui buoni e fedeli scudi, gli hanno fatto il brutto scherzo di quelle particolari divise che, evidenziando il soldato che le porta durante la battaglia, attirano su lui i colpi e non lo salvano da nessuno. Sull'autore hanno influito considerazioni d'altro ordine. Gli è sembrato, in effetti, che se non si visitano volentieri le cantine di un edificio, non dispiace a volte esaminarne le fondamenta. Egli si esporrà dunque, ancora una volta, con una prefazione, alla collera delle critiche. Che sarà, sarà 1. Non si è mai preoccupato molto della fortuna delle sue opere, e non gli fa spavento il «che cosa se ne dirà» letterario. Nell'animata discussione che contrappone i

1 In italiano nel testo [N.d.T.].

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teatri alla scuola, il pubblico alle accademie, si ascolterà con un certo interesse la voce di un solitario apprendista della natura e della verità, che, per amore delle lettere, si è ritirato presto dal mondo letterario e che in mancanza di buon gusto propone buona fede, in mancanza di ingegno certezza, in mancanza di scienza studii. Si limiterà del resto a considerazioni generali sull'arte, senza farne minimamente il baluardo della sua opera, senza pretendere di scrivere né una requisitoria né un'arringa a favore o contro chiun-que. L'attacco o la difesa del suo libro è per lui meno importante che per chiunque altro. E del resto i contrasti personali non gli convengono. È sempre uno spettacolo miserabile veder duellare i proprii amori. Egli protesta dunque in anticipo contro ogni interpretazione delle sue idee e contro ogni applicazione delle sue parole, dicendo con lo scrittore di favole spagnolo:

Quien haga aplicaciones con su pan se lo coma 2.

A dir il vero, parecchi tra i principali campioni delle «sane dottrine letterarie» gli hanno fatto l'onore di gettargli il guanto, fin nella sua profonda oscurità, a lui, semplice e infinitamente piccolo spettatore di questa curiosa mischia. Non sarà tanto sciocco da raccoglierlo. Ecco, nelle pagine che seguiranno, le osservazioni che potrebbe opporre loro; ecco la sua fionda e il suo sasso: ma altri, se vogliono, lo getteranno in testa ai Golia classici. Ciò detto, passiamo oltre. Partiamo da un fatto: non sempre lo stesso genere di civiltà, o, per usare un'espressione più precisa, sebbene più vasta, la stessa società ha occupato la terra. Nel suo insieme il genere umano è cresciuto, si è sviluppato, è maturato come uno di noi. E stato bambino, è stato uomo; ora noi assistiamo alla sua imponente vecchiaia. Prima dell'epoca che la società moderna ha chiamato antica, esisteva un'altra era che gli antichi chiamavano favolosa e che sarebbe più esatto chiamare primitiva. Ecco dunque tre grandi ordini di cose che si susseguono nella civiltà, dalla sua origine fino ai nostri giorni. Ora, poiché la poesia si sovrappone sempre alla società, tenteremo di distinguere, dalla forma di questa, quale abbia dovuto essere il carattere di quella nelle tre grandi età del mondo: i tempi primitivi, i tempi antichi, i tempi moderni.

2 Chi si applica mangia del suo pane [Tr. it. nostra].

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Nei tempi primitivi, quando l'uomo si sveglia in un mondo appena nato, la poesia si sveglia con lui. Al cospetto delle meraviglie che lo abbagliano e che lo inebriano, la sua prima parola non è che un inno. È ancora così vicino a Dio che tutte le sue meditazioni sono delle estasi, tutti i suoi sogni delle visioni. Dà libero sfogo ai suoi sentimenti, canta così come respira. La sua lira non ha che tre corde, Dio, l'anima, la creazione; ma questo triplice mistero avvolge tutto, ma questa triplice idea comprende tutto. La terra è ancora pressoché deserta. Ci sono famiglie, non popoli; padri, non re. Ogni razza vive a proprio agio; non proprietà, non leggi, non contrasti, non guerre. Tutto appartiene a ciascuno e a tutti. La società è una comunità. Nulla vi ostacola l'uomo. Egli conduce quella vita pastorale e nomade dalla quale hanno origine tutte le civiltà, e che è così propizia alle contemplazioni solitarie, ai sogni fantasiosi. Si abbandona a essi, si lascia andare. La sua vita, così come il suo pensiero, assomiglia alla nuvola che cambia forma e direzione a seconda del vento che la sospinge. Ecco il primo uomo, ecco il primo poeta. È giovane, è lirico. La preghiera è tutta la sua religione: l'ode è tutta la sua poesia. Questo poema, quest'ode dei tempi primitivi è la Genesi. Tuttavia a poco a poco questa adolescenza del mondo se ne va. Tutte le sfere si ingrandiscono; la famiglia diviene tribù, la tribù diventa nazione. Ciascun gruppo di uomini si raccoglie attorno a un centro comune, ed ecco i regni. L'istinto sociale succede all'istinto nomade. L'accampamento fa posto alla città, la tenda al palazzo, l'arca al tempio. I capi di questi stati nascenti sono effettivamente ancora pastori, ma pastori di popoli; il loro bastone pastorale ha già forma di scettro. Tutto si definisce e si fissa. La religione prende una forma; i riti regolano la preghiera; il dogma inquadra il culto. Così il sacerdote e il re si dividono la paternità del popolo; così alla comunità patriarcale succede la società teocratica. Frattanto le nazioni cominciano a essere troppo strette sul globo. Si disturbano e si provocano; da ciò conflitti tra imperi: la guerra 3. Debordano le une sulle altre; da ciò migrazioni di popoli: i viaggi 4. La poesia riflette questi grandi avvenimenti; dalle idee passa alle cose. Canta i secoli, i popoli, gli imperi. Diventa epica, partorisce Omero. Infatti, Omero domina la società antica. In questa società tutto è semplice, tutto è epico. La poesia è religione, la religione è legge.

3 L’Iliade.4 L’Odissea.

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Alla verginità della prima età è succeduta la castità della seconda. Una sorta di gravità solenne si è impressa ovunque, nei costumi privati e in quelli pubblici. Della vita errante, i popoli hanno conservato solo il rispetto per lo straniero e per il viaggiatore. La famiglia ha una patria; tutto la lega alla patria; vi è il culto del focolare, il culto delle tombe. L'espressione di una simile civiltà, lo ripetiamo, non può essere che l'epopea. L'epopea vi assumerà diverse forme, ma non perderà mai il suo carattere. Pindaro è più sacerdotale che patriarcale, più epico che lirico. Se gli annalisti, contemporanei, indispensabili, di questa seconda età del mondo, si mettono a raccogliere le tradizioni e cominciano a contare i secoli, hanno un bel fare, la cronologia non può scacciare la poesia: la storia resta epopea. Erodoto è un Omero. Ma è soprattutto nella tragedia antica che l'epopea si evidenzia ovunque. Essa sale sulla scena greca senza perdere, in un certo modo, nulla delle sue proporzioni gigantesche e smisurate. I suoi personaggi sono ancora eroi, semidei, dèi; le sue risorse sono sogni, oracoli, fatalità; i suoi quadri, enumerazioni, funerali, combattimenti. Ciò che i rapsodi cantavano, gli attori lo declamano, ecco tutto. Vi è di meglio. Quando sulla scena è passata tutta l'azione e tutta la parte spettacolare del poema epico, quello che resta è preso dal coro. Il coro commenta la tragedia, incoraggia gli eroi, fa descrizioni, chiama e scaccia il giorno, si rallegra, si lamenta, a volte ambienta la scena, spiega il significato morale dell'argomento, adula il popolo che lo ascolta. Ora, chi è il coro, questo personaggio bizzarro posto tra lo spettacolo e lo spettatore, se non il poeta che completa la sua epopea? Il teatro degli antichi è, come il loro dramma, grandioso, pontificale, epico. Può contenere trentamila spettatori; vi si recita all'aperto, in pieno sole; le rappresentazioni durano tutto il giorno. Gli attori aumentano il tono della voce, si mascherano il viso, alzano la statura. Si fanno giganti come i loro ruoli. La scena è immensa. Può rappresentare contemporaneamente l'interno e l'esterno di un tempio, di un palazzo, di un accampamento, di una città. Vi si svolgono grandi spettacoli: è Prometeo, citiamo a memoria, sulla montagna; è Antigone che cerca in cima a una torre il fratello Polinice nell'esercito nemico (Le Fenicie); è Evadne che si getta dall'alto di una roccia nelle fiamme dove brucia il corpo di Capaneo (Le Supplici di Euripide); è una nave che si vede apparire nel porto e dalla quale sbarcano sulla scena cinquanta principesse con il loro

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seguito (Le Supplici di Eschilo). Architettura e poesia, qui tutto assume un carattere monumentale. L'antichità non possiede nulla di più solenne né di più maestoso. Culto e storia si fondono con il teatro. I suoi primi attori sono dei sacerdoti; le sue prime rappresentazioni sono cerimonie religiose, feste nazionali. Un'ultima osservazione, che completa il carattere epico di quei tempi, è che per i soggetti che tratta, non meno che per le forme a cui ricorre, la tragedia non fa che ripetere l'epopea. Tutti i tragici antichi si rifanno minuziosamente a Omero. Stesse favole, stesse catastrofi, stessi eroi. Tutti attingono al fiume omerico. È sempre l'Iliade e l'Odissea. Come Achille che trascina Ettore, la tragedia greca gira intorno a Troia. Tuttavia l'età dell'epopea volge alla fine. Così come la società che rappresenta, questa poesia si logora ruotando su se stessa. Roma ricalca la Grecia, Virgilio copia Omero; e, per finire degnamente, la poesia epica spira in questo ultimo parto Era tempo. Un'altra èra sta per iniziare per il mondo e per la poesia. Una religione spiritualista, sostituendosi al paganesimo materiale ed esteriore, si insinua nel cuore della società antica, la uccide, e depone nel cadavere di una civiltà decrepita il germe della civiltà moderna. Questa religione è completa, perché è vera; tra il suo dogma e il suo culto, conferma profondamente la morale. Anzitutto, come verità prime, insegna all'uomo che egli ha due vite da vivere, l'una caduca, l'altra immortale; la prima della terra, la seconda del cielo. Gli mostra che egli è duplice come il suo destino, che vi è in lui un animale e un'intelligenza, un'anima e un corpo; in una parola che è il punto di intersezione, l'anello comune delle due catene di esseri che abbracciano la creazione della serie degli esseri materiali e della serie degli esseri incorporei, partendo la prima dalla pietra per arrivare all'uomo, la seconda dall'uomo per finire a Dio. Una parte di queste verità era stata forse intuita da alcuni saggi dell'antichità, ma la loro piena, luminosa e ampia rivelazione risale al Vangelo. Le scuole pagane procedevano a tastoni nella notte, attaccandosi alle menzogne come alle verità nel loro cammino casuale. Alcuni dei loro filosofi gettavano, a volte, sugli oggetti deboli luci che ne rischiaravano solo un lato e rendevano più grande l'ombra dall'altro. Da ciò tutti i fantasmi creati dalla filosofia antica. Solo la saggezza divina poteva sostituire, a tutte quelle fiammelle tremolanti della saggezza umana, un chiarore omogeneo e diffuso.

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Pitagora, Epicuro, Socrate, Platone sono fiaccole; il Cristo è la luce. Del resto, nulla di più materiale della teogonia antica. Invece di aver pensato, come il cristianesimo, a separare lo spirito dal corpo, dà forma e volto a tutto, perfino alle essenze, perfino alle intelligenze. Tutto in essa è visibile, palpabile, carnale. Per nascondersi, i suoi dèi hanno bisogno di una nuvola. Bevono, mangiano, dormono. Feriti, il loro sangue fluisce; storpiati, eccoli che zoppicano eternamente. Questa religione ha dèi e mezzi dèi. La sua folgore si forgia su un'incudine e, tra gli altri ingredienti, vi si fanno entrare tre raggi di pioggia ritorta, tres imbris torti radios. Il suo Giove tiene sospeso il mondo a una catena d'oro; il suo sole monta un carro trainato da quattro cavalli; il suo inferno è un precipizio di cui la geografia pone la bocca sul globo; il suo cielo è una montagna. Quindi il paganesimo, che plasma tutte le sue creazioni con la stessa argilla, rimpicciolisce la divinità e ingrandisce l'uomo. Gli eroi di Omero hanno quasi la stessa statura degli dèi. Aiace sfida Giove. Achille vale Marte. Noi abbiamo visto, al contrario, come il cristianesimo separi profondamente lo spirito dalla materia. Pone un abisso tra l'anima e il corpo, un abisso tra l'uomo e Dio. Per non omettere alcun tratto dello schizzo nel quale ci siamo arrischiati, faremo notare che in quest'epoca, con il cristianesimo e attraverso esso, si introduceva nello spirito dei popoli un sentimento nuovo, sconosciuto dagli antichi e singolarmente sviluppato nei moderni, un sentimento che è più della gravità e meno della tristezza: la malinconia. E poteva, infatti, il cuore dell'uomo, fino allora intorpidito da culti puramente gerarchici e sacerdotali, non svegliarsi e sentire nascere dentro di sé qualche facoltà inattesa, al soffio di una religione umana perché divina, di una religione che fa della preghiera del povero la ricchezza del ricco, di una religione di uguaglianza, di libertà, di carità? Poteva non vedere tutte le cose sotto un aspetto nuovo, dopo che il Vangelo gli aveva mostrato l'anima attraverso i sensi, l'eternità dietro la vita? In quello stesso momento, d'altra parte, il mondo subiva una rivoluzione così profonda, che era impossibile non se ne riscontrasse una negli animi. Fino allora le catastrofi degli imperi avevano raramente colpito il cuore delle popolazioni; erano re che cadevano, maestà che scomparivano e null'altro. Il fulmine scoppiava solo nelle regioni supreme, e, come abbiamo già messo in evidenza, gli

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avvenimenti sembravano svolgersi con tutta la solennità dell'epopea. Nella società antica, l'individuo era posto così in basso che, per essere colpito, occorreva che l'avversità discendesse fin nella sua famiglia. Quindi non conosceva la sventura fuori delle sofferenze domestiche. Era quasi inaudito che le sventure generali dello Stato turbassero la sua vita. Ma nel momento in cui si costituì la società cristiana, l'antico continente era tutto sconvolto. Tutto era sottosopra fin alla radice. Gli avvenimenti, destinati a mandare in rovina l'antica Europa e a riedificarne una nuova, si urtavano, si avventavano senza posa e spingevano le nazioni alla rinfusa, alcune verso la luce, altre verso le tenebre. Sulla terra si faceva così tanto chiasso, che era impossibile che qualcosa di tale tumulto non arrivasse al cuore dei popoli. Fu più che un'eco, fu un contraccolpo. Ripiegandosi su se stesso in presenza di queste grandi vicissitudini, l'uomo cominciò a commiserare l'umanità e a meditare sulle amare ironie della vita. Il cristianesimo fece di questo sentimento, che per Catone pagano era stato la disperazione, la malinconia. Nello stesso tempo nasceva lo spirito di ricerca e di curiosità. Quelle grandi catastrofi erano anche dei grandi spettacoli, delle vicende sorprendenti. Era il Nord che precipitava sul Mezzogiorno, l'universo romano che cambiava forma, le ultime convulsioni di tutto un mondo in agonia. Non appena quel mondo fu morto, ecco che nembi di retori, di grammatici, di sofisti, vengono ad abbattersi, come moscerini, sul suo immenso cadavere. Li si vede pullulare, li si sente ronzare in quel focolaio di putridume. Si fa a gara a chi esaminerà, commenterà, discuterà. Ogni membro, ogni muscolo, ogni fibra del gran corpo giacente è rivoltato da ogni parte. Certamente, dovette essere una gioia per quegli anatomisti del pensiero poter fare, fin dai primi tentativi, delle esperienze in grande; avere, come primo soggetto, una società morta da sezionare. Così vediamo spuntare assieme, e come se si dessero la mano, il genio della malinconia e quello della meditazione, il demone dell'analisi e quello della controversia. A una estremità di questa èra di transizione, è Longino, all'altra sant'Agostino. Bisogna guardarsi dal gettare un'occhiata sdegnosa su quest'epoca che aveva in germe tutto ciò che poi ha dato frutto, su quest'epoca i cui minimi scrittori, se ci si permette un'espressione triviale ma franca, hanno fatto letame per la messe che doveva seguire. II Medioevo si innesta sul Basso Impero. Ecco dunque una religione nuova, una società nuova; su questa duplice base, occorre che si veda crescere una nuova poesia. Fino ad

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allora, e che ci si perdoni di esporre un risultato che il lettore ha già dovuto trarre da solo da quanto è stato precedentemente detto, fino ad allora, la musa puramente epica degli antichi, comportandosi in ciò allo stesso modo del politeismo e della filosofia antica, non aveva studiato la natura che da un solo punto di vista, scartando senza pietà dall'arte quasi tutto quello che, nel mondo sottomesso alla sua imitazione, non si accordava con un certo tipo del bello. Tipo in un primo momento magnifico, ma, come capita sempre di ciò che è sistematico, divenuto negli ultimi tempi falso, meschino e convenzionale. Il cristianesimo conduce la poesia alla verità. Come esso, la musa moderna vedrà le cose da un punto di vista più elevato e più ampio. Sentirà che tutto nella creazione non è umanamente bello, che il brutto vi esiste accanto al bello, il deforme accanto al grazioso, il grottesco sul rovescio del sublime, il male con il bene, l'ombra con la luce. Si domanderà se la ragione limitata e relativa dell'artista debba spuntarla sulla ragione infinita assoluta del Creatore; se spetta all'uomo correggere Dio; se una natura mutilata sarà per questo più bella; se l'arte ha il diritto di separare, per così dire, l'uomo, la vita, la creazione; se ogni cosa camminerà meglio quando le avranno tolto i suoi muscoli e la sua energia; se, infine, l'essere incompleto è il modo d'essere armonioso. È allora che, fisso l'occhio su avvenimenti a un tempo ridicoli e formidabili, e sotto l'influsso di quel senso di malinconia cristiana e di critica filosofica a cui si accennava poco fa, la poesia compirà un gran passo, un passo decisivo, un passo che, simile alla scossa di un terremoto, cambierà tutta la faccia del mondo intellettuale. Si metterà a fare come la natura, a mischiare nelle sue creazioni, senza tuttavia confonderle, l'ombra alla luce, il grottesco al sublime, in altri termini, il corpo all'anima, la bestia allo spirito; perché il punto di partenza della religione è sempre il punto di partenza della poesia. Tutto è collegato. Ecco quindi un principio estraneo all'antichità, un tipo nuovo introdotto nella poesia; e, come nell'essere una condizione di più modifica l'essere per intero, ecco una forma nuova che si sviluppa nell'arte. Questo tipo è il grottesco. Questa forma è la commedia. E qui ci sia permesso di insistere; poiché abbiamo appena indicato il tratto caratteristico, la differenza fondamentale che separa, per noi, l'arte moderna dall'arte antica, la forma attuale dalla forma morta, o, per servirci di parole più vaghe, ma più accreditate, la letteratura romantica dalla letteratura classica.

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«Insomma!» diranno ora le persone che da un po' di tempo ci vedono sopraggiungere, «vi abbiamo in mano! Eccovi colti sul fatto! Dunque, voi fate del brutto un tipo di imitazione, del grottesco un elemento dell'arte! 5 Ma le grazie...ma il buon gusto...Non sapete che l'arte deve correggere la natura? Che bisogna nobilitarla? che bisogna scegliere? Gli antichi hanno mai messo in opera il brutto e il grottesco? Hanno mescolato mai la commedia alla tragedia? L'esempio degli antichi, signori! D'altra parte Aristotele...D'altra parte, Boileau...D'altra parte, La Harpe...» Suvvia! Questi argomenti sono solidi, senza dubbio, e soprattutto di una novità rara. Ma il nostro compito non è di rispondervi. Noi qui non costruiamo un sistema, perché Dio ci preserva dai sistemi. Noi constatiamo un fatto. Noi siamo storici e non critici. Che questo fatto piaccia o non piaccia, poco importa: è. - Torniamo indietro, dunque, e cerchiamo di far vedere che è dall'unione feconda del tipo grottesco col tipo sublime che nasce il genio moderno, così complesso, così vario nelle sue forme, così inesauribile nelle sue creazioni, e in ciò del tutto opposto all'uniforme semplicità del

5 Sì senza dubbio, ancora sì, e sempre sì! È questo il luogo per ringraziare un illustre scrittore straniero che ha voluto cortesemente occuparsi dell'autore di questo libro, e qui gli dimostriamo la nostra stima e la nostra riconoscenza mettendo in evidenza un errore in cui ci sembra sia caduto. L'onorevole critico prende atto, tale è la sua espressione, della dichiarazione fatta dall'autore nella prefazione di un'altra opera, che: «Non c'è né classico né romantico; ma in letteratura ci sono, come in tutte le cose, due sole differenze: il buono e il cattivo, il bello e il deforme, il vero e il falso». Non era necessaria tanta solennità per tenere nella dovuta considerazione una tale professione di fede. Essa si può perfettamente accordare con quella che «fa del brutto un tipo di imitazione, del grottesco un elemento dell'arte». L'una non contraddice l'altra. La divisione del bello e del brutto nell'arte non è simmetrica a quella della natura. Nelle arti, il bello e il brutto dipendono soltanto dall’esecuzione. Una cosa deforme, orribile, ripugnante, trasportata con verità e poesia nel campo dell'arte, diventerà bella, ammirevole, sublime senza nulla perdere della sua mostruosità, come, al contrario, le cose più belle del mondo, adattate in modo falso e sistematico in una composizione artificiosa, saranno ridicole, burlesche, ibride, brutte. Le orge di Callot, la Tentazione di Salvator Rosa con il suo diavolo spaventoso, la sua Mischia con tutte quelle forme repellenti di morte e di carnaio, il Baffone di Bonifacio, il mendicante divorato dai pidocchi di Murillo, i ceselli in cui Benvenuto Cellini fa ridere figure tanto orride tra gli arabeschi e gli acanti, sono cose brutte secondo la natura, belle secondo l'arte; mentre nulla è più brutto di tutti quei profili greci e romani, di quel bello ideale fatto con pezzi di riporto che la seconda scuola di David espone sotto le sue tinte violacee e deboli. Giobbe e Filottete, con le loro piaghe purulente e fetide, sono belli; i re e le regine di Campistron sono molto brutti nella loro porpora e sotto le loro corone di similoro. Una cosa ben fatta, una cosa mal fatta, ecco il bello e il brutto dell'arte. L'Autore aveva già spiegato il suo pensiero assimilando questa distinzione a quella del vero e del falso, del buono e del cattivo. In arte come, d'altra parte, in natura, il grottesco è un elemento, ma non lo scopo. Ciò che è solo grottesco non è completo.

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genio antico; facciamo vedere che è da là che bisogna partire per stabilire la differenza radicale ed effettiva delle due letterature. Non che fosse vero dire che la commedia e il grottesco erano assolutamente sconosciuti dagli antichi. Il che sarebbe d'altra parte impossibile. Nulla si genera senza radice; la seconda epoca è sempre in germe nella prima. Fin dall'Iliade, Tersite e Vulcano danno la commedia, il primo agli uomini, il secondo agli dei. Vi è troppa natura e troppa originalità nella tragedia greca, perché non vi sia a volte un po' di commedia. Così, citando sempre a memoria, la scena di Menelao con la portiera del palazzo (Elena, atto I); la scena del frigio (Oreste, atto IV). Tritoni, satiri, ciclopi sono grotteschi; sirene, furie, parche e arpie sono grottesche; Polifemo è un grottesco terribile; Sileno un grottesco buffo. Ma si sente qui che questa parte dell'arte è ancora nella sua infanzia. L'epopea che, in quell'epoca, imprime a tutto la sua forma, l'epopea pesa su di essa e la soffoca. Il grottesco antico è timido e cerca sempre di nascondersi. Si sente che non è sul suo terreno, perché non è nella sua natura. Si dissimula più che può. I satiri, i tritoni, le sirene sono poco deformi. Le parche, le arpie sono ripugnanti più per i loro attributi che per le loro fattezze; le furie sono belle e le chiamano Eumenidi, cioè dolci, benefiche. Su altre creature grottesche c'è un velo di grandezza o di divinità. Polifemo è un gigante; Mida è un re; Sileno è un dio. Quindi la commedia passa quasi inosservata nel grande insieme epico dell'antichità. Accanto ai carri olimpici, che cosa è il piccolo carro di Tespi? Vicino ai colossi omerici, a Eschilo, a Sofocle, a Euripide, che cosa sono Aristofane e Plauto? 6 Omero li porta con sé, come Ercole portava i pigmei, nascosti nella sua pelle di leone. Nel pensiero dei moderni, invece, il grottesco ha un ruolo immenso. È ovunque; da una parte crea il deforme e l'orribile; dall'altra il comico e il buffo. Attribuisce alla religione mille superstizioni originali, alla poesia mille immaginazioni pittoresche. È esso che semina a piene mani nell'aria, nell'acqua, nella terra, nel fuoco, quelle miriadi di esseri intermedi che noi ritroviamo pieni di vita nelle tradizioni popolari del Medioevo; è esso che fa ruotare nell'ombra lo spaventoso girotondo del sabba, è esso ancora che dà a

6 Questi due nomi sono qui riuniti, ma non confusi. Aristofane è incomparabilmente al di sopra di Plauto; Aristofane occupa un posto a parte nella poesia degli antichi, come Diogene ne ha uno nella loro filosofia.S'intuisce perché Terenzio non sia nominato in questo passo assieme ai due comici popolari dell'antichità. Terenzio è il poeta del circolo degli Scipioni, un cesellatore elegante e vezzoso sotto la cui mano si cancella definitivamente la vecchia e logora comicità degli antichi Romani.

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Satana le corna, gli zoccoli di caprone, le ali di pipistrello. È esso, sempre esso che a volte getta nell'inferno cristiano le figure ripugnanti che Dante e Milton, con il loro implacabile genio, evocheranno e a volte lo popola di quelle forme ridicole in mezzo alle quali scherzerà Callot, il Michelangelo burlesco. Se dal mondo ideale passa al mondo reale, vi fa scorrere davanti innumerevoli parodie dell'umanità. Sono creazioni della sua fantasia gli Scaramuccia, i Crispini, gli Arlecchini, sagome sogghignanti dell'uomo, tipi del tutto sconosciuti all'austera antichità, e tuttavia usciti dall'Italia classica. È esso infine che dando di volta in volta allo stesso dramma i colori dell'immaginazione del Sud e quelli dell'immaginazione del Nord, fa saltellare Sganarello intorno a don Giovanni e strisciare Mefistofele intorno a Faust 7. E come è libero e franco nel suo incedere! Come fa arditamente risaltare tutte quelle forme bizzarre che l'età precedente aveva così timidamente avvolto in fasce! La poesia antica, obbligata a dare dei compagni allo zoppicante Vulcano, aveva fatto in modo di mascherare la loro deformità dandole in qualche modo proporzioni colossali. Il genio moderno conserva il mito dei fabbri soprannaturali, ma gli conferisce bruscamente un carattere del tutto opposto, che lo rende molto più convincente; tramuta i giganti in nani; dai ciclopi ricava gli gnomi. Con la stessa originalità sostituisce all'idra, un po'banale, di Lerna tutti i draghi locali delle nostre leggende, il «Doccione» di Rouen, la «Gra-ouilli» di Metz, la «Chair-Sallée» di Troyes, la «Drée» di Montlhéry, la «Tarasca» di Tarascon, mostri dalle forme molto varie e i cui nomi barocchi sono un carattere in più. Tutte le sue creazioni attingono dalla loro propria natura quell'accento energico e profondo davanti al quale sembra che l'antichità abbia a volte indietreggiato. Senza dubbio, le Eumenidi greche sono molto meno orribili, e di conseguenza molto meno vere, delle streghe del Macbeth. Plutone non è il diavolo. Ci sarebbe, secondo noi, un libro nuovissimo da scrivere sull'impiego del grottesco nelle arti. Si potrebbe mostrare quali effetti potenti abbiano tratto i moderni da questo genere fecondo sul 7 Questo grande dramma dell'uomo che si danna domina tutte le immaginazioni del Medioevo. Pulcinella, che il diavolo si trascina via con grande divertimento delle nostre piazze, non è che una forma triviale e popolare. Ciò che colpisce singolarmente quando si paragonano le due commedie gemelle del Don Giovanni e del Faust, è che Don Giovanni è il materialista, Faust lo spiritualista. Il primo ha gustato tutti i piaceri, il secondo tutte le scienze. Entrambi hanno attaccato l'albero del bene e del male; l'uno ne ha rapito i frutti, l'altro ne ha scavato la radice. Il primo si danna per godere, il secondo per conoscere. L'uno è un gran signore, l'altro un filosofo. Don Giovanni è il corpo; Faust, è lo spirito. I due drammi si completano a vicenda.

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quale, ancora ai nostri giorni, si accanisce una critica ottusa. Forse saremo tra breve condotti dal nostro argomento a far notare di sfuggita qualche tratto di questo grande quadro. Qui diremo soltanto che, come obbiettivo paragonato al sublime, come mezzo di contrasto, il grottesco è, secondo noi, la più ricca fonte che la natura possa aprire all'arte. Rubens l'intendeva senza dubbio così, quando mischiava con un certo piacere allo sfarzo delle pompe regali, alle incoronazioni, alle meravigliose cerimonie, qualche figura ributtante di nano di corte. La bellezza universale, che l'antichità spargeva solennemente su ogni cosa, non era senza monotonia; la stessa impressione, sempre ripetuta, può alla lunga stancare. A mala pena sublime su sublime produce un contrasto, e bisogna riposarsi di tutto, anche del bello. Sembra, invece, che il grottesco sia una pausa d'arresto, un termine di paragone, un punto di partenza da cui elevarsi verso il bello con una percezione più fresca e più commossa. La salamandra fa risaltare l'ondina; lo gnomo rende più bello il silfo. E sarebbe giusto anche dire che il contatto del deforme ha dato al sublime moderno qualche cosa di più puro, di più grande, e infine di più sublime del bello antico; e così deve essere. Quando l'arte è coerente con se stessa, porta ogni cosa al suo fine con maggior sicurezza. Se l'Eliseo omerico è molto lontano dall'etereo fascino, dall'angelica soavità del paradiso di Milton, è perché sotto l'Eden c'è un inferno ben diversamente più orribile del Tartaro dei pagani. Credete che Francesca da Rimini e Beatrice sarebbero così affascinanti in un poeta (poema?) che non ci rinchiudesse nella torre della Fame e non ci costringesse a condividere il ripugnante pasto di Ugolino? Dante non avrebbe tanta grazia se non avesse tanta forza. Hanno le naiadi carnose, i robusti tritoni, gli zefiri libertini, la diafana fluidità delle nostre ondine e delle nostre silfidi? Non è forse perché l'immaginazione moderna sa far sinistramente vagare nei nostri cimiteri i vampiri, gli orchi, i folletti, gli psilli 8, i lupi mannari, gli elfi, che può dare alle sue fate quella forma incorporea, quella purezza di essenza a cui così poco si avvicinano le Ninfe pagane? Senza dubbio la Venere antica è bella, stupenda. Ma chi ha diffuso sulle figure di Jean Goujon quella eleganza slanciata, strana, aerea? chi ha dato loro quell'impronta sconosciuta, vitale e

8 Non è all'ontano, albero, che si ricollegano, come si pensa comunemente, le superstizioni che hanno fatto fiorire la ballata tedesca del Re degli Ontani. Gli Ontani (in basso latino Alcunoe) sono delle specie di folletti che hanno un certo ruolo nelle tradizioni ungheresi.

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grandiosa se non la vicinanza delle potenti e rudi sculture del Medioevo? Se nel mezzo di queste trattazioni necessarie, e che potrebbero essere molto più approfondite, il filo delle nostre idee non si è spezzato nella mente del lettore, egli ha senza dubbio compreso con quale potenza il grottesco, questo seme della commedia, raccolto dalla musa moderna, ha dovuto crescere e svilupparsi dal momento in cui è stato trasportato in un terreno più propizio di quello del paganesimo e dell'epopea. Infatti, mentre nella poesia nuova il sublime rappresenterà l'anima quale essa è, purificata dalla morale cristiana, il grottesco reciterà la parte della bestia umana. Il primo tipo, separato da ogni mescolanza impura, sarà dotato di tutte le seduzioni, di tutte le grazie, di tutte le bellezze; è necessario che possa creare un giorno Giulietta, Desdemona, Ofelia. Al secondo spetteranno tutte le ridicolaggini, tutte le infermità, tutte le bruttezze. In questa divisione dell'umanità e della creazione, gli competeranno le passioni, i vizi, i crimini; sarà lussurioso, strisciante, goloso, avaro, perfido, imbroglione, ipocrita; di volta in volta sarà Jago, Tartufo, Basilio; Polonio, Arpagone, Bartolo; Falstaff, Scapino, Figaro. Il bello non ha che un tipo: il brutto ne ha mille. II bello, umanamente parlando, non è altro che la forma considerata nel suo rapporto più semplice, nella sua simmetria più assoluta, nella sua armonia più intima con il nostro organismo. Quindi ci offre sempre un insieme completo, ma limitato come noi. Ciò che invece chiamiamo il brutto, è un particolare di un grande insieme che ci sfugge e che si armonizza non con l'uomo, ma con l'intera creazione. Ecco perché ci presenta incessantemente aspetti nuovi, ma incompleti. È uno studio curioso quello di seguire l'avvento e il cammino del grottesco nell'èra moderna. Dapprima è un'invasione, un'irruzione, uno straripare; è un torrente che ha rotto gli argini. Nascendo, attraversa la letteratura latina che sta morendo, dà colore a Persio, a Petronio, a Giovenale, e ci lascia l'Asino d'oro di Apuleio. Da qui si diffonde nell'immaginazione dei popoli nuovi che rifanno l'Europa. Abbonda a fiotti nei narratori, nei cronisti, nei poeti romanzi. Lo si vede espandersi dal Sud al Nord. È presente nei sogni delle nazioni tedesche, e nello stesso tempo vivifica col suo soffio quegli ammirevoli romanceros spagnoli, vera Iliade della cavalleria. È esso ad esempio che, nel Roman de la Rose, dipinge così una cerimonia augusta, cioè la proclamazione di un re:

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Un grand vilain lors ils élurent,Le plus ossu qu'entr'eux ils eurent 9.

Caratterizza soprattutto quell'architettura meravigliosa che, nel Medioevo, tiene il posto di tutte le arti. Imprime le sue stigmate alla facciata delle cattedrali, nell'ogiva dei portali incornicia i suoi inferni e i suoi purgatori, li fa fiammeggiare sulle vetrate, esibisce i suoi mostri, i suoi mastini, i suoi demoni attorno ai capitelli, lungo i fregi, sull'orlo dei tetti. Fa sfoggio di sé sotto innumerevoli forme sulla facciata di legno delle case, sulla facciata di pietra dei castelli, sulla facciata di marmo dei palazzi. Dalle arti passa nei costumi; e mentre fa applaudire dal popolo i graciosos della commedia, dà i buffoni di corte ai re. Più tardi, nel secolo dell'etichetta, ci farà vedere Scarron seduto proprio sulla sponda del letto di Luigi XVI. Nel frattempo, orna i blasoni, e disegna sullo scudo dei cavalieri i simbolici geroglifici della feudalità. Dai costumi, penetra nelle leggi; mille usanze bizzarre testimoniano il suo passaggio nelle istituzioni del Medioevo. Come aveva fatto saltellare nel suo carro Tespi sporco di feccia, così danza con i legulei su quella famosa tavola di marmo che serviva contemporaneamente da teatro alle farse popolari e da mensa ai banchetti regali. Infine, ammesso nelle arti, nei costumi, nelle leggi, entra fin nelle chiese. Lo vediamo, in ogni città cattolica, regolare qualcuna di quelle cerimonie singolari, di quelle processioni strane in cui la religione cammina accompagnata da tutte le superstizioni, il sublime circondato da tutti i grotteschi. Per dipingerlo con un solo tratto, in questa aurora delle lettere, è tale il suo estro, il suo vigore, la sua linfa creatrice, che getta al primo colpo sulla soglia della poesia moderna tre Omeri buffoneschi 10: Ariosto, in Italia; Cervantes, in Spagna; Rabelais, in Francia. Sarebbe superfluo far risaltare ulteriormente l'influenza del grottesco nella terza civiltà. Nell'epoca detta romantica, tutto dimostra la sua alleanza intima e creatrice con il bello. Persino le leggende popolari più ingenue spiegano a volte con straordinario intuito questo mistero dell'arte moderna. L'antichità non avrebbe fatto la Bella per la Bestia.

9 Un gran brutto allora elessero.Il più ossuto che tra loro avessero. [Tr. it. nostra]Roman de la Rose (v. 10357 ss.).10 Questa espressione sorprendente, Omero buffonesco, è di Ch. Nodier che l'ha creata per Rabelais e che ci perdonerà di averla estesa a Cervantes e ad Ariosto.

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Dobbiamo dire che, nell'epoca in cui siamo giunti, la predominanza del grottesco sul sublime è del tutto evidente nelle lettere. Ma è una febbre di reazione, un desiderio di novità passeggero; è una prima ondata che si ritrae a poco a poco. Il tipo del bello riprenderà ben presto il suo ruolo e il suo diritto, che non è quello di escludere l'altro principio, ma di prevalere su di esso. È ora che il grottesco si accontenti di avere un angolo negli affreschi regali di Murillo, nelle pagine sacre di Veronese; di essere incluso nei due mirabili giudizi universali di cui le arti andranno orgogliose, in quella scena di estasi e di orrore con cui Michelangelo arricchirà il Vaticano, o in quelle spaventose cadute di uomini che Rubens farà precipitare lungo le volte della cattedrale di Anversa. È venuto il momento in cui si stabilirà l'equilibrio tra i due principii. Un uomo, un poeta re, poeta soverano, come Dante chiama Omero, sistemerà tutto. I due genii rivali uniscono le loro due fiamme e da questa fiamma scaturisce Shakespeare. Eccoci giunti al culmine poetico dei tempi moderni. Shakespeare è il dramma; e il dramma, che fonde in uno stesso soffio il grottesco e il sublime, il terribile e il buffonesco, la tragedia e la commedia, il dramma è il carattere proprio della terza epoca della poesia, della letteratura attuale. Così, per riassumere rapidamente i fatti osservati fin qui, la poesia ha tre età, ciascuna delle quali corrisponde a un'epoca della società: l'ode, l'epopea, il dramma. I tempi primitivi sono lirici, i tempi antichi sono epici, i tempi moderni sono drammatici. L'ode canta l'eternità, l'epopea solennizza la storia, il dramma dipinge la vita 11. Il carattere della prima poesia è l'ingenuità, il carattere della seconda è la semplicità, il carattere della terza, la verità. I rapsodi segnano il passaggio dai poeti lirici ai poeti epici, così come i poeti romanzi, dai poeti epici ai drammatici. Gli storici nascono con la seconda epoca; i cronisti e i critici con la terza. I personaggi dell'ode sono colossi: Adamo, Caino, Noè; quelli dell'epopea sono giganti: Achille, Atreo, Oreste; quelli del dramma sono uomini: Amleto, Macbeth, Otello. L'ode vive dell'ideale, 11 Ma, si dirà, il dramma dipinge anche la storia dei popoli; sì, ma come la vita non come la storia. Lascia allo storico la serie esatta dei fatti generali, l'ordine delle date, le grandi masse da muovere, le battaglie, le conquiste, gli smembramenti degli imperi, tutta l'esteriorità della storia. Fa sua l'interiorità. Ciò che la storia dimentica o disdegna, i dettagli dei costumi, delle abitudini, delle fisionomie, i retroscena degli avvenimenti, la vita in una parola, gli appartiene e il dramma può assumere un aspetto grandioso quando queste piccole cose vengono prese in una grande mano, prensa manu magna. Ma bisogna far attenzione a non cercare la storia pura nel dramma, fosse anche storico. Scrive delle leggende e non dei fasti; è cronaca e non cronologia.

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l'epopea del grandioso, il dramma del reale. Questa triplice poesia scaturisce, infine, da tre grandi sorgenti: la Bibbia, Omero, Shakespeare. Tali sono dunque, e qui noi ci limitiamo a far notare un risultato, le diverse fisionomie del pensiero nelle differenti ère dell'uomo e della società. Ecco i suoi tre volti, della gioventù, della virilità e della vecchiaia. Che si esamini una letteratura in particolare, o tutte le letterature complessivamente, si arriverà sempre allo stesso fatto: i poeti lirici prima dei poeti epici, i poeti epici prima dei poeti drammatici. In Francia, Malherbe prima di Chapelain, Chapelain prima di Corneille; nell'antica Grecia, Orfeo prima di Omero, Omero prima di Eschilo; nel libro primitivo, la Genesi prima dei Re, i Re prima di Giobbe; o, per riprendere quella grande scala di tutte le poesie che percorrevamo poco fa, la Bibbia prima dell'Iliade, l'Iliade prima di Shakespeare. In effetti la società incomincia col cantare ciò che sogna, poi racconta ciò che fa, e alla fine si mette a dipingere ciò che pensa. È per quest'ultimo motivo che, per inciso, il dramma, riunendo in sé le qualità più disparate, può essere contemporaneamente pieno di profondità e di rilievo, filosofico e pittoresco. A questo punto bisognerebbe aggiungere, di conseguenza, che nella natura e nella vita tutto passa per le tre fasi del lirico, dell'epico e del drammatico, perché tutto nasce, agisce e muore. Se non fosse ridicolo mischiare i bizzarri accostamenti dell'immaginazione alle severe deduzioni del ragionamento, un poeta potrebbe dire che il sorgere del sole, per esempio, è un inno, il suo mezzogiorno un'epopea meravigliosa, il suo tramonto un cupo dramma, dove lottano il giorno e la notte, la vita e la morte. Ma sarebbe poesia, follia, forse; e che cosa proverebbe? Atteniamoci ai fatti precedentemente raccolti: completiamoli, d'altra parte, con un'osservazione importante. Non abbiamo minimamente preteso di assegnare alle tre epoche della poesia un dominio esclusivo, ma soltanto di determinare il loro carattere dominante. La Bibbia, questo divino monumento lirico, racchiude in germe, come abbiamo già detto, un'epopea e un dramma, i Re e Giobbe. In tutti i poemi omerici si sente un residuo di poesia lirica e un inizio di poesia drammatica. L'ode e il dramma si incontrano nell'epopea. Vi è tutto in tutto; solo che esiste in ogni cosa un elemento generatore al quale si subordinano tutti gli altri, e che impone all'insieme il suo carattere.

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Il dramma è la poesia completa. L'ode e l'epopea non lo contengono che in germe; esso le contiene, l'una e l'altra, in sviluppo; le riassume e le racchiude tutte e due. Certamente, colui che ha detto: i francesi non hanno la testa epica, ha detto una cosa giusta e arguta; se anche avesse detto i moderni, la battuta spiritosa sarebbe stata una battuta profonda. Tuttavia è incontestabile che ci sia in particolare del genio epico nella prodigiosa Athalie, così eccelsa e così semplicemente sublime che il secolo regale non ha potuto comprenderla. È certo, inoltre, che la serie dei drammi-cronache di Shakespeare si presenta come una grande epopea. Ma è soprattutto la poesia lirica che si addice al dramma; essa non lo ostacola mai, si piega a tutti i suoi capricci, si plasma a tutte le sue forme, a volte sublime in Ariel, a volte grottesca in Calibano. La nostra epoca, anzitutto drammatica, è proprio per questo eminentemente lirica. Tra l'inizio e la fine c'è più che un rapporto; il tramonto conserva qualcosa dell'aurora; il vecchio ritorna bambino. Ma quest'ultima infanzia non assomiglia alla prima; essa è tanto triste quanto l'altra era allegra. La stessa cosa vale per la poesia lirica. Splendente, sognante all'aurora dei popoli, riappare tetra e pensierosa al loro declino. La Bibbia si apre ridente con la Genesi, e si chiude sulla minacciosa Apocalisse. L'ode moderna è sempre ispirata, ma non è più ignorante. Essa medita più di quanto non contempli; il suo fantasticare è malinconia. Si vede dalle sue creature che questa musa si è accoppiata al dramma. Per rendere sensibili con un'immagine le idee che abbiamo appena azzardato, si potrebbe paragonare la poesia lirica a un lago calmo che riflette le nubi e le stelle del cielo; l'epopea è il fiume che ne deriva e che riflettendo sponde, foreste, campagne e città, corre a gettarsi nell'oceano del dramma. Infine, come il lago, il dramma riflette il cielo; come il fiume, riflette le sponde; ma solo lui ha abissi e tempeste. Dunque tutto, nella poesia moderna, conduce al dramma. Il Paradiso perduto, prima di essere un'epopea, è un dramma. Si sa che sotto la prima di queste forme si era presentato in principio all'immaginazione del poeta, e che proprio così rimane impresso nella memoria del lettore, tanto l'antica struttura drammatica è ancora palese sotto l'edificio epico di Milton! Quando Dante Alighieri ha terminato il suo terribile Inferno, quando ne ha richiuso le porte, e non gli rimane altro che dare un nome alla sua opera, l'istinto del suo genio gli indica che quel poema multiforme è una emanazione del

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dramma, non dell'epopea; e sul frontespizio del monumento gigantesco scrive con la sua penna di bronzo: Divina Commedia 12. Si vede dunque che i due soli poeti dei tempi moderni della statura di Shakespeare aderiscono alla sua unità. Concorrono insieme a lui a conferire una tinta drammatica a tutta la nostra poesia; essi sono come lui misti di grottesco e di sublime; e, lontano dal trar vantaggio dal grande complesso letterario che si poggia su Shakespeare, Dante e Milton sono per così dire i due archi portanti dell’edificio di cui egli è il pilastro centrale, i contrafforti della volta di cui egli è la chiave. Ci sia permesso di riprendere qui alcune idee che abbiamo già esposto, ma sulle quali è necessario insistere. Ci siamo arrivati e ora da qui occorre ripartire. Dal giorno in cui il cristianesimo ha detto all’uomo: «Tu sei duplice, tu sei composto di due esseri, mortale l'uno, immortale l'altro, l'uno carnale, l'altro etereo, incatenato l'uno dagli appetiti, dai bisogni e dalle passioni, trasportato l'altro sulle ali dell'entusiasmo e del sogno: infine, l'uno sempre ricurvo verso la terra, sua madre, l'altro incessantemente proteso verso il cielo, sua patria»; da quel giorno il dramma è stato creato. Che altro è, infatti, questo contrasto di tutti i giorni, questa lotta di tutti i minuti tra due principii opposti, sempre presenti nella vita, e che si contendono l'uomo dalla culla fino alla tomba? La poesia nata dal cristianesimo, la poesia del nostro tempo è dunque il dramma; il carattere del dramma è la realtà; la realtà nasce dalla combinazione del tutto naturale di due tipi, il sublime e il grottesco, che si incrociano nel dramma, come si incrociano nella vita e nella creazione. Perché la poesia vera, la poesia completa, è nell'armonia dei contrarii. Inoltre, è tempo di dichiararlo apertamente, ed è soprattutto qui che le eccezioni confermerebbero la regola, tutto quello che è nella natura è nell’arte. Ponendosi da questo punto di vista per giudicare le nostre piccole regole convenzionali, per sbrogliare tutti i labirinti scolastici, per risolvere tutti quei problemi meschini che i critici dei due ultimi secoli hanno laboriosamente costruito attorno all'arte, si è colpiti dalla velocità con la quale si chiarifica la questione del teatro moderno. Il dramma deve solo fare un passo per rompere tutti i fili di ragnatela con cui le milizie di Lilliput hanno creduto di incatenarlo durante il suo sonno.

12 In italiano nel testo [N.d.T.].

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Quindi, quando dei pedanti stolti (l'uno non esclude l'altro) pretendono che il deforme, il brutto, il grottesco non debbano mai essere oggetto di imitazione per l'arte, si risponde loro che il grottesco è la commedia, e che la commedia sembra a prima vista far parte dell'arte. Tartufo non è bello, Pourceaugnac non è nobile; Pourceaugnac e Tartufo sono stupende creazioni dell'arte. Poiché, se cacciati dalla trincea in seconda linea, rinnovano la loro proibizione di alleare il grottesco con il sublime, di fondere la commedia con la tragedia, si mostrerà loro come, nella poesia dei popoli cristiani, il primo di questi due tipi rappresenti la bestia umana, il secondo l'anima. Questi due tronchi dell'arte, se si impedisce ai loro rami di intrecciarsi, se li si separa sistematicamente, produrranno come frutto, da una parte delle astrazioni di vizii, di ridicolaggini; dall'altra delle astrazioni di crimini, di eroismo e di virtù. Così isolati e lasciati a se stessi, i due tipi se ne andranno ciascuno per conto proprio, lasciando tra di loro la realtà, l'uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra 13. Ne deriva che dopo quelle astrazioni, resterà qualche cosa da rappresentare: l'uomo; dopo quelle tragedie e quelle commedie, qualche cosa da fare: il dramma. Nel dramma, quale si può se non rappresentare almeno concepire nella mente, tutto si concatena e si conclude come nella realtà. Il corpo vi recita la sua parte così come l'anima; e gli uomini e gli avvenimenti, messi in gioco da quel duplice agente, diventano di volta in volta buffi e terribili, a volte terribili e buffi contemporaneamente. Così il giudice dirà: A morte, e andiamo a pranzo! Così il senato romano delibererà sulla lampreda di Domiziano. Così Socrate, bevendo la cicuta e conversando dell'anima immortale e del dio unico, si interromperà per raccomandare che sia sacrificato 13 Come mai Molière è molto più vero dei nostri tragici? Diciamo di più, come mai è quasi sempre vero? È che, per quanto sia vincolato dai pregiudizi del suo tempo al di là del patetico e del terribile, egli unisce, comunque, al grottesco, scene di grande sublimità che completano l'umanità nei suoi drammi. È per questo che la commedia è molto più vicina alla natura di quanto non lo sia la tragedia. Si concepisce infatti un'azione i cui personaggi, pur continuando a essere naturali, potranno costantemente ridere o eccitare il riso; e poi i personaggi di Molière talvolta piangono. Ma come concepire un avvenimento, per quanto sia terribile e limitato, in cui, non solo i principali attori non abbiano mai un sorriso sulle labbra, fosse anche di sarcasmo o d'ironia, ma dove non ci sarà affatto, a partire dal principe fino al confidente, alcun essere umano che abbia un accesso di riso o di natura umana? E ancora Molière è più vero dei nostri tragici, perché sfrutta il principio nuovo, il principio moderno, il principio drammatico: il grottesco, la commedia; mentre loro esauriscono le loro forze e il loro genio a ricondursi in quel cerchio epico che è chiuso, vecchio e logoro stampo, da cui non potrebbe scaturire la verità propria del nostro tempo, perché non ha la forma della società moderna.

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un gallo a Esculapio. Così Elisabetta imprecherà e parlerà in latino. Così Richelieu sopporterà il cappuccino Giuseppe, e Luigi XI il suo barbiere mastro Oliviero il Diavolo. Così Cromwell dirà: Ho il parlamento nel sacco e il re in tasca; o con la mano che firma la condanna a morte di Carlo I, imbratterà di inchiostro il viso di un regicida che ridendo gli farà altrettanto. Così Cesare sul carro di trionfo avrà paura di ribaltarsi. Infatti, gli uomini di genio, per quanto grandi siano, hanno sempre in sé la bestia che fa la parodia della loro intelligenza. È sotto questo aspetto che si ricongiungono all'umanità, è sotto questo aspetto che sono drammatici. «Dal sublime al ridicolo non c'è che un passo», diceva Napoleone, quando fu convinto di essere un uomo; e questo lampo di un'anima di fuoco che si schiude, illumina contemporaneamente l'arte e la storia, questo grido di angoscia è la sintesi del dramma e della vita. Cosa sorprendente! tutti questi contrasti si ritrovano nei poeti stessi presi come uomini. A forza di meditare sull'esistenza, di farne emergere l'ironia pungente, di gettare a fiotti sarcasmo e derisione sulle nostre infermità, questi uomini che ci fanno tanto ridere diventano profondamente tristi. Quei Democriti sono anche degli Eracliti. Beaumarchais era tetro, Molière era cupo, Shakespeare malinconico. Il grottesco è dunque una delle supreme bellezze del dramma. Non gli conviene soltanto, gli è spesso necessario. Arriva a volte in masse compatte, con caratteri completi: Dandin, Prusia, Trissottino, Brid'oison, la nutrice di Giulietta; a volte porta impresso il terrore: Riccardo III, Bégears, Tartufo, Mefistofele; a volte velato perfino di grazia e di eleganza come Figaro, Osrico, Mercuzio, don Giovanni. S'infiltra ovunque; infatti, come i più volgari possono molte volte avere accessi di sublime, così i più nobili pagano frequentemente un tributo al triviale e al ridicolo. Quindi, spesso inafferrabile, spesso impercettibile, è sempre presente sulla scena anche quando tace, anche quando si nasconde. Grazie a lui niente espressioni monotone. Nella tragedia ora mette il riso, ora l'orrore. Farà in modo che il farmacista si incontri con Romeo e le tre streghe con Macbeth, i becchini con Amleto. A volte, infine, può, senza dissonanza, come nella scena di re Lear e del suo buffone, mischiare la sua voce stridula alle più sublimi, alle più lugubri, alle più sognanti musiche dell'anima. Ecco quello che ha saputo fare Shakespeare, meglio di chiunque altro, nel modo che gli è proprio e che sarebbe tanto inutile quanto impossibile imitare, Shakespeare, questo dio del teatro, nel quale

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sembrano riuniti, come in una trinità, i tre grandi genii caratteristici del nostro teatro: Corneille, Molière, Beaumarchais. È evidente come l'arbitraria distinzione dei generi crolli velocemente davanti alla ragione e al gusto. Altrettanto facilmente si manderebbe in rovina la pretesa regola delle due unità. Diciamo due e non tre unità, essendo da molto tempo fuori causa la sola unità vera e fondata: l'unità d'azione o d'assieme. Eminenti contemporanei, stranieri e francesi, hanno già attaccato, sia con la pratica sia con la teoria, questa legge fondamentale del codice pseudo-aristotelico. Del resto il combattimento non doveva essere lungo. È crollato alla prima scossa, tanto era tarlato questo travicello della vecchia catapecchia scolastica. Quello che vi è di strano è che i conservatori pretendono di appoggiare la loro regola delle due unità sulla verosimiglianza, mentre è proprio la realtà che la distrugge. Cosa c'è, infatti, di più inverosimile e di più assurdo del vestibolo, del peristilio, dell'anticamera, luogo banale dove le nostre tragedie hanno la cortesia di venire a svolgersi, dove arrivano, non si sa come, i cospiratori per inveire contro il tiranno, il tiranno per inveire contro i cospiratori, ciascuno a loro volta, come se si fossero detti bucolicamente:

Alternis cantemus; amant alterna Camenae 14.

Dove è stato visto vestibolo o peristilio del genere? Che vi è di più contrario, non diremo alla verità, gli scolastici ne fanno poco conto, ma alla verosimiglianza? Ne risulta che tutto ciò che è troppo caratteristico, troppo intimo, troppo locale per compiersi nell'anticamera o nella piazza, cioè tutto il dramma, si svolge dietro le quinte. In un certo senso, noi non vediamo sul teatro che i gomiti dell'azione; le sue mani sono altrove. Invece di scene, abbiamo racconti; invece di quadri, descrizioni. Austeri personaggi posti, come il coro antico, tra il dramma e noi, vengono a raccontarci quanto accade nel tempio, nel palazzo, sulla pubblica piazza, in modo tale che spesse volte siamo tentati di gridar loro: «Davvero! ma conduceteci dunque laggiù! Ci si deve divertire molto, deve essere bello da vedere!». Al che risponderebbero senza dubbio: «È possibile che ciò vi diverta o vi interessi, ma non è questo il

14 Cantiamo alternamente, le Camere amano i canti alternati. Virgilio, Bucoliche III, 59 [Tr. it. nostra].

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problema; noi siamo i custodi della dignità della Melpomene francese». Ecco! Ma, si dirà, questa regola che voi ripudiate è tratta dal teatro greco. E in che cosa il teatro e il dramma greco assomigliano al nostro dramma e al nostro teatro? D'altra parte abbiamo già fatto notare come la prodigiosa estensione del palcoscenico antico permetteva di abbracciare tutta un'intera località, in modo tale che il poeta poteva trasportare l'azione a piacer suo, secondo l'esigenza, da un punto della scena a un altro, ciò che equivale approssimativamente ai nostri cambiamenti di scenario. Bizzarra contraddizione! Il teatro greco, per quanto fosse asservito a un fine nazionale e religioso, è molto più libero del nostro il cui unico scopo è tuttavia il piacere, e, se si vuole, l'educazione dello spettatore. Il fatto è che l'uno non obbedisce che alle leggi che gli sono proprie, mentre l'altro si dà delle condizioni di esistenza del tutto estranee alla sua essenza. Quello è artistico, questo artificiale. Si incomincia a capire ai giorni nostri che la localizzazione esatta è uno dei primi elementi del reale. I personaggi che parlano o che agiscono non sono i soli a imprimere nella mente dello spettatore l'immagine fedele dei fatti. Il luogo, dove è avvenuta una catastrofe, ne diviene un testimonio terribile e inseparabile, e l'assenza di questa specie di personaggio muto renderebbe incomplete nel dramma le scene più importanti della vicenda. Il poeta oserebbe assassinare Rizzio altrove che nella camera di Maria Stuarda? Pugnalare Enrico IV altrove che nella via della Ferronerie, completamente ostruita dai barocci e dalle vetture? Bruciare Giovanna d'Arco altrove che nel Mercato Vecchio? Far fuori il duca di Guisa altrove che nel castello di Blois dove la sua ambizione fa fermentare un'assemblea popolare? Decapitare Carlo I e Luigi XVI altrove che in quelle piazze sinistre da dove si possono vedere Whitehall e le Tuileries, come se il loro patibolo servisse da riscontro ai loro palazzi? L'unità di tempo non è più solida dell'unità di luogo. Inquadrata a forza nelle ventiquattr'ore, l'azione è tanto ridicola quanto lo sarebbe se inquadrata nel vestibolo. Ogni azione ha la sua propria durata così come il suo luogo particolare. Attribuire la stessa dose di tempo a tutti gli avvenimenti! Applicare a tutto la stessa misura! Si riderebbe di un calzolaio che volesse mettere la stessa scarpa a tutti i piedi! Incrociare l'unità di tempo all'unità di luogo come le sbarre di una gabbia, e in nome di Aristotele farvi entrare in modo

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pedante tutti quei fatti, tutti quei popoli, tutte quelle figure che la Provvidenza mostra nella realtà in così gran numero! È mutilare uomini e cose, è deformare la storia. Diciamo meglio: tutto ciò morirà durante l'operazione; ed è così che i mutilatori dogmatici pervengono al loro solito risultato; ciò che era vivo nella cronaca è morto nella tragedia. Ecco perché molto spesso la gabbia delle unità non racchiude che uno scheletro. E poi, se ventiquattr'ore possono essere comprese (compresse?) in due, sarà logico che quattro ore potranno contenerne quarantotto. L'unità di Shakespeare non sarà dunque l'unità di Corneille. Pietà! Tuttavia sono questi i meschini cavilli che da due secoli la mediocrità, l'invidia e l'abitudine oppongono al genio! È così che si è soffocato lo slancio dei nostri più grandi poeti. È con le forbici delle unità che si sono tarpate loro le ali. E che cosa ci è stato dato in cambio di quelle penne d'aquila strappate a Corneille e a Racine? Campistron. Noi ci rendiamo conto che si potrebbe dire: Nei cambiamenti di scena troppo frequenti c'è qualche cosa che confonde e stanca lo spettatore e che produce sulla sua attenzione l'effetto di ottenebrarla; può anche darsi che numerosi spostamenti da un luogo a un altro, da un periodo a un altro, esigano delle spiegazioni che attenuino l'interesse; bisogna anche preoccuparsi di non lasciare nel mezzo di un'azione lacune che impediscano alle parti del dramma di connettersi strettamente tra loro, lacune che inoltre disorientano lo spettatore perché non si rende conto di che cosa possa esserci in quei vuoti... - Ma sono precisamente queste le difficoltà dell'arte. Sono questi gli ostacoli connessi al tale o al talaltro soggetto, e sui quali non si potrebbe decretare una volta per tutte. Spetta al genio di superarli, non alle poetiche di eluderli. Per dimostrare l’assurdità della regola delle due unità, basterebbe infine un'ultima ragione, presa dalle viscere dell'arte. È l'esistenza della terza unità, l'unità di azione, la sola ammessa da tutti, perché dipende da un fatto: né l'occhio né la mente umana potrebbero afferrare contemporaneamente più di un insieme. Quella è tanto necessaria quanto le altre due inutili. È essa che stabilisce il punto di vista del dramma; ora, proprio per questo, essa esclude le altre due. Non possono esserci tre unità nel dramma come non possono esserci tre orizzonti nel quadro. Guardiamoci, per altro, dal confondere l'unità con la semplicità d'azione. L'unità di assieme non esclude in nessun modo le azioni secondarie sulle quali deve appoggiarsi l'azione principale. Occorre soltanto che tali parti,

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subordinate sapientemente al tutto, gravitino incessantemente verso l'azione centrale e le si raggruppino attorno secondo i diversi gradi o piuttosto diversi piani del dramma. L'unità di assieme è la legge prospettica del teatro. Ma, esclameranno i doganieri del pensiero, grandi genii le hanno tuttavia subite, queste regole che voi rifiutate! Eh sì, sfortunatamente! Che cosa avrebbero fatto dunque, quegli uomini ammirevoli, se li avessero lasciati fare? Per lo meno non hanno subito i vostri ferri senza combattere. Bisogna vedere come Pierre Corneille, preso di mira al suo esordio a causa di quella meraviglia che è il Cid, si dibatte sotto Mairet, Claveret, d'Aubignac e Scudéry! come denuncia alla posterità le violenze di questi uomini che, dice, si fanno scudo con Aristotele! Bisogna vedere in che modo gli dicono, e noi citiamo alcuni testi dell'epoca: «Giovanotto, prima di insegnare bisogna imparare, e a meno di essere uno Scaliger o un Heinsius, la cosa non è sopportabile!». Dopo di che Corneille si ribella e chiede se dunque lo si vuole far discendere «molto al di sotto di Claveret!». Qui Scudéry si sdegna di tanto orgoglio e ricorda a «questo tre volte grande autore del Cid... le modeste parole con le quali il Tasso, il più grande uomo del suo secolo, ha iniziato l'apologia della più bella delle sue opere contro la più pungente e la più ingiusta delle censure che forse mai sia stata fatta. Il signor Corneille - soggiunge - dimostra con le sue Risposte di essere tanto lontano dalla moderazione quanto dal merito di quell'eccellente autore». Il giovanotto così giustamente e così delicatamente censurato osa resistere; allora Scudéry torna alla carica e chiama in suo aiuto la famosa Académie: «Pronunciate, o miei giudici, una sentenza degna di voi, e che faccia sapere a tutta l'Europa che il Cid non è il capolavoro del più grande uomo di Francia, ma bensì l'opera meno assennata dello stesso signor Corneille. Voi lo dovete fare sia per la vostra gloria in particolare, sia per quella della nostra nazione in generale, che vi si trova coinvolta: visto che gli stranieri, se mai dovessero ammirare questo bel capolavoro, essi che hanno avuto dei Tasso e dei Guarini, crederebbero che i nostri più grandi maestri non sono che degli apprendisti». C'è in queste poche righe istruttive tutta l'eterna tattica dei praticoni invidiosi del genio nascente, quella che continua ancora ai giorni nostri, e che ha unito, per esempio, una pagina così curiosa ai saggi giovanili di Lord Byron. Scudéry ce ne offre la quintessenza: così, le opere precedenti di un uomo di genio (aggiungere: sono) sempre preferite alle nuove, per provare che

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egli peggiora invece di migliorare, Mélite e la Galerie du Palais messe al di sopra del Cid; poi i nomi dei morti lanciati sempre contro la testa dei vivi: Corneille lapidato con Tasso e Guarini (Guarini!), come più tardi si lapiderà Racine con Corneille, Voltaire con Racine, come oggi tutto quello che si innalza si lapida con Corneille, Racine e Voltaire. La tattica, come si vede, è sfruttata; ma poiché serve sempre, deve essere buona. Tuttavia quel povero diavolo di grand'uomo respirava ancora. È qui che bisogna ammirare come Scudéry, il capitano di questa tragicommedia, spinto agli estremi, lo maltratti e lo malmeni, come smascheri senza pietà la sua artiglieria classica, come «faccia vedere» all'autore del Cid «quali debbano essere gli episodi, secondo Aristotele, che ce lo insegna nei capitoli decimo e sedicesimo della sua Poetica», come folgori Corneille per mezzo di Aristotele stesso «nell'undicesimo capitolo della sua Arte Poetica», nel quale si può constatare la condanna del Cid; per mezzo di Platone, «nel libro decimo della sua Repubblica»; per mezzo di Marcellino, come «si può vedere nel libro ventisettesimo»; per mezzo delle «tragedie di Niobe e di Jefte»; per mezzo dell'«Aiace di Sofocle»; per mezzo dell'«esempio di Euripide»; per mezzo di «Heinsius, nel capitolo VI della Costituzione della tragedia»; e Scaliger, «figlio nelle sue poesie»; infine per mezzo dei «Canonici e dei Giureconsulti, nel capitolo intitolato Nozze». I primi argomenti erano rivolti all'Accademia, l'ultimo andava al cardinale. Dopo i colpi di spillo, la mazzata. Fu necessario un giudice per chiarire la questione. Fu Chapelain che decise. Dunque Corneille si vide condannato, al leone fu messa la museruola o, per dire come fu detto allora, la Cornacchia 15 fu spennata. Ecco ora il lato doloroso di quel dramma grottesco: dopo essere stato spezzato in questo modo fin dal suo primo getto, questo genio, così moderno e così nutrito di medioevo e di Spagna, costretto a mentire a se stesso e a gettarsi nell'antichità, ci diede quella Roma castigliana, senza dubbio sublime, ma dove, tranne forse nel Nicomede tanto messo in ridicolo nell'ultimo secolo per il suo colore forte e ingenuo, non si ritrova né la vera Roma né il vero Corneille. Racine, del resto senza opporre la stessa resistenza, provò le stesse amarezze. Sia nel genio sia nel carattere, non aveva l'asprezza altera di Corneille. Si piegò in silenzio e abbandonò l'incantevole elegia di Esther, la sua magnifica epopea di Athalie al disprezzo del suo tempo. Dobbiamo quindi credere che, se non fosse stato immobilizzato, come lo fu, dai pregiudizi del suo secolo, e se

15 Corneille in francese significa cornacchia. Di qui il doppio senso [N.d.T.].

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meno frequentemente fosse stato colpito dalla torpedine classica, non avrebbe fatto a meno di porre, nel suo dramma, Locusta tra Narciso e Nerone, e soprattutto non avrebbe relegato tra le quinte quella stupenda scena del banchetto, dove l'allievo di Seneca avvelena Britannico con la coppa della riconciliazione. Ma si può pretendere che l'uccello voli sotto la campana di vetro? - Quante bellezze, però, ci costano le persone di gusto da Scudéry fino a La Harpe! Con tutto ciò che il loro soffio arido ha seccato in germe si potrebbe comporre un'opera straordinaria. D'altra parte, i nostri grandi poeti hanno anche saputo far emergere il loro genio attraverso tutti questi impacci. Spesso inutilmente, si è voluto murarli entro i dogmi e le regole. Come il gigante ebreo, hanno portato con sé sulla montagna le porte della loro prigione. Tuttavia si ripete, e senza dubbio si ripeterà ancora per qualche tempo: - Seguite le regole! Imitate i modelli! Sono le regole che hanno fatto i modelli! Un momento! In questo caso ci sono due specie di modelli, quelli che sono stati dedotti dalle regole e, prima di essi, quelli secondo i quali sono state fatte le regole. Ora, in quale di queste due categorie deve trovar posto il genio? Sebbene sia comunque difficile trovarsi in contatto con i pedanti, non è mille volte meglio dar loro delle lezioni che riceverne? E poi, imitare? Il riflesso vale la luce? Il satellite che si trascina senza posa nel medesimo cerchio vale l'astro centrale e generatore? Con tutta la sua poesia, Virgilio non è che la luna di Omero. E vediamo: chi imitare? Gli antichi? Abbiamo appena dimostrato che il loro teatro non ha alcuna coincidenza con il nostro. D'altra parte Voltaire, che non vuol sentir parlare di Shakespeare, non vuol neppur sentire parlare dei greci. Ci dirà il perché: «I greci hanno avuto il coraggio di inscenare spettacoli che per noi non sono meno rivoltanti. Ippolito, spezzato dalla caduta, viene a contare le sue ferite e a emettere grida di dolore. Filottete si lascia andare ai suoi accessi di sofferenza; un sangue nero cola dalla sua piaga. Edipo, coperto del sangue che ancora stilla da ciò che rimane dei suoi occhi che si è appena strappato, si lamenta degli dei e degli uomini. Si odono le urla di Clitemnestra trucidata da suo figlio, ed Elettra grida sul palco: «Colpisci, non risparmiarla, lei non ha risparmiato nostro padre». Prometeo è attaccato a una roccia con chiodi che gli trafiggono lo stomaco e le braccia. Le Furie rispondono all'ombra insanguinata di Clitemnestra con urla inarticolate...L'arte era nella sua infanzia al tempo di Eschilo,

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come a Londra lo era al tempo di Shakespeare». – I moderni? Ah! imitare delle imitazioni! Pietà! Ma, ci obietteranno ancora, col vostro modo di concepire l'arte sembra che non attendiate altro che grandi poeti e non contiate che sul genio. - L'arte non conta sulla mediocrità. Non le prescrive nulla, non la conosce, per lei non esiste; l'arte dà ali, non stampelle. Ahimé! d'Aubignac ha seguito le regole, Campistron ha imitato i modelli. Che le importa! Essa non costruisce il suo palazzo per le formiche. Lascia che si facciano il loro formicaio, senza sapere se le formiche appoggeranno sulla sua base questa parodia del suo edificio. I critici della scuola scolastica mettono i loro poeti in una posizione singolare. Da un lato gridano loro continuamente: «Imitate i modelli!». Dall'altro sono soliti proclamare che «i modelli sono inimitabili!». Ora, se i loro operai, a forza di fatica, riescono a far passare per una tale strettoia qualche pallida imitazione, qualche calco sbiadito dei maestri, questi ingrati, esaminando il nuovo refaccimiento ora esclamano: «Non assomiglia a nulla!» ora: «assomiglia a tutto!» e, secondo una logica fatta su misura, ognuna di queste due formule è una critica. Diciamolo dunque francamente: è il momento. Sarebbe strano che in questa nostra epoca, la libertà, come la luce, penetrasse dappertutto, tranne in ciò che c'è di più libero al mondo per sua natura, cioè nelle cose del pensiero. Diamo colpi di martello alle teorie, alle poetiche, ai sistemi. Abbattiamo questo vecchio intonaco che maschera la facciata dell'arte! Non ci sono né regole né modelli; o piuttosto non ci sono altre regole all'infuori delle leggi generali della natura che dominano dall'alto l'arte intera e le leggi speciali che, per ogni composizione, risultano dalle condizioni di esistenza proprie di ogni argomento. Le une sono eterne, interiori e persistono; le altre variabili, esteriori, servono solo una volta. Le prime sono l'armatura che sostiene la casa; le seconde l'impalcatura che serve a erigerla e che si rimonta a ogni nuova costruzione. In definitiva queste sono lo scheletro del dramma, quelle l'abito. D'altra parte, quelle sono regole che non si scrivono nelle poetiche.loro continuamente: «Imitate i modelli!». Richelet non ne dubita affatto. Il genio che indovina più che non impari ricava per ogni opera, le prime dall'ordine generale delle cose, le seconde dall'insieme circoscritto dell'argomento trattato, e non come l'alchimista che accende il suo fornello, soffia sul fuoco, riscalda il crogiolo, analizza e distrugge; ma come l'ape che vola sulle sue

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ali d'oro, si posa su ogni fiore e ne estrae il miele, senza che il calice perda niente del suo splendore, la corolla niente del suo profumo. Il poeta, insistiamo su questo punto, non deve quindi prender consiglio che dalla natura, dalla verità e dall'ispirazione che è anch'essa una verità e una natura. Quando he, dice Lope de Vega,

Quando he de escrivir una comediaEncierro los preceptos con seis llaves 16.

Effettivamente per rinchiudere i precetti non sono troppe sei chiavi. Che il poeta si guardi soprattutto dal copiare chiunque, Shakespeare non più di Molière, Schiller non più di Corneille 17. Se il vero ingegno potesse abdicare a tal punto alla sua natura, e lasciare così da parte la sua propria originalità per trasformarsi in altri, perderebbe tutto sostenendo il ruolo di Sosia. È il dio che si fa servo. Bisogna attingere alle sorgenti primitive. È la medesima linfa sparsa nel terreno, che produce tutti gli alberi della foresta, così diversi nel portamento, nei frutti e nelle foglie. È la stessa natura che feconda e nutre i genii più differenti. Il vero poeta è un albero che può essere battuto da tutti i venti e bagnato da tutte le rugiade, che porta le sue opere come l'albero i frutti e come il favoleggiatore portava le fiabe. Per quale motivo rifarsi a un maestro? innestarsi su un modello? È sempre meglio essere rovo o cardo, nutrito dalla stessa terra che nutre il cedro e la palma, piuttosto che essere il fungo o il lichene di questi grandi alberi. Il rovo vive, il fungo vegeta. D'altra parte, per quanto grandi siano il cedro e la palma, non è con il succo che se ne estrae che si può diventar grandi. Il parassita di un gigante sarà tutt'al più un nano.

16 Quando devo scrivere una commedia chiudo i precetti con sei chiavi. (Versi estratti da La nuova arte di far commedie, 1609, di Lope de Vega) [Tr. it. nostra].17 Non è certo adattando dai romanzi alla scena, anche se fossero di Walter Scott, che si faranno fare dei grandi progressi all'arte. Questo va bene per la prima o la seconda volta soprattutto quando i manipolatori hanno altri meriti più consistenti, ma ciò, in fondo, non porta a niente altro che a sostituire una imitazione con un'altra. Del resto, dicendo che non si deve copiare né Shakespeare né Schiller, intendiamo parlare di quegli imitatori maldestri che, cercando delle regole là dove questi poeti non hanno messo che del genio, genio, riproducono le loro forme senza il loro spirito, la loro scorza senza la loro linfa; non traduzioni fatte in modo abile come potrebbero farne altri veri poeti. La signora Tastu ha tradotto eccellentemente parecchie scene di Shakespeare. Emile Deschamps riproduce, attualmente, per il nostro teatro, Romeo e Giulietta; ed è tale la prontezza possente del suo ingegno, che fa passare tutto Shakespeare nei suoi versi come vi aveva già fatto passare tutto Orazio. Certo, anche questo è un lavoro di artista di poeta, una fatica che non esclude né l'originalità né la vita né la creazione.

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La quercia, anche se non è un colosso, non può che produrre e nutrire la ghianda. Non ci si fraintenda! Se alcuni nostri poeti hanno potuto essere grandi anche imitando, il motivo è che, pur modellandosi sulla forma antica, hanno tuttavia ascoltato la natura e il loro genio: sono stati loro stessi almeno per un verso. I loro rami si avvinghiavano all'albero vicino, ma le loro radici affondavano nel terreno dell'arte. Erano l'edera, non la ghianda. Poi sono venuti in sott'ordine gli imitatori, i quali, non avendo né radici nella terra né genio nell'animo, non hanno potuto far altro che imitare. Come dice Charles Nodier, dopo la scuola di Atene, la scuola di Alessandria. Allora ci fu un diluvio di mediocrità; allora vennero fuori tutte quelle poetiche così dannose al genio, ma così comode per essa. Si disse che tutto era fatto, si proibì a Dio di creare altri Molière, altri Corneille. Si mise la memoria al posto dell'immaginazione. La cosa stessa fu regolata egregiamente: ci sono degli aforismi a questo proposito. «Immaginare, dice la Harpe con la sua ingenua sicurezza, non è in fondo che ricordarsi». La natura dunque! La natura e la verità. - E qui, per dimostrare che, lontano dal demolire l'arte, le idee nuove non vogliono che ricostruirla più solida e meglio fondata, cerchiamo di indicare qual è il limite invalicabile che, secondo noi, separa la realtà secondo l'arte dalla realtà secondo la natura. È da stolti confondere le due cose come fanno alcuni partigiani del romanticismo poco avveduti. La verità dell'arte non potrebbe mai essere, come molti hanno detto, la realtà assoluta. L'arte non può dare la cosa in sé. Immaginiamo, infatti, uno di questi sconsiderati apostoli della natura assoluta, della natura vista fuori dell'arte, alla rappresentazione di un'opera romantica, per esempio del Cid. - Come? dirà alla prima parola. Il Cid parla in versi! Non è naturale parlare in versi. - Come volete allora che parli? - In prosa. - E sia. - Un istante dopo: - Come, riprenderà, se è coerente, il Cid parla francese! - Ebbene? - La natura vuole che egli parli la sua lingua, non può parlare che spagnolo. - Non ci capiremo nulla; ma sia ancora concesso. - Voi credete che sia tutto? No; prima della decima frase in castigliano, deve alzarsi e chiedere se quel Cid che parla è il vero Cid in carne e ossa. Con quale diritto quell'attore, che si chiama Pietro o Giacomo, prende il nome di Cid? È falso. - Non vi è alcuna ragione perché in seguito non pretenda che si sostituisca il sole alle luci della ribalta, alle false quinte gli alberi reali, le case reali.

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Infatti, una volta imboccata questa via, la logica ci prende per il bavero, non ci si può più fermare. Si deve quindi riconoscere, per non cadere nell'assurdo, che il campo dell'arte e quello della natura sono perfettamente distinti. La natura e l'arte sono due cose, altrimenti o l'una o l'altra non esisterebbe. Oltre alla sua funzione ideale, l'arte ne ha una terrena e positiva. Qualunque cosa faccia, è inquadrata tra la grammatica e la prosodia, tra Vaugelas e Richelet. Per le sue più capricciose invenzioni, ha delle forme, dei mezzi di esecuzione, tutto un materiale da provare. Per il genio sono strumenti, per la mediocrità utensili. Altri, ci sembra, l'hanno già detto: il dramma è uno specchio dove si riflette la natura. Ma se lo specchio è uno specchio comune, una superficie liscia e uniforme, esso restituirà degli oggetti solo un'immagine piatta e senza rilievo, fedele, ma scolorita; si sa quanto il colore e la luce perdano con la semplice riflessione. Occorre quindi che il dramma sia uno specchio di concentrazione che, invece di affievolirli, riunisca e condensi i raggi coloranti, che faccia di una debole luce una luce, di una luce una fiamma. Solo allora il dramma è difensore dell'arte. Il teatro è un punto prospettico. Tutto ciò che esiste nel mondo, nella storia, nella vita, nell'uomo, tutto deve e può specchiarsi, in esso, ma sotto la bacchetta magica dell'arte. L'arte sfoglia i secoli, sfoglia la natura, interroga le cronache, mette ogni cura nel riprodurre la realtà dei fatti 18, soprattutto quella dei costumi e dei caratteri, molto meno esposta dei fatti al dubbio e alla contraddizione; restaura ciò che gli annalisti hanno troncato, armonizza ciò che essi hanno lasciato, indovina le loro omissioni e le ripara, colma le loro lacune con fantasie che abbiano il colore del tempo, raggruppa ciò che essi hanno sparso, ripristina il funzionamento dei fili della Provvidenza sotto le marionette umane, riveste il tutto di una forma nello stesso tempo poetica e naturale e gli dà quella vitalità vera e impetuosa che origina l'illusione, quell'apparenza di realtà che appassiona lo spettatore, e il poeta 18 Si è stupiti di leggere in Goethe queste righe: «Non ci sono, propriamente parlando, personaggi storici in poesia; soltanto quando il poeta intende rappresentare il mondo che ha concepito, fa, a certi individui che incontra nella storia, l'onore di servirsi dei loro nomi per applicarli agli esseri di sua creazione. Ueber Kunst und Alterthum (Sull'Arte e l'Antichità)». Ci si rende conto dove porterebbe questa dottrina presa alla lettera: diritto al falso e al fantastico. Per fortuna l'illustre poeta, a cui in un certo giorno probabilmente deve essere sembrata vera almeno per un verso, poiché gli è sfuggita, non la metterebbe in pratica di certo. Non comporrebbe a colpo sicuro un Maometto come un Walther, un Napoleone come un Faust.

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per primo, poiché il poeta è in buona fede. Così il fine dell'arte è quasi divino: risuscitare se fa della storia; creare se fa della poesia. È una cosa grande e bella vedere spiegarsi con tale ampiezza un dramma in cui l'arte sviluppa potentemente la natura; un dramma in cui l'azione procede verso la conclusione con passo fermo e sciolto, senza prolissità e senza strozzature; un dramma, infine, in cui il poeta realizzi completamente il molteplice scopo dell'arte, che è di aprire allo spettatore un duplice orizzonte, di illuminare contemporaneamente l'interno e l'esterno degli uomini: l'esterno, con i loro discorsi e le loro azioni, l'interno con gli a parte e i monologhi; di incrociare, in una parola, nello stesso quadro, il dramma della vita e il dramma della coscienza. Si sa che, per un'opera di questo genere, se il poeta deve scegliere (e lo deve) tra le cose, non è il bello che deve scegliere ma il caratteristico. Non che convenga fare, come si dice oggi, del colore locale, cioè aggiungere a cose fatte, qua e là, qualche tocco vistoso sopra un insieme del resto perfettamente falso e convenzionale. Non è sulla superficie del dramma che deve essere posto il colore locale, ma sul fondo, nel cuore stesso dell'opera, da dove si riversa all'esterno, da sé, naturalmente, con uniformità e, per così dire, in tutti gli angoli del dramma, come la linfa che sale dalle radici fino all'ultima foglia dell'albero. II dramma deve essere interamente impregnato di questo colore dei tempi; deve in qualche modo essere presente nell'aria, in modo tale che soltanto entrando nel dramma o uscendone ci si renda conto che si è cambiato secolo o atmosfera. Occorre un certo studio, una certa fatica per arrivarci; tanto meglio. È bene che le vie dell'arte siano ostruite da questi rovi davanti ai quali tutto indietreggia, tranne le forti volontà. D'altra parte è appunto un tale studio, sostenuto da un'ardente ispirazione, che proteggerà il dramma da un vizio che lo uccide, il comune. Il comune è il difetto dei poeti dalla vista corta e dal fiato corto. Occorre, nell'ottica della scena, che ogni personaggio sia ricondotto alla sua caratteristica peculiare, alla più individuale, alla più particolare. Il volgare e persino il triviale devono avere un loro accento. Nulla deve essere tralasciato. Come Dio, il vero poeta è presente ovunque e contemporaneamente nella sua opera. Il genio assomiglia al bilanciere che imprime l'effigie del re sia sulle monete di rame sia sugli scudi d'oro. Noi non esitiamo, e ciò starebbe ancora a dimostrare alle persone in buona fede quanto poco cerchiamo di deformare l'arte, noi non

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esitiamo a considerare il verso uno dei mezzi più adatti per salvare il dramma dal flagello che abbiamo appena segnalato, una tra le dighe più potenti contro l'irrompere del comune che, come la democrazia, scorre sempre impetuoso negli animi. Ed è qui che la giovane letteratura, già ricca di tanti uomini e di tante opere, ci concede di indicarle un errore in cui ci sembra sia caduta, errore d'altra parte fin troppo giustificato dalle incredibili aberrazioni della vecchia scuola. Il nuovo secolo è in quell'età di sviluppo in cui ci si può facilmente raddrizzare. Si è formata negli ultimi tempi, come una penultima ramificazione del vecchio tronco classico, o meglio, come una di quelle escrescenze, uno di quei polipi che la vecchiaia produce e che sono molto più un sintomo di decomposizione che una prova di vita; così si è formata una singolare scuola di poesia drammatica. Ci sembra che tale scuola abbia avuto per maestro e per ceppo il poeta che segna la transizione dal diciottesimo secolo al diciannovesimo, l'uomo della descrizione e della perifrasi, quel Delille che, dicono, verso la fine della sua vita si vantava, come nei registri omerici, di aver fatto dodici cammelli, quattro cani, tre cavalli, compreso anche quello di Giobbe, sei tigri, due gatti, un gioco di scacchi, un trictrac, una dama, un biliardo, diversi inverni, molte estati, un mucchio di primavere, cinquanta tramonti e molte aurore tanto che si smarriva a contarle. Ora Delille è passato nella tragedia. È il padre (lui, e non Racine, gran Dio) di una supposta scuola di eleganza e buon gusto che è fiorita di recente. La tragedia per questa scuola non è quella che essa è per quel buonuomo di Shakespeare, cioè, per esempio, una fonte di emozioni di ogni specie, ma una comoda cornice per la soluzione di una quantità di piccoli problemi descrittivi che essa si pone strada facendo. Questa musa, invece di respingere le trivialità e le bassezze della vita, come fa la vera scuola classica francese, le ricerca al contrario e le raccoglie avidamente. Il grottesco, evitato come cattiva compagnia dalla tragedia di Luigi XVI, non può passare tranquillamente davanti a questa: Bisogna che sia descritto! cioè nobilitato. Una scena di corpo di guardia, una rivolta del volgo, il mercato del pesce, la galera, la bettola, la gallina in pentola di Enrico IV sono una fortuna per essa. Se ne impossessa, ripulisce quella canaglia, e cuce sulle sue meschinità fronzoli e lustrini; purpureus assuitur pannus. Sembra che il suo scopo sia quello di distribuire patenti di nobiltà a tutta questa plebaglia del dramma; e ciascuna di queste lettere del gran sigillo è una tirata.

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Tale musa, e lo si capisce, è di una ritrosia eccessiva. Abituata, come è, alle lusinghe della perifrasi, le fa orrore la parola esatta, che a volte la offende. Non è degno di lei parlare naturalmente. Essa sottolinea con un tratto il vecchio Corneille per i suoi modi di dire senza mezzi termini:

...Un tas d'hommes perdus de dettes et de crimes

...Chimène, qui l'eût cru, Rodrigue qui l'eût dit?

...Quand leur Flaminius marchandait Annibal.

...Ah! ne me brouillez pas avec la république etc. etc. 19.

Essa ha ancora sullo stomaco il suo: Eh! buono, signore! E sono stati necessari molti signore e molte signora! per far perdonare al nostro ammirevole Racine i suoi chiens 20 così monosillabici, e quel Claudio così brutalmente messo nel letto di Agrippina. Una tal Melpomene, come essa si chiama, avrebbe orrore di trar profitto da una cronaca. Lascia al costumista l'incarico di interessarsi in quale epoca accadano i drammi che essa scrive. Ai suoi occhi la storia è di modi grossolani e di cattivo gusto. Come tollerare, per esempio, re e regine che bestemmiano? Bisogna innalzarli dalla loro dignità regale alla dignità tragica. È con una promozione di questo genere che essa ha nobilitato Enrico IV. È così che il re del popolo, ripulito da M. Legouvé, si è visto cacciar di bocca con infamia il suo ventre-saint-gris da due sentenze e ridurre, come la fanciulla delle favole, a lasciar uscire dalla sua bocca solo perle, rubini e zaffiri, per la verità tutti falsi. Insomma, nulla è tanto comune come quella eleganza e quella nobiltà di maniera. Nulla di scoperto, nulla di immaginato, nulla di inventato in questo stile, ma quello che si è visto dappertutto, retorica, ampollosità, luoghi comuni, vezzi da collegiali, poesie di versi latini. Idee false rivestite da immagini grossolane. I poeti di questa scuola sono eleganti come i principi e le principesse di palcoscenico, sempre sicuri di trovare negli scaffali etichettati del magazzino i mantelli e le corone in similoro, che hanno solo la sfortuna di essere serviti a tutti. Se questi poeti non sfogliano la

19 ...Un mucchio di uomini rovinati dai debiti e dai crimini....Chimene, chi l'avrebbe creduto? Rodrigo, chi lo avrebbe detto? ...Quando il loro Flaminio mercanteggiava Annibale....Ah! Non mettetemi in disaccordo con la repubblica ecc. ecc. [Tr. it. nostra].20 Cani [N.d.T.]

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Bibbia, non è che essi non abbiano il loro grosso libro, il Dizionario di rime. È quella la loro fonte di poesia, fontes aquarum. È ben comprensibile che in tutto ciò la natura e la verità diventano quel che possono. Sarebbe un caso straordinario se restasse a galla qualche frammento in un tale cataclisma di falsa arte, di falso stile, di falsa poesia. Ecco ciò che ha causato l'errore di tanti nostri eminenti riformatori. Indignati per la rigidezza, per lo sfarzo, per il pomposo 21 di questa sedicente poesia drammatica, hanno creduto che gli elementi del nostro linguaggio poetico fossero incompatibili col naturale e con il vero. L'alessandrino li aveva così annoiati che l'hanno condannato, in qualche modo, senza volerlo ascoltare, e hanno concluso, forse un po' precipitosamente, che il dramma doveva essere scritto in prosa. Si sbagliavano. Se in effetti il falso regna sia nello stile sia nella condotta di certe tragedie francesi, non bisognava prendersela coi versi, ma con i verseggiatori. Occorreva condannare non la forma usata, ma quelli che avevano usato quella forma; gli operai, non l'utensile. Per convincersi che la natura della nostra poesia oppone pochi ostacoli alla libera espressione di tutto ciò che è vero, non è probabilmente in Racine che conviene studiare il nostro verso, ma spesso in Corneille, sempre in Molière. Racine, divino poeta, è elegiaco, lirico, epico; Molière è drammatico. È ora di far giustizia delle critiche accumulate dal cattivo gusto del secolo scorso contro quello stile ammirevole e di affermare ad alta voce che Molière occupa la sommità del nostro dramma, non solo come poeta, ma anche come scrittore. Palmas vere habet iste duas. In lui, il verso abbraccia l'idea, vi si incorpora strettamente, la rinchiude e contemporaneamente le dà sviluppo, le conferisce un aspetto più sciolto, più preciso, più completo e ce ne dà, per così dire, l'elisir. Il verso è la forma ottica del pensiero. Ecco perché si addice soprattutto alla prospettiva scenica. Reso in un certo modo, dà risalto a cose che, senza di esso, passerebbero via insignificanti e volgari. Rende più solido e più fine il tessuto dello stile. È il nodo che ferma il filo. È la cintura che sostiene l'abito e gli dà le pieghe volute. Che cosa potrebbe dunque perdere la natura e la verità, entrando nel verso? Noi lo domandiamo ai nostri stessi prosaicisti: che cosa perdono con un Molière in versi? Il vino, ci si permetta una trivialità in più, cessa forse di essere vino quando è in bottiglia?

21 In italiano nel testo [N.d.T.].

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Se poi avessimo il diritto di dire quale potrebbe essere, secondo noi, lo stile del dramma, noi vorremmo un verso libero, franco, leale, che osasse dire tutto senza eccessivo pudore, esprimere tutto senza essere ricercato; che passasse con spontaneità dalla commedia alla tragedia, dal sublime al grottesco; di volta in volta reale e poetico, nello stesso tempo geniale e ispirato, profondo e improvviso, ampio e vero; che sapesse spezzare convenientemente e spostare la cesura per mascherare la monotonia dell'alessandrino; più incline all'enjambement che lo allunga, che all'inversione che lo ingarbuglia; fedele alla rima, questa schiava regina, questa suprema grazia della nostra poesia, questa generatrice dei nostri metri; inesauribile nella varietà delle sue forme; inafferrabile nei suoi segreti di eleganza e di fattura; che assumesse, come Proteo, mille forme senza per questo cambiare tipo e carattere; che evitasse la tirata; che fosse sciolto nel dialogo; che si nascondesse sempre dietro il personaggio; che si preoccupasse innanzi tutto di essere azzeccato e nel caso che gli capitasse di essere bello, fosse bello solo per caso, suo malgrado e senza saperlo 22; lirico, epico, drammatico, secondo la necessità; in grado di percorrere tutta la gamma poetica, di andare dall'alto al basso, dalle idee più nobili alle più volgari, dalle più ridicole alle più serie, dalle più superficiali alle più astratte, senza mai uscire dai limiti di una scena parlata; in una parola, come lo farebbe colui che una fata avesse dotato dell'anima di Corneille e della testa di Molière. A noi pare che un tale verso sarebbe bello tanto quanto la prosa. Non ci sarebbe alcun rapporto tra una tale poesia e quella di cui noi facevamo poco fa l'autopsia del cadavere. La sfumatura che le separa sarà facile da indicare, se un uomo di spirito, al quale l'autore di questo libro deve un ringraziamento personale, ci permette di prendergli in prestito l'arguta distinzione: l'altra poesia era descrittiva, questa sarebbe pittoresca. Innanzi tutto ripetiamolo: il verso sulla scena deve spogliarsi di ogni amor proprio, di ogni esigenza e di ogni civetteria. Qui esso non è che una forma, e una forma che deve ammettere tutto, che non ha nulla da imporre al dramma e, al contrario, deve ricevere tutto per trasmettere tutto allo spettatore: francese, latino, testo di leggi,

22 L'autore di questo dramma ne parlava un giorno con Talma, e, in una conversazione che scriverà più tardi, quando non si potrà più attribuirgli l'intenzione di appoggiare la sua opera o le sue idee a delle autorità, esponeva al grande attore comico qualche sua idea sullo stile drammatico. - Ah sì! esclamò Talma interrompendolo vivamente; è quanto mi sfibro di dire loro. Niente bei versi! - Niente bei versi! È l'istinto del genio a trovare questo profondo precetto. Infatti sono i bei versi che uccidono le belle commedie.

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imprecazioni regali, locuzioni popolari, commedia, tragedia, riso, lacrime, prosa e poesia. Guai al poeta se il suo verso storce la bocca! Ma questa forma è una forma di bronzo che inquadra il pensiero nel suo metro, sotto il quale il dramma è indistruttibile, che lo imprime più profondamente nell'animo dell'attore, lo avverte di ciò che omette e di ciò che aggiunge, gli impedisce di alterare la sua parte, di sostituirsi all'autore, rende ogni parola sacra, e fa che ciò che il poeta ha detto si ritrovi, molto tempo dopo, ancora presente nella memoria dell'ascoltatore. Rafforzata nel verso, l'idea acquista improvvisamente qualche cosa di più incisivo e di più eclatante. È il ferro che diviene acciaio. Si sente che la prosa, necessariamente molto più timida, obbligata a togliere al dramma ogni poesia lirica o epica, ridotta al dialogo e al positivo, è lontana dall'aver tali risorse. Ha le ali molto meno ampie. Essa è poi più facilmente accessibile; la mediocrità vi è a suo agio; e se si considerassero alcune opere notevoli, come quelle che questi ultimi tempi hanno visto nascere, l'arte sarebbe ben presto piena di aborti e di embrioni. Un altro gruppo di riformatori propenderebbe per un dramma scritto contemporaneamente in versi e in prosa, come ha fatto Shakespeare. Questa maniera ha i suoi vantaggi. Potrebbe tuttavia esservi scompenso nei passaggi da una forma all'altra; quando infatti un tessuto è omogeneo, è molto più solido. Del resto, che il dramma sia scritto in prosa, che sia scritto in versi, che sia scritto in versi e prosa, non è che una questione secondaria. La classificazione di un'opera deve essere fatta non secondo la sua forma, ma secondo il suo valore intrinseco. In problemi di questo genere non vi è che una soluzione; non vi è che un peso che possa far pendere la bilancia dell'arte: è il genio. Tutto sommato, prosatore o versificatore che sia, la prima qualità indispensabile di uno scrittore drammatico è la correttezza. Non quella correttezza tutta superficiale, qualità o difetto della scuola descrittiva, che fa di Lhomond e di Restaut le due ali del suo Pegaso; ma la correttezza intima, profonda, ragionata che si è impregnata del genio di un idioma, che ne ha sondato le radici, esplorato le etimologie, sempre libera perché è sicura del fatto suo e perché va sempre d'accordo con la logica della lingua. Madonna grammatica conduce questa per le briglie; questa tiene al guinzaglio la grammatica. Può osare, tentare, creare, inventare il suo stile: ne ha il diritto. Poiché, per quanto ne abbiano detto certe persone che non avevano pensato a quello che dicevano, e tra i quali bisogna annoverare in particolar modo chi scrive queste righe, la lingua

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francese non è fissata e non si fisserà. Una lingua non si fissa. Lo spirito umano è sempre in cammino, o, se si vuole, in movimento e le lingue con esso. Le cose sono così. Quando il corpo cambia, come non cambiare l’abito? Il francese del diciannovesimo secolo non può essere il francese del diciottesimo più di quanto questo non sia il francese del diciassettesimo: come il francese del diciassettesimo non è quello del sedicesimo. La lingua di Montaigne non è più quella di Rabelais, la lingua di Pascal non è più quella di Montaigne, la lingua di Montesquieu non è più quella di Pascal. Ciascuna di queste quattro lingue, presa in sé, è ammirevole, perché è originale. Ogni epoca ha le proprie idee e occorre che abbia anche le parole adatte a tali idee. Le lingue sono come il mare, oscillano senza posa. In certi periodi, abbandonano un lido del mondo del pensiero e ne invadono un altro. Tutto quello che in questo modo il loro flutto abbandona, secca e si cancella dal terreno. È così che alcune idee si spengono, alcune parole scompaiono. Avviene per gli idiomi umani come per tutto. Ogni secolo vi aggiunge e vi toglie qualche cosa. Che farci? È fatale. È dunque invano che si vorrebbe pietrificare la mobile fisionomia del nostro idioma in una data forma. È invano che i nostri Giosuè letterarii gridino alla lingua di fermarsi. Né le lingue né il sole si fermano. Il giorno in cui si fissano è perché muoiono. Ecco perché il francese di una certa scuola contemporanea è una lingua morta. Tali sono, press'a poco, eccetto gli sviluppi approfonditi che potrebbero completarne l'evidenza, le idee attuali sul dramma dell'autore di questo libro. Del resto egli è lontano dal pretendere che si consideri il suo saggio drammatico come un'emanazione di queste idee, le quali, al contrario, non sono forse, parlando ingenuamente, che rivelazioni sull'esecuzione. Senza dubbio sarebbe molto comodo e più astuto da parte sua appoggiare il suo libro sulla prefazione e difendere l'uno con l'altra. Egli preferisce meno abilità e più franchezza. Vuole dunque essere il primo a rivelare l'esiguità del nodo che lega questa prefazione al dramma. Il suo primo progetto ben definito era, in un primo tempo, a causa della sua pigrizia, di dare al pubblico l'opera da sola; el demonio sin las cuernas, come diceva Yriarte. Solo dopo averla adeguatamente chiusa e terminata, si è deciso, per le sollecitazioni di alcuni amici probabilmente molto illusi, a fare i conti con se stesso in una prefazione, a tracciare, per così dire, la carta del viaggio poetico appena effettuato, a rendersi conto degli acquisti buoni o cattivi che ne aveva tratto e dei nuovi aspetti sotto i quali il campo

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dell'arte si era offerto al suo spirito. Si trarrà senza dubbio vantaggio da questa confessione per ripetere il rimprovero che un critico tedesco gli ha già rivolto, cioè di fare «una poetica per la sua poesia». Che importa? Dapprima ha avuto l'intenzione di disfare piuttosto che di fare delle poetiche. In secondo luogo non sarebbe sempre meglio fare le poetiche secondo una poesia che una poesia secondo una poetica? Ma no, ancora una volta, egli non ha né l'ingegno per creare né la pretesa di stabilire dei sistemi. «I sistemi, dice argutamente Voltaire, sono come topi che passano attraverso venti buchi, e alla fine ne trovano due o tre dai quali non possono passare». Sarebbe stato dunque prendersi una pena inutile e al di sopra delle sue forze. Ciò che ha difeso, invece, è la libertà dell'arte contro il dispotismo dei sistemi, dei codici e delle regole. Egli ha l'abitudine di seguire quella che ritiene la sua ispirazione e di cambiare modello, a suo rischio e pericolo, tante volte quante sono le composizioni. È il dogmatismo nelle arti, ciò da cui egli innanzi tutto rifugge. A Dio non piaccia che egli aspiri a essere uno di quegli uomini, romantici o classici, che fanno delle opere nel loro sistema, che si condannano cioè a non aver altro che una sola forma nella loro mente, a dimostrare sempre qualche cosa, a seguire altre leggi diverse da quelle della loro organizzazione e della loro natura. L'opera artificiale di tali uomini, per quanto ingegno abbiano, non esiste per l'arte. È una teoria, non una poesia. Dopo aver tentato, in tutto ciò che precede, di indicare quale è stata, secondo noi, l'origine del dramma, qual è il suo carattere, quale potrebbe essere il suo stile, ecco il momento di ridiscendere da queste vette generiche dell'arte al caso particolare che ci ha fatto salire fin là. Ci resta, quindi, da intrattenere il lettore sulla nostra opera, su questo Cromwell; e poiché non è un argomento che ci piaccia, ne diremo poco e in poche parole. Oliviero Cromwell fa parte di quei personaggi storici che sono al tempo stesso molto celebri e molto poco conosciuti. La maggior parte dei suoi biografi, tra i quali si annoverano alcuni storici, ha lasciato incompleta questa figura. Sembra che non abbiano osato raccogliere tutti i tratti di questo bizzarro e colossale prototipo della riforma religiosa e della rivoluzione politica inglese. Quasi tutti si sono limitati a riprodurre, su dimensioni più ampie, il profilo semplice e sinistro che ne ha tracciato Bossuet, dal suo punto di vista monarchico e cattolico, dalla sua cattedra di vescovo appoggiata al trono di Luigi XIV.

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Come tutti, l'autore di questo libro si limitava a ciò. Il nome di Oliviero Cromwell non risvegliava in lui che l'idea sommaria di un fanatico regicida e gran capitano. È curiosando nella cronaca, cosa che fa con amore, e sfogliando a caso le memorie inglesi del diciassettesimo secolo, che fu colpito nel veder svilupparsi a poco a poco davanti ai suoi occhi un Cromwell tutto nuovo. Non era più soltanto il Cromwell militare, il Cromwell politico di Bossuet; era un essere complesso, eterogeneo, multiplo, composto di tutte le contraddizioni, misto di molto male e di molto bene, pieno di genio e di meschinità; una sorta di Tiberio-Dandin tiranno dell'Europa e giocattolo della propria famiglia; vecchio regicida che umiliava gli ambasciatori di tutti i re, e torturato dalla giovane figlia realista; austero e cupo nei costumi, e che si circondava di quattro buffoni di corte; che componeva cattivi versi; sobrio, semplice, frugale, e affettato nell'etichetta; soldato grossolano e acuto politico; rotto alle sottigliezze teologiche di cui si compiaceva; oratore pesante, prolisso, oscuro, ma abile a parlare il linguaggio di tutti coloro che voleva sedurre; ipocrita e fanatico; visionario dominato dai fantasmi della sua infanzia, che credeva agli astrologhi e li metteva al bando; diffidente fino all'eccesso, sempre minaccioso, di rado sanguinario; rigido osservatore di precetti puritani, ma che perdeva parecchie ore al giorno, facendo cose futili con serietà; brusco e sdegnoso con i familiari, premuroso con i settarii che temeva; che ingannava i suoi rimorsi con sottigliezze, giocando d'astuzia con la sua coscienza; inesauribile in scaltrezze, in tranelli ed espedienti; che dominava l'immaginazione con l'intelligenza; grottesco e sublime; insomma, uno di quegli uomini quadrati dalle fondamenta, come li chiamava Napoleone, tipo e capo di tutti questi uomini completi, nella sua lingua esatta come l'algebra, colorata come la poesia. Chi scrive, di fronte a questo raro e sorprendente insieme, sentì che il profilo parziale di Bossuet non gli bastava più. Si mise a girare attorno a questa alta figura, e fu preso allora da un'ardente tentazione di raffigurare il gigante da tutte le sue facce, sotto tutti i suoi aspetti. La materia era ricca. Accanto all'uomo di guerra e all'uomo di stato, bisognava ancora disegnare il teologo, il pedante, il cattivo poeta, il visionario, il buffone, il padre, il marito, l'uomo-Proteo, in una parola il duplice Cromwell, Homo et vir. Nella sua vita c'è un'epoca in particolare in cui quel carattere singolare si sviluppa in tutti i suoi aspetti. Non è, come si

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crederebbe in un primo momento, quella del processo di Carlo I, per quanto sia palpitante di un interesse cupo e terribile; è il momento in cui l'ambizioso provò a cogliere il frutto di quella morte. È l'istante in cui Cromwell, giunto a quello che per un altro sarebbe stato il culmine di una possibile fortuna, padrone di un'Inghilterra le cui mille fazioni tacciono sotto i suoi piedi, padrone della Scozia di cui fa un governatorato, e dell'Irlanda di cui fa una galera, padrone dell'Europa con le sue flotte, i suoi eserciti, la sua diplomazia, cerca, alla fine, di tradurre in realtà il primo sogno della sua infanzia, l'ultimo scopo della sua vita, di farsi re. La storia non ha mai nascosto una più alta lezione sotto un dramma più alto. In un primo momento il Protettore si fa pregare; l'augusta farsa inizia con indirizzi di comunità, indirizzi di città, indirizzi di contee; poi è un progetto di legge del parlamento. Cromwell, autore anonimo di questa farsa, vuole sembrarne scontento; lo si vede tendere una mano verso lo scettro e ritirarla; si avvicina con passi obliqui a quel trono da cui ha spazzato via la dinastia. Alla fine si decide bruscamente; per suo ordine Westminster è imbandierato, il palco è eretto, è ordinata la corona all'orafo, il giorno della cerimonia è fissato. Strana conclusione! E quello stesso giorno, davanti al popolo, alla milizia, ai comuni, in quella grande sala di Westminster, su quel palco dal quale pensava di discendere re, che, improvvisamente, come di soprassalto, sembra risvegliarsi alla vista della corona, domanda se sogna, cosa significhi quella cerimonia e in un discorso che dura tre ore rifiuta la dignità regale. - Forse le sue spie l'avevano avvertito delle due cospirazioni combinate dei cavalieri e dei puritani, le quali dovevano scoppiare lo stesso giorno approfittando del suo errore? Era un turbamento prodotto in lui forse dal silenzio o dai mormorii del popolo sconcertato nel vedere il suo regicida giungere al trono? O era forse soltanto l'intuito del genio, l'istinto di un'ambizione prudente, sebbene smodata, che sa come un passo di più possa spesso cambiare la posizione e il comportamento di un uomo e che non osa esporre il suo edificio plebeo al vento dell'impopolarità? Era forse tutto questo insieme? Nessun documento del tempo chiarisce completamente il fatto. Tanto meglio; la libertà del poeta è così più completa e il dramma trae profitto dall'ampia possibilità che la storia gli conferisce. Si vede qui che è immenso e unico: questa è l'ora decisiva, la grande peripezia della vita di Cromwell. È il momento in cui la sua chimera gli sfugge, in cui il presente uccide l'avvenire, o, per usare una

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volgarità energica, il suo destino fa cilecca. Tutto Cromwell è in gioco in questa commedia che si recita tra l'Inghilterra e lui. Ecco dunque l'uomo, ecco l'epoca che abbiamo tentato di schizzare in questo libro. L'autore si è lasciato trascinare dal piacere infantile di far muovere i tasti di questo gran clavicembalo. Senza dubbio, scrittori più abili avrebbero potuto trarne un'alta e profonda armonia, non di quelle armonie che accarezzano solo l'orecchio, ma di quelle armonie intime che commuovono tutto l'uomo, come se ogni corda del clavicembalo si annodasse a una fibra del cuore. Proprio lui ha ceduto al desiderio di dipingere tutti quei fanatismi, tutte quelle superstizioni che sono in certe epoche malattie delle religioni; alla voglia di far muovere tutti questi uomini, come dice Amleto; di collocare sui vari piani sotto e attorno a Cromwell, centro e perno di quella corte, di quel popolo, di quel mondo che egli ricongiungeva tutto alla sua unità e a cui imprimeva tutto il suo impulso, la duplice cospirazione tramata da due fazioni che si detestano, ma si coalizzano per far crollare l'uomo che le disturba, che si uniscono senza mischiarsi; e quel partito puritano, fanatico, eterogeneo, tetro, disinteressato, che sceglie come capo, per un ruolo così grande, il più piccolo degli uomini, l'egoista e pusillanime Lambert; e quel partito di cavalieri avventato, allegro, poco scrupoloso, spensierato, ma devoto, diretto dall'uomo che, devozione a parte, meno lo rappresenta, l'onesto e severo Ormond; e quegli ambasciatori, così umili davanti al soldato di ventura; e quella corte strana mista di temerari e di grandi signori che gareggiano in meschinità; e quei quattro buffoni che l'oblio noncurante della storia permetteva di immaginare; e quella famiglia di cui ogni membro è una piaga di Cromwell; e quel Thurloe, l'Acate del Protettore; e quel rabbino ebreo, quel Israël Ben-Manassé, spia, usuraio e astrologo, spregevole per due aspetti, ma sublime per un terzo; e quel Rochester, quel bizzarro Rochester, ridicolo e spiritoso, elegante e crapulone, eterno bestemmiatore, perennemente innamorato e ubriaco, come egli stesso se ne vantava col vescovo Burnet, cattivo poeta e buon gentiluomo, vizioso e ingenuo, che si giocava la testa e si preoccupava poco di vincere la partita purché lo divertisse; in una parola capace di tutto, di astuzia e di balordaggine, di follia e di calcolo, di infamia e di generosità; e quel selvaggio Carr, di cui la storia non ci ha delineato che un tratto, ma quanto caratteristico e fecondo; e quei fanatici d'ogni ordine e d'ogni genere, Harrison, fanatico predatore; Barebon, fanatico mercante; Syndercomb, omicida;

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Agostino Garland, assassino lacrimoso e devoto; il coraggioso colonello Overton, letterato e un po' declamatorio; l'austero e rigido Ludlow, che in seguito andò a lasciare le sue ceneri e la sua epigrafe a Losanna; e infine «Milton e alcuni altri che avevano ingegno», come dice un libello del 1675 (Cromwell politico) che ci ricorda il Dantem quemdam della cronaca italiana. Non elenchiamo qui molti personaggi meno importanti, ciascuno dei quali ha tuttavia una propria vita reale e una individualità spiccata. Tutti, però, hanno contribuito alla seduzione che questa ampia scena della storia ha esercitato sull'immaginazione dell'autore. Da questa scena egli ha tratto questo dramma. Lo ha scritto in versi, perché gli è piaciuto così. Si vedrà d'altronde nel leggerlo quanto poco, scrivendo questa prefazione, pensasse alla sua opera e con quale disinteresse, per esempio, combatteva il dogma delle unità. Il suo dramma non si muove da Londra, incomincia il 25 giugno 1657 alle tre del mattino e finisce il 26 a mezzogiorno. È evidente che potrebbe quasi entrare a far parte della prescrizione classica, come i professori di poesia la enunciano oggi. Essi, tuttavia, non gliene siano affatto grati. Non è con il consenso di Aristotele, ma con quello della storia, che l'autore ha congegnato, in questo modo, il suo dramma; perché, a parità di interesse, preferisce un argomento conciso a un argomento dispersivo. È chiaro che questo dramma, nelle sue attuali proporzioni, non potrebbe essere incluso tra le nostre rappresentazioni sceniche. È troppo lungo. Forse si converrà, tuttavia, che è stato concepito in tutte le sue parti per la scena. Accostandosi al suo argomento per studiarlo, l'autore riconobbe o credette di riconoscere l'impossibilità di farne accettare una fedele riproduzione nel nostro teatro, nella condizione particolare in cui esso si trova, tra il Cariddi accademico e la Scilla amministrativa, tra le giurie letterarie e la censura politica. Bisognava scegliere: o la tragedia cortigianesca, subdola, falsa e rappresentata, oppure il dramma insolitamente vero e rifiutato. La prima cosa non valeva la pena che fosse fatta; egli ha preferito tentare la seconda. Ecco perché, non sperando affatto che fosse rappresentato, si è abbandonato libero e docile alle fantasie della composizione, al piacere di svolgerla con più ampio respiro, agli sviluppi che l'argomento comportava, sviluppi che, se finiscono con l'allontanare il suo dramma dal teatro, hanno almeno il vantaggio di renderlo quasi completo sotto il profilo storico. I comitati di lettura non sono d'altra parte che un ostacolo di second'ordine. Se mai accadesse che la censura drammatica,

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considerando quanto poco appartenga alla nostra epoca questa innocente, esatta e coscienziosa figura di Cromwell e del suo tempo, le permettesse l'accesso al teatro, l'autore, ma solo in questo caso, potrebbe trarre da questo dramma un'opera che, messa azzardatamente in scena, sarebbe fischiata. Fino a quel momento, egli continuerà a tenersi lontano dalla scena. Dovrà, però, lasciare sempre troppo presto, per le agitazioni di questo mondo nuovo, il suo caro e casto ritiro. Piaccia a Dio che non abbia mai a pentirsi di aver esposto la vergine oscurità del suo nome e della sua persona agli scogli, alle burrasche, alle tempeste del pubblico della platea e soprattutto (cosa importa un insuccesso?) ai miserabili battibecchi del retroscena; di essere entrato in quella atmosfera variabile, nebbiosa e tempestosa, dove l'ignoranza dogmatizza, l'invidia sibila, i complotti strisciano, dove l'onestà dell'ingegno è stata tanto spesso misconosciuta, dove il nobile candore del genio è a volte così fuori luogo, dove la mediocrità trionfa nell'abbassare al proprio livello le superiorità che la offuscano, dove per un uomo grande se ne trovano tanti piccoli, per un Talma tante nullità, per un Achille tanti mirmidoni! Questo abbozzo sembrerà forse malinconico e poco lusinghiero; ma non è forse valso a sottolineare la differenza che separa il nostro teatro, luogo di intrighi e di tumulti, dalla solenne serenità del teatro antico? Qualunque cosa accada, egli crede di dover preavvisare l'esiguo numero di persone che uno spettacolo simile potrebbe attirare, che un'opera estratta dal Cromwell non occuperebbe mai meno della durata di una rappresentazione. È difficile che un teatro romantico sia concepito in altro modo. Senza dubbio, se si vuole qualche cosa di diverso da quelle tragedie nelle quali uno o due personaggi, tipi astratti di un'idea puramente metafisica, passeggiano solennemente davanti a uno sfondo senza profondità, a mala pena occupato da alcune teste di confidenti, pallidi controcalchi dei protagonisti incaricati di riempire i vuoti di un'azione semplice, uniforme e monocorde; se tutto questo annoia, non sarà troppo una serata intera per sviluppare con un certo respiro la storia di un uomo eccezionale e di tutta un'epoca di crisi; l'uno con il suo carattere, il suo genio che si abbina al suo carattere, le credenze che dominano entrambi, le passioni che sopraggiungono a disturbare le credenze, il suo carattere e il suo genio, i gusti che stingono sulle passioni, le abitudini che disciplinano i gusti, mettono la museruola alle passioni, e quel corteo infinito di uomini di ogni tipo che questi diversi agenti gli fanno turbinare attorno; l'altra, con i suoi

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costumi, le sue leggi, le sue mode, il suo spirito, i suoi lumi, le sue superstizioni, i suoi avvenimenti e il suo popolo che tutte queste cause prime plasmano di volta in volta come cera molle. Si comprende che un simile quadro sarà gigantesco. Al posto di una individualità come quella di cui si accontenta il dramma astratto della vecchia scuola, se ne avranno venti, quaranta, cinquanta, che so?, diverse per rilievo e proporzione. Ci sarà folla nel dramma. Non sarebbe meschino accorciare il dramma a sole due ore per dare spazio nella rappresentazione all'opera comica o alla farsa? Accorciare Shakespeare per Bobèche? - E non si pensi, se l'azione è ben condotta, che la moltitudine di figure che essa mette in gioco possa causare fatica allo spettatore e mancanza di continuità nell'azione del dramma. Shakespeare, che abbonda di piccoli dettagli, è nello stesso tempo, e per questo stesso motivo, imponente per la vastità dell'insieme. È la quercia che getta un'ombra immensa con migliaia di piccole foglie frastagliate. Speriamo che in Francia ci si abitui presto a dedicare un'intera serata a un solo lavoro teatrale. In Inghilterra e in Germania ci sono dei drammi che durano sei ore. I greci, di cui tanto si parla, igreci, e, come faceva Scudéry noi invochiamo qui il classico Dacier, capitolo VII della sua Poetica, i greci arrivavano a volte a farsi rappresentare fino a dodici o sedici opere al giorno. In un popolo, che ama gli spettacoli, l'attenzione è più vivace 23 di quanto non si creda. Il Mariage de Figaro, questo nodo della grande trilogia di Beaumarchais, riempie tutta la serata; ha forse mai annoiato o stancato qualcuno? Beaumarchais era adatto per azzardare il primo passo verso questa meta dell'arte moderna alla quale è impossibile, in sole due ore, far nascere quel profondo, quell'invincibile interesse che deriva da un'azione vasta, vera e multiforme. Ma, si dice, un tale spettacolo composto di una sola opera, sarebbe monotono e sembrerebbe lungo. Errore! Perderebbe, invece, la lunghezza e la monotonia attuali. Che cosa si fa in realtà al giorno d'oggi? Si divide i1 godimento dello spettatore in due parti ben distinte. Dapprima gli si danno due ore di piacere serio, poi un'ora di piacere ameno; con l'ora di intervallo che non contiamo nel piacere, in tutto quattro ore. Che cosa farebbe il dramma romantico? Frantumerebbe e poi mischierebbe artisticamente assieme questi due tipi di piacere. Farebbe passare continuamente gli spettatori dalla serietà all'allegria, dalle risate sonore alle emozioni strazianti , dal grave al dolce, dal piacevole al severo. Infatti, come si è già

23 In italiano nel testo [N.d.T.].

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detto, il dramma è il grottesco unito al sublime, l'anima sotto il corpo, una tragedia sotto una commedia. Non si sa forse che, distraendovi così da un'impressione con un'altra, affilando di volta in volta il tragico sul comico, l'allegro sul terribile e persino unendo all'occorrenza il fascino dell'opera lirica, tali rappresentazioni, pur non offrendo che un solo lavoro, ne varrebbero parecchi? La scena romantica, con quello che per il teatro classico è una medicina divisa in due pillole, cucinerebbe un piatto piccante, variato, saporito. Ecco che l'autore di questo libro esaurirà tra poco ciò che doveva dire al lettore. Ignora come la critica accoglierà sia questo dramma sia queste idee sommarie, prive dei loro corollarii, sguarnite delle loro ramificazioni, radunate di corsa e nella fretta di finire. Senza dubbio appariranno ai «discepoli di La Harpe» molto sfacciate e molto strane. Ma se per caso, per quanto nude e rimpicciolite, potessero contribuire a indirizzare verso il vero questo pubblico, la cui educazione è già così progredita e che tanti ottimi scritti di critica o di critica applicata, libri o giornali, hanno già preparato alla comprensione dell'arte, segua egli dunque questo impulso, senza preoccuparsi se gli viene da un ignoto, da una voce senza autorità, da un'opera di poco valore. È una campana di bronzo che chiama le popolazioni al vero tempio e al vero Dio. C'è oggi l'antico regime letterario come l'antico regime politico. Il secolo scorso pesa ancora quasi completamente sul secolo nuovo. Lo opprime specialmente nella critica. Trovate, per esempio, uomini pieni di vita che vi ripetono questa definizione del gusto sfuggita a Voltaire: «Il gusto è per la poesia quello che è l'abbigliamento per le donne».Quindi il gusto è la civetteria. Parole notevoli che dipingono a meraviglia quella poesia fatta di belletti, nei e ciprie del diciottesimo secolo, quella letteratura tutta gonne gonfie, fiocchi e gale. Esse ci danno un riassunto ammirevole di un'epoca con la quale i più alti genii non hanno potuto entrare in contatto senza divenir piccoli almeno da un lato, di un tempo in cui Montesquieu ha potuto e dovuto fare il Tempio di Gnido, Voltaire Il Tempio del Gusto, Jean Jacques 24 L'Indovino del villaggio. Il gusto è la ragione del genio. Ecco ciò che ben presto affermerà un'altra critica, una critica forte, sincera, sapiente, una critica del nostro secolo che incomincia a mettere dei germogli vigorosi sotto i vecchi rami rinsecchiti dell'antica scuola. Questa giovane critica, austera tanto quanto l'altra è frivola, erudita tanto quanto

24 Jean Jacques Rousseau [N.d.T.].

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l'altra è ignorante, si è già creata degli organi che vengono ascoltati e a volte si è sorpresi di trovare nei giornali più leggeri alcuni suoi eccellenti articoli. È essa che, unendosi a tutto ciò che vi è di superiore e di coraggioso nelle lettere, ci libererà da due flagelli: il classicismo caduco, e il falso romanticismo che osa spuntare ai piedi del vero. Infatti, il genio moderno ha già la sua ombra, la sua controprova, il suo parassita, il suo classico che si trucca a sua immagine, si vernicia dei suoi colori, mette la sua livrea, raccoglie le sue briciole, e, simile all'apprendista del mago, mette in moto, con formule imparate a memoria, elementi di azione dei quali non sa il segreto. Compie di conseguenza delle sciocchezze che il suo padrone fa molta fatica a riparare. Ma ciò che occorre innanzi tutto distruggere è il vecchio e falso buon gusto. Bisogna togliere la ruggine alla letteratura attuale. Inutilmente la corrode e l'appanna. Parla a una generazione giovane, severa e forte che non lo capisce. Lo strascico del diciottesimo secolo si trascina ancora nel diciannovesimo; ma non siamo noi, giovani uomini che abbiamo visto Buonaparte, che glielo reggeremo. Siamo dunque prossimi al momento in cui vedremo la nuova critica prevalere, posta anch'essa su di una base ampia, solida e profonda. Presto tutti capiranno che gli scrittori devono essere giudicati non secondo le regole e i generi, cose che sono fuori della natura e fuori dell'arte, ma secondo i principii immutabili di questa arte e le leggi specifiche della loro organizzazione personale. La ragione collettiva avrà vergogna di quella critica che ha torturato Pierre Corneille, ridotto al silenzio Jean Racine, e che ha riabilitato, ma in modo ridicolo, John Milton solo in virtù del codice epico del Padre Le Bossu. Per valutare un'opera, si sarà d'accordo nel porsi dal punto di vista dell'autore, nel guardare il soggetto con i suoi occhi. Si abbandonerà, ed è M. de Chateaubriand che così si esprime, la critica meschina dei difetti per la grande e feconda critica delle bellezze. È ora che tutte le intelligenze sagaci afferrino il filo che lega frequentemente ciò che, secondo il nostro capriccio personale, chiamiamo difetto a ciò che chiamiamo bellezza. I difetti, per lo meno ciò che noi chiamiamo così, sono spesso la condizione originaria, necessaria, fatale delle qualità.

Scit genius, natale comes qui temperat astrum 25.

25 Lo sa il genio, che come compagno contempera l'influsso della costellazione di nascita. Orazio, Ep. n. 2, 187 [Tr. it. nostra].

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Dove si osserva una medaglia che non abbia il suo rovescio? ingegno che non porti la sua ombra con la sua luce, il suo fumo con la sua fiamma? Un certo difetto può non essere che la conseguenza indivisibile di una certa bellezza. Quella pennellata vigorosa che mi colpisce da vicino, completa l'effetto e dà rilievo all'insieme. Cancellate l'uno e cancellerete anche l'altro. L'originalità si compone di tutte queste cose. Il genio è necessariamente ineguale. Non ci sono montagne alte senza profondi precipizi. Riempite la valle con il monte e non avrete altro che una steppa, una landa, la pianura dei Sablon al posto delle Alpi, le allodole e non le aquile. Bisogna anche tener conto del tempo, del clima, delle influenze locali. La Bibbia, Omero, ci feriscono a volte con la loro stessa grandezza. Ma chi vorrebbe sopprimerne una parola? La nostra debolezza si spaventa spesso davanti all'ardire ispirato del genio, non potendo impossessarsi degli oggetti con una intelligenza altrettanto vasta. E poi, ancora una volta, ci sono di quegli errori che hanno radici solo nei capolavori; soltanto a certi genii è concesso di avere certi difetti. Si rimproverano a Shakespeare l'abuso della metafisica, l'abuso di spirito, di scene superflue, di oscenità, l'impiego di anticaglie mitologiche di moda ai suoi tempi, di stravaganza, di oscurità, di cattivo gusto, di ampollosità, di asperità di stile. La quercia, questo albero gigante che abbiamo da poco paragonato a Shakespeare e che ha più di un'analogia con lui, la quercia ha il portamento bizzarro, i rami nodosi, il fogliame impenetrabile, la scorza ruvida e scabra; ma è la quercia. Ed è proprio per questo che è la quercia. Poiché se volete un fusto liscio, dei rami diritti, delle foglie di raso, rivolgetevi alla pallida betulla, al sambuco cavo, al salice piangente; ma lasciate in pace la grande quercia. Non prendete a sassate chi vi fa ombra. L'autore di questo libro conosce come qualsiasi altro i numerosi e grossolani difetti delle sue opere. Se gli capita troppo di rado di correggerli, è perché detesta ritornare di nuovo su una cosa fatta. Egli ignora quell'arte di saldare una bellezza su di un difetto e non è mai riuscito a richiamare l'ispirazione su un'opera ormai divenuta fredda 26. Che cosa ha fatto, d'altra parte, che valesse la pena? Il

26 Ecco una nuova contravvenzione dell'autore alle leggi di Despréaux. Non è colpa sua se non si sottopone affatto agli articoli: Venti volte sull'opera etc. Limatela in continuazione etc. Nessuno è responsabile delle sue infermità o delle sue impotenze. Del resto saremo sempre i primi a rendere omaggio a questo Nicolas Boileau, a questa rara ed eccellente mente, a questo giansenista della nostra poesia. E inoltre non è neppure colpa sua se i professori di retorica gli hanno affibbiato il soprannome ridicolo di Legislatore del Parnaso. Lui non ce ne può nulla.

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tempo che impiegherebbe nel cancellare le imperfezioni dai suoi libri, preferisce impiegarlo a spogliare la sua anima dai difetti. Il suo metodo è di correggere un'opera con un'altra opera. Dopo tutto, in qualunque modo il suo libro sia giudicato, egli si impegna qui a non difenderlo né in tutto né in parte. Se il suo dramma è brutto, a che serve sostenerlo? Se è bello perché difenderlo? Il tempo farà giustizia del libro, o gliela renderà. Il successo del momento non è che interesse del libraio. Quindi, se la collera della critica si sveglierà alla pubblicazione di questo saggio, egli la lascerà fare. Che cosa le risponderebbe? Non è di quelli che parlano, come dice il poeta castigliano, «con la bocca della loro ferita»,

Por la boca de su herida.

Un'ultima parola. Si è potuto notare che in questa corsa un po' lunga attraverso tanti problemi diversi, l'autore si è in generale astenuto dal fondare la sua opera su testi, citazioni o opinioni autorevoli. Tuttavia non è che gli mancassero. - «Se il poeta crea cose assurde secondo le regole della sua arte, senza dubbio commette un errore; ma l'errore cessa di essere tale quando, per merito suo, raggiunge lo scopo che si era prefisso; poiché ha trovato quello che cercava.» - «Prendono per sproloquio tutto ciò che la limitatezza delle loro conoscenze non permette loro di capire. Innanzitutto considerano ridicoli quei luoghi meravigliosi dove il poeta, per meglio entrare nella ragione, esce, per così dire, dalla ragione stessa. In effetti questo precetto che dà come regola di non osservare a volte le regole... è un mistero dell'arte che non è facile far comprendere a degli uomini che mancano di gusto... e che una sorta di bizzarria della mente rende insensibili a ciò che normalmente colpisce gli uomini.» - Chi dice quello? è Aristotele. Chi dice questo? è Boileau. Da questi soli saggi si vede che l'autore di questo dramma avrebbe

Certo, se si esaminasse come codice il notevole poema di Boileau, vi si troverebbero cose strane. Cosa dire, per esempio, del rimprovero che muove a un poeta poiché: Fait parler ses bergers comme on parle au village [Fa parlare i suoi pastori come si parla nel villaggio]. Bisogna dunque farli parlare come si parla alla corte? Ecco i pastori dell'opera diventare tipi. Diciamo ancora che Boileau non ha capito i due soli poeti originali del suo tempo: Molière e La Fontaine. Dice di uno: C'est par là que Molière illustrant ses écrits, Peut-être son art eût remporté le prix. Non si degna di menzionare l'altro. È vero che Molière e La Fontaine, non sapevano né correggere né limare.

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potuto, come qualsiasi altro, corazzarsi di nomi proprii e rifugiarsi dietro a reputazioni. Ma egli ha voluto lasciare questo modo di argomentare a coloro che lo credono invincibile, universale e sovrano. Quanto a lui, preferisce delle ragioni alle autorità; più delle armi gentilizie, ha sempre prediletto le armi.

Ottobre 1827