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Presentazione - immac.it · I tesori contenuti nella Sacra Scrittura sono infiniti, e, se ci poniamo in ascolto della Parola di Dio con semplicità e attenzione, ogni volta che

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Presentazione I tesori contenuti nella Sacra Scrittura sono infiniti, e, se ci poniamo in ascolto della Parola di Dio con semplicità e attenzione, ogni volta che apriamo il Libro possiamo scoprire cose nuove. Siamo come il capofamiglia di cui ci parla Gesù nel Vangelo: "Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt 13,52). Nel corso di alcuni anni, sulle pagine del "Messaggio della Santa Casa", abbiamo cominciato a percorrere un itinerario di ricerca su un tema specifico, elaborato un poco alla volta ma sempre affidandoci alla guida della Bibbia. Il cammino continua ancora, ma, a questo punto, desidero offrire alla considerazione dei lettori in questa pubblicazione, una prima parte dello studio, che riguarda le figure di donna contenute nei libri storici della Scrittura. Sono molte. Molte tra loro sono importanti e svolgono un ruolo fondamentale nella storia della salvezza. Alcune sono eroine che il popolo di Israele ricorda ancora come liberatrici della loro nazione. Altre sono donne che soffrono, perché frustrate nel loro desiderio di essere madri e di prendere così parte nel cammino del popolo eletto verso il futuro di gloria messianica. Altre ancora sono vittime dell'arroganza dei maschi e persino umiliate nella loro femminilità. Spesso, nel mondo che ci viene descritto dalla Bibbia, le donne appaiono in secondo piano, rispetto agli uomini. Le lunghe liste di nomi, che riferiscono la successione delle generazioni nelle diverse tribù e famiglie, ricordano quasi esclusivamente nomi maschili. Nei conteggi della popolazione, si specifica sempre che erano calcolati solo gli uomini capaci di portare le armi, lasciando quindi da parte sia le donne sia i bambini, due categorie di persone che valevano poco, al punto che non facevano neppure statistica. La donna è considerata quasi sempre una proprietà dell'uomo, senza diritti propri se non quelli concessi ad essa dal maschio. Anche nelle norme stabilite dalla legge di Mosè, la donna è obbligata a tenersi frequentemente isolata dal contatto con le altre persone, perché la sua condizione femminile la rendeva inadatta alle relazioni sociali. Il valore di una donna era sempre minore di quello dell'uomo; i periodi di purificazione erano per lei sempre più lunghi di quelli richiesti all'uomo. Ma anche entro questi limiti, spesso molto evidenti, le donne della Bibbia manifestano personalità attraenti, e ognuna di loro ha qualche insegnamento da offrirci, per la nostra riflessione. Ognuna di loro ci mostra un esempio di vita, da capire e da imitare oppure da evitare, a seconda dei casi. Una caratteristica comune che possiamo trovare in esse è quella che le rende in qualche modo immagini e forse anche un anticipo della Donna per eccellenza, di colei che sarebbe stata chiamata da Dio a collaborare in maniera unica al progetto di salvezza. Usando un'espressione che adesso va di moda, potremmo dire che le donne dell'Antico Testamento sono spesso delle "icone" di Maria, e ci lasciano intuire qualcuna delle grandezze con le quali Dio ha voluto privilegiare la Madre di Suo Figlio. Ci mettiamo quindi insieme in cammino, per percorrere un itinerario di scoperta, che spero sia interessante e ci insegni qualcosa. Come suggerimento pratico per svolgerlo, indico solo quello, molto semplice, di prendere in mano il libro della Bibbia e di tenerlo a disposizione per leggere, o magari rileggere, le pagine che saranno a mano a mano indicate. Sono sicuro che in quasi tutte le famiglie si possiede un volume della Sacra Scrittura, che forse è esposto in bella vista su uno scaffale, o forse è nascosto in qualche parte dimenticata di casa. Prendetelo in mano, scuotete quel poco di polvere che vi si è posata sopra dall'ultima volta che l'avete aperto — ricordate quanto tempo è passato? — e tenetevi pronti per percorrere un itinerario di scoperta su questo tema. Spero che le diverse figure di donna che la Bibbia ci offre diventeranno per noi familiari e ci aiuteranno a conoscere meglio i tesori di sapienza e di grazia contenuti nel libro Sacro.

Giovanni Tonucci Delegato Pontificio

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Eva, la madre dei viventi

L. Seitz, Eva, particolare della Resurrezione di Cristo, Loreto, Cappella Tedesca.

Il pellegrino, che entra nella Basilica della Santa Casa, è accolto all'ingresso da una serie di scene bibliche, raffigurate nei bassorilievi della grande porta centrale di bronzo. In alto a sinistra si vede la creazione della donna, a destra il peccato originale, e, di seguito, la cacciata dal paradiso terrestre e il lavoro dei primi uomini nel mondo, ormai ostile. In ogni scena appare Eva, la prima donna nella storia dell'umanità, madre di tutti i viventi ma anche compagna dell'uomo nella ribellione a Dio, con quel primo peccato, diventato l'origine e il modello di ogni nostro peccato. Pensiamo a Eva come a una donna bellissima. Formata dalle mani creatrici di Dio, è stata presentata al primo uomo, il quale, conquistato da quella nuova presenza, se ne è innamorato subito ed ha composto per lei il primo poema d'amore nella storia dell'umanità: "Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna, perché dall'uomo è stata tolta" (Gen 2,23). La donna completa l'uomo nell'essere immagine di Dio. Nella narrazione della creazione, Dio prende una decisione: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza" (Gen 1,26). Subito dopo, lo stesso testo ci spiega in che senso l'uomo può essere immagine di Dio: "E Dio creo l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò" (Gen 1,27). L'umanità è quindi immagine di Dio perché è maschile e femminile. La fecondità della coppia è il segno di Dio che crea. Adamo vede in Eva il completamento di cui aveva bisogno, perché, in qualche modo, è solo con la presenza della donna che egli diventa pienamente uomo. Accanto alla bellezza e alla grandezza di Eva, dobbiamo però ricordare anche la sua debolezza nella tentazione. Sarebbe facile mostrare la sua leggerezza, nell'accettare un colloquio che era partito male fin dall'inizio. Ma quello che Eva fece allora è lo stesso che facciamo noi, ogni volta che scegliamo di peccare, allontanandoci dalle indicazioni che Dio ci ha dato. Guardiamo allo svolgimento della storia. Dopo la prima domanda, il serpente suggerisce ad Eva che l'ordine di non mangiare del frutto dell'albero è nato dalla paura che Dio ha di loro: "Dio sa che si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male" (Gen 3,5). Quel Dio che ha dato all'uomo e alla donna il mondo intero, e ha donato loro la facoltà di far nascere nuove vite umane, ha mentito, nascondendo la vera ragione per la quale ha posto quel limite. Questo vuol dire che Dio è bugiardo, Dio è geloso, Dio ha paura: nel momento in cui Eva accetta questo suggerimento, già l'amicizia con Dio è stata infranta. Il gesto concreto di mangiare il frutto, e poi di condividerlo con lo sposo, è del tutto secondario. Per noi è facile essere severi con Adamo ed Eva. Certamente il loro comportamento è stato grave, ed ha portato conseguenze dolorose nella vita di tutta l'umanità. Ma dovremmo anche ricordare che ogni nostro peccato ripercorre lo stesso itinerario: io decido che Dio mi proibisce cose belle, solo per il gusto di rovinarmi la vita; decido che il mio giudizio vale di più del suo; decido che io capisco meglio di lui quello che è bene e male, e che cosa mi serve per

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essere veramente felice. Io decido di conoscere da solo il bene e il male, e rifiuto il desiderio che Dio mi esprime con la sua legge, frutto della sua santità e del suo amore per me. Eva ci appare poi nell'imbarazzo della scoperta di aver distrutto il legame speciale che univa lei ad Adamo, lei alla natura, lei a Dio. La pensiamo nella tristezza dell'abbandono del giardino, segno della fine di un sogno di amore e di predilezione da parte di Dio, che l'umanità ha rifiutato. Ma la vediamo ancora nella gioia e nel dolore della maternità, e l'immaginiamo nel pianto per la perdita di due figli: Abele, il giusto, che muore ucciso dal fratello, e Caino, il geloso che diventa assassino, e che viene bandito dal contatto con il resto dell'umanità. In tanti aspetti Eva è vicina a Maria, che, nella riflessione della Chiesa, è chiamata "nuova Eva", accanto a Cristo, "nuovo Adamo". La disobbedienza, della prima è superata dall'accoglienza completa della volontà di Dio da parte della seconda, manifestata tra le pareti spoglie della casa di Nazareth. E noi, che sappiamo bene di essere "figli di Eva", nei nostri difetti e nel nostro orgoglio, dovremmo impegnarci con amore per aprire il cuore alla grazia di Dio, ed essere ormai soltanto "figli di Maria". La colpa antica apre la strada alla venuta del redentore: Natale è già in vista.

Ada e Silla, testimoni dell'odio

Fratelli Lombardo, Caino uccide Abele,

Porta centrale della Basilica (anno 1600), Loreto. Nel capitolo 4 del libro della Genesi, lo scrittore sacro descrive il dilagare del male nel mondo. Tutto inizia tragicamente con Caino che uccide Abele e poi se ne va, per vivere in una regione lontana. Lì la presenza umana si stabilisce e cresce, mentre crescono anche le abilità tecniche degli uomini: si costruiscono città, si prende cura del bestiame, si inventano i primi strumenti musicali, si comincia a lavorare il bronzo e il ferro. A questo punto si ricorda il nome di un uomo, Lamec, che in tutto ci appare sinistro. È subito descritto come colui che "si prese due mogli, una chiamata Ada e l'altra chiamata Silla" (Gen 4,19). Se ripensiamo alle parole dette da Adamo quando incontrò Eva per la prima volta "Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne" (Gen 2,23) possiamo renderci conto di quanto cammino perverso abbia fatto l'umanità dopo il primo peccato: ormai non ci sono più due persone che si completano a vicenda, come nel progetto voluto da Dio, ma è uno che domina su due, e quindi è convinto di valere il doppio di loro. Ada e Silla restano per noi soltanto due nomi, che partoriscono figli e sono testimoni della oscena vanteria del loro sposo. Lamec è un violento e un vendicativo. Si sente padrone di tutto e di tutti, e le sue due mogli - forse dovrei dire piuttosto due serve, o addirittura due schiave - ascoltano impaurite il suo programma di terrore: "Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l'orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette" (Gen 4,23-24). Dopo l'annuncio del Vangelo, noi siamo abituati a considerare la legge del taglione come qualcosa di inaccettabile e di barbarico. Eppure in essa si dice: "Occhio per occhio, dente per dente". Quello che in essa Dio vuole è una proporzione tra l'offesa e la punizione assegnata.

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Una volta che il danno è, in qualche modo, restituito, non si deve fare di più. Nel canto di Lamec, invece, manca ogni misura e un graffio o un livido sono vendicati con la vita. Ada e Silla non hanno parte in questa ostentazione di crudeltà e ne sono solo silenziose e timorose testimoni. Potete immaginare che con un uomo come quello si potesse discutere o che si potesse addirittura manifestare disaccordo? Certamente no. Eppure non solo io credo le due donne non potessero dire qualcosa contro la cieca violenza del loro sposo — padrone, ma sono anche convinto anche che esse fossero profondamente contrarie a quello che Lamec ha detto. Non lo dico per esprimere soltanto un mio desiderio, o qualcosa su cui mi piace esercitare la fantasia. Leggendo i tre versetti precedenti, vediamo che Ada aveva avuto due figli, l'uno pastore e l'altro musicista; Silla invece ebbe un figlio, che fu fabbro, Tubal-Kain, e una figlia, Naama, della quale non si dice altro. Erano quindi due madri, con figli che hanno sviluppato delle abilità in campi diversi, ma tutti lontani dalle velleità guerriere del padre. Ogni madre è, per sua vocazione naturale, colei che dona la vita e non colei che la distrugge. Ogni madre è pronta a difendere la vita dei figli e prova sentimenti di amore per ogni ragazzo, in cui potrebbe riconoscere un figlio suo. Mi piace quindi pensare ad Ada e Silla come a due donne timide e indifese, ma capaci di trasformare la realtà proprio attraverso la loro mitezza. Due persone, insomma, capaci di pensare così: "Tu, Lamec, dì quello che ti pare, fai pure il gradasso e sporcati le mani con il sangue degli innocenti. Quello che tu non capisci è che, in verità, il futuro lo costruiamo noi, le tue mogli". E difatti, sotto la guida di Ada e Silla, il grido di Lamec fu dimenticato, per lasciare il posto al belato delle pecore di Iabal, alla musica delle cetre e dei flauti di Iubal, e al battito del martello sul ferro forgiato da Tubal-Kain. È purtroppo vero che la barbarie di Lamec si è ripetuta molte volte, anche nei nostri tempi, nella storia crudele degli uomini, in forma di rappresaglie, stermini, decimazioni e bombardamenti a tappeto. Ma di Lamec e del suo canto di vendetta, tanti secoli dopo, si ricorderà Gesù, quando ci chiederà di ribaltare la sua logica perversa e di perdonare invece non sette volte ma settanta volte sette. Forse ora capiamo meglio il senso della sua risposta, che rappresenta il trionfo della mitezza di Ada e Silla.

Sara e il sorriso di Dio

Ludovico Seitz, Sara, Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902).

“La moglie di Abram si chiamava Sarài… Sarài era sterile e non aveva figli" (Gen 11,29-30). Con queste parole è presentato il secondo, grande personaggio femminile della Bibbia. Più tardi, per volontà di Dio, il suo nome fu cambiato in Sara, come quello di suo marito divenne Abramo. Già dall'inizio appare quello che sarà, nello stesso tempo, il desiderio, il dramma, la fonte di dolore e poi di gioia nella vita di Sara: la sua sterilità e l'essere quindi senza un figlio. Una famiglia senza figli era considerata allora come un ramo secco, che non poteva dare più nessun contributo alla grande pianta. Abramo aveva ricevuto da Dio una chiamata e tante grandi promesse: aveva davanti a sé la visione di un grande popolo, numeroso come le stelle del cielo e la sabbia del mare. Ma da dove sarebbe venuto questo popolo, se la sua donna, la bella e tanto amata Sara, non gli aveva dato nessun discendente, mentre ormai essi erano ambedue anziani e al di là dell'età in cui si pub diventare padre o madre.

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Sara era una donna pratica, per cui ha deciso di prendere la cosa nelle sue mani: "Se io non posso partorire, lo farà per me una delle mie schiave. L'egiziana Agar sia la madre dei figli di Abramo". Il progetto funziona e da Agar nasce Ismaele. Ma non è questo il figlio promesso da Dio: le soluzioni umane di Sara non sono quelle che il Signore ha scelto. Lei stessa dovrà essere madre. Quando Dio rinnova la promessa, annunciando anche quale nome avrebbero dovuto dare al loro figlio, Abramo si prostra a terra e ride. Quel suo gesto, quindi, invece di essere di adorazione, è un modo per Mascherare una risata incredula. Più tardi Dio, che si è presentato come ospite nell'accampamento di Abramo, ripete ancora il suo impegno: "Tornerb da te tra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio" (Gen 18,10). Sara ascolta, non vista, dentro la tenda. La predizione di quello strano personaggio le sembra ridicola, e difatti è ora lei a ridere: "Potrò davvero essere madre, avvizzita come sono? E mio marito, poveretto, anche lui è vecchio". Ma la sua risata incredula non è passata inosservata: "Perché Sara ha riso?" Lei prova a negare, ma il fatto è confermato: "Si, hai proprio riso". Ma, alla fine, chi ha riso è stato proprio Dio. Come risposta alla risata incredula di Abramo e alla risata incredula di Sara, nasce Isacco, il cui nome vuol dire proprio questo: "Dio ha riso". Ha riso della sapienza limitata dei suoi amici fedeli, ha riso delle sue stesse leggi di natura e si è permesso un'eccezione: "C'è forse qualche cosa di impossibile per il Signore?" (Gen 18,14). Nella vicenda di Sara e di Abramo, il dono divino della maternità e della paternità appare in tutta la sua ricchezza. Non c'è prerogativa più grande e completa di questa, né c'è dono più esaltante di questo, che Dio ha fatto alle sue creature: la possibilità di dare la vita ad altri esseri come noi. Per quanto si possa essere persone di successo, e si riesca a lasciare un segno nel mondo dell'arte o dell'impresa .o della scienza, nulla mai potrà uguagliare la bellezza di una nuova persona a cui si è data la vita, e che si è lanciata nei sentieri del mondo, a continuare a vivere in questo nostro mondo ed a portare avanti quegli ideali che noi non abbiamo ancora potuto rendere veri. Isacco diventa padre di Esaù e Giacobbe, e i dodici figli di questi sono all'origine delle tribù del popolo di Israele. Il progetto di elezione di Dio, che ha scelto un popolo come suo, è passato attraverso la difficile paternità di Abramo e maternità di Sara. Ricordiamo Abramo come padre dei credenti, perché a lui si rifanno le tre religioni monoteistiche: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Al fianco di Abramo, come madre allo stesso titolo di suo marito, ammiriamo la presenza di Sara, che ha creduto alle promesse di Dio ed ha seguito Abramo nelle sue peregrinazioni. Le sue incertezze ed anche i suoi errori la rendono vicina a noi e partecipe dei nostri limiti umani. Ma le saremo sempre grati della sua risata incredula: h per lì le è costata un rimprovero e quindi una brutta figura di fronte ai messaggeri di Dio. Però, proprio per la sua incredulità, ha spinto Dio a mantenere finalmente la sua promessa ed a sciogliersi lui stesso in un sorriso di compiacimento. Dio ha sorriso per la nascita di Isacco. Possiamo credere che Dio sorrida per la nascita di ogni bambino, che viene al mondo per ricordarci che il progetto di amore del Creato sta ancora oggi continuando.

Agar, la schiava egiziana

T. Vergelli, Agar confortata dall'Angelo,

Porta sinistra della Basilica (1596), Loreto.

Come abbiamo già visto, a un certo punto della sua vita, Sara si era ormai rassegnata al fatto di essere sterile, e di non poter dare ad Abramo l'erede desiderato. Aveva allora offerto a suo marito la possibilità di avere un figlio con

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Agar, la sua schiava egiziana. Questa è la prima volta che, nella Bibbia, sentiamo menzionare la schiavitù e possiamo considerarla soltanto come un'altra tra le tante tristi conseguenze del peccato. Agar dunque rimase incinta, e questo privilegio la fece sentire superiore alla sua padrona, verso la quale cominciò a comportarsi con alterigia e con disprezzo. Come risposta, Sara odiò Agar e la trattò male, mentre Abramo non volle fare nulla per mettere pace tra le due donne e per proteggere la schiava, che pure era ormai la madre di suo figlio. Incapace di sopportare i maltrattamenti, Agar fuggì dal campo e si rifugiò in luogo deserto, ma non era questo il desiderio del Signore per lei. Dio non ha voluto la sua maternità, ma ora che il figlio c'è, egli deve essere protetto e deve avere un futuro: "Partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele" (Gen 16,11). L'angelo portò questo messaggio, ed Agar, confortata da questa assicurazione, tornò da Sara e, a suo tempo, partorì un figlio, che Abramo chiamò appunto Ismaele, nome che si interpreta come "Dio ascolti" oppure "Dio ha ascoltato". Nell'immaginazione di Abramo e di Sara, e forse ancor più in quella di Agar, questi doveva essere il figlio promesso, quello che avrebbe garantito la continuazione della famiglia e del popolo. Una tale soluzione era del resto prevista anche nel diritto di quei tempi, che attribuiva alla coppia principale della tribù ogni figlio nato all'interno di essa. Dio invece precisò ancora una volta la sua promessa: Sara darà un figlio ad Abramo e dovrà essere questo il figlio che raccoglierà l'eredità del patriarca. Questo progetto era talmente assurdo che persino Abramo, il quale era stato capace di mettere in gioco la propria vita in base ad una parola del Signore, non volle credere che ciò fosse possibile, e insistette perché fosse Ismaele a ricevere la benedizione del Signore. La nascita di Isacco compì la parola di Dio, quando Ismaele era ormai un ragazzo vivace e spigliato di quattordici anni. Il fatto perb che Ismaele giocasse con il suo fratellino minore suscitò ancora una volta la gelosia di Sara: "Scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco" (Gen 21,10). Abramo si rattristò per questa situazione, ma il Signore lo incoraggiò a seguire il desiderio di Sara: là dove gli uomini non sono capaci di avere sentimenti nobili, sarà Dio stesso a prendersi cura di Agar e di suo figlio: "Farò diventare una nazione anche il figlio della schiava, perché è tua discendenza". Quella che segue è una scena di grande forza drammatica, con l'intervento di Dio che ne cambia la tristezza in gioia. Abramo diede ad Agar un minimo di provviste, le consegna il figlio "e la mandò via". La poveretta partì, senza sapere dove andare, e, quando esaurì l'acqua dell'otre, non vide altra possibilità che quella di morire insieme con Ismaele. In un gesto di estrema delicatezza, Agar si allontanò dal figlio, abbandonato sotto un cespuglio, perché non voleva vedere quando il ragazzo sarebbe morto. A questo punto, Ismaele alzò la voce e pianse. Lo sentiamo, questo grido disperato che sembra squarciare il cielo e commuovere Dio, il quale ascolta e interviene. Anche ora, il nome di Ismaele dice il vero: Dio ha ascoltato. Un angelo parlò ad Agar e l'assicurò che Dio avrebbe fatto di suo figlio una grande nazione. Agar vide allora una sorgente d'acqua, e così ambedue furono salvi. Ismaele crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d'arco. Da lui ebbe origine un popolo, che conosciamo come i beduini, nomadi capaci di vivere nel deserto, di cui conoscono ogni segreto e da cui sanno trovare i mezzi di sussistenza. Un popolo nobile, ma non parte del popolo eletto. Di Agar ci resta l'immagine finale descritta dall'angelo: "Prendi il fanciullo e tienilo per mano". Un gesto materno, per dare sicurezza al figlio. Gesto che garantisce che quel Dio, che sempre ascolta la voce dei poveri e dei perseguitati, non abbandonerà la schiava egiziana né il giovane Ismaele, né il fiero popolo dei beduini, per i quali il progetto di salvezza di Dio è ora aperto.

Rebecca e la sua anfora

Tiburzio Vergelli, Rebecca al pozzo incontra il servo di Abramo,

particolare, porta sinistra della basilica di Loreto (1597).

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Dopo la morte di Sara, Abramo, ormai molto vecchio, si preoccupò di dare una moglie al figlio Isacco. Se infatti la promessa di Dio doveva essere mantenuta, se da Abramo doveva nascere un grande popolo, era necessario che il giovane Isacco formasse una sua famiglia ed avesse dei figli. Era però desiderio di Abramo che la moglie fosse anch'essa parte della sua famiglia di origine. Un servo è allora mandato nella regione dalla quale il Patriarca, seguendo l'invito di Dio, era partito tanti anni prima, per cercare lì la donna adatta per il suo figlio. Nel capitolo 24 del libro della Genesi leggiamo questa storia, piena di poesia e nello stesso tempo di annotazioni concrete. Sembra quasi che chi ce la racconta fosse presente all'episodio e che, con occhio attento e affettuoso, stesse personalmente seguendo la scena. Il servo di Abramo arriva nella città di Nacor e Ti si ferma presso il pozzo d'acqua, dove le carovane facevano sosta per abbeverare gli animali e dove le donne andavano ad attingere acqua per tutti i bisogno domestici. Ed ecco che arriva Rebecca, "che usciva con l'anfora sulla spalla" (Gen 24,15). Lo scrittore aggiunge che "la giovinetta era molto bella d'aspetto ed era vergine". Poi lo sguardo dell'autore segue Rebecca in ogni suo gesto: "Essa scesa alla sorgente, riempì l'anfora e risalì" (v. 16). Il servo di Abramo aveva fatto un patto con il Signore, che egli chiama "Dio del mio padrone Abramo", ed aveva posto alcune condizioni che potevano indicargli quale fosse la donna che lo stesso Signore destinava ad essere la moglie di Isacco. Egli allora mette alla prova Rebecca e le chiede di poter bere un po' d'acqua dalla sua anfora. Rebecca abbassa in fretta l'anfora e poi propone di dar da bene anche ai cammelli di quest'uomo che per lei era uno sconosciuto. L'anfora è subito vuotata nell'abbeveratoio e Rebecca corre al pozzo per attingere ancora. L'anfora è riempita e vuotata ancora tante volte, fino a quando tutti gli animali hanno bevuto a sufficienza. Mentre la giovane donna è tutta presa da questa intensa attività di servizio, "quell'uomo la contemplava in silenzio, in attesa di sapere se il Signore avesse o no concesso buon esito al suo viaggio" (v. 21). Poco dopo, quando avrà saputo che Rebecca è proprio figlia di un nipote di Abramo, egli ringrazierà il Signore per aver guidato i suoi passi ed averlo condotto proprio là dove la sua missione si sarebbe compiuta nel modo migliore. Lo stesso senso di rispetto alla volontà di Dio appare nella trattativa che segue, nella quale il padre e il fratello di Rebecca riconoscono l'intervento della provvidenza: "La cosa procede dal Signore, non possiamo replicarti nulla, né in bene né in male" (v. 50). Rebecca sarà quindi la sposa di Isacco, ed il loro matrimonio, dal quale nasceranno due figli gemelli — Esaù e Giacobbe — fu un matrimonio felice, vissuto nella reciproca fedeltà. Nel seguito della storia, vedremo Rebecca come madre molto parziale nei confronti di Giacobbe, di cui lei apprezzava la mitezza e l'intelligenza, a scapito di Esaù, che era invece violento e poco docile. Ma quella che ci rimane impressa è la sua prima immagine, nella sua prontezza nel servire, con quell'anfora piena d'acqua, che diventa, oltre che lo strumento, anche il simbolo della sua generosità. Ci chiediamo infatti per quale ragione quell'oggetto sia stato menzionato tante volte, quando, per la chiarezza della descrizione, esso poteva essere lasciato da parte. Non è l'unico caso, nella Bibbia, in cui vediamo i diversi scrittori che si soffermano a descrivere l'anfora, al di là, ci sembra, della sua importanza reale, e diversi altri li vedremo in seguito, in queste nostre riflessioni. Ma fin da ora, possiamo pensare a Maria, fanciulla di Nazareth, che, anche lei con la sua anfora, si recava alla fonte per attingere acqua. Era una funzione quotidiana per ogni donna ebrea, e anche oggi, nella cittadina di Galilea, possiamo recarci a quel pozzo, proprio lo stesso da cui Maria prendeva l'acqua per le faccende domestiche di ogni giorno. La giovane Rebecca, con la sua anfora, ci anticipa l'immagine di Maria, pronta al servizio dei suoi due uomini, e al servizio di tutti noi: quello che l'anfora presenta come simbolo, diventa reale nell'amore e nella disponibilità della Madre di Dio a offrire tutta la sua vita al Signore, per cooperare nel piano della redenzione. "La giovinetta era molto bella d'aspetto, era vergine": quello che l'antico scrittore ci racconta di Rebecca è detto anche di Maria. Bellezza e grazia, amore e servizio: per Dio e per noi.

Rebecca e il suo velo

G. Vannini (secolo XVII), Rebecca al pozzo, Kunsthistorsches Museum, Vienna.

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Quando avevo finito di scrivere la riflessione precedente, volevo prendere congedo dalla nostra bella Rebecca, ormai promessa sposa di Isacco, per passare ad un altro dei tanti personaggi femminili della Bibbia, ma, scorrendo il resto di quel medesimo capitolo 24 della Genesi, ho rivisto un dettaglio che mi è subito saltato agli occhi e mi è sembrato troppo bello per essere lasciato cadere. Mi fermo ancora un momento con lei, e vi prego di seguirmi in questa seconda lettura, che si limita a pochi versi, ma che ci guida in una esplorazione molto ricca. Rebecca, insieme con il servo di Abramo, ha ormai lasciato la casa di suo. padre ed ha intrapreso un lungo itinerario, dalla Mesopotamia fino al deserto del Negheb, per raggiungere la regione nella quale vive, come nomade, il suo promesso sposo. La possiamo vedere, issata su uno dei cammelli della carovana, affrontare le fatiche del viaggio, compiuto sotto il sole cocente di quelle lande, in cui zone di vegetazione si alternano con altre semi desertiche, e in cui strade battute sono seguite da piste appena segnate dal passaggio dei nomadi, sulla terra riarsa, cosparsa di pietre e sassi, con appena qualche arbusto stentato e polveroso. L'incontro tra i due giovani è descritto dalla Scrittura con una sobrietà estrema, ma così efficace da farci sentire, ancora una volta, testimoni di quel momento: "Intanto Isacco rientrava dal pozzo di LacaiRoi; abitava infatti nel territorio del Negheb. Isacco uscì sul far della sera per svagarsi in campagna e, alzando gli occhi, vide venire i cammelli. Alzò gli occhi anche Rebecca, vide Isacco e scese subito dal cammello". Lo scrittore è troppo bravo per perdersi in dettagli inutili: in quello scambio di sguardi c'è l'immediato sorgere di un amore vero, la manifestazione di una promessa data e che ora trova il suo compimento. Rebecca lo ha sentito, e per questo è scesa dal cammello, pronta a incontrare l'uomo del suo destino, quello che il Signore le aveva preparato e verso il quale lei, in piena libertà, aveva scelto di andare. Quello che segue è ancora più bello, ed è di una delicatezza sorprendente: "(Rebecca) disse al servo: 'Chi è quell'uomo che viene attraverso la campagna incontro a noi?' Il servo rispose: 'È il mio padrone'. Allora essa prese il velo e si coprì". Nel fare la sua domanda, la giovane conosce già la risposta che il servo le darà: ha intuito che quello era Isacco, e, con molta discrezione chiede su di lui, riferendosi semplicemente a "quell'uomo". E allora, qual è il senso del suo gesto di velarsi il viso, quando quello che ella sta per incontrare è proprio colui che sarà suo marito? Rebecca, "la giovinetta di bell'aspetto e vergine", sa che, nel progetto di Dio, il matrimonio unisce per sempre la vita di due persone, che si donano l'uno. all'altra in corpo e spirito. Quel gesto, di coprirsi il volto proprio di fronte all'uomo a cui lei si donerà, simboleggia in maniera delicatissima ma efficace tutto il senso dell'incontro sponsale: sono velata per te, e solo per te e di fronte a te toglierò il velo, perché tu mi possa contemplare; ti sono ancora estranea, ma mi conoscerai e da questa conoscenza scaturirà la bellezza pura del nostro amore. Questa parte della storia di Rebecca ed Isacco si conclude così: "Il servo raccontò ad Isacco tutte le cose che aveva fatte. Isacco Introdusse Rebecca nella tenda che era stata di sua madre Sara; si prese in moglie Rebecca e l'amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della madre". Isacco ci appare come un uomo triste e forse anche debole. Ha sofferto per la morte di sua madre, ed ha bisogno di un cambio forte nella sua vita per trovare consolazione. Il resto della narrazione biblica, che passa ben presto a raccontare le vicende dei suoi due figli, mette più in risalto l'accortezza astuta di Rebecca che la forza di determinazione di Isacco. Eppure egli è un uomo di pace, mite e desideroso di evitare i conflitti con i suoi vicini, ed a lui Dio rinnova la promessa di benedire la sua discendenza. A differenza di altri patriarchi, Isacco è sposato con una sola donna, e in lui vediamo quindi una figura esemplare, che qualcuno ha voluto avvicinare a Giuseppe, lo sposo di Maria. E certamente Rebecca, nel suo pudore verginale che è insieme una promessa serena di intimità, ci fa pensare a Maria, turbata all'annuncio dell'angelo ma pronta ad accogliere con fede piena la promessa del Signore.

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"Lia aveva gli occhi smorti"

Lia e Rachele nell'invenzione di un pittore dei secoli XIX-XX.

Il libro della Genesi descrive Lia, figlia di Labano e sorella maggiore di Rachele, come una donna che aveva "gli occhi smorti" (Gen 29,17). Non è facile capire in che cosa consistesse questo difetto, anche perché i diversi traduttori della Bibbia e i vari commenti che ho consultato si limitano a ripetere là stessa espressione, senza spiegarla. Dal dizionario italiano, vedo però che degli occhi si dice che sono smorti quando sono "privi di vitalità, inespressivi, spenti". Niente di drammatico, di per sé. Ma il punto fondamentale è che, o per questo difetto o per altre ragioni, la donna che piaceva a Giacobbe non era Lia, ma la sua sorella più giovane, Rachele. Giacobbe, in fuga dalle ire del fratello Esaù, al quale egli, con l'inganno, aveva rubato la benedizione paterna, si era posto a servizio di suo zio Labano, fratello di sua madre Rebecca. Innamoratosi di Rachele, Giacobbe aveva lavorato sette anni per avere il diritto di sposarla. Quando finalmente tutte le condizioni esose poste da Labano erano state compiute e la festa di matrimonio era in corso, questi aveva introdotto nella camera nuziale non Rachele ma Lia. La donna era velata, la luce era poca e forse Giacobbe aveva ecceduto nel bere durante le celebrazioni ed era quindi discretamente stordito. Sta di fatto che il pover'uomo, dopo aver lavorato tanto per poter sposare Rachele, si è trovato con una moglie diversa, che egli non amava. Quando la mattina dopo si rese conto dell'inganno, Giacobbe protestò con Labano, il quale, astuto e spregiudicato, rispose presentando la scusa che, nella tradizione locale, non si poteva dar sposa una ragazza più giovane, prima che la maggiore fosse anch'essa sposata. Ma la situazione poteva essere risolta facilmente: che Giacobbe, ormai sposato con Lia, si prenda anche Rachele, e lavori altri sette anni per sdebitarsi con lui. Lia, che sapeva di essere stata sposata per inganno, non fu mai amata dal marito, che ebbe sempre la sua preferenza per la bella Rachele. Ma, ci narra il libro della Genesi, "il Signore, vedendo che Lia veniva trascurata, la rese feconda, mentre Rachele rimaneva sterile" (Gen 29,31). Le ripetute maternità di Lia non le ottennero l'amore di Giacobbe, ma le diedero una posizione di prestigio, perché era lei che garantiva al Patriarca una posterità, divenendo madre di ben sei figli maschi, ognuno dei quali sarà all'origine di una delle dodici tribù del popolo d'Israele. La gioia di Lia, nel dare alla luce i suoi figli, fu espressa con la scelta del nome per ciascuno di loro: Ruben — "Il Signore ha guardato la mia afflizione"; Simeone - "Il Signore ha udito che io ero trascurata"; Levi - "Mio marito si affezionerà"; Giuda - "Loderò il Signore"; Issacar "Dio mi ha dato il mio salario"; Zabulon - "Dio mi ha fatto un bel regalo". A questo proposito, possiamo notare un dettaglio che è un po' sgradevole: mentre per ogni figlio maschio il nome dato viene spiegato, con l'espressione dei sentimenti provati dalla madre, in occasione della nascita della figlia, il nome è soltanto ricordato, senza nessun commento: "In seguito partorì una figlia e la chiamò Dina" (Gen 30,21). La vicenda amara di questa ragazza - il primo episodio di violenza sessuale registrato nella Bibbia - verrà raccontata nel cap. 34 dello stesso libro. Con uno svolgimento che fa pensare a episodi vicini a noi, la passione cieca di un giovane principe provoca una catena di vendette, che, invece di concludere e superare lo squallido episodio, lo rendono ancora più tragico. Lia, sposa infelice e madre feconda, è una figura un po' triste, sempre cosciente che suo marito non vuole bene a lei come all'altra sposa. Ma il Signore della storia ha uno sguardo di benevolenza particolare per chi è considerato il meno privilegiato, ed offre a lei una dignità che Rachele non avrà. Tra i dodici patriarchi del popolo eletto, Giuda sarà prescelto come il più importante, anche se non è il primogenito. Dalla sua discendenza nascerà Davide, il

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grande re d'Israele, capo della dinastia alla quale Dio ha promesso di regnare per sempre. Dalla discendenza di Davide nascerà infatti il Messia, il salvatore atteso per secoli. La genealogia di Gesù parte da Abramo, Isacco e Giacobbe, e giunge allo sposo di Maria, Giuseppe, della famiglia di Davide, della tribù di Giuda. La povera Lia, la sposa meno amata di Giacobbe, nonostante le umiliazioni subite in vita, o forse proprio per questo, è diventata l'antenata di Gesù, il Messia.

"Mentre Rachele era bella"

Ludovico Seitz, Rachele, Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902).

Abbiamo conosciuto Lia, la donna dagli "occhi smorti", che Giacobbe aveva sposato ma non aveva scelto. Accanto a lei, il libro della Genesi presenta la figura della sorella minore, Rachele, che viene invece descritta in toni positivi: "Rachele era bella di forme e avvenente di aspetto, perciò Giacobbe si innamorò di Rachele" (Gen 29,17-18). Se ricordiamo quello che era accaduto con Lia - il matrimonio combinato con l'inganno, il trattamento freddo del marito, che non l'amò mai - potremmo pensare che Rachele, in contrasto con lei, abbia avuto una vita felice. Ma non fu così. Il dramma di Rachele è descritto dopo la narrazione del doppio matrimonio di Giacobbe: "Ora il Signore, vedendo che Lia veniva trascurata, la rese feconda, mentre Rachele rimaneva sterile" (Gen 29,31). La diversa situazione delle due donne, nella mentalità della Bibbia, viene attribuita a Dio, che, attraverso il suo intervento, cerca di rendere giustizia alla sposa meno amata. Per Rachele, lo stato di sterilità era umiliante e pericoloso: una donna senza figli non aveva futuro; il marito poteva rimandarla a casa di suo padre, come inutile; e arrivando alla vecchiaia, essa si sarebbe trovata sola, senza nessuno che si prendesse cura di lei. Giacobbe amò sempre Rachele, e non pensò mai di mandarla via. Ma il fatto che Lia avesse già generato quattro figli a Giacobbe, mentre lei ne restava senza, aveva provocato in Rachele una forte gelosia verso la sorella. La sua amarezza si sfoga contro il marito: "Dammi dei figli, se no io muoio!" Giacobbe, che certamente soffriva per non poter aver figli proprio dalla moglie amata, le risponde con asprezza, e, invece di consolarla, rincara la dose: "Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?" (Gen 30,1-2). Sorge allora l'idea di trovare soluzioni facili al problema: che Giacobbe prenda una schiava, ed abbia da lei dei figli, che saranno considerati come figli di Rachele. Ma ora, come scrive il Libro Sacro, "Dio si ricordò anche di Rachele; Dio l'esaudì, e la rese feconda. Essa concepì e partorì un figlio e disse: 'Dio ha tolto il mio disonore'. E lo chiamò Giuseppe dicendo: 'Il Signore mi aggiunga un altro figlio' (Gen 30,22-24). Giuseppe fu il figlio preferito da Giacobbe, perché nato dalla moglie che egli amava. Da ragazzo, Giuseppe,rivelò doti straordinarie di intelligenza e di intuizione, ebbe sogni che annunciavano per lui un futuro di grandezza, e per questo suscitò la gelosia dei fratelli, che cominciarono a odiarlo e finalmente lo vendettero a dei mercanti di schiavi.

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Quando accadde questo episodio, diventato provvidenzialmente causa di salvezza per l'intera famiglia, Rachele era già morta. Era rimasta incinta una seconda volta ma, al tempo della nascita, il parto si rivelò difficile. La levatrice, per darle coraggio, le annunciò che anche questo secondo figlio era un maschio. Nel sistema patriarcale di quel tempo, solo i figli maschi entravano nella linea di successione, dato che le figlie, con il matrimonio, erano destinate a lasciare la famiglia. Ma l'incoraggiamento non bastò per risolvere una situazione fisica ormai compromessa. Rachele morì, ma, con l'ultimo soffio di vita espresse un desiderio che manifesta tutta la sua amarezza: che il figlio fosse chiamato Ben-Oni, nome che significa "figlio del mio dolore". Fortunatamente, Giacobbe non volle rispettare l'ultimo desiderio della sua amata Rachele. Un figlio non può essere condannato a portare un nome come quello, che farebbe sempre ricordare un episodio triste e che lo accompagnerebbe come un segno di amarezza e di sfortuna. Il bambino ricevette il nome di Beniamino, "figlio di buon augurio". Invece di essere visto con malevolenza, per aver provocato la morte della madre, Beniamino fu amato da suo padre e dai fratelli, al punto che il suo nome è diventato, in tutte le lingue, un sinonimo per "preferito". La vita triste di Rachele lascia quindi nei suoi figli due tracce positive: il primo, il salvatore d'Egitto e del popolo d'Israele, e il secondo, il ragazzo benvoluto, il 'beniamino' di tutti. Il nome di Rachele è ricordato dal Vangelo di Matteo, che cita il profeta Geremia, nell'episodio della strage degli innocenti. Anche se solo in filigrana, vediamo in lei l'immagine di Maria, madre dolorosa, chiusa nella sua sofferenza per la perdita del Figlio, Lui, che è il vero Salvatore dell'umanità intera e punto di riferimento dell'amore di tanti.

Dina, vittima della prima violenza

James Tissot, Rapimento di Dina (1836-1902).

Quando la prima coppia umana decise di poter fare a meno dell'amicizia di Dio, e scelse di camminare lontano da lui, provocò una serie di conseguenze gravi nella vita del mondo, che fu, da allora, piagata dall'ostilità e dal disordine. Dopo di essersi separati da Dio, la cosa peggiore che poteva accadere ad Adamo ed Eva era proprio quella di essere divisi tra di loro. La donna non era più per l'uomo "osso delle mie ossa e carne della mia carne" (Gen 2,23), ma soltanto "quella che tu, Dio, hai messo vicino a me" (Gen 3,12). Quasi a dire: non ho nulla a che fare con lei, non la conosco, e comunque la colpa di tutto è tua perché tu me l'hai messa accanto. Già da allora cominciava il gioco del dare sempre la colpa agli altri e, alla fine, di dare la colpa a Dio. Subito dopo, il Signore deve prendere atto di quello che è accaduto e avverte l'umanità delle conseguenze. Tra queste, anche quella che riguarda appunto la relazione tra uomo e donna: "Verso tuo marito ti spingerà la tua passione, ma egli dominerà su di te" (Gen 3,16). Chi conosce bene la lingua ebraica, ci dice che questa ultima espressione, che parla di dominio, indica una vera e propria oppressione, e quindi una violenza. Dina, figlia di Giacobbe e di Lia, è la prima vittima di questa volontà di oppressione da parte dell'uomo verso la donna. Ne leggiamo la storia all'inizio del capitolo 34 della Genesi, che ci narra che Giacobbe arrivò nella terra di Canaan e si accampò di fronte ad una città chiamata Sichem: "Dina, la figlia che Lia aveva partorito a Giacobbe, uscì a vedere le ragazze del posto. Ma la notò Sichem, figlio di Camor l'Eveo, principe di quel territorio, la rapì e si coricò con lei facendole violenza". La sobrietà del racconto non toglie nulla all'orrore dell'accaduto, e sentiamo una

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spontanea compassione per la giovinetta che, avendo vissuto tutta la sua vita nell'accampamento del padre, in continuo spostamento, come accade ai nomadi, era contenta di trovarsi in una città, per sbirciare le altre ragazze e ammirarne i vestiti e le acconciature. Non vole‘;a altro e, nella sua ingenuità, non poteva immaginare di subire una sorte così triste. Ugualmente spontaneo è condannare l'operato del giovane principe, incapace di controllare le proprie passioni, al punto di trattate una persona, e per di più sconosciuta, come un semplice strumento di piacere. Subito dopo, però, avviene un cambiamento, che potrebbe trasformare la storia e preparare un lieto fine: Sichem si innamora di Dina, le dice parole di conforto e vuole sposarla. Dal modo in cui egli parla al padre, capiamo che non sta proponendo una squallido matrimonio di riparazione, ma che in verità in lui è nato un amore sincero per la sua vittima e quindi il desiderio di vivere con lei. Anche nel rivolgersi a Giacobbe e ai suoi figli, Sichem si mostra sincero e disposto a pagare qualsiasi prezzo per la dote: "Alzate pure molto a mio carico il prezzo nuziale; vi darò quanto mi chiederete, ma concedetemi la giovane in moglie" (Gen 34,12) Ne seguono gli accordi con Giacobbe, che però i suoi figli, offesi nel loro onore — non, a pensarci bene, nell'onore di Dina, che non compare più — cercano soltanto l'occasione per compiere una vendetta atroce contro Sichem e tutti i suoi. Per farlo, essi adoperano proprio la circoncisione, che doveva essere il segno indicato da Dio per segnalare l'appartenenza al suo popolo. Facendosi circoncidere, quel gruppo di persone avrebbe siglato un'alleanza sacra con la famiglia di Giacobbe e sarebbe entrato a far parte della stessa grande tribù. Il segno dell'alleanza con Dio diventa invece la trappola per rendere indifesi i cittadini di Sichem, sofferenti per l'operazione e in attesa di guarirne. Il progetto criminale dei figli di Giacobbe riesce e quella che segue è l'uccisione di tante persone indifese e del tutto innocenti. Alla fine del massacro, i fratelli, bugiardi e assassini, "portarono via Dina dalla casa di Sichem e si allontanarono". Vorremmo chiederci se, in quel breve tempo, anche Dina aveva sviluppato un sentimento di amore per Sichem, che ora l'amava, e se, dopo l'umiliazione subita, non fosse ormai disposta a condividere con lui una storia cominciata male ma che poteva diventare bella e felice. Ma non lo possiamo sapere. I suoi fratelli, prepotenti come Sichem nel suo primo impulso, non le hanno chiesto nulla e così la povera Dina, prima nella storia di dolore dell'umanità, è stata violentata non una ma due volte.

"Giuda generò Fares e Zara da Tamar"

Scuola di Rembrandt (secolo XVII), Giuda e Tamar,

Residenz Gallery, Salisburgo.

Queste parole sono tratte dall'inizio del Vangelo di Matteo, in quella pagina, strana e bellissima allo stesso tempo, che è la genealogia di Gesù. Quello di Tamar è il primo nome di donna che vi appare, ed è una donna che non dà un buon esempio. Il capitolo 38 del libro della Genesi ci narra la sua storia. Vale la pena leggerlo per intero, ma fin da ora possiamo anticipare il fatto scandaloso: la sua maternità è stata originata da un incesto, perché Tamar era nuora di Giuda. Giuda era uno dei dodici figli di Giacobbe e, benché non fosse il primogenito, era stato scelto dal padre per avere la preminenza sui fratelli. Aveva tre figli e il primo di questi, chiamato Er, sposò Tamar, ma morì senza avere figli. In questo caso, secondo una tradizione antica, che fu poi ratificata nella legge di Mosè, si applicava il "levirato". Per

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capire di cosa si tratta, possiamo leggere quello che dice il libro del Deuteronomio: "Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele" (Deut 25,5-6). Per questo, Tamar fu data come sposa al fratello minore di Er, Onan. Questi però non volle avere figli, sapendo che il primo sarebbe stato non suo ma del fratello defunto. Anch'egli morì e Tamar rimase vedova una seconda voltà e senza la speranza di sposare il terzo figlio di Giuda, Sela, a quel tempo troppo giovane. Restare senza figli era la condanna più grave per una donna, che non contava nulla: non aveva nessuna sicurezza per il suo futuro, perché nessuno si sarebbe preso avuto cura di lei, e, peggio ancora, non lasciando discendenti, il suo nome si sarebbe perduto per sempre. Nella sua disperazione, Tamar ricorre allora ad un rimedio estremo: finge di essere una prostituta, seduce Giuda e dall'incontro con lui rimane incinta. Quando la maternità di Tamar divenne evidente, la notizia fu portata a Giuda che, senza investigare oltre e, senza farsi tanti scrupoli, decretò che la vedova infedele fosse uccisa al rogo. Tamar però aveva conservato con sé gli oggetti che Giuda le aveva lasciato, come pegno per il pagamento del servizio reso. Questi indicavano chi era stato l'uomo responsabile della sua maternità, e denunciavano proprio Giuda. Di fronte a questa rivelazione imbarazzante, Giuda ha il coraggio di riconoscere la propria colpa: quando il figlio Sela era ormai in età di prendere Tamar come moglie, egli non aveva agito secondo il diritto, perché aveva paura che anch'egli morisse, come i fratelli. E quindi confessa: "Lei è più giusta di me, infatti io non l'ho data a mio figlio Sela" (Gen 38,26). Il comportamento di Tamar è gravemente colpevole, ma quello di Giuda lo è ancora di più, perché, oltre ad aver violato la tradizione, aveva voluto usare una donna come strumento di un momento di svago, senza nessun senso di responsabilità e di rispetto. Questo atteggiamento, purtroppo, non è raro: anche oggi si sente parlare della piaga della prostituzione, e si pensa sempre e solo alle povere donne che, per tante ragioni, drammatiche o squallide, mettono in vendita il loro corpo. Dovremmo piuttosto mettere sotto accusa i clienti, che, per la loro richiesta, provocano un mercato infame e ne sono i primi responsabili. Loro ben più colpevoli e ben più spregevoli di quelle che sono, comunque le si voglia vedere, le vittime della loro spregiudicatezza. Quindi ecco che Tamar, contro ogni speranza e contro ogni legalità e decenza, è diventata madre, e madre di due gemelli, che ricevettero i nomi di Peres e Zara. Il completamento che il Nuovo Testamento porta all'Antico, ci fa cogliere l'aspetto sorprendente di questa storia. Nella genealogia di Gesù, entra anche il nome di Tamar, la donna vedova e incestuosa, ed anche il nome del suo primo figlio, Peres, il quale ha continuato la successione di generazioni che, a suo tempo, ha portato all'ultimo anello: "Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo". Quel particolare scabroso ci ricorda che cosa ha voluto dire per Gesù entrare a far parte della nostra umanità.

La moglie di Potifàr

Rembrandt (1606-1669), Potifar accusa Giuseppe,

National Gallery of Art, Washington.

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Dopo aver incontrato una donna non proprio esemplare, come Ta-mar, mi sarebbe piaciuto parlare di una figura bella, tra le tante che la Sacra Scrittura ci presenta. Per seguire il cammino storico della Bibbia, dobbiamo invece fermarci ancora a contemplare una donna della quale non si può proprio dire nulla di buono. In compenso, possiamo ammirare il personaggio centrale di questa storia, che è il patriarca Giuseppe, uno dei dodici figli di Giacobbe. Le vicende di Giuseppe sono narrate nei capitoli 37-48 della Genesi. Le sue avventure si leggono come un romanzo: i fratelli invidiosi lo vendono come schiavo; arriva in Egitto; interpreta i sogni e prevede la carestia futura; diventa il più immediato collaboratore del Faraone e, per questo, pub salvare la sua famiglia, restituendo ai fratelli solo bene in cambio del male ricevuto. In mezzo c'è l'episodio della moglie di Potifàr, che mette in risalto la bellezza anche interiore del giovane. Molti dei fatti che leggiamo nella storia di Giacobbe ci lasciano stupiti ed anche scandalizzati, per la facilità con cui alcuni personaggi compiono azioni immorali. Quando, alla fine della sua vita, Giacobbe lascia ai figli le sue ultime raccomandazioni, ne ricorda anche il cattivo comportamento. È quindi con un sospiro di sollievo che leggiamo le pagine dedicate a Giuseppe. Nel cap. 39, l'autore sacro racconta che Giuseppe, venduto dai fratelli, era stato comperato da un dignitario della corte del Faraone, Potifàr, il quale apprezzò le qualità del suo servo e gli affidò la conduzione della casa. Ma - e qui troviamod'origine di nuovi guai - il testo aggiunge: "Ora Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto". Quel che segue non ci sorprende, ma ci addolora: "La moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse. 'Coricati con me". Sembra una delle solite storie, con la tentazione che si presenta e con il seguito che si immagina. Una tentazione in fondo facile, perché la padrona di casa non farà chiasso sulla vicenda e avrà tutto l'interesse a proteggere e favorire il complice. Una tentazione anche pericolosa: come si fa a dire di no alla padrona, che può farti del bene, ma potrà farti anche del male? Così accade in questa circostanza. Giuseppe resiste alle sollecitazioni della donna, e, ricordando il suo dovere come servo, indirettamente fa notare a lei il suo dovere come sposa: "Il mio signore mi ha dato in mano tutti i suoi averi. Non mi ha proibito nient'altro, se non te, perché sei sua moglie". Ed aggiunge ancora una frase, il cui significato ci tocca tutti: "Come dunque potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?" Giuseppe capisce il significato dell'atto che gli è chiesto: violazione della lealtà verso il padrone e tradimento contro il vincolo del matrimonio. Ma insieme, e ancora di più, un peccato contro Dio, che ha stabilito la santità del matrimonio e l'esclusività dell'intimità fisica tra gli sposi. Giuseppe afferma un insegnamento valido anche oggi: le mie azioni non dipendono soltanto dalle mie fisime personali e del momento. La fedeltà è richiesta dalla natura stessa del matrimonio ed è richiesta da Dio. La castità prima e fuori del matrimonio è la migliore preparazione per una vita famigliare felice ed è richiesta da Dio. I comandamenti del Signore non erano stati ancora proclamati, le espressioni della sessualità umana non erano ancora santificate da un sacramento, ma il giovane Giuseppe ha proclamato questi valori ed ha pagato il duro prezzo per esservi fedele. Ed è un prezzo davvero duro, perché la moglie di Potifàr, invece di accogliere l'invito di Giuseppe, si sente offesa nel suo orgoglio. Lo schiavo che non consente alle sue voglie è accusato proprio di quello che ha rifiutato di fare. Nessuno crederebbe alla parola di uno schiavo, che è accusato proprio dalla degnissima moglie del padrone, del quale aveva tradito la fiducia. Giuseppe finisce in prigione, e la donna ha la sua vendetta, in attesa, possiamo pensare con un po' di malignità, di trovare consolazione con qualche altro schiavo "bello di forma e attraente di aspetto". Non possiamo che ammirare la correttezza di Giuseppe. I suoi fratelli l'hanno odiato perché parlava loro sinceramente di quello che sperimentava; la moglie di Potifàr l'ha odiato perché ha rifiutato la sua seduzione e l'ha richiamata al suo dovere di moglie. Ha pagato ogni volta per la sua onestà, ma ha preferito la verità alla menzogna, la castità al tradimento. Non è un esempio da poco: quello che la Provvidenza ha poi fatto con lui è la risposta data a chi volesse considerare che il comportamento virtuoso di Giuseppe è stato una scelta perdente.

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Maria e il suo tamburello

Tiburzio Vergelli, Passaggio del Mar Rosso con Maria e le fanciulle ebree

che suonano il tamburello e cantano le lodi a Dio, particolare della Porta sinistra in bronzo della basilica di Loreto (1590-1592).

Che la si chiami Maria, o Miriam come nel testo ebraico, importa ......poco: nel nome della sorella di Mosè e di Aronne sentiamo già il suono del nome, dolce e amato fra tutti, della nostra Madre celeste. Basta questo per guardare con affetto a questa donna e per spingerci a dedicare la nostra attenzione al ruolo che ella ha ricoperto nella storia della salvezza. Maria appare per la prima volta nel libro dell'Esodo, al capitolo 2, ed è identificata come "la sorella del bambino", nella scena del salvataggio del piccolo Mosè da parte della figlia del Faraone. È lei che propone alla principessa di chiamare la madre del bambino che lo potesse allevare. Dopo di allora, la ragazza scompare di scena, per ricomparire quando già l'epopea dell'Esodo è cominciata. Il faraone, che si è testardamente opposto a lasciar partire gli Ebrei, è stato infine costretto a mandarli via, perché il suo popolo è stato sottoposto a gravi prove - le dieci "piaghe" d'Egitto - con un prezzo da pagare che si è rivelato troppo alto. Questo grande gruppo di gente sbandata, senza un'identità precisa, senza una cultura propria, senza leggi né tradizioni, è ormai in cammino verso una terra che nessuno di loro conosce, ma della quale il Signore ha loro promesso il possesso. Nel loro avanzare, arrivano di fronte al mare, che sbarra il passaggio. Proprio allora si rendono conto che il faraone, pentitosi di averli lasciati partire, se è messo a inseguirli con i suoi carri di guerra e sta per piombare loro addosso. Il pericolo è grande e immediato, e il popolo è già pentito di aver lasciato l'Egitto. A che serbe essere liberi, se poi si deve finire massacrati? "Facevamo meglio a restare schiavi in Egitto. Ora moriremo tutti in questa solitudine" (v. Es. 14,10-12). Ma Dio veglia sul popolo che si è scelto: le acque si aprono e lasciano passare gli Ebrei, mentre diventano una trappola mortale per gli Egiziani. Giunto all'altra sponda del mare, il popolo eletto si scopre veramente libero e, grazie all'intervento di Dio, vincitore. Mentre Mosè canta un inno di lode al Signore, troviamo di nuovo Maria ché, preso in mano un tamburello, guida le donne a cantare e danzare, proponendo un ritornello di lode al Dio vincitore: "Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare" (Es. 15,21). Di fronte alla liberazione miracolosa, nessuno si prende il merito di quello che è accaduto: solo a Dio va la lode e il ringraziamento. In questo canto, possiamo sentire un anticipo di quell'altra composizione poetica, con la quale l'altra Maria, di fronte alla cugina Elisabetta, ha ricordato le grandi opere compiute da Dio, che solo è santo e che ha esercitato la sua misericordia verso tutti i suoi figli (v. Lc. 1,46-55). La somiglianza tra le due Marie, purtroppo, termina qui. Perché l'altro episodio nel quale la sorella di Mosè è ricordata, si riferisce ad una storia di invidia e gelosia. Pare che a Maria ed Aronne non piacesse la sposa etiope che Mosè si era scelto. Per questo, essi parlarono contro Mosè, e giunsero anche a mettere in dubbio il suo diritto di guidare il popolo: "Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?" (Num. 14,2). Mosè, che era molto umile non si difese, ma Dio stesso ristabilì le cose, proclamando la sua speciale relazione con Mosè e condannando Maria ad essere lebbrosa e, come tale, ad essere esclusa dall'accampamento.

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Solo per l'intercessione dello stesso Mosè, Maria fu guarita e, dopo un isolamento di sette giorni, fu riammessa in seno al popolo. Vediamo bene quanto è diverso l'atteggiamento della prima Maria e quello di Maria di Nazareth: la sua gioia sta nel lodare Dio e nell'esaltare la grandezza del Signore, mentre di sé afferma solo la pochezza: "Ha guardato l'umiltà della sua serva". Di fronte alla rivelazione della missione affidata al suo Figlio, Maria conserva tutto nel suo cuore, meditando e rispettando un progetto divino che le era manifestato. Senza ostentare la sua parentela con il Maestro, nei momenti del suo successo, la Madre rimane nascosta. E le sue ultime parole, consegnate a noi come tesoro prezioso nel Vangelo di Giovanni, sono l'istruzione data ai servitori delle nozze di Cana: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela" (Gv. 2,4). Parole che continuano ad essere la più grande e importante lezione che Maria ci consegna: ascoltare la parola di Gesù e metterla in pratica.

Raab, donna di fede

Raab e le spie di Giosuè, Scuola Italiana del secolo XVII, Museo di Nimes.

Raab è una donna importante, perché è stata menzionata due volte el Nuovo Testamento e presentata come modello da seguire. Anche se in ambedue i casi si ricorda la sua vita disordinata, Raab è lodata nella Lettera agli Ebrei per la sua fede: "Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori (11,31). San Giacomo, nella sua lettera, aggiunge una seconda considerazione: "Così anche Raab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un'altra strada?" (2,25). E allora, vediamo chi era Raab e perché ha meritato di essere ricordata con delle lodi così generose. Troviamo la sua storia nel capitolo 2 del libro di Giosuè, che narra l'ingresso del popolo ebreo in Palestina. Dopo la morte di Mosè, al quale Dio non aveva permesso di entrare nella terra promessa, Giosuè, che di Mosè era stato uno stretto collaboratore, divenne la guida del popolo. Una città fortificata sbarrava il cammino degli Ebrei: Gerico. Agli occhi di gente che, per quaranta anni, era vissuto sotto le tende, la visione di una città circondata da mura sembrava straordinaria: troppo potente per loro, che non avevano che armi primitive e non erano organizzati come un esercito. Giosuè mandò avanti degli esploratori, che entrarono a Gerico, per studiarne le fortificazioni e scoprire i possibili punti deboli delle mura. I due uomini furono accolti benevolmente da Raab, la quale subito prese l'iniziativi di proteggerli, nascondendoli dal re, che aveva mandato i suoi agenti per farli arrestare. A questi la donna spiegò che, effettivamente, c'erano stati lì due Ebrei, ma che dopo una breve sosta, se ne erano andati. Forse, se le guardie andavano subito, li potevano ancora raggiungere. Non c'è dubbio che Raab ha, in questo caso, detto una bugia, ed ha agito contro l'interesse della sua città. Qual'era la ragione per il suo comportamento? Ce lo spiega lei stessa, nella conversazione con gli esploratori che ha salvato: "So che il Signore vi ha consegnato la terra (...) Udimmo che il Signore ha prosciugato le acque del Mar Rosso davanti a voi, quando usciste dall'Egitto (...) Il Signore, vostro Dio, è Dio lassù in cielo e quaggiù sulla terra" (Gios 2,9.10.11). Quindi Raab, grazie ad una intuizione o ad una ispirazione, ha capito che il popolo d'Israele, anche se si presentava come un'accozzaglia di nomadi senza organizzazione e senza cultura, aveva una forza unica: quella che gli era data dalla protezione del suo Dio. Allora, nella mentalità primitiva della gente di quei tempi, ogni popolo aveva un suo dio,

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che aveva autorità e poteva agire solo in un territorio ben preciso. Raab invece è stata capace di accogliere nel suo cuore la fede nel Dio di quel nuovo popolo, e per questo ha favorito la missione delle spie e, in definitiva, la caduta di Gerico nelle mani degli ebrei. Dio l'ha scelta come strumento del progetto per la liberazione del suo popolo. Quello che Raab era prima dell'incontro con i due esploratori non ha più importanza. Quello che conta è che ha avuto fede in Dio e che ha manifestato la sua fede con gesti concreti, importanti per la storia di Israele. Alla caduta di Gerico, lei sola, insieme con tutta la sua famiglia, fu risparmiata e, coronando un idillio iniziato forse durante il breve incontro di quella sera, Raab divenne la sposa di uno dei due esploratori, Salmon e di conseguenza la madre.di Booz, uno degli antenati del re Davide. Ma una volta che abbiamo ricordato questo particolare, devo correggere quello che ho scritto all'inizio: il nome di Raab non è ricordato due volte nel Nuovo Testamento, ma tre. La prima menzione, con il nome scritto "Racab", la troviamo nella genealogia di Gesù con la quale inizia il Vangelo di Matteo: "Salmon generò Booz da Racab" (1,5). È il secondo nome di donna che compare nella lista dei progenitori di Gesù, e, come nel caso di Tamar, è il nome di una donna dal passato ambiguo. Ma ne deriva un messaggio che è, ancora una volta, di grande consolazione per tutti noi: nella nostra vita, quello che conta è l'essere capaci di compiere la nostra missione nel piano di Dio. La nostra vita di peccato è cancellata dalla Sua misericordia, se capiamo di essere un anello, più o meno importante, nella lunga catena dell'amore provvidente del Signore.

Debora sotto la palma

A. Tiarini (1577-1668), Debora e Barak sotto la Palma,

Reggio Emilia, Santuario della Madonna della Ghiara, dipinto eseguito nel 1619.

Con la caduta di Gerico in mano agli Israeliti, grazie alla collaborazione di Raab, ebbe inizio un periodo travagliato nella storia del popolo eletto, con la lenta conquista del territorio che si estende tra il Giordano e il Mare Mediterraneo, e che in passato, prima dell'emigrazione in Egitto della famiglia di Giacobbe, era stato teatro delle peregrinazioni di Abramo. Era questa la terra fertile nella quale "scorre latte e miele", che Dio aveva promesso di dare al Suo popolo. Durante gli anni della conquista, che avvenne con guerre sporadiche, compiute ora da una tribù ora da un'altra, in momenti di emergenza, il comando del popolo era assunto da personaggi chiamati "giudici", nome che indica una guida temporanea, per un certo numero di anni o, addirittura, per una sola impresa di liberazione. Nel cap. 4 dei libro dei Giudici, ai v. 4-5, leggiamo queste informazioni: "In quel tempo era giudice d'Israele una donna, una profetessa, Debora, moglie di Lappidit. Ella sedeva sotto la palma di Debora, tra Rama e Betel, nelle montagne di Efraim, e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia". È l'unica donna che ebbe il titolo di "giudice". Il suo nome in ebraico significa "ape", ma non sappiamo se il nome si riferisse alle sue qualità, oppure se appartenesse alla sua famiglia o al suo clan. Debora era dotata di autorità e di saggezza, ed era capace di emettere giudizi, che il popolo apprezzava e rispettava.

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Da quello che segue, vediamo che era anche una donna decisa. È lei che trasmette al comandante Barak gli ordini del Signore. Sisara, capo dell'esercito dei cananei, a nome del suo re Iabin, opprimeva gli Israeliti. Dio vuole che si combatta contro il nemico, e indica a Barak il piano per la battaglia. Barak andrà qdindi a combattere, ma, per sentirsi più sicuro, chiede che Debora vada con lui, altrimenti non andrà. Debora accetta ma chiarisce una cosa: "Per questa battaglia la gloria non sarà tua, perché il Signore consegnerà Sisara nelle mani di una donna". Più tardi, è ancora Debora a decidere il momento per dare inizio alla battaglia: "Alzati, perché questo è il giorno in cui il Signore ha messo Sisara nelle tue mani". Come vedremo nel prossimo numero, effettivamente la gloria di quel giorno non sarà di Barak, ma di una donna straniera: Gioele, colei che, grazie ad uno stratagemma, darà la morte al generale dei cananei. Dopo aver 'condotto gli Israeliti alla vittoria, Debora dedicò a Dio un poema, nel quale canta le lodi del Signore, e anche, molto di più, le lodi di se stessa. Questa composizione è considerata uno dei testi più antichi del Vecchio Testamento. In esso Dio è descritto come un comandante valoroso che cammina alla testa dei suoi soldati e compie imprese grandi. Il canto ricorda poi un fatto purtroppo frequente nella storia del popolo di Israele: si dimenticava il Dio salvatore per cercare altri dèi, si lasciava da parte l'alleanza del Sinai per dedicarsi ai culti aberranti praticati dai popoli vicini. La guerra e l'oppressione erano la conseguenza di questo tradimento. Il popolo si allontanava da Dio e voleva andare avanti da solo, ma non faceva altro che causare del male a se stesso. In questa situazione, "era cessato ogni potere, era cessato in Israele, finché non sorsi io, Debora, finché non sorsi come madre in Israele" (Gdc 5,7). Questo bel titolo di madre, che Debora si attribuisce con fierezza, ci fa pensare al momento cruciale nella storia della salvezza, quando Dio, per portare a compimento il suo piano per salvare noi suoi figli dalla schiavitù del peccato, ha scelto una Madre, che avrebbe dato al mondo il Suo Figlio. Attraverso la divina maternità, Maria è diventata Madre di tutti noi. Nei giorni che ci avvicinano al Natale, il nostro pensiero si rivolge a Maria, strumento ben più importante del progetto di amore di Dio verso di noi. Nel suo cantico, Debora loda meritatamente se stessa, per il ruolo che ha svolto nella guerra contro i cananei. Nel canto del "Magnificat", Maria, che si è definita umile serva del Signore, loda invece le grandi cose fatte dall'Onnipotente e ricorda che solo il suo nome è santo. Non giudichiamo male la brava Debora: ha fatto bene quello che Dio le ha chiesto di fare. Ma certamente, la grandezza di Maria, la Madre di Gesù, è molto maggiore e ricordarla con gratitudine è sempre un gesto che compiamo con gioia.

Giaele e il suo martello

L. Ferrari (secolo XVII) Giaele, Sisara e Barak (1648),

Reggio Emilia, Madonna della Ghiara.

Il mese scorso abbiamo incontrato Debora, la quale, prima della battaglia degli ebrei contro i filistei, aveva annunciato che la gloria di quella giornata sarebbe stata conquistata da una donna. Questa donna sarebbe stata Giaele, moglie di Cheber, un uomo del quale sappiamo soltanto che si era separato dalla sua tribù ed aveva piantato la tenda vicino al luogo in cui i due eserciti nemici avrebbero combattuto la loro battaglia.

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Tra i ricordi lontani dei tempi di scuola, mi torna in mente un passaggio della poesia di Manzoni "Marzo 1821", nel quale il poeta, citando i gesti con i quali Dio aiutò il suo popolo, scrive: "Quel che in pugno alla maschia Giaele / pose il maglio ed il colpo guidò". Ricordiamo infatti Giaele per il suo gesto, coraggioso e spregiudicato, con il quale uccise il generale delle truppe filistee, che fuggiva dal campo di battaglia, dopo essere stato sconfitto dagli uomini di Barak. L'episodio è descritto in dettaglio dallo scrittore sacro (Giudici 4,1722): Sisara corre a piedi verso la tenda di Cheber, con il quale il suo re è in pace, e Giaele gli va incontro e lo invita a rifugiarsi nella sua tenda. Lo accoglie, gli offre del latte, lo copre con una coperta e lo lascia dormire, perché era sfinito. Prima di addormentarsi, però, Sisara le raccomanda di proteggere il suo nascondiglio: "Se qualcuno ti chiede, dì che qui non c'è nessuno". Giaele ha così offerto a Sisara la completa protezione della sua ospitalità, che era qualcosa di sacro e inviolabile. Quello che accade subito dopo stravolge questo principio e mostra Giaele senza dubbio "maschia" ma andie bugiarda e traditrice. Con un martello la donna pianta un picchetto della tenda nella tempia di Sisara che è addormentato e nell'impossibilità di difendersi. A Barak, che arriva poco dopo, Giaele annuncia la morte di Sisara: "Vieni e ti mostrerò l'uomo che cerchi". Anche nel canto di Debora, che segue il racconto, l'impresa di Giaele è descritta con qualche compiacenza macabra (5,24-27). Si immagina anche quello che dovette accadere a casa di Sisara: la madre si affaccia alla finestra, preoccupata perché il figlio tarda a tornare, ma le sue ancelle la tranquillizzano: "Dopo la vittoria, il generale sta dividendo la preda; vedrai che arriverà presto, e porterà con sé qualche bel regalo per sua madre". Tutta la storia di Giaele ci lascia un sapore amaro in bocca: come è possibile che diventi una eroina, lodata per le sue imprese, una donna che viola la legge sacra dell'ospitalità, tradisce il suo ospite e lo uccide quando questi è del tutto indifeso? Non è questo il primo episodio sconcertante, nella Storia della Salvezza, né sarà l'ultimo. Ma la narrazione ci presenta quello che accadde in quel giorno tragico e ricorda che, attraverso l'atto coraggioso, anche se cinico, di Giaele, il popolo d'Israele fu liberato dalla schiavitù di popoli nemici. Nell'interpretazione che gli scrittori sacri danno a queste storie, si capisce bene che essi attribuiscono a Dio ogni gesto che aiuta a salvare il popolo eletto ed a garantirne l'indipendenza. Per questo, anche questa donna è stata strumento del Signore per un atto provvidenziale. La mentalità di quel tempo ci appare grossolana, ma dobbiamo sempre ricordare che, in quei tempi e in quelle condizioni, il messaggio evangelico dell'amore per i nemici e del perdono per chi ci fa del male era ancora lontano, e del tutto straniero al modo di pensare e di sentire di allora. Da parte nostra, possiamo trarne un insegnamento che però non guarda al fatto in se stesso, ed alla esecuzione spietata di un nemico. Vediamo Sisara come l'incarnazione del male e del peccato, che vuole soggiogare me con la sua potenza e le sue seduzioni. Non è certo il caso di patteggiare con il male: la tentazione, comunque si presenti, deve essere respinta subito e con fermezza. Il "no" deciso, con il quale dobbiamo rispondere al suggerimento di commettere un peccato, pub somigliare al martello ed al picchetto di Giaele, che non lascia al nemico il tempo di reagire e di diventare pericoloso. I valori in gioco sono troppo importanti per essere messi a rischio dalla nostra incertezza. In quei tempi si trattava di preservare la libertà di Israele. Ora per me si tratta di preservare la mia fedeltà al vangelo e di permettermi di continuare a vivere nell'amore del Signore. Prendiamo quindi l'esempio di Giaele e del suo martello. Ma, sia ben chiaro, solo in un senso del tutto spirituale.

Una donna e la sua macina

Morte di Abimelech, miniatura del secolo XIII, New York, Biblioteca Pierpont Morgan.

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Quando ho cominciato ad esplorare la Sacra Scrittura, per scrivere degli articoli sulle donne che vi compaiono, pensavo che me la sarei cavata nello spazio, più o meno, di un anno. Invece più vado avanti, più sono costretto a rendermi conto che di donne ce ne sono tante e che ognuna di esse ha un messaggio da trasmettere, che non sarebbe giusto trascurare e mettere da parte. Oggi, ad esempio, incontriamo una donna che non ha neppure un nome: di lei sappiamo solo che era una degli abitanti della cittadina di Tebes, rifugiatasi con gli altri in una torre posta in mezzo alla città, per resistere all'assedio posto da Abimelec, figlio di Gedeone e capo del popolo di Israele per tre anni. La sua vicenda è narrata nel capitolo 9 del libro dei Giudici. Alla morte di suo padre Gedeone, Abimelec volle prenderne la successione come guida del popolo e, con molto cinismo e crudeltà, assoldò degli avventurieri e fece uccidere tutti i suoi fratelli. Così tutti i possibili contendenti erano morti, ed egli si fece proclamare re di Israele. Rimase in vita solo Iotam, il fratello minore, che si era nascosto. Questi, quando vide che Abimelec era stato accettato come re dagli Israeliti, pronunciò una maledizione contro suo fratello, che si avverò proprio con l'episodio che vedremo ora. Dopo un primo periodo di tranquillità, Abimelec si trovò ad dover affrontare l'ostilità dei suoi vicini. Ne seguì una serie di battaglie e di scaramucce. Inorgoglito da alcuni successi, egli pose l'assedio alla città di Tebes. Qui, più che coraggioso egli si dimostrò imprudente, e, con l'intenzione di dare fuoco alla porta della torre dove si erano rinchiusi i suoi nemici, si avvicinò troppo alle mura. "Una donna gettò giù il pezzo superiore di una macina sulla testa di Abimelec e gli spaccò il cranio". Quando si visitano le rovine di Cafarnao, si possono ammirare alcune antiche pietre da mulino, per macinare il grano ed altri cereali. Ma quelle sono grosse, e certamente nessuna persona normale avrebbe potuto sollevarne una e scaraventarla in basso. La macina usata dalla donna della nostra storia doveva essere una piccola macina per uso domestico, trasportabile ma abbastanza pesante, comunque, da provocare grossi danni a chi la ricevesse in testa dall'alto di una torre. La reazione di Abimelec ci sorprende. Egli si rende conto di essere ormai spacciato e allora chiama il suo scudiero e gli fa una urgente richiesta: "Estrai la spada e uccidimi, perché non si dica di me: `Lo ha ucciso una donna'. Si direbbe che in quel momento supremo, l'unica sua preoccupazione fosse quella di far dimenticare il fatto, per lui umiliante, che la pietra che gli aveva fracassato il cranio era stata lanciata da una donna. Il giovane scudiero eseguì l'ordine del suo comandante: "Lo trafisse ed egli morì". La figura di Abimelec è triste: ha preso il potere con il tradimento e si è reso colpevole di fratricidio; ha voluto proclamarsi re, ma la sua regalità non ha lasciato traccia nella storia di Israele, nella quale il primo re ad essere considerato tale fu Saul e, dopo di lui, il grande re Davide, esempio e punto di paragone per ogni sovrano dopo di lui. Il tentativo di Abimelec di nascondere il modo della sua uccisione ci appare meschino e dettato da un forte senso di disprezzo per le donne, quasi che la morte per mano di una donna fosse un'umiliazione insopportabile per un guerriero valoroso come lui. Invece, la Scrittura legge in questo episodio l'esecuzione della maledizione lanciata da Iotam contro Abimelec: "Così Dio fece ricadere sopra Abimelec il male che egli aveva fatto contro suo padre, uccidendo settanta suoi fratelli". Della donna che è stata la responsabile della morte di questo re fasullo, non possiamo che dire bene: è stata una donna coraggiosa e forte, che, quando la torre in cui si era rifugiata era assalita dai nemici, invece di avere paura e di nascondersi, ha saputo reagire energicamente, ha partecipato alla difesa ed ha usato tutto quello che aveva a disposizione: anche la sua macina. E nel lanciarla, ha avuto una mira molto accurata, perché ha colpito fatalmente il capo degli assalitori ed ha provocato la rinuncia degli ebrei all'assedio. Una vera salvatrice del suo popolo, degna di essere ricordata con ammirazione, anche se il suo nome non è stato registrato dalla storia. E nonostante il trucco finale di Abimelec, la verità rimane quella che lui non voleva che si sapesse: a ucciderlo è stata proprio una donna.

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La figlia di Iefte

Giovanni Antonio Pellegrini (1675-1741), Il ritorno di Iefte,

Sammlung D. Mahon, Londra.

Dopo la donna forte e coraggiosa, che provocò la morte di Abimelec, incontriamo un'altra donna senza nome. Questa però ha dei caratteri più precisi ed è disegnata con tratti pieni di delicatezza e di umanità. Si tratta della figlia di Iefte, che fu giudice di Israele per sei anni. La sua storia si trova nei capitoli 11 e 12 del libro dei Giudici. Siamo ancora nel tempo che seguì l'entrata del popolo d'Israele nella regione di Canaan, la terra che il Signore aveva promesso ad Abramo e che ora, occupata da altri popoli, doveva essere conquistata un po' alla volta e difesa contro gli attacchi di vicini ostili. Iefte era "un guerriero forte", ma era disprezzato dai suoi fratelli perché nato da una donna non sposata con suo padre. Questi lo avevano addirittura mandato via di casa e gli avevano negato la sua parte di eredità. Quando però il popolo degli Ammoniti, nemici di Israele, fecero loro guerra, si pensò a Iefte, che avrebbe potuto essere il loro comandante. Iefte fece notare ai suoi la loro incoerenza: "Prima mi cacciate da casa e poi venite da me, perché siete in difficoltà?" Ma infine accettò di guidare il suo popolo in guerra, chiedendo però di diventare capo di tutti gli abitanti della regione. Al momento di cominciare le ostilità contro gli Ammoniti, Iefte fece una promessa al Signore: "Se tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io lo offrirò in olocausto". La guerra fu vinta e Israele ottenne un grande trionfo. Quando Iefte tornò a casa, accadde qualcosa di terribile: a venirgli incontro fu proprio la sua unica figlia, che uscì danzando al suono del tamburello. Il padre sciagurato ricordò subito la sua incauta promessa, e la rivelò alla figlia: "Ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi". La fanciulla comprese l'importanza dell'impegno assunto dal padre, non rifiutò di morire ma chiese solo di avere del tempo: "Lasciami libera per due mesi. Me ne andrò con le mie compagne per i monti a piangere perché muoio senza essermi sposata". Abbiamo già visto, attraverso l'esempio di altri personaggi, come fosse importante, per ogni donna nel popolo d'Israele, essere sposata ed essere madre. Chi moriva senza figli non aveva futuro: in assenza di una fede chiara nella sopravvivenza dell'anima, si pensava che l'unico modo per avere una continuità di vita fosse quello di generare figli, i quali avrebbero mantenuto vivo il nome dei genitori. La figlia di Iefte doveva morire quando era ancora a casa con i suoi genitori, e il matrimonio era ancora per lei una possibilità remota. La sua morte in età così giovane la cancellava completamente dalla storia del popolo eletto, nella quale ella non avrebbe potuto svolgere il ruolo che poteva sperare, anche perché figlia di un padre coraggioso e investito di autorità. Ci commuove il peregrinare della fanciulla per due mesi in luoghi solitari, a piangere con le compagne perché doveva morire senza marito e senza figli. Tornò poi a casa e il padre "compì su di lei il voto che aveva fatto". La tragica conclusione dell'episodio è espressa con una sobrietà quasi pudica. Il commento che segue aggiunge un

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tocco di tenerezza: "Di qui venne in Israele questa usanza: le fanciulle d'Israele vanno a piangere la figlia di Iefte, per quattro giorni ogni anno". A questo punto, dobbiamo rispondere a una domanda che ci poniamo tutti: è proprio vero che Iefte doveva mantenere la promessa che aveva fatto? La risposta è: no. La sua promessa era senza valore perché prevedeva la distruzione della vita di una persona, verso la quale egli non aveva nessuna autorità. La vita è di Dio e non nostra, e i sacrifici umani sono sempre stati condannati come forma aberrante di culto. La legge di Mosè chiedeva che ogni primogenito fosse offerto al Signore, ma al posto suo si sacrificava un animale. Ricordiamo che proprio per questo, quando Gesù fu presentato al tempio, i suoi genitori offrirono in sacrificio due colombe (Lc 2,22-24). Questo tipo di sacrificio si chiama "vicario", perché qualcuno offre se stesso al posto di altri. Noi abbiamo presente il sacrificio per eccellenza: quello di Gesù, immolato sulla croce per salvare tutti noi dai nostri peccati. L'uccisione dell'innocente figlia di Iefte ci ricorda soltanto quanto lontana fosse ancora l'umanità dal capire il valore di ogni vita umana, che è sacra di fronte a Dio, Signore della vita.

La madre di Sansone

Agostino da Locate, Manòach e la moglie,

Cantoria sant. Madonna della Bocciola, Vacciago (NO).

G. Flinck (1615-1660), Mantiach e la moglie, Museo Belle Arti, Budapest.

Sembra che la Sacra Scrittura si diverta a presentare, una dopo l'altra, soltanto donne delle quali non conosciamo il nome. Prima la forte abitante di Tebes che uccise Abimelec, poi la dolce figlia di Iefte, sacrificata per l'assurda promessa del padre, e ora la madre di Sansone, l'eroe della forza e dell'astuzia, straordinariamente robusto nel suo corpo, acuto nell'intelligenza ma debole nel carattere, facile all'ira e facilissimo a cedere al fascino di donne più belle che virtuose. Ma veniamo a sua madre, moglie di Manòach, della quale, nel capitolo 13 del libro dei Giudici si dice: "Sua moglie era sterile e non aveva avuto figli". Ancora una volta siamo di fronte al dramma di una famiglia, che la sterilità - sempre attribuita alla donna - condannava all'estinzione, senza che avesse la possibilità di continuare ad essere parte del grande progetto di salvezza che Dio aveva per il suo popolo. Nell'Antico Testamento, perb, l'annuncio della sterilità di una donna prepara quasi sempre una nascita importante, per farci capire che il nascituro sarà un dono di Dio ai suoi genitori e all'intera nazione di Israele. La tristezza della moglie di Manòach sta quindi per trasformarsi in una grande gioia per lei e per tanti altri.

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Ecco infatti che l'angelo del Signore venne ad annunciare la nascita di un figlio, che sarà consacrato al Signore fin da prima di uscire dal grembo della madre e avrà la missione di salvare i suoi compatrioti dalla servitù dei Filistei, che ormai da quarant'anni stavano dominando nel paese. L'angelo era apparso alla donna quando il marito era assente. Lei gli riferì quello che l'angelo le aveva detto, e Manòach pregò il Signore di mandare ancora il suo messaggero, per spiegare quello che si doveva fare per il bambino. Anche la seconda volta l'angelo apparve in assenza di Manòach, ma la donna corse a chiamare il marito, che venne subito e ascoltò l'annuncio e le istruzioni sul comportamento da seguire. Pieno di emozione e di contentezza, Manòach avrebbe voluto trattenere l'ospite per pranzo: in poco tempo avrebbe preparato un capretto! Ma l'angelo non ha bisogno di mangiare: il capretto poteva essere offerto in sacrificio al Signore. Mentre il fuoco consumava la vittima, l'angelo sali al cielo "con la fiamma dell'altare". Soltanto in questo momento Manòach e la moglie si resero conto di aver parlato non con un uomo qualsiasi ma con un angelo del Signore. Qualunque cosa o persona vicina a Dio era considerata talmente santa che nessuno poteva avere contatti con essa: vedere un angelo era come avere visto Dio stesso, e la convinzione comune era che nessuno potesse vedere Dio e restare in vita. Il Signore l'aveva detto a Mosè sul monte Sinai: "Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo" (Es. 33,20). Manòach ricordava bene questa affermazione del libro sacro, e per questo esclamò: "Moriremo certamente, perché abbiamo visto Dio". Ma è qui che sua moglie seppe rivelare la sua saggezza, il suo spirito pratico, e persino la sua migliore conoscenza di Dio: "Se il Signore avesse voluto farci morire, non avrebbe accettato dalle nostre mani l'olocausto e l'offerta, non ci avrebbe mostrato tutte queste cose né ci avrebbe fatto udire proprio ora cose come queste". È proprio vero: Dio ha preso l'iniziativa di far sapere ai due anziani coniugi che diventeranno i genitori di un bambino che, una volta diventato uomo, sarà il salvatore del suo popolo. Questo suo gesto è pieno di bontà e di attenzione per loro e per tutto Israele: perché quindi dovrebbe portare tristezza, o addirittura la morte? Di fronte all'immagine che Manbach aveva di un Dio lontano e severo, sua moglie sembra dirci: "Ma no: Dio non è così. Il Signore è buono e non ha nessuna intenzione cattiva nei nostri confronti. Proprio lui ci ha fatto ricevere una buona notizia, che cambia completamente e in bene la nostra vita. Dobbiamo ringraziarlo e avere fiducia in lui". In questo modo, la madre di Sansone ci aiuta a capire quanto più fortunati siamo noi, che abbiamo ricevuto la rivelazione di un Dio che è nostro Padre e che ci ama fin da prima che noi lo potessimo conoscere. Dio ci chiede di accogliere il stip amore e ci offre la possibilità di diventare suoi strumenti per portare a tutti l'annuncio della salvezza. Noi dobbiamo amare e rispettare Dio, ma mai avere paura di lui. È consolante pensare che, anche in quell'epoca lontana, tanto tempo prima dell'incarnazione di Gesù, c'è stato chi ha saputo capire, o almeno intuire, che Dio è amore.

Dalila e le sette trecce di Sansone

Rembrandt (1606-1669), Dalila taglia i capelli di Sansone,

Rijksmuseum di Amsterdam.

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Parlando la volta scorsa della madre di Sansone, avevo anticipato una caratteristica di questo grande eroe, dotato di tanta forza e di tanta astuzia, ma con un carattere debole e facilmente conquistato dal fascino di donne non molto raccomandabili. Nel libro dei Giudici, la vita di Sansone è descritta nei capitoli 14-16. Vale la pena di leggerli per intero, anche perché sono come una storia di avventure, quasi un romanzo breve, con una fine triste ma gloriosa. Sansone, ormai uomo fatto, volle sposare una donna filistea, membro quindi del popolo da sempre nemico degli Ebrei. I genitori non erano d'accordo con la sua scelta: "Possibile che non ci sia qui nessuna donna che ti piaccia? Devi sposarti proprio con una straniera?" Sansone insistette e questo matrimonio gli costò molto, perché la moglie fu sempre più fedele alla sua famiglia che a lui. Già durante la festa di nozze, quando Sansone aveva proposto agli invitati un indovinello, sua moglie insistette per conoscere la soluzione, che poi rivelò ai suoi ospiti. Così Sansone dovette pagare loro il premio, che altrimenti essi avrebbero dovuto pagare a lui. Anche Dalila era una donna straniera, e la sua prima fedeltà era per il suo popolo e i suoi dèi. Sansone se ne innamorò, e anche con lei le cose andarono male. I capi dei Filistei, che per anni erano stati umiliati dalla forza e dall'astuzia di Sansone, pensarono che questa donna potesse essere lo strumento per avere finalmente ragione del loro nemico. In cambio del tradimento, ciascuno di essi le promise "millecento sicli d'argento". triste notare che ogni tradimento debba essere compensato con monete d'argento. Quello che si voleva da Dalila era di scoprire non la soluzione di un indovinello, ma il segreto della forza straordinaria di Sansone. Si dice sempre che la forza di Sansone risiedeva nei suoi capelli, mai tagliati. A dire la verità, i capelli in sé non erano importanti, ma lo era quello che essi significavano. Fin da prima della nascita, Sansone era stato dedicato a Dio e questo impegno si manifestava con alcuni atteggiamenti precisi: non mangiare cibi proibiti, non bere alcolici, non radersi il capo. A queste promesse Sansone era stato fedele, e il Signore lo aveva quindi protetto e guidato, e gli aveva dato la capacità di sconfiggere i suoi nemici. Dalla gli chiese di rivelarle il segreto, ma egli le raccontò false ragioni. Che Dalila avesse una intenzione cattiva era evidente: quando Sansone inventava una nuova storia, lei metteva alla prova quanto aveva saputo e chiamava i suoi complici per arrestare Sansone. Ogni volta l'eroe era stato capace di liberarsi, ma poi cadeva ancora nella trappola che la seduzione della donna preparava per lui. Dopo tre tentativi andati a male, finalmente Dalila trovò le parole giuste per fare breccia nel cuore di Sansone: "Come puoi dirmi: 'Ti amo', mentre il tuo cuore non è con me? Già tre volte ti sei burlato di me e non mi hai spiegato da dove proviene la tua forza così grande". Siamo quindi di fronte ad una richiesta di "prova d'amore", usata tanto spesso per ingannare l'ingenuità di chi ama davvero e non dovrebbe essere spinto a fornire prove, facendo cose scorrette. Sansone, per la sua debolezza di carattere, cedette alle insistenze della donna, anche se la sua malafede era evidente. Il segreto fu svelato e, mentre Sansone dormiva, Dalila fece tagliare le sette trecce in cui era raccolta la sua abbondante capigliatura. Dalila ricevette il denaro promesso e scomparve dalla scena. Sansone fu incatenato, accecato e ridotto allo stato miserevole di un prigioniero impotente, usato per girare la macina del mulino e per far divertire i suoi carcerieri. Nell'umiliazione della prigionia, Sansone volse però il cuore a Dio e la nuova crescita dei capelli fu il segno esterno della sua conversione. La forza, dono del Signore, gli tornò e Sansone la usò per infliggere un'ultima più grave sconfitta ai Filistei, pagata con il prezzo della sua stessa vita: "Che io muoia insieme con i Filistei!" è il suo ultimo grido. Il sacrificio di sé nobilita l'intera vita di Sansone, che diventa un lontano anticipo del sacrificio di Cristo per la salvezza di noi tutti. Dalila, con il suo inganno, resta nella nostra memoria solo come esempio triste di seduttrice avida e priva di scrupoli morali. È pur vero che ha agito così per amore del suo popolo, ma per questo ha ingannato qualcuno che pensava di essere amato da lei. Ed è proprio questo l'inganno più triste.

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Noemi, la suocera saggia e realista

Karl W. Streckfuss (1817-1896), Noemi e Rut.

Apriamo insieme un libretto che, nella Bibbia, è collocato tra il libro ..dei Giudici e il 1° libro di Samuele. È composto da appena 4 capitoli e, nella Bibbia in italiano, occupa 6 pagine, introduzione e note comprese. Il che vuol dire che potete prenderlo subito e leggerlo per intero. Ne vale la pena, sia per la brevità sia per la bellezza. Si tratta, ovviamente, del libro di Rut. La storia è questa: una famiglia di ebrei, originaria di Betlemme, deve emigrare nel territorio di Moab, a sud-est del Mar Morto. La famiglia è formata dal padre, Elimèlec, dalla madre, Noemi, e da due figli. Il padre muore e i due figli, ormai adulti, sposano due donne della regione, Orpa e Rut. Poi anche i due figli muoiono e Noemi rimane sola con le nuore, che non sono ancora diventate madri. Decide allora di tornare a Betlemme e invita quindi le giovani nuore ad andare presso le rispettive famiglie, per non dover vivere in un paese straniero e per poter cominciare una nuova vita. Orpa e Rut non vogliono lasciare Noemi sola, e sono disposte ad andare con lei in Giudea. I l futuro per la povera donna è incerto e lei insiste perché le due giovani prendano la loro strada e si costruiscano una nuova vita. Orpa, finalmente, saluta con affetto Noemi e torna a casa. Rut invece resta con lei. Proprio in queste pagine, abbiamo nella Bibbia l'unica descrizione del rapporto tra suocera e nuora. Nelle conversazioni tra amici, se ne parla come di qualcosa di sempre grottesco o addirittura drammatico. La suocera è semplicemente diventata un punto di riferimento per racconti divertenti e per barzellette, un po' come accade, da noi, per le storie dei carabinieri. Ma, come nel cago dei carabinieri, si tratta di modi di generalizzare che spesso non hanno una vera corrispondenza con la verità dei fatti. E qui, nel libro di Rut, abbiamo proprio la descrizione di una donna concreta e affettuosa, che non mostra nessuna gelosia nei confronti della sua giovane nuora, che invece lei aiuta a trovare il cammino giusto nella vita. Il grande desiderio di Noemi è che Rut possa essere pienamente felice, che trovi un marito e diventi madre. Lo dice lei stessa: "Figlia mia, non devo forse cercarti una sistemazione, perché tu sia felice?" (3,1). La felicità di Rut sarà anche la felicità di Noemi, la quale, nell'eventualità di un matrimonio e di una maternità di Rut, diventerà nonna ed avrà quindi il privilegio di sentire che la sua vita non è stata inutile, che il suo nome e il nome di suo marito non saranno dimenticati, che lei continuerà ad avere un suo ruolo nella grande storia del popolo che Dio ha scelto come il suo prediletto. Possiamo ora chiederci: cosa aveva ormai a che fare Noemi con Rut, che era la vedova di suo figlio? Qualora si fosse sposata di nuovo con un altro uomo, la sua parentela con questi e con i figli che fossero nati sarebbe stata lontana, senza ormai nessun vincolo di sangue. Eppure Noemi ha ormai accolto Rut come sua figlia, e così ella rimane, anche quando suo marito non c'è più. Noemi consiglia Rut nel modo giusto, ne utilizza la generosità e la buona volontà e la spinge a fare le scelte più opportune in quel momento. L'esperienza della vita e la conoscenza delle tradizioni del suo popolo servono a Noemi per condurre le cose in modo che ne nasca un risultato positivo per tutti. Rut non è forzata a operare delle scelte che non desidera, ma soltanto aiutata a condursi nel modo più adeguato in quel momento. Dietro di lei, che si muove con grazia e disponibilità, c'è Noemi, attenta e affettuosa, pronta a dare il suo aiuto per garantire che tutto vada per il meglio.

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La storia di queste due donne è esemplare. Abbiamo ora considerato soltanto Noemi, la suocera rimasta vedova e senza eredi. Completeremo lo studio di questo libretto, guardando anche all'altra donna, la giovane Rut, la quale diventerà un importante punto di riferimento nella sua famiglia, dalla quale avrà origine il grande re Davide. Il nome di Rut è menzionato anche nella lista dei progenitori di Gesù, che Matteo pone all'inizio del suo Vangelo. Abbiamo già ricordato questo elenco, quando abbiamo parlato di Tamar e di Raab. La prossima volta daremo la nostra attenzione a Rut e, ammirando le sue virtù, avremo un anticipo dello spirito di carità che ha sempre animato la vita di Maria, la Madre di Gesù, l'ultima donna di quella genealogia. Ma di tutte, la più grande.

Rut, la donna di carità

Thomas Matthews Rooke, Storie della Bibbia: Booz e Rut che spigola nel campo;

Rut e Noemi, (1876). C’è una poesia di Luigi Mercantini che comincia così: "Me ne andavo un mattino a spigolare, /quando ho visto una barca in mezzo al mare, / era una barca che andava a vapore / e alzava una bandiera tricolore". Per noi, a scuola, la figura della spigolatrice era misteriosa, e richiedeva tante spiegazioni da parte dell'insegnante. Eppure io ricordo ancora mia nonna che, al tempo della mietitura, andava nei campi dei vicini a raccogliere le spighe cadute, e, mostrando quanto aveva raccolto nel grembiule, lamentava che le macchine moderne lasciassero cadere tanto ben di Dio. Lo spigolare era proprio questo: raccogliere le spighe cadute ai mietitori e rimaste a terra, in modo che anche i poveri potessero trarre vantaggio dalla messe generosa. Nel leggere il libro di Rut, abbiamo prima dedicato la nostra attenzione a Noemi, donna saggia e previdente. Ora guardiamo direttamente al personaggio principale, che ha dato il nome al libro. Per procurare di che vivere per sé e per la sua suocera, dopo il loro ritorno a Betlemme, Rut è andata a spigolare. Il lavoro era faticoso e comportava anche qualche rischio, qualora i mietitori si fossero mostrati poco rispettosi delle donne che li seguivano nei campi. Rut però, guidata dalla Provvidenza, si reca nei campi di un padrone benevolo, il quale, a sua insaputa, è parente di Noemi. Dopo una giornata spesa nei campi, Rut torna da Noemi, alla quale racconta quello che è avvenuto: non solo Booz - è questo il nome del proprietario terriero - le ha permesso di spigolare e l'ha invitata a tornare il giorno dopo, ma le ha anche regalato del grano in più. Ora Noemi coglie la possibilità che si è presentata: in forza dei vincoli di parentela, proprio Booz ha il diritto di sposare Rut, per dare a lei quella progenie che le era stata negata nel primo matrimonio. È un'applicazione della legge del levirato, della quale abbiamo già parlato nella pagina dedicata a Tamar, nuora del patriarca Giuda. Ecco quindi che la vicenda si evolve nel modo migliore: seguendo le istruzioni di Noemi, Rut rivela a Booz la sua parentela e questi accetta di verificare se sia possibile il matrimonio con lei. Quando tutto è chiarito, il matrimonio viene celebrato e, a tempo dovuto, Rut dà alla luce un bambino, Obed, che Noemi accoglie con gioia e che mostra a tutti con l'orgoglio tipico di ogni nonna: "Noemi prese il bambino, se lo pose in grembo e gli fece da nutrice". Le vicine partecipano alla sua gioia e proclamano che per lei Rut "vale più di sette figli". Prima perb che la storia finisca, lo scrittore aggiunge un particolare, che spiega la ragione dell'interesse per queste due donne: "Obed fu il padre di lesse, padre di Davide". Rut è quindi la bisnonna del Re Davide, e parte della genealogia del grande sovrano d'Israele e poi della genealogia di Gesù, anch'egli della famiglia di Davide.

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Con grande senso di carità, Rut ha saputo dedicare la sua vita intera ' al servizio della suocera, vedova e ormai anziana. Per questo suo impegno pieno d'amore, la Provvidenza, dopo un periodo di tristezza e di povertà estrema, le offre un nuovo destino, ormai felice e sereno. Ma c'è dell'altro. Rut, come abbiamo visto, apparteneva al popolo di Moab, con il quale Israele non aveva rapporti amichevoli. Nel libro del Deuteronomio si legge questo decreto di Dio contro i moabiti: "L'Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore. Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e l'acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall'Egitto" (23,4-6). La legge di Dio vieta a qualsiasi figlio del popolo di Moab la possibilità di entrare a far parte del popolo eletto. Eppure, Rut, figlia del popolo odiato, viene accolta in Israele e diventa la bisnonna del Re Davide, ponendo il suo nome nel cuore della famiglia più importante di tutta la storia degli Ebrei. Si direbbe che Dio stesso, nel tracciare il destino di questa famiglia, sorrida al pensiero che il suo progetto sapiente e benevolo sta violando la legge che lui stesso ha ispirato. Entrando nelle genealogia di Gesù, Rut anticipa quell'apertura universale che è parte fondamentale del messaggio evangelico, non più ristretto nei limiti angusti di una sola nazione, ma offerto a tutta l'umanità.

Anna, la madre di Samuele

In alto: Ludovico Seitz, Anna con il piccolo Samuele,

Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902). Tra i personaggi femminili della Bibbia, Anna ha molto importanza, anche se il racconto che la riguarda è breve. Lo troviamo nei primi due capitoli del l° libro di Samuele, dove si parla di lei e di suo marito Elkanà, che dopo di allora non compaiono più nel libro sacro. La storia di questa donna comincia con la descrizione della sua situazione di sposa senza figli. Questo dramma doloroso ci è già familiare, perché l'abbiamo incontrato nella vita di altri personaggi della Bibbia: Sara, Rebecca, Tamar e Rut avevano sofferto per la stessa condizione. Il caso di Anna era reso più triste per il fatto che suo marito aveva un'altra moglie, Peninna, che aveva figli e umiliava Anna a causa della sua sterilità. Con una annotazione breve, lo scrittore sacro ci fa capire la gravità della cosa, quando indica Peninna non come compagna di Anna, ma come "sua rivale". Elkanà amava Anna, e cercava di consolarla: "Non sono forse io per te meglio di dieci figli?". Dispiace dirlo ma per Anna l'amore del marito, per quanto bello e sincero, non poteva compensare l'assenza di un figlio. Anna era donna di fede e, nella sua tristezza, fece ricorso al Signore che invocò con una preghiera intensa ma silenziosa. Questo suo modo di parlare con Dio era sembrato strano al vecchio sacerdote Eli, che, seduto davanti alla tenda che rinchiudeva l'arca dell'alleanza, la guardava con occhio critico. Allora la preghiera era sempre fatta ad alta voce, come fanno anche oggi i devoti ebrei, specialmente quando, a Gerusalemme, si recano di fronte al Muro Occidentale — il così detto "Muro del Pianto": non solo essi recitano i salmi quasi cantando con una cantilena ritmica, ma si muovono anche, in modo che tutto il loro corpo prenda parte alla lode del Signore: Anna invece "pregava in cuor suo e si muovevano solo le labbra, ma la voce non si udiva". Per questo, Eli pensò che la donna fosse ubriaca, e le chiese, con una certa durezza, di andare a smaltire la sua sbornia altrove. La povera Anna, invece di sentirsi offesa da queste parole, manifestb con sincerità la sua condizione: "Sono una donna affranta. Sto solo sfogando il mio cuore davanti al Signore. Finora mi ha fatto parlare l'eccesso del mio dolore e della mia angoscia". Questa confessione umile e sincera addolcì il sacerdote che benedisse Anna, con una frase piena di comprensione e di augurio: "Va' in pace e il Dio d'Israele ti conceda quello che gli hai chiesto".

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Dopo il ritorno a casa, "Il Signore si ricordò di lei" ed Anna concepì un figlio che, al momento della nascita,•fu chiamato Samuele. Secondo la madre, il significato del nome doveva essere: "L'ho chiesto al Signore", ma secondo chi conosce la lingua ebraica vuol dire invece: "Il nome di Dio". In ogni caso, il nome è bello e significativo, e fa piacere pensare che esso è usato anche oggi. Sarebbe ancora più bello se i genitori che chiamano i loro figli con il nome di Samuele si rendessero conto di quello che vuol dire. Nella sua grande gioia, Anna si dedicò completamente al bambino, che allattava e vedeva crescere ogni giorno. Il suo progetto era preciso: Dio le aveva donato un figlio e lei lo avrebbe a sua volta donato a Dio. Capiamo così che nel desiderio di maternità di Anna non c'era nulla di egoistico, ma c'era piuttosto il sincero desiderio di sentirsi parte di quella grande storia di amore che Dio aveva intessuto con il suo popolo. Quando il periodo dell'allattamento ebbe termine, ecco che Anna, con suo marito, tornò davanti al Signore, offrì un sacrificio per manifestare la sua riconoscenza e presentò il bimbo al sacerdote Eli: "Sono quella donna che era stata presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto". Segue un'affermazione di grande bellezza, che dovrebbe diventare un modello per tutti i genitori cristiani: "Anch'io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore". Un figlio che nasce è sempre un dono di Dio. Come sarebbe bello se, in ogni padre e madre, ci fosse il desiderio che almeno uno dei loro figli fosse pronto ad offrire sé stesso a Dio, per vivere la missione di far conoscere Gesù e far crescere il suo messaggio nel cuore di tutti. Non lasciamo ancora Anna, perché il suo cantico di lode a Dio merita di essere letto con attenzione. Se Dio vuole, lo faremo insieme nel nostro prossimo incontro.

Anna, la donna orante

Alessandro Tiarini (1577-1668), Anna offre Samuele a Dio.

La scritta latina che illustra la raffigurazione dice: Quod Deo vovit / Devote reddidit (ciò che a Dio in voto promise,

fedelmente offerse), Reggio Emilia, Santuario Madonna della Giara. Quando Anna ricevette da Dio il dono di un figlio, con grande generosità mantenne la promessa fatta e volle che il piccolo Samuele fosse, fin dalla primissima infanzia, posto al servizio del Signore, nel santuario di Silo, dove si conservava l'Arca dell'Alleanza. Dio non si lascia mai vincere in generosità, e, per compensare Anna ed Elkanà del figlio che era stato offerto per il suo servizio, diede loro ancora tre figli e due figlie. Il desiderio di maternità di Anna fu in questo modo soddisfatto e, anche se il libro sacro non ricorda più né lei né suo marito, possiamo immaginare che la loro vita continuò a svolgersi sotto la benedizione del Signore. Torniamo sulla figura di Anna, perché di lei la Bibbia ricorda un canto di lode a Dio (1 Sam 2,1-10) che, nel tono e in molte espressioni, è una vera e propria anticipazione del canto che Maria, la Madre di Gesù, pronunciò quando, entrata in casa della cugina Elisabetta, ne era stata salutata come "la madre del mio Signore". Le prime parole della preghiera di Anna hanno per noi un suono familiare, e ci è spontaneo pensare che Maria si sia ispirata ad esse quando ha lasciato che il suo cuore cantasse le lodi di Dio: "Il mio cuore esulta nel Signore, la mia forza s'innalza grazie al mio Dio". Il desiderio di Anna è innanzitutto quello di ricordare la grandezza di Dio, suo benefattore: "Non c'è santo come il Signore, perché non c'è altri all'infuori di te e non c'è roccia come il nostro Dio".

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Lei ha sperimentato la presenza di Dio nella propria vita, e sa che "il Signore è un Dio che sa tutto e da lui sono ponderate le azioni". Il Dio d'Israele guida la storia dell'umanità, perché egli è padrone dell'universo: "Al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi poggia il mondo". Egli fa giustizia su tutti i popoli, e il suo inviato sarà vittorioso: "Il Signore giudicherà le estremità della terra; darà forza al suo re, innalzerà la potenza del suo consacrato". Come nel "Magnificat", anche nel cantico di Anna l'intervento di Dio nella storia dell'umanità è visto come espressione di giustizia, per ristabilire l'ordine guastato dall'egoismo degli uomini: "L'arco dei forti s'è speizato, ma i deboli si sono rivestititi di vigore. I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso cti farlo gli affamati". L'esperienza personale di Anna suggerisce un'immagine che la ritrae: "La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita"; ma subito dopo torna la visione del mondo, con le sue discriminazioni, che Dio distrugge: "Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta. Solleva dalla polvere il debole, dall'immondizia rialza il povero, per farli sedere con i nobili e assegnare loro un trono di gloria". Come non ricordare le parole simili di Maria: "Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1,51-53). Sentiamo subito che l'ispirazione è simile. Sono due donne che diventano madri in maniera inattesa: la prima perché sterile ed ormai avanti nell'età; l'altra perché giovane e vergine. Ma in ambedue i casi il dono di Dio prevale e suscita la lode, che si esprime con un linguaggio simile. C'è però una grande differenza, del tutto comprensibile, per la diversità delle situazioni e dei tempi: l'immagine di un Dio vendicatore, ancora presente nella mente di Anna, è del tutto scomparso dal cuore di Maria, già proiettata verso gli ideali di amore che saranno un giorno annunciati da suo Figlio. Anna parla ancora contro i nemici, li minaccia e assicura che mentre il Signore veglia sui suoi fedeli, nello stesso tempo egli fa tacere i malvagi nelle tenebre ed infine "Il Signore distruggerà i suoi avversari! Contro di essi tuonerà dal cielo". La mitezza paterna del Dio del Vangelo è ancora lontana, ma l'aspirazione di Anna, che desidera un mondo giusto ed accogliente per tutti, è un'aspirazione che possiamo condividere anche noi e per la quale dobbiamo combattere. I mezzi da usare per arrivarci possono essere diversi, e noi parliamo di testimonianza di amore e di accoglienza fraterna. L'importante è mettercela tutta per giungere allo scopo. E in questa lotta per costruire qui in terra il Regno di Dio, la vecchia Anna e la giovane Maria pregano e camminano con noi.

La negromante di Endor

Benjamin Wets (1738-1820), Saul e la negromante di Endor,

Wadsworth Atheneum, Hartifort (USA).

Il primo libro di Samuele, di cui abbiamo visto gli inizi, racconta le vicende del primo re d'Israele, Saul, ed i contrasti che egli ebbe con Davide, destinato da Dio ad essere suo successore. La storia di Saul è molto triste: all'inizio, egli era un giovane umile e generoso e dotato di straordinaria prestanza fisica. Ad un certo punto della sua vita, perb, egli si lasciò prendere dall'orgoglio e volle agire senza più tener conto delle prescrizioni della legge del Signore. I rimorsi tormentavano Saul, e allora gli fu portato il giovane Davide, il quale, suonando la cetra e cantando, calmava la sua angoscia. Ma, dopo l'uccisione di Golia, Davide divenne il beniamino del popolo, persino a preferenza del re, che si ingelosì e cercò più volte di ucciderlo.

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Siamo ora al momento finale della vita di Saul: i Filistei, da sempre nemici di Israele, erano pronti alla battaglia e il re si sentiva insicuro, sapendo di non poter più contare sulla protezione di Dio. Per capire qualcosa della sua situazione, proprio lui che aveva proibito ogni attività di stregoni e indovini, volle consultare una negromante, una donna cioè che era capace - o piuttosto fingeva - di parlare con i defunti e di chiederne delle previsioni per il futuro (1 Samuele 28,3-25). La donna venne trovata e Saul, travestito per non essere riconosciuto, si recò da lei. La negromante resistette alla richiesta: il re ha proibito di fare cose del genere e lei non vuole rischiare. Saul promise il segreto e chiese di poter parlare con Samuele, che lo aveva scelto come re ma era morto qualche tempo prima. Samuele apparve davvero e la donna si spaventò e capì che chi era con lei era il re Saul. Strano spavento, se lei faceva queste divinazioni per mestiere e doveva essere abituata a trattare con i morti. Ma forse la donna sapeva bene che i suoi erano soltanto trucchi per ingannare i creduloni, mentre, ora, si è trovata davvero di fronte lo spirito di chi aveva evocato. Samuele, sdegnato per essere stato chiamato, confermò a Saul che Dio era ormai lontano da lui e che egli sarebbe morto, insieme con i suoi figli, nella battaglia imminente. A queste parole, il re cadde a terra, impaurito dalla tragica profezia e stremato per la fatica e il digiuno. In questa circostanza, la donna rivelò compassione e senso di umanità, e, messe da parte le maniere della maga, si mostrò piena di attenzione e di concretezza materna verso il suo inatteso visitatore. Vedendo il povero Saul così mal ridotto, si fece coraggio e gli disse: "Io ti ho obbedito e, facendo quello che mi hai chiesto, ho messo la mia vita in pericolo. Ora tu stammi a sentire e mangia qualcosa: ecco, c'è del pane che ho preparato per te". Al pane si aggiunse poi della carne di vitello e il re, insieme con i suoi servi, mangiarono per poi partire quella notte stessa. Nei capitoli seguenti abbiamo la conclusione tragica della vita di Saul, che, trafitto dalle frecce dei nemici, sembra non riuscire a morire ed ha paura di essere preso prigioniero e schernito dai suoi nemici. Ma infine egli muore e, in suo onore, Davide, che egli aveva perseguitato, compose un canto di grande bellezza, che vale la pena leggere per intero (2 Samuele 1,9-27). L'episodio della negromante ci suggerisce una riflessione. Sono passati secoli da quel momento triste nella storia del popolo di Dio. Viviamo ormai nel Testamento Nuovo, nel quale l'amore di Dio per noi si è pienamente rivelato, attraverso la morte e risurrezione di Gesù. Nello stesso tempo, la scienza e le conoscenze di ogni tipo hanno fatto tanti passi in avanti, al punto che potremmo chiederci se sia possibile scoprire ancora cose nuove. Eppure, ancora oggi c'è gente disposta a credere a frottole come quelle imbandite dai colleghi odierni della indovina di Endor. Ci sono cartomanti, chiromanti, maghi, indovini, lettori dell'occulto, veggenti di vario tipo, c'è chi guarda le stelle o i fondi di caffe e chi chiama in causa i morti. E tutti trovano gente disposta a prendere per veri i loro imbrogli, al punto da pagare tanto e bene per questo. Molti si sono rovinati per credere in questi truffatori. E ci sono ancora quelli che non comincerebbero la loro giornata senza guardare l'oroscopo sul giornale. Si potrebbe essere più sciocchi di così? Leggendo l'episodio della donna di Endor, dobbiamo pensare che Dio si è servito di lei per far giungere un estremo messaggio al povero Saul, ma, in definitiva, la cosa migliore che lei ha potuto fare, e questa almeno l'ha fatta sul serio, è stata quella di offrire al re pane fresco e carne arrosto. Questo cibo almeno era qualcosa di vero.

La poligamia nell'Antico Testamento

Michelangelo da Caravaggio, David con la testa di Golia,

Roma, Galleria Borghese. Davide era «bello di aspetto» (1Sam 16,12).

Sfogliando le pagine del Libro Sacro, siamo arrivati al 1° libro di Samuele, e incontriamo la straordinaria figura di Davide. Questi è presentato all'inizio soltanto come un ragazzo "fulvo, con begli occhi e bello di aspetto" (1 Sam

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16,12). Non era molto, ma Dio ha scelto proprio lui per essere re del popolo d'Israele, al posto di Saul, che aveva ormai perso il favore del Signore. Nei capitoli successivi, seguiamo Davide nella sua vita avventurosa. Da semplice pastore diventa capo militare al servizio di Saul, e poi si dà alla guerriglia per sfuggire alla persecuzione del re ed infine arriva ad essere lui stesso re. Nel corso degli anni, lo vediamo anche contrarre matrimonio con diverse donne, che appaiono brevemente nella narrazione e poi scompaiono, talvolta senza lasciare traccia. Alla fine, però, tutte sono superate da quella che sarà la moglie preferita di Davide, Betsabea. Nella storia di Davide incontriamo, con maggiore evidenza che in altri casi, il fenomeno della poligamia, il fatto cioè che un uomo sia legalmente sposato con più donne. Non si tratta quindi del caso in cui un uomo è infedele a sua moglie, ma di una situazione del tutto legittima, prevista ed ammessa dalla tradizione e dalle leggi. Prima di continuare a prendere in esame altre figure femminili, sarà bene che parliamo un po' della poligamia e di quello che significa. Questo modo di vivere il matrimonio esiste ancora nel mondo in diverse culture: in molte regioni dell'Africa, ad esempio, e nei paesi islamici. Dobbmo però fare attenzione a non giudicare la poligamia tradizionale come se fosse soltanto una manifestazione di egoismo e di sfrenata sensualità da parte dell'uomo. Questa pratica è piuttosto legata ad interessi di ordine sociale, economico e politico. Non c'è dubbio che in un matrimonio poligamico l'uomo abbia una priorità assoluta, ed è quindi inutile pensare che in esso ci sia una relazione di uguaglianza tra gli sposi. Sarebbe però sbagliato credere che le diverse donne in un matrimonio poligamico siano semplicemente considerate come schiave. La prima moglie ha sempre una preminenza su tutte le altre, e i rapporti tra le diverse donne sono regolati in modo da evitare contese e gelosie. In realtà, litigi e contrasti non sono rari, ed è facile capirlo, specialmente se si pensa che frequentemente un uomo pub avere delle preferenze per una delle sue mogli, offendendo così la sensibilità delle altre. Comunque, anche quando i rapporti tra lo sposo e le spose sono regolati da grande rispetto, è evidente la differenza di prestigio e di autorità tra l'uomo e le sue diverse donne. Come vedremo nella vita di Davide, alcuni matrimoni erano stabiliti per creare o sigillare un'alleanza tra diversi gruppi politici, o addirittura tra diverse nazioni. Più mogli volevano anche dire più figli, e quindi più braccia per lavorare e per combattere e per garantire che una famiglia numerosa potesse mantenere la sua predominanza sulle altre. Incontrando alcuni dei numerosi esempi di poligamia presenti nell'Antico Testamento, dobbiamo ricordare che Gesù ha stabilito che questo modo di vivere la vita matrimoniale non doveva più esistere. Interrogato dai suoi discepoli, il Maestro spiegb che "all'inizio non fu così" (Mt 19,8). Dio ha creato l'uomo e la donna perché fossero "una sola carne". Il progetto di Dio era stato guastato dal peccato dell'uomo, che spezzando l'armonia che esisteva tra uomo e donna, aveva posto tra di essi un contrasto per cui la donna si sarebbe sentita spinta verso l'uomo, che l'avrebbe dominata. Lamec, il vendicativo guerriero del cap. 4 della Genesi, fu il primo a prendere due mogli, che egli chiamb ad essere testimoni mute della sua violenta arroganza. Gesù ristabilisce la legge primitiva, e dichiara ormai superato il permesso che Mosè aveva dato, "per la durezza del loro cuore". Si deve tornare a quanto aveva voluto il Creatore, che "li fece maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne". E conclude: "L'uomo non divida quello che Dio ha congiunto". Quando siamo posti di fronte ad episodi legati alla poligamia, possiamo capire il perché della volontà di Dio che l'unione tra uomo e donna fosse unica e indissolubile. Solo dall'unità e dalla fedeltà nel matrimonio nasce la felicità della famiglia e di tutti i suoi membri.

Mical, la figlia di Saul

Francesco Salviati (1510-1563), David danza davanti all'arca mentre Mical guarda dall'alto, Roma, Palazzo Sacchetti.

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La prima donna che Davide prese come moglie fu Mical, figlia di Saul. Nella sua vicenda sono riassunte alcune delle contraddizioni che abbiamo descritto nell'articolo precedente. Grazie ai suoi successi militari, Davide aveva suscitato la gelosia di Saul, che vedeva in lui un pericoloso concorrente e volle allora eliminarlo. Sapendo però che suo figlio Gionata era legato a Davide da un forte vincolo di amicizia, pensò che fosse preferibile mettere il suo contendente nelle condizioni di farsi uccidere da altri. La giovane Mical, che si era invaghita di Davide, fu usata come esca: Saul l'offrì come sposa a Davide, che avrebbe così potuto entrare a far parte della famiglia reale. Invece di chiedere una dote adeguata, che Davide, di famiglia modesta, non avrebbe potuto pagare, il re volle soltanto l'uccisione di cento filistei, i tradizionali nemici del popolo d'Israele. La sua speranza era che Davide morisse in battaglia, nel tentativo di esaudire la sua richiesta. Dopo aver esitato, Davide accettò la condizione, compì l'impresa ed offrì al re la prova di aver ucciso il doppio dei nemici richiesti. Il matrimonio fu quindi celebrato e Mical fu inizialmente una sposa innamorata e fedele. Quando Saul, nelle sue crisi di odio verso Davide, riprese i tentativi di ucciderlo, Mical fu pronta ad escogitare un trucco per salvarlo: fece fuggire Davide dalla finestra, poi mise nel letto una sorta di manichino e disse ai sicari del re che Davide era malato. Quando l'inganno fu scoperto, Davide era già in salvo, !ontano dal palazzo (1 Sam 19,11-17). Dopo di allora, Davide visse in clandestinità, come un bandito o un guerrigliero, per sfuggire alla persecuzione di Saul. In tutto questo tempo Mical scompare dalla narrazione e di lei sappiamo che il padre la diede in moglie ad un altro uomo. Dopo la tragica morte di Saul, Davide affermò la sua autorità e divenne re d'Israele. Volle allora che Mical tornasse da lui. Di lei abbiamo soltanto un ultimo episodio un po' triste, perché in esso ambedue i personaggi si comportano in maniera sgradevole. Si tratta in definitiva di un litigio fra coniugi, il che non è di per sé né raro né eccezionale. Ma le conseguenze furono molto gravi, soprattutto per Mical. Il fatto accadde il giorno in cui Davide trasportb l'arca dell'alleanza a Gerusalemme. Nella gioia della celebrazione, il re volle usare ancora le sue doti di musico e cantore e, vestito solo con una sottoveste, ballò con tutte le sue forze davanti all'arca, che era il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Racconta la Scrittura: "Quando l'arca del Signore entrò nella città di Davide, Mical, figlia di Saul, guardando dalla finestra vide il re Davide che saltava e danzava davanti al Signore e lo disprezzò in cuor suo" (2 Sam 6,16). Quando poi, finita la festa, Davide rientrò in casa, sua moglie era là, pronta per rimproverarlo: "Bell'onore si è fatto oggi il re d'Israele scoprendosi davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe davvero un uomo da nulla" (2 Sam 6,20). In queste parole, si sente lo sdegno della donna di classe, abituata agli alti livelli della società e offesa dall'atteggiamento istintivo e sincero del marito. La risposta di Davide poteva essere più gentile, ma, nella sua irruenza, ha almeno il merito di essere chiara e di comunicare il messaggio giusto: "L'ho fatto dinnanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho danzato davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche di più e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!" (2 Sam 6,21-22). Mical avrebbe voluto che il re mantenesse una dignità sovrana e distaccata, che potesse impressionare i sudditi. Davide invece cerca di farle capire che il suo gesto era rivolto a Dio, come atto di preghiera espressa con tutte le facoltà del corpo: e quello che Mical non vuole capire, sarà invece capito dalla gente semplice, che apprezza la manifestazione sincera di onore a Dio. Così Mical sparisce dalla vita di Davide, e la Scrittura aggiunge un'annotazione triste, che, ormai lo sappiamo bene, affermando la sterilità di questa donna, ne decreta la scomparsa dalla storia del popolo: "Mical, figlia di Saul, non ebbe figli fino al giorno della sua morte". Dal modo in cui la notizia è data, sembra che l'autore sacro veda in questo fatto la punizione a Mical per non aver capito la spontanea sincerità della devozione verso Dio manifestata da suo marito. La successione nella dinastia di Davide — e del Messia — sarà quindi garantita da un'altra donna.

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Abigail, donna di buon senso e di bell'aspetto

Lionello Spada, Abigail e Davide, affresco del 1615, Reggio Emilia,

Santuario Madonna della Ghiara.

Abbiamo già accennato al fatto che Davide, per sfuggire alla persecuzione del re Saul, visse per qualche tempo come un guerrigliero, o come capo di una banda di predoni, muovendosi in regioni deserte o poco abitate, e cercando di trovare il modo di sopravvivere, insieme con i suoi uomini. La storia a cui facciamo oggi riferimento è raccontata nel capitolo 25 del 1° libro di Samuele. Nella regione in cui Davide viveva, c'era un ricco possidente, di nome Nabal, il quale stava tosando le pecore, Questa ricorrenza annuale dava occasione per una festa, nel corso della quale si preparava molto cibo da condividere con tutti i lavoratori. Davide mandò quindi qualcuno dei suoi uomini, per chiedere a Nabal una parte di quel cibo, per nutrire la sua banda. La richiesta aveva senso, perché, durante i mesi trascorsi, i guerrieri di Davide non si erano approfittati dei beni del ricco vicino e anzi li avevano protetti da ladruncoli o da bestie feroce. Ma Nabal, da stolto arrogante, rispose male agli inviati, usò parole oltraggiose nei confronti di Davide e rifiutò di dare loro qualcosa. Quando Davide ne fu informato, decise subito di far pagare l'offesa a Nabal e si mise in marcia con quattrocento dei suoi uomini. Frattanto, un servo informò dell'accaduto Abigail, la moglie di Nabal: ricordò il bene fatto ad essi dai soldati di Davide e comunicò alla padrona la convinzione che, se non si poneva qualche rimedio, sarebbe capitato a tutti qualcosa di brutto. Dirlo a Nabal era impossibile: "Egli è troppo cattivo e non gli si pub dire una parola". Abigail, che era stata già presentata come "donna di buon senso e di bell'aspetto", capì il pericolo nel quale si stava trovando l'intera famiglia ed agì subito. Fece preparare una grande quantità di vivande e la fece portare sugli asini incontro a Davide. Lei stessa seguì, cavalcando a sua volta un asinello. Giunta di fronte a Davide, Abigail si prostrò a terra, prese su di sé la colpa di quello che era accaduto, perché lei non si era accorta dell'arrivo degli emissari di Davide: ma ora egli poteva accettare il dono che lei stava portando, per gli uomini che stavano con lui. La donna non perde l'occasione di deprecare la stoltezza del marito, ma è grata per la possibilità di evitare una strage inutile: quando Davide, per grazia di Dio, avrà conquistato il regno, non sentirà nel suo cuore il rimorso di aver sparso sangue inutilmente e di essersi fatto giustizia da solo. Davide fu subito riconoscente verso Abigail per il suo intervento provvidenziale: la sua saggezza gli aveva impedito di fare del male, ponendosi ad amministrare la giustizia al posto di Dio. Per questo Davide loda il Signore, Dio d'Israele, che aveva voluto questo incontro. La storia non si concluse qui, ma ebbe una breve continuazione. Lo stolto Nabal non si era reso conto di nulla, e quando Abigail rientrò in casa dalla sua spedizione di salvezza, era troppo ubriaco per capire qualsiasi cosa. Ma la mattina dopo la moglie l'informò di tutto quello che era accaduto: "Il cuore gli si tramortì nel petto, ed egli rimase come una pietra". Dieci giorni dopo, Nabal morì, e ancora una volta Davide ringraziò il Signore, che "ha trattenuto il suo servo dal male e ha rivolto sul capo di Nabal la sua iniquità". A questo punto, Davide ripensò ad una frase detta da Abigail alla fine del loro incontro: "Il Signore ti farà prosperare, ma tu vorrai ricordarti della tua schiava". Una donna così abile poteva essere una buona moglie per lui. Mandò quindi dei messaggeri a farle conoscere il suo desiderio ed Abigail accolse volentieri la proposta, con una espressione quasi esagerata di devozione: "Ecco, la tua schiava sarà come una schiava per lavare i piedi ai servi del mio signore". Più tardi, nel riferire che Davide era salito sul trono d'Israele, lo scrittore sacro ricorda i nomi dei vari figli che erano nati a Davide durante il periodo della sua permanenza ad Hebron. Si menziona anche "Kileàb, da Abigail già moglie

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di Nabal". Di questo giovane non sappiamo altro. Tra i figli di Davide, sono diversi quelli che si comportarono molto male e finirono male. Piace pensare che Kileàb, figlio di una madre saggia, fu capace di stare lontano dai guai, perché ben educato da una donna capace di unire il buon senso al bell'aspetto.

Betsabea, la pecorella piccina

Lucas Cranach (1472-1553), Betsabea dopo il bagno mentre un'ancella

le asciuga i piedi, Berlino, Museo. Il profeta Natan definì così Betsabea, quando parlò di lei a Davide. In quel momento, il re pensava di aver ormai nascosto i suoi misfatti. Il capitolo 11 del secondo libro dei Re descrive il cinismo di Davide, che, per coprire la sua prima colpa, ne commette tante altre e tradisce la sua dignità di uomo e di sovrano, la fedeltà alla sua missione e al suo popolo. Alla fine, un matrimonio riparatore ha chiuso lo squallido affare. Resta solo un dettaglio, ricordato, con una breve annotazione, alla fine del capitolo: "Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore". Dio era stato il grande assente nella storia del peccato. Ora Natan riceve da Dio l'incarico di richiamare il re sulla gravità della sua colpa. Per fare questo, adopera un esempio in cui si presenta un caso di giustizia: c'è un ricco arrogante che ha rubato la pecorella piccina, unica proprietà del povero suo vicino. Tale era stata la povera Betsabea, sposa di uno dei fedeli soldati di Davide, che, mentre il re rivolgeva il suo sguardo impuro su sua moglie, era al campo di battaglia, a rischiare la vita per il suo re e il suo popolo. La donna era proprio una "pecorella piccina", innocente e indifesa, nelle grinfie di chi era invece arrogante e prepotente. Leggendo attentamente la narrazione biblica, vediamo che non si parla di violenza: Davide mandò semplicemente dei messaggeri a prenderla. Ma quale possibilità poteva avere la donna di negare al re quello che lui stava esigendo? Ed è anche vero che non si parla di un eventuale compenso per lo squallido servizio. Ma quale bisogno poteva avere allora il potente di pagare, quando aveva ogni possibilità di compensare in altro modo la preda, che, poteva essere fiero di avere conquistata? È triste dover constatare che, a distanza di secoli, la mentalità del maschio conquistatore rimane la stessa, e la donna continua ad essere umiliata nello stesso modo, prima ancora di essere toccata. Betsabea, nel suo primo incontro con Davide, è una vittima sacrificata alla lussuria del potente. Umiliata in tutti i modi, perché attorno a lei tutti sapevano quello che era accaduto e quindi quello che sarebbe accaduto poi. Non dobbiamo fare un grande sforzo di fantasia per im- maginare le chiacchiere sparse nell'ambiente di corte proprio da quei messaggeri che avevano compiuto l'ignobile missione di essere mezzani nella faccenda; poi da chi dovette comunicare a Davide l'avvenuto concepimento di un figlio; poi da chi dovette chiamare il povero Uria, marito inizialmente ignaro ma poi quasi sicuramente cosciente di quello che stava accadendo e di quello che il re voleva da lui; e infine da chi dovette eseguire l'ordine del re, che esigeva la morte di quell'innocente, per coprire le proprie responsabilità. In tutta questa agitazione, Betsabea, l'unica innocente, era vista invece da tutti come se fosse lei la responsabile del disagio del re, della perdita di favore da parte di Uria e infine della sua uccisione. Anche se qualcuno avesse voluto essere benevolo verso di lei, avrebbe comunque detto che, in fondo, era lei che aveva provocato tutte queste

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drammatiche conseguenze. Perché si sa come sono gli uomini e lei avrebbe dovuto stare più attenta a quello che faceva e a dove lo faceva. Insomma, la colpa non poteva che essere la sua. Pensiamo anche a quello che dovettero dire tra loro i servi di Davide, quando Betsabea, ormai vedova, entrò nella casa del re e divenne sua moglie: giudizi pieni di rancore e di disprezzo, per una donna leggera, che aveva provocato prima la propria vergogna e poi la morte di suo marito. Il pentimento di Davide aprì infine il cammino alla misericordia di Dio. Quello che l'uomo aveva compiuto nel peggiore dei modi, aveva provocato una terribile catena di peccato e di morte. Una concentrazione di cattiveria aveva dato origine ad una concentrazione di sofferenza per tanti. Ma Dio infine offre anche alla vittima di tutto questo male la possibilità di risorgere e di superare l'umiliazione attraverso un trionfo conquistato con amore e pazienza. Passano gli anni, e l'unica donna a fianco di Davide è proprio lei, Betsabea, la moglie amata e la madre di Salomone, il principe designato a succedere nel trono a suo padre. Per questo Betsabea, la pecorella piccina, diventerà la regina, amorosa e potente, capace, come vedremo, di conquistare il trono per suo figlio, al di là e al di sopra dei complotti di corte per favorire altri candidati.

Tamar, la principessa violata

Francesco Barbieri, detto Il Guercino (1591-1666), Amnon scaccia Tamar, Modena, Galleria Estense.

Quando il profeta Natan comunicò a Davide che Dio aveva perdonato la sua colpa, gli aveva anche preannunciato un futuro di sofferenze e di violenza, all'interno della sua famiglia: "La spada non si allontanerà mai dalla tua casa" (2 Sam 12,10). Quello che accadde subito dopo, e che è descritto nei capitoli che seguono, conferma ampiamente questa previsione. Uno degli episodi più tristi coinvolge la giovane principessa Tamar, figlia di Davide e di Maaca, figlia del re di Ghesur, una delle donne sposate da Davide per stabilire alleanze politiche. Dalla stessa madre era nato anche Assalonne. All'interno della famiglia del re, Amnon era il figlio maggiore, nato da un'altra moglie di Davide e quindi fratellastro di Tamar. Grazie ai frequenti incontri tra di loro, come è comprensibile tra parenti stretti, Amnon cominciò a sentire una particolare attrazione per la bella Tamar, della quale, in breve, si innamorò. Incapace di controllare e dominare questo sentimento, cominciò a manifestare segni di malessere fisico. Un amico del principe, di nome Ionadab, si accorse che qualcosa non andava, ottenne la confidenza di Amnon e, purtroppo, si dimostrò falso amico. Invece di aiutarlo a vincere la tentazione, richiamandolo alle sue responsabilità ed alla necessità di autocontrollo e di rispetto, gli suggerì il trucco per poter avere Tamar a casa sua, con il fine di approfittare della sua innocenza. Amnon si mise a letto, fingendosi malato e chiese a Davide di mandare Tamar ad assisterlo: qualcosa cucinato da lei davanti ai suoi occhi l'avrebbe aiutato a vincere la sua inappetenza. È facile rendersi conto che, nel corso dei secoli, gli uomini non hanno sviluppato molto la fantasia nel cercare scuse per coprire i prdpri progetti egoisti. Ma è strano dover riconoscere che questi trucchetti, per quanto banali e facilmente identificabili, funzionano sempre. In questo caso, Tamar era del tutto innocente: ubbidì al padre e, senza secondi fini, andò per compiere un gesto di delicata cortesia verso il fratellastro malato. Invitata al peccato, rifiutò con forza, suggerendo anche una soluzione rispettosa della dignità di ambedue: "Chiedi a nostro padre che ti permetta di avermi per moglie, e certamente egli accetterà". Amnon però non volle ascoltare ragioni, e la violenza ebbe luogo, nel modo più brutale.

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Quello che segue è ancora più terribile, e lo leggiamo per intero: "Poi Amnon concepì verso di lei un odio grandissimo: l'odio verso di lei fu più grande dell'amore con cui l'aveva prima amata. Le disse: 'Alzati, vattene!'. Gli rispose: 'O no! Questo torto che mi fai cacciandomi è peggiore dell'altro che mi hai già fattd'. Ma egli non volle ascoltarla. Anzi, chiamato il giovane che lo serviva, gli disse: 'Cacciami fuori costei e sprangale dietro il battente' (2 Sam 13,15-17). Il rumore sordo di una porta che si chiude segna la fine di un episodio squallido, che nella storia dell'umanità si è ripetuto un'infinita serie di volte, sempre con lo stesso svolgimento, quasi nella ripetizione di un dramma dal copione risaputo, in cui di nuovo c'è solo il dolore e l'umiliazione delle vittime. Dalla violenza subita da Tamar, sgorgheranno nuove manifestazioni di odio: Assalonne comincia a odiare il fratello e medita a lungo la vendetta, che sarà portata a termine due anni dopo. Amnon finisce sgozzato dai servi di Assalonne, il quale da ora in avanti guarderà con occhio diverso il suo stesso padre, contro il quale cospirerà, per impadronirsi del trono. Ancora una volta, nel cammino del popolo che Dio ha scelto come proprio, una donna è stata fatta oggetto della prepotenza di un uomo, che ha trovato nella sua lussuria e nella sua smania di possesso e di dominio la giustificazione per un comportamento ignobile. Sentiamo, come un monito inquietante, la voce della vittima innocente: "Questo non si fa in Israele; non commettere questa infamia". Cambiano i tempi e cambiano i modi di operare la violenza, ma nella mentalità malata di certi maschi la donna rimane una preda da conquistare, perché il fine della sua esistenza è quello di garantire al cacciatore che è ancora capace di compiere imprese del genere. Quando Gesù, nel discorso delle beatitudini, invita al rispetto per la donna e condanna anche un solo pensiero impuro, fa proprio il grido delle donne umiliate, delle tante Tamar di ogni tempo, per le quali questo messaggio di santità e di pulizia è l'unica estrema difesa della loro dignità.

Betsabea, la regina madre

Arazzo fiammingo del secolo XV, Sposalizio di Davide e Betsabea,

particolare. Firenze, Palazzo Davanzati.

Abbiamo lasciato Betsabea, "quella che fu la moglie di Uria", mentre entrava nel palazzo del re Davide, per diventarne la nuova sposa, ma come donna addolorata e umiliata. Il primo figlio che le nasce muore poco dopo. Il secondo invece è benedetto dal Signore e sarà destinato a succedere nel trono a suo padre. Già il suo nome — Salomone — è di buon augurio, perché contiene la radice della parola "Shalom — pace". Ma poi il profeta Natan gli attribuisce il soprannome di "Iedidià", che vuol dire "amato dal Signore", e questo conferma la speciale benevolenza con la quale Dio guardava al giovane erede della famiglia di Davide. Negli anni che seguono, la famiglia di Davide è scossa da eventi tristissimi. Abbiamo già visto la drammatica storia di Amnon e Tamar. Ne seguì l'uccisione di Amnon da parte del fratellastro Assalonne, e, più tardi, la ribellione di quest'ultimo contro suo padre. Il giovane principe non tollerava di aspettare la morte del re, per poter diventare suo successore: voleva il trono subito, e quindi tentò un colpo di stato, che ebbe inizialmente successo ma che finì con la sconfitta del ribelle e con la sua morte nel campo di battaglia. In questo periodo travagliato, Betsabea e Salomone non appaiono. La narrazione sembra essersi dimenticata di loro. Ma il loro momento giunge quando, ormai, la vita di Davide sta avviandosi verso la sua naturale conclusione. Tra i figli del re, dopo la morte di Amnon e di Assalonne, Adonia, fratello minore di Assalonne e come lui, ambizioso,

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era uno dei più anziani e dei più autorevoli. Vedendo che ormai il re Davide rimaneva sempre in casa, Adonia cominciò a comportarsi come se già avesse una piena autorità, muovendosi con un grande seguito di cortigiani. Davide se ne accorse, ma preferì pazientare e non umiliare suo figlio. Questa debolezza, però, permetteva ad Adonia di rafforzare le sue pretese e di guadagnare qualche seguito tra coloro che pensavano di poter trarre vantaggio dal suo successo. Possiamo dirlo: le cose del mondo andavano così allora e continuano ad andare così anche oggi, in ogni tipo di società e di organizzazione. Qualche volta, purtroppo, anche nella Chiesa. Il profeta Natan, che era stato messaggero di Dio nei momenti più drammatici della vita di Davide, intervenne e chiese a Betsabea di usare la propria influenza presso il vecchio re. A quanto pare, anche se nella narrazione che noi conosciamo non c'è traccia di questo, Davide aveva apertamente promesso che Salomone sarebbe stato il suo successore come re d'Israele. Betsabea quindi ricordò a Davide questo impegno, sigillato addirittura con un giuramento. E mentre lei parlava al re, Natan si unì a lei nel denunciare le macchinazioni di Adonia, che stava invece imponendosi come l'erede presunto al trono. Davide era allora anziano, ma ancora in possesso delle sue facoltà mentali e ben deciso a prendere personalmente le decisioni importanti che riguardavano il regno: con pochi ordini, mise in moto la procedura che avrebbe assicurato a Salomone la designazione come re ed avrebbe quindi sventato le manovre di Adonia. Volle dare le sue istruzioni in presenza di Betsabea, con la quale si era impegnato e verso la quale si sentiva in dovere di mantenere la sua parola. Per questo, al termine delle parole di Davide, la regina "si inchinò con la faccia a terra, si prostrò davanti al re dicendo: 'Viva il-mio signore, il re Davide, per sempre!" (1 Re). La vicenda di Betsabea non si conclude qui. Come regina madre, dopo la morte di Davide, ebbe la gioia di vedere suo figlio Salomone salire al trono e diventare un re saggio e giusto, conosciuto ovunque per la sua grande conoscenza e profonda sapienza. Eppure, proprio all'inizio del regno, Betsabea corse il rischio di mettere in pericolo l'incolumità di suo figlio, per ascoltare le richieste di Adonia che, non contento della sua sorte, voleva sovvertire la situazione e impossessarsi del regno. In quella occasione, fu Salomone a mettere le cose a posto, con la sua saggezza politica. Ma Betsabea, anche se in maniera ingenua e quindi inopportuna, aveva solo il desiderio di rendere meno triste per Adonia il sapore della sconfitta che gli era stata inflitta. Betsabea ha conosciuto il sapore amaro della violenza e dell'umiliazione, ma lo ha saputo superare attraverso la fedeltà e la dedizione alla sua missione di sposa, madre e regina.

La regina di Saba

Piero della Francesca (1420-1492), La regina di Saba con il suo seguito,

Arezzo, chiesa di San Francesco.

Come abbiamo visto, Salomone, grazie all'intervento di Betsabea, divenne re d'Israele, succedendo a suo padre. Ebbe subito la grande responsabilità di costruire il tempio di Dio a Gerusalemme, per la quale il re Davide non era stato giudicato degno, perché era stato per tutta la sua vita un guerriero, che aveva versato molto sangue. Salomone era invece un uomo di pace, e portava l'ideale della pace già nel suo nome. Durante il suo regno infatti non ci furono guerre. Proprio all'inizio del suo regno, ebbe un sogno, nel quale Dio gli chiese quale grazia desiderasse ottenere, per poter compiere bene la sua missione di re. Salomone non chiese al Signore né lunga vita né successo sui suoi nemici, ma solo "un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1 Re 3,9). Dio apprezzò i sentimenti espressi dal giovane re, e gli concesse "un cuore saggio e intelligente" e gli promise: "Uno

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come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te" (1 Re 3,12). In più gli diede ricchezza e gloria, facendolo uno dei re più gloriosi e famosi della storia umana. Lo scrittore sacro ricorda con enfasi le qualità del re: "Dio concesse a Salomone sapienza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che è sulla spiaggia del mare. La sapienza di Salomone superava la sapienza di tutti gli orientali e tutta la sapienza dell'Egitto. Egli era il più saggio di tutti gli uomini" (1 Re 5,9-11). La fama di Salomone attrasse illustri visitatori. Il 1° libro dei Re, al cap. 10, ci parla soprattutto della visita che fece a Gerusalemme la regina di Saba, che "venne per metterlo alla prova con enigmi". Non sappiamo quali fossero le domande che la regina sottopose a Salomone, ma la Scrittura ci dice che "Salomone le chiarì tutto quanto ella gli diceva; non ci fu parola tanto nascosta che egli non potesse spiegarle". Segue poi la descrizione di tutte le ricchezze che il re mostre alla sua ospite e dei doni che lei lasciò a Salomone, come segno della sua riconoscenza. Per quanto l'episodio sia descritto con molti dettagli, non possiamo sapere chi fosse questa regina. Mentre oggi si crede che allora Saba corrispondesse all'odierno Yemen, in passato si era anche pensato all'Etiopia, e si era immaginato che a succedere al trono etiope fosse stato un figlio di Salomone. Tra le tante leggende fiorite attorno a questa figura misteriosa — e proprio per questo affascinante — la più importante riguarda la' toria della croce, secondo un'antica tradizione che ha dato origine a grandi capolavori di arte pittorica. Basti ricordare il più famoso, e cioè gli affreschi di Piero della Francesca, nell'abside della chiesa di San Francesco, ad Arezzo. Ecco la storia, come la racconta Jacopo da Varagine, nella sua "Leggenda Aurea": "Quando la regina di Saba si recò ad ascoltare le sapienti parole di Salomone ebbe ad attraversare il detto lago (dove era posto come ponte il tronco dell'albero che era nato da un seme inserito nella bocca di Adamo al momento della sua sepoltura): ed ecco che vide in ispirito come su quel legno dovesse essere sospeso il Salvatore del mondo onde non volle passarvi sopra ma devotamente si prostrò ad adorarlo. ... La regina di Saba, tornata nella sua dimora, scrisse a Salomone che su quel legno doveva essere sospeso uno per la cui morte avrebbe avuto fine il regno dei giudei. Allora Salomone fece togliere quel legno dal luogo in cui si trovava e ordinò che fosse seppellito nelle viscere della terra ... Si dice che all'avvicinarsi della passione di Cristo il legno emerse dalle profondità della terra: i giudei che lo videro ne fecero una croce per nostro Signore". È interessante vedere come la fantasia di persone devote ha potuto creare racconti belli, che sono significativi anche se non hanno nessuna base nella storia. L'inserimento della regina di Saba nella preparazione della croce di Cristo fa pensare alla chiamata universale alla salvezza, che la morte e risurrezione di Gesù ha ottenuto per noi tutti. Il Signore stesso ricorda la "regina del Sud", che era venuta a Gerusalemme "dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone" (Mt 12,22) e conclude, con evidente tristezza: "Ecco, ora c'è qui più di Salomone!" La presenza di questa donna venuta da lontano nella storia del popolo eletto ci fa pensare alla volontà di Dio di comprendere tutti i popoli nel suo progetto di amore. Ma ci sarà da attendere, perché allora il tempo non era ancora maturo.

La figlia del faraone, sposa di Salomone

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S. Ricci (1659-1734), Salomone è indotto dalle mogli straniere ad adorare

i loro idoli, Torino, Galleria Sabauda. Più volte, nei libri della Sacra Scrittura, i figli del popolo di Israele sono messi in guardia contro la tentazione di prendere in moglie donne straniere. Questa raccomandazione non nasce da un pregiudizio di tipo razzista, ma dalla volontà di conservare intatta la fede in Dio, che poteva essere messa in pericolo dalla presenza in mezzo a loro di persone con convinzioni religiose diverse e modi diversi di vivere la loro religiosità. I culti dei popoli dai quali Israele era circondato si esprimevano spesso in manifestazioni aberranti, quali i sacrifici umani e la prostituzione sacra. Per questa ragione, quando gli Ebrei entrarono nella Terra Promessa e cominciarono a conquistare i territori già occupati da altri popoli, non fecero mai alleanze con loro ma cercarono prima di tutto la loro completa eliminazione. Leggiamo queste narrazioni con molto disagio, perché siamo abituati al messaggio di amore e di accoglienza di Gesù. Dobbiamo però capire che il tempo del Vangelo è ancora lontano, e i rapporti tra popoli e persone erano ancora governati dalla sopraffazione e dalla legge del più forte. Questo è vero anche oggi, ma oggi noi cerchiamo di nascondere questi modi di fare con belle scuse di civiltà, progresso e identità culturale. Una volta succeduto come re a suo padre Davide, Salomone ebbe prima la preoccupazione di rinsaldare la propria autorità, mettendo fuori gioco i possibili avversari interni e quindi cercò di stabilire buoni rapporti, di vicinato con i grandi regni confinanti. Per allearsi saldamente con l'Egitto, sposò la figlia del faraone. Non si trattò di un matrimonio d'amore, ma soltanto di un contratto di convenienza. In questo modo, però, una donna pagana entrò nella reggia del re, portò con sé i suoi idoli ed ebbe un'influenza negativa nell'educazione dei figli. Sappiamo come accadono queste cose: la madre, giustamente, è quella che vive più vicina ai figli, specie se ancora piccoli, e pub trasmettere loro i suoi principi e le sue convinzioni. Quello che è desiderabile per una buona educazione, accade purtroppo anche per gli aspetti negativi. E questo fu il caso nella famiglia di Salomone, anche perché il re, dopo la figlia del faraone, prese altre mogli: "moabite, ammonite, edomite, sidbnie e ittite, provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli Israeliti: 'Non andate da loro ed essi non vengano da voi, perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi'" (1 Re 11,1-2). t inutile sottolineare che queste donne, che vengono contate a centinaia, ben difficilmente potevano essere considerate vere e proprie mogli. Cosa poteva esserci, con una schiera di donne come questa, di amore reciproco, comprensione, solidarietà, quale si cerca e si desidera nel matrimonio? L'aspetto perverso della poligamia appare in questo caso nella sua forma peggiore. Lo scrittore sacro ricorda con tristezza che "quando Salomone fu vecchio, le sue donne gli fecero deviare il cuore per seguire altri dèi" (1 Re 11,4). La purezza della fede nel Dio unico, in Colui che aveva liberato il popolo dalla schiavitù dell'Egitto, cominciò ad appannarsi e proprio il re, che doveva essere il primo difensore dell'alleanza tra il Signore e il suo Popolo, divenne esempio di infedeltà e di peccato, ed arrivò persino a far costruire altari ai vari idoli, nelle alture attorno a Gerusalemme, per tutte le sue donne straniere.

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Nel ricordare quei momenti tristi, l'autore del libretto di Neemia, del quarto o quinto secolo prima dell'era di Cristo, scriveva: "Salomone, re d'Israele, non peccò forse proprio in questo? Eppure, fra le molte nazioni, non ci fu re simile a lui; era amato dal suo Dio, e Dio lo aveva fatto re di tutto Israele; tuttavia le donne straniere fecero peccare anche lui" (Ne. 13,26). Ecco quindi la fine triste di un uomo che aveva ricevuto, da Dio tanti doni di saggezza, al punto di diventare un punto di riferimento per altri regnanti, che cercavano il suo consiglio. Eppure tutto questo non è stato sufficiente a conservarlo nella fedeltà all'alleanza con Dio. Suo padre Davide, nella sua passionalità di uomo e di artista, era stato capace di grandi gesti di generosità ed anche di meschinità enormi. Ma aveva sempre avuto il coraggio di riconoscere i propri limiti e di confessare davanti a Dio i propri peccati. Salomone, con tutta la sua sapienza e lo splendore della sua fama è finito lontano da Dio, incapace di resistere alla seduzione delle sue tante donne. Anche per questo, suo figlio ereditò da lui solo l'infedeltà, senza nulla della sua saggezza, e per questo il regno di Davide si divise in due tronconi, piccoli e di nessuna importanza politica.

Gezabele, la perversa moglie del re Acab

La regina Gezabele. Riproduzione da: "Le donne della Bibbia"

(W. J. Edwars, Firenze, 1889).

I due Libri dei Re narrano le vicende del regno ebraico che, dopo la morte di Salomone, si divise in due tronconi, l'uno, governato dai discendenti di Davide, con centro a Gerusalemme e che prese il nome di regno di Giuda, e l'altro, senza una dinastia regale legittima, con centro prima a Sichem e poi a Samaria, che prese il nome di regno d'Israele o regno dei Nord. I re di questó regno abbandonarono l'alleanza con Dio e divennero idolatri, rappresentando il Signore come un vitello d'oro. Fecero addirittura due di queste immagini, e le collocarono in due diversi santuari, per evitare che il popolo sentisse il desiderio di tornare al tempio di Gerusalemme. Il peggiore fra tutti i re fu Acab, di cui il libro sacro dice: "Acab figlio di Omri fece ciò che è male agli occhi del Signore, peggio di tutti i suoi predecessori. Non gli bastò di imitare il peccato di Geroboamo; ma prese anche in moglie Gezabele, figlia di Et-Bàal, re di quelli di Sidone, e si mise a servire Baal nel tempio di Baal, che egli aveva costruito in Samaria" (1 Re 16,30-32). Ecco quindi che abbiamo un esempio chiaro di quello che abbiamo già detto: il matrimonio con donne straniere rappresentava un pericolo per la fedeltà del popolo eletto a Dio. Così fu per Acab, uomo grossolano e crudele, al quale Gezabele aggiunse la propria scaltrezza, insieme con la totale mancanza di principi morali. Questa donna è la presenza femminile più nefasta ricordata nella Bibbia. La regina si circondava di profeti dei falsi dèi Baal e Asera, i quali approfittavano volentieri della sua mensa. In un episodio che vale la pena leggere per intero (1 Re18,20-40), il profeta Elia — l'unico profeta di Dio rimasto — sfidò i falsi profeti che, sconfitti, furono seduta stante uccisi. Non è la prima volta, e non sarà l'ultima, che dobbiamo ricordare il profondo cambiamento portato da Gesù, con l'amore e il rispetto anche per i nemici. Ma sappiamo che anche oggi ci si comporta nello stesso modo: si è spietati verso i nemici e poi si finge di essere scandalizzati per questa crudeltà. A seguito di questo episodio, Gezabele promise la morte al profeta Elia, che si rifugiò nel deserto. Più tardi, la stessa regina ideò il complotto per far assassinare Nabot, al solo scopo di accontentare un capriccio di suo marito, che si

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era innamorato della vigna, unica proprietà dal suo vicino. Grazie alla sua autorità perversa, ella ottenne che tutti gli anziani di quella città diventassero complici dell'uccisione di un innocente (1 Re 21). Proprio in seguito a questo misfatto, il profeta Elia pronunciò la condanna per Acab e Gezabele, ambedue destinati a concludere in maniera tragica e crudele la loro vita. Acab e Gezabele morirono ambedue di morte violenta, ma, dopo aver dedicato la loro esistenza al male, seppero almeno morire con una certa dignità. Acab fu ucciso in battaglia, in una stolta guerra, destinata fin dall'inizio a finir male. Per combattere insieme ai suoi uomini, si travestì da soldato semplice, ma, nel corso del combattimento, fu trafitto da una freccia lanciata per caso. Gezabele, rimasta vedova, vide i suoi figli salire sul trono di Israele e poi morire, il primo, Acazia, per una caduta accidentale e il secondo, Ioram, perché ucciso da Ieu, generale ribelle, che condusse un colpo di stato e prese il posto di re. Entrando nella città di Izreèl, dove risiedeva la regina, Ieu ebbe con lei un incontro breve e drammatico. Questa, appena saputo della morte del suo Secondo figlio, aveva capito che la sua sorte era ormai segnata. All'avvicinarsi di Ieu "Gezabele si truccò gli occhi con stibio, si acconciò la capigliatura e si mise alla finestra" (2 Re 9,30). Dall'alto ebbe ancora il coraggio di apostrofare il nuovo re, chiamandolo "assassino del suo padrone". Subito dopo i suoi stessi servi, pronti mettersi dalla parte di chi comandava ora, la scaraventarono in strada ed ella morì. La sua morte è descritta con un realismo crudele, e fa pensare che il tanto male commesso da questa donna si è alfine riversato contro di lei. Non possiamo fare a meno di sentire per lei una qualche compassione, ma dobbiamo anche riconoscere che la poveretta non se la merita. È triste constatare che la Scrittura ci presenti tante figure di donne poco raccomandabili. Ma ho due considerazioni di fare: la prima è che, se invece di dedicare la nostra attenzione alle donne, guardassimo alle figure maschili, troveremmo molto di peggio; la seconda considerazione è che, proprio in questi stessi libri dei Re abbiamo alcune figure femminili veramente esemplari. E le vedremo, una dopo l'altra, a partire dal prossimo numero.

Elia e la vedova di Zarepta

Bernardo Strozzi (1581-1644), Elia e la vedova di Zarepta con il suo figlio.

Avevo promesso di presentare alcune figure di donne esemplari, e, ..grazie alla narrazione della Bibbia, mantengo ora la promessa. Nel 1° libro dei Re, al capitolo 17, è cominciato il ciclo di Elia, che appare all'improvviso, senza nessuna presentazione. Il profeta ha appena annunciato all'iniquo re Acab l'inizio di una terribile carestia, con una totale assenza di pioggia e di rugiada, al punto che i fiumi e torrenti si sarebbero asciugati ed i raccolti sarebbero andati perduti. Dietro l'invito di Dio, Elia è mandato a Zarepta, città vicina a Sidone e quindi fuori dal territorio di Israele. L'ordine di Dio è di quelli che chiedono obbedienza immediata e una grande dose di fiducia: "Stabilisciti lI. Ho dato ordine a una vedova di là per il tuo cibo". In effetti, ecco che la vedova annunciata è all'ingresso della città, e sta raccogliendo legna. Alla richiesta di Elia di avere un po' d'acqua la donna risponde eseguendo subito il favore richiesto, con una prontezza a servire che ci sorprende. Ma poi Elia chiede anche del pane, e la poveretta deve confessare la sua situazione: "Ho solo un po' di farina nella giara e un po' di olio nell'orcio, preparerò con questo una focaccia per me e per mio figlio e poi non avremo altro da fare che aspettare la morte". Una vedova e un orfano: le due categorie che, insieme al forestiero, erano allora prive di ogni protezione e che quindi non potevano aspettare un aiuto da parte di nessuno. Ma ecco che il profeta conferma la richiesta, assurda nella sua pretesa: "Prima fai una focaccia per me, e io ti assicuro che la farina non finirà mai più". Belle parole, ma basate su 'cosa? Chiunque avrebbe risposto chiedendo

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una prova, o semplicemente dicendo allo straniero di non fare scherzi di cattivo gusto con gente che stava soffrendo. E invece "quella andò e fece come aveva detto Elia". Ha voluto fidarsi di un uomo che parlava con autorità, e Dio ha premiato la sua fede, perché "la farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì". Questa povera vedova ci appare come un Abramo al femminile. Anche Abramo aveva creduto alla parola del Signore, prendendo per buona una promessa che non sembrava basata su nulla. Ed è per la sua fedeltà che noi ricordiamo Abramo, e in tanti - noi cristiani insieme con gli ebrei e i musulmani - lo chiamiamo "padre della nostra fede". Ma possiamo ricordare un altro personaggio, anch'esso esemplare per la sua fiducia nel Signore: è il ragazzetto della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Gv 6, 9). Come la vedova, egli aveva solo quello che bastava per'lui, ma ha accettato la sfida di Gesù e, mettendo a sua disposizione il suo poco, ha reso possibile un grande miracolo. Ed è per questo che lo ricordiamo ancora, anche se non sappiamo il suo nome, né da dove venisse né cosa sia accaduto di lui dopo. La storia della vedova di Zarepta non si conclude qui. Il figlio della donna, che nel frattempo aveva ospitato Elia, si ammalò e morì. La povera vedova ebbe un momento di disperazione, pensando che la sventura le fosse capitata per i suoi peccati del passato e che il profeta fosse l'esecutore di questa condanna. Fa riflettere il fatto che, anche oggi, do, po tutto quello che Gesù ci ha detto dell'amore di Dio per noi, continuiamo ad attribuire ogni disgrazia alla volontà di un Dio vendicativo, sempre desideroso di far pagare all'umanità i suoi peccati. Ma Elia è lì per soccorrere e il bambino morto viene richiamato in vita. La scena del miracolo è bella: il cadavere è portato al piano di sopra e steso sul letto. Elia parla a Dio, con un meraviglioso tono di confidenza e quasi di rimprovero: "Signore mio Dio, forse farai del male a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?" Per tre volte il profeta si stende sul corpo esanime e, alla fine, "l'anima del bambino tornò nel suo corpo". Il figlio è reso alla madre che, piena di gioia, proclama la sua fede in Dio, la cui parola è sulla bocca di Elia. Nella prima visita a Nazaret, all'inizio della sua missione pubblica, Gesù ha ricordato la vedova, con parole piene di ammirazione: "C'erano molte vedove in Israele al tempo i Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Zarepta di Sidone" (Lc 4,25-26). La grande fede e la carità della vedova le hanno meritato una vera e propria canonizzazione da parte del Signore. Un modello meraviglioso da cui tutti noi abbiamo tanto da imparare.

Eliseo, la vedova e il vaso d'olio

In alto: la vedova implora aiuto dal profeta Eliseo;

in basso: la vedova con i figli chiusi in casa mentre riempiono i vasi d'olio. Bibbia di Venceslao di Boemia, secolo XIV.

Elia, il coraggioso profeta che aveva combattuto contro le malefatte del re Acab e di sua moglie Gezabele, fu un giorno rapito al cielo in un carro di fuoco. Eliseo, suo discepolo, ne continuò l'opera, per richiamare il popolo d'Israele alla fedeltà alla legge di Dio. La vita di Eliseo è punteggiata da episodi belli, che mostrano la speciale assistenza che il Signore gli ha sempre accordato, per sostenerlo nella sua difficile missione. Anch'egli ebbe a che fare con una vedova, la quale, perduto suo marito, era caduta in miseria (2 Re 4,1-7). Un suo creditore, visto che lei non aveva denaro per pagare il suo debito, stava per prendere i suoi due figli come schiavi, in modo che fossero essi, con il loro servizio, a pareggiare i conti. La donna, nella sua disperazione, ricorse al profeta

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che, avendo conosciuto il marito defunto, era disposto a dare il suo aiuto. In quei tempi, secondo la legge di Mosè, un ebreo non poteva essere ridotto in schiavitù per sempre. In un caso come questo, i due ragazzi avrebbero dovuto servire il loro nuovo padrone per il numero di anni che separava quell'anno dall'anno del giubileo, che era proclamato ogni sette anni. Si trattava quindi di una condizione temporanea, ma avrebbe comunque rovinato la vita della donna, lasciata sola, e dei suoi figli, che avrebbero perso anni della loro esistenza, facendo servizi umili e umilianti. Anche se questa storia ha qualche somiglianza con quella di Elia e la vedova di Sarepta, le differenze sono Tolto più evidenti. In questo caso, Eliseo chiede alla donna se ha qualcosa in casa. La risposta è scoraggiante: "In casa la tua serva non ha altro che un orcio d'olio". Ma anche quel poco d'olio pub dare al Signore la possibilità di agire, con la sua misericordia. Nella storia di Elia, la fede della vedova era stata messa alla prova con una richiesta precisa: prima dai a me tutto, poi riceverai per te. Qui invece l'intervento del profeta è meno esigente: si tratterà soltanto di provare a fare quello che egli dice, seguendo alla lettera il suo suggerimento. Eliseo disse alla donna: "Chiedi in prestito vasi da tutti i tuoi vicini, vasi vuoti, nel numero maggiore possibile. Poi entra in casa e chiudi la porta dietro a te e ai tuoi figli; versa olio in tutti quei vasi; i pieni mettili da parte". Ecco quindi la sfida di fede: si chiede solo di compiere una operazione il cui unico rischio, se non fosse riuscita, sarebbe stata la brutta figura con i vicini, a cui erano stati chiesti inutilmente i vasi. L'operazione fu compiuta in tutta segretezza, ed ecco che, mentre la donna versava l'olio dall'unico orcio, i vasi si riempivano uno ad uno e il flusso non si fermava mai. Alla fine tutti vasi presi in prestito erano presi. La donna ne chiese ancora, ma i figli dovettero dirle che non ce n'era più. Solo allora l'olio cessò di uscire dall'orcio. Ormai la povera famigliola aveva risolto la propria situazione: possedevano tanto olio da vendere, e con il ricavato avevano di che pagare i debiti e poi vivere tranquillamente con il resto. La lezione che ci viene data da questo episodio è molto efficace. Abbiamo una situazione disperata, che, attraverso la mediazione del profeta Eliseo, richiede un intervento speciale della Provvidenza di Dio. Il profeta, che agisce sempre ascoltando quello che lo Spirito di Dio gli ispira di fare, ha suggerito un modo semplice per uscire dalla difficile condizione della vedova. Ma questo modo semplice — l'azione di versare olio da un recipiente all'altro — ci insegna qualcosa di utile. Guardiamo la scena: i figli passano i vasi e la donna versa l'olio; alla fine la donna chiede ancora vasi, ma non ce ne sono più, e solo allora il flusso dell'olio si interrompe. Il che vuoi dire, molto chiaramente, che non è la Provvidenza a mettere un limite al suo intervento, ma la nostra disponibilità all'intervento della Provvidenza. Se ci fossero stati altri vasi, l'olio avrebbe continuato ad uscire dall'orcio. La Provvidenza ha interrotto il miracolo perché il mezzo umano, che era necessario per collaborare con essa, era ormai esaurito. Ecco quindi che questa vedova, della quale non conosciamo né il nome né la provenienza, ci offre una bella lezione di fiducia nella Provvidenza, che non ha altri limiti che quelli che noi le poniamo.

Eliseo e la Sunammita

Lord Leighton (1830-1896),

Eliseo risuscita il figlio della Sunammita, Londra, Leighton House.

Subito dopo l'episodio della vedova, che abbiamo letto nella riflessione precedente, il profeta Eliseo ha incontrato un'altra donna, in questo caso una "donna illustre" nella città di Sunem, che, d'accordo con suo marito, era sempre pronta ad ospitarlo in casa sua, perché riconosceva in lui "un uomo di Dio". Volle persino preparare una camera per lui, in modo che potesse anche fermarsi per trascorrervi la notte (2 Re 4,8-37). Volendo sdebitarsi per tanta cortesia, Eliseo chiese alla donna se aveva qualche desiderio nel quale egli la potesse assistere. Non ne ebbe alcuna risposta: era contenta di quello che aveva. Ma il servo del profeta aveva capito che, dietro la tranquillità ostentata dalla buona signora, c'era ugualmente un dramma umano molto profondo. Ed è

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qualcosa che abbiamo già incontrato e conosciamo bene. Era il dramma di Sara, di Rachele, di Anna: la donna non aveva figli e suo marito era già vecchio. Si sentiva quindi destinata a finire la vita senza nessuna assistenza ed a lasciare questa vita senza che nessuno la potesse più ricordare. Ancora una volta, attraverso la voce del profeta, Dio manifesta la sua promessa: "L'anno prossimo, in questa stessa stagione, tu terrai in braccio un figlio". La sorpresa della Sunammita è talmente grande che in un primo momento pensa ad una bugia pietosa, e implora: "Non mentire con la tua serva". Ma di fatto fu così: la donna rimase incinta e il bimbo nacque, proprio alla data indicata da Eliseo. Ma la storia non finisce qui, con la notizia della nascita di un figlio e della gioia, che possiamo facilmente immaginare, dei suoi genitori. Il bambino crebbe e divenne un ragazzetto, che, al tempo della mietitura, andò nei campi per raggiungere suo padre e i mietitori. Quello che la Scrittura descrive sembra essere un colpo di sole: nel caldo intenso, il ragazzo sentì un forte mal di testa e, trasportato subito in casa da sua madre, resistette soffrendo fino a mezzogiorno e poi morì. Il comportamento della madre ci sorprende: non grida la sua disperazione a tutti, non chiama il marito e non gli dice della morte del figlio. Nasconde invece il cadaverino nella stanza sempre pronta per Eliseo e, in fretta, corre dal profeta. Una volta di fronte a lui, la povera donna esprime con gesti silenziosi il suo dolore, troppo forte per essere manifestato a parole. Se per ogni figlio è naturale che giunga il momento di consegnare alla morte i genitori, per un genitore è una sofferenza immensa e contro natura perdere un figlio: a nessuno si può chiedere di capire e accettare un fatto così atroce. Eliseo si rende conto di tutto questo e interviene, prima indirettamente, mandando il suo servo e poi, diètro l'insistenza della madre, andando di persona. L'azione del servo non produce nessun effetto, e allora è Eliseo che agisce. Nel silenzio della stanza, solo di fronte al ragazzo morto, il profeta prega il Signore: quello che farà ora saranno gesti suggeriti dalla fede in Dio, che dà la vita, e non dal desiderio di impressionare qualcuno con manovre di magia o di stregoneria. Eliseo si stende sul corpo esanime, per trasmettergli ancora, con il contatto del suo corpo, il calore della vita. Dopo una breve pausa, ripete il gesto ed ecco che "il ragazzo starnutì sette volte, poi aprì gli oc' chi". Questa solenne salva di starnuti indica in maniera più che evidente che il ragazzo è vivo. Al momento della creazione, Dio aveva dato vita a primo uomo "soffiando nelle sue narici un alito di vita". Ora i ripetuti starnuti annunciano che la vita è tornata e che il figlio della Sunammita è di nuovo vispo e vivace come prima. La donna può ora entrare nella stanza e il profeta le consegna il figlio. In silenzio, la donna lo ringrazia buttandosi in ginocchio davanti a lui, e quindi "prese il figlio e uscì". La donna di Sunem ha molto da dirci, pur nei suoi silenzi, più intensi di ogni parola. Generosa e ospitale, ha offerto a Eliseo un punto d'appoggio nelle sue peregrinazioni al servizio di Dio. Nell'umiliazione per la sterilità del suo matrimonio, non ha chiesto nulla al profeta, ed ha lasciato che fosse lui a intuire il suo desiderio. Quando il piccolo morì, ebbe tanta fede nell'uomo di Dio, da nascondere la disgrazia anche a suo marito, certa che, alla fine, tutto sarebbe andato bene. In silenzio chiese il miracolo, in silenzio ringraziò. Possiamo davvero dire che, come donna esemplare, essa ha meritato una speciale attenzione da parte di Dio e il dono della sua costante protezione.

Atalia, l'usurpatrice sanguinaria

Gioacchino Assereto (+1649), loseba nasconde e salva loas

dalla persecuzione di Atalia, Collezione privata.

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Gustavo Dorè (1832-1883),

L'uccisione di Atalia all'esterno del tempio, dalla Bibbia illustrata.

Dopo alcuni bei personaggi femminili, dobbiamo interessarci ancora di una donna tutt'altro che esemplare. Nel secondo libro dei Re, al cap. 11 — ed anche nel libro delle Cronache nei cap. 22-23 — , si descrive il periodo in cui, nel regno di Giuda, la successione reale nella famiglia di Davide venne interrotta, proprio per l'intervento di Atalia, che si impadronì del regno e governò da sola. Il regno d'Israele, che sotto Davide e Salomone comprendeva l'intera Palestina, si era diviso in due tronconi perché il figlio di Salomone, Roboamo, aveva ereditato da suo padre il trono, ma non la saggezza. Con il suo modo avventato di fare, aveva provocato la ribellione di dieci tribù su dodici, e queste si erano costituite in un regno indipendente del Nord, che più tardi stabilì il suo centro nella città di Samaria. Gerusalemme rimase capitale del regno di Giuda, che comprendeva solo le due tribù di Giuda e di Beniamino. In un periodo di grande confusione politica, con rapidi cambi di potere e numerose uccisioni nel regno del Nord, il re di Giuda, Acazia, in visita al re di Samaria, fu ucciso dai soldati di Ieu, che aveva preso il potere con un sanguinoso colpo di stato. Sua madre era Atalia, imparentata con il re Acab. Le fonti la dicono sorella o figlia di Acab, il re crudele che aveva avuto dei contrasti molto gravi con il profeta Elia. Che Acab fosse suo padre o suo fratello importa poco: il fatto è che Atalia ne aveva certamente ereditato il cinismo e la crudeltà. Ci narra infatti la Scrittura: "Atalia, madre di Acazia, visto che era morto suo figlio, si propose di sterminare tutta la discendenza regale". In quei tempi, era una prassi crudele, ma considerata normale, che chi conquistava il potere con un colpo di stato uccidesse tutti i membri della famiglia del re deposto. Si faceva questo per garantire che nessuno della precedente dinastia potesse cospirare contro il nuovo re per riprendere il trono. Così si era comportato Ieu nei confronti della famiglia del re Acab. Così si era comportato anche Davide nei confronti della famiglia di Saul, pur facendo qualche eccezione, per rispetto al suo caro amico Gionata. Quello che rende il delitto di Atalia più grave e odioso è il fatto che lei fece uccidere i suoi parenti, e addirittura i suoi diretti discendenti. Lo scrittore sacro deve inoltre notare un ulteriore elemento di gravità: mentre nel regno di Israele — il regno del Nord — il potere era conteso tra pretendenti di diversa origine, nel regno di Giuda — con il suo centro a Gerusalemme — il trono era sempre rimasto alla discendenza di Davide, secondo il desiderio e le promesse divine. Cercando di distruggere ogni membro della dinastia davidica, Atalia andava contro il progetto che Dio aveva confermato più volte, promettendo un regno eterno a Davide e ai suoi discendenti. Il progetto criminale di Atalia non poté essere eseguito totalmente. Ioseba, sorella del defunto Acazia e moglie del sacerdote Ioiadà, nascose Ioas, il figlio minore del re, e quindi nipote di Atalia, all'interno del tempio di Gerusalemme. Il nascondiglio non fu rivelato e il piccolo Ioas, che al momento della strage aveva appena un anno di età, vi rimase per sei anni. Nel frattempo, Atalia regnava sul paese. Nulla è detto sul modo in cui esercitò il potere, ma, visto il cinismo con cui se ne era impadronita, non sembra possibile immaginare niente di positivo. Quando Ioas aveva ormai sette anni, il sacerdote Ioiadà decise che era giunto il momento di ristabilire il legittimo

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erede sul trono di Giuda. D'accordo con i membri del corpo di guardia e con i leviti del tempio, organizzò il rovesciamento di Atalia. Il re bambino, protetto dai soldati, fu condotto in uno dei cortili del tempio, dove ricevette il diadema e fu acclamato dal popolo, felice di sapere che la dinastia di Davide non era stata del tutto distrutta. Richiamata dalle grida di gioia della gente, Atalia si recò al tempio, e capì subito che c'era stata una congiura contro di lei. Ma nessuno ascoltò la sua denuncia, nessuno prese le sue difese. Senza tante formalità, l'usurpatrice fu portata fuori dal tempio e lì fu uccisa. Il giovane Ioas, guidato dal sacerdote, Ioiadà, regnò quaranta anni a Gerusalemme "e fece ciò che è retto agli occhi del Signore per tutta la sua vita". Nessuno sembrò rimpiangere la scomparsa di Atalia. Di fatti, c'è poco da rimpiangere quando scompare qualcuno o qualcuna che, dopo aver conquistato il potere con la violenza, lo ha gestito solo per il proprio interesse.

La profetessa Culda e il libro della legge

Consultazione della profetessa Culda, miniatura del sec. XV,

Biblia De Alba, Madrid, Palacio de Liria. L’ultimo personaggio femminile nei libri storici ci è noto soltanto per il suo nome — Culda — e per la sua qualifica — profetessa. Di lei non sappiamo niente altro, a parte l'informazione, per noi del tutto inutile, che suo marito si chiamava Sallum e che abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme (2 Re 2211-20; 2 Cr 34,22-28). Neppure ci viene detto quale fosse l'origine della sua missione profetica né in quale modo il Signore le facesse conoscere la sua volontà. Culda appare all'improvviso e, una volta compiuta l'opera che le è stata richiesta, scompare dalla narrazione. È chiamata in causa per un episodio il cui significato non è del tutto chiaro, accaduto a Gerusalemme durante il regnio di Giosia. Questi era un sovrano buono e sinceramente dedito alal riforma religiosa del suo popolo, che sembrava aver dimenticato del tutto la speciale relazione che Dio aveva scelto di avere con lui. Una necessità urgente della riforma era quella di restaurare il tempio del Signore, che, durante il lungo regno dell'empio Manasse e quindi nei due anni in cui governò suo figlio Amon, era stato lasciato in un triste abbandono. Durante i lavori di ripristino, in qualche angolo nascosto del tempio, il sommo sacerdote trovo un volume, che, dopo una prima lettura, fu identificato come 'il libro della legge'. Quando il testo fu letto davanti al re Giosia, questi fu colto da una profonda commozione, espressa, secondo l'uso di allora, con il gesto di strappare i vestiti. Se quella scritta nel libro era la volontà di Dio, era evidente che per troppo tempo gli Ebrei non avevano rispettato le leggi ed erano quindi gravemente colpevoli e degni di punizione. Di qui il dolore del re, che riassumeva nella sua persona la responsabilità del bene e del male operato dal popolo intero. Il re Giosia chiese allora di consultare il Signore, attraverso la profetessa Culda. Ai cinque autorevoli personaggi inviati da lei, Culda fece conoscere la parola di Dio, indirizzara al re: "Il popolo ha abbandonato l'alleanza con me e

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quindi questo luogo sarà distrutto; in considerazione, però, della tua sincerità, la punizione sarà inflitta dopo la tua morte". La distruzione di Gerusalemme e la dispersione del popolo, costretto all'esilio, era ormai vicina, ed accadde infatti durante il regno di Ioiachìn, nipote di Giosia, per opera del re di Babilionia, Nabucodonosor. Culda profetizzo questo evento e poi scomparve, senza essere più menzionata, come non era stata menzionata prima. Quanto al libro che fu allora trovato, si pensa comunemente che si sia trattato del quinto libro del Pentateuco, il Deuteronoinio, o almeno della sua parte in cui erano codificate le leggi. Quel testo sarebbe stato redatto durante la riforma religiosa condotta dal re Ezechia, conservato nel tempio e poi dimenticato, nei lunghi anni del regno di Manasse. Un'altra ipotesi, più fantasiosa ma certamente più interessante, sarebbe quella che il testo fosse stato scritto dai consiglieri del re Giosia, e che, per dare ad esso una speciale autorevolezza, si sia inventata la storia del ritrovamento nel tempio. Un trucco, insomma, architettao al fine di dare maggiore forza e consistenza allo sforzo operato da Giosia per riportare il regno di Giuda alla fedeltà all'alleanza con il Signore. Potremmo pensare che questa donna, che viene appena ricordata, abbia poco da dirci e che la sua breve comparsa sia soltanto un dettaglio secondario nella storia della salvezza. Certamente, la parte che Dio le ha assegnato nel dramma del suo popolo è breve, ma ha in sé una forte carica esemplare. Culda rimane nel nostro ricordo come una voce, che esiste solo per annunciare la parola di Dio e si nasconde dietro quella parola. Ricordiamo un'altra voce, che si definì come tale e il cui compito è stato quello di preparare l'accoglienza della Parola fatta carne, Gesù di Nazareth. L'esempio di Culda rivive in Giovanni il Battista, che parla ma poi scompare, quando viene colui che è più forte di lui. L'esempio di Culda deve essere vissuto da ciascuno di noi, che abbiamo il compito di annunciare la Parola di Dio e non la nostra. In questo annuncio sta la nostra missione e la nostra grandezza, anche se il nostro nome sarà appena ricordato, come quello di Culda, o non sarà ricordato affatto, come quelli della grande folla di testimoni anonimi, il cui nome e il cui volto è inciso sulle palme delle mani di Dio (v Isaia ).

Le donne straniere cacciate via

Noemi accoglie Rut, litografia tratta da

una Bibbia inglese del 1890.

Culda è l'ultima donna dei libri storici, identificata con un nome. Parliamo ora di altre donne, di cui non sappiamo il nome ma conosciamo la situazione. La loro vicenda è descritta nei libri di Esdra, ai capitoli 9 e 10, e di Neemia, al capitolo 13. Sono donne che non appartenevano al popolo d'Israele, ma si erano sposate con uomini israeliti, durante gli anni della dispersione. Nella Sacra Scrittura notiamo un cambio di atteggiamento nei confronti dei matrimoni con donne straniere. Il patriarca Giuseppe, che salvò i suoi fratelli dalla carestia, sposò una donna egiziana e i suoi due figli, Efraim e Manasse, furono benedetti da Giacobbe e diedero il nome a due territori tribali di Israele. Anche Mosè sposò una donna straniera, e per questo i suoi fratelli lo osteggiarono, ma Dio prese le sue difese. Anche nel libro di Rut vediamo donne straniere accolte nell'ambito del popolo eletto, e, come già sappiamo, Rut la Moabita fu la bisnonna del re Davide.

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Nel libro del Deuteronomio, scritto negli ultimi anni prima che Nabucodonosor distruggesse Gerusalemme, la legge si occupa direttamente di questa possibilità e la giudica in modo negativo. Non ci dovevano essere alleanze con i popoli, in mezzo ai quali vivevano gli Ebrei, e tanto meno matrimoni con loro: "Non costituirai legami di parentela con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero la tua discendenza dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri" (Deut 7,3-4). La condanna contro gli Ammonniti e i Moabiti stabilisia che essi non sarebbero mai entrati a far parte della comunità del Signore, fino alla decima generazione (Deut 23,4). Anche se il redattore di questa norma sembra aver dimenticato la storia di Rut, resta il fatto che ora la legsilazione era diventata molto più severa che in passato. Ed ecco quindi la vicenda alla quale ci occupiamo: al ritorno del piccolo resto di Israele a Gerusalemme, i responsabili del popolo vennero a sapere dei molti matrimoni misti, che, come indicava la legge, avrebbero condotto gli Israeliti a tradire la fedeltà al Signore, per seguire i più attraenti culti pagani. Questa possibilità avrebbe completamente trasformato la natura del nucleo di Ebrei, che cercavano di restituire alla loro comunità la sua identità propria. Esdra e Neemia, ciascuno a suo tempo, hanno pertanto preso l'estrema decisione di obbligare quegli Israeliti, che avevano sposato donne straniere, di rimandare le loro mogli insieme con i figli avuti con esse. Questo episodio ha un aspetto doloroso, perché molti di questi matrimoni erano certamente stati celebrati per una scelta di amore vero. Le donne che erano state scelte non avevano colpa, per il fatto di appartenere ad altri popoli, né potevano essere accusate di cattive azioni, se erano rimaste fedeli alle convinzioni religiose dei loro padri. Certamente però avevano agito male quegli Ebrei che, avendo formato le loro famiglie violando le proprie leggi, si erano lasciati influenzare dalle loro spose, al punto di tradire la loro fede nel Signore, invece di trasmettere ad esse il messaggio dell'alleanza stabilita da Dio con il suo popolo. Alla fine, comunque, le donne e i loro figli furono allontanati, e questo provvedimento dovette gravare pesantemente sulla loro vita. I matrimoni misti possono presentare anche oggi più di un problema, specie in riferimento alla fedeltà religiosa dei loro membri, che possono cadere in una sorta di indifferenza verso le diverse scelte, oppure essere forzati a rinunciare alle proprie convinzioni. In un passaggio del libro di Esdra, leggiamo una frase che, se presa isolatamente, deve preoccuparci. Nel lamentare il matrimonio di Ebrei con donne straniere, l'autore aggiunge: "Cossi hanno mescolato la stirpe santa con le popolazioni locali" (9,2). Questa allusione alla purezza della stirpe potrebbe aprire la porta ad una concezione razzista della religione, introducendo un principio che potrebbe giustificare tante prevaricazioni e tante tragedie. Anche in questo, dobbiamo constatare quanto siamo ancora lontani dal messaggio evangelico, che proclama invece che i membri del popolo del Signore: "non da sangue né da volere di carne nè da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati". Non è una questione di stirpe o di razza o di popolo, ma solo della libera scelta dell'amore di Dio. Continuando nella nostra ricerca, avremo ancora occasione di occuparci di donne straniere e del pericolo che essere possono rappresentare. Lo vedremo bene a suo tempo.

Anna, la moglie di Tobi

Giovanni Antonio Guardi (16901760),

Tobi, sostenuto dalla moglie Anna, viene curato negli occhi dal figlio Tobia con il fiele estratto dal pesce. Venezia, chiesa di San Raffaele arcangelo.

Dopo aver esplorato la prima parte del Libro Sacro, dedichiamo ora la nostra attenzione ai libri sapienziali e profetici, per cogliere, anche in essi, le figure femminili di cui si parla, anche se lo si fa talvolta solo in brevi accenni. I primi

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testi che esaminiamo sono elencati tra i libri storici, anche se, in realtà, di storico hanno soltanto l'aspetto esterno, mentre si tratta piuttosto di racconti esemplari, con una vaga ambientazione in un tempo determinato, ma con molte imprecisioni e incongruenze. Sono però testi belli, facili da leggere e molto utili per elevare il nostro spirito, con l'esempio di persone fedeli a Dio e capaci di compiere opere degne di essere ricordate. Apriamo per primo il libro di Tobia, che narra la storia di due famiglie, parenti tra di loro e ambedue segnate da una serie di circostanze dolorose. Tobi, padre di Tobia, vive in esilio a Ninive, ma si mantiene fedele alla legge del Signore e dimostra un grande senso di compassione verso i suoi compatrioti, anch'essi in esilio e più di lui provati dalla miseria e dall'oppressione. Quasi per provare la solidità della sua fede, la Provvidenza permette che egli paghi amaramente le conseguenze di suoi gesti di carità: prima viene mandato in esilio e quindi, una volta che è tornato a casa, è reso cieco per un incidente fortuito. Questo significò la povertà totale per una piccola famiglia che viveva del lavoro del padre, reso ormai incapace di svolgere qualsiasi attività. Anna, la moglie di Tobi, che era una donna virtuosa e attiva, di fronte alla fisica inabilità del marito, si impegnò personalmente, tessendo a casa propria la lana per chi le chiedeva di fare delle pezze di tessuto. Lavorava bene, tanto che uno dei suoi clienti, ricevuto il lavoro, oltre a pagare il prezzo pattuito, regalò ad Anna un capretto da mangiare. Proprio questo capretto provocò un incidente grave tra i due sposi, provati dalle ristrettezze economiche e ambedue portati a reagire con eccessiva aggressività in questa circostanza, in fondo banale. Il fatto è che Tobi, sentendo il capretto belare, sospettò che l'animale fosse stato rubato e chiese ad Anna di restituirlo ai padroni. Anna ne spiegò l'origine: "Mi è stato dato in più del salario", ma Tobi non volle crederle e addirittura espresse la sua vergogna per il furto che sospettava avesse fatto la moglie. Esasperata per queste accuse, Anna reagì anch'essa con molta durezza: "Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene da come sei ridotto". In questo litigio possiamo riconoscere la storia di tante dispute che abbiamo vissuto anche noi: una parola di troppo, un sospetto ingiustificato, frasi pesanti e, alla fine, tanto disagio per tutti. Tobi è stato ingiusto nel sospettare che sua moglie fosse una ladra, e Anna ha esagerato le conseguenze del malinteso, mettendo in discussione tutta la vita di suo marito. In questo caso, a darci un'utile lezione non è il buon esempio ma lo sbaglio commesso da due brave persone. In risposta alle suppliche di Tobi, Dio intervenne per riportare la gioia in quella famiglia. Ma per questo, giovane Tobia sarebbe dovuto andare lontano e Anna era in pena per la partenza del figlio: dopo tutte le sofferenze che hanno patito, perché mettere a rischio la vita dell'unico figlio che hanno? E dicendo questo, con un tocco di esagerata sensibilità materna, Anna parlava di "mio figlio", quasi escludendo il padre 206 dalla vicenda. Ma subito dopo si corres- se e parlò ancora di "nostro figlio". Lì per lì, le rassicurazioni di Tobi la tranquillizzarono, ma non c'è dubbio che la povera donna deve aver sentito profondamente la lontananza di Tobia. Quando i giorni calcolati per il viaggio erano ormai esauriti, ogni mattina Anna si recava presso la strada ad attendere il figlio. Ecco la narrazione: "Anna intanto sedeva scrutando la strada per la quale era partito il figlio. Quando si accorse che stava arrivando, disse al padre di lui: 'Ecco, sta tornando tuo figlio con l'uomo che l'accompagnava'. Avete notato come ora Anna parli a Tobi di "tuo figlio"? L'equilibrio è ristabilito del tutto! Poi "corse avanti e si gettb al collo di Tobia dicendogli: 'Ti rivedo, o figlio. Ora posso morire'. E si mise a piangere". Ma per Anna non era ancora giunto il momento di morire: fece in tempo a diventare nonna e a vedere i figli di Tobia e di Sara, la sposa di Tobia della quale parleremo la volta prossima. Visse più a lungo di Tobi, che, risanato dalla sua cecità, morì alla bella età di centododici anni. E quando giunse anche per Anna il momento di lasciare questa vita, fu sepolta accanto a suo marito.

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Sara, sposa di Tobia

Giovanni Antonio Guardi (1698-1760), Tobia e Sara in preghiera,

assistiti dall'arcangelo Raffaele. Venezia, chiesa di S. Raffaele Arcangelo.

Nell'articolo precedente, dedicato ad Anna, moglie di Tobi, avevo ricordato il nome di Sara, che doveva diventare la sposa di Tobia, figlio appunto di Anna e Tobi. Sara, unica figlia di due cugini di Tobi, Edna e Raguele, aveva avuto fino ad allora una vita molto infelice, perché era perseguitata da un demonio perverso. Ecco come è descritta la triste situazione della giovane: "Era stata data in moglie a sette uomini, ma Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli" (3,8). Per questa sua sventura, anche le domestiche di casa la trattavano male, e ormai tutti la consideravano come una che portava sfortuna. Come vedete, le superstizioni non sono una cosa solo dei tempi nostri. La povera Sara era talmente disperata che aveva pensato anche ad uccidersi, ma rinunciò però a farlo per non provocare un disonore ancora maggiore sui suoi genitori. La fede venne in suo aiuto: invece di cadere nella disperazione, Sara si affidò al Signore, che invocò con parole piene di speranza: "Se tu non vuoi che io muoia, guarda a me con benevolenza". La, preghiera di Sara si unì a quella di Tobi, anche lui sconfortato perché cieco e reduce dal litigio con la moglie: "In quel medesimo momento la preghiera di ambedue fu accolta davanti alla gloria di Dio, e fu mandato Raffaele a guarire tutti e due". Il racconto, da leggere per intero, diventa avvincente: il figlio di Tobi, Tobia, deve viaggiare lontano per ricuperare il denaro lasciato da suo padre presso un cugino; va con lui un giovane, di nome Azaria, che si finge loro lontano parente ma che in realtà è l'arcangelo Raffaele. Durante il viaggio, Raffaele affida a Tobia le interiora di un pesce da loro pescato, che serviranno per guarire sia Sara sia Tobi. E quindi parla a Tobia di Sara, giovane bellissima e virtuosa, che appartiene alla sua stessa famiglia, per cui è proprio Tobia l'uomo destinato a sposarla. La proposta trova Tobia un po' perplesso: ha sentito parlare di quella ragazza e della sorte toccata ai suoi sette mariti, e non ha nessuna voglia di fare la stessa fine. Dice questo con una preoccupazione piena'di amore filiale: è figlio unico e la sua morte potrebbe portare alla tomba i suoi genitori, che non avrebbero nessun altro figlio che possa seppellirli. Ma Raffaele, che non per niente è un angelo, sa essere convincente: Tobia dovrà sposare Sara, cacciare il demonio bruciando il cuore e il fegato del pesce su un braciere, e quindi invocare la grazia del Signore prima di unirsi alla sua sposa. Le parole di Raffaele sono tanto efficaci che Tobia si innamora di Sara senza averla neppure vista, e, arrivato in casa di Raguele, insiste perché il matrimonio sia celebrato subito. La richiesta trova qualche iniziale opposizione, ma alla fine Raguele accoglie la volontà di Tobia, Edna prepara la camera per gli sposi novelli e Sara vi è condotta tra lacrime e parole di incoraggiamento. La grazia di Dio protegge ormai i due giovani, e tutto si svolge come Raffaele aveva indicato: il demonio è cacciato lontano e impedito di fare ancora del male. Tobia e Sara, ora soli, si inginocchiano e pregano con parole piene di sentimenti nobili: "Prendo questa mia parente con animo retto. Degnati di avere misericordia di me e di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia". Mentre i giovani sono insieme, il racconto ci offre un dettaglio a suo modo divertente. Raguele ha paura della reazione dei vicini, se anche questo nuovo sposo di sua figlia do vesse morire, e allora fa preparare di nascosto una fossa, per una eventuale sepoltura "senza che nessuno lo sappia". Quando poi, la mattina dopo, vede che Tobia e Sara sono ancora immersi nel sonno e stanno bene, ringrazia Dio e ordina ai servi di riempire la fossa prima che si faccia giorno. Ormai siamo al lieto fine di questo racconto. Dopo le feste di matrimonio, Raguele lascia partire i novelli sposi, augurando a Sara: "Che io possa sentire buone notizie a tuo riguardo, finché sarò in vita". Edna poi dice a Tobia:

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"Davanti al Signore ti affido mia figlia in custodia. Non farla soffrire in nessun giorno della tua vita". Al termine del viaggio di ritorno, il fiele del pesce serve per guarire la cecità di Tobi, che prova la felicità di rivedere suo figlio e di accogliere Sara: "Entra nella casa, che è tua, sana e salva, nella benedizione e nella gioia; entra, o figlia". Sara e Tobia sono un bell'esempio per ogni coppia di sposi, capaci di vivere il loro amore con fiducia nella Provvidenza e capaci di superare le difficoltà insieme, in spirito di preghiera.

Giuditta Teologa

Bottega di Paolo Veronese (sec. XVI),

Giuditta riceve i capi di Betulia, Ashmolean Museum di Oxford.

Tutti conosciamo l'immagine di Giuditta, che solleva con fierezza la testa, del generale nemico ucciso, Oloferne. Prima però di arrivare a quel punto della storia, dobbiamo soffermarci sui primi capitoli del libretto della Sacra Scrittura che porta il suo nome. Anche il libro di Giuditta non è un libro storico, perché non riferisce fatti realmente avvenuti, ma presenta una figura ideale di donna, capace di salvare l'intera nazione ebraica con la sua audacia. Ecco i fatti: la città di Betulia, dove vive Giuditta, era assediata dall'esercito assiro, inviato dall'imperatore Nabucodonosor, per conquistare l'intera Palestina. Superato l'ostacolo di questa città, che resisteva alle truppe degli invasori, la strada verso Gerusalemme sarebbe stata aperta agli Assiri. Era quindi importantissimo resistere, per la salvezza della nazione intera. Oloferne era ben cosciente di questa situazione e aveva capito di non poter avanzare ancora, se prima non avesse conquistato Betulia. Per evitare gravi perdite nel suo esercito, egli accolse il suggerimento dei suoi consiglieri e chiuse la città in un assedio spietato. Le sorgenti d'acqua erano sotto il suo controllo e in breve, per fame e per sete, gli Ebrei avrebbero dovuto arrendersi. E questo è proprio quello che stava accadendo. In città mancava cibo e la gente aveva fame, non c'era più acqua e la gente moriva di sete. La popolazione era disperata e pronta a ribellarsi ai suoi capi: meglio arrendersi agli Assiri e diventare loro schiavi, piuttosto che andare a morte certa, e crudele, per fame e sete. Ozia, che era allora capo della città, non seppe resistere alla pressione di quelli che protestavano, e fece un giuramento solenne: se entro cinque giorni il Signore non fosse intervenuto per salvarli, si sarebbero arresi a Oloferne. A questo punto, entrò in scena Giuditta, donna bellissima e ricca, ammirata da tutti per la sua grande sapienza e dignità. Rimasta vedova, viveva ritirata, senza che mai nessuno avesse potuto esprimere qualche giudizio negativo su di lei. Giuditta chiese ai capi di Betulia di recarsi a casa sua, e, grazie al prestigio di cui godeva, questi si presentarono subito. La sua intenzione diventa immediatamente evidente: quello che lei offre ai responsabili della città è severo rimprovero e una lezione di teologia. Giuditta parla con semplicità e senza arroganza, ma le sue parole hanno una forza e una chiarezza straordinarie. Ecco il suo argomento: voi avete dato a Dio un limite di cinque giorni, ma chi siete voi per indicare a Dio quello che deve fare e quando deve farlo? Se Dio volesse liberarci dopo di quella data, chi siamo noi per discutere con lui o per sfidarlo nei suoi progetti? Non siete capaci di conoscere il cuore di una persona e pretendete di capire i pensieri del Signore? La prova che stiamo vivendo è il modo in cui Dio vuole purificarci, perché è così che egli corregge chi gli sta vicino. Parlando a nome di tutti, Ozia è costretto a riconoscere di aver fatto un errore, ma la pressione della gente era talmente forte che né lui né gli altri sono stati capaci di resistere, e si sono impegnati con un giuramento che avrebbero comunque dovuto mantenere. L'unica cosa che i poveretti sono capaci di fare è di chiedere a Giuditta di pregare per loro: se il Signore lì ascolterà e invierà la pioggia, essi potrebbero almeno non morire di sete.

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Giuditta ha parlato chiaro, ma non vuole umiliare né condannare nessuno. Di fatto, lei ha già un progetto, che per il momento non rivela ai suoi interlocutori, ma sa che, per mano sua, il Signore salverà Israele. Ecco quindi che la teologa si sta trasformando in eroina, piena di coraggio e di furbizia. Mentre aspettiamo di seguire Giuditta nella sua impresa, fermiamoci un istante per capire la sua lezione, che vale anche per noi. Se siamo sinceri, dobbiamo riconoscere che spesso le nostre preghiere sono simili a quelle dei capi di Betulia. Chiediamo a Dio di intervenire nel modo che a noi sembra più adatto, e spesso diamo a Dio delle condizioni precise e addirittura lo minacciamo con un ricatto: se non farai così, io non farò più questo e questo; oppure: se non farai quello che dico io, vuol dire che non sei un Dio buono, o, addirittura, vuol dire che non ci sei! Che bella pretesa, la nostra, di insegnare a Dio come deve comportarsi per essere Dio. Eppure è quello che facciamo spesso. E Giuditta è qua per farci capire quale terribile errore stiamo facendo.

Giuditta, l'eroina

L. Seitz. Giuditta con la testa di Oloferne,

Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902)

Dalla precedente lettura, sappiamo che Giuditta ha espresso con estrema sincerità il suo rimprovero ai capi della• città di Betulia, ma ha anche promesso che, prima della scadenza da essi imprudentemente stabilita, lei avrebbe fatto qualcosa per risolvere la situazione di estremo pericolo nel quale si trovavano tutti. Sappiamo anche che Giuditta era una donna bellissima. Ebbene, la sua intenzione è proprio quella di usare la bellezza per ingannare il generale nemico e portarlo a commettere qualche imprudenza, di cui lei avrebbe potuto approfittare. Per questo, Giuditta si prepara con cura, con ogni attenzione al suo aspetto sia nella persona sia nell'abbigliamento. Quando, ormai compiuta l'impresa, rievocherà quel momento, descriverà persino i suoi sandali: "Ella depose le vesti di vedova, ... si unse il volto con aromi, cinse i suoi capelli con un diadema e indosso una veste di lino per sedurlo. I suoi sandali rapirono i suoi occhi, la sua bellezza avvinse il suo cuore" (Giud 16,7-9). Questo è il piano che Giuditta ha preparato: insieme con la sua domestica, lascerà la città e andrà nell'accampamento di Oloferne. Il rischio è grande, ma lei è audace e fiduciosa nella protezione divina. Di fronte al generale nemico, ampliando un po' la verità dei fatti, lei dirà che i suoi concittadini hanno sfidato Dio e che per questo, tra poco, egli toglierà ad essi la sua protezione. In quel momento, le truppe di Oloferne potranno conquistare Betulia senza fatica, e quindi andare avanti tranquillamente verso Gerusalemme. Il discorso di Giuditta non fa una grinza, ma Oloferne avrebbe accettato da lei qualsiasi cosa, tanto era rimasto abbagliato dalla sua bellezza. Le condizioni poste dalla donna - poter mangiare soltanto i suoi cibi e uscire ogni sera per pregare - sono accolte senza difficoltà e tutto lascia credere che il rozzo generale voglia comportarsi come un vero gentiluomo, rispettoso delle leggi dell'ospitalità e corretto nei confronti della donna. Il che non è vero, perché, fin da quando ha visto Giuditta, così bella e così indifesa, Oloferne ha sentito il desiderio bestiale di poter approfittare di lei. I suoi sentimenti sono espressi nella conversazione con il suo maggiordomo: "Va' e persuadi la donna ebrea che è pressò di te a venire con noi, per mangiare e bere con noi. Sarebbe disonorevole per la nostra reputazione trascurare una donna simile senza godere della sua compagnia; perché se non la corteggiamo, si farà beffe di noi". È un esempio chiarissimo di arroganza maschile e di disprezzo della dignità della donna, che è vista solo come strumento facile di trastullo per il maschio dominante. Ma se Oloferne si lascia

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dominare dall'istinto, e perde la capacità di pensare in maniera razionale, quella che ha di fronte è una donna attenta, sempre vigile, che non dimentica mai la ragione per cui si trova nell'accampamento nemico. L'occasione buona le è offerta proprio da Oloferne, che ha deciso che è ormai giunto il momento di imporre il proprio potere di maschio alla bella donna che gli è capitato di ospitare. Invita Giuditta a cena, crea nella sua tenda un ambiente romantico e, a suo parere, seducente, convinto' ormai di aver vinto la battaglia. Secondo lui, la "donna ebrea" non sta facendo altro che attendere che l'eroe rivolga finalmente a lei il suo sguardo dominatore. Nella sua sicurezza, Oloferne vuole già festeggiare il successo e beve, beve tanto da ubriacarsi e addormentarsi pesantemente sul suo letto. Ora la donna ebrea manifesta tutta la sua determinazione. Presa la pesante scimitarra di Oloferne, l'abbatte sul collo dell'ignaro ubriaco: due colpi solo, e la testa del nemico è staccata dal corpo ed è nelle mani di Giuditta. Tutto si è svolto senza errori. Sarebbe bastata un'indecisione, un colpo troppo debole, un grido ... e un esercito intero le sarebbe stato addosso. Il suo fallimento avrebbe significato la sua morte, la rovina della città e della nazione. Ma Giuditta non ha sbagliato. Fiduciosa in Dio ha compiuto un'impresa straordinaria ed ha salvato il popolo dalla distruzione. Nell'eroina di Betulia scopriamo una somiglianza profetica con la vergine di Nazaret. Maria, come Giuditta, ottiene la salvezza del popolo con la sua adesione al progetto di Dio. Grazie al "sì" da lei pronunciato nell'annunciazione, il piano di salvezza ha inizio e, attraverso l'opera di Gesù, Figlio di Dio e di Maria, il male è sconfitto e, nella vittoria di Cristo, tutti noi siamo vincitori.

Ester, la bella regina

Ludovico Seitz, Ester davanti al re Assuero,

Loreto, Cappella Tedesca (1992-1902).

Il suo vero nome era Adassa, che in lingua ebraica significa "mirto", ma, nell'esilio presso il regno di Persia, era stata chiamata Ester. Orfana di padre e di madre, era stata allevata da suo zio, Mardocheo, un fedele figlio del popolo d'Israele, il quale cercava di vivere nella fedeltà alla legge di Dio, anche nella situazione di lontananza dal Tempio di Gerusalemme e nel disagio di convivere con un popolo diverso, che praticava una religione pagana, molto lontana dalla loro. L'ambiente della storia è quello, quasi fiabesco, di una corte orientale, con il re, sovrano assoluto, che, senza limiti da parte di nessuno, prende decisioni sulla vita e la morte dei suoi sudditi; con una regina capricciosa che, avendo offeso la sensibilità del re, viene spogliata delle sue prerogative e sostituita con un'altra donna, anch'essa a scelta libera del re; con ministri astuti e cinici, il cui solo interesse sembra essere quello di conquistare le grazie del sovrano, per fare soldi e carriera. Un mondo, in definitiva, molto lontano dal nostro, eppure così vicino, al punto di sembrare contemporaneo. La fortuna di Ester nasce dalla disgrazia di Vasti, la regina ripudiata dal re Assuero, offeso per il rifiuto di sua moglie di presentarsi di fronte ai suoi invitati. Per trovare una nuova regina, che fosse degna di comparire a fianco del

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sovrano, vengono radunate ragazze da ogni parte dell'impero. I responsabili del palazzo reale ne prendono cura per un lungo periodo, educando le candidate a comportarsi in maniera adeguata, quando fossero in presenza del re e migliorando il loro aspetto, con creme, unguenti e non sappiamo quali altri intrugli. "Ester attirava la simpatia di quanti la vedevano", e quando, al termine dei dodici mesi di preparazione, fu condotta presso il re Assuero, questi "amò Ester più di tutte le altre donne ed ella trovò grazia agli occhi di lui". La giovane ebrea ricevette dal re la corona regale e fu proclamata regina. Fiero della sua scelta, Assuero indisse grandi feste, invitando tutti i principi e i ministri, per esibire la sua nuova compagna. Nessuno però sapeva che Ester era di origine ebrea, perché Mardocheo le aveva detto di tenere la cosa nascosta. Ora Ester era giunta al massimo del successo umano. Ma proprio in quel momento, il primo ministro del re, Aman, stava tramando contro il popolo ebraico. La sua antipatia era stata provocata dall'atteggiamento di Mardocheo, che, per rispetto alla sua fede in Dio e alla sua dignità umana, rifiutava di compiere nei confronti di Aman quei gesti di venerazione e di adulazione che egli voleva che gli fossero attribuiti. Il risentimento di Aman divenne presto un rancore sordo, il rancore divenne odio e, saputo che Mardocheo era ebreo, l'odio di Aman si riversò contro tutto il popolo d'Israele. Con calunnie ben studiate, e approfittando del disinteresse del re, il cinico ministro predispose tutto per far eseguire, in un giorno preciso, lo sterminio degli Ebrei presenti nel regno persiano. All'interno del palazzo, Ester non sapeva nulla di tutto questo. Informata da Mardocheo, attraverso i tuoi servi, inizialmente pensò di non poter fare nulla: se il re non la chiamava, lei non poteva permettersi di presentarsi a lui di propria iniziativa. Un gesto del genere avrebbe portato alla sua condanna a morte. Mardocheo però insistette: se il popolo sarà distrutto, non ti salverai da sola. E pone la domanda: "Chissà che tu non sia diventata regina proprio per questa circostanza?". Ora Ester è convinta: ordina a Mardocheo di chiedere a tutti i loro compatrioti tre giorni di preghiera e di digiuno. Lei farà lo stesso con le sue ancelle. E poi andrà a sfidare l'ira del re e, se sarà necessario, morirà. La preghiera di Ester è intensa e accorata. Terminati i tre giorni di preparazione, si veste dei suoi abiti più eleganti. La vediamo, nella sua bellezza regale, attraversare le sale del palazzo accompagnata da due ancelle, per giungere là dove il re sta assiso in trono, splendente nei suoi ricchi ornamenti. Di fronte al suo sguardo carico d'ira per l'inattesa intrusione, Ester, già indebolita per il digiuno," si sente venir meno. "Ma Dio volse a dolcezza l'animo del re": l'amore per Ester è ancora forte e Assuero è pronto a fare qualunque cosa per compiacerla. Il passo più difficile è compiuto. Ma la vicenda non è ancora conclusa.

Ester, strumento di giustizia e di vendetta

Ernest Normand (1857-1923), Ester denuncia Aman,

Sunderland Museum and Art Gallery, Tyne and Wear County Council Museums.

Abbiamo lasciato Ester nel momento in cui, di fronte alla sua bellezza, il re Assuero si è detto disposto a fare per lei qualunque cosa. Ester sa di avere una missione da compiere, e sa che da quello che otterrà dal re dipende la vita di tanti suoi connazionali. Non vuole quindi precipitare le cose: con calma, invita il re e il primo ministro a un pranzo da lei, ma questo è solo un anticipo del banchetto più solenne che vuole offrire ad ambedue gli ospiti il giorno seguente. Il re accetta subito e Aman gongola di gioia, vedendo in questo invito il segno di una preferenza evidente: egli è il primo collaboratore del re ed è anche nelle grazie della regina. La sua vittoria su Mardocheo sarà presto completa, e a casa sua c'è già un patibolo eretto per giustiziare l'odiato Ebreo.

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Durante il banchetto, il re chiede ancora ad Ester di manifestare il suo desiderio: "Tutto ti sarà concesso, anche se fosse la metà del mio regno". Ma Ester non chiede nulla di tutto questo. La sua supplica è meno esigente, ma fondamentale: "La mia richiesta è che mi sia concessa la vita e il mio desiderio è che sia risparmiato il mio popolo". Questa domanda, così semplice e precisa, giunge al re come una sorpresa. Forse non ricordava di aver permesso ad Aman di disporre come voleva degli Ebrei, o forse, dato che il perfido ministro aveva parlato in maniera generica di "un popolo", non si era reso conto che la minaccia fosse contro di loro. In ogni caso, neppure lui sapeva che Ester apparteneva al popolo d'Israele. Il fatto è che, quando si è reso conto che qualcuno voleva far del male alla sua amata regina e ai suoi famigliari, Assuero ha subito reagito chiedendo chi fosse il responsabile di un progetto così crudele. La denuncia di Ester giunge immediatamente: "L'avversario, il nemico, è quel malvagio di Aman". Tanto basta per il re e la sua ira è tremenda. Il gesto di Aman, di prostrarsi addosso alla regina per supplicarla, serve soltanto per aumentare lo sdegno del sovrano, che ne decreta, seduta stante, la morte. La forca che Aman aveva fatto preparare per uccidere Mardocheo sarà invece usata per uccidere lui. Questa misura, però, non poteva essere sufficiente, perché in tutto il grande impero persiano c'erano persone pronte ad assalire gli Ebrei e a sterminarli, secondo gli ordini trasmessi da Aman. Non c'era tempo di avvertire tutti che la situazione era cambiata, e allora il re diede ai Giudei l'autorizzazione a riunirsi e a difendersi contro chi li avesse attaccati, e per questo "a distruggere, uccidere, sterminare, compresi i bambini e le donne, tutta la gente armata, di qualunque popolo e di qualunque provincia, che li assalisse e di saccheggiare i loro beni". Quando l'ondata di violenza si era esaurita, i nemici uccisi erano molte migliaia, ma tutto lascia pensare che le cifre data dal libro siano esagerate, per indicare un trionfo superiore ad ogni aspettativa. Del resto, come abbiamo già detto, il libretto di Ester non riferisce dei fatti che appartengono ad una storia realmente accaduta, ma rappresenta un racconto popolare, reso interessante Fla particolari vivaci e anche comici, per indicare che il popolo eletto poteva contare sempre sulla protezione di Dio. La Provvidenza ha fatto in modo che Ester ascendesse al trono, per poter essere di aiuto al suo popolo, in un momento di estremo pericolo. In questo, ci ricorda la storia di Mosè, che era cresciuto alla corte del faraone e, anche per questo, era stato capace di guidare il suo popolo verso la libertà. Ester è una donna dolce e bellissima, ma anche ferma e decisa quando questo è necessario. Attraverso il suo intervento, Dio agisce nella storia e opera la sua giustizia. Nella mentalità dello scrittore, quella giustizia sembra sfociare anche in vendetta, con una evidente venatura di orgoglio di razza e di disprezzo per gli altri popoli. Ma dobbiamo comprendere l'animo di chi sentiva il proprio popolo minacciato da vicini violenti e prepotenti, e voleva quindi affermare il suo diritto a difendere la propria esistenza. Le immagini delle immani tragedie del secolo scorso p appaiono, nella loro incredibile crudeltà, e ci fanno pensare che, in confronto, il ridicolo Aman è stato un mediocre nemico. Purtroppo di fronte allo sconvolgente progetto della Shoah non c'è stata una Ester, capace di alzarsi e di sventare i piani criminali di chi voleva la fine del popolo d'Israele.

L'irata moglie di Giobbe

A. Durer (1471-1528), La moglie di Giobbe.

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Il libro di Giobbe è anch'esso una specie di parabola, che non racconta una storia realmente accaduta, con personaggi storici, ma presenta un caso esemplare, con la finalità di trattare un tema difficile e molto delicato: la presenza del dolore nella vita degli uomini, e più ancora l'esistenza del dolore inno- cente, che colpisce cioè delle persone che non sono responsabili di peccato e che, nonostante che cerchino di vivere una vita corretta, seguendo al meglio la legge di Dio, sono colpiti da disgrazie e malattie. Il libro di Giobbe è difficile da leggere, perché i diversi capitoli sono tutti pieni di argomenti più o meno razionali. Il racconto è soltanto nei due primi capitoli e poi c'è una conclusione a lieto fine nell'ultimo. Ma la sostanza del libro è tutta in tanti lunghi discorsi nei 38 capitoli del testo. Conosciamo bene la storia: Giobbe è un uomo ricco e profondamente buono. Per mettere alla prova la sua fedeltà, Dio permette che le sue proprietà siano distrutte o rubate. Anche i suoi figli sono uccisi. Ma Giobbe non si lamenta e accetta da Dio questa prova: "Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore" (1,21). In un secondo momento anche la salute di Giobbe viene toccata, ed egli è colpito da una piaga ripugnante, per cui tutti lo abbandonano al suo triste destino. L'unica persona che gli è rimasta vicino è la moglie, la quale, di fronte a tutte le disgrazie che sono capitate al povero marito, e che naturalmente hanno coinvolto anche lei, non riesce a capirne l'atteggiamento paziente e lo riprende con un po' di cattiveria: "Rimani ancora 85 saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori". Non era certamente il tipo di intervento di cui Giobbe aveva bisogno, proprio mentre cercava di resistere a tutte le sue difficoltà. Ma, fedele alla sua scelta, risponde con mitezza anche a questa provocazione: "Tu parli come parle- rebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?" (2,9-10). Dopo questo scambio di battute, la moglie di Giobbe scompare dalla scena, per ricomparire, ma solo indirettamente, alla fine del libro. Quello che segue è un dialogo serrato tra Giobbe e i suoi tre amici, che sono venuti per consolarlo. Ad essi poi si aggiunge un quarto interlocutore, di cui non sappiamo da dove sia venuto né dove finisca poi, dato che non se ne parla più. Tra tutti, nasce una lunga discussione, in cui tutti cercano di spiegare le ragioni per cui Dio permette l'esistenza del male nel mondo. Gli amici di Giobbe si sforzano di dimostrare che la sua sofferenza è causata da qualcosa di male che lui ha fatto. Giobbe si difende, proclamando la sua innocenza. Il loro scambio di opinioni non riesce però a convincere nessuno: gli amici - che di amichevole in realtà hanno molto poco - non convincono Giobbe, né Giobbe riesce a convincere loro. Alla fine è Dio stesso che interviene: •"Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all'uragano" (38,1). Ragionando con i nostri criteri, noi vorremmo immaginare che ora sarà lui a dare tutte le risposte. Invece Dio non spiega nulla, ma rivolge a sua volta delle domande. Il suo scopo è di farci capire che i nostri mezzi sono troppo limitati per capire il modo di agire di Dio, e a noi non resta quindi altro da fare che chinare la fronte e, come ha fatto Giobbe, riconoscere che "davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo . Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento, sopra polvere e cenere" (40,3.5-6). E la moglie di Giobbe dov'è finita? Non ne sappiamo nulla, ma capiamo che è rimasta a fianco di suo marito. Quando, infatti, al termine del libro, arriviamo alla conclusione con un lieto fine, sappiamo che Giobbe ebbe altri figli, ovviamente da sua moglie, perché sappiamo che era un uomo onesto. Dio lo benedisse al punto che egli ebbe il doppio di tutto quanto aveva perduto. E questo spiega il perché della moglie, sia pure bisbetica ma rimasta accanto a lui: se avesse perduto anche lei, Dio gli avrebbe dovuto dare due mogli! Il che, considerato il carattere della prima, non sarebbe stato un grande favore per il povero Giobbe!

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Le donne irrequiete nel Libro dei Proverbi

Simon Vouet (1590-1649),

La buona ventura, particolare, Collezione Torlonia. Richiama il giovane «dissennato» del Libro dei Proverbi (7, 6-23) che si lascia sedurre da una donna sposata

e dalle sue «labbra allettanti».

Il libro dei Proverbi è una raccolta di detti, di epoche e provenienze diverse. Potremmo dire, tanto per intenderci, che è una collezione di consigli utili, di raccomandazioni e di esempi, presentati per insegnare a tutti un buon comportamento. In esso non c'è il racconto di imprese compiute da personaggi precisi, che possiamo identificare con un nome e con una storia. Si parla piuttosto di categorie di persone, di vario tipo e, volta per volta, con aspetti positivi e anche negativi. Cerchiamo nel libro quello che si riferisce alle donne. Chiariamo subito che tante cose sono dette anche degli uomini, con critiche molto forti e, senza dubbio, ben meritate. Ma ora ci occupiamo delle donne, cominciando dalle annotazioni negative. Forse anche offensive, ma sempre qualificate: gli autori non se la prendono con le donne in quanto tali, ma con le donne in riferimento ai difetti che alcune di loro manifestano. Vogliamo vedere qualche esempio? "È meglio abitare su un angolo del tetto che avere casa in comune con una moglie litigiosa ... Meglio abitare in un deserto che con una moglie litigiosa e irritabile" (21,9.19). È evidente che chi scrive è un uomo, ed ogni donna potrebbe riscrivere queste frasi, riferendole ad un uomo "litigioso e irritabile". Possiamo comunque essere d'accordo con l'idea che convivere con qualcuno che abbia sempre voglia di litigare non è per niente piacevole. Ma ora arriva la frase più bella, o, se volete, la più offensiva: "Un anello d'oro al naso di un maiale, tale è la donna bella ma senza cervello" (11,22). Si capisce bene che l'espressione non è delle più eleganti, ma il riferimento è fatto, ancora una volta, ad un tipo di donna poco apprezzabile, almeno da parte di chi cerca una persona e non soltanto un giocattolo per un poco di svago. Ricordate del resto l'espressione che si usa per un tipo di personaggio cinematografico, della donna, appunto, bella e sciocca? Si dice "oca giuliva", il che potrà essere meglio del paragone con il maiale, ma non è certamente più rispettosa. C'è poi una serie di suggerimenti ben più importanti e gravi, nei quali il lettore è esortato cqn insistenza a guardarsi dalla "donna straniera". Già in un articolo precedente, in riferimento ai libri di Esdra e Neemia, avevamo parlato del pericolo rappresentato da quelle donne che, non essendo parte del popolo eletto, portavano con sé la tentazione dell'idolatria e dell'abbandono della legge del Signore, Dio d'Israele. La donna straniera è quella che ha "parole seducenti" e appartiene ad un altro uomo (2,16-19); andare con lei è "perdersi" (5,20); ha solo interesse per una "vita preziosa" (6,26). Nell'immagine della donna straniera, si allude alla tentazione dell'infedeltà del popolo all'alleanza con Dio e dello sposo alla propria moglie. Nella Bibbia, in ambedue i casi si parla di adulterio, perché il patto tra Dio e il suo popolo è un patto che corrisponde alla scelta di due persone che si sposano, e che quindi devono essere per sempre fedeli l'uno all'altra. Una pagina del libro merita di essere letta per intero: capitolo 7, versetti 6-23. Descrive una situazione ben precisa, come se fosse un episodio accaduto davvero. Racconta di un "adolescente dissennato" che si lascia sedurre da una donna sposata, la quale "è irrequieta e insolente, non sa tenere i piedi in casa sua". La storia che la donna racconta è quella di sempre: mio marito è fuori e resterà fuori per qualche giorno, mi sento sola e triste, ho bisogno di compagnia. Il ragazzo presta ascolto alle sue moine e si sente attirato dalle sue "labbra allettanti". Mentre la segue,

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è paragonato ad un bue portato al macello, o ad un cervo che, preso al laccio, sarà colpito da una freccia che gli trafiggerà il fegato. Come vedete, il tema che lo scrittore sacro tratta non è quello di condannare la donna in generale, quasi che sia essa la causa di ogni male o che sia necessariamente un'adescatrice e una provocatrice. La Bibbia denuncia il vizio e il rischio di un tradimento totale della nostra fede. Questo rischio lo viviamo anche noi, e di fronte alla "donna straniera", che diventa l'immagine simbolica della seduzione che ci allontana da Dio, sta l'uomo "inesperto, incauto e dissennato", che diventa facile preda di ogni tentazione. Ma nel libro dei Proverbi abbiamo anche belle immagini di buone e sagge donne, che vedremo nella prossima riflessione.

Le donne esemplari nel libro dei Proverbi

Libro d'Ore, sec. XV, Nozze di Cana.

«Se pensiamo a Maria presente alle nozze di Cana e attenta ai bisogni di tutti, possiamo certo rispondere all'autore che proprio in lei

abbiamo trovato la donna ideale».

Dopo aver letto le affermazioni che abbiamo trovato nel libro dei Proverbi, e che abbiamo commentato nell'articolo' precedente, sarebbe facile decidere che l'autore abbia qualcosa contro le donne. C'è infatti chi accusa lo scrittore di essere misogino, il che vuol dire che ha qualche antipatia per le donne, o addirittura di essere antifemminista. Dobbiamo invece capire che le critiche colpiscono non le donne in quanto tali, ma i loro difetti, come in altri passaggi sono messi in evidenza e condannati i difetti e i vizi degli uomini. Non si può certo dire che manchino espressioni di rifiuto e di disprezzo per certi uomini, che sono via via descritti come malvagi, inesperti, spavaldi, sciocchi, perfidi, perversi, stolti, beffardi, empi, pigri, insensati, malfattori, bugiardi ... E di titoli del genere ce ne sono ancora, e sono ripetuti spesso, e con sempre nuove ragioni. Non è quindi il caso di voler fare paragoni. Ora il nostro compito è quello di guardare soltanto alle donne, alle quali ci stiamo dedicando in questa nostra carrellata biblica. Leggendo il testo, ci rendiamo conto che, quando l'autore parla di donne virtuose, è molto generoso nelle sue lodi, e ci presenta immagini belle e incoraggianti. Adottando un modo di esprimersi a base di contrasti, egli paragona la donna forte a una corona per suo marito, e la descrive quindi come l'ornamento più bello e importante. Subito dopo aggiunge: "Ma quella sver gognata è come carie nelle sue ossa" (12,4). E se si parla di una donna svergognata, possiamo essere anche noi d'accordo con lui. Si dice poi che trovare una sposa è trovare la fortuna, e ricevere una grande grazia dalle mani di Dio (18,22). La stessa idea è ripetuta più tardi, con ancora maggiore convinzione: "La casa e il patrimonio si ereditano dal padre, ma una moglie assennata è dono del Signore" (19,14). Questa frase ci fa ripensare a quel momento lontano il cui il primo uomo, che già possedeva il mondo intero, ma in esso non trovava il conforto di cui aveva bisogno, ha ricevuto la sua sposa dalle mani di Dio, ed ha cantato il primo canto d'amore: "Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne" (Gen 2, 23). Non è né un'esagerazione né un'espressione soltanto poetica dire che il più bel dono per un uomo è una sposa degna, e il più bel regalo per una donna è uno sposo degno. Se ci poniamo all'ascolto delle ispirazioni che la Provvidenza ci offre, attraverso le parole del Signore, possiamo anche noi affermare che questo è il più bel dono che possiamo ricevere da Dio. L'ultima pagina del libro dei Proverbi è dedicata alla donna esemplare (31,10-31). Dopo una domanda retorica: "Una donna forte chi può trovarla?", questa è descritta con dettagli pieni di sincera ammirazione. A urta lettura

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superficiale, l'elencazione delle qualità di questa donna ideale può sembrare troppo legata al modello di famiglia patriarcale, che oggi, almeno nella nostra società occidentale, non esiste più come una volta. Qualcuno potrebbe dire che questa donna sta sempre e soltanto a servizio del marito e dei figli, che assiste e cura in ogni momento della giornata. Teniamo pure conto che l'ambiente sociale a cui ci si riferisce è diverso dal nostro. È però evidente che la nostra donna non corrisponde affatto allo stereotipo della casalinga sottomessa, schiava dei fornelli, priva di una sua personalità e senza iniziative. È vero proprio il contrario: come ogni vera casalinga, la nostra donna è piena di idee e di concretezza. In una condizione diversa dalla nostra, potremmo dire che questa è una direttrice di azienda, e quindi un'impresaria che guida con saggezza e decisione la sua azienda famigliare. Per questo è attenta a che nulla sia sprecato e mal fatto, ha la capacità di cogliere il momento adatto per concludere buoni affari, scopre la possibilità di investimenti utili ed è capace di portarli a termine. Fa in modo che tutti coloro che lavorano in casa siano ben nutriti e vestiti con abiti di buona qualità. È sensibile ai bisogni dei poveri, che aiuta volentieri, e la sua mano si tende generosamente verso di loro. Suo marito può essere orgoglioso di lei, perché tutti possono ammirare la proprietà con cui ha cura anche del suo aspetto. I suoi figli la lodano e, con l'autore del libro, anch'essi possono concludere che se " il fascino è illusorio e fugace la bellezza, una donna che teme Dio è da lodare". Se, per un momento, pensiamo a Maria presente alle nozze di Cana e attenta ai bisogni di tutti, possiamo certo rispondere all'autore che proprio in lei abbiamo trovato la donna ideale.

La Sulammita, bruna ma bella

Ludovico Seitz, La Sulammita,

Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902).

Il Cantico dei Cantici è una raccolta di poemi d'amore, nei quali un giovane e una ragazza manifestano amore l'uno per l'altra. I poemetti descrivono la gioia del loro incontro, la tristezza della separazione, l'affanno del cercarsi di nuovo. Non sappiamo chi sia lui, che talvolta ci appare come un principe ma forse è soltanto un bel ragazzo di paese. Lei è la Sulammita, un nome che viene menzionato quasi alla fine del poema, ma del quale nessuno ci spiega il significato e l'origine. Ma questo importa poco: in questo testo di poesia si descrivono i sentimenti più che le cose, e non è necessario che tutto sia chiaro e che i riferimenti si capiscano. La fanciulla dice di se stessa: "Bruna sono ma bella", e ci spiega che è stata abbronzata dal sole, perché abituata al lavoro nei campi. Ricorda anche che i suoi fratelli l'hanno incaricata di sorvegliare la loro vigna, in modo che gli animali selvatici non vi entrino e ne devastino le viti in fiore. Una ragazza quindi che si dedica al lavoro dei campi, una contadinella, che sta vivendo il suo momento magico di innamoramento e che, nella sua passione, trasforma il suo innamorato in una figura straordinariamente bella e solenne, come un re circondato dalla sua corte. Anche la bellezza della ragazza è speciale, perché è contemplata da un giovane innamorato, che trasfigura tutto attraverso l'occhio incantato di chi vuole bene ed ha scelto per sé questa donna che gli appare perfetta in tutto. Nel contemplare la bel lezza della fanciulla, il giovane innamorato adopera immagini tutte tratte dalla sua vita quotidiana, di pastore e contadino: i suoi occhi sono colombe, i capelli somigliano a un gregge di capre che scende

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dal monte, i suoi denti ricordano il biancore delle pecore appena lavate dalle acque del fiume, i seni sono come cerbiatti che giocano in un prato che, all'inizio della primavera, è pieno di fiori campestri. Non tutto però è facile e bello nella relazione d'amore tra due persone. L'amore è grande e l'identificazione tra di loro sembra assoluta: "Il mio amato è mio e io sono sua". Eppure anche tra loro ci possono essere momenti di incomprensione e di lontananza, quando sembra che si crei una separazione incolmabile: "Ho cercato l'amore dell'anima mia, l'ho cercato ma non l'ho trovato". La ricerca di un nuovo incontro può essere difficile e anche dolorosa, perché può provocare la violenza di alcuni: "Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città, mi hanno percossa, mi hanno ferita, mi hanno tolto il mantello le guardie delle mura"; mentre altri non riescono a capire il perché di tanta passione: "Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro, tu che sei bellissima tra le donne? Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro, perché così ci scongiuri?" Quando poi l'incontro avviene di nuovo, la donna invita il suo amato ad allontanarsi con lei, per vivere insieme l'esperienza della bellezza della natura, e scoprire il progresso della primavera, che fa nascere nuove gemme e promette frutti: "Vieni, amato mio, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo nelle vigne; vedremo se germoglia la vite, se le gemme si schiudono, se fioriscono i melograni". L'amore vero è fatto anche di momenti magici come questi, nella contemplazione del creato che è, esso stesso, un'opera di amore. Il Cantico dei Cantici, un libro di appena otto brevi capitoli, si svolge così, in un gioco di cercarsi, perdersi e trovarsi. In esso, la , figura della donna rimane vaga, priva di un nome proprio e con una identità che sembra cambiare ad ogni momento, apparendo per un po' come una semplice contadinella, ma poi trasfigurandosi nell'aspetto di una regina. È lei però il personaggio principale della piccola storia, è lei che svolge in essa un ruolo attivo e ci appare con maggiore evidenza. Verso la fine del poema, la stessa fanciulla ci lascia con alcune affermazioni di una efficacia straordinaria: "Forte come l'amore è la morte, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina! Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo". Ma dobbiamo chiederci: cosa fa il Cantico dei Cantici, questo bel poema di amore,, nella Sacra Scrittura? A che titolo lo leggiamo e ci diciamo che è parola di Dio? Dovremo tornare su queste pagine, per vedere come, nel tempo, esse siano diventate ricche di tanti significati ed abbiano ispirato sempre nuove interpretazioni. La Sulammita ha ancora qualcosa da dirci.

La Sulammita, e Maria

L. Seitz, La Sulammita, Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902).

La Sulammita è raffigurata accanto al Profeta Ezechiele che sta seduto davanti alla Porta chiusa del Tempio,

simbolo biblico della verginità di Maria.

Ci eravamo lasciati con una domanda, volendo capire che cosa ci sia nel libretto del "Cantico dei Cantici" che lo raccomandi come uno dei testi delle Sacre Scritture, riconosciuto comé tale sia dalla tradizione ebraica sia da quella cristiana. Il problema era già stato affrontato dai maestri d'Israele, in un loro incontro nella città di Jamnia, attorno al 90 d.C. La soluzione fu allora data da Rabbì Aqibah, uno studioso molto stimato, che disse: "Tutti gli scritti sono santi ma il Cantico dei cantici è il santo dei santi".

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Accettiamo quindi che i poemi amorosi del Cantico sono parola di Dio. Ci chiediamo ora come quei testi siano stati interpretati e chi si sia visto nella bella ragazza, chiamata con il nome di Sulammita. A suo tempo, quando leggeremo gli scritti dei profeti, capiremo che essi adoperano l'immagine del matrimonio per descrivere la relazione tra Dio, lo sposo, e il popolo d'Israele, la sposa. Anche nel Cantico, quindi, sarebbe rappresentata la storia d'amore per la quale Dio riempie di favori il popolo che ha scelto come proprio, anche se questo, talvolta, si allontana da lui. La nuova fede, proclamata da Cristo e da lui stabilita attraverso la sua morte e risurrezione per la nostra salvezza, non ha rinunciato al tesoro contenuto nelle Scritture, tramandate nei secoli dalla tradizione giudaica. In quello che, dopo la formazione dei nuovi testi apostolici, sarà chiamato Antico Testamento, ha posto anche il Cantico dei Cantici che, con le sue espressioni poetiche, ispira mistici• e poeti religiosi, offrendo frasi che sono rimaste nella nostra tradizione spirituale e liturgica, anche se spesso lette del tutto fuori dal loro contesto: "Alzati, amica mia, mia bella, e vieni presto"; "Io dormo, ma il mio cuore veglia"; "Avete visto l'amore dell'anima mia?"; "Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, mio tutto"; "Io sono del mio amato e il mio amato è mio; egli pascola tra i gigli"; "Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo". Nella liturgia cristiana, poi, alcune espressioni che il poeta dedica alla Sulammita sono attribuite alla Vergine Maria, l'ideale perfetto di ogni donna, il massimo di purezza e di bellezza della femminilità: "Tutta bella sei tu, amata mia, e in te non vi è difetto". Di qui, il canto mariano "Tota pulchra", che ha ispirato tanti compositori, nel quale l'assenza di difetti è attribuita al concepimento immacolato di Maria: "e in te non c'è il peccato originale". Ma la frase che più ha attirato l'attenzione dei commentatori e dei devoti è quella che è posta all'inizio del poema, quando la ragazza si presenta e dice di sé: "Bruna sono ma bella". Questo particolare ci fa capire che chi parla è una ragazza 1i campagna, che lavora all'aperto e la cui carnagione è abbronzata dal sole. Non si tratta quindi di una principessa, che vive protetta all'interno del palazzo regale. La lettura spirituale di queste parole fa pensare al sole della grazia di Dio, che investe Maria e la possiede totalmente.. È un modo poetico per dire: "Piena di grazia". Ecco quindi che, attraverso la Sulammita possiamo intravvedere la Vergine di Nazareth, che il Signore illumina con la sua grazia. Da questa descrizione poetica, nasce la tradizione di vedere in molte Immagini di Maria questa specifica caratteristica di essere scura o nera. Si parla allora di Madonne Nere, perché l'immagine sacra è scolpita in legno scuro, oppure perché il volto della Vergine, rappresentato in una icona, è scuro, talvolta anche per il passare del tempo e per l'accumularsi di sporcizia sulla superficie della pittura. Le parole del Cantico ci suggeriscono il modo di rispondere alla domanda che molti fanno, vedendo Maria rappresentata con il volto bruno o addirittura nero: "Perché la Madonna è nera?" Possiamo spiegare così: "La Madonna è nera per amore". Da una parte, per l'amore di Dio che colma Maria con la sua grazia e la rende un segno evidente della presenza della sua misericordia in mezzo a noi. Dall'altra parte, per l'amore dei fedeli che, accendendo candele, bruciando incenso, accarezzando e baciando l'immagine, lasciano su di essa le tracce della loro devozione. La Sulammita è una contadinella che si presenta 'a noi come una principessa, donna giovane e bella, piena di amore per il suo uomo, che l'ama di un amore immenso. È lei che ci offre un'immagine, sia pure remota e simbolica, della bellezza e della santità di Maria, la Madre di Gesù.

Le donne del siracide

L. Seitz, Eva, Loreto Cappella Tedesca (1892-1902).Dice il Siracide: «Dalla donna ha inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo».

Questa è una chiara allusione a Eva.

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In passato, questo libro era chiamato. "Ecclesiastico", ma ormai da tempo è invalso l'uso di dargli il titolo di "Siracide", dal nome del suo autore, Gesù Ben Sira. Suo nipote, in una introduzione al testo, spiega di aver tradotto in greco l'opera, che suo nonno aveva scritto in ebraico. Come il libro dei Proverbi, è un testo sapienziale, con tanti consigli, frutto della saggezza umana, guidata però dall'ispirazione divina. Gli Ebrei non considerano il Siracide come facente parte della Sacra Scrittura, mentre per noi cristiani esso è un libro ispirato e quindi accolto come Parola di Dio. Con uno stile che talvolta è vicino a quello dei Proverbi, anche il Siracide parla delle donne, mettendone in risalto le belle qualità e criticandone gli aspetti negativi. Ricordiamo a questo proposito quello che abbiamo già detto a proposito del presunto antifemminismo di queste pagine: in esse sono esaminati tutti, e quindi anche le donne, le quali, come gli uomini, non sono tutte sante né tutte perverse. Scegliamo allora qualche espressione: "Vino e donne fanno deviare anche i saggi" (19,2). Lo diciamo anche noi: "Bacco, tabacco e Venere riducon l'uomo in cenere", solo che ai tempi del Siracide il tabacco non c'era ancora. Ve ne offro ora altre due, molto colorite: "Non c'è veleno peggiore del veleno del serpente, non c'è ira peggiore dell'ira di una donna. Preferirei abitare con un leone e con un drago, piuttosto che abitare con una donna malvagia" (25,1516). Non è difficile immaginare che chi ha scritto queste frasi deve aver vissuto delle esperienze molto negative, con qualche donna particolarmente bisbetica. Quella che segue è un'immagine originale, ma facile da capire anche per noi: "Come una salita sabbiosa per i piedi di un vecchio, tale la donna linguacciuta per un uomo pacifico" (25,19). Chi l'ha provato, sa quanto sia faticoso cercare di salire un pendio e sentire che il terreno cede sotto il piedi, annullando la spinta verso l'alto. E ancora un'altra: "Giogo di buoi sconnesso è una cattiva moglie" (26,7). Il giogo mette insieme due buoi, e quindi la frase sembra alludere al matrimonio, in cui la donna e l'uomo devono accordarsi per camminare insieme in armonia e senza ostacolarsi, come, appunto, i buoi sotto lo stesso giogo. Una considerazione di Ben Sira ci porta al primo peccato dell'umanità: "Dalla donna ha inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo" (25,24). Questa è una chiara allusione a Eva. interessante notare che anche San Paolo allude alla colpa della prima donna (2 Cor 11,3; 1 Tim 2,14). Quando però l'Apostolo affronta in maniera più completa l'argomento del peccato originale, si esprime diversamente: "A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo" (Rom 5,12). Per questo noi parliamo sempre» del peccato di Adamo, e non del peccato di Eva. Quando poi il Siracide loda le donne, adopera espressioni belle e piene di significato: "Fortunato il marito di una brava moglie... Una donna valorosa è la gioia del marito... Una brava moglie è davvero una fortuna, viene assegnata a chi teme il Signore" (26,1-3). In certe lodi per le qualità femminili, si coglie anche una critica verso il difetto opposto, e forse si suppone che certe doti siano rare: "È un dono del Signore una donna silenziosa, non c'è prezzo per una donna educata" (26,14). Si ha l'impressione che ci sia un'allusione alla rarità di questo merito specifico. E infine, ecco una frase che è diventata proverbiale, e che è stata anche usata in senso molto retorico, senza probabilmente che se ne ricordasse l'origine. Intendo parlare dell'espressione che dice che la donna è il sole della casa. Ecco il testo del Siracide: "Il sole risplende nel più alto dei cieli, la bellezza di una moglie nell'ornamento della casa" (26,16). Per tante ragioni, la società di oggi ci ha abituati a un'immagine diversa della donna, che non è sempre né in preferenza a casa, per svolgere il suo ruolo di sposa e di madre. Certamente lo fa anche ora, ma non con la costanza e la dedizione esclusiva di un tempo. Accettiamo che sia così, ma ci si permetta almeno di ricordare con riconoscenza i tempi in cui, tornando a casa, trovavamo la mamma ad attenderci, e poi insieme aspettavamo il ritorno del babbo. Sapevamo bene chi fosse allora il sole della casa, e ci piaceva gioire alla sua luce e scaldarci al suo calore.

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Il pessimismo di Qoelet

William Dyce (1806-1864), Giacobbe e Rachele in affettuoso colloquio,

Leicestershire Museum and Gallery, Leicester. Dice il Qoelet: «Godi la vita con la moglie che ami, per tutti

i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole...».

Avevo pensato di saltare a piè pari il libro di Qoelet, ricordato anche come Ecclesiaste, perché lo scrittore è un pessimista su ogni aspetto della realtà. Per quanto poi credevo di ricordare, egli non aveva parlato delle donne. Proprio in questi giorni, invece, ho riletto quelle pagine, con le sue lunghe discussioni sulla vanità di ogni cosa al mondo, e mi sono reso conto che almeno un paio di accenni alle donne ci sono, anche se sono del tipo che avrei preferito non incontrare. Che fare? Fare finta di niente e tirare diritto, oppure affrontare un testo a dir poco imbarazzante? La seconda soluzione mi sembra più onesta, e allora mettiamoci insieme con buona volontà per affrontare questa breve lettura. Il Qoelet è un piccolo libro: solo 12 capitoli, con alcune immagini efficacissime. Tanto per fare un esempio, vediamo al c. 10,16-17: "Povero te, o paese, che per re hai un ragazzo e i tuoi principi banchettano fino al mattino. Fortunato te, o paese, che per re hai un uomo libero e i tuoi principi mangiano al tempo dovuto". Come vedete, anche allora c'erano persone in autorità che amavano perdere tempo in festini e gozzoviglie, e anche allora questo modo di fare era considerato sconveniente e gravemente dannoso per il paese. Si direbbe che, in tutto questo tempo, di strada se ne è fatta davvero poca. Me veniamo alle due allusioni che l'autore fa alle donne. Al capitolo 9,9, un'esortazione alla felicità nell'ambito della famiglia: "Godi la vita con la moglie che ami, per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nella fatica che sopporti sotto il sole". Su questa espressione possiamo essere del tutto d'accordo: nella vita si incontrano difficoltà di ogni tipo, ma se si può contare su una vita familiare stabile e serena, tutto può essere affrontato e tutto può essere superato. L'altra espressione è molto diversa, e nella sua severità è addirittura crudele e, almeno così ci sembra, profondamente ingiusta. La citazione è in 7,26-29: "Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso. Questo ho scoperto, dice Qoelet, confrontando una ad una le cose, per arrivare a una conclusione certa. Quello che io ancora sto cercando, e non ho trovato è questo: un uomo fra mille l'ho trovato, ma una donna fra tutte non l'ho trovata. Vedi, solo questo ho trovato: Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni". Qualche interprete, all'inizio della frase, legge: "Trovo che si dice", indicando quindi che l'autore riferisce quella che era allora un'opinione diffusa. Così le cose sarebbero un poco meglio, ma non più di tanto: in definitiva, la donna è giudicata peggiore della morte, e, mentre per il Qoelet è stato possibile trovare un uomo di bene fra mille, non gli è stato possibile trovare una donna. Queste espressioni ci sembrano esagerate e non vorremmo condividerle. Esse sono però parte di un testo che appartiene alla Sacra Scrittura, riconosciuto come ispirato sia dalla tradizione ebraica sia da quella cristiana. Mentre per il "Cantico dei Cantici", come abbiamo visto, c'erano state delle discussioni per riconoscerne l'inclusione tra i

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testi rivelati, per il libro del Qoelet nessuno ha mai messo in dubbio che si tratti di un libro ispirato da Dio. E allora, come la mettiamo con queste affermazioni così dure? La preoccupazione dello scrittore, come già di altri autori prima di lui, era probabilmente quella di mettere ín guardia dalla tentazione di cadere nelle trappole di donne che potessero sedurre il loro compagno e portarlo a tradire la religione dei loro padri, per abbracciare culti pagani. Nell'ambiente della regione che circondava la Palestina, le popolazioni seguivano modi di credere e di celebrare il culto del tutto riprovevoli. Erano comuni i sacrifici umani, le mutilazioni, l'uso di magia nera e l'esercizio della prostituzione sacra, tutto questo come forma di adorazione verso idoli mostruosi. Si trattava quindi di culti corposi e facili, e gli Ebrei, richiesti di vivere un culto spirituale a un Dio che non aveva immagine, ne sentivano l'attrazione. Ogni suggerimento in questa direzione diventava un pericolo grave. E forse le donne straniere rappresentavano l'occasione più frequente per trascinare in questo tipo di aberrazioni religiose.

Amos e le vacche di Basan

Suonatrice a un banchetto, particolare di un dipinto, murale egizio della tomba

dell'alto funzionarid Rekhmere, a Tebe (XV sec. a. C.). Amos scaglia le sue, invettive contro le "case d'avorio" di Samaria

e contro le orge sfrenate dei suoi abitanti, che sprecano il loro tempo in feste e banchetti.

Amos è il più antico dei profeti che hanno messo per iscritto le loro profezie. Di se stesso dice che era pastore, e risiedeva a Tekoa, un villaggio ai margini del deserto di Giuda, non lontano da Betlemme. Non aveva niente a che fare con i gruppi di profeti che erano allora presenti nel territorio di Israele, e racconta così la sua vocazione: "Non ero profeta né figlio di profeta; ero mandriano e coltivavo piante di sicomoro; il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: 'Va', profetizza al mio popolo Israele!" Potremmo quindi pensare che Amos fosse un dilettante, e che per questo è stato maltrattato da quelli che di profezia pensavano di saperne molto più di lui. In verità, Amos è un vero profeta e un modello anche per noi, perché non svolge la sua missione come se fosse un mestiere, ma segue la chiamata del Signore che, lui solo, gli affida dei messaggi da pronunciare. Amos è mandato a predicare nel regno del Nord, fuori quindi dalla sua regione di origine. Lancia una violenta denuncia contro i vizi e l'esagerato lusso della gente di Samaria, che si circondava di cose preziose e lasciava i poveri nella loro indigenza. A causa della separazione politica dal regno di Giuda, la gente di Samaria adorava Dio non a Gerusalemme ma in un santuario a Betel, e rivolgeva il pro prio culto a un vitello d'oro, ripetendo in maniera stabile il peccato commesso dal popolo ebraico ai piedi del Sinai, durante i quaranta anni di cammino nel deserto. Il profeta annuncia che le belle case — una per l'inverno e una seconda per l'estate — sarebbero state distrutte, e le loro decorazioni d'avorio si sarebbero perdute. A secoli di distanza, gli scavi archeologici in Samaria hanno fatto venire alla luce dei resti di quell'epoca, che mostrano quanto grande fosse il lusso di quelle popolazioni.

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Amos si rivolge anche alle donne di quella regione e le attacca con parole durissime: "Ascoltate questa parola, o vacche di Basan, che siete sul monte di Samaria, che opprimete i deboli, schiacciate i poveri e dite ai vostri mariti: 'Porta qua, beviamo!" (4,1). Sembra proprio di vederle, queste donne soddisfatte, che stanno banchettando e vogliono bere ancora. Il profeta adopera un paragone che gli era familiare: la regione di Basan era famosa per la ricchezza dei suoi pascoli e quindi per la bellezza del suo bestiame. L'espressione, quindi, non è di insulto, come suona ai nostri orecchi, ma è piuttosto un complimento pesantemente ironico: "Siete così pasciute che sembrate ani- mali d'allevamento!". Quello che Dio rimprovera è il loro atteggiamento verso quelli che sono poveri e indifesi e, fin da allora, fa capire che l'attenzione al povero è un'esigenza fondamentale per chiunque voglia seguire la sua parola. Amos ci fa sentire un forte desiderio di giustizia, per il quale non ha senso che, nella stessa comunità, vivano fianco a fianco quelli che sprecano e quelli che mancano di tutto. La disgrazia che cadrà loro addosso, con la conquista da parte di stranieri e l'esilio in terra lontana, rappresenterà la vendetta che la storia, guidata dal Signore, farà contro si esse, per il loro cieco egoismo. "Ecco, verranno per voi giorni in cui sarete portate via con uncini e le rimanenti di voi con arpioni da pesca. Uscirete per le brecce, una dopo l'altra, e sarete cacciate oltre l'Ermon" (4,2-3). In alcuni bassorilievi antichi, la scena descritta da Amos è rappresentata visivamente, con le lunghe file delle donne prigioniere unite l'una all'altra con uncini metallici che, fissati nelle guance delle poverette, impedivano ogni tentativo di ribellione o di fuga. Il profeta contempla questa scena come una orrenda visione che, per un momento, solleva il velo che nasconde il futuro. Vede il cammino sbagliato, che gli Ebrei del Nord stanno percorrendo, e che li condurrà inevitabilmente alla rovina. Non c'è compiacenza in quello che Amos annuncia. C'è solo la tristezza di chi si rende conto che le sue raccomandazioni e i suoi appelli urgenti non sarebbero stati ascoltati. Possiamo sentire nelle sue parole un anticipo del lamento di Gesù, quando, contemplando Gerusalemme dalle pendici del monte degli Ulivi, vedeva avvicinarsi la fine della città, che sarebbe stata distrutta dai Romani: "Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno ... perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata" (Lc 19,43-44).

OSEA il profeta tradito

Osea e Gomer, miniatura tratta dalla "Bibbia di Manerius" (1185-1195 circa),

Bibliothèque de Sainte-Geneviève, Parigi. Quando leggiamo il libretto del profeta Osea, ci chiediamo sempre se la storia che ci racconta sia una finzione simbolica, o se rifletta la realtà di un episodio che ha segnato la sua vita. Forse la risposta è doppia: Osea parla di quello che lui stesso ha sperimentato nella sua esistenza, e, nello stesso tempo, Dio gli ha chiesto di trasformare la sua storia personale in una allegoria, in riferimento alla relazione di amore tra Dio e il suo popolo. Il Signore parla a Osea e gli impone di prendere come moglie una prostituta. Osea sceglie una donna di nome Gomer. Quando questa genera il primo figlio, Dio ordina di dargli il nome di Izreel, in ricordo di un luogo nel quale Ieu, re del regno del Nord, uccise Gezabele, vedova del re Acab, e i suoi discendenti. Poi nasce una figlia, e questa è chiamata Non-amata, perché Dio vuole così far sapere che non amerà più la casa di Israele, che lo ha tradito. Il terzo figlio che nasce è ancora un maschio, e questo deve ricevere il nome di Non-popolo-mio, perché il Signore

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conferma di aver rifiutato del tutto quel popolo che Egli aveva scelto come proprio, ma che lo aveva tradito, abbandonando la fedeltà alla sua alleanza per seguire altri dèi. Il lamento di Dio verso il popolo infedele prende la forma di un invito rivolto ai figli della donna, che deve essere accusata del suo adulterio da loro stessi: "Accusate vostra madre, accusatela, perché lei non è più mia moglie e io non sono più suo marito" (2,4). Sembra che sia la fine di un grande amore e la conclusione definitiva di una storia cominciata bene ma andata a finire male. E difatti il profeta continua a descrivere le colpe della donna, che ha seguito i suoi amanti in cambio dei doni che essi le offrivano. La brutta avventura, però, non dura per sempre. Quegli amanti che hanno colmato la donna infedele di doni, si sono ora stancati di lei e scompaiono: "Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli (2,7). Sentendosi abbandonata, la povera Gomer pensa con nostalgia al marito che ha lasciato: sta scoprendo di nuovo l'amore che li aveva legati nel passato o semplicemente sente la mancanza dei doni che riceveva e della vita sicura accanto a Osea? Ma il ritorno non sarà facile, perché il marito offeso vuol far sentire alla moglie infedele quanto gravi siano le conseguenze del suo tradimento. Nelle parole di Osea, l'immagine della donna e del popolo si confondono in uno stesso lamento: "La punirò per i giorni dedicati ai Baal, quando bruciava loro i profumi, si adornava di anelli e di collane e seguiva i suoi amanti, mentre dimenticava me!" (2,13). Ma la storia non può concludersi così: Osea è un marito che è stato umiliato, ma ama ancora sua moglie. 11 popolo d'Israele ha abbandonato il Signore, ma Dio lo ama ancora. Ed ecco allora un progetto di redenzione, che ci fa sentire già il sapore di un amore che a noi piace definire "evangelico", perché qualche volta dimentichiamo che il Dio di cui ci parla l'Antico Testamento è già un padre pieno di amore. Il progetto parla di una nuova seduzione, per permettere all'amore di riprendere vigore, una nuova luna di miele, fatta là dove il primo amore è sbocciato: nel deserto. "Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. ... Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d'Egitto. E avverrà in quel giorno — oracolo del Signore — mi chiamerai 'marito mio', e non mi chiamerai più 'Baal, mio padrone" (2,14-16). Le intenzioni di amore sincero sono ripetute e ampliate: "Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell'amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore" (2,19-20). L'amore rinnovato comprende anche i figli: "Amerò Non-amata e a Non-popolo-mio dirò 'Popolo mio', ed egli mi dirà 'Dio mio'" (2,23). La storia di Osea diventa una parabola per ogni incontro d'amore. Anche quando ferite dolorose umiliano l'amore sincero degli inizi, non dobbiamo frettolosamente pensare che tutto sia finito. Osea, che presta la sua avventura personale per farci conoscere l'amore misericordioso di Dio, ci fa capire che il cammino della pazienza e del perdono è sempre davanti a noi, come opportunità di vivere ancora un sogno di amore, che sembrava infranto ma invece vive ancora.

ISAIA e le superbe donne di Gerusalemme

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Il libro del profeta Isaia, con i suoi 66 capitoli, è il più lungo della Bibbia. È opera di tre scrittori, di tre periodi storici diversi, che però sono stati accomunati sotto lo stesso nome, come se si trattasse di un solo autore. I capitoli che parlano delle sofferenze del Servo del Signore hanno una efficacia evocativa straordinaria, e, ascoltandoli nella liturgia della settimana santa, sembrano la testimonianza diretta dei diversi momenti della passione di Gesù. All'inizio, Isaia adopera espressioni forti per accusare il popolo d'Israele della sua infedeltà a Dio. Il profeta denuncia l'ingiustizia vissuta all'interno della società di quel tempo. La preoccupazione degli Israeliti si rivolge solo alle pratiche religiose, che diventano così manifestazioni sterili, prive di qualsiasi significato di fede e di amore verso Dio. Per questo il Signore rifiuta il culto con parole violente: "Sono sazio degli olocausti ... smettete di presentare offerte inutili, l'incenso per me è un abominio". La denuncia diventa ancora più chiara: "Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue". Ecco la ragione dello sdegno di Dio: quelle mani che si levano verso di lui, sono le stesse che fanno il male, opprimono i deboli, si disinteressano della situazione penosa degli orfani e delle vedove. Nel capitolo 3, dal verso 16 al 24, Isaia si occupa direttamente delle donne di Gerusalemme, che egli descrive come superbe ed esageratamente preoccupate della loro bellezza ed eleganza. La sua critica sferzante non si riferisce alle donne in generale, ma a un certo tipo di donne, e cioè alle signore dell'aristocrazia cittadina, che formano una categoria molto speciale. Il ritratto che il profeta disegna per descrivere queste donne, che si muovono con una eleganza leziosa, come se fossero sempre su un passerella per essere ammirate, è di un verismo feroce: "Procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminando a piccoli passi, facendo tintinnare gli anelli ai piedi". Questa ostentazione, che suscita in noi un senso di ridicolo, non è diversa dal comportamento di tante donne di oggi, preoccupate di apparire perfette, secondo gli ultimi dettami della moda. Allora sembrava bello camminare a collo teso e con piccoli passi. Ora lo stile è diverso, ma la preoccupazione è la stessa, e anche la sensazione ridicola è la stessa. Il Signore non apprezza questo modo di fare, e davanti agli occhi di queste donne vanitose apre la visione di un futuro drammatico: "Poiché si sono in-superbite le figlie di Sion ... il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà la loro fronte". La prospettiva profetica guarda alla schiavitù umiliante alla quale esse sono destinate, come conseguenza dell'apostasia del popolo intero, che ha dimenticato Dio e si preoccupa solo di arricchire e di godere delle ricchezze, senza farsi carico dei poveri che vivono attorno a loro. Isaia si lancia poi nella descrizione degli ornamenti usati dalle donne di Gerusalemme, che ne resteranno senza: "In quei giorni il Signore toglierà l'ornamento di fibbie, fermagli e lunette, orecchini, braccialetti, veli, bende, catenine ai piedi, cinture, boccette di profumi, amuleti, anelli, pendenti al naso, vesti preziose e mantelline, scialli, borsette, specchi tuniche, turbanti e vestaglie". È come una filastrocca che sembra non finire mai, e, se non seguisse una immagine raccapricciante delle stesse donne, una volta che avranno perduto tutta la loro artificiale dignità, verrebbe voglia di ridere o almeno di sorridere. Non tutti gli oggetti ricordati sono usati anche ora, ma potremmo sostituirli con gioielli e capi di abbigliamento, che sono nell'uso comune delle donne di oggi. Le frasi finali sono piene di tristezza e forse anche di compassione. Il profeta parla a nome di quel Dio che è stato tradito e abbandonato, e che pur tuttavia desidera sempre il bene per i suoi figli e le sue figlie. Sentiamo il rammarico per la visione che segue, che si realizzerà presto, con la processione delle donne, rese schiave e trascinate in una terra straniera: "Invece di profumo ci sarà marciume, invece di cintura una corda, invece di ricci calvizie, invece di vesti eleganti uno stretto sacco, invece di bellezza bruciatura". L'immagine fa riflettere, perché, attraverso il destino triste di un popolo intero ridotto alla schiavitù, vediamo l'umiliazione che viviamo anche noi, quando diventiamo schiavi del peccato e perdiamo la bellezza che è nostra, per essere figli di Dio.

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La casta Susanna

Giorgione (1477ca-1510), Susanna e il giovane Daniele, Glasgow, Art Gallery.

L'ultima figura di donna, che appare in quella parte della Sacra Scrittura che chiamiamo il Vecchio Testamento, è ricordata nel libro del profeta Daniele. Anche se le circostanze storiche non sono chiare, questa volta non si tratta di una finzione simbolica ma di una donna viva e vera, e per di più bella e virtuosa. Il suo nome è Susanna. Leggiamo la sua vicenda nel capitolo 13 di Daniele, che sembra essere una delle parti aggiunte alla fine del libro, insieme con alcuni episodi nella vita del profeta. In questa storia, Daniele è presentato come un giovanetto, dotato di intelligenza vivace e pronto ad ascoltare l'ispirazione del Signore. Susanna è sposa di Ioakim e madre di figli. Nella sua casa e nel suo giardino sono ricevuti ospiti, che godono della generosità del padrone e della cortesia squisita della padrona di casa. Due anziani giudici, corrotti nell'esercizio della loro responsabilità e pervertiti nel loro cuore, alimentavano desideri impuri nei confronti di Susanna, che cercavano di spiare di nascosto. Un giorno, il caso volle che si trovassero insieme nello stesso atteggiamento, per cui furono costretti a confessare a vicenda la loro insana passione. Invece di esortarsi a fuggire da questa tentazione di peccato, decisero di aiutarsi per riuscire a sorprendere la donna da sola. La circostanza favorevole si presentò, quando Susanna volle bagnarsi nel giardino, senza accorgersi della presenza dei due anziani. Una volta che le domestiche erano uscite, i due si fecero avanti e posero la donna di fronte a un'alternativa: o cederà alle loro voglie o l'accuseranno di aver tradito suo marito con un giovane amante, che essi stessi hanno sorpreso. Susanna si rifiutò di cedere: "Meglio cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore". La trappola ben preparata allora scattò, e i due vecchi, fingendosi scandalizzati, raccontarono a tutti quello che hanno inventa to contro Susanna. La parola di due testimoni ha peso, e quanto di più quando si tratta proprio di due giudici, stimati per la loro età veneranda e per la professione che svolgevano. L'evidenza è schiacciante, anche se tutti sono dolorosamente sorpresi, data la fama di onestà che Susanna si era meritata. Il tribunale non può fare altro che emettere la condanna: Susanna dovrà morire, e purgare con il sangue la sua colpa. I genitori e i figli sono in lacrime, "perché non era mai stata detta una cosa simile di Susanna". Ma come mettere in dubbio la parola di due giudici? Per ristabilire la giustizia, interviene Dio stesso, il quale "suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele", il quale grida a gran voce la sua protesta, e assicura che contro Susanna sono state dette solo calunnie. Daniele è subito ascoltato, e tutti — accusata, accusatori e popolo — tornano al tribunale. Evidentemente, nessuno si sentiva a proprio agio con quella condanna e tutti sembrano contenti di poterla cancellare. Tutti, si capisce, meno i due colpevoli. Daniele agisce con furbizia e con una logica spietata. Comincia col rivelare, di fronte a tutti, la vera personalità dei due vecchi, che erano dei corrotti, abituati ad usare la loro autorità per costringere altre donne a sottostare ai loro ricatti. Poi chiede a ciascuno dei due accusatori, che erano stati separati in modo da non potersi accordare, di spiegare sotto quale albero avessero visto Susanna con il suo amante. Per il primo tutto era accaduto sotto un lentisco, mentre il secondo affermò che la scena era avvenuta sotto un leccio. Questa contraddizione mette in evidenza che l'accusa era stata fabbricata e che era del tutto falsa. La condanna di Susanna è subito revocata e a subirla saranno invece i due giudici disonesti. Con questo episodio, la nostra esplorazione attraverso le pagine dell'Antico testamento si conclude. Contemplando questa donna esemplare, "di rara bellezza e timorata di Dio", abbiamo sentito come una boccata di aria buona, dopo altre figure femminili spesso difficili da accettare e anche imbarazzanti.

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Questo ci prepara a entrare in un'atmosfera diversa, che è quella dell'Alleanza nuova, stabilita con l'incarnazione del Figlio di Dio. Con animo pieno di ammirazione e di affetto, ci avviciniamo a Colei che di bellezza e di virtù è il modello inarrivabile: Maria, la Vergine Madre di Gesù. Che Dio ci aiuti in questa nuova ricerca, che fin da ora ci promette sorprese belle e consolanti.

Le donne della genealogia di Gesù

Il Vangelo secondo Matteo comincia con un lungo elenco di nomi, intercalati dal verbo: “Generò” (1,1- 16). È la genealogia di Gesù, e cioè la successione delle generazioni che, a partire da Abramo, attraverso i secoli, portano alla nascita umana del Figlio di Dio. Questo momento è sottolineato per la sua importanza che non ha uguali, in quanto, attraverso l’Incarnazione del Verbo, la storia dell’umanità cambia per sempre. In essa si manifesta l’intervento definitivo di Dio nel dialogo con noi uomini e donne che viviamo in questo mondo, perché il Signore stesso, dopo aver parlato a noi per mezzo dei profeti, suoi rappresentanti, finalmente ci parla per mezzo del Figlio (v. Ebrei 1,2). Nella genealogia di Gesù, accanto ai tanti nomi di uomini, ci sono anche cinque nomi femminili: di queste cinque donne, quattro le conosciamo già, perché le abbiamo incontrate nel corso della nostra esplorazione attraverso le pagine dell’Antico Testamento, al quale esse appartengono. Quindi, se vogliamo ricordarle bene, possiamo leggere di nuovo le loro vicende nei numeri passati del nostro “Messaggio”. La prima ad essere ricordata è Tamar, che generò Fares e Zara dal suo suocero Giuda, uno dei dodici patriarchi, figli di Giacobbe. La sua vicenda è stata resa triste dal fatto che due suoi mariti erano morti, prima che lei potesse generare dei figli. La speranza di diventare madre l’ha spinta a cercare una soluzione nell’incontro con Giuda. Quella speranza, mai spenta, anche se resa possibile attraverso un grave peccato, le ha permesso di entrare nella successione delle generazioni che, a suo tempo, avrebbero portato alla nascita del Messia. La seconda donna è Racab, la prostituta di Gerico, che ebbe fede in Dio. Ella capì che la preferenza del Signore era rivolta verso il nuovo popolo in arrivo dal deserto. Avendo creduto in lui, ospitò i messaggeri inviati da Giosuè a spiare, e così permise la conquista di Gerico. Per questo, anche lei, risparmiata con la sua intera famiglia al momento della caduta della città, divenne sposa di uno dei due esploratori ed entrò a far parte del popolo eletto. Il suo nome è ricordato come esemplare, proprio per la sua fede, e, per questo suo merito, è l’unica donna ricordata in quel passo della lettera agli Ebrei (11,31), nel quale sono scelte figure esemplari, proposte per la nostra imitazione. Dopo di lei, incontriamo Rut, una donna di grande generosità, da lei esercitata verso la sua suocera, che era rimasta sola, dopo la morte del marito e dei due figli. Invece di cercare altrove una vita migliore, Rut è rimasta fedele a Noemi ed ha lavorato per lei. Il nuovo progetto di vita, che nacque dall’incontro con Booz, portò a lei e a Noemi sicurezza e serenità. La sua carità ha permesso a Rut, donna straniera e senza risorse, di diventare la bisnonna del re Davide, infrangendo anche la proibizione della legge, che non voleva che nessun moabita entrasse a far parte del popolo di Dio. La donna che segue non è menzionata con il suo nome, ma solo con il ricordo della colpa di cui lei è stata vittima innocente. Per l’indegna passione verso Betsabea, il re Davide ha peccato molte volte, perché ha violato la santità del matrimonio e quindi, per nascondere la sua colpa, ha fatto uccidere il marito tradito.

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L’inizio della vicenda di Betsabea fu per lei molto umiliante e tragico, ma alla fine, attraverso la purificazione del pentimento e della concessione del perdono da parte di Dio, il suo sacrificio fu ricompensato con la sua esaltazione come regina preferita di Davide e quindi come madre del re Salomone. L’ultimo nome di donna, che è presentato nella genealogia di Gesù, è quello che conosciamo meglio e amiamo di più: Maria, alla quale Dio, attraverso la voce dell’angelo, ha presentato la proposta di diventare la Madre di Gesù, chiamato Cristo. In lei, le belle qualità che, come in una anticipazione appena accennata, hanno caratterizzato le altre donne si ripetono in forma infinitamente più alta. La fede di Racab, la speranza di Tamar, la carità di Rut, il sacrificio di Betsabea sono vissute in maniera perfetta da Maria, che, nella sua santità, supera i limiti e le ambiguità delle altre donne. Contemplando lei, la donna nuova e perfetta, entriamo nella nuova pagina di amore che Dio ha scritto per la salvezza di tutti noi.

Elisabetta, prima e ultima

Pomarancio, Visitazione, Loreto, Sala del Tesoro (16051610).

A sinistra i due anziani Elisabetta e Zaccaria, a destra la giovane Maria e Giuseppe: il Vecchio e il Nuovo Testamento si incontrano e si «abbracciano».

Il primo personaggio femminile che incontriamo nel Nuovo Testamento ci è presentato già nel 1° capitolo del Vangelo di Luca, ed ha il nome di Elisabetta. Di lei sappiamo che è la sposa di un sacerdote, chiamato Zaccaria. L'evangelista sottolinea la bontà dei due sposi: "Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore". Subito dopo però Luca aggiunge un dato di grande importanza: "Non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni". Questa situazione era causa di sofferenza per i due sposi: Zaccaria pregava il Signore perché facesse loro il dono di un figlio; Elisabetta sentiva la sua condizione come una vera e propria vergogna. Ambedue si sentivano come un ramo ormai avvizzito, e quindi inutile per contribuire allo svolgimento del grande piano di salvezza, che Dio avrebbe compiuto a favore del Popolo da lui eletto. Se ricordiamo casi simili, che abbiamo visto nell'Antico Testamento, sappiamo però che questo dettaglio doloroso sta preparando la venuta al mondo di una persona del tutto speciale, chiamata a svolgere una missione importante. Così è stato per Sara, madre di Isacco; così per Rebecca, madre di Giacobbe; così per la madre di Sansone; così per Anna, la madre di Samuele. E così sarà per Zaccaria ed Elisabetta, chiamati ad essere i genitori di Giovanni, il precursore di Gesù. Quando Zaccaria è nel tempio di Gerusalemme, ed ha l'occasione, forse unica nella vita di un sacerdote, di offrire l'incenso all'interno del Tabernacolo, in quella parte chiamata "il Santo", un angelo gli appare e gli annuncia la nascita di un figlio, a cui è riservato un grande destino: "Sarà grande davanti al Signore; sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre; camminerà davanti a Dio con lo spirito e la forza di Elia". Zaccaria non si sofferma neppure sul senso delle promesse dell'angelo, e pensa soltanto alle difficoltà di cui era ben cosciente. Per questo ricorda all'angelo la sua età e la vecchiaia di sua moglie. Ma Gabriele — è questo l'angelo che gli parla — conferma le sue parole e gli lascia un segno: per il suo dubbio, resterà muto fino alla nascita del bimbo. Una volta terminato il periodo del suo servizio, Zaccaria, insieme con gli altri membri della sua classe sacerdotale, torna a casa, in un villaggio presso Gerusalemme, identificato con la località di Hein Karin. Non sappiamo se Zaccaria, che non poteva parlare, abbia potuto spiegare ad Elisabetta qualcosa di quello che gli era accaduto nel tempio. Forse ha potuto soltanto far capire che era successo qualcosa di straordinario, ma certamente non ha potuto raccontare in dettaglio quello che Gabriele aveva detto circa il destino riservato al bimbo che sarebbe loro nato.

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Quello che però sappiamo è che, a suo tempo, Elisabetta si rese conto di essere in attesa di un figlio. La promessa di Dio si stava realizzando e la gioia dei due anziani sposi dovette essere immensa: nella loro tarda età, anch'essi avevano la grazia di diventare genitori. La situazione umiliante nella quale si erano trovati fino ad allora, quasi che Dio non li guardasse con benevolenza, era ormai superata. Elisabetta vive con profonda commozione questa sua nuova condizione, e la sente come un dono speciale da parte del Signore, di cui ella riconosce l'intervento: "Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini". Ecco quindi una madre in attesa, che vive con sentimenti di gratitudine la sua gestazione. Ancora una volta ci è presentata una donna che aveva grande desiderio di diventare madre, ma ne era impedita da uno stato triste di sterilità ed anche, ormai, di età troppo avanzata. Ancora una volta Dio ha superato i limiti della natura, per rispondere alle invocazioni di un coppia di sposi, che, nella loro bontà e rettitudine, meritavano di essere ascoltati, e che hanno ricevuto un figlio speciale, a cui sarebbe stata affidata la grande missione di annunciare al mondo la venuta del Messia. Elisabetta, quindi, è la prima donna del Nuovo Testamento, ma è insieme l'ultima donna dell'Antico Testamento a ricevere da Dio il dono della maternità, nonostante la sterilità e la vecchiaia. Ultima dell'Antico Testamento: perché da ora in avanti, nel progetto nuovo di Dio, non più una donna anziana e sterile, ma una giovane donna vergine sarà la portatrice delle promesse di salvezza per il mondo.

Maria nell'annunciazione

Andrea Sansovino, Annunciazione, particolare, Loreto, Rivestimento marmoreo (1518-1522).

«Le parole sono ancora misteriose, e Maria, molto turbata, "si chiedeva che senso avesse un saluto come questo"». Per capire bene questa pagina del Vangelo di Luca, ci poniamo idealmente all'interno della Casa di Nazaret, ora conservata come preziosa reliquia nel Santuario di Loreto. Saremo testimoni silenziosi di un evento di estrema semplicità e nello stesso tempo di una importanza infinita. Vediamo Maria, giovane ragazza ebrea, dedita alle sue azioni quotidiane: pulire casa, preparare il cibo, filare la lana, andare al pozzo ad attingere acqua. E poi trascorrere del tempo in preghiera e in raccoglimento, nella riflessione sulle parole della Scrittura, ascoltate il sabato nella sinagoga. Il messaggero divino che arriva per parlarle non ha scelto a caso una persona qualsiasi: con una elencazione di nomi precisi, l'evangelista ci fa capire che Dio voleva precisamente quella giovane donna, in quella regione, in quel villaggio, in quella casa e in quella condizione di vita. Una giovane vergine, promessa sposa di un giovane carpentiere, del quale sappiamo poco, ma quel poco ci indica un uomo che ha meritato di essere definito "giusto". Già il primo saluto è sorprendente: "Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te". Sono parole piene di significato, che non possono essere ascoltate come se si trattasse di qualche frase di complimento, fatte tanto per far piacere a una persona. L'angelo Gabriele porta un messaggio da parte di Dio: ogni parola è misurata, ogni espressione ha un significato completamente vero. Maria ha tutte le ragioni per essere turbata a questo saluto: l'angelo l'ha riconosciuta come "piena di grazia", il che vuol dire piena del dono di Dio, senza che nient'altro possa alterare questa pienezza. Poi Gabriele ha aggiunto: "Il Signore è con te". Non è un saluto che esprime un desiderio e un augurio, come quello che ci scambiamo nelle nostre celebrazioni liturgiche. Diciamo: "Il Signore sia con voi", perché è quello che speriamo che sia, sapendo bene

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che non è questa la nostra situazione. La presenza di Dio nella nostra vita è parziale, spesso combattuta, talvolta del tutto assente. Ma l'angelo afferma questa presenza come totale in Maria, e in questo modo definisce la speciale santità della Vergine, che la riflessione della Chiesa riconoscerà come indicazione di una liberazione da ogni contatto con il peccato, fin dal suo concepimento nel seno materno. Se le parole di Gabriele sono tali da suscitare stupore e tanto turbamento, il suo saluto iniziale è però incoraggiante: "Rallegrati". Siamo abituati ad usare l'altra espressione, così cara e tradizionale: "Ave", e continueremo a pregare così, perché le nostre labbra e il nostro cuore sono abituati a questa parola, che ci è cara e ci mette subito in contatto con la nostra Madre. Pur tuttavia l'angelo ha usato questo invito, pieno di bella speranza: apri il tuo cuore alla gioia, figlia di Sion, perché il Signore che è in te ti ama e prepara per te una missione straordinariamente grande, Le parole sono ancora misteriose, e Maria, molto turbata, "si chiedeva che senso avesse un saluto come questo". Una donna come lei, abituata a riflettere sulla realtà della vita e capace di leggere nei fatti quotidiani il messaggio di un Dio provvidente, non poteva ascoltare questo saluto senza essere sorpresa e meravigliata, e senza chiedersi quale ne potesse essere il significato. Per questo, l'angelo non considera indiscreto o scorretto lo smarrimento di Maria. La semplicità e l'umiltà della fanciulla ne giustifica l'atteggiamento di implicita domanda. E Gabriele offre subito una risposta, che è allo stesso tempo l'indicazione di una missione e quindi di una responsabilità immensa che Maria dovrà liberamente assumere. L'assicurazione della vicinanza di Dio è confermata: "Hai trovato grazia presso Dio". Questo deve essere sempre chiaro per lei e per tutti: la santità che cerchiamo di vivere è un dono di Dio e il segno della sua presenza nella nostra vita. Non è una conquista fatta con grandi sforzi ma il dono di un Padre generoso che ci ama. Un Padre che, possiamo ora dirlo con sicurezza, ama Maria al di sopra di ogni altra creatura. Dio è innamorato di Maria e il messaggio dell'angelo ha lo scopo di farle capire questa realtà di sconvolgente bellezza e ricchezza spirituale. Ed ecco l'annuncio: "Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine". Maria ascolta queste parole di grandezza infinita e le accoglie nel suo cuore puro.

Maria nella Visitazione

Federico Zuccari, Visitazione, Loreto, Cappella dei Duchi di Urbino (1583).

L'arcangelo Gabriele aveva comunicato a Maria una notizia, che evidentemente lei non conosceva: sua cugina Elisabetta aspettava un figlio, e la sua gravidanza era ormai giunta al sesto mese. Si sapeva che la donna, sposata con il sacerdote Zaccaria, non aveva potuto coronare il suo sogno di diventare madre. Ma ora questo evento, tanto desiderato, stava avvenendo. Il primo pensiero di Maria, da donna pratica e generosa, è quello di recarsi da Elisabetta, per offrire il suo aiuto. Senza pensare alla distanza, che doveva portarla da Nazareth, in Galilea, fino ad Ain-Karim, in Giudea, non lontano da Gerusalemme, Maria si è subito messa in strada, affrontando un viaggio che, a piedi, doveva richiedere diversi giorni di cammino. Con ogni probabilità, si unì ad una carovana di commercianti o di pellegrini, diretti alla capitale. Ma di questo non sappiamo nulla di preciso perché il Vangelo di Luca, nella sua sobrietà, non ci offre nessun dettaglio.

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La decisione di Maria potrebbe stupirci: dopo aver ricevuto dall'angelo l'annuncio di essere stata scelta da Dio per diventare la Madre del Messia, la scelta più immediata e comprensibile sarebbe stata quella di restare nell'intimità della sua casa, per capire fino in fondo quello che stava accadendo. Lei stessa, dal momento del suo assenso alla richiesta del Signore, aveva concepito un figlio, e il suo stato avrebbe richiesto un periodo di tranquillità e di attenzione. Il suo fisico e il suo spirito chiedevano ambedue di vivere questo tempo nel riposo e nella contemplazione del mistero. Maria quindi si trovava a poter scegliere tra due possibilità: restare a casa, e continuare a guardare quella finestrella dalla quale l'angelo le aveva trasmesso il messaggio di Dio, oppure aprire la porta e affrontare il disagio di un viaggio non facile, per rispondere al desiderio di essere utile a chi ora sapeva essere nel bisogno. Sembra che la scelta sia stata fatta senza indugio: il vangelo di Luca (1,39) ci dice che Maria "si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda". La volontà di porsi al servizio dell'anziana cugina ha preso il sopravvento subito, e la fretta di Maria indica bene la generosa disponibilità con la quale ella ha voluto rispondere alla richiesta, non espressa, di Elisabetta. Nel cuore di Maria non c'era l'intenzione di raccontare alla cugina il grande evento nel quale era stata coinvolta. Neppure le ha detto come era stata informata della sua gravidanza. A far capire queste cose ci ha pensato lo Spirito di Dio, che ha usato la presenza di Maria per rivelare a Elisabetta il mistero dell'incarnazione. Nel grembo della vecchia madre, il piccolo Giovanni ha manifestato la sua gioia per l'incontro con Gesù, anch'egli presente nel seno della sua giovane madre. La proclamazione di fede di Elisabetta è espressa con alcune parole che ci sono familiari, perché le ripetiamo sempre, ogni volta che preghiamo l'Ave Maria: "Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno". Ma poi Elisabetta continua nella sua contemplazione dell'evento, e si chiede: "A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?" Lo Spirito di Dio ha ispirato in Elisabetta una comprensione completa di quel momento, e lei è la prima a salutare Maria con il suo titolo più bello e più grande, di Madre di Dio. A queste espressioni di Elisabetta, Maria risponde con il meraviglioso canto di lode che ricordiamo con il nome della prima parola latina: il Magnificat. Sono espressioni di contemplazione della grandezza di Dio e di quello che egli ha fatto attraverso la sua "umile serva". Il compito che il Signore le ha assegnato è talmente grande e importante, che da ora in avanti quelle belle parole dette a lei da Elisabetta saranno ripetute attraverso i secoli: "Tutte le generazioni mi chiameranno beata". Guardando avanti, Maria vede la nostra venerazione verso di lei, e la riconosce come una manifestazione di riconoscenza verso Dio: "Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente e Santo è il suo nome". L'umiltà vera di Maria, la giovane fanciulla di Nazaret chiamata a una missione infinita, non sta nel negare falsamente la sua grandezza, ma nell'indicare, senza nessuna riserva, che l'origine di tutto è nell'onnipotenza di Dio, che opera cose grandi per la salvezza del mondo.

Maria la donna del Magnificat

Ludovico Seitz, Maria proclama il “Magnificat» davanti a Elisabetta,

particolare della Visitazione, Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902). La risposta di Maria al saluto profetico di Elisabetta non si conclude con le espressioni di lode a Dio per quanto egli ha voluto fare nella sua serva e per quanto, attraverso di lei, avrebbe compiuto a favore dell'umanità intera, manifestando la sua misericordia di generazione in generazione.

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Il canto, in questi versi iniziali, sembra ispirato a composizioni analoghe, che Maria aveva più volte ascoltato negli incontri di preghiera della sinagoga della sua città, soprattutto al cantico di Anna, la donna sterile divenuta madre del profeta Samuele. Nei versi seguenti, però, il "Magnificat" assume un tono diverso, coerente con quanto detto finora, ma con una visione che si allarga al cammino del popolo e al compiersi dei progetti di Dio nella storia umana. Nelle parole di Maria, il Signore appare come un Dio universale, che non limita il suo intervento alla protezione e alla guida del popolo d'Israele, ma che guarda invece la totalità dei popoli della terra, tutti accolti attorno a lui e identificati con l'atteggiamento di amore e venerazione verso di lui: "coloro che lo temono". Subito dopo, la giovane donna di Nazareth si esprime con parole forti di denuncia sociale, che sovvertono la mentalità allora corrente e aprono la visione a quegli ideali che saranno il cuore del messaggio evangelico. Il Signore aveva promesso di aiutare e benedire il suo popolo. Come conseguenza di ciò, nella mentalità di molti, allora e purtroppo anche oggi, la ricchezza e il successo umano, comunque siano ottenuti, sono interpretati come un segno evidente della benevolenza di Dio. Il ricco e potente è invidiato e di lui si dice: "Beato lui che se lo può permettere" e talvolta si aggiunge anche: "Potessi farlo anch'io!" Già i profeti avevano denunciato senza riserve questa mentalità sbagliata. Il pastore e contadino Amos, chiamato da Dio a farsi voce del suo sdegno, aveva promesso grandi punizioni agli spensierati di Sion, che perdevano tempo in feste e banchetti, mentre i poveri e gli oppressi soffrivano per colpa loro, Nei salmi, preghiere ispirate, usate dal popolo eletto e fatte proprie anche dalla Chiesa, si dice che il Signore ama la giustizia e stabilisce il diritto. Parole chiare e forti, ma per molti rimaste parole vuote, parole che i potenti di allora e di oggi non vogliono ascoltare. Maria usa espressioni ben più chiare e precise: il Dio che lei descrive non è solo il Dio provvidente che aiuta e solleva i poveri. Il suo Dio vuole giustizia e considera la ricchezza di alcuni un abuso, perché i doni della creazione sono per tutti, e non soltanto per quei prepotenti, che si sono accaparrati dei privilegi a danno degli altri. Gli orgogliosi, che contano su se stessi e sul loro grande potere, saranno dispersi: i loro progetti di successo non serviranno a nulla, perché Dio mostrerà a tutti la loro inconsistenza. Coloro che si sono costruiti un trono per affermare la loro superiorità saranno messi a terra e quelli che essi avevano umiliato saranno portati in alto. Chi ha fame riceverà cibo in abbondanza, mentre i ricchi si troveranno privi di tutto. In queste parole, sentiamo la forza del messaggio delle Beatitudini, che Gesù, figlio di Maria, proclamerà sulle colline della Galilea, non lontano da Nazareth. Sua madre ha già intuito lo spirito che avrebbe animato l'annuncio del Vangelo, quando la Paola di Dio, fatta carne, avesse dato inizio alla sua missione di Messia e Salvatore. Qualcuno, forse anche con buone ragioni, pensa che le parole del "Magnificat" non siano state in realtà pronunciate da Maria, ma che il testo che San Luca ci offre sia una rielaborazione fatta dalla primitiva comunità cristiana. Se anche così fosse — e non c'è nulla di male nel crederlo — dovremmo esserne ancora più impressionati. Già allora, i nostri primi fratelli di fede avevano capito la grandezza della personalità di Maria, la sua tempra straordinaria, mostrata a Nazareth e confermata con estrema coerenza fino al Calvario. Essi hanno pensato che fosse giusto mettere sulle labbra di Maria l'affermazione più chiara del vangelo di giustizia di Cristo, che sta alla base della dottrina che la Chiesa continuamente elabora, per guidare gli uomini e le donne di ogni epoca. Capiamo allora perché Maria è ricordata, nelle litanie lauretane, come "specchio di giustizia". In lei possiamo specchiarci, per capire e vivere la giustizia del Vangelo.

Elisabetta e le sorprese di Dio

Federico Barocci (1535-1612), Visitazione, Santa Maria in Vallicella, Roma.

Da questo dipinto, alla fine del secolo XVIII, è stato tratto uno splendido Mosaico per il santuario di Loreto, eseguito nello Studio Vaticano e ora custodito nella Sagrestia.

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I progetti di Dio ci colgono spesso di sorpresa e ci chiedono di sostenere dei ruoli che non avremmo mai immaginato. Ciascuno di noi ha una sua missione, da scoprire un giorno dopo l'altro, e non possiamo mai essere sicuri di aver ormai esaurito i nostri impegni e di aver risposto a sufficienza alle indicazioni che Dio, attraverso la storia e le circostanze, ci dà volta per volta. Ogni giorno porta per me un incarico preciso e nessuno potrà prendere il posto che mi è stato assegnato: se io non faccio quello che devo fare, non lo farà nessuno e quella occasione sarà perduta. Elisabetta, nella sua ormai tarda età, era rassegnata a restare nella situazione che sembrava che il Signore le avesse destinato: non sarebbe stata madre e avrebbe avuto l'umiliazione di essere considerata un ramo secco nella vigorosa pianta del popolo di Dio. La Provvidenza ha invece deciso diversamente e il dono della maternità le è stato offerto, al di là di ogni previsione umana. Il marito Zaccaria, reso sordo e muto per la sua incertezza nell'accettare il messaggio di Dio, trasmessogli dall'arcangelo Gabriele, non aveva potuto spiegare alla moglie quello che era accaduto nel tempio. Ma al silenzio dell'uomo, ha supplito lo Spirito di Dio, che ha aperto la mente di Elisabetta per comprendere i grandi misteri che si stavano preparando, per una missione di salvezza universale. Quando Maria giunse a casa sua, Elisabetta ebbe la rivelazione della presenza di Dio in lei, e, senza nessun dubbio e senza alcuna esitazione, salutò la giovane cugina come "la madre del mio Signore". Il fremito che sentì nel suo seno, le fece capire che anche suo figlio si rallegrava della presenza del Figlio di Dio, rivelando così la sua stretta vicinanza al Messia che era entrato nel mondo. Il dono profetico di Elisabetta si è rivelato ancora più tardi, quando, nato il figlio tanto desiderato, si doveva decidere il nome con cui sarebbe stato chiamato. L'arcangelo Gabriele aveva indicato a Zaccaria la volontà di Dio: "Gli porrai nome Giovanni". Ma la condizione del vecchio sacerdote, ridotto a non potersi esprimere né a sentire le voci degli altri, gli ha impedito di comunicare alla moglie questo importante dettaglio. Al momento della circoncisione del bambino, mentre i parenti suggerivano di dargli il nome di suo, padre, Zaccaria, quasi per sottolineare la paternità ottenuta in maniera così straordinaria, Elisabetta manifestò con chiarezza la sua scelta: "Niente Zaccaria! Si chiamerà Giovanni". Un nome certamente bello e ricco di significati: "il Signore è generoso" o "il Signore ha misericordia". L'unico problema era che nessuno nella loro famiglia aveva mai avuto questo nome. E allora i presenti si rivolsero al padre, cercando di fargli capire quale fosse il problema di cui si discuteva. Zaccaria poteva essere limitato nelle sue manifestazioni, ma aveva molto chiaro in testa quello che l'angelo gli aveva detto, e si sarebbe ben guardato dal contraddire un'altra volta il messaggio del cielo. Sulla tavoletta che aveva chiesto, scrisse senza incertezze: "Giovanni è il suo nome". In questo modo, la volontà di Dio, che Zaccaria aveva ascoltato e che Elisabetta aveva conosciuto per ispirazione, si è compiuta. Zaccaria è tornato ad avere il dono della parola, e ha potuto partecipare alla gioia di tutti e cantare anch'egli le lodi del Dio di Israele, che ha visitato il suo popolo e ha confermato la sua promessa di salvezza. Dopo di questo episodio, non sappiamo altro di Zaccaria e di Elisabetta. Ma su di lei abbiamo una menzione indiretta fatta proprio da Gesù. Riferendosi al suo precursore, in quel momento recluso nella prigione di Erode, Gesù ha affermato che "tra i nati di donna non è mai sorto nessuno più grande di Giovanni Battista". Questa allusione ai "nati di donna" ci fa ricordare sua madre, la vecchia Elisabetta, che aveva sofferto per l'umiliazione di non poter diventare madre, e che invece, per la sorprendente iniziativa di Dio, aveva dato alla luce il più grande profeta, quello che doveva avere il privilegio di indicare al mondo il Figlio di Dio, l'agnello che avrebbe preso su di sé il peccato del mondo. È lei, l'ultima donna dell'Antico Testamento e la prima donna del Nuovo, a introdurci alla prima delle sorprese che Dio ci offre, con una fantasia e una creatività veramente divina.

Maria a Betlemme

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Andrea Sansovino, Natale (particolare).

Rivestimento marmorea della Santa Casa (1518-1524).

Abbiamo dimenticato i nomi delle persone importanti che avevano deciso di portare a compimento un censimento, per sapere quanti sudditi aveva l'Impero di Roma nelle sue province. Sappiamo bene, invece, chi erano i due pellegrini che, affrontando il cammino dalla Galilea, si erano recati nella città dalla quale aveva avuto origine la famiglia del re Davide: Betlemme, a pochi chilometri dalla città santa di Gerusalemme. I due erano in realtà tre, perché Maria, che Giuseppe accompagnava con ogni attenzione, stava giungendo al termine dei suoi mesi di gravidanza. Per questa coincidenza, l'ultimo erede della famiglia di Davide vide la luce proprio in quella città. Quasi per concludere un ciclo, iniziato secoli prima con la scelta di un giovane pastore, destinato a diventare, in nome di Dio, principe del suo popolo. La scena del presepe ci è cara e familiare, perché in ogni casa, quando si avvicina il giorno benedetto del Natale, vogliamo avere la rappresentazione di questo grande momento che ha segnato la vita del mondo intero. Gli evangelisti Matteo e Luca ci descrivono la scena con molta sobrietà: tutto accade in semplicità e povertà, in quella parte di una casa che era riservata agli animali, ma che era l'unico posto tranquillo e appartato. Il silenzio della notte è appena rotto dallo scalpiccio dei pastori, venuti a vedere la ragione della "grande gioia" annunciata dagli angeli. E Luca commenta: "Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose e vi rifletteva in cuor suo" (Lc 2,19). Viene da pensare: quale relazione ci può essere tra la nascita di Gesù nel silenzio e nella semplicità di Betlemme, e la rappresentazione che ne facciamo nei nostri presepi, con tanti personaggi che svolgono ogni tipo di attività, e con l'aggiunta di dettagli curiosi, interessanti ma certamente inutili e del tutto fuori dal tempo e dalle circostanze di allora? Mi faccio la domanda, pensando a Maria che considera quello che accade e riflette nel suo cuore. Potrebbe ancora riflettere e custodire nel suo cuore quello che vede attorno a sé? Quando ascoltiamo le parole dell'evangelista dell'amore: "Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14), dobbiamo pensare al mondo intero, ai secoli di storia, alla realtà di una umanità che viveva allora la sua vita quotidiana, come la vive oggi. Gesù non è venuto solo per i pochi pastori o solo per i saggi venuti dall'Oriente. L'incarnazione del Figlio di Dio interessa il cosmo intero, abbraccia tutti i tempi e tutti i continenti. Abbraccia ogni condizione umana, di cui egli si è fatto partecipe. Maria ha dato alla luce un Figlio, sapendo che questi era destinato a sedere sul trono di Davide, suo antenato, ed avrebbe regnato sulla casa di Giacobbe in eterno, perché il suo regno non avrebbe avuto mai fine. Anche Giuseppe era stato avvertito dall'angelo che il Figlio che doveva nascere avrebbe salvato il popolo dai suoi peccati. La missione affidata al Figlio dell'Altissimo andava al di là di quel momento della storia, non riguardava soltanto il cammino di una famiglia o di una tribù o di un popolo, ma aveva una proiezione universale. È giusto, allora, e pieno di tanto significato, che i nostri presepi mostrino gente che sta sistemando la casa, o cammina verso il lavoro, o batte il ferro nella sua officina, o risuola una vecchia scarpa nella sua calzoleria. È giusto che ci sia la donna che stende la pasta e che un'altra, accanto a lei, stia facendo il bucato. È giusto che un ragazzo lanci la lenza nel fiume e che una ragazzina accompagni le oche al pascolo. Di tutte queste attività è fatta la nostra vita, e di tutto questo Gesù è venuto a farsi carico, per redimere ogni attività, liberarla dal peccato dello sfruttamento e renderla ancora una volta segno della creatività che Dio ci ha affidato al momento della creazione.

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Maria a Betlemme contempla, nel suo cuore, questa realtà universale, e, attraverso il suo gesto di donazione, affida il mondo intero al Figlio che è appena nato. Lei intuisce fin da ora che la missione che attende suo Figlio non sarà facile. Attraverso la riflessione sulle parole dei profeti, pensa già all'opposizione e alla persecuzione. Il segno del dolore, che accompagnerà Gesù nella sua vita terrena, le sarà annunciato tra breve dal vecchio Simeone. Fin da ora la Madre comprende e riflette, mentre nel silenzio di Betlemme e nel rumore confuso di oggi, dona al mondo Gesù.

Maria al tempio

Lorenzo Lotto, Presentazione al Tempio del Signore, Loreto, museo-Antico Tesoro

La legge di Mosè lo chiedeva, e Maria e Giuseppe, come Ebrei buoni e fedeli, hanno adempiuto anche a questo precetto: dopo i quaranta giorni di intervallo dalla nascita del bambino Gesù, dovevano recarsi a Gerusalemme, per presentare il nuovo nato al Signore e per offrire un modesto sacrificio di animali, e così concludere il periodo di isolamento della madre. L'occasione, che di per sé era normale per ogni famiglia ebrea, era invece per la Santa Famiglia un incontro di significato unico: il Figlio è introdotto da sua Madre e dal padre putativo nel luogo in cui Dio aveva la sua dimora. Gesù è quindi presentato al suo vero Padre, del quale Giuseppe, nella sua santa umiltà, prendeva il posto. Nella folla dei pellegrini e dei devoti che si recavano al tempio, nel movimento confuso che in quelle circostanze si creava, probabilmente nessun ha potuto notare la famigliola che, tra altre, portava al sacerdote di turno la propria offerta di un paio di colombi. Non era però nel progetto di Dio che questo evento passasse inosservato. Lo Spirito del Signore, che aveva ispirato Elisabetta a riconoscere la divina maternità di Maria, fa sentire ora la sua voce a un uomo giusto e timorato di Dio che viveva in Gerusalemme. Di lui sappiamo solo che si chiamava Simeone e che era stato avvertito dal Cielo che, prima della sua morte, avrebbe potuto vedere il Messia, il salvatore del suo popolo. La scena alla quale assistiamo è semplice ma commovente: Simeone sente che, in quel giorno, deve andare al tempio, tra la folla identifica coloro che cercava e, obbedendo all'ispirazione che lo ha mosso, prende in braccio il bambino e loda il Signore, ringraziandolo per questo dono: "Lascia pure, Signore, che io muoia: la mia vita ha avuto il suo compimento, perché ho potuto vedere colui che è venuto al mondo per salvare e dare luce a tutti i popoli. La gloria di Israele è finalmente apparsa, ma essa è destinata ad abbracciare l'umanità intera". Non è difficile capire lo stupore con il quale Maria e Giuseppe hanno ascoltato queste parole, così sorprendenti. Simeone ha però ancora altro da dire: mentre benedice i genitori, annuncia specificamente a Maria che il destino del bambino è quello di portare un messaggio talmente forte ed esigente, da creare divisione e contraddizione. Fin da ora, la Madre deve sapere che, se molti seguiranno la parola di Gesù, molti altri la rifiuteranno e questo contrasto provocherà una situazione di dolore anche per lei. La frase di Simeone è terribile, nel suo realismo: "Anche a te una spada trafiggerà l'anima". Non tutto è chiaro in questa profezia: "Perché accadrà questo? E quando? Ci saranno dei segni premonitori? Devo soffrire io sola o anche questa mia piccola creatura sarà messa alla prova?" Davanti ai nostri occhi, appare l'immagine della Madre Dolorosa, che la pietà popolare ha rappresentato con il cuore trafitto da sette spade. Ma perché sette, invece di quell'una sola profetizzata da Simeone? Non si tratta di una esagerazione fantasiosa. Con quel segno, si è voluto mostrare la realtà della vita di Maria, la quale ha certamente consumato il suo dolore ai piedi della croce, ma prima di allora ha continuamente sentito la preoccupazione e persino l'angoscia per gli eventi

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che accompagnavano la vita di suo Figlio. Quante informazioni, durante i tre intensi anni nei quali Gesù predicava in Galilea e in Giudea, sono giunte a Nazaret, portate a lei da amici e, talvolta, forse anche da persone ostili: il giovane Maestro, che aveva avuto successo per un prodigio compiuto, ora è stato lasciato solo; molti dei suoi discepoli l'hanno abbandonato; si dice che i capi dei Giudei vogliano trovare il modo di farlo tacere; o forse vogliono addirittura eliminarlo. L'altro giorno alcuni hanno persino raccolto delle pietre, minacciando di lapidarlo, e lui è scampato appena, nascondendosi. Quanti momenti difficili, quante ansie, quanto dolore. Il cuore di una madre è sempre pieno di preoccupazione per i figli che ha generato. Quanto più dovette esserlo il cuore di Maria, che sapeva di portare una missione di enorme grandezza e quindi di avere una responsabilità di fronte al mondo intero. Ogni volta che contempliamo l'immagine di Maria Addolorata, o che leggiamo nel Vangelo le prove incontrate da Gesù, pensiamo a lei, con affetto e gratitudine. Tanto ci ha amato!

La profetessa Anna

Lorenzo Lotto,

La profetessa Anna, particolare della Presentazione al Tempio del Signore, Loreto, Museo-Antico Tesoro

L'episodio della presentazione di Gesù bambino al tempio non si è concluso con la profezia di Simeone, sulle sofferenze che Maria avrebbe dovuto patire, per condividere così il dolore provato da suo Figlio, a causa del rifiuto del popolo di credere nella sua missione divina. Quel giorno, si è presentato un secondo personaggio e ha voluto anch'esso offrire la sua testimonianza. Tra le persone che frequentavano quel centro spirituale, che era l'unico luogo in cui il popolo di Israele poteva legittimamente offrire i propri gesti di culto a Dio, c'era anche una donna, di nome Anna, che era fedelissima nella sua presenza al tempio. L'evangelista Luca ci dice addirittura che "non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (Lc 2,37). Mentre di Simeone l'evangelista dice soltanto che era un uomo giusto e pio, di Anna egli ci offre molti dettagli sulla sua vita. Veniamo così a sapere che suo padre si chiamava Fanuele e che apparteneva alla tribù di Aser, che è il nome di uno dei dodici figli di Giacobbe, che avevano dato origine alle dodici tribù d'Israele. Luca aggiunge anche che, a suo tempo, Anna si era sposata ed aveva vissuto per sette anni con suo marito, prima di restare vedova per la morte di questi. La descrizione è conclusa con la precisa indicazione dell'età della donna: aveva ottantaquattro anni. Un'età che, specie in quell'epoca, doveva essere rara al punto di essere considerata eccezionale. Non posso fare a meno di sottolineare la diversità nella descrizione dei due personaggi incontrati da Maria e Giuseppe nel tempio. Quando parliamo di Simeone, ci riferiamo a lui descrivendolo sempre come "il vecchio Simeone". Anche gli artisti lo hanno sempre rappresentato come un anziano venerando. In realtà, però, niente è

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stato detto sulla sua età. Di Anna, invece, si specifica l'età esatta, con un atteggiamento che potremmo considerare un po' indelicato da parte dell'evangelista Luca. Naturalmente non abbiamo bisogno di pensare a una eventuale preoccupazione di vanità da parte di Anna, come se lei potesse essere desiderosa di nascondere la sua vera età. Sono sicuro che la donna, nella sua virtù e nella lunga familiarità con le realtà spirituali, vedesse nella sua vecchiaia solo un pregio e un dono di Dio. Il vangelo dice poi che Anna, "sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (Lc 2,38). Ecco quindi un'altra persona che, per ispirazione divina, ha capito che il progetto di salvezza voluto e preparto per secoli da Dio stava prendendo forma. Non si è accontentata di sentire in sé questa verità consolante, ma ha voluto condividerla insieme con altri, coinvolgendo tutti coloro a cui poteva parlare della gioia che lei stessa stava sperimentando, nella sua pienezza di fede nel Signore, che vuol salvare il suo popolo. È qui spontaneo notare la differenza di atteggiamento tra i personaggi che abbiamo incontrato fino ad ora: Maria e Giuseppe, Elisabetta e Zaccaria, Simeone e Anna. Maria è colei che ha prontamente offerto a Dio il suo assenso, e ha permesso l'incarnazione del Figlio di Dio. Giuseppe è intervenuto dopo, dando il suo contributo fondamentale al piano divino, ma in secondo ordine rispetto a sua moglie. Zaccaria, che pure era particolarmente vicino a Dio, essendo un sacerdote autorizzato a entrare nei luoghi più santi del tempio, ha ricevuto l'annuncio della nascita di suo figlio, Giovanni, e, per la sua lentezza nell'accogliere la verità che gli era stata rivelata, è rimasto in silenzio per nove mesi. Elisabetta, invece, quando ha ricevuto Maria nella sua casa, ha saputo riconoscere la presenza del Figlio di Dio nel mondo e l'ha proclamata ad alta voce. Simeone ha annunciato la grandezza del bambino e si è detto ormai pronto a morire, avendo avuto la gioia di vedere l'inizio della salvezza, ma solo Maria e Giuseppe hanno ascoltato la sua profezia. Anna, invece, ha parlato di Gesù a tutti quelli che erano presenti nel tempio e che vivevano nella speranza di un'epoca nuova, di salvezza e di libertà, per il popolo di Dio. Questo ci introduce fin da ora ad uno stile di azione da parte di Dio, che ha privilegiato la presenza di donne, nel primo annuncio del suo messaggio. Come ora all'inizio della nuova storia della salvezza, così avverrà anche in seguito, e le prime persone a proclamare al mondo le verità più importanti del vangelo saranno, ancora una volta, delle donne.

Maria e i Magi dall'oriente

Raffaele da Montelupo, Adorazione dei Magi, particolare (1531-1534), Loreto,

Rivestimento marmoreo. Maria - senza velo sul capo perché si trova al cospetto di re presenta il Bambino Gesù all'Adorazione dei Magi che gli offrono in dono oro, incenso e mirra.

Solo il vangelo di Matteo narra questo episodio, misterioso nella sua bellezza (2,1-12). I dettagli che ci offre l'evangelista sono molto pochi, ma proprio per questo la fantasia degli artisti si è lanciata con assoluta libertà a descriverci la scena con ricchezza di particolari: origini etniche diverse, corone regali, animali esotici. Saranno particolari inventati, ma sono pur sempre molto belli. Ecco il racconto di Matteo: "Nato Gesù a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode, ecco alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme". Notiamo subito che il vangelo parla di Magi, e quindi di persone sagge, studiosi che esploravano il cielo e che nel cielo avevano colto un segno particolare. Una stella aveva indicato ad essi una nascita straordinaria e li aveva guidati nel lungo viaggio verso la Palestina. Aver immaginato che questi personaggi fossero

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dei re è una bella invenzione degli artisti, come è una loro scelta averne rappresentati tre, probabilmente per far corrispondere il numero delle persone a quelle dei doni: oro, incenso e mirra. La narrazione si sofferma soprattutto sull'incontro dei Magi con il re Erode, al quale era stato riferito che questi stranieri cercavano informazioni circa "il re dei Giudei" appena nato. Di Erode sappiamo che era un politico molto attento e un grande costruttore, ma nello stesso tempo era cinico e crudele, sempre divorato dalla paura che qualcuno potesse cercare di diventare re al posto suo. Con questo timore aveva persino fatto uccidere suo figlio. Da lui, comunque, i Magi seppero che la loro destinazione doveva essere la cittadina di Betlemme, a pochi chilometri da Gerusalemme. Finalmente i Magi, a cui era di nuovo apparsa le stella che li aveva guidati, giunsero "al luogo dove si trovava il bambino". Per loro fu un momento di intensa gioia, perché allora si resero conto che avevano ormai compiuto la missione per la quale si erano messi in strada. Pieni di questa gioia, i Magi "entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono". Maria è presente, perché in questa primissima fase della vita di Gesù, la madre sta costantemente prendendosi cura del suo figlioletto, con tutte le attenzioni necessarie per un bambino così piccolo. Tutte le mamme ne sono coscienti, e di Maria possiamo solo pensare che queste attenzioni fossero ancora più delicate e premurose. Lei.sapeva chi era il figlio che stava accudendo, e tutto ciò che lei, la "piena di grazia", faceva non poteva che essere animato da un amore e un rispetto immensi. Nell'incontro con i Magi, Maria non dice nulla: è presente e la pensiamo attenta e pensosa. Il suo atteggiamento costante era quello di "conservare ogni cosa nel suo cuo re". All'arrivo di questi stranieri, ha forse già colto l'universalità della missione di salvezza affidata a suo Figlio, che il vecchio Simeone, nel tempio, aveva indicato come luce per rivelare Dio a tutte le genti. Non c'era più il limite del popolo eletto, ma si guardava ormai a tutti i popoli, di cui questi personaggi erano simbolicamente i rappresentanti. E cose pensare dei doni? Si tratta di offerte di valore, e soprattutto piene di significato. L'oro è sempre stato il metallo più prezioso e, per la sua bellezza e per la sua inalterabilità, è sempre stato riservato ai sovrani. L'oro, quindi, mostra l'omaggio fatto ad un re. L'incenso è una resina profumata, non difficile da trovare in oriente. Ma esso è da sempre destinato a rappresentare l'omaggio degli uomini verso Dio: quella nuvola di fumo profumato che sale al cielo è il simbolo della nostra invocazione al Signore, che ci raffiguriamo presente in alto, nel cielo. L'incenso, quindi, mostra l'adorazione verso Dio. Infine la mirra, questo olio dall'odore acre e dalle molteplici qualità curative, era usato soprattutto per ungere i cadaveri, con la finalità di ritardare la putrefazione. La mirra, quindi, indica la convinzione che questo bambino, nel quale si riconosceva un re e si riconosceva Dio, era pur-tuttavia un uomo, come ciascuno di noi. La visita dei Magi, pur nel suo aspetto misterioso, è stato im momento di commozione e di gioia: dopo i pastori, anche altri, e addirittura da lontano, si rendono conto che qualcosa di grande sta accadendo nella storia del mondo. Maria contempla questo evento, ma non dimentica le parole di Simeone, che ha promesso momenti di dolore. Così sarà ben presto, per la cattiveria crudele di Erode.

Maria e la fuga in Egitto

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Pomarancio, Fuga in Egitto, particolare.

Loreto, Sala del Tesoro (1605-1610) L'evangelista Matteo è l'unico che ci ha raccontato la visita dei Magi al Bambino Gesù, ed è anche l'unico a narrare il tragico episodio della strage degli innocenti, con la fuga della Santa Famiglia in Egitto. Sappiamo già che Erode aveva un grande timore che qualcuno gli rubasse il regno, che egli aveva conquistato con fatica e che manteneva sotto controllo con le sue tante qualità e con una immensa crudeltà. Quando ha sentito parlare di un nuovo re in Israele, Erode ha subito cercato di sapere dai Magi dove avevano trovato questo bambino, per mandare i suoi sgherri ad uccidere il neonato. La Provvidenza vegliava sul Figlio di Dio, e i Magi furono avvertiti in sogno di non tornare da Erode e di andare via, seguendo un cammino diverso, in modo da non essere raggiunti dai soldati del re, che, accortosi di essere stato ingannato, li avrebbe fatti inseguire. Anche Giuseppe è avvertito del piano di Erode da un angelo che gli appare in sogno, e gli dà ordini precisi, da eseguire immediatamente. Nella notte, Giuseppe sveglia Maria, le spiega in fretta quello che sta accadendo e, raccolto il bimbo e i loro pochi beni - erano già in viaggio, e quindi avevano con sé solo il bagaglio essenziale -, si avviano verso l'ignoto. È stato loro indicato l'Egitto, come paese prospero e tranquillo, del quale però non sapevano nulla. Affrontano insieme l'incognito e si preparano a vivere come rifugiati in un paese straniero. La rabbia di Erode, ingannato dai Magi e incapace di identificare il suo presunto nemico, si sfoga con tutti quelli che, più o meno, possono avere l'età di quello che si cercava: è la strage degli innocenti, compiuta con freddo cinismo nel territorio di Betlemme. Non abbiamo modo di sapere quante siano state le vittime della follia del re, ma resta il fatto che, al di là del numero, si trattava di bambini senza nessuna colpa. Non deve sorprenderci se, anche oggi, qualche dottore privo di coscienza morale viene labellato con il nomignolo vergognoso di "Erode". Intanto, la famiglia in fuga attraversa le regioni solitarie che separano la Giudea dall'Egitto. Lè leggende su questo viaggio sono tante e belle, ma si tratta appunto di leggende, tramandate da vangeli apofi, con incontri paurosi e miracoli della Provvidenza ma storicamente non attendibili. Lo stesso vale per la permanenza di Giuseppe, Maria e Gesù in Egitto. Non ne sappiamo nulla, anche se il ricordo di quella presenza è stato tramandato in tradizioni locali, con alcune città, come Abu Serghis, che si contendono l'onore di aver dato ospitalità alla Santa Famiglia. Da molti anni, non erano pochi gli Ebrei che, per sfuggire all'invasione dei Babilonesi, si erano stabiliti in Egitto. È quindi possibile che Giuseppe si sia recato presso qualche comunità di connazionali. In ogni modo, nulla lascia pensare che ci sia stata ostilità nei confronti di questa famigliola di rifugiati, anch'essi fuggiti per evitare le persecuzioni di un re oppressore del suo popolo. La loro permanenza potrebbe essersi prolungata per due o tre anni e forse si erano già ben stabiliti. C'è voluto infatti un ordine esplicito da parte di Dio, per farli tornare in Palestina: perché era lì che Gesù doveva crescere e quindi svolgere la sua missione. E Giuseppe, l'uomo giusto e obbediente, fece quello che il Signore gli ha chiesto, ancora una volta attraverso l'intervento di un angelo suo messaggero. Maria non aveva paura di muoversi: aveva fatto un lungo cammino per andare ad aiutare la cugina Elisabetta, invece di restare tranquilla a casa sua, ad aspettare la nascita di suo figlio; aveva accompagnato Giuseppe a Betlemme per il censimento, anche se suo marito poteva andare da solo e lei poteva vivere a Nazareth le ultime settimane di gravidanza. Ora il viaggio non è stato intrapreso per una scelta libera, ma dietro la necessità di salvare la vita del piccolo Gesù. Ma anche ora, Maria ha affrontato con serenità l'esperienza della persecuzione e

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dell'allontanamento dalla sua casa e dalla sua patria. Esule anche lei, come tanti, allora e in ogni tempo della storia dell'umanità. Dobbiamo però pensare che per lei, dovunque si trovasse, quando era insieme con Giuseppe, suo sposo, e con Gesù, suo figlio, quello era il luogo dove doveva essere: là dove compiva la volontà di Dio Padre, la Vergine Maria era nel senso più completo a casa sua.

Maria e Gesù smarrito nel tempio

Pomarancio, Ritrovamento di Gesù nel Tempio, Loreto, Sala del Tesoro (1605-1610)

Dopo aver ricordato che l'infanzia di Gesù si era svolta nell'ambito della famiglia, nel villaggio di Nazaret, l'evangelista Luca racconta un episodio di difficile comprensione, in cui sembra che Gesù si sia comportato in maniera scorretta, allontanandosi dai suoi senza avvertirli e lasciandoli per tre giorni nel timore di aver smarrito il loro figliolo (Lc 2,41-52). L'episodio è importante, perché stabilisce un principio al quale Gesù si atterrà sempre, durante la sua vita terrena: egli è venuto per fare la volontà del Padre suo. In questo momento della sua vita, ad appena dodici anni di età, egli stabilisce il suo modo di fare e lo presenta in tutta chiarezza ai suoi genitori, ricordando loro che la sua missione era quella di "occuparsi delle cose del Padre suo". Non di Giuseppe, ma di Dio suo Padre. Questa esperienza è stata molto importante, specialmente per sua Madre. All'inizio, tutto si svolge nella tranquillità di un pellegrinaggio annuale a Gerusalemme. Giuseppe e Maria vi si recano ogni anno per la Pasqua e, questa volta, Gesù li accompagna. La legge di Mosè chiede che ogni Ebreo si rechi a Gerusalemme tre volte all'anno, le tre feste principali. L'obbligo impegna solo quelli che vivono abbastanza vicino alla città santa anche coloro che abitano più lontano, come appunto Maria e Giuseppe, vi si recano ugualmente, almeno in occasione della Pasqua. Gesù ha ormai dodici anni e si affaccia all'adolescenza. Ogni ragazzo ebreo, a questa età, viene introdotto alla lettura solenne della Parola di Dio e diventa "bar mitzvah - figlio del comandamento". Forse è proprio questa la circostanza che ha spinto Gesù a fermarsi nel tempio ed a fare prova della sua acquisita dignità. La reazione dei genitori all'assenza di Gesù è comprensibile: hanno avuto fiducia in lui e gli hanno lasciato un giusto margine di indipendenza, senza soffocarlo con la loro vigilanza. Ma quando, al termine della giornata, il ragazzo non compare, essi hanno tutte le ragioni per preoccuparsi. La sensazione di sgomento e la sorpresa per il comportamento del loro figliolo deve essere stata grande. Certamente non era mai accaduto qualcosa del genere ed essi avevano fiducia nel senso di responsabilità di Gesù. Consideriamo ora più da vicino la sensazione vissuta da Maria. In questo momento, lei, che è stata liberata da ogni contatto con il peccato fin dal suo concepimento nel seno di sua madre, ha avuto la diretta esperienza di quello che significa il peccato, e cioè la lontananza da Dio. Per tre lunghi giorni, Maria ha vissuto la stessa esperienza dolorosa che prova ogni persona che sceglie di lasciare Dio per seguire la propria volontà e violare la legge di amore del Signore. Nel caso del peccatore, la scelta è volontaria. Nel caso di Maria, la scelta è stata del Figlio e non c'è stata nessuna intenzione di offendere Dio. Ma il risultato, almeno per quei giorni pieni di angoscia, è stato lo stesso: Dio non è con me, Dio è lontano e non so come trovarlo. Ecco quindi che Maria, donna come noi, pur nella sua innocenza perfetta, ha conosciuto lo stesso strazio che proviamo noi, quando ci allontaniamo da Dio. Prima o poi ne sentiamo l'assenza e soffriamo per l'abbandono. Maria ha avuto la stessa esperienza ed è quindi capace di capire il nostro smarrimento e di essere per noi un rifugio di salvezza: rifugio dei peccatori, come la invochiamo nelle litanie lauretane. Il racconto della temporanea assenza di Gesù si conclude con una nota di sollievo, quando il ragazzo è ritrovato nel tempio, mentre "ascoltava e interrogava" i maestri della legge. Stiamo attenti: Gesù non si presenta come un saputello che cerca di insegnare ai maestri. Il suo atteggiamento è quello di un discepolo attento e intelligente, che ascolta con attenzione e fa domande opportune, per capire meglio. Per questo, egli suscita meraviglia per la sua

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intelligenza. Al momento del ritrovamento, Maria parla a nome anche di Giuseppe, e fa capire l'angoscia che ambedue hanno provato. La risposta di Gesù è difficile per loro da capire, perché egli ricorda loro che suo dovere è occuparsi delle cose di suo Padre. Questo non vuol dire che Gesù intende ribellarsi a loro: torna con loro a Nazaret, e continua ad essere un figlio rispettoso e obbediente. Ma la sua missione è già chiara nella sua mente, ed egli si prepara ad essa, anche negli anni silenziosi trascorsi nell'oscura cittadina di Galilea.

Maria alle nozze di Cana

Enrico Manfrini (1917-2004), Nozze di Cana,

scultura in bronzo esposta nel 1994 nel corridoio d'ingresso alla basilica di Loreto. Quando ci si reca in pellegrinaggio in Terra Santa, a poca distanza da Nazaret si trova una cittadina che viene identificata con la Cana di cui ci parla il Vangelo. L'attribuzione non è sicura, ma il luogo rimane la meta di pellegrini, specialmente di quelli che vogliono, nella chiesetta del villaggio, rinnovare le proprie promesse matrimoniali. L'evangelista Giovanni, nel capitolo 2 del suo libro, racconta di una festa di nozze, proprio a Cana di Galilea, alla quale era presente anche Maria, la Madre di Gesù. Gesù, da parte sua, era stato invitato, insieme con i suoi discepoli. Non sappiamo se si trattasse di amici, o di persone in qualche modo legate a loro da parentela. In mancanza di elementi concreti, non possiamo dire niente di più. Ed ecco l'episodio che rende quell'evento, di per sé normale nella vita di una comunità, del tutto straordinario. Maria si è resa conto di un disagio presente tra gli organizzatori della festa: il vino, che certamente era stato preparato in abbondanza- era ormai finito, mentre il pranzo continuava ancora. Non si tratta di una situazione drammatica: la gente, lo capiamo poi, aveva già bevuto abbastanza e, in ogni caso, non si muore a restare senza un po' più di vino. Quello che però è certo è che la festa sarebbe stata rovinata e, ci possiamo giurare, il fatto dell'assenza di vino sarebbe stato commentato a lungo, nelle chiacchiere del paese. Per evitare questo disagio, Maria interviene presso suo figlio, segnalando il fatto: "Non hanno vino". Il che vuol dire, in tutta semplicità: c'è un problema, fai qualcosa per risolverlo. La risposta di Gesù è sorprendente: "Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora". A dire il vero, da un figlio avremmo potuto aspettarci qualcosa di più gentile, perché in definitiva, quelle parole vogliono dire semplicemente: "Non ho intenzione di fare niente". Ma la frase di Gesù indica qualcosa di più, perché allude alla sua "ora" che non è ancora giunta. Nel vangelo di Giovanni, ogni volta che si parla dell'ora di Gesù, ci si riferisce alla sua passione, morte e risurrezione. Quello che Gesù dice a sua Madre vuol forse far capire che il dare inizio ai suoi gesti prodigiosi avrebbe anticipato il tempo della sua morte? Se così fosse, Maria è stata avvertita che la sua scelta doveva essere tra la felicità di alcune persone e il dramma che il Figlio avrebbe dovuto affrontare. La scelta di Maria non lascia dubbio: dovendo scegliere, in questo momento lei si schiera dalla parte dei giovani sposi. La loro felicità in quel giorno doveva essere senza ombre, e quindi sia quello che deve essere. Per questo, ora Maria non parla con Gesù, non gli spiega le sue ragioni e le sue preferenze. Neppure lo rimprovera per una risposta che sembra un po' brusca. Semplicemente dà ai servi una disposizione precisa: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela".

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Il che vuol dire ai servi: mio Figlio vi dirà di fare qualcosa. E a Gesù: in ogni caso, tu farai quello che adesso è necessario. Sappiamo bene come è finito l'episodio: Gesù interviene, come gli è stato richiesto da sua Madre, e trasforma l'acqua in vino. Dal calcolo che ci è indicato, possiamo pensare ad almeno 480 litri di vino, sufficiente a rallegrare non solo le persone presenti al matrimonio, ma buona parte della popolazione di Galilea! E si tratta di vino di qualità eccezionale, che merita l'ammirazione del responsabile del banchetto, sorpreso per la comparsa di un vino così buono, quando già la festa era andata avanti da parecchio tempo. Ben più importante è la reazione dei discepoli di Gesù, che "credettero in lui". L'evangelista vede in questo gesto qualcosa di molto significativo, tanto che lo indica come il primo dei "segni" che Gesù aveva compiuto, nel dare inizio alla sua missione. La frase di Maria, anche se pronunciata così presto nella vita pubblica di Gesù, raccoglie le ultime parole che conosciamo come dette da lei. Maria appare ancora, anche se brevemente, ma non dice più nulla. Questo è, di fatto, il suo messaggio finale, che riassume quello che lei stessa ha da dire a noi, suoi figli di ogni tempo. Per indicare il cammino da seguire per vivere la vita nello spirito del vangelo, Gesù dice che sono beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica. Questa stessa è la lezione che Maria offre a noi: ascoltare quello che suo Figlio ha da dirci e quindi fare quello che ci ha detto. Niente altro è necessario per capire la direzione verso cui andare.

La suocera di Pietro

James Tissot (1836-1902), Gesù guarisce la suocera di Pietro, New York, Brooklyn Museum.

Secondo l'evangelista Marco, la prima guarigione da una malattia fu operata da Gesù in favore della suocera di Simon Pietro (Mc 1,29-31). L'episodio è raccontato anche da Matteo e da Luca, ma la narrazione di Marco è più completa. La storia è semplice: la donna è a letto con la febbre, Gesù si avvicina, prende la malata per mano e la guarisce. Subito dopo, lei stessa serve Gesù e i suoi primi discepoli. Potremmo pensare che ci sia ben poco da dire, in proposito, mentre invece questo fatto ha molta importanza per alcuni aspetti che vanno spiegati, perché dobbiamo capirli bene. Quando si parla di suocere, c'è sempre la tentazione di fare ironia e di inventare qualche storia un po' irriverente. Non ho nessuna intenzione di farlo anch'io, anche se potrebbe essere divertente. Non posso però fare a meno di notare che, quando Gesù entra nella casa di Simone e Andrea, e viene informato del fatto che la suocera di Simone era malata, non è stato il genero a parlare di lei al Maestro. Marco scrive: "Gli parlarono di lei". Vuol forse dire che tra i due non correva buon sangue? In assenza di altri dettagli, restiamo con il dubbio, ma senza ragionarci troppo sopra. Il modo di agire di Gesù è invece molto significativo, perché cambia completamente la percezione che della donna aveva il mondo ebraico di allora. Innanzi tutto, sappiamo che mai un Maestro della legge, un "Rabbi", si sarebbe avvicinato a una donna. Se poi, per una strana eccezione, le si fosse avvicinato, mai e poi mai l'avrebbe presa per mano. E infine, non avrebbe permesso a questa donna, appena guarita dalla febbre, di servirlo. Vediamo un po' di cosa si tratta: quando una donna era ammalata, ed aveva la febbre, si pensava sempre che questa indisposizione fosse, in qualche modo, legata al ritmo mensile che ogni donna sperimenta nei suoi anni di fecondità. Per un rispetto assoluto verso questa condizione, particolarmente importante e delicata, e potremmo anche dire sacra, le donne in questo periodo erano protette con alcune proibizioni che le isolavano dal contatto con le altre persone. Per questo, Gesù non avrebbe dovuto prendere la malata per mano. Anche dopo, avvenuta la guarigione, non avrebbe dovuto permetterle di servire lui e i suoi compagni a tavola, perché la suocera di Pietro avrebbe dovuto restare in isolamento per ancora sette giorni interi.

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Chi avesse toccato una donna in questo stato, era considerato in stato di impurità legale, e non poteva avere contatti con altri fino a sera. L'impurità legale - lo ricordiamo - non è equivalente all'impurità morale, perché essa può accadere senza alcuna colpa: qualcuno poteva essere impuro per un contatto involontario con una persona o una cosa che non potevano essere toccate. Ecco quindi che Gesù, che interviene direttamente e non evita il contatto con la suocera malata, viola una serie di precetti della legge antica, restituendo alla condizione femminile la sua dignità. Gesù rifiuta, quindi, di considerare che il dono specifico della femminilità sia un ostacolo tale da rendere la donna stessa meno capace di vivere un'esistenza normale e di agire con dignità in ogni momento della sua vita. In questo breve episodio, verifichiamo una prima presa di posizione di Gesù, che sarà in seguito confermata in altri incontri e con altre donne. Di ciascuna di esse avremo modo di occuparci a suo tempo. Ma fin da ora fa piacere sottolineare che il programma di redenzione dell'umanità intera, intrapreso da Gesù durante la sua missione in terra, comincia proprio con alcuni gesti che offrono liberazione e dignità alla donna. Questa metà dell'umanità ha sofferto e continua a soffrire per forme diverse di discriminazione. Gesù proclama la bellezza della femminilità e ne rispetta la specifica natura, senza cadere nella trappola di voler considerare che uguale dignità possa voler dire un'assoluta identità di condizione, o la confusione e l'intercambiabilità tra l'uno e l'altro sesso. E per coloro che vogliono continuare a divertirsi alle spalle delle loro suocere, e a fare facili ironie su di loro; e per le suocere che, con la migliore buona volontà, offrono tante ragioni ai rispettivi generi e alle rispettive nuore per parlarne con poca carità: ebbene, per tutti loro sarà bello e istruttivo rendersi conto che il processo di liberazione della condizione femminile è partito proprio da una suocera.

La vedova di Nain

Pierre Bouillon (sec. XVII-XVIII), Gesù risuscita il figlio della vedova di Nain, Le Mans, Museo Tesse.

Quando si va in Terra Santa, la città di Nain passa inosservata, perché è posta a qualche distanza dalla strada che attraversa la Galilea. Anche ai tempi di Gesù non era un posto particolarmente importante e forse non c'era nessuna ragione per andarci. Ma quel giorno Gesù aveva una ragione per andare a Nain, e sapeva di dover fare qualcosa di importante. L'evangelista Luca (7,11-17) racconta che Gesù si recò verso quella città, accompagnato dai suoi discepoli e da una grande folla. I gesti miracolosi che aveva compiuto lo avevano reso popolare, e il suo modo di parlare, così chiaro e incisivo, aveva suscitato l'interesse di molti, che quindi amavano seguirlo. Ed ecco che alle porte di Nain si stava svolgendo un funerale: "Veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova, e molta gente era con lei". In poche parole, è descritto il dramma di questa donna la quale, già priva del marito, accompagnava ora alla tomba il suo unico figlio. Al dolore che ogni madre prova per la morte del frutto delle sue viscere, si accompagna il senso di smarrimento di una persona che sa che, ormai, l'unico sostegno sul quale poteva contare non c'è più. La donna vedova, senza figli, è sola, priva di protezione e di aiuto. Oggi una grande folla l'accompagna, ma domani, quando sarà nel bisogno, ci saranno ancora persone che si preoccuperanno di lei? Chi le sarà vicino nella vecchiaia? Chi potrà darle la consolazione di tenere in grembo dei nipotini, che la chiameranno "Nonna" e le diranno, con la loro sola presenza, che la vita continua e che il nome suo e di suo marito continueranno ad esistere in seno al popolo prescelto da Dio? E infine, che le chiuderà gli occhi, quando anche per lei sarà giunto il momento di lasciare questo mondo per raggiungere le anime beate in seno ad Abramo? Gesù sa bene tutto questo, ed è per questo che è giunto a Nain, dove una donna disperata stava aspettando, senza neppure saperlo, che Dio facesse qualcosa per lei. Il Signore coglie immediatamente la situazione e sente, nel suo cuore, una grande compassione per la poveretta. Il suo intervento è immediato: si avvicina alla madre addolorata e le chiede di non piangere. La richiesta può sembrare fuori posto: come non piangere la morte di un figlio? Come non disperarsi, di fronte alla prospettiva di un futuro di povertà e di solitudine? L'invito di Gesù deve essere sembrato alla

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donna vuoto di contenuto, come le parole che si dicono a chi soffre, e che sarebbe tanto meglio sostituire con un silenzio rispettoso, che manifesti vicinanza e partecipazione. Gesù agisce subito: si avvicina alla bara e la tocca. I portatori del feretro si fermano, sorpresi per quel gesto e subito impressionati dall'autorevolezza di chi è di fronte a loro. Ma è difficile pensare che essi abbiano anche solo lontanamente intuito quello che quel maestro, arrivato non si sa bene da dove, stava per fare. Forse qualche parola di consolazione, o forse un richiamo ad una vita onesta e fedele alla legge del Signore. Di predicatori itineranti ce n'erano molti, anche allora, e c'erano anche quelli che sopravvivevano fornendo buone parole in cambio di un piatto di minestra. Al gesto, segue la parola, che ora, in maniera incomprensibile, si rivolge proprio al morto, che, per legge di natura, non può sentire né reagire: "Giovinetto, dico a te, alzati". Si tratta quindi di un ragazzo, e quindi l'immensa misura del dolore materno è ancora più comprensibile, dato che ci troviamo di fronte a qualcuno che si stava aprendo ora alla vita, e portava con sé la speranza di una esistenza utile e bella. Come sempre, la parola del Signore è immediatamente efficace: "Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare". L'evangelista aggiunge ora un particolare che potrebbe sembrare inutile: qualcosa di ovvio, che non sarebbe stato necessario dire. E invece c'è, ed è bellissimo: "Ed egli lo diede alla madre". Questo gesto conclude l'episodio e lo spiega. La compassione che Gesù ha sentito per questa povera donna è stata la ragione del suo intervento. Non ha voluto che le fosse tolta ogni speranza, non ha voluto che sentisse la sua vita ridotta a un trascinarsi nella solitudine e nella miseria. Gesù ha avuto compassione della madre, per lei ha compiuto un miracolo. Forse in quell'istante ha pensato a sua Madre, che, sul Calvario, sarebbe anche lei rimasta priva di ogni sostegno umano. Ma non sola: perché già da allora egli aveva pensato di affidarla alla sua Chiesa.

La Samaritana al pozzo

Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666),

Cristo e la Samaritana al pozzo, dipinto del 1647 conservato nella Collezione del Banco San Geminiano e San Prospero.

Nell'ora più calda del giorno, in una città della Samaria quasi al centro della Palestina, Gesù siede presso il pozzo e aspetta. Sa che una donna di quella città verrà ad attingere acqua. Verrà anche se l'ora non è adatta per recarsi al pozzo, a un centinaio di metri dal villaggio. Nei paesi caldi, le donne vanno a prendere acqua al mattino presto o la sera, dopo il tramonto, per evitare di camminare sotto il sole cocente. Ma Gesù sa che questa donna, che egli aspetta, verrà proprio ora. L'incontro è descritto da Giovanni (4,5-42), con una precisione che fa pensare a un testimone oculare. In questo modo, siamo anche noi presenti e possiamo seguire lo svolgimento della conversazione, che, all'inizio, non sembra facile. La donna di Samaria era una donna capace di imporsi, certamente non timida. Potremmo anche dire che era un po' sfacciata. Alla domanda di Gesù che chiede di dargli da bere, lei risponde infatti con una certa arroganza: perché lui, che è un Giudeo chiede da bere a lei, che è Samaritana? Tra Giudei e Samaritani non correva buon sangue, e quindi lei si sente in dovere di trattare male questo Giudeo! Ma la risposta di Gesù non è polemica, e allora la donna lo chiama "signore", dato che, perlomeno, questo è un Giudeo ben educato. Quando poi Gesù le dice che sarebbe stato piuttosto lui a poterle dare da bere, la Samaritana, ancora con un po' di ostilità gli fa notare che, senza un secchio, lui non poteva prendere l'acqua dal pozzo, che è profondo, mentre lei, invece, ha il suo secchio, che è lo strumento adatto per questa necessità. Pazientemente, Gesù spiega ancora che sta parlando di un'acqua viva che toglie la sete per sempre. E naturalmente la donna, incuriosita, vorrebbe avere subito quest'acqua speciale per la quale non sarà più necessario venire qui ad attingere.

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Il Signore, noi lo capiamo, faceva riferimento alla sua grazia, ma lei non poteva capirlo. E ora, invece di spiegare meglio il suo pensiero, Gesù cambia argomento e le chiede di andare a chiamare il marito. La donna risponde con tono offeso, ma Gesù insiste. È inutile nascondere la verità: lui sa, e lo sa anche lei, che la sua vita è disordinata ed è per questo che viene da sola al pozzo, dato che le altre donne la disprezzano ed evitano la sua compagnia. Se non riuscirà a vivere in maniera corretta, non potrà mai capire il messaggio del Signore sul dono della grazia. La povera Samaritana si sente scoperta, e cerca allora di cambiare discorso, per far dimenticare i suoi cinque mariti e il sesto uomo con cui vive. Chiede un parere sul modo di adorare Dio: chi ha ragione, i Giudei a Gerusalemme o i Samaritani sul monte Garizìm? Gesù guarda al di là di questi dettagli, perché vede un tempo in cui non ci sarà bisogno di un posto speciale per porsi alla presenza di Dio, che è dappertutto e vuole essere al centro dei nostri cuori. Non c'è bisogno di altro. Questo basta per aprire gli occhi della donna al pozzo: ormai, in quell'uomo che ha chiamato "Giudeo", e al quale si è poi riferita come "Signore", riconosce il Messia, proprio quello che "deve venire e ci annunzierà ogni cosa". Con grande gioia, corre al villaggio per condividere con gli altri la sua scoperta: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?" Anche se gli altri la disprezzavano, per la sua vita immorale, lei non vuole tenere per sé quello che ha capito: è qualche cosa di talmente importante, che deve essere condiviso con tutti. Grazie alla testimonianza della donna, la gente di quel villaggio viene incontro a Gesù e lo trattiene per due giorni. Erano anch'essi assetati di verità, e la parola di Gesù giungeva a loro come una grande consolazione, al di là delle esclusioni e delle condanne sofferte da parte degli altri membri del popolo di Israele. C'è però un ultimo particolare, un po' spiacevole. Dopo aver ascoltato Gesù, i Samaritani credono in lui, ma vogliono mettere da parte l'intervento della donna: "Non crediamo perché ce lo hai detto tu, ma perché l'abbiamo capito da soli!" In questo, si sono dimostrati meschini, perché incapaci di perdonare, come invece fa sempre il Signore. Ma, davanti a noi, resta chiaro che il merito di tutto è di questa donna, peccatrice convertita e ormai capace di annunciare ad altri Gesù come Salvatore del mondo.

La peccatrice perdonata

Francesco Fontebasso,"Cena in casa del tarisco", prima metà del Settecento, olio SII tela,

Galleria Giamblanco,Torino E’ una donna di cui non sappiamo il nome, né possiamo identificarla con un luogo preciso, dato che l'evangelista Luca, che ci narra il bellissimo episodio (7,36-50), non ci offre altri particolari. È bene dire subito, però, che non si tratta di Maria di Betania né di Maria di Magdala, donne che incontreremo più tardi. Per questo, continuiamo a nominarla con una parola che ne ricorda il passato, anche se stiamo ascoltando una storia di conversione e quindi di grande santità. Luca ci fa entrare nella sala, nella quale il fariseo Simone offre in onore di Gesù un pranzo, al quale erano invitate altre persone. E Simone ci teneva a fare bella figura. Per questo, l'ingresso di questa donna lo infastidisce: è la persona sbagliata al posto sbagliato. Cosa voleva lei, di cui tutti conoscevano la vita disordinata, in una casa di gente per bene? E specialmente oggi, con la presenza del Maestro, che, anche se mostra sempre una grande benevolenza con tutti, è molto severo nel condannare i vizi. La donna è entrata e, senza interessarsi a nessun altro, si avvicina proprio al Maestro e si inginocchia dietro di lui, che è adagiato sul divano, di fronte alla tavola imbandita. La donna piange e le sue lacrime bagnano i piedi di Gesù, che lei poi asciuga con i suoi lunghi capelli mentre li bacia e li unge con l'olio profumato che ha portato con sé. Tanto basta per scandalizzare il fariseo, che guarda con disprezzo la scena, anche perché gli sembra che Gesù non ha neppure capito che razza di donna sia quella che lo tocca con tanta sfacciataggine. Quello che è invece molto

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chiaro è che Simone non sa vedere nel cuore delle persone, e giudica in base ai suoi pregiudizi, che in questo caso sono superficiali e quindi ipocriti. Gesù chiama la sua attenzione sulla differenza tra il comportamento suo e di quella donna: lui freddo al punto di essere sgarbato; lei piena di amore appassionato. I gesti di cortesia che lui gli ha negato - offrire acqua per lavare i piedi di chi viene da fuori; baciare l'ospite per fargli capire che è benvenuto; ungere il suo capo con olio profumato - sono invece compiuti con generosità dalla donna, che lui giudica male perché non ne ha capito la sincerità e l'intensità dell'amore. Non ci vuole molto per comprendere quale sia la parte preferita dal Signore, che scopre nel pentimento sincero della donna un grande desiderio di conversione e di redenzione. Mentre vede nella cortesia avara e formale del fariseo la volontà di restare in una situazione di sterilità, senza il desiderio di cercare un miglioramento. Simone è semplicemente convinto di non aver bisogno di nessuna conversione. Gesù descrive tutto questa in una frase: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco". Il Maestro non nega le colpe commesse dalla donna: i suoi peccati sono molti, ma essi non sono l'ultima parola. Il Signore guarda piuttosto alla forza del pentimento, che si esprime in un pianto dirotto e in gesti di amore gratuito, che manifestano un immenso desiderio di bene. Le parole conclusive di Gesù giungono come una proclamazione liberatoria, che sentiamo detta alla donna, che era stata peccatrice, ma che capiamo rivolta a ciascuno di noi, anche noi peccatori, bisognosi di perdono: "La tua fede ti ha salvata; va' in pace!" C'è ora una domanda, che sorge spontanea: cosa vuol dire che la persona a cui si perdona poco ama poco? Gesù sta forse suggerendo che devo commettere peccati gravi, per sentire davvero la forza dell'amore di Dio per me, e quindi per essere capace di rispondere con un amore adeguato? La risposta è questa: il peccato, ogni peccato, è una offesa fatta a Dio, ed è quindi sempre grave. Quando l'amore è sincero, il gesto con cui ho offeso una persona che merita il mio amore suscita in me un senso di pentimento, al di là della maggiore o minore gravità del gesto. Quando sento così il mio peccato, la mia gratitudine per il perdono ricevuto sarà immensa e farà crescere in me quel senso di liberazione e di consolazione, che alimenta un amore sempre più grande. Da questo episodio, comprendiamo meglio l'amore di Dio per ciascuno di noi. Quale consolazione ci dà il capire che Dio ci ama al di là delle nostre debolezze, e ci abbraccia ogni volta che torniamo a lui, coscienti di aver sbagliato, e ci ama con amore sempre più intenso e generoso. La donna che era peccatrice ci rivela un Padre pieno di amore. Le siamo grati per il dono che ci ha fatto.

Le donne che seguono Gesù

Biagio Biagetti, La Vergine sostenuta da Giovanni con tre pie donne sul Calvario, Loreto,

Cappella del Crocifisso (1929-1932). La prima a sinistra, in ginocchio e con le mani alzate, è la Maddalena. L’ evangelista Luca, all'inizio del capitolo 8, ci dà un'informazione che anche Matteo e Marco ricordano, ma più tardi nel racconto evangelico. Egli parla infatti di alcune donne - e subito dopo aggiunge: "molte" - che, insieme con i Dodici, accompagnavano Gesù nei suoi movimenti in Galilea, quando "andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio" (8,1). La missione di queste donne è spiegata dallo stesso evangelista: esse servivano Gesù e gli apostoli "con i loro beni". Il che vuol dire che offrivano la loro assistenza al gruppo, sostenendolo economicamente e preoccupandosi dei problemi logistici, garantendo quindi per essi il necessario vitto e l'alloggio.

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Tre di queste donne sono ricordate per nome, ma delle altre non sappiamo niente. Se mettiamo insieme quello che scrivono Matteo e Marco, possiamo aggiungere "Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo". Di quest'ultima avremo modo di parlare più tardi. Delle altre possiamo dire ben poco, dato che su di loro non abbiamo più informazioni. Resta però quella che è ricordata per prima, la più famosa e anche la meno capita: Maria, proveniente dalla città di Magdala in Galilea, e per questo ricordata con il nome, divenuto comune, di Maddalena. Perché dico che è famosa è poco capita? Perché la tradizione popolare, interpretata anche da innumerevoli rappresentazioni artistiche, ha confuso la Maddalena con altre donne, di tutt'altra situazione. Si pensa infatti a Maddalena come ad una donna che ha vissuto una vita di peccato, e che, attraverso l'incontro con Gesù, ha capito i suoi errori, si è convertita ed ha cambiato radicalmente il suo comportamento, divenendo discepola del Signore. Sembra quindi che si voglia vedere Maria di Magdala nella donna di cui abbiamo parlato la volta scorsa: quella che, in casa di Simone il fariseo, ha pianto sui piedi di Gesù e li ha unti con unguenti preziosi. Ma di quella donna, come abbiamo visto, non conosciamo il nome. C'è poi l'altra donna, che a Betania ha ripetuto lo stesso gesto di amore, suscitando l'irritazione di Giuda Iscariota. Ma quella è Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro,'e la incontreremo a suo tempo. E allora, chi è Maria di Magdala? Quello che il vangelo di Luca dice ora è questo: "Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni". Non si parla quindi di una persona che aveva avuto una vita disordinata e di peccato, ma piuttosto di qualcuno che era stata martoriato dalla presenza del demonio, o nella forma di una possessione demoniaca o nella forma di qualche malattia. Spesso infatti alcune infermità erano attribuite all'opera di spiriti malvagi o impuri. Di più non sappiamo, in riferimento alla vita precedente di Maria Maddalena. Per questo è del tutto ingiusta la trasformazione che si è spontaneamente fatta di lei, come se avesse vissuto una vita di peccato di una donna che aveva tante ragioni per essere grata a Gesù, che l'aveva liberata da questa presenza cattiva é umiliante. Ma, proprio perché si doveva trattare di una presenza demoniaca, essa non era colpevole. Maria era quindi una vittima, non una peccatrice. Gli episodi nei quali si ricorda ancora la presenza di Maria Maddalena confermano questa sua vicinanza piena di amore al Signore, al punto che proprio lei è stata testimone della morte dí Gesù sul Calvario e quindi della sua risurrezione. Sono privilegi davvero unici, sui quali dovremo tornare più tardi, quando la nostra lettura dei vangeli "al femminile" che farà giungere a quella ora della vita del Signore. Per ora, guardiamo con gratitudine e ammirazione Maria, Susanna, Giovanna e le altre molte donne, che, con la loro presenza e il loro servizio, hanno reso possibile la missione di Gesù e degli apostoli. Potremmo pensare che quello che hanno fatto fosse di poca importanza. Dobbiamo invece capire che, senza il loro aiuto e la loro presenza, che immaginiamo attenta e premurosa, il primo annuncio del vangelo non sarebbe stato possibile. Questa situazione si è ripetuta e continua a ripetersi nella storia della Chiesa: senza la presenza di certe donne non sapremmo cosa fare e dove andare!

Maria e i parenti di Gesù

Ludovico Seitz, Annunciazione, Loreto, Cappella Tedesca (1892-1902).

L’episodio, che l'evangelista Marco descrie nel capitolo 3 ai versetti 31-35, non è tra quelli più facili da capire e da accettare. Ma è un episodio importante, perché permette al Signore di dare ai suoi discepoli, e quindi anche a noi, una lezione di grande significato, per capire la nuova relazione tra Dio e l'umanità.

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Questo è il fatto: Gesù è a Cafarnao, in una casa, e sta insegnando. È circondato da una folla di persone che, sedute attorno a lui, lo ascoltano attentamente. La madre e i fratelli di Gesù arrivano e, restando fuori, gli mandano a dire che desiderano parlare con lui, e che quindi vorrebbero che egli andasse a incontrarli. Sappiamo bene chi è la madre del Signore. Per i fratelli, invece, sorge qualche perplessità e qualcuno ne approfitta per creare dubbi sulla verginità di Maria, che non sono però giustificati. Nella cultura di quei tempi, e in molte culture, specie africane anche oggi, il termine "fratello" indica qualsiasi persona legata da parentela e appartenente alla stessa grande famiglia. Può indicare persino gli abitanti dello stesso villaggio. Di queste persone, del resto, si dice che sono fratelli di Gesù, ma non si dice mai che siano figli di Giuseppe o di Maria. Non si tratta quindi di fratelli di sangue di Gesù, dato che sappiamo bene che né Maria né Giuseppe hanno avuto altri figli. Quando il messaggio dei suoi famigliari raggiunge Gesù, sarebbe stato normale che la sua reazione fosse quella di andare subito incontro a sua madre e agli altri, per accoglierli e farli accomodare là dove egli si trovava. Ne abbiamo un esempio nel comportamento del re Salomone, figlio di Davide, verso sua madre Betsabea, che era andata a parlare con lui: "Il re si alzò per andarle incontro, si prostrò davanti a lei, quindi sedette sul trono, facendo collocare un trono per la madre del re. Questa gli sedette alla destra" (1 Re 219). La reazione di Gesù è invece completamente diversa ed è tale da sorprenderci. Dice il Vangelo: "Egli rispose: 'Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? ' Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: 'Ecco mia madre e i miei fratelli. Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre". Il nostro primo pensiero potrebbe essere quello di giudicare Gesù in maniera negativa: doveva essere più rispettoso verso colei che gli aveva dato la vita. In fondo, non ha rispettato il comandamento di Dio che ci chiede di onorare i nostri genitori. Diciamo pure che si è comportato in maniera poco gentile con sua madre. Ma, prima di tirare queste conclusioni, dobbiamo ricordare la grande rivoluzione che, con l'incarnazione di suo Figlio, Dio ha introdotto nella storia dell'umanità. Fino ad allora, tutto quello che accadeva era determinato attraverso una lunga serie di "generò", e la possibilità di appartenere al progetto di Dio e di ottenere la salvezza era riservata a chi fosse nato nella famiglia giusta e nel popolo giusto. L'incarnazione del Figlio di Dio, avvenuta per intervento divino, ha interrotto questa catena, per introdurre una nuova genealogia, di coloro che "non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (Gv. 1,13). I famigliari di Gesù, in questa nuova e definitiva fase della storia della salvezza, non sono quelli legati a lui da una parentela umana, ma coloro che sono disposti ad ascoltare e ad accogliere la sua parola e vogliono metterla in pratica. Questa condizione per l'appartenenza al nuovo popolo di Dio sarà ripetuta ancora, ma fin da ora richiama alla nostra memoria le parole dette in precedenza da Maria all'angelo Gabriele e che sono state riportate nel Vangelo di Luca: "Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola" (Lc. 1,38); e poi quelle che, per divina ispirazione, Elisabetta ha rivolto a Maria: "E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto" (Lc. 1,45). Maria, che si considera "umile serva", sa bene che la sua grandezza consiste proprio nel fare la volontà che Dio le ha manifestato. Il suo "sì", pronunciato all'interno della sua casa a Nazaret, sarà confermato ogni giorno della sua vita, nei lunghi anni di silenzio e di difficoltà a capire quale potesse essere il progetto di Dio per suo Figlio. Il "sì" alla volontà di Dio è stato confermato fino al martirio del Calvario. Nessuno quindi più di lei merita di essere identificato con "chi fa la volontà di Dio". Per questo è madre di Gesù. Per questo è madre nostra.

La figlia di Giairo

lya Repin, Risurrezione della figlia di Giairo (1871), Museo Ermitaqe di Sanpietroburqo (Russia).

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Anche se questa storia è raccontata dai tre vangeli sinottici - Matteo, Marco e Luca - la donna, o meglio la ragazzina di cui parliamo non è ricordata con il suo nome. Di lei sappiamo solo che era figlia di uno dei capi della sinagoga, probabilmente della cittadina di Cafarnao, che era malata e che aveva dodici anni. Suo padre andò incontro a Gesù, che era appena tornato in barca dall'altro lato del lago di Galilea, gli si gettò ai piedi e gli chiese di guarire la sua bambina. In questo caso, Gesù non oppose nessuna resistenza e andò subito con lui verso casa. Durante il cammino, accadde qualcosa di nuovo, ma di questo secondo episodio ci occuperemo nel prossimo articolo. Mentre Giairo accompagnava Gesù verso casa, qualcuno venne loro incontro con una notizia sconvolgente: inutile continuare a disturbare il Maestro, perché la bambina è morta e quindi non c'è più niente da fare. La reazione immediata di Gesù è la risposta a questa sentenza conclusiva: "Andiamo avanti. Non è vero che tutto è finito. Tu pensa solo ad avere fede". Arrivati a casa, Gesù e i tre discepoli che aveva voluto con sé - Simon Pietro, Giacomo e Giovanni trovarono già organizzata la baraonda che doveva accompagnare la morte di qualcuno: tanti pianti e tante urla. Forse si trattava di persone sinceramente dispiaciute, di fronte alla morte di una bambina che si stava appena affacciando alla vita. Ma forse c'erano già anche le piangitrici ufficiali, che davano sfogo ed enfasi ad un dolore falso, che però faceva scena e a loro portava qualche guadagno. Per prima cosa, Gesù invita tutti a smettere di fare confusione: la bambina sta solo dormendo. I presenti, per tutta risposta, lo prendono in giro. Buon segno per capire che non erano toccati personalmente dall'accaduto. Allora il Signore li caccia via tutti e, insieme con il padre e la madre, entra nella stanza in cui la piccola giace, già composta e pronta per essere accompagnata alla tomba. Tutto si svolge con estrema semplicità, e, dalla testimonianza di Marco, ci rendiamo conto che ogni dettaglio è rimasto impresso nella mente di Pietro, che era presente. Gesù prende la mano della piccola morta e la chiama, invitandola ad alzarsi: "Talità kum". Persino le parole, dette in aramaico, sono state ricordate. Vogliono dire: "Fanciulla, io ti dico: alzati". Come conseguenza immediata, la bambina si alza e si mette a camminare, come a volersi sgranchire le gambe, dopo tanto tempo di immobilità. E qui che l'evangelista ci spiega che la figlia di Giairo aveva dodici anni, e quindi, si capisce, sapeva camminare bene. L'ultima parte del racconto è interessante, e merita di essere ricordata. Prima di tutto, Gesù chiede a tutti i presenti di non raccontare in giro quello che è accaduto. La sua è una richiesta insistente, perché il Signore non vuole che si creino reazioni di entusiasmo isterico, che porterebbero soltanto confusione e disordine. Gesù non vuole che i suoi interventi miracolosi diventino la parte più importante della sua missione. L'insegnamento che egli porta, con l'accento posto nella fede in Dio e in lui, come Figlio di Dio, rischia di essere nascosto dal desiderio istintivo della gente di trarre vantaggio dalla presenza di qualcuno capace di compiere prodigi. La tentazione per noi sarebbe quella di dire: quello che vogliamo è che faccia miracoli, che ci aiuti così ma non ci chieda altro! La seconda raccomandazione è invece umanissima e graziosa. Possiamo immaginare la gioia dei genitori nel poter riabbracciare la loro figlioletta, tornata in vita e del tutto guarita. Quanti abbracci e baci e carezze e frasi amorevoli dette e ripetute. Tutto certamente bello e commovente! Ma in questa emozione generale, ci si dimentica di una situazione concreta, che è invece importantissima: la bambina è stata a lungo malata, poi è morta. Da quanto tempo non mangia? Nessuno si rende conto che la poverina deve aver fame e che quindi deve poter mettere qualcosa sotto i denti, per ristorarsi e riprendere forze? Meno male che ci pensa Gesù, che mantiene la calma, nel generale entusiasmo e, pur consapevole del gesto compiuto, resta con i piedi ben piantati in terra: "Disse di darle da mangiare". In questo modo, possiamo concludere con soddisfazione che, quel giorno, Gesù ha salvato due volte la bambina: prima richiamandola alla vita e poi impedendo che morisse di nuovo, questa volta non per malattia ma per fame

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La donna emorroissa

Incisione di Antonio Wiericx. (1533 circa-1619),

Gesù prima guarisce l'emorroissa, raffigurata in ginocchio, e poi risuscita la figlia di Giairo, raffigurata sul letto.

Mentre Gesù camminava per recarsi in casa di Giairo, per curare la figlioletta ammalata, si è svolto un nuovo episodio, anch'esso con una donna come personaggio principale, accanto, si capisce, a Gesù. La storia, con alcuni dettagli diversi e interessanti, è raccontata dai tre vangeli sinottici: Matteo (9,20-22), Marco (5,25-34) e Luca (8,42-48). La donna soffriva di continue perdite di sangue, e questa situazione si prolungava ormai da dodici anni. Seguendo quanto stabilito dalla legge di Mosè, la persona che si trovava in queste condizioni doveva interrompere ogni contatto con gli altri, e restare quindi isolata, in uno stato che si chiamava di impurità legale. Anche il solo contatto occasionale con lei, avrebbe trasmesso la stessa condizione di impurità alla persona toccata (Lev 15,25-30). Il disagio fisico, così prolungato, e l'umiliazione che esso comportava erano causa di una continua sofferenza. Marco e Luca sembrano volersi scambiare delle allusioni polemiche. Luca, del quale sappiamo che era medico, dice che la donna, "pur avendo speso tutti i suoi beni per i medici, non aveva potuto essere guarita da nessuno". Marco invece scrive che la poveretta "aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando". Come vedete, il punto di vista era alquanto differente. La donna malata, facendo qualcosa che non avrebbe dovuto fare, si è inserita tra la folla perché è spinta da una grande speranza: "Se tocco almeno un lembo del vestito di Gesù, sarò salvata". E difatti riesce nel suo intento, e subito sente che è finalmente guarita. Con la stessa discrezione con la quale è arrivata, ora, piena di gioia, cerca di tornarsene a casa. Ma non è questa l'intenzione del Signore: ha sentito "una forza che era uscita da lui" e ora vuol sapere chi è stato a toccarlo. Marco se la cava dicendo che i discepoli hanno spiegato che, con tutta la gente che c'era li attorno, non aveva senso chiedersi chi l'avesse toccato. Luca, invece, precisa che questa frase, piuttosto sciocca, l'aveva detta Pietro, che era stato il maestro di Marco. Così la scortesia del primo è stata restituita dal secondo. Un dettaglio molto umano e persino divertente. Ora Gesù guarda attorno a sé, perché vuole vedere con chiarezza chi sia stato a toccarlo e perché vuole che da questo miracolo nasca un insegnamento importante per le persone che gli stanno attorno e per tutti noi. La donna, ormai guarita, capisce che non può nascondersi al suo sguardo e si fa avanti e, tremando, si getta ai piedi del Signore e "dichiarò davanti a tutto il popolo per quale motivo l'aveva toccato e come era stata guarita all'istante". La situazione sofferta dallà donna per tanto tempo era considerati umiliante, perché, come abbiamo detto, la poneva in uno stato di separazione dagli altri. Il dichiarare ora pubblicamente quello che era avvenuto, significava far sapere a tutti che lei, in mezzo alla folla, era entrata in contatto con tante persone, che ora dovevano sentirsi impure. Aveva anche toccato un lembo del vestito di Gesù, e quindi anche lui era nella stessa situazione di impurità. Ma di tutto questo non resta nulla: Gesù vuole che la donna dica a tutti, senza paura né vergogna, quale era la sua situazione. Vuole che tutti sappiano che non c'è nulla di umiliante e di scorretto nei ritmi che la natura ha attribuito alle donne, anche quando questa condizione fosse alterata da malattia. Vuole che tutti sappiano che lui stesso, che è stato

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toccato da quella donna, non si sentiva impuro e non aveva nessun bisogno di isolarsi dal contatto con gli altri. Quando Gesù ha sanato i lebbrosi, ha raccomandato loro di recarsi dai sacerdoti, per essere esaminati e per offrire un sacrificio di ringraziamento. Lo stesso era richiesto per la donna guarita da perdite di sangue. Eppure alla donna incontrata per strada, il Signore non chiede di fare nulla, indicando che egli considera ormai superata la disciplina precedente. La sua sola parola alla donna è piena di affetto e di stima, perché, come in altri casi, la guarigione, pur operata dalla forza uscita da Gesù, è stata meritata dalla fede della malata: "Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va in pace". Agli occhi di Gesù, la donna non ha ottenuto solo la guarigione da una malattia, ma la salvezza della sua persona intera: salvata dalla vergogna, dalla paura, dalla segregazione forzata e ormai consapevole dell'amore provvidente di Dio per lei.

La donna che loda Maria

Federico Barocci, Annunciazione, Loreto, cappella dei Duchi di Urbino, mosaico tratto da un dipinto eseguito.dal pittore

per la stessa Cappella nel 1584, ora custodito alla Pinacoteca Vaticana. È Maria "la prima ad aver ascoltato la Parola di Dio, portata a lei dall'angelo Gabriele nella sua casetta di Nazareth".

Che cosa può aver suscitato l'entusiasmo di questa donna, così entusiasta di Gesù? Questa persona rimane per noi senza nome e senza altre indicazioni, ma di lei sappiamo che ha sentito la necessità di gridare ad alta voce l'ammirazione per la madre dell'uomo che le stava davanti. Accade anche a noi:quando vediamo una persona di valore, pensiamo subito alla qualità dei suoi genitori, e, con una reazione spontanea, anche se non del tutto corretta, quasi sempre pensiamo più alla madre che al padre. Questo brevissimo episodio ci è raccontato solo dall'evangelista Luca (11,27-28), che non identifica la donna in nessun modo, scrivendo soltanto che era una "in mezzo alla folla" e che, per farsi sentire da Gesù, "alzò la sua voce". Dato che il vangelo spiega che Gesù "stava parlando", possiamo pensare che quello che l'aveva impressionata così tanto fosse la sua predicazione, le cose belle che diceva, gli esempi che presentava, i gesti miracolosi che compiva. Non dobbiamo però dimenticare un altro elemento, che, con ogni probabilità, ha attirato l'attenzione di questa donna sconosciuta, facendola uscire con quella frase così piena di ammirazione. Penso proprio che anche l'aspetto fisico di Gesù abbia contribuito a far scaturire dal cuore della donna quell'espressione. A pensarci bene, però, di come fosse Gesù, dal punto di vista fisico, noi non sappiamo niente. Nei Vangeli non c'è neppure una parola che ci possa aiutare a sapere qualcosa della sua fisionoma. Gli evangelisti ricordano più volte i suoi sguardi e anche le sue mani, ma non ci danno mai una indicazione che ci aiuti a capire quale fosse la loro apparenza. Nonostante questo, tutti sappiamo riconoscere Gesù, e, guardando un quadro o una scultura che lo rappresenta, possiamo subito decidere se "gli somiglia o non gli somiglia". Con una buona dose di probabilità, è stato proprio il volto dell'Uomo della Sindone, nella sua solenne maestà, che ha ispirato fin dal principio la percezione dei cristiani, facendoci vedere in quella fisionomia il volto dell'Uomo-Dio.

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Non si capirebbe altrimenti come mai in tutte le tradizioni, orientali e occidentali, Cristo sia stato rappresentato con delle caratteristiche costanti, quelle che noi riconosciamo e che sentiamo familiari. Qualunque ne sia la ragione, la donna ha gridato la sua lode, ma ora l'evangelista registra la reazione di Gesù, che ormai non può scandalizzarci e neppure sorprenderci: "Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica". Abbiamo infatti ascoltato un'espressione simile quando Maria e altri parenti di Gesù si erano presentati dove egli stava predicando, e volevano vederlo. Anche ora, Gesù vuole distinguere con molta chiarezza la generazione naturale dall'appartenenza spirituale al nuovo popolo che Dio ha scelto. Non si tratta più di essere parte di una nazione o di una razza; non importa più essere il punto di arriva di una lunga lista di generazioni: ognuno di noi è una persona nuova, generata dall'acqua e dallo Spirito, e la nostra identificazione nasce proprio dalla capacità che abbiamo di porci all'ascolto della Parola di Dio e poi di metterla in pratica. La nostra grandezza non ha la sua origine dal fatto di aver avuto la fortuna di nascere in un luogo e in un'epoca, ma dal nostro accogliere la chiamata del Signore e dal rispondere positivamente ad essa con i gesti concreti della nostra vita. E allora Gesù rifiuta il bel complimento fatto da questa donna a sua madre? In nessun modo. Perché le parole che lui ha detto sono proprio quelle che definiscono il modo di essere, e quindi la grandezza di Maria. È lei la prima ad aver ascoltato la parola di Dio, portata a lei dall'angelo Gabriele nella sua casetta di Nazareth. È lei che ha accolto in spirito di fede e di servizio quell'invito, facendolo suo, quando ha detto: "Si faccia di me secondo la tua parola". Ed è ancora lei quella che ha vissuto la volontà di Dio in maniera perfetta ogni giorno della sua vita, diventando liberamente la prima e la più perfetta discepola di suo Figlio. In questo modo, attraverso l'esempio di Maria, Gesù ci indica la via per essere anche noi suoi veri discepoli: imitando lei nel suo atteggiamento di ascolto e nella capacità di accogliere la parola di salvezza che viene da Dio, ciascuno di noi può meritare la lode della donna di quel giorno.

Erodiade e sua Figlia

Caravaggio (1573-1610),

Salomè riceve su un piatto la testa di Giovanni Battista, fatto decapitare per volontà della madre Erodiade. Londra, National Gallery

Apriamo il vangelo di Marco, al capitolo 6, 17- 29, per leggere una storia triste e nello stesso tempo gloriosa: Giovanni Battista, il precursore di Gesù, colui che lo aveva indicato come "agnello di Dio che toglie i peccati del mondo", è fatto uccidere da Erode, il crudele figlio dell'altro Erode, colpevole del massacro dei bambini innocenti di Betlemme. In questo episodio, il re, che di autorità e di dignità regale ne aveva davvero poca, si dimostra molto superficiale e debole. Innanzitutto, non era capace di tirare le conseguenze da quello che Giovanni gli diceva, denunciando i suoi peccati, e ora non sa far valere la propria volontà, di fronte alla richiesta assurda di una ragazzina. La situazione era questa: Erode, abbandonata sua moglie, aveva preso come propria compagna la moglie di suo fratello, Erodiade. Giovanni aveva denunciato l'operato del re, affermando, senza mezzi termini, che quello che egli aveva fatto era male, contrario alla legge di Dio e alla legge del loro popolo. Erodiade si era sentita offesa da questa condanna, e aveva voluto che Erode facesse arrestare il Battista, che fu quindi rinchiuso nei tetri sotterranei della fortezza di Macheronte. Ogni tanto Erode andava a parlare con il profeta e lo ascoltava volentieri. Era impressionato da quello che ascoltava, ma gli mancava la forza di volontà per accogliere quelle parole e applicarle alla sua vita. Egli comunque era riuscito fino ad allora a proteggere Giovanni dall'ostilità di Erodiade, la quale avrebbe tanto desiderato che il Battista morisse, e che la sua bocca, che la offendeva, fosse così chiusa una volta per tutte.

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Ed ecco che l'occasione che la donna aspettava si presentò: una festa nel palazzo, con tanti invitati e tanta allegria negli invitati, che godevano della benevolenza generosa del loro sovrano. Qui incontriamo la figlia di Erodiade, una ragazza della quale non sappiamo molto, ma che vediamo ora come strumento forse ingenuo nelle mani di una madre cinica e crudele. O forse ne è stata una complice in piena coscienza? Il vangelo non lo dice, ma la ragazza si chiamava Salomè. Durante la festa, danzò di fronte agli invitati e fece una splendida impressione. Erode ne fu talmente entusiasta, che si lasciò andare a fare grandi promesse: "Chiedimi quello che ti pare. Se lo vuoi, ti do anche metà del mio regno". Questa poteva essere una esagerazione, ma si capisce bene che il re, forse anche aiutato dal troppo vino bevuto, aveva perso la testa per sua nipote ed aveva promesso tanto, di fronte a tutti i suoi ospiti, che furono testimoni delle sue esternazioni demenziali. Salomè non sapeva cosa chiedere e si consigliò con la madre, che colse al balzo la circostanza per ottenere quello che fino ad allora le era stato negato: "Chiedi la testa di Giovanni il Battista". E la ragazza, figlia di tanta madre, non ebbe nessuna difficoltà a farsi portavoce della vendetta di Erodiade. Anzi, ci aggiunse del suo, precisando che la testa la voleva subito, e presentata su un piatto. La proposta fu fatta al re, in presenza di tutti i presenti al banchetto. Quella che fino ad allora era stata una festa allegra, divenne in un istante il palcoscenico di una tragedia. Il vangelo racconta sobriamente che Erode fu profondamente dispiaciuto per la richiesta, ma si convinse che non avrebbe potuto rifiutarsi: aveva dato la sua parola e tutti avevano sentito quello che aveva detto. Può un re smentire quello che ha promesso? Non sarà giudicato falso e indegno di fiducia? Il povero Erode era un re di nessun conto: era sopportato appena dai Romani solo perché li serviva come uno sguattero, e fu cacciato quando non era più utile per loro. Non c'è nessuna dignità nel fare qualcosa di ingiusto e di completamente illegale. L'unico modo per salvare la sua credibilità sarebbe stato quello di revocare la stolta promessa fatta e respingere la proposta di commettere un assassinio. Questa volta, le due donne, alleate crudeli contro la voce vera del Precursore di Cristo, l'ebbero vinta. Il boia fu mandato nella prigione dove Giovanni era recluso e dovette eseguire la sentenza. Il Battista confermò con il martirio la verità da lui affermata, e sigillò con il sangue la sua testimonianza del Messia che era venuto nel mondo. Erodiade appare come un personaggio sinistro, vicina ad alcune delle donne perverse che abbiamo incontrato nell'Antico Testamento. Ma, grazie a Dio, di ben altre persone è ricco il racconto evangelico: donne piene di bontà e tali da lasciarci un insegnamento forte di conversione e di amore.

Marta e Maria

Betania è un villaggio poco lontano da Gerusalemme, appena dietro al Monte degli Ulivi.Gesù si recava lì ogni volta che andava nella Città Santa, e si faceva ospitare da una famiglia di amici: due sorelle, Marta e Maria, e il loro fratello, Lazzaro, che conosciamo bene perché proprio per lui Gesù compì un miracolo strepitoso, richiamandolo in vita, quattro giorni dopo della sua morte. Betania era quindi per lui il luogo dell'ospitalità e dell'amicizia: una casa nella quale si trovava a suo agio, accolto da persone a lui care, e lontano dalle polemiche astiose con le quali gli scribi e i farisei della capitale lo attaccavano continuamente. In una delle occasioni nella quali Gesù era ospite in casa dei suoi amici a Betania, è capitato un episodio che San Luca ha riportato fedelmente nel suo Vangelo (10,38-42). A dire il vero, non sembra che l'evangelista sia del tutto al corrente della relazione stretta che legava il Signore ai membri di questa famiglia. Difatti egli parla genericamente di "una donna di nome Marta", che "aveva una sorella di nome Maria". La scena è facile da immaginare: si avvicina l'ora della cena, Gesù sta parlando e Marta si dà da fare per preparare tutto per la mensa. Mentre lei si muove avanti e indietro, tra il focolare e la tavola, la sorella Maria rimane seduta, ai piedi di Gesù, ad ascoltare la sua parola. Questa situazione deve essere andata avanti per un po', fino a quando

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Marta, spazientita per la passività della sorella, si è fatta avanti, cercando l'appoggio del Signore per la sua protesta: "Non ti curi che mia sorella mi ha lasciato sola a servire? Dille dunque che mi aiuti" Vista la situazione, saremmo pronti a dare ragione a Marta: se c'è da fare, dato che l'ora della cena si avvicina e c'è un ospite importante da trattare con riguardo, sarà bene che anche lei dia una mano, perché tutto sia pronto nel modo giusto. Gesù invece non interviene per convincere Maria a smettere di ascoltarlo, e anzi rivolge a Marta un rimprovero: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta". Il vangelo non ci spiega quale sia stata la reazione delle due sorelle a questa affermazione. Ma quello che il Signore ha detto diventa un insegnamento importante, affidato alla Chiesa intera, e quindi a ciascuno di noi. Vale la pena di notare che, nell'episodio del vangelo, l'atteggiamento delle due sorelle era comunque orientato verso Gesù: l'attività di Marta voleva dare una risposta generosa a tutti i bisogni e i desideri che più potenti per dare a quei drammi risposte concrete Gesù, in cammino verso Gerusalemme, poteva avere; Maria non era assorta in una riflessione su se stessa, ma era all'ascolto dell'insegnamento del Maestro. Nella vita cristiana, vita attiva e vita contemplativa sono sempre orientate a Cristo e al suo messaggio. Un missionario non può mai essere identificato, né può identificarsi, con un assistente sociale, perché il fratello che ha davanti a sé non è un caso tra tanti, ma è sempre una presenza di Gesù: che è nel fratello sofferente e bisognoso, nel fratello che è alla ricerca di risposte, con le ferite di un cuore offeso. Ugualmente, un contemplativo non potrà mai essere confuso con un seguace dei metodi di meditazione trascendentale o di preghiera orientale, perché questi sono basati su un esercizio di astrazione dalla realtà, di dimenticanza dei problemi e delle esigenze di vita, e non su sogni un dialogo personale con Dio e con la sua creazione. La contemplazione cristiana non ha come fine il farci dimenticare l'esistenza del mondo e i drammi che si vivono in esso. Vuole invece offrirci gli strumenti più potenti per dare a quei drammi risposte concrete ed efficaci. Le due sorelle, che incontriamo qui per la prima volta ma di cui avremo occasione di parlare ancora, ci presentano con il loro esempio le diverse dimensioni della vita cristiana, ambedue indispensabili e tali che una non può fare a meno dell'altra. In questo episodio, Marta e Maria sembrano porsi in contrasto, con i loro diversi atteggiamenti. La sintesi di essi deve essere lo scopo del nostro cammino di fede, e per essa abbiamo l'esempio più chiaro e convincente. In Maria, la Madre di Gesù, missione e contemplazione trovano la loro sintesi perfetta, nella sua costante attenzione alla lettura dei fatti della vita con uno sguardo di fede animato dall'ascolto della Parola di Dio; e nella sua prontezza a rispondere ai bisogni che, nella sua sensibilità di donna e di madre, sapeva riconoscere.

La Donna Cananea

Incisione di Girolamo Wierikx (1533 circa - 1619), Gesù e la donna cananea.

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La donna che incontriamo non è ricordata con il suo nome, ma solo con la descrizione della sua origine: una Cananea, secondo Matteo (15,21-28); una Sirofenicia, secondo Marco (7,24-30). Questo significa che si tratta di una straniera, che non appartiene al Popolo eletto e non ne condivide la fede: è una pagana. Gesù si era recato fuori del territorio di Israele, come ha fatto altre volte, nel desiderio di restare solo con i suoi discepoli, che egli voleva istruire ed educare, soprattutto permettendo loro di approfondire il rapporto personale con lui. Nella regione e Sidone, in quello che oggi è il Libano, nessun conosceva, e Gesù "non voleva che alcuno lo sapesse", in modo da poter restare isolato e tranquillo insieme con i suoi amici. Questo era quello che essi speravano, ma in realtà "non poté restare nascosto" (Mc 7,24): una donna di quella regione guasta i loro progetti, con una richiesta urgente di aiuto. Non sappiamo come mai lei conoscesse Gesù e come avesse saputo delle sue capacità di operare miracoli. Di fatto, la poveretta aveva un grande e urgente bisogno di essere aiutata, perché sua figlia soffriva perché posseduta dal demonio. Visto Gesù, cominciò a gridare, manifestando la sua richiesta: "Mia figlia è molto tormentata da un demonio". A queste sue invocazioni, il Signore non rispose nulla e neppure le rivolse la parola. Fece insomma come se quella donna neppure esistesse. Ma lei continuò ad insistere e a gridare, andando dietro al gruppetto di Gesù. A questo punto, sono proprio i discepoli a sentirsi imbarazzati da questa manifestazione plateale, che attirava l'attenzione della gente del posto. E allora, non per compassione verso la donna ma per evitare il loro disagio, essi chiesero a Gesù di fare quello che gli era richiesto. Ad essi, il Signore rivolse una risposta gelida: "Sono stato mandato per prendermi cura di chi appartiene al popolo d'Israele. Questa donna è una straniera e per di più pagana. Io non ho niente a che fare con lei". Questo discorso, fatto apertamente, in modo da essere ascoltato anche dalla donna, doveva bastare per scoraggiare la poveretta. Accadde invece il contrario, e noi dobbiamo renderci conto che si trattava di una persona dotata di molto coraggio, molta tenacia e anche di una buona dose di arguzia. A quel punto infatti, dopo un rifiuto così umiliante, avrebbe potuto ritirarsi in buon ordine. Invece ha voluto insistere, perché in lei non parlava l'interesse personale, ma l'amore materno: "Signore, aiutami". L'aspettava però una nuova delusione, perché ora la risposta di Gesù, data direttamente a lei, non è più soltanto gelida, ma è addirittura sgarbata e offensiva: "Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". Noi potremmo pensare che, in fondo, questo paragone con i cagnolini non è poi cosl offensivo: il vezzeggiativo rende la frase meno dura. Non dobbiamo però dimenticare che la parola "cane" era usata con grande disprezzo dagli Ebrei in riferimento agli stranieri, a coloro cioè che non appartenevano alla loro nazione e non condividevano la loro fede in Dio. Anche se con un minimo di delicatezza, per la parola vezzeggiativa usata, quello che Gesù rivolge alla donna è pur sempre un insulto molto pesante. Ma è proprio in questo momento che la donna Cananea rivela la sua audacia ed anche la sua furbizia. Invece di sottolineare l'offesa ricevuta, lei rivolge a suo vantaggio l'espressione sgradevole che le ha rivolto il Signore: "È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni". Ora Gesù deve darsi per vinto: la donna ha mostrato una fede capace di sfidare il Signore e di vincere: "Grande è la tua fede. Sia fatto come desideri". L'evangelista Marco aggiunge: "Va': il demonio è uscito da tua figlia". In questo scambio di battute, è la donna che ha avuto la meglio, e Gesù deve riconoscere con soddisfazione che valeva la pena di mettere alla prova con tanta durezza la straniera. Questa ha trovato il modo di fare breccia nel cuore di Gesù, che aspettava da lei una dimostrazione di fede. La donna cananea diventa un esempio di preghiera per tutti noi, e ci invita ad essere coraggiosi e tenaci di fronte a Dio. E, quando serve, anche furbi e arguti come lei.

La donna della moneta perduta

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Questa donna non è una persona vera, perché non è qualcuno che il Signore ha incontrato nel suo cammino sulle strade della Palestina. Forse però è ancora più reale, perché è qualcuno che tutti possiamo riconoscere: e per questo Gesù l'ha scelta come personaggio per una delle sue parabole. Nel capitolo 15 del vangelo di Luca, possiamo leggere tre parabole, che ricordiamo come "le parabole della misericordia". Dopo quella del buon pastore e prima di quella, bellissima, del figlio prodigo, ecco la nostra donna, che Gesù ci mostra in un momento particolare della sua vita di casa. Possiamo vedere la scena, in ogni suo dettaglio: una casetta semplice e povera, come tutte le case della gente semplice di allora; il pavimento è di terra battuta o forse anche di pietre, accostate l'una all'altra, con grosse fessure un mezzo; la luce è poca, anche di giorno, perché entra dall'unica finestrella aperta in una delle quattro pareti. Non ci sono molti mobili: un tavolo, qualche sgabello, un cassone, dove si tiene tutto quello che la famiglia possiede e non usa in questo momento o in questa stagione. In questa situazione, è facile che una moneta scivoli a terra e si nasconda tra le fessure del pavimento. Non è una grossa somma, ma pure ha il suo valore, dato che corrisponde alla paga giornaliera di un bracciante. Non è quindi qualcosa che, in una famiglia non ricca, si possa trascurare. La donna si preoccupa e guarda attentamente, ma la moneta non si trova. Allora lei prende la lampada ad olio e l'accende, e con quella luce fioca comincia a esplorare il poco spazio della stanza. Con la scopa spazza attentamente il pavimento, e continua a guardare. Finalmente, eccolo il soldo smarrito: il luccicare del metallo lo rivela. La donna lo prende in mano e tira un gran respiro di sollievo. È contenta di avercela fatta, al di là del valore di quello che ha ricuperato, e vuole far partecipi della sua gioia anche le vicine di casa: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta". Gesù ha raccontato questo episodio come una parabola, ma sappiamo bene che qualcosa del genere è capitato tante volte anche a noi. Quanto spesso perdiamo qualcosa e ci sembra d'impazzire nella ricerca, fino a quando non riusciamo a ritrovare l'oggetto smarrito. "La casa nasconde ma non ruba", dice un vecchio proverbio. Ma quanta fatica e quanto tempo dobbiamo usare, tante volte, per venire a capo di una situazione del genere. Ma l'esempio non è usato dal Signore per consolarci del fatto che anche noi perdiamo spesso qualcosa. Gesù vuol farci notare la gioia sincera di questa donna, che è così felice per aver ricuperato quella moneta che pensava di avere perduto. La gioia della donna è una immagine efficace per farci capire una verità che deve riempirci di un senso di immensa fiducia e serenità: "Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte". Ripercorriamo l'episodio e pensiamo che ora è Dio che sta cercando me. Mi sono allontanato da lui, e forse vorrei tanto non farmi più trovare. I miei peccati e la mia poca voglia di cambiare vita mi spingono addirittura a nascondermi, e preferirei che Dio non riuscisse a trovarmi. Ma Dio, padre buono e pieno di amore per me, sa bene che lontano da lui non sarò mai felice. E allora mi cerca, con insistenza, senza violare la mia libertà ma facendomi capire che lui è lì, a seguirmi e ad offrirmi il ritorno a casa. Mi cerca perché ai suoi occhi io valgo molto: sono una moneta che per lui è molto più preziosa della monetina della parabola. E quando il ritrovamento avviene, quando io che mi sono allontanato e nascosto mi lascio abbracciare di nuovo da mio Padre, ecco che la gioia è tutta sua, e lui mi parla della sua gioia nel ritrovarmi e nel poter contare di nuovo su di me. Nella parabola della moneta perduta, il messaggio è semplice e diretto, e la donna, che è una figura immaginaria ma nello stesso tempo tanto vera, diventa l'immagine di Dio che mi cerca e che non ha nessuna intenzione di perdermi. Quando parliamo della paternità di Dio, adoperiamo una parola che limita il Signore, attraverso il nostro linguaggio e le nostre categorie umane. Ma ci è stato detto più volte, e con quanta ragione, che in Dio, insieme alla paternità, è presente anche la maternità: tanto spesso, anche nell'Antico Testamento Dio si descrive come una madre affettuosa! La donna della parabola fa per noi proprio questo: ci fa sentire la vicinanza materna di Dio, che ci ama con amore infinito.

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La vedova importuna

Non so proprio se sia giusto dare questo epiteto alla donna di cui parliamo ora. Vedremo e giudicheremo. Ancora una volta, incontriamo una donna che Gesù presenta come esempio in una delle sue parabole. Ma anche se la storia non si riferisce a una persona precisa, i fatti riferiti sono molto verosimili e riflettono circostanze che si ripetono continuamente, dai ternpi di Gesù fino ai nostri giorni. Ad essere corretti, dobbiamo riconoscere che oggi tutto e organizzato meglio, con regole precise e persone responsabili dotate di tanta provata competenza. Non possiamo però dire the tutto funzioni e che Ia giustizia sia sempre amministrata presto e bene Veniamo alla nostra parabola (Lc 18,1-8), nelIa quale it Signore introduce la figura di un giudice "che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno". Gesù non dice che il giudice fosse corrotto e accettasse, per esempio, denaro o favori per aggiustare le sue sentenze. II fatto però che quest'uomo non averse rispetto per Dio e per la sua legge non ci fa sperare molto. E il non avere riguardo per nessuno fa pensare ad una persona che si interessa soltanto di se stessa. Di fronte al giudice, ecco la donna: descritta come vedova, e quindi priva di ogni sostegno umano, che ha una vertenza con un avversario. Nessun particolare e fornito a questo proposito, ma possiamo capire che la vedova e nel suo diritto e deve essere difesa contro qualcuno che vuole approfittare del suo stato di abbandono, per trarne qualche vantaggio. Vuole forse impossessarsi della casa in cui la donna vive, o diventare padrone dell'orticello che la donna coltiva e da cui ricava la sua sopravvivenza? Non lo sappiamo, ma sappiamo per certo che cose di questo genere capitavano spesso. Per questo la vedova, rimasta sola, cerca la protezione della giustizia, che però it giudice tarda a concedere. Dal suo comportamento, capiamo che lei non aveva paura del giudizio, perchè sapeva con certezza che aveva ragione che, contro di lei, ii suo avversario stava complottando qualcosa di illegale. II problema nasce soltanto per la colpa del giudice, che, senza nessuna ragione plausibile, rimanda la sentenza e quindi lascia tutto in sospeso. La vedova chiede giustizia al giudice che "non temeva Dio". Di fronte a questo atteggiamento passivo, la vedova non si arrende, e insiste presentandosi continuamente al giudice, importunandolo e chiedendogli di fare giustizia. Visto che questa è la situazione, possiamo davvero chiamare Ia donna con l'epiteto poco gentile di importuna? Forse sarebbe meglio definirla insistente, o ricordare che era affamata di giustizia, applicando a lei una delle Beatitudini. Ad ogni modo, la sua pertinacia le ha guadagnato tl successo, perchè it giudice, coerente fino alla fine con it suo modo di essere, si e convinto a farle giustizia e a riconoscere le sue buone ragioni. Non per onestà professionale e per senso del dovere, ma soltanto perchè si e stancato di essere disturbato in continuazione. Gesù ha raccontato la parabola per trasmetterci un messaggio importante: se persino un giudice disonesto si è lasciato convincere dall'insistenza di questa donna, quanto più Dio, che ci ama e vuole il nostro bene, sarà pronto ad ascoltare le nostre invocazioni e a compiere quei gesti di giustizia che gli chiediamo. La vedova della parabola diventa così un personaggio esemplare che ci impersona tutti: per ciascuno di noi essa e un modello da imitare, e ci mostra un atteggiamento vincente che dobbiamo interpretare anche noi nel nostro rapporto con Dio. Come Gesù fa notare, la situazione e molto diversa, perchè parliamo non di un giudice svogliato e corrotto, ma di Dio Padre, the ci ama perchè siamo suoi figli. Se il giudice ha fatto aspettare la vedova, Dio non vuole fare lo stesso con i suoi eletti: "Vi dico che farà loro giustizia prontamente".

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Pensiamo alla lezione che la donna della parabola ci trasmette. Senza dubbio possiamo ricordare it suo senso di giustizia. Chiedeva una coca giusta, e anche noi non possiamo chiedere a Dio di aiutarci in quello che non meritiamo e che non abbiamo diritto di ottenere. Ma chiedeva anche con insistenza. Abbiamo detto prima che forse non era corretto definire la vedova come importuna. Ma quando si tratta di invocare Dio per una grazia, ebbene allora penso proprio che sia giusto che noi siamo verso di lui cosi insistenti al punto di essere - noi sì – importuni

La donna colta in adulterio

L’episodio della donna adultera perdonata da Gesù, che leggiamo nel vangelo di Giovanni, al capitolo 8 nel versetti da 2 a 11, ha avuto una storia difficile, perché sembra che qualcuno non voleva che fosse conosciuto da tutti. Spiego: il testo non è stato scritto da San Giovanni, perché lo stile è diverso dal suo, e sembra avvicinarsi piuttosto al modo di scrivere di San Luca. In alcuni testi antichi, questa pagina non c'è, in altri si trova in un posto diverso da quello che conosciamo ora. Ma alla fine è stata collocata a questo punto del quarto vangelo e qui la leggiamo, come testimonianza non dubbia del senso di giustizia e, ancora di più di misericordia, di Gesù. Di questa donna sappiamo solo che è stata scoperta mentre tradiva suo marito, o, se non era sposata, che aveva una relazione con un uomo sposato. Per la legge di Mosè, questa colpa doveva essere punita con la morte per lapidazione. Non si dice perché ad essere portata davanti al Signore sia soltanto la donna. Cosa è accaduto dell'uomo, altrettanto colpevole come lei? Inutile tentare di dare risposte: semplicemente non lo sappiamo. Sappiamo invece la ragione per cui la poveretta è stata trascinata di fronte a Gesù: la domanda degli Scribi e dei Farisei non era rivolta per capire meglio il problema, ma solo per mettere Gesù in difficoltà. Anche questo era un caso ben pensato, e il Maestro di Nazareth si sarebbe comunque fatto del male. Se avesse chiesto di salvare la vita della donna, si sarebbe messo contro la legge, e sarebbe stato lui stesso colpevole di bestemmia. Se avesse detto di procedere con la condanna, sarebbe apparso come impietoso agli occhi della gente, che poteva sentire simpatia per l'accusata. In questo caso, poi, avrebbe provocato l'ira dei Romani, che avevano riservato per sé il diritto di emettere la condanna a morte. Insomma, in qualsiasi modo, sarebbero stati guai, e i nemici di Gesù aspettavano con soddisfazione la sua parola, che l'avrebbe, in ogni caso, danneggiato. Ma ci vuole altro per trarre in inganno il Maestro. All'inizio, Gesù fa vedere di non volersi interessare della faccenda. Poi, all'insistenza dei suoi nemici, dà quella risposta che conosciamo tutti: "Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei". Non indaga sulla colpa, né mette in discussione la pena. Chiede soltanto che chi si fa esecutore della condanna sia puro da ogni peccato. In risposta, tutti gli accusatori se ne vanno, uno dopo l'altro, a cominciare dai più vecchi. Fino ad ora, Gesù non ha neppure guardato la donna peccatrice. Neppure ha potuto ascoltare da lei parole di pentimento. Solo ora, quando sono rimasti soli, lui le parla e le chiede di vedere se ci sono ancora i suoi accusatori. Ma tutti sono spariti: non c'è più nessuno. Il dialogo di Gesù con la donna adultera si conclude con una seconda frase del Signore, che le offre il perdono. Un perdono completo, senza condizioni e senza limiti, ma con una sola raccomandazione: "Da ora in avanti non peccare più". Chiediamoci una cosa: sarà forse per questa totale misericordia che questa pagina ha avuto tanta difficoltà ad essere accolta fin dall'inizio nella Sacra Scrittura? Potrebbe anche essere, ma solo per la meschinità di qualche anima pia, che si è fermata solo alla superficie di un episodio che non dice semplicemente: Gesù perdona la donna sorpresa in adulterio. Qui c'è molto di più: Gesù accoglie la conversione della donna che ha peccato e che riceve in silenziosa umiltà il suo invito a non peccare più. Gesù non è un bonaccione, che basa la sua relazione con i peccatori in un far finta che niente sia successo. Il peccato c'è ed è riconosciuto, e si chiede che non sia ripetuto mai più. Ora un dubbio: tutti i presenti, che non hanno lanciato la pietra, si sono riconosciuti peccatori. Ma allora, perché

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il perdono di Gesù non ha raggiunto anche loro? Perché anche a loro Gesù non ha detto: "Non vi condanno"? La risposta è semplice: quando gli accusatori si sono resi conto di non poter condannare la donna, perché anch'essi erano in peccato, essi non sono rimasti lì, per chiedere al Signore che cosa avrebbero dovuto fare per essere perdonati. Nel loro pensiero, il loro peccato era qualcosa tra loro stessi e Dio, e non sentivano nessuna necessità di coinvolgere in questa faccenda il Maestro di Nazareth. Non sono stati i soli a pensare che la mediazione di Cristo non è necessaria per la nostra salvezza: lo facciamo spesso anche noi. Ma la donna, nella sua miseria, l'ha accolta e per questo, lei tra tutti, è stata salvata.

La Madre di Giacomo e Giovanni

Antonio Wiericz, (1533 circa-1619), incisione,

La Madre di Giacomo e di Giovanni davanti a Gesù.

Capita a tutti, almeno una volta nella vita, di fare una brutta figura. E un'esperienza comune, che ci lascia con la bocca amara e con la voglia di tornare indietro e rifare meglio quello che abbiamo fatto male. Peccato che questo sia impossibile. Questo è quello che è capitato un giorno alla madre di Giacomo e Giovanni, i due discepoli di Gesù, che lo avevano seguito fin dal principio, e che erano - lo si vedeva bene - tra i suoi preferiti. Il Maestro li aveva voluti con sé sul Tabor, nell'evento della trasfigurazione, e poi anche in quella casa di Cafarnao, nella quale aveva riportato in vita la bambina, figlia di Giairo, capo della sinagoga, che era morta dopo una lunga malattia. Gesù parlava sempre del suo regno, e ne annunciava la venuta a breve distanza. La mamma dei due discepoli, che era tra le donne che accompagnavano Gesù, era una persona pratica e concreta. L'occasione le è sembrata troppo importante per lasciarla sfuggire e possiamo immaginarla occupata a spiegare la sua idea ai figli, che però erano poco convinti o forse erano troppo timidi per prendere l'iniziativa. O sono stati i figli a spingerla ad andare avanti, sperando che la parola di una madre avesse un effetto migliore? Secondo il vangelo di Matteo, comunque, è stata lei a farsi avanti e a presentare in prima persona la richiesta a Gesù (Matteo 20,20-28). Tutto è fatto nel modo più corretto: la donna si presenta al Maestro e addirittura gli si prostra davanti, assumendo un atteggiamento di grande rispetto e di supplica. E dato che Gesù l'invita a parlare, ecco, con estrema chiarezza, la sua domanda: "Di' che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno". Per dirla tutta, il senso era questo: se ci doveva essere un nuovo regno, ci voleva un governo, e quindi la buona mamma avrebbe visto volentieri i suoi figli, il primo come ministro degli interni e il secondo come ministro degli esteri. Niente più e niente meno, questa donna, certamente non restia a prendere iniziative, chiedeva per i suoi ragazzi la carriera più brillante che si potesse immaginare. Anche in questo caso, Gesù dimostra un grande senso di pazienza. Non è il momento di irritarsi con la povera donna, che era certamente animata da buona volontà, anche se la esercitava malamente. Neppure vuole prendersela con i suoi due amici, dei quali conosce la generosità ma anche l'ingenuità. Meglio utilizzare l'occasione per insegnare qualcosa a tutti: quello che aspetta quelli che vogliono seguire Gesù è il martirio, non i trionfi; e il ruolo di chi ha delle responsabilità all'interno del gruppo dei discepoli è quello di mettersi a servizio degli altri.

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Il bello è che gli altri dieci apostoli non si sono risentiti perché la richiesta fatta per Giacomo e Giovanni era inopportuna e non adeguata al loro tipo di missione. Il loro sdegno è stato causato dalla loro identica mentalità: ognuno di loro avrebbe voluto chiedere la stessa cosa e avevano paura che quei due passassero avanti a loro! La lezione di Gesù è quindi rivolta a tutti. Come un padre pieno di comprensione, li chiama attorno a sé e spiega che la missione a cui egli li chiama non è quella di dominare sugli altri, ma di essere a servizio: "Come ho fatto io, che non sono venuto per essere servito ma per servire, e dare la mia vita per la salvezza di molti". Dopo questo suo intervento, che è terminato male, ma che ha dato al Signore l'occasione di insegnare ai discepoli qualcosa di fondamentale, la mamma di Giacomo e Giovanni non compare più. Nessuno ci dice come sia rimasta, dopo la brutta figura che ha fatto. Abbiamo però la prova che anche lei, come i suoi figli, ha capito la lezione e l'ha accettata. Non si è indispettita per la mancanza di considerazione da parte di Gesù, né ha deciso di andarsene altrove, dato che con quell'uomo non si riusciva a combinare niente di utile. È rimasta a offrire il suo servizio al Signore e ai suoi discepoli, ed è rimasta fino alla fine. Al Calvario, quando tutti gli apostoli meno Giovanni erano fuggiti, tra le donne che osservavano la scena da lontano c'era anche lei, fedele fino in fondo e, ormai, capace di capire bene cosa voleva dire il Maestro, quando, in quel giorno ormai lontano, ma mai dimenticato, aveva annunciato a lei e a tutti che avrebbe dato la sua vita per la salvezza dell'umanità intera.

La donna curva

La donna curva, particolare dei mosaici della cattedrale di Monreale.

Deve essere terribile la sensazione di non poter stare eretto, ed essere costretto a vedere il mondo dal basso e con grande sforzo, perché ti è impossibile alzare la testa, raddrizzare la schiena, guardare in faccia quelli che ti sono attorno e da loro essere visti in faccia. Tutto quello che per noi è normale, questa donna non poteva farlo, per una infermità che l'aveva colpita ormai da diciotto anni e la teneva piegata, e quindi impedita di avere una vita normale e umiliata in mezzo alle altre persone. L'evangelista Luca (13,10-17) dice chiaramente che si trattava di una possessione diabolica, e che la dolorosa condizione della donna era un'opera perversa dello spirito del male. La poveretta, anche nella sua condizione di infermità, cercava di vivere al meglio la sua vita. La vediamo infatti recarsi di sabato nella sinagoga: anche se invalida, non vuole perdere il contatto con la sua comunità né restare senza l'ascolto della Parola di Dio, pronunciata dal Rabbino, e senza le buone esortazioni che saranno poi impartite. E forse, nel silenzio del suo cuore, implorava il Dio d'Israele per ottenere la grazia della guarigione dalla sua malattia. La risposta alla sua preghiera, quel giorno venne a lei nella persona del giovane maestro della Galilea, quel Gesù di Nazareth che si trovava in quella località e che, come faceva anche lui ogni sabato, era entrato nella sinagoga. Il capo della sinagoga, forse già a conoscenza della sua fama, gli aveva chiesto di condividere qualche insegnamento con i presenti. Ma di lì a poco si sarebbe pentito della sua condiscendenza. Tutto accade in pochi istanti: Gesù vede la donna ricurva, la chiama e la guarisce, con una breve frase e con il gesto di imporre le mani. "Sull'istante quella si raddrizzò e dava gloria a Dio". Pochi istanti per una vita intera: quale felicità per quella donna tornare ad essere normale, poter stare eretta, poter compiere senza difficoltà tutte le semplici e belle azioni della vita quotidiana. E lei ringrazia Dio, che aveva pregato nel segreto del suo cuore, e al quale attribuiva giustamente questo miracolo: chi può compiere queste cose se non Dio solo? Per apprezzare fino in fondo la bellezza della nostra normalità, dovremmo fare l'esperienza della privazione e allora saremmo anche noi pronti a ringraziare Dio per quello che siamo e per quello che possiamo fare.

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Se tutti erano pieni di gioia per l'accaduto, chi non era contento era proprio il capo della sinagoga: non può negare il miracolo e non vuole prendersela apertamente con Gesù. E allora se la prende con la gente lì presente: con sei giorni a disposizione, perché venire a farsi guarire proprio nel giorno di sabato, quando la legge imponeva un riposo assoluto a tutti i membri del popolo eletto? Parlava per fedeltà esagerata alla legge, o per gelosia verso questo giovane maestro che attirava l'attenzione di tutti? Una cosa è però evidente: al capo della sinagoga non importava niente della donna appena risanata, e trovava scandaloso che fosse stata guarita da Gesù, che aveva pronunciato appena alcune parole e compiuto un gesto con le mani. La risposta di Gesù è un pacato insegnamento, per far capire che quella interpretazione della legge di Dio la trasformava in una norma assurda e cattiva. Se di sabato si poteva, giustamente, accompagnare gli animali a bere, perché non poteva essere liberata questa donna, che da diciotto anni era incatenata da Satana in quel modo crudele e umiliante? Una volta guarita, la donna scompare dal racconto. La pensiamo felice a riprendere la sua vita di ogni giorno, con una rinnovata volontà di vivere serenamente e di fare con gusto tutte quelle cose che l'infermità le aveva impedito di fare per anni. Certamente anche lei era intanto tra quella folla che, ascoltando le parole di Gesù, si era rallegrata per le opere compiute da Dio in mezzo a loro. In questo modo, quella che era la donna ricurva è stata liberata due volte: prima di tutto, dalla sua malattia e dalla condizione dolorosa nella quale si trovava; e poi da una comprensione riduttiva e bigotta della legge del Signore, che, invece di rivelare lo sguardo paterno di Dio verso le sue creature, le legava con carichi pesanti e privi di ogni giustificazione. Il Figlio di Dio è venuto nel mondo per rivelare la misericordia di Dio Padre verso tutti e specialmente verso quelli che sono maggiormente nel bisogno. Così era la donna ricurva, che è stata guarita e, attraverso un gesto di amore di Gesù, ha ricevuto il dono di una vita di nuovo normale

Le amiche della sposa

Dante Gabriele Rossetti (1828-1882), Le amiche della sposa, Londra, Tate Gallery.

Ancora una volta, le donne di cui parliamo non sono personaggi di un episodio raccontato nel Vangelo, ma sono le interpreti principali di una parabola, che troviamo nel capitolo 25 di Matteo e che viene ricordata come la parabola delle vergini stolte e delle vergini prudenti. La scena che Gesù descrive, con la sua solita bravura, presenta una celebrazione comune e tradizionale, nella vita delle comunità ebraiche. Qualcosa quindi che tutti. conoscevano e in cui tutti potevano riconoscersi, attraverso il ricordo di tanti fatti simili, accaduti anche a loro. L'ambiente del racconto è quello di un matrimonio, nel suo ultimo atto, che si concludeva con l'introduzione della sposa nella casa dello sposo. La sposa, che era circondata dalle sue amiche, aspettava lo sposo che sarebbe arrivato dopo il tramonto, anche lui accompagnato dai suoi amici. I due gruppi si sarebbero poi uniti in un unico corteo, che, alla luce delle fiaccole e tra canti gioiosi, si sarebbe recato a casa, dove era preparato il convito di nozze: come dappertutto, anche lì, alla fine, tutto si concludeva con una grande mangiata e tanta allegria. Ecco quindi che Gesù ci parla di queste dieci ragazze, pronte per andare incontro allo sposo. C'è un po' di ritardo. Nei nostri matrimoni, di solito si deve aspettare la sposa, che tarda ad arrivare. Ma nella parabola chi non è puntuale è lo sposo e le ragazze lo aspettano pazientemente. E ormai sera, e, al buio, a tutte viene sonno e allora si aggiustano più comodamente possibile e si mettono a sonnecchiare. Quando sarà ora, i canti del corteo dei giovani le richiameranno all'attenzione, e tutto si svolgerà nel migliore dei modi. Difatti, è così che accade: voci ancora lontane avvertono che lo sposo, con la sua chiassosa compagnia, sta arrivando. Bisogna prepararsi per l'incontro tra i due gruppi. Ed ecco il piccolo dramma, che forma il cuore stesso del racconto: nell'attesa, l'olio delle lampade si è consumato tutto e se ne deve aggiungere, per riattizzare lo stoppino. Ma mentre alcune tra le ragazze — le cinque prudenti — avevano pensato a portare un vasetto con dell'olio in più,

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le altre — le cinque stolte — si resero conto di non avere alcuna riserva e di non poter quindi accendere le loro lampade. Le cinque che erano rimaste a secco propongono di prendere metà dell'olio dalle altre, ma la proposta viene respinta, perché non ha senso: il poco olio a disposizione non basterebbe anche per loro, e il risultato sarebbe solo quello di restarne senza tutte quante. Meglio andare a cercare olio altrove, magari provando a svegliare i venditori che a quest'ora stanno dormendo, ma forse, vista l'importanza del momento, saranno disposti ad alzarsi e ad aiutare le povere sprovvedute. Così è fatto, ma nel frattempo lo sposo arriva, il corteo parte e, arrivati a casa, si dà inizio alla festa, per la quale tutto era già pronto. Le cinque ragazze che erano rimaste senza olio finalmente arrivano, ma le porte sono già chiuse e, al loro bussare disperato, la risposta è soltanto un freddo: "Non vi conosco". Per loro quindi, che non sono state pronte quando era necessario, non ci sarà nessuna festa, e dovranno tornare mestamente a casa loro, per riflettere sulla necessità di essere più previdenti in una prossima occasione. La parabola che Gesù racconta, come ogni altra parabola, è una storia verosimile, con uno svolgimento vivace, per attirare e mantenere l'attenzione degli ascoltatori E alla fine c'è la lezione che il Signore vuol dare: "Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora". Ecco quindi che le dieci giovani donne sono presentate come esempio di due atteggiamenti opposti: da una parte l'attenzione al momento presente, con la preoccupazione di essere sempre pronti ad affrontarlo, e dall'altra la distrazione, con la mancanza di previdenza, che ci fa trovare sprovveduti proprio quando sarebbe stato necessario essere preparati. L'invito alle nozze diventa il simbolo di un invito più importante, per l'incontro con Dio, che ci chiederà ragione della nostra vita e delle nostre azioni. Non è necessario pensare solo al momento finale della nostra esistenza. Se vogliamo essere pronti per quell'evento, che deciderà la nostra condizione per l'eternità, dobbiamo essere sempre disposti ad affrontare ogni giorno i problemi, le domande e i rischi che la vita ci presenta, per dare ad essi sempre una risposta ispirata dal vangelo. Facciamo in modo che le vergini prudenti siano sempre il modello per il nostro comportamento.

La povera vedova al tempio

L'obolo della vedova. Mosaico del VI secolo, Ravenna, Basilica di Sant'Apollinare Nuovo.

Parliamo di una donna che Gesù vede appena per un momento, e che gli offre lo spunto per un insegnamento preciso e tagliente. Una prova in più di quanto il Signore sia attento a guardare lo svolgersi della vita, le piccole e grandi storie di ogni giorno, per trarne ogni volta la ragione per una riflessione e un messaggio da trasmettere. Per ciascuno di noi questo è un esempio di comportamento, che ci invita a non passare attraverso la vita con un atteggiamento distratto e superficiale. Ci sono sempre lezioni nuove, cose da cogliere e da capire, e noi non possiamo trascurare di vedere, ascoltare e trarne le conseguenze.

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La scena si svolge in uno dei cortili interni del tempio di Gerusalemme, nel quale era permesso di entrare anche alle donne. Era lì collocato il tesoro, un grosso forziere, controllato da un sacerdote incaricato, nel quale erano depositate le offerte dei fedeli, da usare poi per i tanti servizi del culto quotidianamente officiato nel tempio. Il vangelo di Marco (12,41-44) racconta che Gesù, accompagnato da alcuni discepoli, si era seduto lì vicino, e guardava la gente che, passando di fronte al forziere, gettava la propria donazione. Da buon osservatore, il Signore si accorge del modo in cui le diverse persone facevano la propria offerta: in molti gettavano monete, ma "tanti ricchi ne gettavano molte". Possiamo quasi sentire il suono delle tante monete che cadono nel forziere, e vediamo i ricchi che, dopo aver fatto il loro gesto, si allontanavano fieri di se stessi, sapendo bene che quel tintinnio era stato sentito anche da altri, e che quindi la loro generosità era stata notata e, senza dubbio, ammirata. Ora si avvicina una persona diversa, che Marco descrive come "una vedova povera", una donna quindi che, avendo perduto lo sposo, e non avendo il sostegno dei figli, era ridotta ad estrema povertà. L'assenza di qualsiasi tipo di sicurezza sociale, rendeva allora la condizione delle vedove molto precaria, e sempre indicata come la più misera tra tutte le possibili condizioni svantaggiate. Anche nei libri dell'Antico Testamento, gli Israeliti sono spesso esortati ad avere un occhio di riguardo per le tre categorie di persone più deboli: le vedove, appunto, gli orfani e i forestieri. La donna si avvicina al forziere e vi deposita due monetine, "che fanno un soldo". Un'offerta da poco, che non attira l'attenzione di nessuno e che cade sulle altre monete senza fare neppure un piccolo suono. Certamente nessuno ha fatto caso alla povera vedova e, se qualcuno l'ha notata, probabilmente ha sorriso alla pochezza dell'oblazione, che neppure meritava di essere fatta. Ma se il gesto della donna passa per lo più inosservato, e se al massimo suscita solo una considerazione di sufficienza, per Gesù ha un significato profondo e deve essere sottolineato. Per questo, egli chiama a sé i suoi discepoli, che forse stavano girellando nell'atrio, per ammirare la bellezza delle strutture e la quantità di gente che vi si trovava. La lezione che Gesù ha per loro, e per noi, è chiara: "Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri". La cosa deve essere sembrata strana: anche i discepoli vedevano le persone che facevano le offerte; anche loro avevano ascoltato il tintinnio delle monete. Come può essere che proprio quelle due monetine insignificanti abbiano potuto richiamare l'attenzione del Maestro? La spiegazione segue subito, e non lascia dubbi: "Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere". Per chi ha tanto, è facile essere generosi. Quello che offro, non scalfisce neppure un po' la mia sicurezza economica, perché sto dando qualcosa di cui posso fare tranquillamente a meno: è solo una parte del mio superfluo, quindi qualcosa che mi è di avanzo. Faccio bella figura, ma in realtà non ne subisco nessun danno. La vedova, invece, agisce in una situazione di estrema povertà. Gesù lo ripete, perché vuole che capiamo bene: "Questa vedova, così povera ... nella sua miseria". Per fare la sua offerta, la poveretta si è privata di qualcosa, "tutto quanto aveva per vivere". Il suo è stato un vero sacrificio, un vero atto di fede e di coraggio: ha saputo affidarsi alla Provvidenza, facendo dono a Dio del poco che aveva, ma che per lei era tanto. Un esempio bello di generosità e di fiducia in Dio, dal quale tutti possiamo imparare. E non solo da ammirare, ma soprattutto da imitare…

Marta e Maria al sepolcro di Lazzaro

Luca di Tommè (1330-1389 circa), Maria e Marta al sepolcro di Lazzaro. Pinacoteca Vaticana

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Conosciamo già le sorelle di Betania, Marta e Maria, che accoglievano volentieri Gesù in casa loro. Abbiamo già detto che, quando Gesù si trovava a Gerusalemme, quella fosse la casa presso la quale egli si alloggiava, dato che Betania è appena dietro il Monte degli Ulivi, a pochi chilometri dalla Città Santa. Le due sorelle e il loro fratello Lazzaro possono essere riconosciuti come cari amici del Signore, con i quali Gesù si sentiva a suo agio, come in famiglia. La comitiva di Gesù e dei suoi apostoli, che si trovava al di là del Giordano, vicino alla località dove Giovanni il Battista aveva svolto la sua missione, è raggiunta da una notizia preoccupante: Lazzaro è malato e la sua situazione è grave, al punto che le sue sorelle chiedono a Gesù di venire subito a Betania. L'episodio, narrato nel vangelo secondo Giovanni nel capitolo 11, si svolge in tre momenti. Prima, Gesù lascia passare due giorni e poi, quando finalmente si decide a partire per la Giudea, Lazzaro è già morto. Gesù lo sa e lo comunica ai suoi discepoli. Il secondo momento ci interessa di più, perché, quando Gesù arriva a Betania, le due sorelle, una dopo l'altra, gli vanno incontro e parlano con lui. La prima a muoversi è Marta, la più attiva e intraprendente. Saputo che il Maestro stava arrivando, va ad accoglierlo poco prima che egli entrasse nell'abitato. Subito esprime il suo dolore ed anche la sua fiducia in Gesù: "Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto". In queste parole, possiamo forse sentire anche un'ombra di rimprovero: perché Gesù non è venuto subito? Perché ha tardato tanto, pur sapendo che il suo amico era gravemente malato? Pur in questo stato di grande dolore, Marta esprime una certezza, della quale lei stessa non sa comprendere la portata: "Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà". Da quello che dice, sembrerebbe che stia chiedendo a Gesù di intercedere per restituire Lazzaro alla vita. Quando però Gesù le assicura: "Tuo fratello risorgerà", Marta riferisce la sua fede all'ultimo giorno, quando tutti risorgeremo. Gesù allora insiste, e chiede a Marta di esprimere la sua fede in lui: "Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me non morirà in eterno". La professione di fede della donna è completa: "Tu sei il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo". Ma nulla dice circa la possibilità che Lazzaro possa tornare in vita. Segue l'incontro con Maria, che, saputo della presenza del Signore, esce di casa per incontrarlo. Ancora una volta, il lamento è lo stesso: "Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto". La commozione di Maria, e dei conoscenti che l'accompagnavano, era tanto profonda, che Gesù stesso ne rimase preso e scoppiò in pianto. La morte è sempre una realtà brutta, è sempre qualcosa che sconvolge tutti i nostri progetti umani. Piangere è spontaneo e ci fa sperimentare la nostra debolezza e l'incapacità di scendere a patti con la morte. Anche Gesù ha pianto, proprio lui che aveva già deciso di compiere un gesto prodigioso, al di là di ogni possibile immaginazione. Eppure ha pianto, e l'evangelista Giovanni, che era presente, registra le sue lacrime, senza pensare che questo particolare poteva essere in qualsiasi modo offensivo della dignità del Signore. Ora, di fronte alla pietra che chiude la tomba, Gesù passa all'azione, e chiede che quell'ostacolo sia rimosso. La reazione di Marta ci fa capire che, nella sua professione di fede, non c'era nulla che potesse pensare alla possibilità di un ritorno in vita dopo quattro giorni dalla morte: "Manda già cattivo odore„ Quanta tristezza in queste parole: la sorella deve rendersi conto che il suo caro Lazzaro, come ogni persona che muore, è ormai destinato al disfacimento. Quel corpo, così ben conosciuto e tanto amato, sta ormai subendo la sorte di ogni cadavere, e conosce soltanto quel triste destino. Gesù è padrone della vita, e ora lo dimostra con la solennità di un gesto divino. Dopo una toccante invocazione a Dio Padre, le parole risuonano alte e chiare: "Lazzaro, vieni fuori". E noi non possiamo fare altro che unirci allo stupore commosso di Marta e Maria, e di tutti gli astanti, nel vedere il giovane uscire dalla tomba, anche se ancora impacciato dalle bende funerarie che lo avvolgevano. Un anticipo della risurrezione di Gesù? In qualche modo sì, ma con una grande differenza, che rende il ritorno alla vita di Cristo qualcosa di completamente nuovo e unico.

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L'unzione di Betania

Giovanni da Milano (seconda metà del secolo XV), Cena e unzione di Betania.

Il racconto a cui ci riferiamo comincia con queste parole: "Sei giorni prima della Pasqua" (Gv 12,1). Da questa indicazione di tempo, capiamo che l'ora del Signore si avvicina. Nel vangelo di Giovanni, l"'ora" indica il tempo della passione, morte e risurrezione di Gesù. E questa "ora", attesa da sempre, è ormai imminente. L'episodio di Betania, dove Gesù si trova ancora una volta, è narrato con lo sguardo già rivolto a quello che accadrà solo pochi giorni più tardi. La scena ci è familiare: in casa di amici a lui molto cari, Gesù sta cenando e l'evangelista ci fa notare che anche Lazzaro, "che egli aveva risuscitato dai morti", era tra i commensali. Sappiamo che, per il miracolo del suo ritorno in vita, il giovane era diventato oggetto di curiosità da parte di tutti, creando nuove preoccupazioni per i nemici del Maestro. In quel momento Lazzaro stava forse raccontando le sensazioni provate in quei quattro giorni nei quali era stato in braccio alla morte? O forse conservava tutto in silenzio, grato all'amico Gesù che gli aveva offerto la possibilità di vivere ancora, con l'impegno di usare meglio il tempo che gli era stato regalato? Ma se all'inizio della cena era Lazzaro il centro di attenzione, ben presto tutti dovettero vedere una scena diversa: Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro, si è avvicinata a Gesù con un'ampolla di olio profumato, di grande pregio, ed ha cominciato a spargere il contenuto sui piedi del Signore. Se qualcuno dei presenti non aveva notato subito il gesto, il profumo intenso del nardo, che si è sparso per tutta la sala, ha fatto capire a tutti quello che stava accadendo, Sembra che Gesù abbia accettato volentieri questo gesto di amore e di rispetto, ma la sua condiscendenza è dispiaciuta a uno dei suoi discepoli: quello il cui nome pronunciamo sempre con un certo ribrezzo. Giuda Iscariota, "uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo", non poteva 'approvare quello che stava accadendo, e lo ha detto ad alta voce. La sua reazione era di dispetto, ma travestita da preoccupazione per i poveri: "Perché sprecare tutto questo profumo? Se lo vendevamo, potevano guadagnare trecento denari, che potevamo poi dare ai poveri". Giovanni, che racconta l'episodio, ci fa notare che a Giuda non importava nulla dei poveri: il suo interesse era quello di avere denaro nella borsa, che egli amministrava, per pescare in essa a suo piacimento. Per questo aggiunge, senza mezzi termini: "Era ladro!": Il modo di intervenire di Giuda, che ha indicato quella somma in maniera così precisa, ci fa capire che il discepolo traditore apparteneva a quella categoria di persone che conoscono il prezzo di tutto, senza però capire il valore di nulla. Basti pensare che, di lì a qualche giorno, lui stesso venderà il suo Maestro in cambio di trenta denari. Non ha pensato che Gesù poteva valere più di una confezione di profumo? E invece lo ha valutato dieci volte meno di quella boccetta. Non possiamo invece fare a meno di ammirare la spontaneità di Maria che, senza farsi troppi problemi, ha speso una somma importante per rendere omaggio a Gesù, verso il quale aveva tante ragioni per sentire affetto e riconoscenza.

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Il Signore ha gradito il gesto della donna, e l'ha difesa dalle accuse di Giuda. In quel gesto, Gesù ha visto l'anticipazione dell'omaggio che sarebbe stato reso al suo corpo il giorno della sepoltura. L'allusione alla morte è stata chiarissima, e per lui si trattava di qualcosa ormai imminente. Ma i discepoli non hanno capito che quell'evento si stava avvicinando, e l'hanno certamente riferito ad un futuro che, per loro, doveva essere ancora lontano. In questa pagina del vangelo possiamo capire che l'apostolo traditore non sente ormai nessun affetto per il Signore. La sua freddezza si manifesterà ancora durante l'ultima cena, quando, al gesto di rispetto che Gesù avrà per lui, porgendogli un boccone intinto nella salsa, risponderà uscendo dal Cenacolo e allontanandosi nella notte. In contrasto con lui, Maria di Betania esprime sempre e soltanto un affetto sincero, senza infingimenti né seconde intenzioni: il suo è amore e basta. La caratteristica più vera dell'amore è quello di non porre limiti. Così è l'amore di Dio per ciascuno di noi, e così Dio ci chiede di rispondere al suo amore. Maria ci dona l'esempio di chi non fa calcoli e non mette limiti. Il povero Giuda invece è quello che i conti li ha fatti tutti, ma, purtroppo per lui, i suoi conti erano tutti sbagliati.

AGGIUNGEREMO ALTRE RIFLESSIONI PERIODICAMENTE…