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PRIME RIFLESSIONI CON TRIESTE NEL CUORE Giorgio Weiss

Prime riflessioni

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PRIME RIFLESSIONICON TRIESTE NEL CUORE

Giorgio Weiss

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PRESENTAZIONE

Intervento critico di Maria Pia Somma

Giorgio Weiss non è un letterato di professione, ma in questa sua operaprima palesa una naturale capacità a comunicare, capacità che da un lato ciautorizza a definirlo scrittore e dall’altro ci fa sperare che a questa, seguiran-no altre opere.

Qua e là scorrendo questo libro ho provato curiosità, desiderio di sfo-gliare avanti, piacere nel constatare fin dalle prime battute che chi ha scrittoè una persona felice.

Mi sono sentita, però, in alcuni momenti, indiscreta, intrusa in casad’altri, e ho faticato un po’ a rendermi conto di essere stata invitata, di avereavuto la gioia di essere ospite in una vita che pur non essendo mia, hosentito tale: l’autore mi ha permesso di entrare, di guardare, di condivideresquarci della sua esistenza.

In Pensieri ho letto due frasi che subito mi hanno fatto riflettere e mipiace di ricordarle.

La prima ironicamente recita: “Chissà quanti nemici mi sarò fatto conqueste affermazioni!” e si riferisce al fatto che Weiss pensa, in buona fede,che parole assemblate senza l’uso di metrica e rime non possano essere de-finite poesia.

Nell’esternare ciò teme addirittura di offendere i suoi amici poeti dilet-tanti.

Spiace contraddirlo, ma la poesia, quella che rimane nel cuore e nellamente, che prende l’anima, spesso è proprio quella che non ha rime e nonè rispettosa della metrica. È la poesia che esce dai canoni consueti, li travalica,con la capacità di far pensare, di commuovere e di farsi specchio, quasi fossestata scritta solo e confidenzialmente per chi vi si accosta.

Io traggo poesia, non prosa dalle righe di questo scritto, anche da queipuntini di sospensione che precedono il nome Nory, la moglie dell’autore.Quanta emozione, sincerità, amore che ha saputo intendere e far intendere

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in maniera così semplice.È poesia, raccontare di sé e far sì che chi legge si trovi all’interno di ciò

che viene raccontato, dentro il sentire di chi scrive, far provare o riprovaresensazioni che sono dello scrittore, ma che il lettore scopre appartenereanche a se stesso. E non è poesia da poco.

Sono Pensieri di Weiss ai quali riesce facile dar credito proprio perchéanche noi li abbiamo pensati, vissuti. E chi come me, non poteva fisica-mente esserci in alcuni giorni di Infanzia, legge con sincera partecipazionedi quei momenti, non certo tutti sereni, ma ricordati con tanto realismo,con sì grande efficacia da suscitare il desiderio di esserci stati. E prova rab-bia nel rendersi conto di tanto dolore e di tante vessazioni subite: propo-nendoci brani della sua vita Giorgio Weiss, in punta di penna e di passione,ci aiuta a comprendere meglio la nostra storia.

E poi c’è la seconda frase.

Dimora nel capitolo Prosecco in Pensieri: “Nella vita per riuscire bisognatrovarsi al posto giusto nel momento giusto”

Credo sia un’affermazione incompleta. Nella vita per riuscire bisognatrovarsi al posto giusto nel momento giusto, ma non basta, se manca ilcoraggio si perdono comunque tutte le occasioni che la sorte ci offre. Èimportante fare le scelte giuste e ritengo che Giorgio Weiss ci sia riuscito.Ha scritto, per esempio, e ha scelto di pubblicare un libro bellissimo, pienodi sincerità e di amori per la sua famiglia, per i suoi amici, per la sua terra,per la vita.

Grazie per il regalo, Giorgio, fatto a me e a quanti, mi auguro in molti,ti leggeranno.

Maria Pia Sommagennaio 2004

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PENSIERIFebbraio 2000

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PENSIERI

1999, ultimo anno di questo secolo e di questo millennio, siamo alle sogliedel duemila ed ho sentito il desiderio di scrivere alcuni miei pensieri, impressio-ni, fugaci lampi che mi passano per la testa, quasi un’agenda di appunti darivedere nel tempo, senza sequenza logica, aperta a tutti coloro che avesseropiacere di leggerla.

Dedicata ai miei nipoti che, quando saranno grandi e, se, avranno piaceredi sapere, potranno trovare in quest’agenda scorci di vita, usanze e costumi deitempi passati e della nostra famiglia.

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POETI

Oggi ci sono tanti poeti.Molte persone, uomini o donne, adulti, per fortuna pochi ragazzi,scrivono versi.Ma di versi si tratta? In tanti casi penso proprio di no.Mi vengono in mente.......

O cavallina, cavallina stornache portavi colui che non ritorna.......

I cipressi che a Bolgheri alti e schiettivan da S.Guido in duplice filarquasi in corsa giganti giovinettimi vennero incontro e mi guardar.......

Metrica, rima, sentimenti intensi.....poesia insomma!

Prendo in mano alcuni libretti di poeti contemporanei, scorro le pagine,si sente l’intensità del desiderio di esprimere emozioni interne, scriverle,quasi inciderle e scolpirle, per rafforzare le sensazioni che salgono dall’ani-mo e dal cuore.

Commoventi, alle volte, altre scherzose e piene di brio, ma sono frasi,senza rima e molto spesso senza metrica. Frasi, e non versi messe lì, rigasotto riga quasi a segnare gli intervalli di lettura che una normaleinterpunzione avrebbero espresso, forse, meglio.

Quanti nemici mi sarò fatto con queste affermazioni!!! Non lo so ma iola penso così.

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INFANZIA

Sono ormai vecchio, anzi no, oggi si dice anziano ed il mio pensiero volaindietro alla fanciullezza.

I più begli anni dell’infanzia quando tutti i bimbi giocano........ per me,guerra! Corse con la mamma nei rifugi antiaerei, freddo, umidità, buio,tristezza, pianti, fame.... piatti di minestra lasciati sul tavolo della cucinaed, al rientro, inevitabilmente freddi e rappresi. Ma si mangiavano lo stes-so. Come giocattoli certamente no “Lego”, automobiline radiocomandate,biciclette, pupazzi, bambole, soldatini, carri armati, fortini, castelli, canno-ni, pistole, fucili, video games...... ecc. ma solo tanta fantasia, due o tremollette su di un bastone e si aveva un fucile. Un pezzo di cotone di unvecchio lenzuolo oramai inservibile legato intorno alla vita e una tavolettadi legno più o meno sagomata e si aveva il cinturone con la Colt.

Eppure non rimpiango quei tempi, mi hanno forgiato, affrontare la vitaè stato più facile. Superare le difficoltà è stato quasi un gioco. Oggi i bam-bini hanno tutto. Domani sapranno superare le asperità della vita?

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18 ANNI

Una volta si diventava maggiorenni a 21 anni, ma a 18, comunque, siaveva più libertà.

Si andava al cinema e la domenica pomeriggio a ballare.

Una volta non c’erano discoteche assordanti con luci psichedeliche, lampi,200 decibel per centimetro cubo, ma c’erano tante sale dove la gioventùpoteva ballare, stare in allegria e fare conoscenze, senza uscirne rintronati econ la testa in pallone.

L’orchestrina in un angolo suonava serie di quattro o cinque ballabili epoi c’erano alcuni minuti di intervallo.

Le ragazze sedevano ai tavoli ed i ragazzi stavano pronti a scattare allaprima nota musicale per avvicinarsi alla ragazza adocchiata nell’interval-lo..... “Signorina permette questo ballo?”... alle volte “Sì”, alle volte.... “Nograzie, sono stanca”, oppure, “Grazie sono già impegnata”.

Quasi sempre frasi fatte.... “Studia?, che scuola? che anno fa?..... Lavora?dove?... ah sì, mi sembrava di averla già vista...” Rigorosamente del “Lei”.

Quanti balli, quante ragazze, quanti posti.. Ginnastica Triestina, Chi-mici e Petrolieri, Inter, Edera,...... D.I.M.!

Poter accedere al Dopolavoro Interaziendale Marittimi, più noto comeCircolo Marina Mercantile, non era facile, bisognava ci fossero due socieffettivi che garantissero per poter divenire “socio aggregato”.

Ci riuscii!

È stata la svolta decisiva della mia vita.A 19 anni compiuti, una domenica, vedo seduta ad un tavolo una splen-

dida ragazza. Mi avvicino per invitarla a ballare.... un altro mi precede.... edio guardo, non ne cerco un’altra.

Invidio quel fortunato che riesce a fare una serie di balli.

Intervallo. Lei si siede al tavolo. Io con fare indifferente mi avvicino,scruto l’orchestra.... fumano.

Divento nervoso, spengono le sigarette, stanno prendendo gli stru-

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menti in mano.- Signorina, permette questo ballo? – Sì grazie - ma non suonano... Dio

ti ringrazio i primi accordi.... lei si alza mi sorride ed io non capisco piùnulla. Le gambe si muovono da sole, la tengo dolcemente per paura di farlemale. Poche parole, io impacciato, lei timida. Mi sento bene, man manoche passano i secondi riprendo forza, la stringo un pochino, lei non rifiuta.Il cuore batte forte, ho paura che lei lo senta, mi distanzio leggermente. Iltempo passa troppo in fretta. C’è l’intervallo. Nel salutarla chiedo: - Possoavere il piacere di avere anche il prossimo ballo? Sì!

Sono passati 42 anni..... NORY!

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SONO CONTENTO

Sì, sono proprio contento di aver vissuto in questa epoca.

Quante cose sono cambiate velocemente, freneticamente.Da bambino, appena finita la guerra, si giocava per la strada, sui marcia-

piedi eravamo i re. Con il gesso si segnavano i percorsi del Giro d’Italia econ i tappi della birra riempiti con la cera della candela si gareggiava. Retti-linei, salite, curve, discese, attenti nel dosare il colpo con il dito, perchè se il“piattino” usciva dalla riga segnata con il gesso, si ritornava indietro. Gliavversari scappavano via... bisognava rischiare nei tratti diritti di fare untiro forte e raggiungerli prima della serie di curve.

Automobili? Boh! I marciapiedi erano nostri e basta!

Si facevano i “carretti”: due assi di legno fissati a un traversino fissodietro ed uno mobile impernato al centro e posto anteriormente con quat-tro ruote.... rigorosamente cuscinetti a sfera, una corda legata ai lati deltraversino mobile anteriore per dare la direzione al veicolo lanciato giù perle discese in mezzo alla strada. Freni?.... i tacchi delle scarpe.... quanti tac-chi!

A scuola: asta e filetto, bordurine, bella calligrafia, incollare figurine,fare mosaici.... ah sì... qualche volta pensierini, forse grammatica, qualchepoesia.

Il primo giorno sul posto di lavoro ti trovo alcuni colleghi con le “mezzemaniche di satin”, penna con il pennino, calamaio, su grossi libri, registra-zioni, contabilità, brogliacci di cassa, prima nota......

Operazioni su conti correnti e libretti a risparmio, rigorosamente a manoin bella calligrafia.

Calcolo degli interessi! Quanti giorni mancano al 31 Dicembre?.... Ca-pitale, volte tasso, volte tempo, fratto 36.000.......

Chiusure contabili di fine anno: tre mesi di tempo, tutto deve esserepronto per il “bilancio” da presentare il 31 Marzo.

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Rigorosamente camicia bianca maniche lunghe, giacca e cravatta, anched’estate.

Oggi, marciapiedi non esistono, automobili fino sul gradino del porto-ne di casa, bambini rinchiusi dentro le quattro mura domestiche, tanti gio-cattoli sì! piste elettriche per gare automobilistiche, giochi d’abilità al com-puter, giocattoli spaziali, pistole laser, ....ma l’aria aperta? Ah! già è inqui-nata anche quella e allora....

Scuola, il primo giorno, calcolatrici, computer, accessori di lusso firmatida noti designers....

Lavoro in banca: tutto elettronico, nano secondi, 1000 giga, internet,banche dati, piazza affari, BOT, CCT, fondi d’investimento.......

Camicie sgargianti, sbottonate, petti villosi, scollature generose per leragazze, minigonne, jeans......

Sono passati 50 anni ..... sembra un millennio.

Sono fortunato di aver visto in così poco tempo....tanto.

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NONNO OCCHIALI

Nonno occhiali, così soprannominai da bambino il nonno paterno.Nonno Cesare avrei dovuto chiamarlo, ma dato che portava un bel paiod’occhiali cerchiati con una sottilissima montatura d’oro che gli incornicia-va il viso magro, serio, sul quale stavano formandosi le prime rughe, furonogli occhiali a colpirmi per primi e pertanto divenne “nonno occhiali”. Pro-veniva da una famiglia benestante dell’alta borghesia di Trieste. La famigliaaveva una grande villa in via Crispi alta, proprio dietro al teatro Rossetti; ladomenica andavano al “liston” in contrada del Corso con la carrozza con 4cavalli, il palco all’opera, vita di società. Il nonno era sempre elegante, benvestito, un vero signore che all’inizio della guerra, ceduta la villa che comin-ciava ad avere dei costi di regia non più sostenibili, andò ad abitare in unbell’appartamento in via Kandler, e comunque sempre ristoranti di lusso,casinò di Portorose, ippodromo di Montebello......

Era tempo di guerra, il nonno lavorava come direttore in una fabbrica dicasseforti prima e in una fabbrica che produceva olio dopo. Lo vedevo poco,ogni tanto veniva a trovarci, ma sempre di fretta. Poco prima della finedella guerra l’oleificio, venne bombardato e distrutto e nonno perse il postodi lavoro. Ne cercò un altro, ma i tempi erano duri, la guerra era finita e sicominciava pian piano a ricostruire; i reduci tornati dalla guerra, cercavanopure loro un lavoro per ricominciare a vivere. La disoccupazione era alta,ma nonno, data la sua esperienza, riuscì a trovare un posto da impiegato.Non più direttore. Un appartamento piccolo in via Sette Fontane; vestitipiù modesti, mangiare a casa, Sisal.....

Poi venne la pensione. I dirigenti, un tempo, non versavano contributialla Previdenza Sociale, pertanto la pensione fu quella minima. Misera!

Il nonno venne a vivere con noi. Si ammalò, gli venne una cattarata agliocchi e fu necessario farlo operare. La vista si indebolì ulteriormente, altraoperazione. La cecità quasi totale.

Gli ultimi anni, li ha passati in casa o tutt’al più, con l’aiuto del basto-ne, riusciva ad andare fino al bar sotto casa.

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Sembra una storia come tante altre. Ma non lo è! Sembra piuttosto lastoria della cicala della ben nota “La cicala e la formica”.

La storia del “nonno occhiali” ci insegna non ad essere avari, ma quandosi hanno tanti soldi, spendere si, ma non tutto, e salvare qualche cosa per ilfuturo o per i momenti più difficili.

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NONNO “CIUPO”

Come l’altro nonno aveva la caratteristica degli occhiali, il nonno ma-terno aveva un ciuffo ribelle di capelli, che scendeva inanellato sulla frontee come tutti i bimbi, che dicono strambotti, per me il ciuffo era diventato“ciupo”

Il suo lavoro è sempre stato di operaio specializzato presso i cantierinavali. Dapprima al Cantiere Navale di Monfalcone, poi al Cantiere Nava-le San Marco a Trieste ed infine gli ultimi anni presso il Cantiere NavaleFelszegi di Muggia, quale fiduciario per l’organizzazione del lavoro.

Era un tipo mattacchione, sempre con il sorriso sulle labbra e pronto aprendersi burla dei nipoti con piccoli scherzi, che alla fine, finita la sorpre-sa, faceva scoppiare di gioia e si correva ad abbracciarlo e baciarlo. Per luiquesta era la sua più grande ricompensa e soddisfazione.

Lui faceva “impazzire” tutti compreso Roky, il mio cane lupo. Quandoveniva a trovarci portava sempre con sè due o tre biscotti di quelli economi-ci, Osvego si chiamavano, e prendendone uno dalla tasca, lo faceva vedereal cane, il quale festante, correva per afferrarlo. Troppo facile! Nonno but-tava il biscotto sotto la credenza della cucina ed allora il povero cane, cheera di stazza grossa, con le zampe cercava disperatamente di prenderlo, gua-endo e piagnucolando. Alla fine quando, dopo parecchi tentativi, riusciva aprendere il biscotto, scappava in salotto a mangiarselo in santa pace, men-tre il nonno rideva contento di aver fatto il dispetto. Più che un nonnosembrava un monello.

A dieci anni ho fatto la Cresima. Eravamo nel 1947, la guerra era finitada due anni appena. Soldi ce n’erano pochini. Quando si fa la Cresima èuso che il “santolo” regali l’orologio. Mamma mia, complice, mi preparòdicendomi che il nonno, purtroppo, non avrebbe avuto i soldi per com-prarmi l’orologio; mi avrebbe fatto senz’altro un regaletto per festeggiare,ma l’orologio proprio no. Pazienza!

Come tutti i ragazzi di allora, avevo un carretto per correre lungo lediscese delle strade adiacenti la mia casa, tanto di automobili ce n’erano un

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paio all’ora, sì e no, pericoli quasi inesistenti. Purtroppo un giorno, batten-do contro un marciapiede, una ruota, che era di legno e non un cuscinettoa sfera, si spezzò. - Diamola a nonno “Ciupo”, il mago, la riparerà in menche non si dica. Il tempo passava e della ruota c’era solo un vago ricordo.

Arrivò il sospirato ed atteso giorno della Cresima. Il vestitino nuovo, lacamicetta bianca candida, la cravattina grigia, i sandali nuovi con le calzettebianche. Tutto era pronto eravamo tutti in trepida attesa di nonno Ciupoche mi avrebbe fatto da santolo. Ma ancora non arrivava. Eravamo sul pog-giolo, guardavamo l’angolo da dove avrebbe dovuto sbucare. - Mamma,mamma, corri, vieni a vedere! C’è un auto che arriva, si ferma davanti alnostro portone!

Da dietro scende il “santolo”, c’è l’autista. Nonno dal basso ci saluta, haun pacchetto in mano, sale le scale.

- Olà, come va?, tutto bene? Siamo in festa eh? La Cresima è una festaimportante, indimenticabile, specialmente per il cresimando... Ah, sì, caroGiorgio, non sono riuscito a comperarti l’orologio da polso, però ti hocostruito un orologio a sole! Sì, lo appendi in poggiolo e, quando c’è il sole,vai a vedere l’ombra che fa sul muro e saprai l’ora.

E mi consegna il pacco, ben incartato, tutto infiocchettato. Sono emo-zionato, tolgo il nastro, apro la carta colorata, sotto c’è ancora carta di gior-nale, la tolgo, ancora una e così via 10, 15 carte, non so quante! Il cuorebatte, finalmente c’è una scatola di cartone, l’apro e sotto la paglia c’è..........la ruota del carretto riparata!!! Gioia da una parte, delusione dall’altra, ne-anche l’orologio a sole. Pazienza, la mamma mi aveva avvertito che il non-no non aveva soldini! Ma, un momento! Come si spiega la macchina...,l’autista... e allora? Ovviamente non dico nulla.

- Andiamo, su! se no si farà tardi - dice nonno “Ciupo” - cosa volete, lamacchina va a carburo, non corre tanto e non è detto che arrivi fino allachiesa.

Ci prepariamo per uscire, sono contento, ma anche un po’ triste.

- Su, non pensiamoci è andata così!Siamo sulla porta e nonno “Ciupo” mi dice: - Giorgio non vorrai mica

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uscire con quei sandali sporchi?Li guardo, erano lucidi come uno specchio!

- No, no, così non va bene, prendi uno straccio e qui c’è la “patina” (illucido da scarpe in dialetto) - e mi porge una scatola di “Crema Emulsio”.

Mi levo un sandalo, prendo lo straccio da intingere nel lucido da scarpe,apro il vasetto e per poco non svengo. Divento rosso, le lacrime mi scendo-no copiose sulle guance, vorrei urlare, ma la gola è stretta da un nodo cheme lo impedisce. Nel vasetto c’era un meraviglioso orologio da polso, lu-cente, con il cinturino in pelle marrone, il più bell’ orologio del mondo,nessuno poteva avere un orologio così bello!!!

Ecco questo era nonno “Ciupo”, sempre pronto allo scherzo, alla battuta.È mancato troppo presto, un brutto male ce l’ha portato via troppo

presto e anche lì, mi hanno detto anni dopo, ha chiuso la sua vita con unabattuta:

- Ciao a tutti, vado in viaggio, non so se tornerò. Addio!

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MIO PADRE E MIA MADRE

Descrivere mio padre, non è una cosa semplice, anche perchè nella suavita non ha fatto cose che possano rimanere scolpite nella memoria comefatti eccezionali.

Era un uomo semplice, tutto casa e lavoro, non aveva vizi, non avevaamicizie vere, per lui il suo lavoro e la sua casa erano tutto. Un mondopiccolo, chiuso, dovuto anche al fatto che è vissuto in un periodo storiconon dei più felici. Nato nel 1910, orfano di madre in tenera età, già acinque anni si è trovato coinvolto in un periodo bellico enorme, spavento-so, in una città per la quale sono morti un milione di persone tra le duefazioni in guerra, per strapparla dal dominio Austro-ungarico ericongiungerla alla madre patria, l’Italia. Fame, stenti, tutti gli uomini vali-di in guerra, in una guerra che non sentivano, anche perchè combattuta afianco degli Austriaci e contro i fratelli italiani. A casa solo donne, la mam-ma di mio padre era morta da poco, dando alla luce una bimba, mortaanche lei, papà allevato dalle zie che, per quanto amorevoli, erano pur sem-pre zie. Bambino senza mamma e senza papà, desideroso di un affetto chenon c’era, che non poteva esserci.

Gli anni passano, bene o male va a scuola, lasciato senza guida a se stes-so, termina le scuole dell’obbligo e va subito a lavorare presso un’agenziaassicurativa a fare le prime esperienze.

1930, riesce a farsi assumere alla Riunione Adriatica di Sicurtà, e lì pianpiano comincia a cambiare la sua vita. Conosce Marcella, una ragazza sem-plice, con quattro fratelli, figlia di un operaio specializzato, che lavoravapresso i cantieri navali, si innamora, e riversa in lei tutto l’amore che da piùdi vent’anni portava in cuore e non riusciva ad esternare. Marcella, mammamia, lavorava, quale commessa, in un rinomato negozio di calzature, e dopobreve sposa l’impiegato assicurativo Cesare, smette di lavorare, come si usa-va a quei tempi, per dedicarsi totalmente alla sua casa. Anche a lei sembravadi aver toccato il cielo, non più otto persone in due stanze e cucina. Affitta-no un bell’appartamentino in via Vergerio e vi costruiscono il loro nidod’amore. Sì, d’amore, perchè, finalmente, mio padre aveva qualcuno d’amare.

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Dopo il primo anno sarebbe dovuta nascere una bella bambina, mia sorella,ma con l’assistenza sanitaria inesistente dell’epoca, mia sorella venne allaluce morta, soffocata dal cordone ombelicale, che le cingeva la gola. Altrodolore da sopportare ed inghiottire. Nel 1937, nacqui io, prematuro, insette mesi, un chilo e novecento grammi, incubatrici non esistevano, o for-se solo per i ricchi in certe cliniche private. Allora, tanta bambagia, bottiglied’acqua calda da sostituire continuamente, coperte, ma soprattutto tantoamore per questo bimbo, sono riusciti a farmi sopravvivere.

Papà e mamma al settimo cielo, bisognava cambiare appartamento, piùbello, più luminoso, più nuovo, doveva esserci la stanzetta per il bambino esoprattutto il riscaldamento e il bagno!

Agli inizi del 1940 ci trasferimmo in via Padovan, stanza, stanzetta, sa-lotto, cucina, bagno, W.C., atrio, due poggioli, cantina, soffitta, riscalda-mento, una reggia per quell’epoca. Scoppia la seconda guerra mondiale,papà riesce a non fare il militare ed andare al fronte, continua a lavorare allaR.A.S., ma la miseria comincia a farsi sentire nuovamente. Non c’eranogeneri di prima necessità, scarseggiavano gli alimenti ed io essendo gracileper natura, creavo ulteriori preoccupazioni ai miei genitori che si dispera-vano non potendo trovare soluzioni alternative.

Anche questo periodo passò, venne il dopo guerra, e pian piano le cosesi ristabilirono. Papà aveva fatto un po’ di carriera e poterono tirare unpiccolo sospiro di sollievo. Erano già quarantenni però, quarant’anni chehanno pesato come macigni sulla schiena. Cominciare a respirare a qua-rant’anni non è certo il massimo. Da questo punto in poi, finalmente, lecose cominciarono ad andare meglio, papà divenne procuratore dell’Agen-zia Generale, lo stipendio aumentò e cominciarono a vivere più serenamen-te. Io ho sposato la mia adorata Nory, sono nate due splendide bambine e imiei genitori sono tornati indietro di almeno vent’anni. Ci hanno coccola-to, viziato, stravedevano per le nipotine, ci hanno portato in villeggiaturatutti gli anni, in gita o, comunque, a pranzo fuori tutti i fine settimana.Non avevano amici, quelli si fanno in gioventù, conoscenti pochi, hobbynon ne avevano, vizi nemmeno, avevano solo la famiglia e finalmente lagioia di vivere, papà non sapeva fare nulla di manuale in casa ed è forse per

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questo che io mi arrangio a fare un po’ di tutto; la mamma, invece, aveva ildono di saper cucinare e sapeva cimentarsi al meglio sia nelle cose sempliciche nei manicaretti complicati, faceva a maglia perfettamente e sapeva an-che tagliare e cucire. Quanti vestitini per le nipotine! Ma cominciare a vive-re dopo i quarant’anni è dura, dura da pensare, ma sopra tutto dura davivere.

Papà e mamma, grazie di aver saputo stringere i denti e tener duro, iovivo anche di questo vostro sacrificio.

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MIO SUOCERO E MIA SUOCERA

Due persone, ovviamente, totalmente differenti dai miei genitori, manon per questo meno cari al mio cuore.

Erano di poco più giovani dei miei genitori, originari di Buie d’Istriadove hanno serenamente vissuto fino al 1945.

Quel poco che so della loro infanzia, è per sentito dire da racconti ericordi di Nory e sua sorella Ucci, mia cognata.

So di certo che era una sana famiglia patriarcale, unita e totalmentededita alla cura delle numerose vigne dalle quali, con la produzione delvino, riuscivano a vivere bene ed essere una delle famiglie benestanti dellacittadina. In casa, ampia per la verità, viveva il nonno patriarca con la non-na, i due figli con le rispettive mogli e i nipotini. La vita di lavoro era dura:gli uomini, alzarsi presto la mattina, andare nei campi a lavorare fino a sera;le donne, riordinare la casa, accudire ai figli, curare l’orto, preparare il pran-zo da portare in fretta agli uomini lavoratori, preparare la cena, pronta alrientro dei mariti. Un bicchiere di vino, due chiacchiere e a nanna, prontiper il giorno seguente. I bambini a giocare all’aria aperta in una sana vitaagreste. Anche lì, la guerra è stata brutta, ma vissuta con meno paure emeno disagi, soprattutto rispetto al cibo.

Anche lì i tempi cambiavano e Guido, mio suocero, decise, visto chenon aveva un figlio maschio che potesse continuare il lavoro dei campi,pensò bene di andare dal padre a chiedergli di lasciare le terre al fratello eper lui di acquistare una trattoria a Trieste.

Così fu deciso, fu fatto, era il 1943 e questa fu la svolta decisiva nella vitadi mio suocero e, per dire il vero, di tutta la famiglia.

1945, fine della guerra, arrivo in paese dei partigiani titini, abolizioni ditutti i diritti, confische, soprusi e mio suocero, insofferente, decise di racco-gliere la sua famiglia e venirsene a Trieste per ricominciare una nuova vita.Non più produttore di vino con vendita all’ingrosso, ma più semplicemen-te venditore al minuto. Tempi duri, post bellici, rimettere in attività unatrattoria che era decaduta fortemente mancando l’occhio del padrone,

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riselezionare la clientela, dare un volto nuovo all’ambiente fino a farlo di-ventare un ritrovo di gente modesta, ma gente per bene, un ritrovo familia-re dove, sia sua moglie che le due figlie piccole potessero vivere in serenità.

Sul retro della trattoria c’era una specie di magazzino, una stanza co-munque, e quello fu il primo alloggio per la famiglia.

Da una casa decorosa, calda e ospitale ad una stanza fredda e poco ospi-tale. Anche su di loro la guerra aveva lasciato il segno.

La forza di volontà di mio suocero era enorme, per lui il passato erapassato ed ora c’era solo l’avvenire, lottare per ricominciare e stare meglio.Nessun rimpianto per ciò che aveva lasciato, nostalgia poca, tanto deside-rio, assieme alla sua Gigetta, di rifarsi una vita, stringendo i denti e....avantitutta.

I fatti gli hanno dato ragione, pian piano “l’osteria del nonzolo” si feceun nome in tutto il popoloso rione di S.Giacomo ed anche oltre. Infatti,avendo egli, un “buon bicchiere di vino”, il passa parola l’ha fatto conoscerein breve tempo e la trattoria era sempre affollata di avventori, che oltre aconsumare il vino in loco, si facevano riempire bottiglie per asporto inmodo da portarselo anche a casa.

Per le trattorie e per chi sapeva lavorare bene ed onestamente era il mo-mento d’oro. Il nonzolo, la nonzola e le nonzolete erano sulla bocca di tuttala gente che faceva a gara per essere dei “buoni clienti”. Gli affari andavanobene tanto che, Guido, pensò di acquistare un’altra trattoria in via dellaMadonnina. Sarebbe stata un’altra fonte di reddito dandola in gestione aqualche oste capace e volonteroso. Ma, eravamo nel 1954 e Giovanni, ilfratello di Guido, non potendone più di vivere sotto quel regime, spaccarsila schiena a produrre il vino per poi vederselo “rubare” dall’ammasso, deci-se di abbandonare, pure lui, la casa natia e venire, da profugo, a Trieste.

Il suo destino sarebbe stato di finire in un campo allestito per i profughi,cercare un lavoro, non si sa quale, con la prospettiva di vivere con la suafamiglia quasi di stenti.

Qui salta fuori il cuore generoso di Guido che, checchè se ne dica degliIstriani, non ha mai cessato di esserlo. Offre al fratello la possibilità di lavo-

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rare anche lui, ancora, con il vino, e gli cede la trattoria di via dellaMadonnina acquistata da poco togliendolo così da un futuro incerto e buio.

Guido mette di nuovo sotto le spalle e lavorando 365 giorni all’anno,non c’erano giornate di chiusura settimanale degli esercizi, e per 14 ore algiorno, può permettersi di acquistare un’altra trattoria, in via del Solitario,e tre appartamenti.

Uno di questi l’ha acquistato perchè io e Nory ci sposassimo e avessimoun tetto dove abitare. Per dire il vero, nelle sue decisioni, tanto ha pesato laparola di Gigetta che, nei momenti giusti e con le parole giuste, aveva sapu-to convincerlo. Anche il primo appartamento che io e Nory abbiamo abita-to, in via dell’Istria, lo dobbiamo alle “spinte” della “nonzola”

Guido e Gigetta hanno lavorato con questo ritmo per 15 anni, fino al1960, anno in cui io e Nory abbiamo sposato.

Mi ricordo che nei momenti di relax, parlando tra di noi, dicevo a Gui-do: - Avete fatto tanto e avete guadagnato bene, ma avete fatto quindicianni di “galera” e i quindici più bei anni della vostra vita.

Quello che ora Nory ed io abbiamo, tanto lo dobbiamo anche ai lorosacrifici.

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LE MIE “BAMBINE”

Paola, Elena.....le mie bambine.

Sono sposate entrambe, Paola ha pure 3 figli, i miei nipoti, sono nonno,sono vecchio, pardon, oggi si dice anziano, ma loro sono sempre le miebambine.

Sarà anche perchè io le chiamo “topolino”, sarà perchè loro mi abbrac-ciano forte e mi baciano come quando erano piccole, sarà perchè io le vede-vo solo alla sera quando tornavo dal lavoro, all’ora di cena e pertanto iltempo sembrava fermarsi e non le vedevo, o non volevo vederle crescere.Ora torno alla sera a casa dal lavoro e non le trovo. Sono a casa loro, con iloro meravigliosi mariti, e di ciò sono felice. Il desiderio è di chiamarle altelefono per sentire la loro voce, ma no Giorgio, lascia stare, avranno dafare, preparare la cena, lavare, stirare, rassettare la casa, tutti quei lavori chedurante il giorno, essendo occupate, non possono fare. E poi non si può,sembrerebbe quasi che volessi controllarle, cosa fanno, dove sono o dovevanno. Sono donne, hanno i loro doveri e i loro problemi, hanno la lorointimità, il loro nido.

È giusto così, anche io e Nory quando ci siamo sposati avevamo la casanostra, ma spesso e volentieri, anzi troppo spesso, avevamo i miei genitori“tra i piedi”. Alle volte era comodo che badassero alle bambine, mentre iolavoravo e Nory aveva la possibilità di accudire alla casa. Però avremmovoluto anche stare soli qualche volta, con le bambine.

È tutto giusto, è tutto vero, è l’eterno ciclo della vita, saranno luoghicomuni e frasi fatte, ma ciò non toglie che le mie bambine non sono più acasa e mi mancano.

Sicuramente non sarò stato un padre perfetto, avrò dato loro dei di-spiaceri e, forse, qualche severità in più del necessario, però ho due bam-bine meravigliose, affettuose, sincere, leali, buone, disponibili, sensibili,perseveranti, tenaci, brave......ecc. ecc. e ne sono orgoglioso perchè solouna persona fortunata può avere due bambine così. Ed è questo il miglio-re augurio che posso fare loro di essere ripagate dai loro figli come io sonostato ripagato da loro. Le mie bambine.

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...........mettiamo da parte, per il momento, i “pensieri” di famiglia e provoinvece a focalizzarli su fatti, aneddoti, episodi o storielle alle volte più allegre,altre un po’ meno ma comunque inerenti il mondo che mi circonda...........

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MONELLERIE DEL DOPO GUERRA

1947, io avevo dieci anni, pertanto, come detto, giocavo assieme agliamici coetanei in strada di giorno. La sera, anche se non c’erano pericoli disorta, i miei genitori non mi lasciavano uscire, neanche sotto casa doveavrebbero potuto tenermi d’occhio.

Dopo cenato, d’estate, andavo sul terrazzo che si affacciava sulla strada avedere i ragazzi più grandi che seduti in crocchio sul cordolo del marciapie-de, confabulavano per inventare scherzi da fare ai rari passanti. Abitando alsecondo piano, tiravo l’orecchio per cercare di capire cosa stessero per esco-gitare. Niente da fare, nel pur totale silenzio, parlavano così a bassa voce,che non riuscivo a capire una parola. Ed ecco che alcuni ragazzi si alzanoprendono una scatola da scarpe con il coperchio ben chiuso e la appoggia-no a circa un metro dal muro della casa che fa angolo tra il viale D’Annun-zio e la via Padovan. Poi di corsa si risiedono con il gruppo. Erano ormai le20.30 o le 21.00 ed i passanti erano rari e frettolosi. Passa uno e tira oltre,passa il secondo, idem e così via, nessuno nota la scatola a un metro dalmuro. Ecco uno finalmente nota la scatola, un po’ sgualcita per la verità,con fare indifferente si avvicina gli dà un bel calcione e lancia un urlo didolore. I ragazzi, ridendo, scappano in tutte le direzioni. Nella scatola c’era-no due mattoni!

Altra serata, stessa scena, cambia il soggetto. Sull’angolo del marciapiedec’è un’aiuola con dentro piantato un grosso ippocastano. Tutto il viale D’An-nunzio è alberato. I soliti ragazzi stanno pensando ad un altro tiro manci-no. Ecco che vedo all’improvviso uno di loro alzarsi, correre verso il margi-ne dell’aiuola e depositare a terra un portafoglio usato. La gente passa e,nella scarsa illuminazione stradale, non lo nota. Ma ecco che arriva “occhiodi falco”, vede il portafoglio, si ferma, guarda in giro stando distante circadue metri dall’oggetto, guarda in alto, guarda a destra, guarda a sinistra,vede il gruppo di ragazzi seduto ad una ventina di metri di distanza, machiacchierano tra di loro. Fischiettando, indifferente, lentamente si avvici-na alla preda, fa un passo avanti, uno indietro, si riguarda in giro, lenta-

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mente si china facendo finta di allacciarsi una scarpa, e poi con fare lestoallunga la mano per prendere il sospirato portafoglio....e zacchete il porta-foglio vola via come una scheggia. Era legato con un filo di nylon ed unodei ragazzi, con l’altro capo in mano, al momento giusto, aveva dato unostrattone. Occhio di falco, indignato, si alza e borbottando chissà qualiimproperi, con passo spedito, prosegue il suo cammino giù per viale D’An-nunzio.

Passati alcuni anni, ero già sedicenne, e incominciavo anch’io a prendereparte in prima persona a degli scherzi. Erano scherzi innocenti, fanciulleschi,che però ci divertivano tanto. A quei tempi si pagava solo il canone diabbonamento al telefono, non c’erano scatti, non c’era il T.U.T. si potevatelefonare quanto si voleva ed ecco allora uno scherzo abbastanza ricorren-te.

Si sceglieva un numero a caso, se all’altro capo del filo rispondeva unavoce giovanile e scattante, si diceva: “Scusi ho sbagliato numero” se, al con-trario, si sentiva la voce di una persona anziana, specialmente se femminile,si diceva: “Scusi signora c’è Mario?” La vecchietta rispondeva: “Qua no ghexe nissun Mario”. ”Scusi, buona sera”. Il secondo di noi nuovamente: “C’èMario?” – “Qua, nissun Mario!” – “Scusi” Così il terzo, il quarto, il quin-to..... La vecchietta cominciava a balbettare, non capiva cosa stesse succe-dendo, arrivava ad essere un poco seccata dopo la ventesima telefonata. Eraallora che l’ultimo della “banda” chiamava per l’ultima volta la vecchiettadicendo: “Buona sera signora, son Mario, me zercava forsi qualche d’un????”e giù a ridere tutti come matti.

1954, domenica, pomeriggio, rigorosamente a ballare alla Ginnastica Tri-estina; ore venti il ballo finiva ed era allora che “Manubrio” si scatenava.Manubrio, al secolo Fabio Z., era così soprannominato in quanto portava ibasettoni molto lunghi ed arcuati a punta verso il viso. Sembrava di vedere ilmanubrio di una bicicletta da corsa. Una domenica sera, ricordo, avevanoinaugurato la torrefazione “La Portizza” ed era uso in quei tempi, il giornodell’inaugurazione offrire una tazzina di caffè a tutti quelli che entravano.

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Eravamo una trentina di amici sul marciapiede di fianco alla torrefazio-ne in modo che i baristi non potessero vederci. Per primo entra “Manu-brio”. - Buona sera – Buona sera Signore, possiamo offrirle un caffè? – Nograzie, è tardi e dopo non dormo, permettono solamente che mi pesi? –Prego faccia pure.

La scena, il barista con la mano protesa verso la macchina del caffè perpreparare un ottimo espresso, il collega con il piattino in una mano ed ilcucchiaino nell’altra, fermi a mezz’aria in quanto non utilizzabili. “Manu-brio si avvicina alla classica bilancia che tutte le torrefazioni avevano vicinoalla porta d’ingresso, sale, controlla il peso, scende, riverente ringrazia, salu-ta ed esce dal locale.

Un minuto dopo la scena si ripete con il secondo ragazzo, poi il terzo ecosì via finchè l’ultimo ad entrare vede i baristi con la bocca aperta, con icapelli irti, gli occhi spalancati, incapaci di proferire parola. Penso che atanti anni di distanza quei baristi, si ricordino ancora quell’inaugurazione.

Altra domenica, altro scherzo. Piazza Goldoni era un po’ differente daquella d’adesso, infatti, in mezzo alla carreggiata, al vertice della via Mazziniera sistemato il “gabbiotto” in cui il vigile urbano di turno regolava il traffi-co, comandando manualmente i semafori. Il traffico, un po’ perchè eradomenica sera, un po’ perchè, a quei tempi, non c’erano tante automobiliin circolazione, era scarso ed i semafori cambiavano, in alternanza, i lorocolori: verde, giallo, rosso, rosso, giallo, verde, in un’alternanza non sincrona,ma a seconda delle necessità e gestite dal vigile. Ed ecco l’organizzatore“Manubrio” dividere il folto gruppo in due: una ventina nei pressi dellaScala dei Giganti e l’altra ventina all’altezza dei portici di piazza Goldoni.Ad un cenno convenuto i venti “indiani” di Scala dei Giganti, urlando congridi di guerra Sioux, scesero nella pianura di piazza Goldoni per attaccarei venti cow boys che bivaccavano al riparo. Sentendo le urla di guerra deiSioux, i cow boys, prese le armi, partirono per respingere l’attacco. Lo scon-tro avvenne al centro della prateria, nelle vicinanze del “gabbiotto” del vigi-le, con degli assordanti “bang bang” delle inesistenti colt simboleggiate dal-la mano chiusa, con il pollice alto e l’indice puntato, mischiati alle urla di

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guerra degli indiani. Il povero vigile, uscito dal “gabbiotto” con il fischiettoin bocca, cominciò a lanciare dei trilli che non riuscivano a coprire le gridadei contendenti e, semmai, per mancanza di fiato, si affievolivano semprepiù. La scena era seguita con ilarità e qualche timido applauso da coloroche aspettavano, in quel punto nevralgico, il tram, l’autobus o la filovia.Prima che il vigile rimanesse senza fiato o a sua volta chiamasse il “decimocavalleria” i cow boys e gli indiani, finita la battaglia, ritornarono, in granfretta, ai rispettivi “alloggiamenti”.

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SCENETTE IN BANCA

Come già detto ho lavorato per 35 anni alla Cassa di Risparmio di Trie-ste ed essendo stato sempre in “prima linea” cioè a contatto diretto con ilpubblico, durante la mia carriera ne ho visti di episodi, alle volte comici ealle volte tragici. Ma io qui voglio ricordare solo quelli che sembrano bar-zellette ma sono, al contrario, fatti realmente accaduti.

Mi ricordo che, un tempo, per fare delle operazioni sul libretto a rispar-mio si doveva andare allo sportello, dire che tipo di operazione si desideravafare, dopo di che l’impiegato ti dava un talloncino giallo o verde a secondase si versava o se si prelevava. Si vede che già quella volta esisteva la leggesulla privacy, infatti, il cassiere per non chiamare per nome le persone, chia-mava il numero che era stampigliato sul talloncino ed il cliente chiamato sipresentava alla cassa.

Il cassiere chiama con voce normale: Novecentottantasette....e nessunosi presenta; alza un poco la voce e ripete: Novecentottantasette..... e niente,la terza volta ripete il numero quasi urlando....non c’è nessuno. Mette illibretto a risparmio in parte e continua il suo lavoro. Passa ben più di mez-z’ora e una vecchietta affannata si accosta allo sportello e gli dice: - Scusisignor cassiere, prima ha chiamato novecentottantasette???? - Sì signora,ma dove era finita? - Sa, cosa vuole, io avevo portato i soldi giusti per ilversamento e pertanto sono dovuta ritornare a casa a prendere questi.... eporgendogli mille lire, candida gli dice: - Tenga pure il resto per il disturbo.

Questa è capitata proprio a me. Ero alla cassa presso l’Agenzia di Opicina.Mi si presenta una signora con un modulo di versamento in conto correntedebitamente compilato. Era, cosa rara, perfetto numero di conto corrente,agenzia di appartenenza, nome cognome e indirizzo completi, l’importo incifre e l’importo in lettere e c’era pure la distinta di versamento con i varitagli delle banconote, i pezzi e il totale. Perfetto!!! Peccato che negli spaziriservati all’ufficio dove bisogna scrivere con delle sigle se sono contanti,

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assegni su piazza o fuori piazza, se sono assegni circolari o di conto correnteo postali ecc. nella casella dove si indica la valuta, cioè la decorrenza per ilconteggio degli interessi del versamento, e lì la signora ha pensato bene discrivere nella casella della valuta.....italiana!!!

Sempre a Opicina, anni sessanta, entra un cliente “primario”, di quellibuoni insomma, che hanno soldi. Il direttore lo vede, si alza, gli va incontroe ossequioso lo saluta: - Buon giorno signor Mario, in che cosa posso esserleutile? - Nulla di importante, dovrei fare un piccolo versamento. - Ma certo,a sua completa disposizione....Weiss, per favore, vieni qui ad aiutare il si-gnor Mario. Il signor Mario, titolare di un buon ristorante sull’altipiano,mi consegna il solito cartoccio del pane pieno di soldi da sistemare e conta-re. Il direttore lo intrattiene mentre io sistemo i soldi, preparo il versamen-to, registro l’importo sul suo conto corrente, timbro e firmo la ricevuta egliela consegno. Lui si alza, mette la ricevuta in tasca e ringraziando saluta eva verso l’uscita, al che, riverente come sempre, il direttore dice al signorMario: - Grazie signor Mario, torni presto a trovarci e mi ricordi alla suasignora.

Il signor Mario fa ancora quattro o cinque passi, si avvicina all’uscita,prende la maniglia in mano e pensoso si gira e guardando serio il direttoredice........Perchè????

Altra scenetta ad Opicina. Eh, ma sempre Opicina!!! Cosa volete quin-dici dei miei trentacinque anni di servizio li ho trascorsi lì. A metà mattinaveniva la ragazza del bar a portarci i cappuccini e posava sul banco il vassoiocon le tazzine. Un giorno, il collega Danilo correndo a prendere il vassoioper portarlo sul retro dell’ufficio, si rivolge alla ragazza del bar, giovanissi-ma e molto bella, dicendole: “Beata ti che te ga tuto davanti. - Ma siorDanilo cosa la disi, no’ la se vergogna?! - Ma cosa te ga capì?? Te son mali-ziosa!! Mi intendevo dir che te son giovine, che te ga tuto davanti, la vita tesorridi e che el tuo futuro sarà felice, te lo auguro”. Sarà vero che intendessequesto??

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Opicina, inverno freddo, c’era la neve che veniva giù abbondante, sem-brava di essere in un’agenzia di montagna. Entra il signor Luciano, un clientesimpaticone, sempre pronto alla battuta e con la barzelletta pronta. Dice:“Mama che fredo, xe i lupi fora. Qua ghe volessi butar zo in stomigo qual-che cossa de caldo. Muli, i ga verto, qua de Micel, un buffet che fa luganighe,crodeghini, porzina e tuto el resto. Volè che ve ofro un bon panin caldo deporzina col cren??? - Orca sì, magari sior Luciano! - ghe disemo in coro.

Guardandoci tutti dietro il banco esclama: Porzina per ti, porzina perti...e, quando arriva a Paolo, un neo assunto che ora è vice direttore genera-le della banca, e che, poverino, aveva i due denti incisivi superiori moltosporgenti dice: - E ti un piato de carote?? - No, no, no porsina anca par mi,grasie!

Cambiamo agenzia, ci troviamo all’agenzia numero quattro di via dellaginnastica. Sempre affollatissima di clienti frettolosi ed impazienti. C’era ilcassiere Aldo che con flemma olimpica svolgeva le sue mansioni: lentamen-te prendeva il documento, sia esso un libretto a risparmio, un assegno dapagare, un versamento in conto corrente, l’avviso di una cambiale o che sivoglia e alzandolo all’altezza giusta, con voce stentorea, chiamava: - MarioRossi, Giuseppe Verdi, Francesco Bianchi ecc. Era un tipo fatto così, moltobravo, preciso ed esatto, ma sempre con movimenti lenti e chiamando adalta voce il cliente frettoloso che aspettava.

Il vicecapo agenzia, il signor Tullio, era un tipo allegro, socievole, mainsofferente al modo di fare del cassiere, gli diceva sempre: - Cosa occorreche gridi così forte, e poi basta il cognome, cosa serve chiamare nome ecognome. Al che Aldo rispondeva: - E se ci sono due Rossi, due Verdi, dueBianchi posso sbagliare ed io non sbaglio mai!!!

E Tullio si rodeva il fegato e meditava il tiro mancino aspettando il mo-mento propizio per farglielo. Ed il momento venne, era un giorno che ilsalone era particolarmente affollato, ci saranno state almeno trenta o qua-ranta persone in attesa. Aldo sempre con la sua flemma chiama “MarioRossi, Giuseppe Verdi.......” e poi prende in mano un libretto a risparmio

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che Tullio aveva appena acceso con cinquemila lire, lo apre lentamente econ la sua classica voce roboante chiama: - LOGO DURO.........

1958, agenzia due, una delle più importanti allora, ma anche adesso perdire il vero, già all’epoca eravamo circa quindici dipendenti, dal funziona-rio ai commessi. Il capo era il signor Marcello, persona squisita, sempreelegantemente vestito con capi fatti su misura dal sarto. Capita un giornoche entra una persona vestita con giubbotto e pantaloni di velluto con unvoluminoso involucro sotto il braccio. Mi si avvicina e chiede: - Il direttoreper favore. Lo prego di attendere un attimo.... sarei andato a vedere se eralibero. Busso alla porta del signor Marcello e annuncio questa strana perso-na che chiede di lui. Lui acconsente, ma mi prega di rimanere con lui pre-sente alla conversazione ....non si sa mai.

Faccio accomodare la persona che entra e dice queste testuali parole: -Dottore buongiorno, sono un camionista che recapita capi di abbigliamen-to e pezze di stoffa per conto della ditta Zegna. Ho appena consegnatoparecchia roba alla ditta Godina, qui di fronte, ma si vede che nella fretta ilmagazziniere ha caricato una pezza in più di stoffa di pura lana inglese dimisura per fare un bel vestito gessato completo di panciotto e forse anchedue paia di pantaloni, se permette gliela faccio vedere. Toglie la carta cheavvolge la pezza, l’apre e la fa toccare a Marcello che, da intenditore, lastropiccia, la maltratta, prende un filo di stoffa e con l’accendino lo bruciaper sentire, dalla puzza, se è veramente lana e non sintetico. Tutto bene. Persicurezza però prende il telefono e chiama il suo sarto di fiducia che ha illaboratorio proprio in via Carducci di fronte alla nostra Agenzia. Dieciminuti dopo arriva il sarto, controlla la stoffa, la trova ottima e per il prezzorichiesto è un vero affarone, a parte il rischio dell’acquisto non del tuttocorretto. Sta di fatto che il signor Marcello rischia, si fa fare ancora unosconto sul già basso prezzo e tutto felice consegna la “pezza” al sarto che,avendo già le sue misure, confezioni il bel gessato in pura lana pettinatainglese!!

Passano alcuni giorni e il sarto chiama il signor Marcello dicendogli che

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vada subito nel suo laboratorio perchè deve fargli vedere una cosa non moltopiacevole. Il signor Marcello mette il cappotto ed esce. Ritorna mezz’oradopo e quando lo rivedo mi sembra un cane bastonato. Lui sempre ritto edimpettito che camminava a passo spedito, era affranto, curvo, e stascicava ipiedi. Cosa è successo signor Marcello?, - gli chiedo. E lui di rimando: -Lasci stare. Se sapesse, si ricorda la stoffa inglese? - Certo che sì, - gli rispon-do, - bellissima! - Bellissima sì, ma poca! Infatti srotolata la pezza, il primometro e venti centimetri era di pura stoffa di lana inglese, il resto......garza!!!!Forse il solo panciotto!!!

1962 sono stato trasferito all’agenzia di Opicina. L’Agenzia si trova inpiazzale Monte Re. Un poco più avanti c’è pure la farmacia, con la cuititolare e tutti i collaboratori eravamo in rapporti di amicizia più che dilavoro. Un giorno, il dottor Dario, un farmacista che lavorava presso lafarmacia, entra in agenzia ridendo con le lacrime agli occhi. - Dario cosasuccede?? – Vi prego lasciatemi stare, mi è successa una cosa che ha dell’in-verosimile. Sono dietro il banco, entra un signore di una trentina d’anni,ben vestito, che si avvicina e mi dice:

- Govorite slovensko?, - No, guardi parliamo solamente italiano, macosa le serve? ha la ricetta? – No, mi no ga riceta. - Le fa male qualche cosa?ha febbre? le dolgono i denti? - No, no, mi no sta mal, mi ga bisogno, comese disi, me servi......ah sì!! Ti ga coverceti per klinc???

Filiale di Muggia. La signora Maria, madre di un noto personaggio dellacittadina, anche in campo politico. A quei tempi la signora aveva oltre no-vant’anni, ma non li dimostrava minimamente, non l’ho mai vista cammi-nare, sempre con passo lesto quasi di corsa. Ho saputo la sua storia daalcuni colleghi nativi del posto; proveniva da famiglia modesta e già daragazza aveva cominciato a lavorare portando, per poche lire, i pranzi caldi,che le mogli preparavano, agli operai del cantiere navale. E perché i pranziarrivassero caldi agli operai, doveva correre altrimenti non prendeva nean-che quei quattro soldini. Con tutto ciò, la signora Maria, sacrificando la

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sua giovinezza prima, e la sua vita di donna sposata dopo, era riuscita, assie-me al marito, a far studiare il figlio e farlo laureare. Bisogna dire la veritàche il figlio non si è mai dimenticato dei sacrifici della madre e se la cocco-lava con vero amore filiale. Ora la signora Maria era ben vestita, non lavo-rava più, ma ciò non ostante era sempre in movimento, aveva tanto da fare.Tutto questo per fare un quadro della situazione. Ribadisco, aveva più dinovant’anni. Un giorno viene in filiale, mi si avvicina e mi dice: - Giorgio,picio, qua dentro solo de ti me fido, sa, cosa te vol, go in parte quatropetenei; cossa te me consigli de far, come posso farli render per assicurarmela veciaia?? No comment!

Verso la fine del 1969, assieme al collega Piero abbiamo inaugurato l’agen-zia di Prosecco. Bellissimo!! Preparare il posto di lavoro a misura propria enon doversi adattare a quello che si trova, tutto ordinato....pronti a comin-ciare. Primo giorno, ore otto e venti minuti apriamo la porta....nessuno.Passano i minuti e vediamo la gente passare davanti all’agenzia, si ferma,cerca di curiosare dentro ma i vetri fanno da specchio e non vedono nulla.Qualcuno si avvicina, facendo scudo con le mani vicino agli occhi e appog-giandosi sul vetro guarda dentro, guarda noi che senza clienti, sbrigavamopratiche inesistenti e rispondevamo al telefono che non squillava.

A mezza mattina entra il primo cliente, vestito da lavoro, barba lunga,sporco di terra, ha lavorato nei campi o nella vigna, mi si avvicina e michiede incuriosito: - Go quatro soldi de parte, cossa la me consiglia?

- Sa, oggi come oggi è molto interessante investire il danaro risparmiato,perchè in base alla legge 1228 ci sono tre forme di investimento a 12, 18 o24 mesi. È ovvio che il maggior tasso di interesse si percepisce vincolando ildanaro per 24 mesi. Ma attenzione in quanto per nessun motivo si puòestinguere anticipatamente il deposito neanche pagando una penale. Il da-naro deve rimanere fisso per tutto il periodo prescelto. Io le consiglio diinvestire una cifra a lungo termine per avere maggior interesse, un’altra amedio termine e un’altra ancora senza vincoli per necessità immediate.

-Si, la ga proprio ragion, parlo co’la baba a casa e po’ torno. Dopo di lui,

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per fortuna, arrivano tanti altri clienti che aprono conti correnti, libretti arisparmio, comperano titoli di stato, azioni ecc.. L’agenzia funziona che èun piacere, vinta la prima diffidenza e col passa parola i clienti, che in molticasi diventano amici, si moltiplicano a vista d’occhio. Il lavoro aumenta e,per dire la verità, alle volte, essere solamente in due è un po’ stressante.Siamo ormai alla soglia del mese di apertura, ed ecco che entra un cliente“nuovo”, tirato a lucido, con il vestito nero, quello dei matrimoni, cresime,funerali e feste comandate, con un pacchetto racchiuso in carta di giornalesotto il braccio, mi si avvicina e mi fa: - Alora femo come che gameno dito!

Mi prende un tremore, faccio finta di niente, ma cosa ho mai detto aquesto signore che non ricordo di aver mai visto e, tirando un bel sospirodico: - Ah sì, sono contento, allora ha deciso per il meglio?? - Sì! la ga ragionlei, xe meio far cussì e no corer ris’ci.

Bisogna indagare e dico: - Lei sì che è una persona che ragiona e saquello che fa! Ha parlato in casa? Cosa hanno detto?

- Sì, femo novanta milioni a ventiquattro mesi, sesanta a dodici

mesi e el resto li lasemo liberi perchè forsi compro un teren.- Ottimo, bella scelta e quanti lasciamo liberi?

- No so esatamente, la conti lei che la ga più pratica. E mi consegna ilpacco avvolto nella carta di giornale. Diligentemente apro il pacco e mitrovo davanti ad un “mattone” di banconote da centomila lire ben strettoda una miriade di elastici. Li conto e sono esattamente trecentocinquantamilioni. Duecento milioni liberi. Si trattava di quella persona in vestito dalavoro, barba lunga e sporco di terra che un mese prima era venuto a chie-dere informazioni.

Sempre a Prosecco siamo giunti ai primi di settembre del 1970. Quellavolta l’intervallo di pranzo era molto lungo andava dalle tredici e trenta allequindici e trenta. Io e Piero mangiavamo qualche cosa e poi facevamo bellepasseggiate nel bosco che portava verso la locanda da Martin, sul sentieroche va fino al villaggio di S.Croce. La mamma di Piero, per la verità anzia-na, era ricoverata all’ospedale per l’ennesimo attacco di cuore. Era un mar-

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tedì e Piero alle tredici e trenta mi dice: - Giorgio oggi non vengo a pranzo,vado a trovare la mamma per vedere come sta, sono un po’ preoccupato.

Erano ormai le quindici e trenta e Piero non era ancora arrivato. Final-mente un minuto dopo arriva, stravolto, entriamo in agenzia con due o treclienti che stavano aspettando, corre al telefono, chiama il direttore, nostrosuperiore, in sede centrale e quando risponde dice: - Direttore, mandi subi-to, magari da Opicina, qualcuno a sostituirmi perchè devo correre nuova-mente all’opedale, mia madre sta morendo e non so nemmeno, se quandoarriverò là, sarà ancora viva.

Dall’altro capo del filo la risposta: Eh cossa, al ultimo momento la meavisa!

Questa è stata la risposta del direttore. Piero sbatte il telefono, esce dicorsa, sale in macchina e via. Arriva all’ospedale, la mamma era morta dadieci minuti.

Ritorniamo a Muggia. Anno 1968. La filiale è come una piccola sedecentrale, si fa di tutto, dalle normali operazioni che si fanno nelle agenzie,alla stipula di mutui, alla concessione di fidi, al servizio di esattoria e ditesoreria, al pagamento delle pensioni, ecc.

In quel tempo ero addetto, tra l’altro, al pagamento delle pensioni.

Giovanni fu per anni il “nostromo” del vaporetto che collegava Muggiaa Trieste e viceversa. Ma ormai il vaporetto non c’era più, sostituito dallafilovia, ed Giovanni era andato in pensione. Una buona pensione dato cheaveva navigato per quarant’anni arrivando al grado di “nostromo”.

Il giorno cinque di ogni mese pari Giovanni , puntuale, si presentava almio sportello con il suo libretto pensionistico, firmava il certificato e se neandava col suo bel malloppo. Verso il venti del mese pari, e così di seguitoogni otto o dieci giorni veniva da me e mi diceva: - No go più un petenel,quando te me da la pension?

- Giovanni, la pensione l’ha incassata quindici giorni fa. Ci vuole ancoraun mese e mezzo prima che arrivi la prossima pensione.

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- E mi cossa fazo senza petenei? cossa magno intanto? no posso sempreandar de mia sorela a scoderghe soldi. Mi gavevo una bona pension, unavolta.

- Ma Giovanni lei ha una buona pensione, prende più lei di pensioneche io di stipendio, come può aver già speso tutti i soldi?

-Cossa te vol, una volta ciapavo de più, adesso soldi xe pochi, xe soloscartofie, xe solo documenti.

Questo ritornello, ormai, durava da mesi e mesi. Sempre a dirmi chenon aveva “petenei” ma solo “documenti”. Allora mi venne un sospetto,sembrava impossibile ma non si sa mai, e dissi:

- Giovanni, faccia una cosa, vada a casa, prenda tutti i documenti che haricevuto e me li porti che così controlliamo a cosa servono, va bene? - Sì, sì‘deso vado e forsi torno anche ogi se rivo, ‘dio Giorgio, se vedemo!

Verso le ore undici vedo Giovanni che ritorna, aspetta il suo turno, e misi avvicina:

- Eco qua, ciapa, i soldi xe finidi e me resta solo ‘sti documenti che te mega dado.

- Guardo i “documenti”, erano tanti e tanti biglietti da lire centomila.Le centomila lire erano uscite da poco ed Giovanni non le conosceva, pen-sava fossero documenti. Conto i “documenti” erano trentasette milioni. Aquesto punto, vista l’incapacità di Giovanni, lo faccio accomodare dal di-rettore al quale spiego tutta la storia ed anche lui fa una faccia tra lo stupito,l’incredulo e abbozzando un sorriso misto tra lo scherno e la compassionedecide di chiamare telefonicamente la sorella. Giovanni era vedovo. Acceseun libretto a risparmio a nome di Giovanni con la firma per delega allasorella in modo che con quei “documenti” potesse curare il fratello e dargliogni tanto un pochi “de petenei” per i capricci.

La riconoscenza e gli occhi commossi di quella donna non li dimenti-cherò mai.

Ancora Muggia. C’erano due fratelli: Franco e Paolo “picio”. Bisognache faccia un preambolo per descrivere questi due personaggi.

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Erano, appunto, due di quattro fratelli, nativi di Isola d’Istria,italianissimi, che come tante altre migliaia, avevano lasciato la terra natia,per rifarsi una vita in terra italiana.

Sono sempre stati, come il novanta per cento degli Isolani, del resto, deipescatori, mentre gli altri due fratelli avevano lavorato nell’industriaconserviera del pesce che, un tempo, fioriva a Isola d’Istria.

Franco, un pezzo d’uomo alto più di un metro e ottanta, con un paio dispalle robuste e due manone che sembravano delle clave. A vederlo sembra-va un orco, invece era di una bontà infinita, teneva sempre con sè e aiutavalo sfortunato fratello: Paolo “picio”. Era così soprannominato perchè, persua sfortuna, era nano, avrà raggiunto sì e no il metro e trenta. Cercate diimmaginare questi due inseparabili fratelli che camminando per le calli diMuggia, uno accanto all’altro, con andatura dondolante, in silenzio, sbri-gavano i loro affari. Un metro ottanta con a fianco un metro e trenta.

Avevano impiantato un grosso allevamento di mitili lungo la costamuggesana, da Muggia appunto fino a Punta Sottile. Con le loro barche,quotidianamente, seguivano il tratto di mare, controllando lo svilupparsidei mitili. Quando erano pronti per essere “strappati” dalle corde con laloro “pedocera” raccoglievano i grappoli di mitili, li insaccavano e d’urgen-za li mandavano a “depurare” o ai filtri del Villaggio del Pescatore, nei pres-si di Duino, oppure fino a Bari dove c’è il più grande depuratore d’Italia.

Gli affari andavano bene e settimanalmente venivano, inseparabili, aportare i proventi del loro lavoro, quasi sempre assegni, e li versavano nelconto corrente della “Ditta”. Sempre di poche parole, come la gente dimare, ma con tanta gentilezza ed educazione, facevano i versamenti e se neandavano.

La cosa era durata un anno circa, qualche piccolo prelievo per le neces-sità del loro lavoro e per la loro sopravvivenza, ma il grosso rimaneva nelconto che, per la verità, si gonfiava sempre più, tanto da divenire uno dei“conti primari” della Filiale.

Capita un brutto giorno, Franco e Paolo “picio” entrano in banca, con illoro incedere lento e dondolante, mi si avvicinano e mi dicono:

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- Portemo via tuti i soldi del conto dela Dita.Mi viene un accidente, erano quasi duecento milioni, più di un miliar-

do di oggi. Accenno con difficoltà due parole confuse:

- Tutto? ma non abbiamo tanti soldi in contanti.

- Come no li gavè, xe soldi nostri che gavemo portadi qua!

- Sì, ma siccome erano troppi, li abbiamo mandati alla nostra sede cen-trale in quanto hanno una cassaforte più grande.

- Bon, no fa gnente, vinimo a ciorli doman!

- Un momento per favore, vi faccio parlare col direttore, così vi metteted’accordo su modalità e tempi.

Vado dal signor Mario, il direttore, e gli riferisco la richiesta. Il signorMario, sbianca in volto e mi fa cenno di farli passare nel suo ufficio. Chia-mo Franco e Paolo “picio” e li faccio accomodare.

Il signor Mario incalza: Egregi signori, buon giorno, accomodatevi, prego.

No, stemo in pie che gavemo furia.

- Mi diceva qui, il collega, che volete prendere tutti i soldi del contodella Ditta, cosa è successo? Perchè? Vi è stato fatto qualche sgarbo? Qual-che altra banca vi offre più interesse?, parliamone non è il caso di prosciu-gare un così bel conto corrente.

- No gnente, i ne servi e basta, tuto in soldi, no asegni, per domanimatina presto.

Salutano, si girano e se ne vanno. Al signor Mario non resta altro chetelefonare alla cassa principale in sede e ordinare per l’indomani centottantamilioni in contanti. Duro colpo per la Filiale, ma soprattutto la delusionedel non capire il perchè di questo improvviso prelievo.

Il mattino seguente Franco e Paolo “picio” arrivano con un sacco diquelli che si usano per gli indumenti da ginnastica, mi si avvicinano e iodico loro: - Andiamo dentro dal direttore perchè non è il caso che la genteveda tanti soldi in contanti.

- Entrano, stipano le mazzette nella sacca, fanno un nodo alle corde e

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salutando se ne vanno. Pazienza, giornata buca per la filiale, speriamo intempi migliori!

Passano due giorni e Franco e Paolo “picio” entrano con due pacchisotto il braccio, mi si avvicinano e mi dicono: - Novanta milioni sul mioconto e novanta su quel de Paolo.

Prendo i soldi, sono gli stessi di due giorni prima. Li conto sono esatta-mente cento e ottanta milioni. Guardo Franco e dico: - Ma perchè questo?Non potevamo l’altro ieri fare due giroconti di novanta milioni l’uno, dalconto della Ditta ai vostri conti personali?

- E no sior mio, numeri xe numeri, ma soldi xe soldi.

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PROSECCO

Una delle cose che Nory ed io siamo riusciti a realizzare ha un nome:Prosecco.

La storia è iniziata alcuni anni prima; a me era venuto il desiderio di“evadere” nei fine settimana e parte delle ferie.

Ed ecco che nella mia mente si insinuò la possibilità di acquistare unabarca, usata s’intende, per poter uscire al largo nel golfo o fare mini crocierettelungo la costa sia nostra che istriana. Una pilotina insomma, che avesse unpaio di cuccette per dormire, una cucinetta per preparare i pasti e un WCmarino con servizi igienici, oltre s’intende, un piccolo pezzo di tolda doveNory e le bambine potessero abbronzarsi. Io mi sarei messo a pescare e sequalche pesce avesse abboccato avremmo mangiato quello, altrimenti pastaal pomodoro o scatolette. Spirito d’avventura insomma. Sogni....

Nory era preoccupata: le bimbe sono piccole e se cadono in acqua?.....,se ci sono le onde e non si riesce dormire?....., se le bambine stanno pocobene in mezzo al mare?..., neanche fossimo in mezzo al Pacifico.....Io nonstarei tranquilla e pertanto non sarebbe un divertimento.

Chiuso il capitolo “barca” che, forse, a posteriori, pensandoci bene, èstato meglio così in quanto il mantenere in efficienza una barca costa mol-to, sia finanziariamente che in questione di tempo. Tirala fuori dall’acqua,togli le incrostazioni e la vegetazione dalla chiglia, dagli due o tre mani diantivegetativo, controlla tutte le parti metalliche che non abbiano la ruggi-ne, rimettila in acqua...ogni anno!

Il chiodo fisso non molla: niente barca....allora roulotte! Avendo lavora-to all’Agenzia di Opicina, conobbi un noto rivenditore di una prestigiosamarca nazionale di roulotte che mi, anzi ci, convinse ad acquistarne una dicinque metri, usata, ma ben tenuta.

La facemmo portare al Campeggio Europa di Fernetti e così cominciò lanostra vita di campeggiatori, all’aria aperta, lontano dai rumori in un am-biente sano con tanti amici tutt’intorno. Ma come in tutte le cose belle c’èanche il rovescio della medaglia.

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La roulotte era sempre la stessa, ma lo spazio a disposizione tutt’intornosi riduceva sempre più.

Era infatti il boom del campeggio e sempre più roulotte dovevano venirsistemate.

È una mia teoria che, comunque, i fatti tante volte hanno avvalorato, ecioè che nella vita, per riuscire, bisogna trovarsi al posto giusto nel momen-to giusto. Così è stato anche questa volta.

Era il 1970 e assieme al collega ed amico Piero Atti, avevamo inauguratola nuova Agenzia della Cassa di Risparmio a Prosecco. Un giorno entrò inbanca una vecchietta triste quasi piangente, prelevò dal libretto a risparmiouna piccola cifra ed io, non per curiosità, ma per capire quella sua tristezza,le chiesi cosa fosse successo. Lei allora aprì il suo animo in uno sfogo mistotra rabbia e tristezza e mi raccontò che abitava in località Baita di Sgonico eche essendo la località troppo isolata, alcuni anni prima aveva acquistatoun piccolo terreno a Prosecco per potersi costruire una casetta. Lei vedova,con una piccola pensione, ed il figlio panettiere in città, risparmiava soldinosu soldino per poter cominciare, in economia, a costruire la tanto desidera-ta casetta. Evidentemente non aveva ancora nessun progetto elaborato etanto meno presentato, per l’approvazione, all’Ufficio Tecnico comunale,sta di fatto che il nuovo piano regolatore aveva pensato bene di trasformareil terreno da “area costruibile” e “area di zona verde”. Il sogno si era frantu-mato e doveva rimanere a “Baita”.

Ascoltai in silenzio il suo racconto, dopo di che le chiesi cosa avesseintenzione di fare di quel terreno a lei inservibile; mi rispose che per forzadoveva cercare di venderlo e purtroppo anche ad un prezzo inferiore diquello che lo aveva pagato, essendo stato declassato. Mi feci dare il nome el’indirizzo.

Rientrato a casa, la sera, ne parlai con Nory.... bello, anzi bellissimo.... macon quali soldi?? Sempre, facendo capo alla mia teoria prima esposta, fu ilmomento giusto. Infatti mio padre era andato da poco in pensione e quandoio gli prospettai la possibilità di avere un “campeggio” tutto nostro privato, sioffrì con molto entusiasmo di acquistarlo lui per donarlo alle nipotine.

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La mia, la nostra gioia, fu immensa anche se il lavoro che mi aspettavaera enorme. Disboscare, recintare, scavare, livellare, costruire, portare al-l’interno acqua e corrente elettrica, ore, giorni, settimane, mesi di lavoro....macos’era questo di fronte alla gioia di avere un pezzo di terra proprio, conquasi tutte le comodità ed il pensiero che la bambine sarebbero vissuteall’aria aperta, senza pericoli? Niente! Anzi una gioia, quanti week-end alavorare con Nory, nonno Guido e qualche operaio preso alla giornata peri lavori più pesanti. Alla fine l’entrata trionfale della roulotte nel nostro“campeggio”. Prosecco.

Il nostro “pezzo di terra” misurava poco meno di mille metri quadri. Afianco c’era ancora un terreno libero di circa mille e quattrocento metriquadri. E se qualcuno, visto quello che avevamo fatto noi, l’avesse acquista-to per fare altrettanto? Magari gente confusionaria che avesse fatto “sagre”con amici, con canti, balli e suonate di fisarmonica? Che fare? Ed ecco aNory viene una brillante idea! Dei suoi amici-conoscenti accaniti campeg-giatori con un figlio piccolo come le nostre bambine, tenevano la roulotteal campeggio Obelisco, li contattò e propose loro di venire a vedere la no-stra soluzione e di fare altrettanto nel terreno ancora libero. Detto fatto,videro il terreno, si accordarono con un loro amico, che aveva pure due figlipiccoli, ed i nonni, pure campeggiatori, in modo da dividere le spese in tre,fecero esattamente quello che avevo fatto io, ed incominciò un periodomeraviglioso che durò parecchi anni, finchè i figli divennero grandi.

In un angolo facemmo l’orto: insalatina, radicchio, prezzemolo, carote,pomodori, piselli ecc. controllando ogni giorno, aspettando quando, final-mente, avremmo potuto gustare i nostri prodotti. Ogni tanto Paola ed Ele-na tiravano fuori una carota, anzi una carotina, perchè non c’era tempod’aspettare che crescessero, la lavavano sotto il rubinetto e via come FratelConiglietto a rosicchiare quella bontà.

Spesso venivano da noi, a giocare, i bambini dei vicini Alberto, Gabriel-la e Gianni, altre volte erano Paola ed Elena ad andare da loro e così legiornate passavano in allegria con ‘sto vociare di bimbi allegri. Quando poiun pomeriggio arrivai, con una novità, ebbi tutti i bambini intorno ansiosidi vedere cosa avessi portato. Aprii il grande pacco ed uscì un ammasso di

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tela-plastica senza forma e colorata. Cos’è questo “telone”? mi chiesero, edAlberto, il veterano dei campeggiatori bambini, sentenziò: è una veranda! -No, dissi io - ce l’abbiamo già, andate a prendere la pompa a pedale chevediamo.

A turno tutti cominciarono a premere con il piede sul mantice dellapompa. Quando si stancava uno, continuava l’altro. Ci volle una buona oraperchè la cosa cominciasse ad avere un aspetto tale da essere riconosciuta.Paola gridò:

- Papà è una piscina!? Sì! diametro due metri e mezzo circa, altezzasessanta centimetri....una vita per riempirla d’acqua.

I cinque bambini, impazziti dalla gioia, il mattino dopo di buon oraerano già ai bordi pronti ad entrare. L’acqua era fredda e le mamme a direloro: - Più tardi quando il sole sarà alto e l’avrà scaldata un pochettinopotrete entrare.

Tutti e cinque, in costumino da bagno, zoccoli ed asciugamano, ognidieci minuti mettevano il dito dentro e dicevano: “mamma si è scaldata....”

Un bel da fare a trattenerli, poi verso le undici del mattino dopo il furio-so assedio dei bambini, le difese delle mamme cedettero e fu l’assalto deiMarines a Guadalcanal.

Tuffi, “nuotate”, spruzzi tutt’intorno, grida, gioia, sorrisi compiaciutisul viso dei genitori che stavano a guardare quello che quei cinque mar-mocchi riuscivano ad inventare per giocare in quel “catino” d’acqua.

Poi veniva l’ora di pranzo e, nei giorni festivi, si accendeva il fuoco e sifaceva la grigliata, bistecche, costine, braciole, salsicce, pollo, bruschette,ecc. da consumare al tavolo posto all’ombra sotto gli alberi e nel silenzio sisentivano solo i rumori delle mandibole che dialogavano con il cinguettiodegli uccellini ed il cri-cri dei grilli. Sembrava di essere fuori dal mondo.Poi, i bambini andavano a fare il riposino pomeridiano, mentre gli adulti,seduti sulle poltrone a sdraio, facevano finta di leggere il giornale o un libroper darsi un contegno fino a quando, come bambini, chiudevano gli occhiper la “pennichella” ristoratrice.

Poi c’erano le “seratine”. Dopo cena, tutti i gruppi familiari si riunivano,

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alternativamente, sotto la tenda/veranda di uno di noi.Una sera da Alfio e Maria, un’altra da Pino e Lorenza, un’altra dai nonni

Da Pisin ed infine una sera da noi. Ognuno portava una piccolezza, undolcetto, una bottiglietta di vino di quello buono, un liquorino e si passa-vano alcune ore in allegria e spensieratezza, chiacchierando, accennandoqualche piccolo coretto, magari accompagnato dalla chitarra di Alberto.

La domenica pomeriggio, verso la fine di Settembre, tutti e cinque ibambini mi venivano a chiamare, armati di borse in nylon riciclate dalsupermercato dove le mamme erano andate a fare le compere, perchè dove-vamo andare in “gita a Modena, Udine, Firenze, Siracusa, Pisa, Catania,ecc.” Era il nostro piccolo segreto, il nostro codice d’azione. Allora armatidelle borse, guanti, bastoni si decideva: Oggi andiamo a Modena! OK via siparte.

Ci si avviava per i sentieri in cerca dei rovi dove crescevano le...more;infatti “M” di Modena corrispondeva alla “m” di more, “U”-uva, “F”-fichi,“S”-susine, ecc. Alla fine della “gita” si tornava con le borse piene di fruttache sarebbe servita per la “seratina” in allegria e, come spesso accadeva, se lafrutta era in eccedenza, le mamme, ora una ora l’altra, avrebbero fatto lamarmellata.

Nelle serate più calde d’Agosto, la sera, ci si riuniva intorno al tavologrande, sotto gli alberi, all’aperto anzichè sotto la tenda/veranda.

Una sera successe che sentimmo un rumore strano provenire poco di-stante, sembrava un fruscio, sommesso e continuo; qualcuno disse: - OhDio sarà una vipera!. - Ma no, non può essere - disse un altro - perchè irettili sono animali a sangue freddo, pertanto di notte stanno fermi e sichiudono a ciambella per avere minor dispersione termica.

Dovevamo svelare il mistero, prendemmo una potente torcia per illumi-nare la zona del rumore e, col fascio di luce, illuminammo un grosso esem-plare di istrice. - Bellissimo! Presi un paio di guanti, di quelli grossi dalavoro, lo prendemmo e lo appoggiammo sul tavolo. L’istrice si racchiuse inuna “palla” alzò gli aculei e, per spaventarci, cominciò ad agitarli sbattendo-li uno contro l’altro con un rumore quasi assordante. Sapendo che dove c’è

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l’istrice non ci sono vipere, pensammo bene di metterlo in un angolo conalcune foglie di insalata fresca e un piatto d’acqua, sperando che si fermas-se. Niente da fare, il mattino dopo se n’era andato, insalutato ospite.

Altra serata, stiamo chiacchierando tra di noi, mangiando un dolcetto,quando arriva sul tavolo una ghianda, poi un’altra e un’altra ancora. Evi-dentemente non cadono da sole, qualcuno ce le sta tirando addosso, machi? Ci guardiamo in giro, non c’è nessuno, è tardi ed i bambini sono già adormire. Si sente un rumore provenire dai rami sopra di noi, alziamo gliocchi e vediamo un ghiro che ci osserva e fa di tutto per attirare la nostraattenzione.

Alfio allora dice: - Volete vedere che il golosone ha visto che mangiamoil dolce e ne vuole un pezzetto anche lui?

Noi ci stringiamo sulla panca verso un’estremità ed Alfio all’estremitàopposta mette un pezzettino di dolce. Stiamo in silenzio per vedere la sce-na. Il ghiro comincia a scendere lungo il tronco, cerca di avvicinarsi al dol-ce, ma ha paura, torna indietro, torna giù, scappa di nuovo e così di seguitoper parecchie volte. Ogni discesa era sempre più vicina alla “preda”, finchè,in un attimo di coraggio estremo, prende il pezzo di dolce e veloce se nescappa tra i rami. Altro pezzetto di dolce, posizionato da Alfio un po’ piùvicino a noi, altre timorose discese e altre fughe tra i rami. Alla fine connostra immensa gioia, dopo un oretta, il ghiro fermo sul tavolo mangiavapezzetti e briciole di dolce.

Un mattino di primavera, faceva ancora freddino, andai a controllare setutto fosse in ordine nel nostro campo. Aprii il cancello, entrai, lo richiusi emi diressi verso la roulotte e vidi una “cosa” velocissima che attraversava lacampagna e spariva verso il fondo della stessa mentre sentii un tonfo. Altrorumore di qualcosa che, correndo, attraversava il prato. Era un leprottinoche spaventato cercava di scappare e uscire ma inesorabilmente sbattevacontro la rete di recinzione. Allora ritornai sui miei passi e spalancai il can-cello che dava sulla strada, proprio di fronte al bosco. Mi spostai verso ilfondo del prato in modo che il leprotto corresse nella direzione opposta,cioè verso l’uscita. Dopo alcuni tentativi con relativi cozzi contro la rete,finalmente vide il varco, indugiò un attimo e alla fine spiccò un salto che in

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un solo balzo attraversò la stradina e si posò sul muretto a secco al limitaredel bosco. Si fermò un attimo si girò verso di me, mi guardò per alcuniistanti e poi sparì all’interno della boscaglia. Ancora oggi ricordo quegliocchietti, sembrava quasi mi ringraziassero per la libertà avuta.

Una sera di primavera avanzata, saranno state le diciannove, stavo rien-trando verso casa dopo una controllatina che tutto fosse in ordine all’inter-no del nostro campo.

Avevo lasciato, in macchina, la provinciale ed imboccata la camionaleall’altezza del mobilificio Lanza. Fatti un centinaio di metri passai sotto unponte con a destra e a sinistra la roccia alta circa due o tre metri in cui erastata scavata la strada.

In senso opposto c’era una macchina ferma che mi lampeggiava; rallen-tai, doveva essere successo qualche cosa.....Guardai meglio e vidi fermo,verso il margine sinistro, un meraviglioso esemplare di capriolo maschiofermo in mezzo alla strada.

Volsi lo sguardo verso destra e vidi scendere dalla roccia, molto lenta-mente, un capriolo femmina, gravida, che con incedere malsicuro, dato ilsuo stato, attraversava la strada. Ci saranno voluti almeno due minuti perchèriuscisse a risalire sulla roccia opposta. Quando la femmina giunse al sicu-ro, il maschio si guardò a destra e a sinistra, quasi a controllare che tuttofosse a posto o, forse, a ringraziare perchè ci eravamo fermati, e con unagilissimo balzo salì sulla roccia per seguire e continuare a proteggere la suafemmina, che gli avrebbe dato, di lì a poco il suo Bamby.

Tutto questo e tante cose ancora sono

PROSECCO

Continua......

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don P.G.

Leggendo il nostro quotidiano locale, “Il Piccolo” di domenica 16 Gen-naio 2000, a pagina 23 vedo una foto che, per iniziare la giornata, mi portaun senso di pace e di gioia allo stesso tempo.

Il titolo: Consegnato il “premio Barcola ‘99”. Nella foto sono immorta-lati Monsignor Ragazzoni, il vice sindaco Damiani e il presidente del “pre-mio” Franco Giorgini.

Il sottotitolo e la descrizione recitano così:

Mons.Ragazzoni, una lezione d’impegno civile

“Un uomo di chiesa che ha dato uno straordinario contributo alla cre-scita e allo sviluppo della coscienza civile della città”. Così il vicesindacoRoberto Damiani ha sintetizzato le motivazioni che hanno portato ad attri-buire al vicario della diocesi e presidente dell’Opera del Villaggio del Fan-ciullo, monsignor Pier Giorgio Ragazzoni, il “Premio Barcola ‘99”, manife-stazione giunta ormai alla sua 7.a edizione. Nella foto Lasorte, mons.Ragazzoni mentre riceve dal vicesindaco Damiani e dal presidente e anima-tore del premio Franco Giorgini l’ambito riconoscimento, opera dello scul-tore Pino Callea.

Quanti ricordi mi si affollano nella mente, vorticosi, veloci, con un sus-seguirsi di immagini, situazioni, scenette, frasi....... cerco di fare ordine ecominciare dall’inizio.

Io conobbi don Pier Giorgio nel 1961 quando, per motivi di lavoro, mitrasferii con la famiglia ad Opicina.

Don P.G., così era chiamato, soprattutto dai “suoi” ragazzi, don PierGiorgio Ragazzoni, un prete all’avanguardia, per i tempi, in cui era istrut-tore, educatore, ma innanzi tutto amico dei piccoli ospiti del “Villaggio delFanciullo”. Il Villaggio era stato creato immediatamente dopo la seconda

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guerra mondiale per accogliere, sul modello della “Città dei ragazzi” creatain America da padre Brown, gli orfani di guerra che senza famiglia stavanocrescendo come piccoli delinquenti nelle strade delle città.

Io ebbi l’occasione di vedere il Villaggio alla sua apertura, quando conmio padre e mia madre, una domenica, avemmo la fortuna di poter “visita-re”, su invito, il comprensorio. Era proprio una città. C’era tutto: si accede-va dalla via di Conconello attraverso un ampio cancello, sorvegliato da 2“ragazzi guardiani” che, dopo aver controllato l’invito, ci fecero entrare ac-compagnati da un “ragazzo cicerone” che ci fece da guida. Visitammo i trelaboratori di formazione al lavoro, per i ragazzi più grandi che avevano giàterminato la scuola dell’obbligo, e che erano, una stupenda e moderna ti-pografia, un’attrezzatissima falegnameria e una bella officina meccanica percarpentieri in ferro. C’era poi il complesso scolastico con parecchie e bentenute aule sia per la scuola elementare che media. C’era una piccola banca,infatti tutti i ragazzi che “lavoravano” nei laboratori, ricevevano uno sti-pendio in valuta coniata e stampata per il Villaggio, spendibile, ovviamen-te, solamente all’interno dello stesso. Nella Banca potevano depositare iloro guadagni e prelevare, man mano che servivano, piccole somme peracquistare nel “General Store” quanto poteva loro essere utile.

Il General Store è il termine americano di quello che noi oggi chiamia-mo il “Grande Magazzino” dove si poteva trovare dalla caramellaalla.....bicicletta. Bisogna ricordare che in quell’epoca noi non si aveva an-cora il concetto del grande magazzino, ma eravamo ancora al singolo nego-zio specializzato.

C’era il bar/ristorante dove i ragazzi si ritrovavano al mattino per la co-lazione e poi a pranzo e a cena. C’erano gli edifici con le stanze da letto adue o tre posti, al cui piano terreno c’era la ricreazione con tavolini, calcetti,tavoli da ping pong, ecc.

Per finire, c’era l’infermeria e la chiesetta. Una vera città gestita e curatadai ragazzi, sotto l’occhio vigile di istruttori sia ecclesiastici che laici.

Quando nel 1961, come detto, ritornai ad Opicina, il Villaggio c’eraancora, come pure oggi, ma non aveva più quelle caratteristiche. Infatti gliorfani di guerra erano diventati adulti e avevano intrapreso il cammino

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della vita. Le finalità del Villaggio erano cambiate, al posto degli orfani diguerra si potevano trovare “ragazzi difficili” vittime di separazioni coniuga-li, abbandonati da parte di ragazze madri, figli di genitori carcerati, ecc.

Il compito di don P.G. non era facile; infatti succedeva spesso che venis-se, sempre di corsa, da me in banca, alla Cassa di Risparmio, per qualcheveloce operazione. Mi ricordo di averlo visto spesso in camicia di flanella aquadroni con le maniche rimboccate, in blue jeans, impolverato di segatu-ra di legno. Veniva spontanea la battuta: “Reverendo è in missione segretacon opportuno travestimento?”. Lui con il suo aperto sorriso e la voce caldae suadente una volta mi disse: - Non è con la tonaca che si può cercare di“recuperare” i ragazzi difficili, ma vestendosi come loro, stare in mezzo aloro, lavorando con loro. Soffrire e gioire con loro, cercare di entrare neiloro ragionamenti e tentare di riportarli a giuste decisioni dettate, queste sì,da ciò che la ”tonaca” mi ha insegnato, ma senza farla pesare a poco apoco......come una missione a casa nostra e non in terre lontane.

Don Pier Giorgio Ragazzoni, ha avuto parecchi incarichi, negli anni avenire, presso la Diocesi di Trieste, fino ad arrivare oggi ad essere monsignorPier Giorgio Ragazzoni, Vicario del Vescovo di Trieste. Non ha mai peròdimenticato o abbandonato il “suo” Villaggio tant’è che ne è il presidente.Sono passati oltre cinquant’anni dalla fondazione del Villaggio del Fanciul-lo, ragazzi ospiti, per fortuna, oramai ce ne sono pochi. Rimane in funzionela tipografia, con dipendenti qualificati, padri e madri di famiglia con unascuola di specializzazione per ragazzi che vogliono imparare “l’arte” dellacomposizione tipografica.

La scuola di un tempo è stata trasformata nella “International School”,una scuola privata a tempo pieno, che va dall’asilo alla scuola media e dovela lingua d’insegnamento è l’inglese con insegnanti di madrelingua.

L’officina di carpenteria meccanica funziona ancora ed è considerata unascuola di specializzazione con esami ed attestati finali che qualificano i fre-quentatori indirizzandoli al mondo del lavoro. Negli enormi spazi dellaproprietà sono stati creati dei nuovi sodalizi, quali l’Associazione TennisOpicina, che può contare su quattro campi da tennis oltre la sede socialecon bar e ristorante. Il Centro Sportivo Internazionale, con una

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attrezzatissima palestra sia per la ginnastica soft, sia ginnastica aerobica chebody building, ecc.

È stato creato pure un campo sia per il calcio che per il foot-ball ameri-cano.

Del “vecchio” Villaggio del Fanciullo – Città dei ragazzi- oggi è rimastopoco o niente ma don P.G. è sempre là a custodire, vegliare ed amare il “suo”Villaggio e ad essere amato da generazioni di ex suoi “ragazzi” grati e ricono-scenti di quello che lui ha donato loro............la strada retta della vita.

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AMORE FRATERNO

Si parla tanto di amore fraterno, ma quello che sto per narrare ha qual-che cosa che travalica la normalità per arrivare ad un alcunchè di sublime emistico.

Come già in un altro “pensiero” avevo ricordato, quando ero ragazzo,essendo i marciapiedi sgombri da auto in sosta, si poteva giocare al “Girod’Italia” con i tappi di birra riempiti di cera di candela per renderli piùpesanti; il più bravo di tutti noi era un ragazzo che abitava in viale D’Annuzio,che allora si chiamava viale Sidney Sonnino. Era Mario Vatta, un coetaneo,che aveva un’abilità incredibile nel dosare i tiri in modo da non uscire daltracciato. Aveva anche una grande passione, suonare il saxofono, e gli riu-sciva bene, le sue agili dita correvano sui tasti traendo dallo strumento dellenote dolci e forti allo stesso tempo, il suo repertorio preferito, quando nondoveva studiare musica classica, era il jazz. Mario aveva un fratello maggio-re il quale, avendo la vocazione, frequentava il Seminario Vescovile di Trie-ste ed era quasi arrivato alla fine, pronto a prendere i voti. Essendo unragazzo giovane e pieno di vita, il fratello di Mario, aveva l’hobby dellescalate in montagna. Era un buon rocciatore e nei pochi momenti liberiche il seminario gli concedeva, prendeva scarponi, corde, chiodi, piccozza equant’altro potesse servire per fare una scappata in Val Rosandra e scalare lepareti del Monte Carso, del Cippo Comici, ecc. Ma il destino della suabreve esistenza era segnato, un brutto giorno pagò con la vita quello che erauno dei pochi diversivi che concedeva allo studio e alla Fede. Quel chiodo,forse mal fissato, forse la roccia più friabile, forse le dita hanno perso l’appi-glio ed il suo corpo è volato in fondo al burrone, vicino al torrente sotto gliocchi inorriditi dei suoi compagni di cordata.

Mario rimase particolarmente scosso, non venne più a giocare al Girod’Italia, si isolò, lo vedevamo saltuariamente, un saluto, un “come va?”, “civediamo.......”

Il tempo passava, le abitudini cambiavano, le amicizie variavano e diMario rimase solo un vago ricordo sempre più pallido fino a svanire. Dive-nuti “adulti” ognuno andò per la sua strada, lavori diversi, chi si fece una

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famiglia, chi rimase scapolo, ognuno per la sua strada.Una ventina di anni fa mi capitò di leggere sul nostro quotidiano locale

che un certo don Mario Vatta aveva fondato la “Comunità di S.Martino alCampo”, una comunità per il recupero dei tossico dipendenti, basata sumetodi nuovi fondati più sulla convinzione psicologica e sull’alternativache sul vietare tassativamente l’uso della droga. Incuriosito dal nome, pe-raltro molto comune e che mi ricordava il compagno di giochi d’infanzia,feci delle ricerche e venni a scoprire che era proprio lui: il campione del“Giro d’Italia” nonchè saxofonista jazz.

Correva l’anno in cui il Circolo dei Dipendenti della Cassa di Rispar-mio di Trieste, festeggiava il suo venticinquesimo anno dalla costituzione.Il Consiglio Direttivo decise di festeggiare tale data offrendo alla Cittadi-nanza tutta un concerto vocale e strumentale presso la chiesa Luterana diLargo Panfili.

Il maestro Nossal diresse egregiamente il coro dei Madrigalisti Triestini eil complesso dei Cameristi Triestini. Essendo l’ingresso libero a tutti, ildirettivo del Circolo pensò che gli intervenuti, se lo credevano, avrebberopotuto deporre in un’urna all’ingresso, una libera offerta a favore della “Co-munità di S.Martino al Campo.

A tale scopo fissai un appuntamento con don Mario Vatta con il duplicescopo: chiedere l’autorizzazione per la raccolta di offerte per la sua Comu-nità e il piacere di rivedere l’amico d’infanzia.

L’incontro, per me, fu molto toccante, se ci fossimo incrociati per lastrada nessuno dei due avrebbe riconosciuto l’altro, tanto eravamo cambia-ti fisicamente ed....invecchiati. Dopo le prime frasi di circostanza: “son pas-sati gli anni, ma possiamo darci del tu?....certo...anzi! ...così ritorniamogiovani...ti trovo bene...

Come stai??...” Mario mi chiese: - Ti sei sposato?... hai figli?. - Sì certo,ho due bellissime bambine...ma dimmi tu piuttosto non era il tuo poverofratello che aveva l’intenzione di diventare prete???

- Sì! Ma, come sai, il Signore lo ha chiamato a sè prima che divenisse unSuo Ministro. Io ho passato dei momenti terribili, avevo sempre davanti

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agli occhi quel povero corpo martoriato, mia madre non dormiva la notte,entravo nella mia camera da letto e vedevo, appesa, la tonaca che mammaaveva confezionato per lui e che non avrebbe mai potuto indossare. Erava-mo così felici della sua decisione che, allora, con la sua morte il mondo cicrollò addosso, ci mancava qualcosa, c’era un vuoto incolmabile. Probabil-mente altre persone avrebbero imprecato, avrebbero detto che non era giu-sto e che se ci fosse stato un Dio non avrebbe potuto permettere una trage-dia simile. Io no! Ho visto in tutto questo, anche se doloroso, un disegnodivino del quale non potevo capire il significato, ma che dentro di me dice-va: “Mario, quella che tuo fratello ha lasciato, quella è la tua strada, percor-rila e siine degno”. Ed eccomi qua, l’unica cosa che mi è rimasta dall’infan-zia è la passione per il saxofono e per il jazz. Suono ancora sai? E sempre dipiù! Uso questa mia passione nella cura ai miei assistiti. La “terapia” musi-cale ha sortito effetti insperati, i poveretti provano una gioia nuova e sequalcuno tenta di suonare qualche strumento, anche gli altri trovano sti-molo ad emulare. Hanno la mente occupata e non pensano, per un po’, alladroga. A qualcuno sono riuscito ad insegnare a leggere uno spartito e sonoriuscito a creare un piccolo gruppo, una band e un paio di sere la settimana,facciamo dei concertini jazz, seguiti anche da non appartenenti alla comu-nità, quali membri del volontariato, loro familiari, amici. Questo è il miometodo per cercare di recuperare questi infelici ed inserirli nella Società efare in modo che non siano degli emarginati. Se tutti riuscissero ad aiutarliin qualche modo, dando loro degli stimoli, degli interessi, dei diversivi allaquotidianità piatta e grigia, sarebbe, forse, il primo passo per debellare ilmondo della droga.

Questa, in sintesi, è la storia di un amico d’infanzia che, per i casi dellavita, ho perso, ritrovato e riperso nuovamente, quest’ultima volta quasi esclu-sivamente per colpa mia. Infatti mi ero ripromesso di invitarlo presso ilnostro Circolo per una serie di conferenze sulla sua “missione” e per illu-strare gli scopi della sua “Comunità”, magari presentando anche un piccoloconcerto di musica jazz. Lui sempre indaffarato, io altrettanto, ho provatoa rintracciarlo telefonicamente un paio di volte, sempre senza successo. Iltempo è passato e, come cinquant’anni fa, ci siamo “persi” nuovamente. Ci

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saranno altre occasioni? - chissà... forse... vedremo.Don Mario Vatta, comunque, è stato, è e sarà un faro di speranza per

tanti emarginati, e per me un grande Amico.

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3 DICEMBRE 1988 - 3 OTTOBRE 1998

Due date, due momenti importanti nella vita della nostra famiglia. Pao-la ed Elena hanno sposato, sono diventate “signora Rotella” e “SignoraSalvador”.

Due giornate memorabili, climaticamente opposte: Paola, una giornatapiovosa, ma resa luminosa dalla gioia e dall’Amore; Elena, una giornata disole, che incorniciava la stessa gioia e lo stesso Amore.

Ricordo il mattino del 3 Dicembre, l’emozione, la frenesia dei prepara-tivi, il rincorrersi per la casa, i vestiti, la parrucchiera, il fotografo, l’ombrel-lo. Sì, il grande ombrello bianco che mamma Nory, con difficoltà, era riu-scita a trovare in previsione di una giornata di pioggia.

Ero io il protagonista, il padre della sposa, colui il quale doveva portareall’altare la figlia e consegnarla al futuro marito. Quale emozione, qualeresponsabilità, vigilare che tutto procedesse come da cerimoniale, l’entratain macchina sotto casa tenendo ben protetta la sposa sotto l’ombrello bian-co. Il tragitto fino alla chiesetta di Cologna, nella parte alta di via Commer-ciale. Il cuore andava a mille, trattenere la lacrima era un problema, final-mente la macchina lentamente arriva alla base della scalinata che conducealla chiesa. Scendo veloce, apro l’ombrello, e vado dalla parte opposta peraiutare Paola ad uscire dalla macchina. Paola ha un bel daffare a tenereraccolto l’ampio vestito bianco in modo che non tocchi terra per non farloinzaccherare. Le porgo il braccio e, sotto l’ombrello, saliamo la scalinata,sembra enorme, ogni gradino sembrano dieci, non finisce mai. Finalmentearriviamo sulla soglia della chiesa, qualcuno mi prende l’ombrello, Paolapuò, finalmente, lasciare l’abito che si rimodelli.

La musica ci accoglie, gli invitati hanno tutti uno sguardo strano, sorri-dono e piangono contemporaneamente, le mani serrate intorno ai fazzolet-ti che vogliono nascondere, ma non ci riescono. Passo lento, sul tappetorosso, ci avviciniamo all’altare dove un ragazzo giovane, emozionato atten-de la sua sposa: Gianni che con gesto dolce, quasi temendo di farle male, laprende tra le braccia e l’accompagna all’altare. Io do un bacio alla figlia chese ne va e uno al “figlio” che arriva. Mi giro e vado vicino alla mia Nory,

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anche lei emozionatissima, lo sguardo di entrambi alla nuova coppia, allanuova famiglia. Elena è vicino a noi, lei pure ha gli occhi lucidi. Don Pippocelebra un rito bellissimo, con belle parole e sinceri apprezzamenti.

Foto, riso, confetti, gioia, allegria, finalmente si ride solamente.

Gli sposi se ne vanno con il fotografo che, data la giornata, sceglie postiparticolari per il “servizio”: museo ferroviario, le calli di Muggia, scorci bel-lissimi.

Infine il pranzo, all’hotel Lido, con la musica di “Esteban”, l’amico Marioconosciuto a Bibione dove intratteneva i turisti in una nota gelateria delcentro balneare. Paola e Gianni erano entrati in amicizia, anche perchèMario era nato e vissuto in Argentina, come Gianni era nato in Cile, epertanto parlavano tra di loro la lingua madre: il “castigliano” che per lospagnolo è come il toscano per gli Italiani.

Alla sera ritorniamo a casa, con Elena, l’altra protagonista di questo rac-conto, felici al pensiero della gioia di Paola, ma un po’ tristi per quel lettovuoto.

Passano gli anni, la storia si ripete, siamo al 3 Ottobre 1998, stesso caosin casa, tutti che corrono, parrucchiera, fotografo, eccetera. La macchinadavanti al portone, niente ombrello! Sembra più semplice, macchè, il cuorebatte a mille di nuovo, e la lacrima è difficile da trattenere, anche se Elena,conoscendomi, fa di tutto per distrarmi. Siamo un poco in anticipo, quindila macchina procede lentamente, di tanto in tanto, lungo il tragitto, la gen-te sui marciapiedi si china, curiosa, a guardare la sposa. Elena per distrarmi,parla, parla, ma anche a lei l’emozione tira un brutto scherzo; giunti aBarcola non ce la fa più a deglutire tanto secca ha la bocca. Accostiamo almarciapiede, scendo dalla macchina e mi reco presso una rivendita di ta-bacchi a comperare della gomma da masticare al gusto di menta per allevia-re il disagio di Elena.

Giunti a Grignano, stessa scena, altra “lunghissima” scalinata, stesseemozioni. Niente ombrello da consegnare. La musica, ma non come l’altravolta, stavolta il giovane non sta fermo, emozionato, ad aspettare la sposa,anzi, per farla avanzare, le canta: “Vien diletta, vieni o sposa....”. Anche

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stavolta la gente ha lo sguardo strano, tra il sorriso ed il pianto, stringonoanche loro dei fazzoletti, ma sono tanti che non tentano neanche dinascondere......la causa è Fausto, è la sua canzone. Elena ha un cedimento,si aggrappa al mio braccio, piange di gioia, di emozione, di sorpresa. Lamusica finisce, sul tappeto rosso, a passo lento, andiamo all’altare e, anchestavolta, la figlia se ne va ed il figlio arriva. Li bacio e vado dalla mia Noryche piange, stavolta siamo proprio soli.

Don Andrea, ex compagno di scuola di Fausto, ha voluto celebrare lenozze del suo amico, trovando delle parole e rievocando episodi di gioventùin comune che, di nuovo, fa piangere i presenti, ma sopra tutto i genitori ela sorella di Fausto che con

Don Andrea hanno vissuto lunghi periodi ospitandolo pure in casa.

Alla fine di nuovo foto, riso, confetti, gioia, allegria, risate. Gli sposi,con alcuni amici, se ne vanno con il fotografo per il servizio. Il fotografo èlo stesso che ha avuto Paola, gli scenari sono cambiati perchè il sole favori-sce le foto all’aperto. Poi il pranzo al ristorante “Le Maschere” con la mu-sica del “Duo euforia” che ci rallegra e ci fa ballare fino a tardi.

Alla sera ritorniamo a casa, questa volta Nory ed io soli, i letti vuoti sonodue. Una momentanea stretta al cuore, un po’ di sconforto, per fortunasubito fugati da un senso di gioia, gioia vera, immensa: esserci trasformatiin tre famiglie, distanti ed unite. Prima in due, Nory ed io, poi tre, poiquattro, cinque, sei e con i nipoti nove........per il momento: Nory, Gior-gio, Paola, Elena, Gianni, Fausto, Michele, Stefano, Elisa, ?,?,?

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QUARANT’ANNI...

Quarant’anni.....una vita!

...ideali....passioni....vocazioni

Quarant’anni.....entusiasmi.......dinamismo........espressività.....Quarant’anni......incisività......vigore.......dispiaceri..afflizioni..

.......Quarant’anni......contrarietà.....pene...dolori......tormenti.........

.......Quarant’anni.....gioie..felicità..giubilo..estasi.....allegria..amore

.....Quarant’anni.........un batter d’ali ....... un attimo..... ieri......

Sembra quasi impossibile che siano passati quarant’anni da quel 23aprile 1960 quando, giovanissimi, emozionati, quasi tremanti abbiamo detto“SI’” sull’altare di Montuzza.

Il pensiero va indietro a quella data, mi sembra così lontana, batto lepalpebre e mi ritrovo adesso, in questo lasso di tempo ho rivisto tutto. Tuttala nostra vita assieme, fatta di tantissime cose. Tantissime belle, per fortuna,altre dolorose, poche per fortuna. Il tempo è un metro che diamo noi alloscorrere della vita. Se ci ripenso, avvenimento per avvenimento, dovrebbe-ro passare altri quarant’anni per rivederli tutti. Invece no! Il pensiero haun’altra dimensione e scorre via veloce facendoti rivedere i punti salienti ele tappe che segnano il cammino lungo quarant’anni.

È bello e consolante ripensare a quello che si è riusciti a costruireassieme, sia materialmente, ma soprattutto moralmente.

Avere una certa sicurezza economica che ti permetta di guardare al do-mani senza troppe apprensioni, sapendo che, ove necessiti, hai la possibilitàanche di intervenire a favore dei tuoi cari per aiutarli a superare i momentidifficili, come noi siamo stati aiutati dai nostri genitori in base alle loropossibilità.

Avere delle figlie cresciute nel rispetto della vita propria ed altrui, se-guendo sempre quella via, che noi abbiamo loro indicato e che, per graziadel cielo, non hanno mai abbandonato e che le ha portate ad essere delle

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mogli esemplari come la loro mamma. Valori questi che scaldano il cuore efanno salire la lacrimuccia all’angolo dell’occhio, lacrima di gioia, di sereni-tà, di appagamento, di distensione e tranquillità.

I pensieri corrono, i ricordi affiorano in un balenio di lampi, di immagi-ni, di situazioni vicine e lontane nel tempo come fossero successe contem-poraneamente, quasi a voler riconfermare che il tempo, come già detto, siaun metro di misura che nel ciclo della vita non ha senso, perchè la situazio-ne ricordata, che in realtà è durata un lasso di tempo, nel ricordo è unattimo.

Ho piacere di ricordare un episodio che ha lasciato un solco profondonei miei pensieri e nei miei ricordi, gioia e dolore, purtroppo, a breve di-stanza, ore... .

Era il giorno di Pasqua del 1990, eravamo seduti a tavola ed avevamoappena finito di consumare il pranzo. Era il momento in cui ognuno di noiavrebbe aperto le uova per cercare la sorpresa. In quel momento non contal’età, si è tutti bambini e si sogna di trovare chissà che cosa dentro l’uovo.Eravamo tutti in piedi indaffarati con nastri, nastrini e fogli variopinti dicarta celophane, quando vedo Gianni che tenendo un bel nastro con tantodi fiocco intorno alla fronte di Paola esclama: “Anche Paola ha una sorpresaper tutti e, indicando la pancia, la tiene nascosta qui dentro”. Bocche aper-te, fiato sospeso, lacrime, piccoli gridolini....ma è vero... abbiamo capitobene.... - Sì, sì è tutto vero - conferma Gianni. E Paola emozionata con gliocchi bassi annuisce. La “paralisi” che ha colpito tutti è finita, abbracci,baci, coccole, complimenti, congratulazioni, auguri......siamo tutti al setti-mo cielo.

Paola e Gianni saranno genitori, Nory ed io nonni, Elena sarà zia...nonnoCesare bisnonno, quante cose cambieranno con l’arrivo di un bebè.

Bisogna festeggiare, brindare, Paola no, perchè l’alcool......chi si ricordapiù delle uova di Pasqua, lì sul tavolo, mezze aperte. Gioia indescrivibile!

Passano un paio d’ore, Paola si accorge di avere una serie di puntini rossiattorno la vita che si estendono anche verso il torace. Apprensione, trepida-zione, corsa al Burlo, sentenza, varicella. Il castello crolla, gli occhi si bagna-

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no di nuovo di lacrime, ma questa volta sono di dolore. Sempre lacrimesono, ma quale diverso significato! Ebbene in poche ore sono successi avve-nimenti che potevano durare mesi. Per fortuna io, nei miei pensieri, ricor-do solamente un nastro con il fiocco tenuto da Gianni attorno la fronte diPaola. La festa era solo rimandata... Paola e Gianni ci hanno dato la gioia ditre bei bambini che sono la felicità loro e.... anche nostra.

Tanti episodi si affollano contemporaneamente nella mia mente, vedo ilgiorno delle nozze assieme alla trepidazione in clinica per la nascita di Paolae quella di Elena – non riesco, con il pensiero, a quantificare il tempo chesepara gli eventi -, il trasloco ad Opicina con le feste in giardino, l’apparta-mento di via dell’Istria con quello di piazza dei Foraggi, i quattro giornitristi in cui sono venuti a mancare i quattro genitori, e tanti altri tra nonni,zii, parenti ed amici, ma per fortuna tante date felici, che segnano tappemiliari sul cammino della vita.

Anche qui mi piace ricordare un fatto che, per me, ha dell’incredibile: laforza di volontà, la tenacia, la fermezza, la testardaggine, la costanza, laperseveranza della mia Nory nel voler ottenere l’abilitazione all’insegna-mento.

Erano trascorsi ormai tanti anni dall’ottenimento del diploma magistra-le anche se, per la verità, per brevi periodi, quale insegnante supplente, èstata a contatto con la realtà della scuola. Si trattava, comunque, di fare deicorsi di preparazione agli esami, studiare come se dovesse rifare l’esame dimaturità o forse anche di più, il tutto avendo una famiglia a cui badare. Sitrattava di conciliare le due cose, non era facile, ed allora studiava la sera,che diventava notte ed ancora notte inoltrata, tutti i giorni, per mesi.

Quante volte mi svegliavo alle tre del mattino, allungavo la mano, illetto era vuoto; mi alzavo, c’era la luce in cucina, trovavo Nory con la testareclinata sui libri vinta dalla stanchezza e dal sonno. La svegliavo piano peraccompagnarla a letto dicendo: Nory lascia perdere, non puoi andare avan-ti così, ti ammalerai, pensa alle bambine......

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Queste mie parole erano come una sferzata, invece di abbatterla la raf-forzava, stringeva i denti e tirava avanti per la sua strada, testarda, con lavoglia di farcela, per lei e per gli altri. Di nuovo notti insonni, brevi riposisui libri, e via fino al giorno degli esami.

La paura di non riuscire cominciava a fare capolino in lei, ed allora asorreggerla dicendole che non è niente, che con tutto quello che aveva stu-diato sarà un gioco da ragazzi.....speranze.

E così è stato, ce l’ha fatta, e bene anche, tant’è che è stata messa a ruoloimmediatamente senza attendere in parcheggio che un posto si liberasse.Lei, modesta, ha sempre negato ma per me, è ovvio, è arrivata tra le primein quanto grossi punteggi di preruolo non ne aveva, avendo insegnato sal-tuariamente come supplente. - È vero che il tutto ha dell’incredibile?

Ma ormai ci aveva abituato e parecchi anni dopo eccola di nuovo suilibri a studiare di notte per ottenere la specializzazione per l’insegnamentoai bambini handicappati. Insegnante di sostegno, la chiamano, ma che so-stegno e sostegno, insegnate missionaria dovrebbero chiamarla, lei e, ovvia-mente, tutte le sue colleghe che hanno la stessa specializzazione, in quantoriesce a far apprendere a dei bambini che hanno gravi problemi mentali, iprimi rudimenti dell’alfabeto e dei numeri. Viene a casa felice e sorridentedicendo: - Pensa, la bambina ha saputo bene la tabellina del 2 – oppure - hasaputo leggere due lettere unite, una sillaba.... La bambina, purtroppo, hamagari dieci anni ed è in quarta elementare; per lei è una vittoria contro ledisgrazie della natura essere riuscita a far capire un qualche cosa che uma-namente, altrimenti, non sarebbe stato possibile. Tutto questo è durato annied io nella mia mente salvo come un flash la scena di Nory assopita sui librisul tavolo di cucina.

Lavoro, carriera, vita di tutti i giorni equivale a: soddisfazioni e amarez-ze, felicità e contrasti, serenità e momenti difficili, benessere e ristrettezze,salute e piccoli acciacchi, certezze e tentativi, scelte oculate e scelte avventate,successi ed insuccessi, questo e tante altre cose ancora sono quarant’anniinsieme. Quarant’anni che non cambierei per nessuna ragione al mondo eche, se si potesse, rifarei volentieri anche sapendo che rivivrei i momenti

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tristi che abbattono moralmente e fisicamente, ma che, alla fin fine, sonocompensati ampiamente dai momenti felici che si ricordano volentieri edaiutano a cacciare i ricordi tristi.

Quarant’anni, una vita, un attimo, ieri, oggi e speriamo tanti altri do-mani sempre così.

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INFANZIADicembre 2000

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Dedicato alle mie figlie, Paola ed Elena, per significare loro il periodo, ifatti, gli avvenimenti che si sono succeduti incalzanti, turbinosi, pressanti allevolte insidiosi, alle volte lusinghieri e che, alla fine, per volontà del Signore,hanno fatto sì che, nascesse quella cosa meravigliosa che è la nostra famiglia.Oggi è suddivisa in tre nuclei familiari, che continuano ad essere meravigliosigrazie anche all’affetto dei generi ed a quello dei nipoti che per ora sono tre... eun domani... ????

papà

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....INFANZIA....ma poi, la puoi chiamare infanzia?

Alle volte la vita riserva delle sorprese, delle situazioni, degli episodi, chepoi, a distanza di tempo, ripensandoci, sembrano quasi irreali, come fosse-ro dei sogni, degli incubi, dei tormenti o aspirazioni, desideri, speranze chehanno le sembianze di fantasie, ma sono invece delle solide realtà.

Questo è quello che mi passa per la testa quando, sforzandomi, ri-penso alla mia gioventù, all’ambiente in cui vivevo, al periodo storico, allesituazioni a volte anche drammatiche che hanno caratterizzato e condizio-nato la prima parte della mia vita.

L’anno scorso ho scritto i miei “Pensieri” che erano un flash di memorie,di situazioni, per lo più piacevoli, che hanno condizionato il periodo dellamia vita che andava dai venti ai sessant’anni.

Ora che ne ho sessantatré, sento il desiderio di rievocare i primi anni divita, quelli, purtroppo, che sono stati i più difficili e che spero, mai più,altri bambini e ragazzi debbano rivivere.

Mio padre e mia madre vivevano in un appartamento al quinto piano divia Vergerio 4 dove io sono nato il 19 Giugno 1937, al settimo mese digravidanza, e, per mia fortuna, anche se piccolino, sano e pieno di voglia divivere. I miei genitori mi raccontavano che ero vivacissimo, di buon appe-tito e che ben presto recuperai la mia nascita prematura.

Come si usava allora, sono nato in casa, mia madre assistita dall’ostetri-ca, che in gergo si chiamava “levatrice”, ed evidentemente senza quelle assi-stenze che un parto prematuro avrebbero richiesto. Oggi, in analoghe si-tuazioni, precauzionalmente, il bambino verrebbe messo nell’incubatricealmeno per un certo periodo. Allora solamente coperte di lana e bottiglied’acqua calda.

In quell’appartamento vissi i primi tre anni della mia vita circondato,

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così mi dissero, dall’affetto dei genitori e dalla processione di zie e cugineche volevano tenere in braccio e viziare questo nuovo “fagottino”. Zia Wanda,una delle sorelle della mamma, per farmi addormentare correva attorno altavolo della cucina cantando la marcia dei bersaglieri, zia Anita preparava lepappette e i biberon calcolando esattamente la temperatura degli alimentiin modo che fossero di mio “gradimento”. La mamma, presa un po’ incontropiede dall’anticipo della mia nascita, preparava gli abitini coadiuvatadalla zia Aristea che era sarta di professione, mentre Etta, sua figlia e miacugina, di sei anni più “vecchia”, mi intratteneva con dei giochini per darmodo alla mamma e alla zia di lavorare.

Quando compii i tre anni, nel 1940, all’inizio della guerra, papà decisedi cambiare casa e prenderne una più grande, in modo che io potessi averela mia cameretta. Rimanemmo nello stesso rione, ma ci trasferimmo in viaPadovan, 12 al secondo piano. Da questo punto, anche se velati, comincia-no i miei ricordi personali con l’apporto di episodi che mi furono racconta-ti in seguito, e che io ho allineato ai tempi reali.

A papà, come a quasi tutti gli uomini allora trentenni, giunse la cartoli-na per presentarsi alla visita medica per l’idoneità al servizio militare edessere mandato al fronte a combattere. Mamma si sentì scossa e disperata,sia per la paura di non rivedere più papà, sia per il fatto di semplice soprav-vivenza in mancanza dell’unica fonte di reddito. Lei infatti, non avendo piùné la mamma né la suocera, non avrebbe potuto ritornare al suo lavoro,abbandonato poco prima che io nascessi, non avendo dove e a chi lasciar-mi. A questo punto, il buon Dio ci aiutò davvero, papà, causa insufficienzatoracica e una leggera extra sistole, venne destinato ad eventuale serviziocivile di assistenza territoriale e non dovette lasciare il suo lavoro di assicu-ratore.

Da questo momento, io, pur giocando con quei quasi inesistenti giocat-toli che il periodo offriva, ebbi modo di seguire gli avvenimenti bellici tra-

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smessi da notiziari radio e commentati dagli adulti. Il bisogno di stare assie-me di confortarsi e consolarsi l’un l’altro, fece in modo che quattro fami-glie, che abitavano lo stesso palazzo di via Padovan, si frequentassero quasigiornalmente. La mia famiglia, quella delle due famiglie, al terzo piano,sopra di noi, i signori Vesselizza e Contento e quella del quarto piano prof.Bidussi, quasi quotidianamente ci si vedeva, si scambiavano opinioni, idee,valutazioni e considerazioni sull’andamento della guerra, sull’economia cheprecipitava e sulle difficoltà di approvvigionamento alimentare.

La solidarietà di queste quattro famiglie, tutte con figli piccoli, fu unacosa che, ancor oggi, mi tocca il cuore nel pensare quanta fraternità, nelmomento del bisogno, possa scaturire dagli animi al contrario di oggi dovel’egoismo ed il menefreghismo imperano.

Pur nelle ristrettezze, mi piace ricordare, le serate natalizie o quelle delCapodanno che si passava, a turno, ora a casa di uno, ora a casa dell’altro. Sifaceva una tavolata unica, ognuno portava le sue seggiole, ed ognuno por-tava quello che era riuscito a mettere insieme per creare un pasto, un dolce,un qualcosa che potesse far felici soprattutto i bambini e far sentir loro,almeno in quelle occasioni, il calore della Festa.

Devo premettere che papà lavorava alla R.A.S. e che la direzione, nellimite delle sue possibilità, cercò di aiutare le famiglie dei dipendenti, for-nendo ogni quindici giorni dei pacchi viveri che contenevano sempre lestesse cose, farina di polenta, marmellata, fagioli, riso e di tanto in tanto unpo’ di zucchero e di surrogato di caffè, orzo torrefatto, per intenderci.

Mamma era affetta da ulcera duodenale-gastrica e pertanto, con la tesse-ra annonaria, aveva diritto ad avere un uovo e mezzo litro di latte al giorno.Festa grande!! La mamma, sacrificando la sua ulcera, con la farina di polen-ta, l’uovo, un po’ di latte e un po’ di zucchero faceva un impasto che sten-deva con il mattarello, come fosse l’odierna pasta sfoglia, spalmava un po’di marmellata, arrotolava il tutto come fosse uno strudel, lo infornava queltanto che fosse necessario per cucinare la “pasta”, dopo di che faceva leporzioncine per noi ragazzi che divoravamo quella leccornia, quellaghiottoneria come il più grande dono piovuto dal cielo.

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Il signor Contento, gestiva, allora, uno spaccio rionale delle Cooperati-ve Operaie e ogni tanto riusciva ad avere un pezzo di lardo o di pancetta inpiù dal quale trattenere duecento o al massimo duecentocinquanta grammida portare a casa.

Altra festa grande!! La domenica seguente avremmo avuto a pranzo un“minestrone condito”, pensate, nientemeno che duecento grammi di pan-cetta per fare il minestrone per dodici persone: otto adulti e quattro bambi-ni. Poi una o due “napoletane”, per gli adulti, che bevevano il famoso “caf-fè” del pacco viveri di papà. La signora Vesselizza ogni tanto riusciva a pro-curare un fiasco di vino che, parenti dal Carso, portavano a lei di nascosto.Ma il vino lo si salvava per feste veramente importanti!

Infine il prof. Bidussi, quando era il suo turno per ospitare le altre fami-glie, assieme alla figlia Lauretta, che era la più grande di noi bambini, cideliziava suonando il pianoforte con pezzi di musica classica e con semplicimarcette e canzonette per noi bambini che, a tempo di musica, marciava-mo in fila indiana in corridoio.

Ma anche questo “paradiso” – per noi la guerra a Trieste era lontana - eradestinato a finire. Arrivammo al 1943, otto settembre, armistizio, soldatiitaliani che cercando di abbandonare la divisa, scappavano nel disperatotentativo di ritornare a casa sani e salvi. Le truppe tedesche avanzaronoinesorabili, occupando paesi, villaggi e città. Questo ricordo è vivo nellamia memoria, era sera, buio, chiusi in casa con le tapparelle abbassate, siudivano colpi di fucile, di pistola, qualche raffica di mitra. Non era il fron-te, ma per noi che della guerra, ancora, non avevamo avuto riscontro diret-to, sembrò il finimondo. Durò un paio d’ore, almeno per noi, nella nostrazona, tra via Padovan, dove abitavamo, la zona dell’ippodromo, via Rosset-ti, via Cumano, vicino alle caserme.

Il mattino dopo, sollevate le tapparelle, sembrò tutto tranquillo, perònon si vedeva nessuno che camminasse per le strade, i negozi avevano leserrande chiuse, era presto magari, ma no! nemmeno la panetteria né lalatteria erano aperte. Papà chiamò il suo ufficio per sentire come andava incentro città. Il portiere di turno rispose: - Signor Weiss resti a casa, qui nonc’è nessuno, il mio turno finiva alle sei, siamo alle sette e trenta e non ho

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avuto ancora il cambio, io sono chiuso dentro e non mi fido di uscire perandare a casa.

Papà allora aprì la radio, si sentì una voce imperiosa e gutturale chestava, quasi urlando, dicendo cose, per me incomprensibili, in una linguache non avevo mai sentito, seguita quasi subito da una seconda voce che,parlando male l’italiano, traduceva quello che “l’urlante” aveva appena det-to. Ero troppo piccolo per capire esattamente cosa stesse succedendo, peròricordo che papà sbiancò in volto e, abbracciando la mamma e me, disse: -Io non sono un cattolico praticante, ma questa volta bisogna pregare ilSignore con tutto il cuore.

Pian piano, i giorni seguenti, le strade si rianimarono, la vita bene omale, ricominciò. Per strada non si videro più divise militari grigio verdicon il moschetto, in cambio si videro divise scure con elmi lucidi, con il“para orecchie”, mitra a tracolla, passo marziale e sguardo truce.

Cominciarono pure le incursioni aeree da parte degli alleati. Dapprimagli allarmi aerei suonarono a vuoto. Noi comunque, per precauzione si cor-reva nei rifugi antiaerei che, al principio, erano costituiti dagli scantinatidegli edifici il cui soffitto era puntellato con delle travi in legno, fino atanto che non suonava la sirena del cessato allarme.

Ricordo, un giorno, era inverno ed io ebbi la febbre dovuta ad una pro-babile infreddatura, suonò l’allarme e scendemmo in cantina, al freddo,giunse il medico e disse:

- Donete, cossa fe qua? Andé a casa in caldo, no vedé che sti travi zinzolacome i denti de mia nona. (Signore cosa fate qui? Rientrate in casa al caldo,non vedete che questa travatura dondola come i denti di mia nonna?)

Erano infatti aerei che sorvolavano la nostra città, ma erano diretti suobbiettivi ben più a nord, verso la Germania.

Memori dei consiglio che ci dette il medico, ed essendo sempre piùfrequenti gli allarmi aerei, sintomo che il pericolo si stava avvicinando, lemamme, in casa, scelsero di andare in un luogo più sicuro, anche se piùscomodo, la galleria che si apriva in “piazza del fien”.

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Caso voleva che l’allarme aereo suonasse spesso ad ora di pranzo, quan-do la minestra di risi e fagioli era in piatto. Molla tutto, corri nel rifugio chesi trovava nell’allora su citata e non completata galleria di piazza Foraggi, epazientemente si aspettava il cessato allarme che suonava dopo un’orettacirca. Lentamente si tornava a casa e, quel giorno a pranzo, “crostata” fred-da di risi e fagioli, ma era buona lo stesso.

In ottobre del 1943 sarei dovuto andare a scuola, alle elementari in viaDonadoni, ma come fare, pochi genitori infatti mandarono i loro bambinialle scuole elementari, infatti se mentre si era a scuola fosse suonato l’allar-me aereo, come avrebbero fatto i genitori a prelevare i loro bambini? Eccoche, la signora Contento, essendo lei maestra anche se non esercitava laprofessione, si offrì di farci fare la prima classe elementare in casa sua a me,a Sergio Vesselizza, che aveva un anno meno di me e a Lauretta Bidussi chene aveva quasi uno di più. Ricordo, tante “bordurine” tante “aste e filetto”,un po’ l’alfabeto, qualche numero, scrivere poco, leggere meno. E così an-che l’anno dopo, sempre in casa, quella che doveva essere la seconda classe.Alla fine della guerra, finalmente andai ad una scuola vera e, dopo un esa-me sommario che teneva conto più dell’età che del sapere, mi fecero fre-quentare direttamente la terza elementare. Questa carenza dei primi rudi-menti, della grammatica, dei “conti”, del leggere e scrivere, condizionaro-no tutto il prosieguo dei miei studi, facendo penare me e soprattutto i mieigenitori.

In casa, l’inverno, si stava vestiti con maglioni di lana e pantaloni pesan-ti, infatti l’impianto di riscaldamento lo si faceva andare al minimo e sola-mente quando era proprio necessario. Il combustibile da bruciare nella stu-fa era il più disparato, carbone ce n’era poco in quanto esso servivaprettamente per la “macchina bellica”. I rifornimenti si facevano d’estate egelosamente si dosavano nel periodo invernale. Ricordo che mamma met-teva a mollo nella vasca da bagno vecchi giornali, quando erano ben impre-gnati d’acqua, li strizzava forte forte dando ad essi la forma di una palladelle dimensioni di un pugno. Dopo aver compresso ben bene la carta e

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tolta più acqua possibile, le palle venivano messe ad asciugare al sole, giran-dole più volte al giorno. Asciugando, esse si compattavano e diventavanopesanti, pronte per essere salvate in cantina o in soffitta per essere bruciatel’inverno successivo. Infatti la carta così compressa ed asciutta bruciava len-tamente, quasi fosse carbone, e sprigionava tanto calore. Altra fonte di ca-lore era la legna. Anche quella non era facile procurarsela e ricordo che disabato o di domenica, con capaci sacchi di iuta, io, mamma e papà, comemolti altri triestini, ci si recava al “Boschetto” a raccogliere rami, pigne etutto quello che era in grado di bruciare. Allora avevo sette anni, ma lascena a cui ho assistito domenica 4 giugno 1944, penso che non la dimen-ticherò mai e rimarrà impressa nella mia memoria quasi fosse un film dacineteca. Eravamo intenti, come al solito, a raccogliere legna, quando inlontananza sentimmo come un sordo boato, continuo, insistente, fastidio-so che fece girare la testa a noi e a tutti i presenti, verso il mare, versoMonfalcone. Vedemmo, alti nel cielo, un nuvolo di aerei che, lentamente,si disposero in cerchio e dei grappoli di “punti neri” scesero verso la cittadi-na. Quando i “punti neri” vennero a contatto con il suolo, enormi palle difuoco seguite da dense colonne di fumo nero salirono verso il cielo, quasi avoler ritornare al punto da cui erano partite. Stavano bombardando i can-tieri navali di Monfalcone ma, come ben si sa, parecchie bombe colpironoanche case di civile abitazione, provocando gravi danni e vittime.

Questo era il preludio a quello che sarebbe successo, pochi giorni dopo,a Trieste. Infatti era la sera del 9 giugno 1944, ci si accingeva ad andare aletto quando, improvvisamente, suonò l’allarme aereo, a lungo, più a lungodel solito, le sirene laceravano l’aria, con un fischio assordante, e sembrava-no non smettere mai. Ci vestimmo velocemente e, di corsa, scendemmo lescale, ci trovammo in strada con un chiarore tale che sembrava ci fosse ilsole a mezzogiorno. Cosa stava succedendo? La gente gridava:

-“Stanno buttando le bombe al fosforo.... Sono bombe incendiarie conil paracadute per colpire meglio i bersagli.....Ci vogliono bruciare vivi....Intanto papà, tenendo stretti per mano la mamma e me, ci faceva correre,addossati ai muri delle case, verso la galleria antiaerea. Una persona, anzia-

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na, uscita da un portone dell’allora viale Sonnino, vedendo tutto questochiarore, si fermò, lanciò un urlo portandosi le mani al petto, e cadde river-sa a terra. Un infarto provocato, probabilmente, dalla paura. Pianti, grida,disperazione di due donne, forse la moglie e la figlia......e tutti, a frotte,correre verso la galleria. In aria si sentivano, assordanti, i rombi degli aerei,sicuramente a bassa quota. I soliti, quelli “che sanno”, gridavano:

- Correte, ora scendono e ci mitragliano....No, no, lanceranno igas....macché gas e gas ci sono già le bombe al fosforo....Finalmente en-trammo in galleria.

Anche all’interno si sentiva fortissimo il rombo degli aerei, sembravafossero, anche loro, dentro la galleria. Tutte le famiglie riunite, abbracciatestrette, oserei dire tremanti, in silenzio, in un chiarore surreale creato daquelle strane luci che scendevano dal cielo, in attesa di sentire il rumorelacerante degli scoppi delle bombe....niente! Dopo una quindicina di mi-nuti, il chiarore si affievolì gradatamente fino a rimanere buio pesto. In quae in là si accese qualche torcia elettrica, la gente cominciò a sussurrare qual-che cosa mentre si sentiva il rombo begli aerei che si allontanava e diventavasempre più debole fino a sparire del tutto. Ma cosa era successo? Cosa avran-no fatto? È mai possibile tanto rumore per nulla? La gente si interrogò, leprime frasi, dopo la paura, salirono alle labbra. Qualcuno azzardò che fos-sero dei razzi illuminanti, dei bengala lanciati con il paracadute per poterfotografare la città.

Intanto era tornata la luce elettrica, e la gente cominciò da defluire pertornarsene a casa, lentamente, quasi rassegnati, con la paura che questofosse l’inizio di ben più tragiche situazioni. I presagi, quasi sempre, in situa-zioni del genere sono facili da formulare. La notte passò tranquilla, il mat-tino seguente la città riprese la solita routine quotidiana, ma la mente erarimasta a quella inspiegabile nottata.

A mezza mattina, del 10 giugno 1944, nuovamente laceranti e prolun-gate le sirene dell’allarme aereo suonarono. Papà era al lavoro, in piazzaMazzini, ora p.zza della Repubblica, in città, la mamma e io, corremmonuovamente verso la galleria, però questa volta l’allarme aereo fu suonato in

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ritardo, infatti già quando giungemmo nell’allora “piazza del fien” si sentì ilrombo assordante degli aerei. La mamma accelerò il passo, tirandomi conforza per mano, io correvo e di tanto in tanto mi giravo per vedere cosastesse succedendo. Imboccammo la galleria e fatti, forse, dieci metri si sentìil primo fortissimo scoppio: io mi girai e vidi la casa all’angolo con la viaVergerio, sgretolarsi, lentamente, come fosse un film al rallentatore, la fac-ciata intera abbattersi sulla piazza in un nuvolo di polvere e pietre e matto-ni, rimbalzando, schizzare in tutte le direzioni. Una di queste pietre entròanche in galleria e mi passò a qualche metro di distanza prima di cadere aterra rotolando. Gli scoppi si susseguirono in un incredibile sequenza, pre-ceduti dall’inconfondibile sibilo che faceva la bomba cadendo. La galleriafu invasa da una polvere sottile provocata dagli intonaci che cadendo sisgretolavano, e da un acre odore di zolfo unito ad una puzza di bruciato cheprendeva il fiato. La gente urlava, agli anziani mancava il respiro, chiedeva-no aiuto. Tutti tenevano un fazzoletto bagnato d’acqua tra la bocca ed ilnaso, il caos era indescrivibile. Il tutto durò circa una mezz’ora, ma per noisembrò un’eternità. Le sirene del cessato allarme suonarono, sembravanosommesse, quasi, anche loro, spaventate ed incredule di quello che era suc-cesso. Uscimmo con calma, quasi a non voler vedere la scena che ci si sareb-be presentata. Questa volta il timore, la paura, l’angoscia furono più chefondate. Giunti all’aperto sembrò di essere giunti al primo girone dell’in-ferno. Edifici crollati, edifici lesionati, edifici che stavano bruciando, maquella che fu la scena più desolante e spaventosa era alla destra uscendo, difronte all’ippodromo. Infatti tutta l’area oggi occupata dai grattacieli diviale Ippodromo, piazza dei Foraggi, via del Ghirlandaio e l’area dell’odier-na Saul & Sadoch fino alla via Veruda era occupata dal “Pastificio Triesti-no”. Ed ecco spiegata la ricognizione notturna del nove giugno, servì alocalizzare appunto il pastificio, nel cui cortile erano pronti a partire per laGermania quaranta vagoni di pasta alimentare che non giunsero mai a de-stinazione ma che, al contrario, bruciarono per quattro o cinque giorni,formando una coltre di fumo nero che rese ancora più spettrale la scena.

Scossasi di dosso la prima impressionante visione, la mamma lanciò unurlo: - Oh Dio! la nostra casa!! – Con il passo sempre più accelerato scen-

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demmo il tratto di viale Sonnino, in mezzo a gente che gridava, piangeva, sidisperava, lamentandosi dei danni subiti o perfino di aver perso tutto. Gi-rato l’angolo con la via Padovan, per fortuna, vedemmo la nostra casa alme-no “in piedi”. Salimmo i gradini che portavano al secondo piano, aperta laporta, la scena che ci si presentò non fu piacevole però nemmeno tantotragica. Tutti i vetri delle finestre rotti, tende lacerate, calcinacci e polvereportati dentro dallo spostamento d’aria provocato dalle deflagrazioni dellebombe, un po’ dappertutto, un ombrello nero, chiuso, da uomo, in mezzoal corridoio........ non era di papà.

Papà, al cessato allarme, uscì dai sotterranei, molto profondi, che funge-vano da rifugio antiaereo, della Riunione Adriatica di Sicurtà, dove lavora-va, le strade erano piene di gente che correva in tutte le direzioni. L’atmo-sfera era pesante, ma non tragica, infatti il centro cittadino fu abbastanza“risparmiato” dalle bombe a parte qualche singolo caso. Le voci dicevanoche le zone più colpite erano S.Giacomo/Ponziana, a causa dei cantieri na-vali bombardati insistentemente e la parte alta di viale Sonnino e la zona diMontebello per il bombardamento subito dal Pastificio Triestino. Le lineetelefoniche erano interrotte, così le linee elettriche, il gas e l’acqua. Papànon poté pertanto né telefonare né prendere il tram o la filovia per correrea casa; giunto a piedi in piazza Goldoni, incrociò un conoscente che abitavain piazza del Perugino, e chiese:

- Pino, com’è su da noi??

– Cesare, un disastro, tutto raso al suolo, corro a vedere se si è salvatoqualche cosa, ciao!

Comprensibilmente, mio padre, che non era certamente un “coraggio-so” si sentì venir meno, le gambe divennero improvvisamente pesanti ecome un automa si diresse verso corso Garibaldi... piazza Impero....piazzaGaribaldi....viale Sonnino. Il suo pensiero era rivolto a noi e non certamen-te alla casa; se era tutto raso al suolo, eravamo riusciti a rifugiarci in galleria?eravamo vivi? ci avrebbe rivisti?

Con questi pensieri turbinanti nel cervello arrivò all’altezza della via

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della Raffineria, guardò in su e vide sì tante macerie, ma per fortuna nontutto era raso al suolo. Il sangue tornò ad affluire nelle vene, il passo siaccelerò, il respiro cominciò a divenire pesante perché il passo svelto diven-ne passo di corsa. Il viale Sonnino, che ha ottocento metri, sembrò avesseottocento chilometri, angolo dopo angolo giunse alla via Padovan, girò losguardo a sinistra e vide la casa....si mise a piangere. Strana reazione fa lapaura, le lacrime furono uno sfogo, una liberazione, lacrime di gioia in-somma, di corsa giunse al portone, salì i due piani di scale e ci saltò addos-so, ci abbracciò, tremava tutto!

La città era in ginocchio, ci vollero parecchi giorni perché i servizi essen-ziali fossero di nuovo disponibili.

Nel frattempo illuminammo gli ambienti con le candele, per cuocereaccendemmo il focolare a legna che era in cucina, l’acqua prelevata dalleautobotti doveva essere bollita prima di essere usata. Per fortuna era Giu-gno e non faceva tanto freddo perché stare in casa senza vetri alle finestrenon era certamente piacevole e trovarne da sostituire era un’impresa dispe-rata. Mamma mise, nelle stanze, delle vecchie coperte sulle finestre con letapparelle abbassate per proteggerci, durante la notte, dal freddo. Ci volleromesi, quasi fino all’inizio dell’autunno, per ridare all’appartamento un aspet-to vivibile.

Non tutto era finito così, purtroppo, i generi alimentari di prima neces-sità scarseggiarono sempre di più, pane poco, latte un miraggio, i negozi dialimentari, desolatamente vuoti. Quando un alimentarista veniva riforni-to, la notizia dilagava a macchia d’olio e le massaie si mettevano in fila,anche per ore, nella speranza di riuscire a prendere qualcosa, ancorché conla tessera annonaria. Non sempre l’attesa era coronata da successo, quandogiungeva il proprio turno non era rimasto niente o quasi. I bombardamenticontinuarono, con minor intensità, ma continuarono. Obiettivi illogici, inzone dove non c’erano né fabbriche, né caserme, né insediamenti militari,si diceva che gli aerei, ritornando dalla Germania, scaricassero le bomberesidue per alleggerire il peso degli aerei e che i piloti “giocassero” al tiro albersaglio scommettendo se avessero colpito questa o quella casa scelta a

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caso da lassù. Forse fu soltanto propaganda messa in giro dalla “voce” delregime contro quelli, che allora, erano i nemici e che poi sarebbero divenu-ti i liberatori......o no? Non lo sapremo mai!

L’inverno ritornò, più freddo che mai. I raduni serali delle quattro fami-glie continuarono, anche perché, a turno, si riscaldava un appartamentosolo, la sera, prima di andare a dormire risparmiando così parecchio com-bustibile. Pur essendo piccolo, sentii nell’aria che qualche cosa stesse cam-biando. Le quattro mamme si riunivano in cucina, a chiacchierare, assiemea noi bambini che, in un angolo giocavamo. Gli uomini si ritiravano insalotto, si chiudevano dentro, e, stando in silenzio al buio per mezz’oraerano assenti, come se non ci fossero. Io non riuscii a capire questo atteg-giamento, neanche quando usciti, bisbigliavano mezze parole alle mogli,per me, frasi senza senso.

Ogni sera la stessa cosa e poi tutto ritornava “normale”. Le donne chiac-chieravano, i bambini giocavano, gli uomini, talvolta, facevano una partitaa carte. Una cosa notai, quasi per certo, che gli animi erano un po’ piùsereni, distesi, i volti abbozzavano, di tanto in tanto, un mezzo sorriso.Cosa c’era mai da sorridere in quella desolazione, in quella miseria, in quel-la mancanza di tutto, dove la sera ci si vedeva e basta, raramente un caffèd’orzo, saltuariamente mezzo litro di vino in otto adulti o un cucchiaino dimarmellata su di una fettina di polenta fredda per i bambini. Cosa c’era dasorridere?

Dovetti aspettare la fine della guerra per saperlo. Quelle “sparizioni”serali di mezz’ora degli uomini erano dovute ad un fatto ben preciso, sichiudevano dentro al salotto con una coperta sulla testa, uno accanto all’al-tro, coprivano la radio per ascoltare “Radio Londra” che per bocca del co-lonnello Stevens, in uno stentato italiano, mandava messaggi di speranzaalle popolazioni italiane ancora da “liberare”. Infatti, fine 1944 - inizi 1945gran parte dell’Italia, cominciando dall’Italia meridionale, aveva già scac-ciato i Tedeschi e le truppe alleate, lentamente e, vincendo le sacche diresistenza, si avvicinarono al nord Italia.

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La zona orientale, come sempre, ed ancor oggi, fu lasciata per ultima.Ma qui entrarono in gioco grossi accordi internazionali, infatti le truppealleate si fermarono alle “porte” di Trieste per permettere alle truppe jugo-slave del maresciallo Josip Broz, detto Tito, di entrare “vittorioso” in Trie-ste. Infatti tra il 30 aprile ed il 1 maggio 1945 un migliaio di “soldati” delIX corpus entrarono in una Trieste deserta. La popolazione barricata den-tro le case, porte e finestre sbarrate, in silenzio, accettò, anzi subì e nonaccolse, questi “liberatori”. Loro pensarono di aver conquistato la città, masi resero ben presto conto che la guarnigione tedesca, ancor rimasta sullapiazza di Trieste, si barricò dentro il castello di S.Giusto e dichiarò che sisarebbe arresa solamente alle truppe anglo-americane. Per tutti i quarantagiorni di occupazione jugoslava, il castello fu assediato, ma gli occupantinon si arresero ed anzi respinsero qualsiasi tentativo di conquista da partedei militari jugoslavi, che erano dotati di scarsissimi mezzi bellici.

Infatti più che un’occupazione militare, fu un’occupazione di bandepartigiane, che si abbandonarono a veri e propri saccheggi e deportazioni.L’essere italiano, istriano ed aver occupato un posto pubblico di una certarilevanza o, più semplicemente, accettando semplici denunce verbali cheavessero detto: “Quello era simpatizzante fascista”, era già motivo sufficien-te per essere arrestato, sommariamente processato e condannato a mortemediante infoibamento.

Purtroppo vissi questa terribile esperienza, che non auguro a nessuno,verso il 20 maggio 1945. Le pattuglie dei miliziani che percorrevano le viecittadine con passo poco militaresco e con un andamento oscillante, eranochiamate dalla popolazione: “le rughe”. Esse percorrevano le vie cittadine esi sentivano arrivare parecchio tempo prima, vuoi per le scarpe chiodate,vuoi per il tintinnare dei nastri di pallottole che portavano, copiosi, intornoal collo. Purtroppo, un giorno, una di queste “rughe” imboccò la via Padovan,lentamente e con i mitra in mano, scrutando i numeri civici su portonidelle case. Papà, mamma ed io eravamo in casa e sbirciavamo attraverso legriglie semiaperte delle tapparelle cosa stesse succedendo. Si fermarono da-vanti al portone con il numero dispari di fronte a noi, si girarono, attraver-sarono la strada e si diressero davanti al portone del n° 14, neanche lì anda-

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va bene, si avvicinarono al nostro portone, si fermarono, era chiuso. Con ilcalcio del mitra cominciarono a battere gridando, in una lingua sconosciu-ta, frasi incomprensibili, sembrava volessero buttare giù il portone. Non socome o da chi il portone venne aperto. Noi tre, in silenzio, abbracciatistretti stretti, trattenendo il respiro e tirando l’orecchio seguimmo la se-quenza dei movimenti della pattuglia. Fermata al piano terreno, probabil-mente a leggere i nomi sul campanello, passo pesante li sentimmo salire alprimo piano, prima davanti ad una porta poi davanti all’altra. Niente, altrorumore di passi su per le scale, papà tremava, mamma pure, mani strettenelle mani fino a farsi male, io mi morsi la lingua per non gridare, lelacrime scesero dagli occhi. Momenti interminabili, silenzio davanti allanostra porta: paura, angoscia, panico, spavento, terrore, batticuore, trepi-dazione, turbamento.... tutto quello che si poteva provare in quel momen-to insomma. Probabilmente un attimo, un’eternità, una vita, il tempo nonebbe più senso, credo che allora capii cosa significhi “infinito”. Ritornò ilrumore di passi, la porta di fronte, di nuovo i passi salirono le scale, sifermarono sopra di noi, ancora niente, altro rumore, la porta di fronte,attimi di silenzio. Come un colpo di cannone nel silenzio di una notteinfinita sentimmo, nuovamente, il calcio del mitra battere insistentementesulla porta, venne sfondata.....il signor Contento.....non lo vedemmo più .

Il signor Contento, quella persona mite e gentile, gerente di un negoziodi alimentari che, se poteva, aiutava la gente, quello del pezzo di pancettada due etti per fare il minestrone per dodici persone, quello che con papà,Vesselizza e Bidussi ascoltava il colonnello Stevens da radio Londra, e per-tanto, ascoltando la voce degli alleati, doveva essere per forza o fascista ofilo nazista perciò doveva venir arrestato ed ucciso in nome della “libertàdei popoli”.

I giorni passarono, il terrore rimase, la vita sembrava scorrere per inerzia,gran parte della gente era come un automa, quello che faceva, lo faceva auto-maticamente, con l’apatia di cose consuete, di cose scontate. Non c’era entu-siasmo, calore, passione, fervore, alacrità, gioia di vivere insomma; si vivevaperché si respirava ed il cuore, anche se pieno di pena, batteva ancora.

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Papà andava in ufficio, come al solito, però non c’era nulla da fare. Ladirezione di Milano chiedeva notizie, aveva bisogno di pratiche, ma i colle-gamenti tramite corriere postale erano impensabili. Fu così che un altodirigente, qui di Trieste, accompagnato da mio padre, si recò al comandodelle truppe di occupazione jugoslave nella speranza di ottenere il permessodi poter portare un plico di documenti presso l’agenzia di Monfalcone per-ché, a sua volta, mandasse, per vie ordinarie, il plico a Milano. Scortati dasoldati armati fino ai denti, furono ammessi al cospetto del “comandante”circondato da altri “ufficiali”. Facendo finta di capire quello che il dirigentedisse loro, il comandante, in un italiano stentato ed approssimativo senten-ziò:- Nema problema, mi ti dago permesso per confin con Italija per tuoomo. Il dirigente disse: - Molto gentile, grazie, ci sarebbe proprio necessa-rio far pervenire alla direzione di Milano un pacco di documenti e così ilsignor Weiss, qui presente, accompagnato da un nostro autista potrebbeandare alla nostra filiale di Monfalcone per consegnare il pacco. Il coman-dante, sentendosi assai importante, gonfiò il petto e replicò:- Mi ti ga dito,nema problema, e preso un pezzo di carta ed una penna scrisse, brevemen-te, qualche cosa, appose una diecina di timbri vari, piegò il foglio e lo con-segnò al dirigente. Questi, ringraziando, porse la mano al “comandante”,questi si alzò, si mise sull’attenti, alzò il braccio con il pugno chiuso e dis-se:- Zivel Tito!, e si rimise a sedere lasciando il dirigente, imbarazzato con lamano tesa. Riavutisi, il dirigente, stringendo in mano il biglietto scritto dalcomandante, e mio padre si voltarono ed uscirono, sempre scortati, fino instrada.

Senza voltarsi si allontanarono il più velocemente possibile ritornando,ben presto, in piazza Mazzini, all’interno del palazzo.

- Caro Weiss - disse il dirigente - abbiamo finalmente il lasciapassareintestato a lei per portare i tanto sospirati documenti a Monfalcone.

Prese lentamente il foglio, per consegnarlo a papà, lo aprì, lesse, sgranògli occhi, la bocca si aperse, il mento cadde, non una parola uscì dalla boc-ca. Porse lentamente il foglio a mio padre che lo prese svelto, con curiosità,lo girò a sé e lesse ad alta voce:- Omo pol ndar su e zo per Monfalcon.

Penso che questa frase finale possa sintetizzare il periodo dei quaranta

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giorni che dovemmo vivere.

Quaranta giorni, infatti, finalmente, il 9 giugno 1945 le truppe anglo-americane, che furono attestate tra Monfalcone e Trieste, iniziarono la mar-cia di avvicinamento e, in breve tempo, senza trovare resistenza alcuna en-trarono a Trieste, accolti da gente finalmente festante, che agitava bandiereitaliane, abbracciando dei veri soldati, puliti, sorridenti e cordiali che sfila-vano su camion, carri armati, jeep, motociclette e non straccioni sporchi, apiedi o su carri trainati da buoi. L’incubo era finito. Lo stesso 9 Giugno ilponte levatoio del castello di San Giusto, si abbassò e un centinaio di solda-ti tedeschi uscirono con le mani alte in segno di resa a veri soldati.

La vita cominciò a migliorare, i viveri cominciarono a giungere, diecigiorni dopo, il 19 Giugno io avrei festeggiato i miei otto anni e per laprima volta in vita mia, anche se breve, potei vedere, toccare, assaggiare unatavoletta di cioccolata, caramelle e veri dolci.

Trieste, comunque, era destinata ad essere contesa, strumento politicoin mano ai “grandi” della storia, di quelli che, in quel momento, facevano ilbello ed il cattivo tempo.

Un confine provvisorio di occupazione, chiamato linea Morgan dal nomedel generale inglese da cui fu negoziato, lasciò così la città in possesso degliAnglo-Americani e la maggior parte della penisola istriana sotto controllojugoslavo. Dopo lunghi contrasti si decise poi, il 3 luglio 1946, che tutti iterritori ad est di una nuova linea passassero alla Jugoslavia mente quelli aovest avrebbero dovuto formare il Territorio Libero di Trieste. Il trattato dipace di Parigi del 10 febbraio 1947 confermò l’esistenza di questo Territo-rio Libero, diviso in Zona A, sotto occupazione anglo-americana e unaZona B sotto occupazione jugoslava. L’occupazione avrebbe dovuto esseresolo temporanea, finché il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. avesse no-minato un governatore neutrale con giurisdizione su tutto il territorio, mapoiché non si raggiunse mai un accordo sulla persona da designare si pro-trasse in realtà per anni.

Ne conseguì che l’occupazione anglo-americana continuò “provvisoria-

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mente” per nove anni. Le truppe americane tennero l’occupazione militare,mentre gli Inglesi ressero la parte amministrativa, civile e d’ordine pubbli-co. Infatti istituirono il corpo della Polizia Civile, che era formato da citta-dini italiani per i ranghi “bassi” mentre gli ufficiali erano tutti inglesi. Ledivise furono copiate dai “bobbies” inglesi, tant’è vero che, noi, non essen-do abituati a quel genere di divise chiamammo scherzosamente gli agentidella Polizia Civile: “cerini” per la loro somiglianza estetica con gli omoni-mi fiammiferi.

Durante il periodo di amministrazione alleata l’economia della cittàrifiorì, crearono molti posti di lavoro e la disoccupazione era quasi del tuttoscomparsa. I militari, specialmente gli Americani, avevano una certa dispo-nibilità finanziaria e, non avendo altro da fare, durante le ore di libertà dalservizio si riversavano nei bar, trattorie, ristoranti e in tutti quei locali pub-blici che dessero loro un po’ di svago. Non c’era bar, caffè o ristorantino,che non avesse un angolino libero e non si attrezzasse con piccoli complessinimusicali per allietare le ore libere dei militari. In viale XX Settembre, quasitutti i bar, le gelaterie o le pizzerie che avessero il posteggio esterno di tavo-lini, avevano pure la musica dal vivo, magari solo il pianista, così a Barcola,lungo le rive, e fin anche in locali rionali e dell’altipiano, per non parlaredella famosa taverna Dreher, meta per lo più di triestini che trascorrevanointerminabili serate, in allegria, cantando in coro le allegre canzoni triestinetra un “piatto caldo Dreher” “gnocchi de pan con le luganighe o con ilgoulash” e tanti altri piatti della tradizione triestina, il tutto innaffiato daboccali di spumeggiante birra..

Molti musicisti triestini divennero famosi grazie a questa attività, infatticosì hanno iniziato il maestro Guido Cergolj, Lellio Lutazzi, Ferruccio Ri-cordi (divenuto poi in arte Teddy Reno), Uccio Augustini, il maestroManzetti e tanti e tanti altri dei quali ora mi sfuggono i nomi.

Intorno a questa grossa fetta di mercato, ruotava una fonte di lavoroindotto quasi inesauribile. Allora avevamo, qui a Trieste, la famosa fabbricadi birra Dreher ed, essendo gli Americani fortissimi consumatori di birra,fu necessario programmare la fabbricazione di birra a ciclo continuo, 24

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ore su 24. Venne creata, in località Prosecco, sull’altipiano, uno stabilimen-to, unico in Italia, che produceva la famosa Coca-Cola.

C’era anche chi, approfittando della situazione, si procurava degli in-troiti illeciti. Per tutti, amo ricordarne uno che, pur essendo il massimodella truffa, lo considero anche il massimo dell’ingegno nell’arte dell’arran-giarsi a spese degli altri. Era abitudine dei soldati americani di sedersi agruppi nei bar, mettere sul tavolo una banconota di grosso taglio, cinque odiecimila lire, ed ordinare birra per tutti. Bisogna tener presente che, aquell’epoca, una birra costava cinquanta o al massimo cento lire. Arrivava ilcameriere con il vassoio, serviva le birre, prendeva la banconota di grossotaglio e metteva il resto in banconote, una sopra l’altra, al posto della ban-conota tolta. Gli spiccioli li metteva al centro del tavolo che, quasi sempre,costituivano la mancia e se li riprendeva. Passava un po’ di tempo e gliavventori chiedevano un altro “giro” di birre, il cameriere arrivava, poggia-va il vassoio sul tavolo, serviva le birre, alzava il vassoio e prendeva dal“pacchetto” la banconota per pagare le consumazioni, gli spiccioli al centroche venivano immancabilmente ripresi quale mancia.

A questo punto chi, non conoscendo l’episodio, direbbe:

- Beh, e dove sta la truffa?E qui salta fuori l’ingegno dell’inventore che, se non fosse stato fatto da

un triestino, si potrebbe pensare alle famose truffe alla napolatana. La cosaera semplice, il vassoio appoggiato sul tavolo, sopra il pacchetto di banco-note, aveva il fondo bagnato d’acqua e, quando il cameriere lo sollevava,immancabilmente rimanevano “attaccate” una o due banconote. Pensatequesta cosa ripetuta ogni sera, moltiplicata per il numero di tavoli assegnatia quel cameriere e, per gli anni di servizio, a quanto potrebbe ammontare ilmaltolto!

Tutto questo era destinato a finire, non solo i guadagni illeciti, ma ancheil “benessere” della città.

Con il memorandum d’intesa del 5 ottobre 1954 la zona A passò sotto

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l’amministrazione civile italiana e la zona B, leggermente ampliata, sottol’amministrazione jugoslava. Con la dissoluzione della Jugoslavia del 1991,è subentrata la Slovenia nel controllo della zona B.

Nell’ottobre del 1954 ci fu l’ultimo grande esodo dei cittadini italianiresidenti nei territori annessi alla Jugoslavia, vista ormai l’impossibilità diuna, in qual si voglia modo, ricongiunzione al territorio di Trieste e all’Ita-lia pertanto. Il lavoro cominciò a scarseggiare, non servivano più tanti ca-merieri, cuochi, baristi, ecc......la fabbrica di birra Dreher riprese il ciclo dilavorazione in due turni soltanto, la “fabbrica” di Coca-Cola divenne sola-mente stabilimento di imbottigliamento e non più di produzione. Tutti icivili, polizia compresa, che lavorarono per l’Amministrazione alleata per-sero il posto di lavoro e pertanto migliaia di persone, Triestini specialmen-te, presero la via dell’emigrazione: l’Australia, qualcuno Stati Uniti, qualcu-no Canada.

Vennero incrementati i centri di raccolta, detti “campi profughi”, barac-che in legno e, anche se ben attrezzate sempre baracche erano, in attesa chevenissero costruite delle case per alloggiare questi nostri connazionali che,fuggendo, avevano abbandonato tutto. Ottennero dei punteggi, in basealla legge 336, che dava loro la possibilità di accedere ai posti di lavoro condiritto di priorità rispetto agli altri cittadini italiani. Essendo, come detto,di molto calata la richiesta di manodopera, ed essendo preferenziati i profu-ghi dall’Istria, molti Triestini, non trovando lavoro, scelsero di partire ap-punto per cercare la fortuna in terre lontane.

Qui, politicamente, sorsero le prime incomprensioni, infatti la stragrandemaggioranza dei Triestini affermavano: - È sacrosantamente giusto aiutarequesti nostri fratelli dell’Istria e della Dalmazia a rifarsi una vita in patria,ma non solo qui a Trieste, bensì su tutto il territorio nazionale, in modo danon penalizzare, nel mondo del lavoro, solamente i cittadini di Trieste. IlGoverno di allora fece orecchie da mercante e se ne lavò le mani.

Non tutti gli esuli lasciarono beni consistenti nelle mani dell’occupantepopolazione jugoslava, ma sicuramente avevano una casa che, anche se pic-cola, era in muratura ed era la calda casa della famiglia e, non certamente, la

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fredda baracca in legno assegnata come alloggio di fortuna che durò, alcontrario, parecchi anni.

Una grande dote degli Istriani, come dei Friulani del resto e di tutta lapopolazione rurale o montana, è la tenacia, il non rassegnarsi alle avversitàma, al contrario, stringere i denti, tirarsi su le maniche e con sacrifici, rico-minciare da capo.

Questo gli esuli fecero, si adattarono a fare tutti i lavori, purché onesti.Provenivano dalle fabbriche conserviere del pesce di Isola d’Istria, dagli uf-fici, banche, cantieri e fabbriche di Pola e Fiume, ma soprattutto dalla cam-pagna ed in special modo dai vigneti che, numerosi, ricoprivano le bellecolline dell’Istria.

Ma a Trieste non rifiutarono nessun tipo di lavoro, fecero un po’ ditutto, i muratori, gli imbianchini, i netturbini, gli osti, qualsiasi cosa pur diraggranellare i soldi per mantenere decorosamente la famiglia, non conce-dendosi lussi o svaghi per accantonare i soldi per realizzare il loro sogno,che è poi il sogno di tutti, di poter riavere una casa propria e non unaassegnata, ancorché con affitti modesti, ma sempre assegnata e non sua.

Gli esuli istriani, anche se con difficoltà, ebbero la “fortuna” di vivere inuna nazione che, bene o male, era la loro. Non così i Triestini, emigrati interre lontane, in climi tanto differenti, con lingua, mentalità, usi, costumi,consuetudini, tradizioni, sistemi politici e modo di vivere diametralmenteopposti a quelli che furono costretti, non per colpa loro, ad abbandonare.

Molti ebbero la fortuna o la capacità di integrarsi nel nuovo tessutosociale, molti altri, invece, non riuscirono ad entrare, mentalmente, in que-sta nuova realtà. Parecchi, lavorando alacremente con perizia e professiona-lità, riuscirono a “bruciare le tappe” e crearsi uno spazio di una certa premi-nenza nella società che, dapprima, probabilmente, li aveva accolti con unacerta diffidenza.

Ebbi modo di conoscere alcuni emigranti che, parecchi anni dopo l’eso-do, vollero ritornare a Trieste, quali turisti, o per nostalgia o per rivedere

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parenti e amici o per far vedere la città natia ai loro figli nati e cresciuti nellanazione che li ospitava. Tutti, o quasi, avevano ormai ottenuto la cittadi-nanza australiana o statunitense o canadese, pochi vollero tenere la doppiacittadinanza.

Dal punto di vista affettivo la nostalgia dei luoghi natii, ovviamente,restò nei loro cuori, ma nessuno dico nessuno avrebbe voluto rientrare inpatria, considerando la nazione che li stava ospitando, la nuova patria, quellache riuscì a farli ritornare ad essere delle persone vive, che diede loro unlavoro e una nuova dignità di vita.

Così ci stiamo avvicinando verso la fine di questo racconto, siamo ormainel 1957, per me anno determinante, anno che segnerà una svolta, decisi-va, nella mia vita.

Un anno prima conobbi Nory, una splendida ragazza della quale miinnamorai subito, il classico colpo di fulmine, anche a lei non fui del tuttoindifferente, tant’è che ne parlò a casa sia alla mamma che al papà. Suopadre guardingo, come tutti i padri del resto, volle sapere com’era la situa-zione e visto che sarebbero dovuti passare ancora degli anni per finire lascuola, trovare lavoro con tutto quello che ne consegue, consigliò la figlia diandare calma e non precipitare le cose. Se fossero state rose sarebbero fioritee nel frattempo era bene che non ci vedessimo. Per fortuna erano rose!

Mentre ancora frequentavo la seconda classe della sezione ragioneriadell’Istituto tecnico L. Da Vinci, una domenica, lessi sul quotidiano localeun bando di concorso presentato dalla Cassa di Risparmio di Trieste perl’assunzione di ventiquattro commessi. Sapevo che non era il massimo del-l’aspirazione per chi avrebbe voluto diventare ragioniere, ma non potevorinunciare assolutamente a Nory e l’unico sistema per ricominciare a farprogetti era avere un lavoro sicuro.

Ai primi di febbraio presentai tutta la documentazione necessaria perpoter partecipare alla selezione mentre continuavo a “studiare”. Alla fine dimarzo dovetti sostenere la prova scritta, alla stazione marittima, eravamo in1200 candidati. Da quando presentai la domanda al giorno della prova

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scritta mi preparai, per quello che era possibile, su argomenti di attualità, dieconomia, di politica, di storia, di cronaca recente e passata, leggendo gior-nali e rotocalchi, sfogliando libri, ascoltando giornali radio, tutto quelloche sentivo cercavo di immagazzinare. Arrivò il fatidico giorno dell’esamescritto, tremavo tutto sia dalla paura che dall’emozione, il mattino la mam-ma mi diede una doppia camomilla al posto del caffellatte, ma non è chefosse servita molto. Pensai: Su che argomento verterà l’esame, chissà? Ma èinutile arrovellarsi il cervello, serve solo ad aumentare la tensione. Quel chesarà, sarà!!

Una marea di gente seduta su tavolini singoli abbastanza distanti l’unodall’altro in modo da non poter sbirciare sul foglio del vicino. Ogni tavolouna busta chiusa ed una biro accanto. Una ventina di persone, in piedi e insilenzio, passeggiavano tra i banchi ancorché prima che cominciassimo.

Alle nove in punto una persona chiese l’attenzione di tutti i presenti edisse: - Signori, per la prima volta abbiamo deciso di effettuare la provascritta con un nuovo sistema. Il sistema si chiama “Test attitudinale” ed èformulato con una serie di quiz da risolvere di volta in volta con dei tempiprestabiliti. Troverete una serie di foglietti e al mio comando cercherete dirisolvere il primo, dopo il tempo designato per questo quiz suonerò uncampanello e voi dovrete, anche se non ultimato, girarlo e porlo alla vostradestra e così via per tutta la serie. Buon lavoro ed auguri signori!

Noi candidati ci guardammo sbigottiti, mah! Cosa sarà di noi? Al trillodel campanello aprimmo le buste togliendo il pacchetto di foglietti cheponemmo sul banco. Secondo scampanellio, iniziammo ad interpretare ifoglietti. Sembravano i quiz della Settimana Enigmistica, domanda: Mette-te una crocetta su quale di questi oggetti che secondo voi non è pertinentecon gli altri.

C’erano disegnati, un coltello, un’accetta, una forbice, una sciabola, untemperino aperto, un coltellaccio per battere la carne e una mezzaluna peril trito. Dieci secondi di tempo! E così di seguito fino a finire i trenta fo-glietti che facevano parte del pacchetto di quiz.

- Ho fatto tutto giusto, in parte o niente?

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Questo era il dilemma che mi assalì tutto il pomeriggio e i giorni se-guenti.

Gli altri saranno stati capaci più, come o meno di me, chissà?

Dei 1200 sarebbero stati ammessi agli orali i primi 200 che avesseroottenuto il maggior numero di risposte esatte.

Ripresi gli studi, che avevo un po’ trascurato per prepararmi all’esame e,per il rotto della cuffia, venni promosso. Ai primi di giugno ricevetti unaraccomandata con ricevuta di ritorno da parte della Cassa di Risparmioche, aperta con trepidazione, mi comunicava di essere stato ammesso alcolloquio, che si sarebbe tenuto il venerdì successivo alle ore 15 in unasaletta al secondo piano della Sede Centrale. Il venerdì, già alle 14.30, pas-seggiavo dinanzi al palazzo di via Cassa di Risparmio, 10, i minuti nonpassavano mai e l’ansia aumentava, mi sudavano le mani e la gola era secca.Alle 14.45 entrai e chiesi al portinaio dove dovevo recarmi esattamente.Disse: - Prenda l’ascensore, vada al secondo piano, dall’ascensore a sinistra,la terza porta a destra, bussi ed entri. Così feci, bussai, entrai, c’era unaspecie di salottino dove, su delle seggiole, altri due ragazzi erano seduti. -Buon giorno - dissi e loro risposero:

- Buon giorno.Entrambi con la voce stentata e fioca, la cosa non mi aiutò di certo,

l’emozione e la tensione era comune, la si sentiva nell’aria, nel silenzio sem-brava quasi vibrasse. Nessuno apriva bocca, tutti e tre tendemmo l’orecchioverso la porta dove, probabilmente, era riunita la commissione d’esame chestava interrogando qualche altro candidato, nella speranza di sentire unavoce, qualche parola, capire insomma cosa ci stesse aspettando. Nulla!

Dei 200 rimasti, come detto, solo una ventina, appena il 10 per cento,sarebbero stati assunti. Gli esami orali venivano fatti a gruppi di quattro, ioero l’ultimo del gruppo di quel giorno. Improvvisamente, nel silenzio, sem-brò di sentire un’esplosione che ci fece trasalire, era solo la maniglia dellaporta che si abbassava, la porta si aprì ed un ragazzo uscì, richiudendoladietro a sé, lentamente, bianco in viso, tremante. Noi subito a chiedere: -Come è andata, era difficile, cosa ti hanno chiesto, quali erano gli argo-

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menti, hai saputo tutto, sono severi, come ti hanno trattato...?La porta si aprì di nuovo, un signore giovane apparve e disse: Chi di voi

è Giovanni Maestripieri?

- Io, signore.

- Venga, entri! - e la porta si richiuse.

Il ragazzo uscito era Lucio Fabbretti il quale, ripresosi un po’, disse: - Èstata dura, ma penso di avercela fatta, mi hanno chiesto un po’ di tutto,nozioni geografiche, qualche cenno storico, mi hanno fatto tradurre duefrasette in tedesco, lingua che avevo studiato a scuola; ho dovuto risolvereun semplice problema matematico, ma soprattutto mi hanno chiesto comela pensassi e cosa ne pensassi dell’attuale situazione economica e politicadella città e della nazione.

Facendo domande e commentando tra di noi, a voce bassa per non esse-re sentiti, il tempo volò. La porta si riaprì, ne uscì Maestripieri, anche luivisibilmente scosso, il signore giovane riapparve e disse: - Per favore, signo-ri, chi ha finito è pregato di andarsene, grazie. Amedeo Scordilli, prego,entri!

I due già esaminati dovettero uscire, il terzo entrò ed io rimasi solo,nuovamente nel silenzio dell’ambiente, ma con il trambusto dei miei pen-sieri vorticosi, incontrollabili. Ebbi paura di sentirmi male, tirai un profon-do respiro ripetendomi di rimanere calmo e cercando di autoconvincermiche, se ero riuscito ad entrare nei primi 200, ed era la cosa più difficile,avrei potuto farcela anche a passare il secondo turno. Quello che mi avreb-bero chiesto di nozionistico o lo avrei saputo o no e questo era un normaleesame, quasi come a scuola, dove chi sa, viene promosso e chi non sa vienebocciato. Quello che mi preoccupò di più fu, sempre se l’avessero chiesto aanche a me, era il mio pensiero sull’economia e sulla politica. - Di cheideologie politiche erano, di sinistra, di centro, di destra? Tutte le rispostesono esatte, basta sapere da che punto di vista si devono vedere gli argo-menti trattati per compiacere l’esaminatore.

Arrivò il mio turno, entrai, c’era un grande tavolo ovale pieno di libri,fogli, buste, però gli esaminatori, quattro persone in tutto, erano seduti a

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fianco, su delle poltroncine disposte a semicerchio oltre a quella, di fronte,predisposta per l’esaminando. Devo dire che fecero di tutto per mettermi amio agio, mi sorrisero, mi fecero accomodare, mi offrirono una sigaretta,che rifiutai cortesemente, mi chiesero se ero a mio agio e, alla mia timidaaffermazione un esaminatore prese una busta togliendo dei foglietti: era laprova scritta!

- Dunque, lei si chiama Giorgio Weiss.....parente, forse, di quel CesareWeiss che lavora alla R.A.S.?

- Si signore, è mio padre.

- Ah! Cara persona il Cesare, io ho parecchio da fare con lui per le poliz-ze a garanzia dei mutui che stipuliamo con la Compagnia di Assicurazionidove lavora. Bene...bene... ma veniamo a noi. Vedo che il test attitudinalenon è stato completato, mancano parecchie risposte, però devo dire, chenel contesto delle domande solo una diecina sono quelle importanti, lealtre sono state inserite per sviare l’attenzione su quelle che a noi maggior-mente interessava. Delle dieci importanti, mi compiaccio con lei, perchéha risposto esattamente ad otto di esse. Vogliamo ora vedere e commentarequelle sbagliate ed il perché lei pensava che la risposta data fosse quellagiusta?

La prima domanda era una domanda di carattere bancario che, io ora,cercherò di riproporre ricordando i termini essenziali e non nell’esattagrafia.

Una grande impresa di costruzioni, usa acquisire importanti appalti diopere pubbliche, da eseguirsi anche all’estero, doveva assumerne uno moltorilevante. Diede perciò incarico ad una banca di accreditare una somma didiversi milioni di dollari su un conto intestato ad un’altra Società, con sedea Londra. La banca eseguì prontamente l’operazione, purtroppo, in unagiornata in cui si verificò un anomalo rialzo della quotazione del dollaro. Inun paio di giorni però la quotazione rientrò nella normalità. Questa circo-stanza produsse quindi un notevolissimo danno economico all’impresa, chenon esitò a promuovere un giudizio contro l’istituto di credito.

I legali dell’impresa sostennero che avendo conferito un regolare man-

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dato alla banca per l’acquisto della valuta estera per il successivo accredito afavore della Società di Londra ed essendosi quel giorno verificato l’anomalorialzo della quotazione, la banca da mandataria diligente, avrebbe dovutorimandare di qualche giorno l’operazione ben sapendo che dopo poco tem-po la quotazione si sarebbe ristabilita ai valori normali. I legali pertantochiesero la condanna al risarcimento del danno subito.

I legali, difensori della banca, opposero il fatto che l’incarico conferitoall’Istituto consisteva nell’acquisto di valuta estera in Borsa. Perciò non sitrattava di un mandato, ma di un semplice ordine di Borsa e nemmenoindicava il prezzo d’acquisto. Espletando prontamente l’ordine, la banca siera comportata con la massima diligenza e non poteva ricevere alcun adde-bito per aver effettuato l’operazione in un giorno sfortunato! Oltretuttobisogna tener presente che le banche sono intermediarie necessarie nelleoperazioni di valuta estera ed agiscono in regime di monopolio, questopertanto rende non ipotizzabile il mandato basato su di un rapporto perso-nale e fiduciario.

Avendo, per questa risposta, durante l’esame. tre minuti di tempo perragionarci e scrivere, non le deduzioni, ma solamente chi dei due avesseragione, io come risposta diedi: - Ha ragione la banca!

Il dirigente che voleva discutere con me le mie due risposte errate midisse: Avendo dato lei ragione alla banca, ed essendo la risposta errata, cosale ha fatto pensare che la banca avesse ragione?

Dissi: - Ho dato ragione alla banca in quanto, se io fossi stato l’Impresaordinate, conoscendo il valore, all’atto dell’ordine del dollaro, mi sarei pre-munito ordinando che l’operazione fosse eseguita solamente entro una cer-ta oscillazione della valuta estera. Non avendolo fatto, ma avendo solamen-te dato l’incarico alla banca di acquistare dollari per mio conto, nulla avreipotuto chiedere di risarcimento. Avrei solamente potuto recriminare con-tro la sfortuna e fare ricadere la perdita in un normale rischio d’impresa.

- Il suo ragionamento non fa una grinza e, posso confortarlo dicendoche tutti coloro i quali hanno risposto, e sono stati pochi, hanno dato ra-gione alla banca, però la giurisprudenza non la pensa così. Infatti il giudice

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della Corte di Cassazione diede ragione all’Impresa sentenziando che labanca era responsabile perché aveva eseguito l’operazione con un cambioesageratamente alto rispetto l’andamento normale del mercato senza atten-dere il ritorno delle quotazioni a valori normali o in subordine senza chie-dere conferma all’Impresa dell’esecuzione dell’operazione a valori anomali.

- Ora vorrei sapere, nel quiz delle “lame”, perché ha messo la crocettasulla mezzaluna come oggetto da scartare nella serie.

- Il mio ragionamento è stato che era l’unica lama ricurva in mezzo atutte le altre diritte.

- Sì, effettivamente il ragionamento non fa una grinza, però la soluzioneesatta era che la crocetta doveva essere messa sulle forbici in quanto l’uten-sile era composto da due lame, mentre gli altri avevano una lama sola.

Rimasi per un istante perplesso, meditai sulla risposta ed ebbi il corag-gio di replicare: Scusate, ma non condivido la soluzione perché le forbici,per essere tali, devono necessariamente avere due lame, altrimenti sarebbe-ro dei coltelli. Io giudico che la non linearità del filo della lama sia da con-siderare una difformità, non il numero di lame che formano l’oggetto.

I giudicanti si guardarono tra di loro senza proferire parola. Mi feceroancora alcune domande di cultura generale e di cronaca, dopo di che micongedarono dicendo: - A breve le faremo sapere qualche cosa, buon giorno.

Mi alzai e, salutando con un accenno d’inchino, uscii nell’anticamera.Ero solo, gli altri se n’erano già andati, non potevo sapere nulla di quelloche era successo, mi restava solo da sperare che l’esame orale non li avesseindispettiti per quella mia, forse non dovuta, replica. Mah. oramai era fatta!

Incominciarono le vacanze estive della scuola, Nory la sentivo qualchevolta, senza vederci. Il tempo passava e notizie niente! Avendo perso tutte lesperanze di essere assunto, dato il tanto tempo passato, mi iscrissi alla classeterza, deciso a darci dentro per finire gli studi e cercare un altro lavoro. Ilnon poter stare con Nory mi faceva star male, non avevo voglia neanche divedere gli amici, non avevo voglia di divertirmi.

L’estate passò, stava per cominciare l’anno scolastico, mi decisi di comin-ciare a cercare d’acquistare i libri di testo per poter frequentare la scuola.

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I primi giorni del mese di ottobre, arrivato a casa ad ora di pranzo, miamadre mi disse: È arrivata una lettera raccomandata per te dalla Cassa diRisparmio, leggila.... svelto!

- Cosa vuoi, mamma, mi diranno che sono spiacenti per questa volta,ma che comunque terranno in considerazione il mio nominativo per ilfuturo, sono passati quattro mesi dall’esame orale, ormai non ci spero più.

Aprii la lettera e lessi queste due righe in mezzo al foglio: “La preghiamodi presentarsi, quanto prima, all’Ufficio del Personale per comunicazioniche La riguardano”.

Un tumulto interno mi assalì, la gola stretta dall’emozione non riuscivaad emettere alcun suono mentre le lacrime calde, cocenti, copiose scende-vano sulle guance, le mani mi tremavano tenendo stretta la lettera, cheportai al petto, riuscii ad emettere un gemito, che voleva essere un urlo, edissi: - Nory, mamma.......!!!

Il mattino seguente, alle otto, mi presentai nell’atrio della Sede Centraledella Cassa di Risparmio di Trieste chiedendo dell’ufficio del personale. Ilportinaio, gentilissimo, mi disse che si poteva accedere agli uffici dopo leotto e mezzo ma, vedendomi così spaesato e imbarazzato, mi chiese: Lei èuno dei nuovi assunti?

- Non lo so, spero – risposi - ho ricevuto solo una lettera di convocazione.

- Stia tranquillo allora, la lettera la mandano solo a quelli che vengonoassunti, agli altri niente, congratulazioni e.... auguri.

Alle otto e un quarto, il portiere mi disse: - Può salire, ora è passato ilsignor Derossi che è il capo dell’ufficio personale, ed è a lui che deve rivol-gersi. Prenda l’ascensore, vada al secondo piano, giri a sinistra, la terza por-ta ed è arrivato, bussi ed entri.

Non so perché, ma questa frase, questa indicazione, mi era familiare,come l’avessi già sentita.

Feci esattamente come il portinaio mi disse e....mi ritrovai precisa-mente dove, quattro mesi prima, avevo sostenuto l’esame orale. Bussai....avanti.... entrai. Buon giorno – dissi - ho ricevuto una lettera per presen-tarmi qui oggi.

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Il signor Derossi, era la persona con la quale avevo sostenuto l’esameorale, mi guardò e disse: - Mi ricordo di lei e del colloquio su quei duepunti controversi. Dopo che lei era uscito da questa stanza, ne discutemmoa lungo e ci fece molta impressione la sua decisione, la sua risolutezza neldifendere le sue opinioni, sintomi di un carattere deciso che porta, in que-sto caso con successo, avanti con forza i propri convincimenti. Posso comu-nicarle che la commissione l’ha posto al dodicesimo posto in graduatoriadelle venti assunzioni previste, pertanto dovrà farci avere nel più breve tem-po possibile tutti i documenti necessari, specificati in questa lista, e con ilventun ottobre potrà cominciare a prendere servizio. Ci sarà un periodo diprova di tre mesi che, una volta superato favorevolmente, comporterà l’as-sunzione definitiva in pianta stabile.

Dovetti fare uno sforzo per non mettermi a saltare dalla gioia, non so sein viso ero rosso fuoco o pallido cereo, le mani erano sudate e così pure lafronte, sentivo una sensazione di caldo, come una fascia, che saliva alla testaper poi scendere fino ai piedi e viceversa. Mi sembrò di vivere in un altromondo, sentivo la voce del signor Derossi come si stesse allontanando sem-pre più fioca, quasi ovattata.

Cosa mi stava succedendo, oh Dio stavo per svenire. Sentii il signorDerossi che diceva: - Weiss, si sente bene?

Questo mi diede una sferzata, mi ripresi subito e dissi: - Mi scusi, l’emo-zione, la gioia, il batticuore, la felicità tutto insieme mi hanno frastornato,io ero venuto qui con delle tenui speranze, mai avrei immaginato una cosacosì meravigliosa, grazie, grazie di cuore, spero sinceramente di non delu-dere mai le vostre aspettative.

Diedi immediatamente comunicazione a Nory di quanto era accaduto eda quel momento, finalmente, i nostri sogni, le nostre speranze, le nostreaspettative, i desideri più reconditi potevano avverarsi, realizzarsi,materializzarsi, la strada sarebbe stata ancora lunga ed impervia, ma aveva-mo rimosso il primo e più duro ostacolo per iniziare il cammino della vitainsieme.

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I giorni seguenti furono dedicati alle pratiche burocratiche: libretto dellavoro, visite mediche, stato di famiglia, cittadinanza, fedina penale, certifi-cati scolastici e tante altre cose che non ricordo.

Arrivò il fatidico 21 ottobre 1957 e varcando la soglia del portone di viaCassa di Risparmio n° 10, voltai la pagina più importante della mia vita.Cominciò la vita da adulto, era necessario ragionare in un altro modo, leresponsabilità arrivarono, i pensieri pure, era finita la gioventù, la fanciul-lezza, l’infanzia.... ripensandoci si potrebbe dire....”ma poi, la puoi chia-mare infanzia?”

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NATO A TRIESTEFebbraio 2001

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PREFAZIONE

Perché questo titolo? Mi sono chiesto, cosa ne so della mia Città natale?Niente, poco forse, comunque vorrei saperne di più.

In fondo la mia famiglia, anche se di origini austriache, può considerarsitriestina al cento per cento. Infatti possiedo un documento attestante cheun mio avo, tale Gaspare Weiss, nel 1799 ottenne la concessione di aprireuna “pubblica stamperia” in Trieste.

Io credo che per essere considerati “triestini”, basta che uno sia nato aTrieste e che la famiglia vi risieda magari da due o tre generazioni. In realtàun ceppo originario, autoctono non esiste.

Trieste è sempre stata, dalle sue origini, luogo di transito dei più svariatipopoli, data la sua collocazione geografica, crocevia tra l’est e l’ovest, tranord e sud, punto d’arrivo dei commerci via mare e via terra.

Ogni tanto qualcuno si fermava onde poter coordinare questi traffici edecco formarsi un piccolo nucleo familiare che, durante i secoli, aumentavae si sviluppava oppure diminuiva e spariva.

È mio fermo intendimento, sviluppare ed approfondire questa ricerca,consultando testi antichi e moderni, annotazioni e pensieri ricavati dallaconsultazione di libri specifici che la nostra Biblioteca Civica e il museo diStoria Patria di via Imbriani possiedono.

Oggi, anche grazie ad internet, si può accedere e consultare anche testidi proprietà delle Facoltà di Storia Antica e Storia Moderna della nostra edaltre Università, entrare in siti specifici presso le Amministrazioni Comu-nali, Provinciali o Statali di quasi tutte le parti del mondo.

Concludendo non so, se questa mia ricerca andrà a buon fine, se potròcitare la bibliografia e/o i siti che mi avranno fornito il materiale necessarioa sviluppare questo studio che, è mia viva speranza, sia il più attendibile ecoerente possibile e spero di non incorrere in facili e possibili errori di inter-pretazione, data la vastità dell’analisi da verificare.

Giorgio Weiss

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CAPITOLO 1

Molte persone amano viaggiare, visitare città e paesi nuovi, la sete diconoscenza è uno dei principali stimoli, la gioia di poter vedere le meravi-glie della natura e tutte le cose che l’uomo ha creato nel corso dei secoli edei millenni è uno sprone. Anch’io, limitatamente ai problemi di tempo edi “finanze”, ho fatto qualche viaggetto. Parecchio tempo, prima di partire,mi sono documentato, cercando libri, depliants, testi scritti che guidino aduna corretta visita dei luoghi prescelti sia in Italia che all’estero.

Un paio di settimane fa, al ritorno da una visita a Roma, mi sono accin-to ad assemblare il filmetto che ho fatto in ricordo degli stupendi luoghivisitati, come pure quello fatto alcuni mesi addietro a seguito della visitaalle Langhe e al Monferrato in Piemonte.

Mentre rivedevo il resoconto di questi ultimi due viaggi, mi sono chie-sto: - Giorgio vedi tante cose stupende ma della tua Trieste cosa ne sai?

Poco, niente - fu la risposta che dovetti darmi.

Conosco San Giusto, il Castello di Miramare, il Teatro romano, ilCarso........

Ma cosa sono, perché sono lì, chi li ha costruiti, quando, per quali mo-tivi...... risposte poche, frammentarie, quasi sicuramente inesatte!

Eh no! caro Giorgio, tempo ne hai poco, è vero, ma quello che hai deviusarlo per cercare di conoscere, capire, apprendere, sapere, rilevare, ma so-prattutto discernere ed interpretare la tua città dalle sue origini.

Adesso che mi sono deciso, bisogna trovare un punto di partenza da cuiiniziare le ricerche; sì! ho deciso e credo che sia la cosa più ovvia.

La prima cosa da fare è cercare di interpretare l’etimologia della parolaTrieste. Già qui cominciano le prime diversità di versione, decodificazioneed esplicazione del termine.

Alcuni storici, molto semplicisticamente, attribuiscono al nome di

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Tergeste il significato romano di “costruita tre volte”. Secondo altri questesono solamente delle “dicerie” in quanto il termine non è romano, bensìmolto più antico. Esso deriverebbe da terg, termine tratto da un anticalingua indoeuropea, o forse dialetto, che aveva il significato di mercato e dalsuffisso este, tratto dal linguaggio dei Veneti, che voleva dire città. Sarebbeprova di questo suffisso il nome di alcune città, quali Ateste e Segeste, fon-date dagli antichi Veneti tanti secoli prima. Per quantificare l’epoca bisognapensare che ciò avvenne prima che i Romani, scendendo dai loro colli, siespandessero nella pianura sottostante dove, dopo aver bonificato le palu-di, eressero quella che è oggi chiamata la “città eterna”.

Secondo questa interpretazione il nome della città di Tergeste signifi-cherebbe luogo di mercato o meglio ancora città-mercato.

Sono riuscito ad identificare ancora una versione, che io ritengo leggen-daria e poco probabile, in cui il nome di Tergeste deriverebbe dal nome diun guerriero, tale Tergesto o Tergesteo, che seguendo Antenore o Diomede eil popolo dei Veneti, una volta caduta Troia, si fosse fermato in questiluoghi da lui ritenuti splendidi, fondando una città a cui sarebbe stato datoil suo nome.

Io sono propenso che la seconda versione, quella di città-mercato, sia lapiù realistica, però mi assale il dubbio che, se anche la terza versione sembrileggendaria, potrebbe avere qualche fondamento di verità. Bisogna pensareche ad un certo momento, le popolazioni indoeuropee cominciarono adespandersi e dilagare, diffondendosi in tutta l’Europa, ma soprattutto nelbacino del Mediterraneo. Uno di questi gruppi, sicuramente, giunse in questeregioni. Chi li guidava non sarà stato il leggendario Tergeste o, comunque,un altrettanto aitante condottiero, con spalle robuste, alto e biondo che eraa capo di questa tribù di Veneti??

E qui la storia vera si mescola con la leggenda, tanto da disorientare unpoco. Proseguiamo nell’analisi tenendo in sospeso questa decisione sulleorigini del nome di Trieste.

Siamo agli inizi dell’età del ferro, circa mille anni prima della nascita di

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Cristo. Da questo momento cominciamo ad avere i primi dati certi dell’in-sediamento umano nei nostri territori. I gruppi di persone, le tribù deipopoli che confluirono nella nostra zona, si attestarono sulla cima dellecolline che circondano il golfo, costruendo villaggi e recintandoli con deigrossi e poderosi muri in pietra, a secco, cioè appoggiando e adattando lepietre una sull’altra senza l’uso della malta. Nacquero così quelle costruzio-ni che noi oggi chiamiamo castellieri.

Il più ben conservato e grande castelliere che è stato ritrovato nella no-stra regione è quello di Slivia, altri vennero portati alla luce in diverse zonedel Carso. Sicuramente altri castellieri furono eretti anche sui colli più vici-ni alla costa ed essendo questi più prossimi al livello del mare erano pertan-to climaticamente più confortevoli.

Dati i successivi e più recenti insediamenti, gran parte di questi castellieriscomparve. Comunque furono ritrovate rare, ma sicure testimonianze sulcolle di San Vito ed esse fanno pensare che anche i colli di San Giusto,Servola, San Pantaleone, Scorcola, ecc. abbiano avuto il loro castelliere. Ilcolle di San Giusto, in modo particolare, essendo il più vicino al mare, è ilpiù probabile insediamento di qualche gruppo indoeuropeo. Resti in zonanon ne sono stati trovati ma ciò, sicuramente, è dovuto al fatto che giàall’epoca romana la cima del colle fu livellata per permettere la costruzionedi templi e basiliche eliminando ogni traccia precedente. L’attuale via SanMichele, quasi sicuramente, si snoda su di una strada aperta dalle gentipreistoriche, che la usavano per scendere dai villaggi e raggiungere il mare,dove avrebbero trovato dei navigli provenienti dall’Oriente o dal Mediter-raneo per poter barattare le loro mercanzie con i prodotti locali. È probabi-le pure che, dalle zone baltiche, giungessero delle carovane di mercanti alpunto di mare più vicino dove poter vendere l’ambra, prodotta in granquantità nelle loro regioni, ai mercanti dell’Oriente che ne facevano granderichiesta.

Tutte queste sono congetture, supposizioni, ipotesi, teorie e non certez-ze documentate; infatti i primi scritti che provino l’esistenza di Tergesterisalgono al primo secolo avanti Cristo.

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Risulta infatti che Roma, avendo consolidato il suo potere e dominiosulla penisola e in gran parte del Mediterraneo, decise di espandersi versonord onde rafforzare le difese per arginare le calate dei barbari che, periodi-camente, valicando le Alpi, cercavano sbocchi in territori più fertili e tem-perati.

Partendo dal presupposto, come detto, che qui, esistesse un piccolo vil-laggio veneto, più ad est nella penisola istriana, certamente, erano insediatigli Istri che erano degli abilissimi marinai e quindi pirati, nonché dei for-midabili guerrieri.

Ad ovest, poco distante dalle nostre terre, sorse Aquileia fondata, si pre-sume, nel 183 avanti Cristo, che fu una città e un porto di grossa importan-za per i Romani. Come dicevamo, essendo gli Istri dediti anche alla pirateria,continuamente attaccavano le navi romane, che andavano e venivano dalporto di Aquileia. I traffici erano in costante aumento e specialmente daquesto porto partivano navi cariche, tra l’altro, di anfore vinarie contenentiil famosissimo vino “Pucinum”, i cui vigneti si estendevano sul fianco delciglione carsico che va da Sistiana a Prosecco. Fu considerato un vinoterapeutico e tanto caro, poi, all’imperatrice Livia, moglie dell’imperatoreAugusto. Al contrario, provenienti da Roma, giungevano merci di tutti igeneri, necessarie ai legionari che ivi risiedevano.

Fu in quel periodo che, via terra, i Romani si spinsero e si insediarono,cacciando i Veneti, in queste nostre terre e precisamente dal colle di SanGiusto fino al mare.

Tra il 178 e il 177 avanti Cristo, tale Console Manlio Vulsone partì daAquileia con le sue legioni per portare guerra e distruzione in Istria e punirecosì gli Istri per le loro azioni di pirateria e dissuaderli da future incursioni.

La spedizione punitiva si stava per trasformare in una disfatta, sta difatto che la prima battaglia contro gli Istri fu quasi perduta.

Dove si svolse la prima battaglia non è del tutto stabilito, ma sembrereb-be che le località più probabili fossero Sistiana o la piana di Bagnoli o forseanche quella di Zaule; alcuni studiosi identificano la zona nella gola

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Cattinara-Montebello, ma ciò, strategicamente, è poco probabile.Qualche notizia su questa battaglia si può trovare in uno scritto dello

storico romano Tito Livio, il quale narra che l’esercito romano, comandatoappunto da Manlio Vulsone, era formato da due legioni, una coorte diPiacentini e più di tremila Carni. Lungo la costa era affiancata da una nonmeglio definita flotta che trasportava i viveri, le probabili armi e macchinebelliche. La flotta si ancorò, quasi sicuramente o al largo della vallata diZaule o nel golfo di Muggia ed è perciò che il luogo più probabile dell’ac-campamento fosse la piana di Zaule. Anche qui solo congetture in quantoreperti archeologici non furono mai stati ritrovati.

Da quanto è stato modo di capire dagli scritti di Tito Livio, si presumeche da quell’accampamento una legione si fosse allontanata per far provvi-sta di legna, probabilmente di acqua e fieno per i cavalli. La coorte si ac-campò in una zona intermedia tra la flotta ed il campo base.

I Romani non potevano sapere che un numeroso esercito di Istri fossenelle vicinanze e, probabilmente nascosto in qualche castelliere, aspettava ilmomento migliore per attaccare.

Gi Istri, al comando di un certo re Epulo, piombarono a sorpresa sul-l’accampamento, devastandolo, nel momento in cui i legionari meno sel’aspettavano. I legionari romani, colti di sorpresa, fuggirono disordinata-mente per raggiungere le navi e mettersi in salvo. A sua volta le navi, vista lamala parata, salparono le ancore per allontanarsi dal pericolo.

Sembrava tutto finito, ma il genio bellico romano e l’inesperienza degliIstri volsero le sorti di quella che sembrava una battaglia persa.

Infatti gli Istri non inseguirono i Romani in fuga e si diedero, al contra-rio, ad azioni di saccheggio dell’accampamento abbandonandosi a lautelibagioni con il pregevole vino dei Romani e rimpinzandosi di cibi trovatiin abbondanza.

Il Console Manlio Vulsone riuscì a rincuorare i suoi soldati e riunirli allalegione, che ignara dell’accaduto, stava ritornando con la legna, il fieno el’acqua.

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Chiamò in rinforzo i tremila Carni che erano accampati a cinquemilapassi di distanza corrispondenti a circa sette chilometri e mezzo.

Gli Istri, convinti di aver messo in fuga i Romani, dopo aver mangiato ebevuto a sazietà, si addormentarono all’interno dell’accampamento con-quistato. L’attacco romano fu portato tanto di sorpresa che colse gli Istriimpreparati e, sembra che oltre ottomila di essi rimasero uccisi. Gli altri sidispersero fuggendo nel territorio.

La stagione era avanzata e, dopo questa vittoria, il Console stabilì dirientrare per svernare ad Aquileia. Decise, comunque, di lasciare un presi-dio nella zona formata da una o due coorti e probabilmente i tremila Carnipiù abituati al rigore dell’inverno. Potrebbe essere che questo presidio sifosse installato proprio sul colle di San Giusto facendo nascere così la Tergesteromana, o comunque su di un colle, ma vicino al mare, dove, eventualmen-te, le navi romane avrebbero potuto portare aiuto e, lontano dai colli carsicidove, nei castellieri, potevano annidarsi dei gruppi di Istri.

L’anno dopo, passato l’inverno, il Console Vulsone ritornò in forze edinvase l’Istria intera distruggendo tutti i castellieri che si opponevano allasua avanzata fino a giungere a quell’enorme castelliere che era la roccafortedi re Epulo. Il castelliere sorgeva a Nasezio, una località in prossimità del-l’attuale Pola. Esso fu cinto d’assedio dai Romani, che fecero di tutto perconquistarlo deviando, persino, il corso del fiume che lo approvvigionavad’acqua fresca. Visto che era vano resistere, gli Istri prima uccisero le lorodonne e i loro bambini, poi in molti, re Epulo compreso, si tolsero la vitaper non cadere prigionieri dei Romani. Finì così la potenza degli Istri, pira-ti, predoni e grandi guerrieri.

A questo, seguì un periodo alquanto movimentato per la piccola coloniaromana. Il grosso delle truppe se ne ritornò ad Aquileia, mentre nel 166a.C. i Carni si ribellarono e così pure nel 129 a.C. i Giapidi, abitanti dellazona del Monte Nevoso. Il confine stava diventando poco tranquillo ed èper questo che, quasi sicuramente, Tergeste si trasformò in una coloniamilitare romana. Nel 53 a.C. i Giapidi scesero nuovamente su Tergeste e la

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saccheggiarono. Fu allora che Giulio Cesare inviò in questa zona le suelegioni per fermare le invasioni. Fu necessario arrivare al 34 a.C. perchéOttaviano Augusto debellasse definitivamente i Carni, i Giapidi ed altrepopolazioni montane, portando la pace in questa zona di frontiera.

Nel 30 a.C. Tergeste divenne territorio di Roma, che una volta finiva alRubicone ed ora arrivava al Formione, l’attuale Risano, ed infine al fiumeArsa. Fu così che l’Istria intera, Tergeste insieme a Venezia ed Aquileia,formarono la decima regione di quello che era l’ordinamento dello statoromano.

Tergeste assurse a sempre maggiori onori in seno all’ordinamento roma-no in quanto era sede di un municipio romano retto da due alti magistrati,ebbe due senatori ed il consiglio dei decurioni, che era un gruppo di centocittadini scelto con voto popolare. I cittadini, obbligati al servizio militarevennero assegnati alla XV legione detta Apollinare.

Il municipio di Tergeste estendeva la sua influenza ed il suo potere aiCarni ed ai Catali. La città si espanse talmente che fu necessario abbatterele mura esistenti, tant’è che la zona era ormai pacifica. Si pensa che, purmantenendo la forma “a scacchiera” tipica degli insediamenti romani, lacittà si estendesse giù per il colle fino al mare. Delle mura romane abbattu-te, attualmente rimane solamente un piccolissimo accenno nelle vicinanzedell’Arco di Riccardo. La parola “Arco di Riccardo”, nome coniato dal po-polino, farebbe pensare ad un arco di trionfo, come tanti ce ne sono aRoma, invece altro non è che una porta della città lasciata lì per abbellire lazona. La prova che trattasi di una porta e non di un arco è data appuntodagli scavi eseguiti, tempo fa, dagli archeologi che trovarono sotto di essa laparte del muro di cinta rimasto.

Tergeste, tanto si era espansa ed aveva assunto un ruolo importante nel-l’ordinamento romano, che si sentì la necessità di approvvigionare diretta-mente d’acqua la città, ed è così che fu costruita quell’opera grandiosa cheera l’acquedotto. Esso partiva dalla Val Rosandra, dove ancora oggi ci sonoben visibili i resti, per giungere, attraversando la piana di Zaule, fino allacittà.

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Dobbiamo arrivare agli inizi del primo secolo dopo Cristo per averealtre testimonianze romane in Tergeste. Bisogna pensare che, in quell’epo-ca, la vita era breve ed il tempo passava monotono e che per creare coseimponenti ci volevano parecchi decenni se non proprio secoli.

Il cuore e la vita dell’insediamento romano era il colle di San Giustodove abbiamo le maggiori testimonianze. L’attuale Cattedrale fu eretta so-pra i resti del tempio capitolino.

Si stima che il tempio fosse lungo oltre venti metri e largo quasi diciotto.Due avancorpi laterali formavano i pronai sorretti rispettivamente da quat-tro colonne ciascuno. Ne è testimonianza più certa la nicchia scavata sottola torre campanaria dove si possono notare i fusti anneriti delle colonne. Adesso, che era il maggior tempio della città, si accedeva dall’attuale via dellaCattedrale che è di sicura epoca romana. Si pensa che il tempio fosse dedi-cato alla triade capitolina, cioè Giove, Minerva e Giunone.

Bisogna arrivare agli inizi del secondo secolo dopo Cristo per vedereun’altra imponente opera e cioè la basilica forense che fu eretta sullo spiazzodi San Giusto. Di essa rimangono parte delle colonne che formavano l’edi-ficio, anch’esse ricostruite dalla Sovraintendenza, dove la parte in pietra èoriginale dell’epoca, mentre i mattoni sono stati aggiunti per ridare larotondità ed il diametro delle colonne stesse. Bisogna tener presente che adifferenza del “tempio” capitolino, che era un luogo di culto, la “basilica”forense era un luogo pubblico dove veniva amministrata la giustizia e servi-va a tenere riunioni, anche pubbliche. La basilica era molto grande infatti,guardando i resti, si può calcolare che essa avesse almeno una lunghezza diottantotto metri ed una larghezza di ventiquattro. Si può notare la scalad’accesso alla basilica e la “vasca” il cui contorno è visibilissimo a terra edove, probabilmente, sedevano i giudici. Sul perimetro si può notare uncanale, il quale certamente raccoglieva l’acqua piovana, che veniva scaricatadalle gronde della basilica e poi convogliata in un grande pozzo, ora nonvisibile perché coperto dal manto stradale.

Da questa imponente opera si presume che in quell’epoca la città diTergeste avesse assunto un importante ruolo nell’amministrazione romana.

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Infatti fu un grosso nodo di comunicazione, anche perché l’importantissi-ma città di Aquileia commerciava intensamente con l’Europa centrale edorientale.

Dato che il nome di Quintus Baienus Blassianus è stato rilevato su pa-recchie lapidi rinvenute tra i resti della basilica, si ipotizza che lo stesso fosseo il costruttore o un cittadino benemerito o più semplicemente una perso-na che avesse ricoperto importanti cariche civili o militari e quindi degnodi essere ricordato ai posteri.

Altra testimonianza, datata tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo,è il bellissimo teatro romano, probabilmente fatto erigere dal famoso edinsigne cittadino di Tergeste, che fu Quinto Petronio Modesto, e del qualeteatro oggi è ben conservata la parte interna, manca infatti la facciata, cheera adorna di numerosissime statue, come dimostrano i numerosi fram-menti architettonici e i gruppi di statue che furono rinvenuti.

Il teatro romano sarebbe stato il più bel monumento romano che avrem-mo potuto avere se, nel Medioevo, come è successo un po’ dappertutto, maspecialmente a Roma, i signorotti ed i prelati di allora non avessero sac-cheggiato le parti migliori dei templi pagani per erigere chiese, palazzi ecastelli. Più che un teatro esso era considerato un’Arena, anche se non avevala classica forma ellittica, in quanto venivano proposti anche spettacoli coni gladiatori. Del resto il nome del rione oggi conosciuto come “Rena Vecia”deriva appunto da Arena Vecchia o vecchio teatro che vogliasi dire.

Era il periodo “aureo” della Tergeste di allora, lo dimostrano i numero-si tempietti, che furono eretti. Ad esempio quello dedicato alla dea dellemessi, Cibele, i cui pochi resti sono stati rinvenuti presso l’arco di Riccardo;quello in onore di Bona Dea ritrovato scavando le fondazioni della Riunio-ne Adriatica di Sicurtà sul lato della via S.Caterina oppure quello dedicatoal dio Beleno nei pressi della via Bramante.

Data l’importanza che aveva assunto Tergeste, anch’essa avrà avuto ilsuo Foro, situato probabilmente sempre sul colle di San Giusto, ma nonavendone ritrovati i resti, nemmeno sotto la Cattedrale, si presume chepotesse trovarsi, da qualche parte, sotto l’attuale castello. Fu ritrovata so-lamente una grande base sulla quale era eretta una statua equestre in bron-

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zo aureo del più insigne dei Tergestini, Fabio Severo. Probabilmente, lastatua fu predata dai barbari che la credevano d’oro o per essere fusa ondepoter forgiare nuove armi. Sul basamento rinvenuto c’è inciso il più anticodocumento tergestino che magnifica i meriti di questo personaggio. Egli fudapprima un magistrato a Tergete e poi senatore a Roma durante l’imperodi Antonino Pio. In seguito si adoperò sempre per rendere grande Romacapitale e la sua città natale.

I nobili, i ricchi mercanti, nonché i notabili della città fecero costruiredelle splendide ville con pavimenti in mosaico, fontane e giardini a Barcolaa Sistiana e Santa Croce, mentre sui colli soprastanti sorsero ville agricole emolte fattorie.

I commerci nel porto fiorivano tanto che si pensa a parecchi piccoliporticcioli disseminati lungo la costa: uno lungo la riva Grumula, uno aBarcola – il cui nome latino era Vallicula che significa appunto porticciolo,e quello principale alle spalle dell’attuale piazza dell’Unità d’Italia. Ciò adimostrare appunto che il teatro romano si affacciava sul mare.

La romana Tergeste doveva essere, certamente, una gran bella, ricca efiorente città e visse a lungo un periodo felice di pace, serenità e prosperità.

Purtroppo le cose belle sono destinate a finire, infatti Trieste dovettesubire, ad ondate successive, invasioni di barbari di ogni genere finché nel568 i Longobardi la rasero completamente al suolo e tutti gli abitanti, chenon riuscirono a mettersi in salvo, vennero trucidati. Nel 571, i Triestinisuperstiti, portando con sé, gelosamente, le reliquie dei santi e le poche epovere cose che erano riusciti a salvare, faticosamente, ricostruirono le lorocase cinte con nuove mura di difesa. Ma la pace era finita e per molti secolii Triestini dovettero solamente combattere.

Nel periodo romano anche a Tergeste, come nel resto dell’impero, sorse-ro le prime comunità cristiane e pertanto anche qui ci furono le persecuzio-ni ed i martiri.

Una delle più significative testimonianze fu casualmente scoperta nel1963 durante l’esecuzione dei lavori in una scuola e scavando il manto

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stradale davanti ad essa, in via Madonna del Mare. Nel sottosuolo vieneconservata l’antica basilica della Madonna del Mare, che non ha niente ache vedere con la moderna chiesa in piazzale Rosmini. Si trova in uno spa-zio angusto, anche perché per ripristinare la strada soprastante si è dovutofare una copertura in cemento armato poggiante su grosse travature por-tanti.

Questa basilica aveva una pianta a forma di croce. Per quanto è datosapere, potrebbe essere la prima chiesa di Trieste.

Poter stabilire l’epoca della prima costruzione è quasi impossibile. Sipuò notare un mosaico ricco di motivi ornamentali, decorativi e ricchi dicolori, che però sovrasta uno più modesto, formato da tessere bianche enere. È quasi certo che, per abbellire la chiesa, fu posto sopra l’originalepavimento uno più ricco e decorativo e che si può far risalire al quinto osesto secolo. Si può supporre che il pavimento sottostante sia stato costru-ito per erigere un tempio in conseguenza della liberalizzazione del cultocristiano decretato da Costantino nel 313. Potrebbe, ma non se ne è sicuri,che la prima chiesa sia stata eretta sopra, allargandolo, un sacello cristiano,magari risalente al duecento, dove erano sepolti i martiri cristiani.

Di martiri cristiani Tergeste ne ha avuti molti. Di quelli di cui si hannonotizie, i primi risalgono all’epoca dell’imperatore Antonino Pio, tra glianni 140 e 150 e sono Giacinto, Marco, Galliano e Giasone seguiti, pochianni dopo, da Lazzaro e Apollinare. Il secolo seguente, sotto l’imperatoreValeriano, furono martirizzati Zenone e Giustina ed alla fine del secoloabbiamo i santi più famosi, che sono San Servolo, San Sergio ed infine SanGiusto, giustiziato nel 303. Tanti altri, meno noti, furono sepolti in questosacello. La vicina via Santi Martiri è la testimonianza del ritrovamento deiresti di questi santi nella basilica paleocristiana della Madonna del Mare.

Chiusa questa parentesi, eravamo rimasti all’anno 568 e all’invasionedei Longobardi ed all’inizio del periodo più buio e più difficile da capireper la città di Trieste. Mancano notizie riferenti a questo periodo e non cisono testimonianze scritte dirette anche a causa dei saccheggi e delle distru-zioni che avvenivano ad ogni passata barbarica.

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Si sa che i Bizantini liberarono questa regione annettendola al loro im-pero, però successive invasioni barbariche tra le quali, per la prima volta,quella di torme di Slavi agli inizi del settimo secolo, fecero ripiombare laregione in uno stato di prostrazione.

I Bizantini, nel frattempo, avevano fondato l’esarcato di Ravenna, cheavrebbe avuto la giurisdizione sulla regione veneta e sull’Istria, che diven-nero “province militari” create sulla falsariga delle “province di frontiera”dei Romani. Ogni uomo di Trieste e del territorio doveva essere pronto adifendere e vigilare le frontiere orientali, lungo le Alpi Giulie, dai Germanie dagli Slavi e lungo l’Isonzo dai Longobardi, che avevano Cividale comecapitale.

Con questo consolidamento, per centocinquanta anni, Trieste non subìinvasioni di sorta e poté, grazie al porto, sviluppare traffici con l’orientesmerciando il sale, prodotto nelle numerose saline, e i suoi pregiati vini.

Nel 752 i Longobardi, oramai civilizzati, rovesciarono l’esarcato bizanti-no di Ravenna, impadronendosi pure dell’Istria. Ai Bizantini rimase sola-mente la costa veneta con l’isola di Grado.

Nel frattempo i Carolingi stavano sviluppando il Regno d’Italia e, libe-rando il Veneto dai Longobardi, lo annessero al regno della Chiesa. Fu ilperiodo delle guerre religiose tra Sacro Romano Impero e quello orientaledei Bizantini e con alterne vicende i territori passarono da un blocco all’al-tro finché non nacque quella grande potenza, che fu Venezia e che dominòper quasi mille anni.

Trieste, al di fuori di queste vicende, rimase un feudo carolingio di stam-po tedesco, agli ordini del duca Giovanni, che impose nuove tasse, serviziobbligatori, la leva militare ed infine chiamò in Istria gruppi di Slavi aiquali donò terre e pascoli appartenenti agli Istriani. Quest’ultimo episodioricorda fatti, a noi, più recenti e tristemente noti.

Nell’ottocentoquattro gli Istriani si appellarono all’imperatore CarloMagno, che nella piana del Risano convocò un’assemblea cui parteciparo-no tutti i comuni istriani e così pure Trieste, nella quale fu deciso che il

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duca Giovanni ridesse i privilegi tolti ai comuni. Ecco che, pur facendoparte del regno dei Carolingi, i comuni e così pure Trieste, si amministraro-no da soli.

La flotta del Ducato di Venezia, in Adriatico, arginò le scorrerie di Saracenie Slavi delineando così la sua potenza sul mare riconosciuta anche dai co-muni istriani che vissero una sorta di vassallaggio relativamente ai trafficimarittimi.

Le cose si stavano mettendo male, perché il Regno d’Italia non aveva piùné la capacità né la forza di difendere i confini. Trieste e le città istrianefurono praticamente abbandonate e dovettero difendersi da sole quando,tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, ci furono le invasioni di Ungari eSlavi. Con l’aiuto dei vescovi, che nel frattempo avevano ottenuto maggioripoteri, resistettero a quella bufera.

Trieste non fu mai vassalla a nessuno, però dovette versare i tributi e letasse non più al re, ma al Vescovo Giovanni e ai suoi successori, in quantolo stesso re aveva ceduto tutti i suoi diritti sulla città. Un balzello annuodoveva infine essere versato pure a Venezia per riconoscere la sua suprema-zia sul mare.

In realtà Trieste, pur essendo un libero comune e governandosi con isuoi magistrati, doveva pagare tasse a Venezia ed al Vescovo riconoscendocosì l’autorità del Sacro Romano Impero.

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CAPITOLO 2

Siamo arrivati appena intorno all’anno mille e già quante cose sono suc-cesse in questa nostra terra. Ho dovuto rintracciare notizie su vari libri,testi, volumi e manuali, talvolta discordanti tra loro per le personali inter-pretazione date dagli autori. Anch’io, evidentemente, ho dovuto scegliere,ragionare e dare quella interpretazioni che ho ritenuto più possibile aderen-te alla realtà.

Adesso passiamo al millennio seguente, altri libri, altre notizie da vaglia-re, altre fatiche.

Non avrei mai pensato che queste “fatiche” potessero essere così piace-voli, perché scopro notizie e nozioni che, per uno storico possono sembrareovvie, ma per me sono cose nuove e inaspettate....e pensare che a scuola la“storia” la digerivo male.

Praticamente passiamo al “medioevo” che letteralmente significa l’età dimezzo, tra quella antica e quella moderna. Il termine “medioevo” fu usatoper la prima volta dal tedesco Cristoforo Keller nella sua “Historia mediiaevi” dai tempi di Costantino alla caduta di Costantinopoli del 1453. Con-venzionalmente però, la fine del medioevo e l’inizio dell’era moderna si facoincidere con la scoperta dell’America, nel 1492.

La valutazione, comunque, di questo periodo è del tutto simbolico inquanto è stato variamente modificato dagli studiosi, secondo che, da unlato la decadenza, dall’altro il rinnovamento, siano stati valutati da unpunto di vista artistico, culturale, religioso, politico, economico, sociale,ecc.

Ma ritorniamo alla nostra Trieste e riprendiamo lo studio da dove l’ave-vamo lasciato. Come punto fisso prendiamo il 948, anno in cui il debole reLotario, erede ormai di un regno d’Italia sempre più allo sfacelo e in baliadei feudatari, consegnò la città di Trieste ed il suo territorio, che si estende-va per un raggio di tre miglia oltre le mura, al vescovo Giovanni conceden-do la completa immunità a lui ed ai suoi successori.

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La parola immunità, all’epoca, e nel particolare periodo storico-politicoin cui fu concessa, aveva un significato particolare e cioè che tutte la carichepubbliche e l’amministrazione della città passavano, in pratica, dalle manidei funzionari governativi a quelle del vescovo.

Trieste, pertanto, divenne una città autonoma, non più legata al restodel territorio formato dall’Istria da una parte e dal Friuli dall’altra, e gover-nata dal suo vescovo. La città, all’epoca, non era densamente popolate, ilCaprin, nelle sue ricerche stima che Trieste avesse forse seimila abitanti ma,probabilmente, anche meno.

Fu un periodo “buio” per tutta la regione. Il Friuli, a causa delle invasio-ne dei Magiari, non aveva quasi più abitanti, sembrava di essere ritornatialla preistoria, la gente viveva in tuguri fatti di paglia impastata col fango, sivestivano con le pelli e si nutrivano con quel poco che riuscivano a cacciareo coltivare in miseri e piccoli orti. Anche a Trieste la situazione non eracertamente migliore.

A questo punto ho dovuto alzare gli occhi dai libri, dagli elaborati, dalloschermo del mio computer e fare una riflessione e farmi una domanda: -Ma gli sfarzi che Roma aveva portato in questi lidi dov’erano andati a fini-re? Cenere, polvere, oblio, letargo, oscurità, periodo “buio” infatti. Invecedi progredire la vita, la civiltà, gli usi, i costumi regredivano in modo tale,come detto, che sembrava di riessere alla preistoria.

C’era tutto un fermento di eventi, il Regno Italico passò in mano ai regermanici, infatti Ottone I° aggregò parte dell’Italia settentrionale al ducatodi Carinzia. Ma anche questa situazione era destinata a durare poco tempoin quanto, essendo in piena epoca feudale, il re abbandonò i territori nellemani di conti, marchesi e nobili in genere che erano e diventavano suoifeudatari, che reggevano ed amministravano città, castelli ed interi territorirestando del tutto autonomi e dovendo al re solamente portare aiuto e ar-mati nelle guerre tra regnanti. È per questo che a Trieste, dopo il mille,cominciammo ad avere vescovi con nomi teutonici, mentre in Istria e nelFriuli avemmo i nobili di origine germanica.

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Ne è esempio che ad Aquileia il patriarca Popone ricostituì la sua diocesiricostruendo pure la grande basilica poi consacrata nel 1301. È così cheAquileia divenne sempre più grande fino a diventare una vera e propriapotenza sia economica che militare.

I vescovi di allora avevano ben altro ruolo di quelli dei giorni nostri,erano difatti dei veri e propri guerrieri e, tra l’altro, fedeli vassalli del re.Non solo non erano degli ecclesiastici e non dicevano messa, ma il più dellevolte erano anche analfabeti. Questi vescovi venivano nominati dal re enon più, come un tempo, dal popolo e dal clero ed erano vestiti di armatu-re in ferro anziché di paramenti sacri.

Questo andamento di cose non lasciò insensibili i papi, che cominciaro-no a seccarsi di questo caos imperante e dichiararono, per intanto, decadutitutti i vescovi di nomina reale o che avevano, magari con l’oro, comperatola loro nomina e che erano più dediti a riscuotere tasse e gabelle dai lorovassalli che curare le anime dei fedeli.

Cosa successe nel resto d’Italia non ci è dato di sapere, però sappiamoche, per quanto riguarda Trieste, nel 1082 l’imperatore Enrico IV°, vista lasituazione della città, spogliata e impoverita dalla politica vescovile, la con-segnò al patriarca di Aquileia in modo che avesse un protettore più sicuro.

Anche questa situazione era destinata ad essere transitoria, infatti neiprimi anni dopo il 1100, la città fu di nuovo in mano ai vescovi estendendoil loro territorio ed esigendo decime e tasse anche da Umago, Capodistriaed altre cittadine istriane. Essendo il territorio notevolmente allargato edingrandito ci volle un gran numero di “servi fedeli” che svolgessero i lavoriamministrativi ed erariali per conto del vescovo. Ecco che, in embrione,cominciò a formarsi una sorta di ceto medio, di borghesia che in seno aivari agglomerati urbani cominciavano ad avere una certa importanza e con-siderazione da parte del popolino. La classe contadina, con l’espandersidell’agricoltura, cominciò ad avere il suo peso nella società d’allora ed appa-iono anche le prime forme di attività artigianali autonome.

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La difesa delle coste dai pirati del mare era a carico del potere vescovile,che per far fronte a queste spese, “inventò” e cominciò ad avvalersi delledogane.

Iniziamo così il dodicesimo secolo, ricco di fermenti, e stiamo avviando-ci a grandi passi al periodo comunale.

Dopo centocinquant’anni che la città fu in mano dei vescovi, cominciòlentamente a liberarsi e togliersi di dosso questo giogo, questo dominio cheormai le stava stretto. Capodistria nel 1177 ebbe il suo vescovado, i vassallipiù lontani erano passati ad altri signori, pertanto il vescovo di Trieste siritrovò con un territorio ristretto e soffocato da alcune grandi potenze, qua-li il patriarcato di Aquileia, la contea di Gorizia, ma soprattutto da Venezia.

Venezia infatti si stava sviluppando nell’Adriatico estendendo il suo do-minio o perlomeno la sua influenza su tutta la costa istriana e dalmata.Tutte le cittadine costiere di Istria e Dalmazia dovettero sostenere una sortadi vassallaggio, in quanto la flotta veneta teneva sgombri i mari dai pirati.Trieste non fu dammeno versando tributi a Venezia in orne* di vino.

Nel 1202, la flotta veneziana, al comando del doge Enrico Dandolo, econ al seguito migliaia di soldati a cavallo francesi, prima di recarsi in Orienteper la crociata promossa da papa Innocente III°, veleggiò sulle nostre costeper rintuzzare eventuali velleità di protesta. Anche Trieste accolse con gran-di fasti il doge con il suo seguito.

In quell’occasione trecentrentasei Triestini firmarono un patto in cui sisarebbero rispettati i beni dei Veneziani, che nel territorio triestino essi nonavrebbero mai pagato tasse di alcun genere e che avrebbero aiutato i Vene-ziani a combattere la pirateria sul mare ed infine avrebbe “offerto” a Veneziaun tributo annuo di cinquanta orne di vino.

La cosa importante di questo accordo fu che esso fu firmato dai Triestini

*orna= recipiente a forma di cono tronco nel quale le donne facevano il bucato e aveva una capacità

variante dai settanta ai cento litri.

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e non dal vescovo, che era il signore della città, il che fa supporre che essigodessero di una certa libertà amministrativa anche se il primo in testa deifirmatari era il gastaldo, sorta di capo amministrativo nominato dal vesco-vo e comunque rappresentante del re. Pochi anni dopo appare, per la primavolta, nominato il podestà.

Il vescovado, oberato di debiti , andò sempre più in miseria, mentre icittadini ed il comune videro aumentare considerevolmente le proprie ric-chezze perché il porto di Trieste era punto di partenza e di arrivo per ipellegrini, che si recavano in Terra Santa facendovi accorrere numerosimercanti.

Nel 1253 per sanare, almeno in parte, i propri debiti concesse moltiprivilegi, ad esso riservati, al Comune e contemporaneamente nel 1283non riconobbe più la sua appartenenza all’Impero, ma divenne vassallo di-retto del patriarca di Aquileia.

Trieste fu quindi praticamente alle dirette dipendenze di Aquilieia. Lacittà era formata da cittadini che emergevano dall’età feudale, con una co-scienza nuova, desiderosi di riscattarsi e governarsi da soli, ma, come oggidel resto, la città aveva un retroterra ostile ed il mare, suo sfogo naturale,impedito da Venezia, che nei commerci non ammetteva concorrenza alcu-na. Sostenendo perciò la causa di Aquileia che vantava diritti pure sullecittadine istriane, assieme al potente conte di Gorizia, Trieste si trovò coin-volta nel primo grosso conflitto con Venezia.

Correva l’anno 1289 e un grosso esercito veneziano venne qui, deciso adistruggere o almeno a punire in modo esemplare Trieste. I Veneziani co-struirono una cittadella fortificata sul pendio dell’attuale colle di Romagnae che arrivava, per intenderci, fino all’attuale tribunale. Il patriarca di Aquileiaed il conte di Gorizia guidarono un poderoso esercito per soccorrere Trie-ste.

I Veneziani, dopo alcune piccole scaramucce, diedero una somma di da-naro al conte di Gorizia perché se ne ritornasse a casa. Il patriarca di Aquileia,visto l’esercito dimezzato, se ne ritornò anche lui nei suoi territori.

I Triestini, da soli, resistettero tenacemente alla superiorità di Venezia,

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tanto da indurre il patriarca a ricostituire l’esercito, tornare indietro e met-tere in fuga le truppe veneziane dalla cittadella di Romagna che i Triestinipoi distrussero.

Nel 1291 fu firmata la pace tra Venezia e il patriarca di Aquileia e fu cosìche Trieste dovette abbattere le mura sul lato mare consegnando le navi aVenezia.

Sembrerebbe che il secolo finisse male per la città invece, al contrario,esso si chiuse in modo più che positivo. Nel 1295, pagando un grosso debi-to del vescovo, Trieste acquistò tutti i diritti civili che esso aveva, facendoterminare il potere che i vescovi avevano esercitato per quattrocento anni.La città era finalmente padrona di se stessa terminando, con ciò, il periodofeudale ed iniziando quello comunale che vide la città padrona del propriodestino.

Quanti intrighi, quanti grovigli, quante macchinazioni, quantecomplicanze, tutto vortica nella mia testa, devo fermarmi un po’ per cerca-re di mettere a fuoco la situazione. Non è facile! Contemporaneamentevedo Istri, Romani, barbari invasori, vescovi, Veneziani, Longobardi, tuttoin una ridda di lampi contrapposti che mi fanno vacillare, vedo mura,castellieri, fortificazioni, battaglie, distruzioni, saccheggi, anche un po’ dipace per fortuna. Credo che sia ora di smettere per un poco, rileggere tutto,riordinare le idee, metterle in sequenza e capire.

Io che all’inizio pensavo fosse una cosa da poco, dissi: - Cosa vuoi, Trie-ste è piccola non ci sarà tanto da scoprire nella sua storia!

Invece mi sono ritrovato in una cosa più grande di me e delle mia capa-cità. Ma io sono testardo e non desisto, per niente non ho un cognometedesco, adesso mi concedo un attimo di respiro, una pausa di riflessione epoi via di nuovo alla ricerca di notizie che mi facciano continuare in questamia analisi, anche se non è facile capire la storia né tantomeno leggerla,perché ognuno interpreta un fatto storico, un episodio, come meglio crede,come a lui conviene capire e credere e, certamente, io non posso fare ecce-zione.

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CAPITOLO 3

Siamo giunti al Trecento e vediamo un quadro generale per farci un’ideadella situazione.

L’Europa trecentesca fu colpita da gravi calamità naturali, carestie edepidemie ricorrenti vi portarono la fame e ne decimarono la popolazione.Il secolo XIV° fu anche quello della guerra dei cent’anni, dell’avanzata deiTurchi Ottomani in Asia e in Europa (1354), del papato avignonese, delloscisma d’Occidente. Gli ideali universalistici naufragarono col venir menodella forza delle istituzioni, papato e Impero, che li sostenevano e di cuiDante fu l’ultimo assertore, testimone della misera fine di Enrico VII° diLussemburgo (1313). Ma alla caduta di quegli ideali, alla luce dei qualis’era svolta tutta la vita civile del medioevo, corrispondeva l’affermazionenella realtà e nel pensiero dell’idea di Stato nazionale, maturata nelle grandimonarchie occidentali di Francia, d’Inghilterra, di Castiglia, d’Aragona nelcorso di conflitti secolari, mentre nell’area imperiale si consolidava la plura-lità degli Stati regionali o cittadini di Germania e d’Italia (formata da signoriee città-stato del nord e del centro, repubbliche marinare, domini della Chiesa,regno angioino di Napoli) e, a Oriente, i regni di Boemia e d’Ungheriaandavano acquistando posizioni rilevanti. L’impero bizantino sommersodalle colonie veneziane, genovesi, catalane e ridotto a proporzioni semprepiù esigue dai Turchi, ormai insediati nei Balcani, andava perdendo ogniruolo politico.

Da questa visione europea della situazione, restringiamo il punto focaleper tornare alla situazione di casa nostra.

Ricercando nelle biblioteche notizie e nozioni inerenti il trecento triesti-no si possono trovare moltissimi libri e pertanto moltissime idee, il piùdelle volte in contrasto tra di loro. La vera verità non la sapremo mai! An-che qui, soggettivamente, bisogna interpretare e analizzare e dare una pro-pria risultanza.

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Prendiamo in considerazione un episodio nostrano, tra tanti, noto comela congiura dei Ranfi. La prima domanda spontanea che ci si pone è: - Chierano i Ranfi?

Anche qui proviamo ad inquadrare storicamente la situazione. In que-sto periodo, nel trecento, si svilupparono molte signorie che non eranoaltro che città o territori guidati da un’unica famiglia. In molti casi si tratta-va di veri e propri feudatari, che non dipendevano più da nessuno. Successepure che molte famiglie nobili e molto ricche, che possedevano piccoli ca-stelli e magari molte terre coltivate, con il danaro conquistarono il potere.

In giro c’erano molte e maggiori ricchezze, si svilupparono molte attivi-tà ed arti. I signori, infatti, vollero costruirsi case lussuose, palazzi e chiese,e quindi potenziarono e protessero le arti e gli artisti. Trieste cominciò asvilupparsi anche grazie a soldi provenienti dalla Toscana, perché in quel-l’epoca i grandi usurai, cioè quelli che prestavano soldi o, come si dicevaallora, tenevano banco (termine dal quale è derivato l’attuale “banca” e“banchiere”) erano tutti toscani e principalmente fiorentini. Con la loropolitica di astuti commercianti, sicuramente, contribuirono ad arricchire ilComune. Chiarito un po’ quello che era il periodo, la vita, la situazione die a Trieste, ritorniamo appunto ai Ranfi.

Si trattava di una famiglia di nobili, con molta probabilità di originetedesca, vassalli del vescovo. Il nome di Marco Ranfo risulta spesso citato escritto in documenti diplomatici, si desume da ciò che doveva trattarsi,senza dubbio, di un personaggio altamente importante nella vita politicadella città. Si sa che possedeva una casa in Cavana eretta, si presume, su diun fondo che oggi si configura con il sito di via del Cavazzeni 1 e, moltoprobabilmente, era sua anche la torre Tigor, oltre a terre e vigne varie. Sem-brerebbe che la famiglia fosse formata dal padre e da cinque figli, due ma-schi e tre femmine.

Ci sono vari documenti, tra il 1318 e il 1350, che riportano testi, frasi,nozioni sulla famiglia dei Ranfi. C’era il divieto assoluto di costruirsi la casasu terreni di quella famiglia e, anzi, chiunque incontrasse un Ranfo potevaucciderlo, anzi ne avrebbe ricevuto anche un premio. Nessuno poteva spo-sare una donna dei Ranfi e uno che avesse ucciso un Ranfo non poteva e

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non doveva essere ingiuriato. Queste sono le notizie certe, ma il perché ditanto accanimento contro la famiglia non è dato di sapere; nessun scritto inmerito è stato mai rinvenuto. Supposizioni, illazioni, pensieri ce ne sonotanti, dati dal fatto che potrebbero aver creato dei torbidi in città o forse,cosa più grave, aver minato la sicurezza del Comune. Potrebbero addirittu-ra aver tentato di impadronirsene per farne una propria signoria oppure,non ultimo, potrebbero essersi macchiati di un tradimento filoveneziano.

Indipendentemente da fatti leggendari, romanzati, storicizzati, frutto direaltà accaduta o fantasie del popolo sta di fatto che nel 1313 il potere dellacittà fu saldamente in mano al Comune e che tra il 1315 e 1318 emanò iprimi “statuti” che furono la prima codificazione delle leggi riguardanti lacittà.

Venne così creato il famoso “sigillo trecentesco” della città tuttora rico-nosciuto.

Si tratta di una torre con ai lati due alabarde e la scritta:“Sistilanu publica Castilir mare certos dat michi fines” con sotto il nome

Tergestum. Il significato della frase che circonda il nostro sigillo è: “Sistiana,la via pubblica, Castellier e il mare mi danno confini certi – Tergeste”.

Così era praticamente descritto il territorio del Comune di Trieste cheandava, appunto, da Sistiana lungo i monti della Vena fino alla Val Rosandrae si chiudeva al mare.

Un territorio piccolissimo, come oggi del resto, ma che a Trieste quellavolta, bastava, circondata com’era da grandi potenze.

Tutto il trecento, per la nostra città, è un continuo barcamenarsi tra lepotenze di terraferma e Venezia che aveva a se tutte le cittadine istrianedella costa che facevano concorrenza a Trieste nei commerci via mare. Uni-co cuscinetto, ad est, era la cittadina di Muggia che rimase ancora nellemani del patriarca di Aquileia divenendo così la più terribile avversaria diTrieste al punto che erano impossibili, se non proprio proibiti, i matrimonitra Triestine e Muggesane e viceversa.

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Si arriva al 1553 quando i Triestini andarono a devastare il territorio diMuggia ma, vennero richiamati all’ordine da Venezia che ancora aveva in-gerenza nelle nostre faccende, tant’è che il più dei podestà di Trieste eranoveneziani. Il podestà veniva eletto dal popolo ed essendo quasi sempre luiveneziano e non friulano o triestino, significava che il partito che prevalevain città era un partito che sosteneva ed era sostenuto da Venezia.

L’Austria cominciava ad espandersi a danno del Patriarcato di Aquileia,prendendone alcune terre ed insidiando i signorotti ad essa fedeli. Un casoa noi vicino è quello del conte di Duino.

Quello che Venezia non ammetteva assolutamente era la concorrenzasul mare avendo il monopolio dei traffici marittimi. Avvenne però che nel1368 un vascello veneziano, adibito al pattugliamento del nostro golfo,intercettasse una barca piena di sale il cui proprietario era un certo Panfili.All’intimazione dell’alt da parte veneziana, il Panfili girò la prua della suabarca puntando decisamente sul porto di Trieste. I Veneziani, anch’essi,entrarono nel porto e pretesero di poter confiscare la barca contrabbandie-ra ed arrestare il suo comandante.

Successe, invece, che i Veneziani ricevessero un sacco di botte e sembre-rebbe che il comandante venisse addirittura ucciso.

Per la paura di una ritorsione da parte veneziana, Trieste mandò imme-diatamente a Venezia una delegazione per chiedere scusa. Venezia ne ap-profittò per imporre ai Triestini di esporre il gonfalone di Venezia perPasqua e per Natale, cosa che non avevano mai fatto prima, ma che questavolta, per il quieto vivere, accettarono. Ma si vede che tutto ciò non furitenuto sufficiente, tant’è vero che i Veneziani prepararono un grosso eser-cito per fare la guerra a Trieste. La flotta veneziana, con l’esercito comanda-to da Domenico Michiel, cominciò l’assedio di Trieste. Tutto ciò accaddealla fine del 1368.

La città era ben munita e i Triestini si difesero strenuamente tanto che letruppe veneziane si trovarono in notevole disagio. L’assedio però si fecesempre più duro e i Triestini dovettero chiedere aiuti che furono rifiutati,

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dapprima dal patriarca di Aquileia e poi dal conte di Gorizia. I Triestiniprovarono allora a chiedere sostegno a Francesco di Carrara ed anche alVisconti, signore di Milano, ma ottennero uguale rifiuto, anche perchénessun principe italiano voleva aver beghe, liti e contrasti con la potenteVenezia. Quando ormai le armate di Venezia cominciarono ad aprire leprime brecce nella resistenza della città, i Triestini si offrirono in sudditanzaal duca Leopoldo d’Austria, che accettò subito essendo egli già in possessodi gran parte del territorio alle spalle di Trieste, ma gli mancava lo sbocco almare.

Il duca Leopoldo delegò il conte di Duino a rappresentarlo per la firmadell’atto di dedizione da parte dei Triestini, dove riconoscevano di esserestati, fin dal passato, in signoria ai duchi d’Austria. Ottenuta la firma del-l’atto di dedizione, il duca Leopoldo, inviò un potente esercito in soccorsodi una città oramai stremata, dopo un anno di stretto assedio, attaccando ilpotente campo veneziano.

In un primo momento, anche perché i Veneziani furono colti di sorpre-sa, sembrò che gli Austriaci dovessero facilmente prevalere, ma con abilemossa i due comandanti veneziani accerchiarono gli Austriaci facendolifuggire a precipizio. Per i Triestini, caduta ogni speranza, non restò altroche arrendersi.

Tutti temettero una vendetta spietata di Venezia, ma così non fu. Vene-zia pretese solamente l’esilio di quelli che erano stati gli avversi e, rispettan-do la città, chiesero un atto di dedizione al Doge. Per cautelarsi da ognievenienza esterna, Venezia fece costruire a difesa un castello sul colle di SanGiusto, che loro chiamarono Caboro, e il “castello a marina” dove oggi c’èil palazzo della Regione, già palazzo del Lloyd.

Trieste fu, era ed è sempre stata una città tormentata, infatti neanche iVeneziani durarono a lungo. Nel 1378 iniziò quella che fu chiamata la“guerra di Chioggia” che vide da una parte Venezia e dall’altra Genova, ilpotente re d’Ungheria, il patriarca di Grado, il signore di Padova e il ducad’Austria. A quel punto, con tante gatte da pelare, i Veneziani non seppero

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dove correre per difendersi.Genova riuscì ad espugnare Chioggia, mentre gli alleati occuparono tut-

te le città istriane che erano suddite di Venezia. Dobbiamo arrivare al 1380perché il patriarca di Aquileia, con un grosso esercito, venisse, diceva lui, aliberarla dai Veneziani saccheggiandola, assieme ai Genovesi. Fu così cheTrieste dovette firmare l’ennesimo atto di dedizione, questa volta al patriar-ca aquileiese consegnandogli, simbolicamente, le chiavi della città. Anchequesta appartenenza fu di breve durata.

Il 9 agosto del 1382, Trieste, con l’aiuto del conte di Duino che si im-possessò della città con la violenza, finì nelle mani del duca d’Austria edovette sottoscrivere quell’atto che poi fu detto di “dedizione all’Austria”.

Le turbolenze cittadine che ne seguirono, fanno capire quanti contrastici fossero in città contro quell’atto che, però, fece in modo che i Triestinisalvassero tutti i loro liberi statuti e rimanessero liberi di agire nei riguardidei potenti vicini.

Se fosse stato meglio rimanere fedeli a Venezia piuttosto che all’Austria,nessuno può azzardare una risposta, sta di fatto che, ragionando, alloraVenezia non aveva alcun interesse di avere una potenziale concorrente por-tuale, mentre l’Austria necessitava di uno sbocco al mare.

Trieste, bisogna dire il vero, non è mai stata austriaca perché, anche seera “dedita” all’Austria, serbò sempre la sua indipendenza interna sia difronte ai duchi prima, arciduchi poi e imperatori d’Austria che la resserofino al 1918.

Trieste mantenne sempre la sua libertà che le permise di conservare esviluppare la sua cultura italiana, anche nei secoli seguenti. Con questo attodi dedizione all’Austria finì il trecento triestino e sancì pure la fine del Libe-ro Comune che era stato il sogno di moltissimi triestini.

A questo punto della storia si può fare una considerazione che ritengoprofonda: - Trieste e i Triestini hanno sempre avuto troppi nemici, troppiavversari, troppi interessi, troppi tornaconti, troppe invidie, troppi rancori

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che si sono riversati contro questa splendida e viva città.Stiamo parlando della fine del 1300, oggi siamo nel 2001, siamo addi-

rittura in un altro millennio, ma pensandoci bene anche se senza guerre,distruzioni e saccheggi, le lotte per il potere, sia politico che economico,continuano, forse più subdole, più in silenzio, chi non sta attento, forse,non se n’accorge nemmeno, ma per la città fanno altrettanto male.

In economia, il porto e il suo punto franco contesi da Fiume, Capodistria,Monfalcone, Porto Nogaro, Venezia; in politica, pur essendo Trieste il ca-poluogo regionale, il Friuli, e Udine in particolare, vuole togliere, se possi-bile, molte istituzioni politico-amministrative proprie del capoluogo in modoche esso diventi Udine. Fatto con metodi moderni, che differenza c’è traquesto stato di cose e quello che c’era dalle origini di Trieste fino alla finedel trecento??

Non voglio andare oltre, anche perché, credo, che tutto questo saràmateria di chiusura di questa ricerca, che mi sta appassionando sempre piùman mano che procedo, infatti ci vogliono ancora 700 anni per arrivare aigiorni nostri. Forza e coraggio!

Gli Austriaci imposero alla città solamente la nomina del capitano, cheera preposto all’osservanza delle leggi e il controllo dei tributi finanziari.Egli dovette semplicemente tutelare gli interessi della cittadinanza e far ri-spettare gli Statuti, che rimasero sempre in vigore. Praticamente i Triestinicontinuarono a governarsi da sé, anche nelle relazioni con i vicini. Il ducad’Austria pretese per sé solo la metà delle tasse, ma alcuni anni dopo cedettealla città anche questo privilegio, per cui potremmo dire che Trieste conti-nuò, praticamente, ad essere un comune libero, sempre con un territoriolimitato, ma in pace. Nel vicino Friuli, invece, ogni castello era in guerracon il vicino finché Venezia, stanca, non conquistò tutto il territorio annet-tendolo a sé.

Del quattrocento ci sono tanti documenti conservati, che lo storico JacopoCavalli poté scrivere un libro sulla vita triestina del 1400.

Sappiamo così che i commerci cominciarono a riprendere fiorenti, spe-

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cialmente con l’entroterra e pure l’artigianato, per molto tempo da pochiesercitato, riprese vigore e si sviluppò notevolmente.

Il maggior benessere della città fu dato dalla vendita del sale ricavatodalle numerose saline disseminate lungo la costa; dall’olio dei suoi pregiatie numerosi oliveti situati nella valle delle Noghere e nella zona di San Dorligoe dal buon vino delle sue colline prodotto, come all’epoca dei Romani,nella zona che va da Sistiana a Barcola. Sul Carso, al contrario, si sviluppòe fiorì la pastorizia.

Sul Carso, oltre ai già noti villaggi di epoca romana, distrutti dai barbarie poi ricostruiti, quali Santa Croce, Sistiana, Aurisina e Slivia, si aggiunserodei nuovi, come Opicina, Trebiciano, Contovello e Basovizza.

Sempre dagli scritti si può rilevare che i Triestini già nel ‘400, nei giornifestivi, usavano andare a Opicina in una storica trattoria dove si mangiavamolto bene e veniva servito un ottimo vino del Carso. Gli allevatori di Basovizzae di Trebiciano affidavano ai “mandrieri”, pastori di origine slava e croata, leloro mandrie per essere portate al pascolo estivo fino al Monte Re.

Sempre su questi scritti si può leggere che Trieste era punto di raccolta edi partenza di pellegrini, che si imbarcavano su navi che li portavano nelleMarche e precisamente al santuario di Loreto per proseguire poi per Roma.A Trieste si eressero molti ospizi atti ad ospitare questi pellegrini che, spes-so, erano poveri e bisognosi d’aiuto. Ci furono, in quel periodo, gravi epi-demie di peste che provocarono la morte di molti abitanti. Il Comune, peralzare il livello e il tenore di vita da tanta miseria, favorì la venuta di com-mercianti ed artigiani italiani, per lo più veneti e friulani. In seguito a que-sta liberalizzazione all’immigrazione, giunsero anche i primi Ebrei ai qualisi ricorreva per prestiti in danaro. Contrariamente a quello che sarebbeadito a pensare, gli Ebrei furono molto meno esosi negli interessi di quelloche, nel secolo precedente, furono i Toscani. Fu così che i Triestini li bentollerarono, anche perché disponevano di molta moneta liquida cosa che,in quei tempi, non era facile trovare. Nacque così la prima comunità ebreain Trieste.

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L’economia non fu proprio florida al principio del quattrocento, però ful’inizio di una certa agiatezza. Infatti nei primi decenni di questo secolo sicostruì la loggia comunale dove i componenti delle tredici casate si raduna-vano per decidere i provvedimenti da assumere per il buon andamento del-la città.

Le tredici casate erano: Leo, Pellegrini, Bonomo, Belli, Burlo, Giuliani,Baseggio, Argento, Cigotti, Toffani, Stella, Padovino e Petazzi. Sembra quasidi leggere lo stradario di Trieste.

Per quanto le tredici famiglie maggiorenti si dessero da fare, l’economiastentava a decollare anche perché i Carniolici, che allora erano gli abitantidell’attuale Slovenia, per i loro traffici e commerci, preferirono appoggiarsialle cittadine istriane piuttosto che a Trieste. Fu allora che i Triestini decise-ro di acquistare un castello, quello di Castelnuovo (oggi Podgrad) sullastrada di Fiume, da dove, assieme agli altri due castelli di Moccò e di SanServolo, poterono bloccare la strada ai Carniolici, che venivano con lunghefile di asini, deviandoli ed obbligandoli ad andare a Trieste. Nella città diTrieste, un po’ scherzosamente e un po’ anche per dileggio, i Carniolicifurono chiamati “cici”.

Capodistria e Muggia protestarono per questa situazione, ma Venezia,aveva altre gatte da pelare. Era in corso una guerra tra il re d‘Ungheria e il red’Austria ed essendo, in un certo qual modo, Venezia alleata dell’Austria,non ebbe tempo per pensare alle piccole beghe delle città istriane con Trie-ste.

Scoppiarono allora, tra i signorotti della regione, che parteggiavano al-cuni per l’Austria ed altri per l’Ungheria, delle piccole guerricciole alle qualipartecipò pure la nostra città.

Per porre fine a questa situazione che si era venuta a creare, nel 1443l’imperatore d’Austria Federico III° inviò a Trieste uno dei suoi più capaciuomini, cioè il toscano Enea Silvio Piccolomini.

Essendo anche periodo di grandi scismi, all’imperatore d’Austria venneconferita l’autorità di nominare alcuni vescovi. Fu allora che nel 1447 ven-

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ne nominato vescovo di Trieste Enea Silvio Piccolomini, persona che sirivelò illuminata. Ma proprio per questa sua peculiarità, era destinato arimanere per poco tempo a Trieste, tant’è che nel 1450 divenne vescovo diSiena e pochi anni dopo ancora divenne Papa con il nome di Pio II°.

Gli ingegni, in quell’epoca, erano rari pertanto quei pochi che ci furono,riuscirono ad emergere anche grazie all’appoggio dei potenti e degli impe-ratori. Dove non arrivava l’ingegno, arrivava la potenza del denaro.

Federico III° fu un imperatore particolarmente povero, anche perchédovette indebitarsi per sostenere tutte le guerre con il re d’Ungheria. Deciseallora, per procurarsi denaro fresco, di “affittare” al comune di Trieste l’eser-cizio del capitano e delle altre cariche governative. In parole povere il Co-mune di Trieste tornò ad essere completamente padrone di se stesso perché,pagando, veniva a mancare anche il Capitano, che era l’unico rappresen-tante imperiale.

Tutto farebbe pensare che, finalmente, fosse arrivata un po’ di pace.Macché! Venezia, tra una pausa e l’altra delle sue guerre, pensò bene disistemare la “questione triestina” chiedendo la liberazione delle strade delCarso in modo che tutti quelli, che avessero voluto andare a commerciare,potessero passare. Chiesero pertanto la cessione del castello di Castelnuovo.Venezia, allora, deteneva il monopolio del sale, che per i tempi era fonte digrande ricchezza, e non voleva concorrenza da parte di Trieste che purepossedeva le sue saline e aveva il suo commercio del sale.

Fu così che nel 1463, per la terza volta, assediarono Trieste costruendodei bastioni per metterci le loro bocche da fuoco. I Triestini lavoraronocome dei matti. Di notte ripristinavano le brecce che le bombarde venezia-ne, durante il giorno, avevano aperto, opponendo una resistenza che fecemeravigliare gli stessi Veneziani.

La strapotenza di Venezia era indiscussa e nessuno, tantomeno Trieste,avrebbe potuto sconfiggere. Fu Papa Pio II°, che non dimenticò mai i Trie-stini, a intercedere e con i suoi uffici, firmò la pace.

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Trieste dovette, purtroppo, cedere i suoi tre castelli di Castelnuovo, Moccòe San Servolo, dovette impegnarsi a non portare per mare il suo sale netantomeno cederlo ai mercanti veneziani però, in cambio, fu salvata dalsaccheggio e dalla distruzione.

Seguì un periodo piuttosto brutto e confuso per la città. La cronaca, equindi non la storia, di quel periodo è piuttosto mutilata. Fu infatti scrittae poi tagliata diverse volte a seconda del colore politico, dell’appartenenzapartitica dei copisti che, intenzionalmente, vi fecero delle omissioni ed in-serirono degli errori.

Nel 1467 una piccola minoranza di nobili, venne cacciata in esilio pernon aver rispettato gli Statuti. Il 31 dicembre dello stesso anno, assieme allosco figuro che fu il capitano di Duino, tale Nicolò Luogar, rientrarono incittà gridando al tradimento.

Il Luogar tentò di annullare gli Statuti e le libere elezioni, di far firmareal Comune un atto solenne di abdicazione dei diritti a favore dell’impera-tore. A questo punto, toccati nelle loro libertà, i Triestini si opposero inarmi facendo prigioniero il capitano di Duino. Il Luogar ottenne la libertàin cambio del rilascio dei prigionieri triestini che si trovavano nelle carceridi Duino. I Triestini, che a lui si erano rivolti e lo avevano sostenuto, furo-no tutti impiccati tra gli archi della loggia municipale.

L’imperatore, constatata la ribellione della città, decise di punirlaesemplarmente ordinando al capitano Nicolò Luogar di raccogliere un eser-cito nella Carniola, e facendolo marciare contro i rivoltosi.

Lo scontro avvenne nei paraggi di Ponziana e fu uno scontro epico nelquale, i Triestini guidati da Cristoforo Cancellieri si batterono eroicamentefino alla morte. Vinta ogni resistenza, si narra che il vincitore diede la cittàai suoi uomini che la saccheggiarono, la bruciarono e sembrerebbe che lacittà fu rasa al suolo. Per tenere doma la città, l’imperatore fece costruire ilcastello di San Giusto.

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CAPITOLO 4

Trieste, pian piano, cominciò a riprendersi, ma certamente il periodonon era dei più tranquilli. Nel 1469 quelli che furono il terrore della Cri-stianità, i Turchi, fecero la loro comparsa da queste parti spingendosi fino aCastelnuovo.

L’impero turco stava sviluppandosi verso l’Europa e lungo i Balcani.Conquistarono la Grecia, la Macedonia, gli altri stati balcanici e su su finoad arrivare alle porte di Vienna che venne stretta d’assedio.

Dalle nostre parti, però quelli che vennero non erano veri e propri Tur-chi, ma bande di predoni che comprendevano elementi di razze diverse, matutti avidi di bottino. Passarono come una meteora, infatti come una furiagiunsero, razziarono, bruciarono, uccisero e rapirono donne e bambini pervenderli come schiavi, poi sparirono, scomparvero velocemente come velo-cemente erano giunti.

Il punto più vicino dove furono viste le truppe regolari Turche, fu lapiana di Zaule. Negli anni seguenti i Turchi, sempre evitando la città diTrieste, attraverso l’altipiano carsico, passarono nel Friuli dove i Venezianiper arginarli eressero la fortezza di Palmanova.

Morto l’imperatore Federico d’Austria, amico dei Veneziani, gli successeMassimiliano che trovò subito modo di litigare. Ecco che nel 1508 Veneziamosse guerra all’Austria. Lo scontro avvenne a Pieve di Cadore dove l’eser-cito veneziano, guidato da Barlotomeo d’Alviano, mise in fuga gli Austria-ci. Per l’ennesima volta Venezia, con le sue galere, bombardò Trieste, unicacittà imperiale sul mare rimasta. Essendo caduta pure Gorizia, ai Triestininon rimase altro che arrendersi per evitare un’altra distruzione. Trieste pas-sò, nuovamente, sotto il dominio di Venezia i cui possedimenti giunserosino alla Alpi Giulie.

I Veneziani dotarono il castello di San Giusto, che era ancora in costru-zione, del bel bastione rotondo dove, oggi, è ben visibile la lapide con illeone di Venezia.

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I Triestini, per liberarsi dai Veneziani, cercarono di convincere la Cortedi Vienna quanto fosse per loro utile avere uno sbocco sul mare Adriatico.La corte asburgica, allora, non capì tale importanza anche perché avevaaltre cose a cui pensare che erano rappresentate dalle beghe con l’Ungheria.

Venezia non ammetteva concorrenze sul mare, così che per buona partedel cinquecento fu un periodo molto duro per Trieste e la sua economiamarittima, tanto da arrivare addirittura alla fame.

Il diciassettesimo secolo fu anche peggiore del precedente. La città, acausa delle pestilenze, fu ridotta ad avere circa tre mila abitanti, quasicome nel medio evo e rischiò, quasi, di finire la sua esistenza di città. Triestefu sfiorata dalla guerra tra Austria e Venezia che durò dal 1615 al 1618 e siconcluse con la battaglia di Gradisca. In quel periodo gli Austriaci comple-tarono la costruzione del castello di San Giusto.

Si narra che la città fosse in un tale stato di miseria che quando, nel1660, giunse a Trieste l’imperatore Leopoldo I°, i reggenti la città non po-terono nemmeno offrire una cena a base di pesce all’augusto ospite, e si cheTrieste era una città di mare. Si calcola che la miseria fosse dovuta al fattoche la città non corresse con i tempi e che rimanesse legata ai frutti ed aiproventi della terra che i vari signorotti possedevano.

Ci ritroviamo agli inizi del 1700 e Trieste sembrava ancora una cittàmedioevale, cinta dalle mura e arroccata al colle di San Giusto sul qualespiccano tuttora il castello e la basilica di san Giusto. Scendendo verso ilmare c’erano tante piccole case in mezzo alle quali si erigeva la chiesa diSanta Maria Maggiore, costruita dai Gesuiti nel corso del XVII secolo, edera la più grande chiesa di Trieste. In basso, verso il mare con le mura chefino a lì arrivavano, c’era la Piazza Grande con il Palazzo comunale e la sualoggia, la torre del Mandracchio, il Teatro e la chiesa di San Pietro, nonchéla Locanda Grande che era l’albergo della città. Tutti questi palazzi ogginon ci sono più, almeno nella loro forma originale.

Al di fuori delle mura c’erano i campi coltivati, le saline e lo squero dovesi riparavano e costruivano le barche. La città con il circondario poteva

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contare su di una popolazione di circa cinquemila abitanti.Ma ecco che, nel ‘700, sta per capitare l’evento più importante per la

storia della città e che decise il suo futuro. Il 18 marzo 1719, l’imperatoreCarlo VI° dichiarò e proclamò lo stato di “porto franco” per la città diTrieste. In pochi anni, grazie a questa sua nuova situazione economica, lacittà si trovò ad avere oltre trentamila abitanti.

Grati, i Triestini, nel 1728 eressero una statua all’imperatore Carlo VI°in occasione della sua visita alla città, riconoscenti anche per essere statiscelti tra altri porti concorrenti che ambivano a divenire porti franchi, tra iquali Fiume, Buccari e San Giovanni di Duino. La statua a Carlo VI°, ancoroggi, è posizionata sul lato sinistro in alto della Piazza dell’Unità d’Italia.

Pur essendo già tangibile un certo benessere, la sola dichiarazione diporto franco non fu sufficiente a far progredire Trieste. Ci vollero altrestrategie e misure più energiche che solo Maria Teresa d’Austria, aiutata dalfiglio, il futuro Giuseppe II°, seppe proporre ed imporre alla città a scapitodell’antico municipio patrizio e privilegiato che dovette inchinarsi e cedereal nuovo corso voluto dal governo centrale di Vienna.

Furono queste misure che fecero mutare il piccolo centro in una cittàmoderna, fresca, operosa, attiva e laboriosa.

Tanto laboriosa da sentire, nel 1751, la necessità di incaricare l’architet-to bergamasco Mazzoleni di proporre e far realizzare la “fontana dei conti-nenti”. Il Mazzoleni, avvalendosi di tre “scalpellini di fino”, quali GiovanniVenturini, Giuseppe Grassi e Giambattista Pozzo, fece eseguire questa fon-tana da erigere nella Piazza Grande. Pregò, nel contempo, l’abate GianDomenico Bertoli di Aquileia, di dettare le epigrafi da apporsi alla basedella fontana stessa. In questa fontana, il Mazzoleni, volle contenere unaraffigurazione simbolica del commercio, con le sue statue rappresentanti lequattro parti del mondo, la quinta allora si ignorava. Vi fu rappresentata lafama che gridava al mondo l’Emporio Triestino rappresentando colli di mer-ci, botti ed altri emblemi del traffico accatastati sopra una piramide di bloc-chi di calcare, con ai lati le deità pagane appoggiate in conchiglie marine,

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nelle quali sgorgava l’acqua per poi precipitare nel bacino. La statua dell’Afri-ca la si volle in marmo nero, alle altre diedero costumi caratteristici.

La lapide dettata dall’abate Bertoli fu tutta una celebrazione a questacittà simbolo di un periodo storico, essa recita così:

MEDIO HOC SECULO (alla metà di questo secolo) FRANCISCO IET MARIA THERESIA REGNATIBUS (regnando Francesco I e MariaTeresa) CURA RUDOLPHI S.R.I. COMITIS A CHOTEK (a cura diRodolfo conte del S.R.I. Chotek) AERARI PUBLICIREGENDORUMQUE COMMERCIORUM PRAESIDIS (reggente delpubblico erario e presidente del commercio) SUB PREFECTURA (sottola prefettura) COMITIS NICOLAI AB HAMILTON (del conte Nicolade Hamilton) URBIS TERGESTI INCREMENTA (fu dato incrementoalla città di Trieste) AB IPSIS IN CHOATA SUNT RERUM OMNIUMCLEMENTIS (con gli elementi di tutte le cose) IGNIS CULTO VICINAESYLVAE COPIOSIOR (copioso il fuoco della vicina selva) AEREXPLETIONE SALINARUM PURIOR FACTUS (l’aria purificata colprosciugamento delle saline) TERRA FUNDO SANCTORUMMARTHIRYUM AUCTA ( ampliata la terra col fondo dei S.Martiri) AQUAA SCATURIGINE MONTIUM AD HUNC FONTEM DUCTA FUIT(l’acqua adotta a questa fonte dalla scaturigine dei monti).

Sulla lapide posta sull’altro lato, verso il mare, ha un’intenzione altezzo-sa e recita così:

SENATUS TERGESTINUS CIVIUM ADVENARUMQUECOMMODO HUNC FONTEM PERENNIS AQUAE AUGUSTAEMUNIFICENTIA DEDUCTAE PUBLICO AERE POSUIT – A.S.MDCCLI.

Tradotto ed interpretato così: - Il Senato Triestino a comodo dei cittadi-ni e dei forestieri questa fonte, d’acqua perenne, per augusta munificenzaadotta, su area pubblica fu posta – Anno di nostra salute 1751.

Maria Teresa decretò pure la libertà di culto a Trieste che permise allevarie comunità religiose, che qui risiedevano, di costruire le proprie chiese.

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Unica condizione che Maria Teresa pose fu che tutte le chiese non cattoli-che fossero addossate, almeno su di un lato, ad un edificio civile.

Le mura furono abbattute, interrate le saline, e su questa bonifica fucostruita una nuova zona di Trieste che in onore della sovrana fu chiamataBorgo Teresiano.

La “nuova città” fu costruita con belle strade dritte e bei casamenti, dovec’erano i magazzini, gli uffici come pure le case dei commercianti. Duetratti erano stati scavati in profondità in modo da per mettere al mare dipenetrare. Furono creati così il Canal Grande e il Canal Piccolo, dove inavigli poterono entrare ed essere più comodi per le operazione di sbarcoed imbarco dei prodotti e dei passeggeri.

Ingrandendosi la città, successero anche fatti di cronaca che, per l’epoca,fecero molto scalpore. Prendendone uno a caso, anche perché uno dei pro-tagonisti ha un nome ancora noto a Trieste, è quello in cui GiovanniGioachino Winckelmann, un prussiano, fondatore dell’arte moderna e padredell’archeologia, nel 1768, di passaggio per Trieste, prese alloggio alla giàcitata Locanda Grande, dove venne accoltellato e ucciso a scopo di rapina,da tale Arcangeli.

L’assassino venne preso e giustiziato, mediante “ruotazione” in piazzadavanti alla locanda dove aveva commesso il delitto.

Il corpo del defunto Winckelmann non si sa che fine abbia fatto, per-tanto a ricordo di questo fatto, ma soprattutto per rendere omaggio all’illu-stre personaggio, nel 1833 venne costruito un cenotafio, sarcofago senzacadavere, ora custodito nell’Orto lapidario di San Giusto.

Nel secolo XVIII, con l’evolversi della città e con l’aumento conseguen-te dei suoi traffici, vi giungevano sempre più nuovi immigrati, molti deiquali furono i veri e propri autori dello sviluppo della città.

Essi erano provenienti da parecchi e diversi paesi come per esempio ilgreco Ciriaco Catraro, abilissimo negli affari che divenne molto ricco e fu ilprimo ad insistere perché a Trieste fosse costruita la Borsa. Possiamo ricor-dare il livornese Matteo Giovanni Tommasini, commerciante e finanzieredi grosso spessore che progettò la costruzione di un nuovo teatro, ma che

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venne ripreso, più tardi, dal siriano Antonio Pharaon detto Cassìs, altroricco commerciante, che ne ultimò la costruzione. In città, data la conti-nua immigrazione in cerca di fortune o per sfuggire nei paesi di origine apersecuzioni politiche, giunsero greci, svizzeri, tedeschi del nord, spagnoli,francesi e italiani appartenenti ai vari Stati ed infine molti orientali.

Con tutte queste razze, questi popoli, e di conseguenza tante lingue, lacittà avrebbe potuto divenire una Babilonia. Invece così non fu perché inuovi arrivati si uniformarono allo spirito della città e in brevissimo tempone acquisirono sia la cultura, gli usi e costumi, che la parlata italiana.

Agli inizi qualche leggero screzio ed incomprensione ci fu tra le vecchiefamiglie patrizie che abitavano la case della città vecchia e la nuova aristo-crazia commerciale e straniera che abitava la città nuova, dove amava farsierigere dei sontuosi palazzi come, ad esempio, il ricco commerciante grecoDemetrio Carciotti che si fece costruire quella meraviglia architettonicache è appunto il “palazzo Carciotti”. Contrariamente a quanto tutti credo-no, il palazzo Carciotti non si limitava a quella che fino all’anno scorso fu laCapitaneria di Porto, bensì si estendeva a tutto quell’edificio già occupato,fino a poco fa, dall’A.C.E.G.A.T., per intenderci tutto l’isolato compresotra riva Tre Novembre, via Genova, via Cassa di Risparmio e via Bellini.

Altro personaggio di spicco della Trieste che contava, fu il conteDomenico Rossetti de Scander, nobile, commerciante, letterato, giurista estorico. Nel 1810 egli fondò la Società di Minerva che come scopo si pre-figgeva di promuovere gli studi sulla storia di Trieste ed elevare la vita cultu-rale della città.

Trieste, in quell’epoca sentì la necessità di avere un mezzo di informa-zione che non fosse il solito passaparola e il sentito dire. Così nel 1784, untoscano, iniziò a stampare il primo giornale edito a Trieste. “OsservatoreTriestino” fu chiamato ed iniziò con lo stampare poche copie, ma agli inizidell’800 già aveva una tiratura di tutto rispetto.

Trieste cominciò ad essere “osservata” da parecchie potenze, tant’è che il

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29 aprile del 1797 anche Napoleone Bonaparte, con due generali e centoussari entrò in città. Pernottò una sola notte presso il Palazzo Brigido, sullacui facciata in via Pozzo del Mare esiste una lapide in ricordo dell’avveni-mento, si fece consegnare tre milioni di contributo e se ne andò con la cassadel Comune.

I Francesi comunque ritornarono e vi rimasero dal 1805 al 1814. Laloro dominazione non fu delle più felici e l’economia della città ne risentì,tanto da far rimpiangere gli Austriaci. Furono create, dai Francesi, le famo-se “Province Illiriche” nel cui territorio era compresa pure Trieste. GerolamoBuonaparte, fratello dell’imperatore, già re di Westfalia e col titolo di prin-cipe di Montfort, soggiornò a Trieste parecchie volte tanto che acquistò lapalazzina, che oggi è la sede del Presidio militare dove, nel 1822 nacque suofiglio che, vent’anni dopo, sposò Clotilde di Savoia. Si narra che, in puntodi morte, il marito di Clotilde raccomandasse la sua città natale a VittorioEmanuele II. La villa oggi si chiama “Villa Principe Napoleone” dal nomedel figlio di Gerolamo.

Il 14 maggio 1850, l’imperatore Francesco Giuseppe I pose la primapietra per la costruzione della “ferrovia meridionale” detta così perché, par-tendo da Trieste attraverso Aurisina, che era il meridione dell’Austria salivaal settentrione, cioè nella capitale Vienna.

La città aveva raggiunto, ormai, i centocinquantamila abitanti ed il vec-chio Acquedotto Teresiano risultò insufficiente per gli sviluppi della cittàtanto che nel 1859 venne costruita la centrale dell’acquedotto di Aurisina.

Nel 1864 fu introdotta pure l’illuminazione pubblica alimentata a gas.

Trieste fu sede di numerose compagnie di navigazione e scalo maritti-mo, si sentì perciò la necessita che sorgessero le prime compagnie di assicu-razione le quali fiorirono in breve tempo.

Ci sono parecchi documenti che attestano l’esistenza a Trieste di moltefabbriche, dalle carte da gioco ai pallini da caccia. Esiste ancora oggi, in viaSan Francesco vicino al nuovo palazzo della Regione, la “torre dei pallini”dove appunto il piombo fuso veniva colato dall’alto in una vasca d’acqua

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gelida dove solidificavano. A seconda dell’altezza da cui veniva colato ilpiombo esso prendeva la forma e il calibro desiderati.

C’erano pure parecchi cantieri navali di cui il più famoso di tutti fu il“Cantiere Panfili”, fondato nel 1780 e dove nel 1818 venne costruita laprima nave a vapore, varata con il nome di “Carolina”. Nel 1829 presso iCantieri Panfili si apprestò la prima nave ad elica del mondo su progetto diGiuseppe Ressel. Nel 1860 venne inaugurato il Cantiere San Marco che eradestinato a divenire uno dei più grandi ed importanti cantieri navali d’Ita-lia e del mondo.

Mi fermo un solo momento a pensare che in tutto questo ben di Dio diiniziative c’era già, da parecchi anni, anche il mio avo Gaspare che aprì, nel1799, “pubblica stamperia” in Trieste.

Risale al 29 dicembre del 1881 l’inaugurazione e l’uscita della primacopia del giornale “Il Piccolo” che fu così chiamato per il suo ridottissimoformato.

Nella zona tra l’attuale p.zza Oberdan, foro Ulpiano e via Fabio Severoc’erano le caserme austriache nelle quali avevano sede anche le prigioni.Non si trattava di prigioni per detenere delinquenti comuni, bensì prigionimilitari. Infatti stiamo entrando nel periodo detto dell’irredentismo e dellaredenzione.

Di quelle costruzioni militari, oggi, rimane solamente la cella di rigorein cui fu rinchiuso Guglielmo Oberdan e che è diventata monumento na-zionale e sede del museo del Risorgimento.

Guglielmo Oberdan nel 1878 venne chiamato al servizio militare perprendere parte all’occupazione della Bosnia–Erzegovina, ma egli disertò,fuggì in Italia per unirsi ai patrioti triestini e istriani.

Oberdan, perciò, era un patriota e voleva fermamente che Trieste venis-se annessa all’Italia. Ma la terza guerra d’indipendenza era da poco finita el’Italia firmò un patto d’alleanza con l’Austria. Questo patto a Oberdan e aisuoi amici patrioti proprio non andava giù e pensò bene che ci volesse

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un’azione dimostrativa per esprimere il malcontento della città di Trieste escuotesse così i suoi cittadini.

Nel 1882, in occasione del quinto centenario della “dedizione” di Trie-ste all’Austria ci furono svariati festeggiamenti tra i quali anche un’esposi-zione che avrebbe dovuto essere inaugurata da Francesco Giuseppe I° inpersona.

Oberdan pensò bene di tornare a Trieste per tentare, con una bomba, diuccidere l’imperatore. Egli sapeva che l’impresa fosse quasi impossibile perla protezione che l’imperatore avrebbe avuto e la difficoltà, quindi, di avvi-cinarlo per lanciare la bomba.

Così fu infatti, tanto che egli non giunse nemmeno a Trieste, ancheperché tra i patrioti si era infiltrata una spia austriaca che lo denunciò,facendolo arrestare in una casa, a Ronchi, dove era in attesa del momentopropizio per andare a Trieste. Trovato in possesso di due bombe, vennetradotto a Trieste e portato prima alle carceri, che si trovavano presso S.MariaMaggiore e quasi immediatamente segregato nella caserma, in quella cellabuia e senza finestre che oggi, come detto, è l’unica testimonianza dellacaserma austriaca.

Originariamente l’edificio, costruito per volere di Maria Teresa nel 1769,fu destinato a ospizio per i poveri e ospedale. Nel 1786 fu convertito incaserma e carcere da Giuseppe II.

Venne apprestata la forca e con ciò gli Austriaci pensavano di spaventar-lo e fare in modo che rivelasse tutti i segreti a sua conoscenza, sui motti deipatrioti. Ma lui rifiutò perfino di chiedere la grazia all’imperatore, perchévoleva morire per attirare, col suo sacrificio, l’attenzione di tutti gli Italianisulle tristi condizioni politiche dei Triestini. Per questi motivi, Oberdanvenne ricordato come il primo volontario e il primo martire della guerra diredenzione. Alle sette del mattino del 20 dicembre 1882, all’età di 24 anni,venne giustiziato ed il suo corpo non fu mai più ritrovato.

A riunificazione avvenuta tutte le città d’Italia, il cui stemma è postosopra la cella, si tassarono in ragione di un centesimo per abitante in modo

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da raccogliere la somma necessaria ad abbattere, nel 1925, la vecchia caser-ma austriaca e a costruire, nel 1927, il sacello dedicato a Guglielmo Oberdan,nonché la casa del Combattente, dove hanno sede, appunto, tutte le asso-ciazioni combattentistiche e pure il Museo del Risorgimento.

Nel vicino museo sono ricordati tanti altri patrioti che si sono distinti,per ardimento, per unire la città di Trieste all’Italia. Tra i tanti ricordiamo ilgenerale Petitti di Roreto, per primo sbarcato a Trieste il 3 novembre 1918.Ma non dobbiamo dimenticare il capodistriano Gian Rinaldo Carli, cheancora nel 1700 auspicava l’unione di tutti gli Italiani in uno stato sovrano.Poi tanti nomi, allora sconosciuti, che nel 1848 si radunavano all’internodel Caffè Tommaseo, covo di irredentisti e patrioti che, alimentati dagliarticoli del giornale “La Favilla” svilupparono sempre più la coscienza na-zionale. Fu così che tanti giovani giuliani e dalmati parteciparono alle guer-re del nostro Risorgimento tra le fila dell’esercito italiano e dei garibaldini.

Di quelli sconosciuti che si radunavano al caffè, spiccano alcuni nomiche, per le loro attività, partecipazione armata o semplice sostegnoall’irredentismo, divennero famosi e sono oggi ricordati quali Giusto Muratti- bersagliere garibaldino, Lorenzo Gatteri – pittore che su tela riproducevaepiche battaglie, Giuseppe Caprin – che partecipò nel 1866 alla battaglia diBezzecca nel Trentino, Domenico Lovisato – nato a Isola d’istria che seguìGaribaldi nella III guerra del Risorgimento, Gabriele Foschiatti, LeoneVeronese....ecc.

Questo fu il prologo della grande guerra, come venne chiamata la guerrache l’Italia combatté contro l’Austria per annettere a sé le provincie di Trentoe di Trieste, capisaldi austriaci.

Il 28 Giugno 1914 scoccò la scintilla che diede il pretesto per lo scoppiodella prima guerra mondiale. Uno studente serbo attentò ed uccise a Sarajevo,l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, nipote dell’imperatore Fran-cesco Giuseppe e pretendente al trono di Austria e Ungheria.

Fu così che l’Italia entrò nel conflitto, il quale iniziò il 24 Maggio 1915e terminò il 4 novembre 1918, anche se, per la verità Trieste si liberò da sola

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insorgendo con ribellione generale il 30 ottobre 1918 e si offerse con deli-rio d’amore all’Italia chiamando le truppe, ferme a Venezia. Il 3 novembre1918 esse giunsero con il cacciatorpedinere Audace, il quale attraccò a quelmolo che ancor oggi porta il suo nome e con un reggimento di bersaglieriche sbarcarono alla stazione marittima. Davanti a tutti, fieri di giungere inuna città che si era liberata da sola, marciarono il generale Petitti di Roretoa fianco del duca d’Aosta.

Nel periodo che precedette questo storico evento è doveroso ricordare inomi dei Triestini che presero parte attiva alla guerra e furono moltissimi.Ne citeremo solo alcuni in rappresentanza di tutti che eroicamente com-batterono quella guerra e che in parecchi caddero per l’ideale di proclamaree difendere l’italianità di Trieste: Scipio Slataper, Ruggero Timeus, Pio RiegoGambini, Giuseppe Vidali, Emo Tarabocchia, i gemelli Aurelio e FabioNordio, Ruggero Fausto Timeus, Antonio Bergamas, GabrieleD’Annunzio......fino a giungere alle medaglie d’oro concesse a Ugo Polonio,Carlo e Giani Stuparich, Giacomo Venezian, Francesco Rismondo, NazarioSauro, Guido Brunner, Guido Slataper, Spiro Xidias, Fabio Filzi e GuidoCorsi, nomi che, giustamente, furono ricordati dedicando loro altrettantevie cittadine.

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CONCLUDENDO...

A questo punto posso dire, perché lo penso, che Trieste abbia assuntoquella che è la sua vera identità: essere italiana.

A grosse linee cerchiamo di riassumere la lunga, ma breve storia di Trie-ste e dei Triestini. Trieste fu dapprima un castelliere, un piccolo scalo perscambi e/o baratti con navi provenienti da oriente, poi divenne dominioromano, seguirono invasioni e distruzioni alle quali seguì il dominio bizan-tino. Nel medioevo fu un po’ ai margini di eventi che sconvolsero, più ilFriuli e le Venezie e pur passando, alternativamente, sotto domini dei Vene-ziani, degli Austriaci, dei vari Patriarchi fino all’ottocento dove giunseroTedeschi del nord attratti da una cultura che amavano e che ritenevanosuperiore; i Greci provenienti da zone povere spesso oppresse dai Turchi,per non parlare degli Slavi che giungendo, per lo più, dal contado trovaro-no a Trieste un ambiente culturalmente molto evoluto.

Trieste fu sempre un po’ autonoma anche grazie alla testardaggine deiTriestini, che volevano essere liberi di amministrarsi come meglio credeva-no. Anche se, probabilmente, in città agli inizi c’erano dei partiti politicifilo-austriaci, filo-veneziani e filo- patriarchini, la più grande preoccupa-zione, che in ciò li univa, era salvaguardare e difendere la libertà del comu-ne e dei suoi statuti che davano facoltà alla città di amministrarsi da solatramite il Consiglio Maggiore e il Consiglio Minore, che si possono para-gonare alle attuali Camera dei Deputati e del Senato. Nemmeno il dominiodi 500 anni da parte dell’Austria riuscì ad eliminare tutti questi privilegi.Solamente gli ultimi 150 anni di dominio austriaco furono un po’ più pe-santi anche perché, i Triestini, decisero di togliersi di dosso il giogo austria-co e ciò comportò una maggiore pressione e repressione sulla popolazione.

Trieste è sempre stata piccola, chiusa in se stessa a difendere il suo esiste-re e soprattutto la sua lingua che nessun dominatore o semplice immigrato,riuscì mai a cancellare, anzi furono loro che dovettero adattarsi, con veropiacere però, ad imparare non solo la lingua italiana ma anche costumi, usi

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e tradizioni esistenti tanto che, dopo pochi anni di permanenza, come suc-cede tuttora, tutti si sentono e vogliono essere considerati triestini.

Questo è quello che la Storia destinò ai Triestini cioè di restare italianiattraverso le innumerevoli vicende durante i secoli in questo estremo lem-bo orientale della penisola.

È storia recente quella in cui i Triestini dovettero nuovamente esseresoggiogati da dominazioni straniere e cioè dal 1943 al 1945 dai Tedeschi,nel 1945, per soli 40 giorni fortunatamente, dai partigiani slavi ed infineper ulteriori nove anni, fino al 1954, dall’amministrazione militare anglo-americana.

Avrebbe dovuto essere creato il Territorio Libero di Trieste, quale cusci-netto tra oriente e occidente ma, per fortuna, la decisione dei quattro “Gran-di” rimase solamente sulla carta e alla fine del 1954 Trieste, con la suaridottissima provincia, ritornò all’amministrazione italiana.

Anche la situazione economica della città è cambiata. Da città cantieristicasi è passati a città di studi e di cultura. Le grandi industrie sono emigrate onon sono state create a parte la Grandi Motori Trieste. Le raffinerie petroli-fere hanno cessato la loro attività e la zona è divenuta deposito di greggioche tramite l’oleodotto transalpino viene mandato fino nell’alta Germania.In cambio Trieste si è dotata di uno dei più importanti centri mondiali difisica nucleare, a Miramare, intitolato al premio Nobel Abdul Salam che,per decenni, lo resse e lo diresse fino a farlo diventare il più ambito punto distudio e di ricerca, meta dei migliori ricercatori mondiali.

L’Area di Ricerca di Padriciano, altro complesso scientifico che l’Euro-pa, se non il mondo, c’invidia. Esso doveva sorgere a Vienna, ma fu sceltainvece la località carsica per la sua collocazione geografica e orografica, purrimanendo a Vienna la direzione logistica e amministrativa.

Ultimo nato in ordine di tempo, ma forse anche l’opera più importanteè il Protosincrotrone, o come più comunemente viene detto “anello di luce”.Infatti in esso vengono studiate le risultanze dell’accelerazione delle mole-cole in questo anello.

Trieste così è diventata un polo della scienza, un centro di convegni

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mondiali e, sembra, si stia studiando la creazione di un nucleo alberghierodi dimensioni tali da poter diventare sede mondiale scientifica permanente.A questo proposito, sembra che un gruppo americano abbia intenzione dirilevare e bonificare dall’amianto l’hotel Europa, lungo la Riviera triestina,e adibirlo, appunto, esclusivamente a insediamento di studiosi e scienziatidi tutto il mondo.

Non è come agli inizi di questa ricerca dove gli scritti, le notizie, i docu-menti erano rari e frammentari, ora non è più possibile spaziare a largoraggio, ogni argomento, ogni avvenimento, ogni situazione ha bisogno diun intero libro per essere descritto. Tante persone, molto più qualificate,hanno già adoperato fiumi d’inchiostro per descrivere un solo palazzo o unsolo castello o un solo museo.

Io posso solamente leggere, imparare e recepire qualche cosa perché lamia Trieste, anche se piccola, ha tante cose da offrire e da far vedere a chivolesse scoprirle.

Una città come Trieste, penso, sia unica al mondo, sia per la sua confor-mazione orografica, per la sua collocazione geografica, per la sua storia, perla sua cultura, per la sua multietnicità, per il suo spirito, per la sua mentalitàche, alle volte, risulta un po’ troppo chiusa o poco aperta alle novità, allosviluppo, alla modernità. I Triestini si rifugiano nel loro passato, che fusplendido, ma non vogliono capire che non potrà mai più ritornare se noncon innovazioni sia tecnologiche che culturali, con la mentalità aperta cheil nuovo millennio deve e potrà portare. Solo rimboccandoci le maniche,stringendo i denti e lavorando intensamente potremo essere nuovamenteuna grossa e importante città nel mondo e non certamente cullandoci innostalgici ricordi che nulla producono e a nulla servono.

In un’Europa che cerca di unificarsi in una sola grande nazione, in un’Eu-ropa dove popoli che europei non sono, vogliono entrare e farne parte aqualunque costo, dove si cerca di creare un’economia comune per il bene ditutti, dove perfino la moneta di scambio sarà unica, a Trieste esistono anco-ra delle persone ottuse e retrograde. Esse vorrebbero isolarsi e isolare la cittàquasi desiderassero ritornare all’epoca dei liberi comuni, con le piccole bot-

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teghe artigiane, gli usurai toscani o ebrei, con un’economia basata sullaquotidianità senza sviluppo, senza domani, senza progetti, senza futuro certoo almeno programmato, senza quella imprenditorialità che, al giorno d’og-gi, necessita per poter guardare con una certa serenità al futuro nostro masoprattutto al futuro dei nostri figli e dei figli dei nostri figli. Trieste sveglia-ti, scuotiti, sii la Trieste che mai si è piegata a nessuno, ma che sempre hacollaborato e ha accolto tutti in seno a sé per poter cooperare ed essereaccolta nel mondo intero!

Comunque sia, Trieste io t’amo perché sei Trieste ed io sono fiero diessere Triestino.

Finito febbraio 2001Dati storici e notizie tratti da bibliografie varie di:Lorenza Rescinati, Giulia Paola Ruaro, Laura Loseri Ruaro, Fiorenza de Vecchi, MarziaVidulli Torlo, Ettore Campailla, Dante Cannarella, Adriano Verani

Enciclopedia multimediale GEDEA, De AgostiniEnciclopedia UNIVERSO, De Agostini

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INTRODUZIONE

Mia moglie ed io non siamo mai stati dei grandi camminatori, di quelliche la domenica mattina si trovano in piccoli gruppi e che con lo zainostrapieno sulla schiena, pantaloni comodi, possibilmente di velluto, scar-poncini alti che stringano bene le caviglie, rigorosamente camicia di flanel-la pesante a quadri più o meno colorata, giubbotto con la zip, leggero d’estate,pesante d’inverno, cappello in testa e bastone nodoso con la punta di me-tallo per aiutarsi sugli impervi sentieri, prendono le macchine per avvici-narsi alla montagna prescelta per quel fine settimana. Ce ne sono tante nelnostro circondario, sia in Italia che in Slovenia fino ad arrivare alle primemontagne della Carinzia. Rocce, flora e fauna abbastanza simili, ma co-munque sempre paesaggi ed accostamenti differenti, che fanno di ogni gitauna storia a sé sia per l’impegno che per l’appagamento delle vedute e degliscorci.

Gente di poche parole che si avventura in lunghe ed estenuantiarrampicate e discese su sentierini di media ed alta montagna, magari cheabbiano anche dei tratti in “ferrata”, equipaggiati con il cinturone in vita edil moschettone da agganciare al cavo d’acciaio quale sicurezza sull’imperviae impegnativa salita.

Se non si fanno almeno 30 chilometri, loro la chiamano una“passeggiatina in montagna” e non gita od escursione. Questa si può defi-nire una vera e propria passione sportiva oltre che amore per la montagna.

Avendo il fisico adatto, allenato fin da giovani, questa è una sana voca-zione che ritempra oltre che il fisico anche lo spirito, che ti fa sentire liberoal contatto con la natura, svincolato in un mondo quasi irreale.

Alla sera ti ritrovi stanco fisicamente, ma con la mente sgombra, libera eleggera; una serenità idilliaca ti fa dimenticare e sopportare i doloretti mu-scolari che, con il passare degli anni, inevitabilmente si fanno sentire e nonvorresti che il tempo passasse per poter assaporare ancora il piacere di quel-la gioia, magari davanti ad un buon bicchiere di vino in qualche rifugiomontano davanti ad un caminetto scoppiettante.

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Un quadro del tutto opposto e così lontano dalla realtà quotidiana dellacittà, che con la frenesia, le ansie, la lotta con il tempo per raggiungere nonsi sa cosa, il cercare di acchiappare un’ipotetica e teorica meta che, beffarda,corre più di te e raramente si fa raggiungere.

Anche qui alla sera ti ritrovi stanco fisicamente, ma anche mentalmen-te, magari con un ”cerchio alla testa” che ti attanaglia e non vedi l’ora diandare a dormire per riposare, ma soprattutto per liberare la mente daimille problemi accumulati.

Mia moglie Nory ed io, saltuariamente e non con regolarità settimanalecome i veri appassionati, qualche volta accompagnati da coppie di amici, ciavventuriamo in “passeggiate” che per noi sono gite anche impegnative,rimanendo in provincia o tutt’al più in regione.

Il nostro scopo non è quello di fare i famosi trenta chilometri o più, maè quello di trascorrere una giornata o anche solo un pomeriggio all’ariaaperta con un altro intendimento: quello di scoprire, vedere, osservare, ri-scontrare o trovare degli indizi, dei cenni o nozioni, dei referti, delle notiziesu quanto che ci circonda sia riguardo alla flora, alla fauna, alla mineralogiache all’orografia e al paesaggio che ci attornia.

Cercherò di ricordare alcune delle nostre escursioni che, muniti di li-bretti, opuscoli o semplici annotazioni, abbiamo fatto negli anni cercandodi “vedere” le cose, che con tanta dovizia di particolari, eminenti studiosidel Carso hanno descritto per far sì che non di una semplice passeggiata neiboschi, nei prati o sulle rocce si tratti, ma che la passeggiata diventi anchefonte di informazione e di cultura in modo di farci apprezzare e capirequello che ci circonda

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COS’È IL CARSO

Innanzi tutto dobbiamo capire il Carso, sia geograficamente che geolo-gicamente e pertanto avvalendoci di un’enciclopedia e libri vari scritti sul-l’argomento, cerchiamo di capire questo fenomeno.

Il Carso è una regione a cavallo del confine tra Italia del nord est e laSlovenia nord-occidentale ed è delimitata dai corsi del Vipacco e del Timavoa nord est, e da una linea che unisce idealmente Punta Grossa con la città diPinguente, in Istria, a sud ovest. Si tratta di un esteso altopiano calcareoche, con forma allungata in direzione da nord ovest a sud est, si spinge dalbasso corso dell’Isonzo sino al golfo del Quarnaro formando il Carso pro-priamente detto. Nel suo ambito però si suole distinguere delle subregionie precisamente:

il Carso Monfalconese, situato a nord di Monfalcone e comprende illaghetto di Doberdò e culmina nel monte S. Michele a quota 274 metri sullivello del mare;

il Carso Triestino, formato dall’altopiano a nord di Trieste e che ha un’altez-za sul livello del mare, variante dai 200 ai 400 metri sul quale svetta ilmonte Lanaro che raggiunge i 545 metri di altezza;

il Carso di Villa Opicina, che è quel vasto altopiano cosparso di doline, asud del monte Lanaro;

il Carso della Cicceria, esteso nella zona nord orientale dell’Istria, tral’alto corso del Timavo e la depressione di Pinguente;

il Carso di Castua, altipiano degradante a sud est sul golfo del Quarnaro.Nel Carso furono studiati e descritti i fenomeni provocati dall’erosione

chimica delle acque nella roccia calcarea, oggi noti come fenomeni carsicio, carsimo come più comunemente chiamato.

Un noto studioso di questi fenomeni, Fabio Forti, così sintetizza il con-cetto di carsismo: “....l’insieme dei fenomeni superficiali e sotterranei cheinteressano nel tempo e nello spazio un determinato complesso di roccecarsificabili....”

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Egli dice che perché questo fenomeno avvenga gli elementi base sonotre: la roccia, l’acqua ed il tempo. Le rocce che permettono il fenomeno sonocalcaree e pertanto solubili. L’acqua piovana esercita il potere solvente diquesto tipo di rocce. Il tempo è quello necessario perché l’acqua pura, cheeserciterebbe da sola un’azione pressoché trascurabile, venga additivata dalprogressivo scioglimento dell’anidride carbinica che fa aumentare conside-revolmente la solubilità soprattutto nel caso di un carbonato di calcio puro.

Per analogia del paesaggio del Carso con quelli delle regioni vicine, iltermine “Carso” è stato poi esteso ad altre regioni finitime.

Si distingue così un Carso Istriano, esteso a sud ovest del Carso propria-mente detto, mentre a nord est si usa distinguere l’Alto Carso nella zonacompresa tra l’Isonzo, il Vipacco e l’Idria, e il Carso Carniolino che a lorovolta continuano verso sud est nel Carso Liburnico, nel Carso Dalmato e nelCarso Bosniaco.

Il nome italiano di Carso viene tradotto in sloveno e serbo-croato con ilnome di Kras mentre in tedesco viene chiamato Karst.

Il termine di carsismo comprende tutta quella gamma dei fenomeni con-nessi all’azione solvente, o corrosione che vogliasi dire, dell’acqua esercitataa danno delle rocce calcaree.

Dal punto di vista chimico, il fenomeno sul quale si basa consiste nellatrasformazione che subisce il carbonato di calcio, per prolungato contattocon acqua ricca di anidride carbonica e per reazione il carbonato di calcio,praticamente insolubile, passa a bicarbonato molto più solubile e come taleviene asportato, in soluzione, dalle acque di circolazione superficiali e sot-terranee.

Alla luce di ciò, appare evidente come i fenomeni carsici possano verifi-carsi esclusivamente in quelle regioni caratterizzate dall’esistenza di potentied estesi affioramenti di rocce calcaree fessurate e da una conformazionesuperficiale, nell’insieme, subpianeggiante o comunque priva di marcatirilievi. Dette regioni devono inoltre presentare un clima caldo umido otemperato umido poiché la trasformazione del carbonato di calcio in bicar-bonato è ostacolata dalla diminuzione della temperatura.

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L’evolversi del fenomeno carsico può essere così schematizzato: l’origi-naria circolazione idrica superficiale perde via via di consistenza per il pro-gressivo aumento delle infiltrazioni nel sottosuolo, a seguito dell’amplia-mento delle fessure presenti nella roccia sotto gli effetti della dissoluzione.Si realizza, in tal modo, una graduale sostituzione dell’idrografia superficia-le con una sotterranea; si intensificano nel contempo i processi di corrosio-ne all’interno delle rocce, processi che si spingono via via a livelli più pro-fondi, fino a raggiungere il basamento della serie calcarea o, se non altro,fino al limite di massima profondità oltre il quale non è più possibile un’at-tiva circolazione in senso verticale.

Detto limite è regolato dal cosiddetto livello di base del fenomeno carsicoe può essere rappresentato dal livello più basso al quale sono poste le sor-genti carsiche di scarico, oppure dal contatto fra la pila di rocce calcaree e illoro substrato costituito da altre rocce impermeabili o, caso più generale eprobabile, dal livello del mare.

Potremo dire in definitiva che le fasi del fenomeno sono tre, comeschematizzato nella tavola illustrata proposta e cioè:

FASE 1 (dissoluzione) – Nell’aria troviamo presente l’anidride carbonicache viene prodotta sia dalla respirazione degli esseri viventi, sia dalla com-bustione, oltre che dalla decomposizione, di resti organici. L’acqua piovana,cadendo verso il suolo, scioglie l’anidride carbonica originando l’acidocarbonico aumentando la sua acidità (quella che più o meno propriamentechiamiamo “durezza”) e scioglie così il carbonato di calcio contenuto nellerocce calcaree, facendolo divenire bicarbonato di calcio solubile.

FASE 2 (equilibrio) - Il carbonato di calcio non scioglie poiché il bicar-bonato di calcio ha raggiunto il valore della sua maturazione

FASE 3 (concrezionamento) – La parziale pressione dell’anidride carbonicacontenuta nell’aria diminuisce notevolmente ed aumenta la temperatura,L’anidride carbonica si libera dell’acqua diminuendone così l’acidità per cuiscomparendo il bicarbonato di calcio, per evaporazione, fa ridepositare ilcarbonato di calcio.

Le principali forme che accompagnano l’evolversi del fenomeno carsico

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sono rappresentate , per ciò che concerne la superficie, dai campi solcati,dalle doline, dalle valli morte, dalle valli cieche, ecc.

I campi solcati corrispondono a profonde e strettissime solcature, adandamento subparallelo, dirette secondo linea di massima pendenza, ossiasecondo il senso di scorrimento delle acque dilavanti che le hanno origina-te.

Le doline sono depressioni a pianta rotondeggiante e relativamente pic-cole con diametro generalmente inferiore ai 150 metri e una profonditàche varia da qualche metro agli oltre 200 metri. Le doline presentano spes-so sul fondo un inghiottitoio che smaltisce le acque meteoritiche e posso-no, alle volte, essere temporaneamente sede di piccoli bacini lacustri.

Le valli morte rappresentano le tracce lasciate dall’originario reticoloidrografico subaereo, ormai scomparso o solo parzialmente presente lungole cosiddette valli cieche, ossia valli o spezzoni di valle ancora occupati dacorsi d’acqua attivi, ma privi di sbocchi superficiali.

Il fondo delle depressioni carsiche menzionate è quasi normalmente ri-coperto da depositi colluviali, detti terre rosse, costituiti da sostanze argillosee da impurità detritiche ossidate, originariamente presenti nelle rocce calcareee di cui rappresentano i residui della dissoluzione.

Inghiottitoi, pozzi, condotti forzati, gallerie, tutti variamente ramificatie dall’andamento irregolare, caverne, ecc., sono invece le forme più vistosedel paesaggio carsico sotterraneo.

La differenza tra inghiottitoi e pozzi è basata sulla loro percorribilità daparte dell’uomo. I pozzi, noti anche come abissi o voragini, sono certamen-te i più accessibili, mentre gli inghiottitoi, ubicati sul fondo di valli cieche,sono detti anche foibe.

Forme costruttive del carsismo sono, invece, quelle risultanti dallarideposizione di carbonato di calcio da parte delle acque di circolazionesotterranea e di quella sorgiva per perdita dell’anidride carbonica. Fra le piùcomuni vanno ricordate le numerose incrostazioni e, in particolare, le sta-lattiti e le stalagmiti, che ornano, rendendoli ancora più attraenti e talvoltaassai pittoreschi, i complessi di cunicoli, gallerie, caverne, saloni, nicchie,

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corsi d’acqua, cascate e laghetti sotterranei e che, saldandosi, portano allaformazione di vere e proprie colonne naturali.

Adesso, dopo aver cercato di capire, per grosse linee, il fenomeno delnostro Carso, ci accingiamo a fare le nostre passeggiate “superficiali” dovesolo marginalmente potremo vedere il fenomeno in quanto, né io né miamoglie siamo degli speleologi.

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DA MIRAMARE A PROSECCO

Un bel percorso, per incominciare, è il primo tratto di quello che è chia-mato il “sentiero natura” e che da Miramare porta su per il pendio finoall’”Hostatia ai Pini” di Devincina nei pressi di Prosecco.

Tra le due gallerie di Miramare/Grignano, c’è il cancello d’ingresso alparco del castello di Miramare. Già entrando nel parco rimaniamo ammi-rati della splendida flora che ci circonda, anche se non tutta è flora sponta-nea, ma parecchia è stata importata per abbellire il parco. Ci dirigiamo asinistra per prendere un vialetto all’inizio del quale un cartello indica che citroviamo sul viale che porta alla stazione ferroviaria di Miramare. Usciamonuovamente dal parco e costeggiando un muraglione troviamo un sotto-passaggio vicino ad una scala che, salendo, ci porterà alla stazione.

Recentemente la stazione è stata totalmente restaurata e riportata agliantichi splendori di quando duchi e principi la usavano per raggiungere olasciare il castello di Miramare, dimora di Massimiliano d’Asburgo, maquando abbiamo fatto per la prima volta il percorso, essa era desolatamenteabbandonata, cadente e in disuso, spento monumento di passate glorie.L’unica cosa che aveva resistito al passare del tempo e all’incuria dell’uomoerano, ma per fortuna ci sono ancor oggi, alcuni lecci in schiena allastazione. I lecci sono le uniche querce sempreverdi presenti nella nostrazona e sono un’essenza caratteristica della flora mediterranea.

Facciamo alcuni passi ed arriviamo in via Plinio dove, al finire della viastessa inizia la scalinata che ci farà salire fino a Prosecco.

La scalinata, in gran parte lignea, si dice sia il tracciato che gli antichipescatori facevano quotidianamente dalle loro case, costruite nei pressi diContovello a difesa di incursioni piratesche, fino giù al mare ed alle lorobarche, unica fonte di sostentamento per se e le loro famiglie. Ci ritrovia-mo in una zona molto tranquilla, amena ed, essendo esposta ad ovest,soleggiata e con una vista totale sul golfo. La sua conformazione, a “pastini”e la sua esposizione la rendono ottima per la coltivazione della vite.

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A questo punto devo spendere una parola di spiegazione sul termine“pastino” usato in loco, ma che non esiste nella lingua italiana. Infatti quel-lo che noi chiamiamo “pastino” in realtà è un gradonamento o meglio an-cora un terrazzo. In geomorfologia si individua un ripiano intagliato dal-l’erosione marina, lungo i fianchi di una collina o di un monte, quando illivello del mare era superiore a quello attuale.

I terrazzi con scarpata diretta parallelamente alla linea di costa, tipicodelle fasce costiere, sono interessate da abbassamenti ciclici del livello delmare o da innalzamenti della terraferma. I terrazzi marini rappresentanolembi di precedenti piattaforme marine di abrasione o di sedimentazionepreservati dai successivi cicli di erosione e costituiscono quindi le più clas-siche testimonianze degli abbassamenti relativi del livello marino. Per sem-plificare il tutto noi d’ora in poi useremo il termine locale di “pastino”.

Non è un caso che una via vicina alla via Plinio, dalla quale noi abbiamoiniziato la salita, si chiami “via del Pucino”. Il Pucino infatti è un vitigno,ormai estinto, che aveva la sua collocazione da ove ora sorge il Centro diFisica di Miramare, fino oltre Duino quasi fino alle foci del Timavo e pro-duceva il famoso vino che già ai tempi dei Romani era coltivato nella zonae veniva inviato agli imperatori, come fosse un nettare, in speciali anforeche, partendo dal porto di Aquileia, via mare, giungevano fino a Roma.

L’imperatrice Livia, moglie di Augusto, magnificava le doti di questovino dicendo che, lui e solo lui, l’aveva fatta arrivare all’età di 82 anni, metaimpensabile per l’epoca.

Del vino scrisse Plinio: “....nasce nel seno del mare Adriatico non lontanodalla sorgente del Timavo, su un colle sassoso, il soffio del mare ne profumapoche anfore, medicamento che è superiore ad ogni altro, i vini del Pucinocuociono nel sasso....”

Oggi, purtroppo, pochi sono i pastini ancora coltivati, perchè i viticultorisono rari ed il sacrificio è grande. Per accudire alle viti bisogna scendere apiedi lungo il ripido pendio e per vendemmiare bisogna farlo esclusiva-mente manualmente confidando, nel contempo, che le piogge innaffino i

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vigneti in quanto non ci sono condotte idriche per l’irrigazione artificiale.Questo evidentemente non solo per le viti, ma anche per tutte le altre cul-ture una volta presenti in zona. Le erbacce e l’incuria, ora, regnano sovrane.

I costone carsico, in questo punto, è morfologicamente costituito dauna parte marno-arenacea, detta flysch, termine probabilmente tratto daltedesco flyssen che significa scorrere. Il flysch è formato prettamente dasabbia e fango ed ecco perché esso si presta ad essere utilizzato per terreniagricoli a differenza del terreno calcareo che non trattiene l’acqua in super-ficie. La parte calcarea del Carso è costituita da enormi depositi di organi-smi marini. Questi organismi vivevano sul fondo di un mare molto caldo,in tempi lontanissimi, e i loro gusci, accumulandosi gli uni sugli altri, for-marono strati alti anche centinaia di metri.

Nel corso dei millenni, processi chimici e fisici fecero trasformare i gusciin rocce, perlopiù bianche, che attualmente formano la superficie del no-stro altopiano carsico. Tutto questo non è stato così semplice come sembre-rebbe, anzi, si parla di millenni, di piogge torrenziali che portarono al maredetriti formati da sabbie e fango, che coprirono i resti dei molluschi mari-ni.

Immani cataclismi, spinte orografiche poderose e stravolgimentiapocalittici alzarono fuori dall’acqua conchiglie e sabbie, divenute ormairocce, in modo da far divenire la base delle rocce calcaree nella posizioneche oggi noi possiamo vedere.

La città di Trieste e tutta la sua costiera fino a S.Croce, poggiano sulflysch mentre le rocce calcaree, che sono più resistenti all’erosione, fannocorona dall’alto.

Questa zona è molto fertile anche perché un ruolo importante vienegiocato dalla temperatura favorevolmente e sensibilmente influenzata dallavicinanza del mare.

Ma ricominciamo a salire il nostro sentiero dove potremo osservare unaflora molto varia formata da vegetazione spontanea e resti di vegetazionedomestica.

Mia moglie mi fa notare l’alloro, le cui foglie, per il loro aroma, vengono

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usate in cucina. Poco distante abbiamo modo di vedere degli arbusti diligustro che vengono usati, trapiantati, per formare siepi di recinzione alleaiuole nei giardini.

Alzando lo sguardo, una rigogliosa rosa canina accanto ad un abbando-nato ciliegio domestico e ad un susino, si fanno ammirare per la loro bellez-za. Su di un muretto a secco si è sviluppata, coprendolo quasi interamente,un’edera che allunga i suoi serpeggianti “rami” nel tentativo di invadereanche il sentiero e la vegetazione vicina.

Sempre salendo, nel prossimo pastino, ci imbattiamo in un unico ficoche, solitario, troneggia sulle erbacce tentando di resistere all’abbandonocui è stato destinato.

In questo punto dovremmo vedere anche degli ailanti ma, non cono-scendo noi le caratteristiche della pianta, non ci è possibile individuarli puressendo informati che l’ailanto è un albero asiatico che attecchisce con pro-fonde radici, si riproduce facilmente e viene usato per rinsaldare terrenifranosi.

Cominciamo a vedere i primi vigneti con disseminati qua e là dei ciliegidomestici alternati a ciliegi selvatici nati spontaneamente dai semi caduti eche aspetterebbero di essere innestati dall’uomo per dare anche loro i frut-ti, ma purtroppo l’uomo ha altro a cui pensare e si allontana sempre piùdalla natura.

Salendo ritroviamo sempre più numerose le rose canine. Ogni tanto lascalinata si interrompe in un breve tratto di sentiero fino a giungere alprossimo pastino ed ai prossimi gradini.

A questo punto è doveroso fare una piccola sosta e ci giriamo verso ilmare per poter ammirare il bellissimo golfo splendente al sole, che ormai infase calante, lo fa sembrare adornato da fili d’oro e lingue di fuoco rossastre,le campagne ci circondano ed il sottostante parco del castello di Miramareci scruta e sembra controllare il nostro cammino.

Con gli occhi pieni e l’animo rinvigoriti da questa splendida visione ciriavviamo lungo il percorso notando i primi cespugli di emero, che è uno

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dei primi arbusti annuncianti la primavera con i suoi piccoli fiori gialli.Questa è una pianta tanto desiderata da mia moglie Nory e che io avreidovuto procurare e piantare in un nostro piccolo pezzo di terreno che ab-biamo a Prosecco. Ma un po’ la pigrizia, un po’ la difficoltà di trovarla neinegozi di agraria, hanno fatto sì che sia rimasto un desiderio e non unarealtà.

Cominciamo a intravedere le prime “roverelle”, che sono una sorta diquerce molto comuni sul Carso: per riconoscerle facilmente si osservano irametti giovani, ricoperti da una patina vellutata che sembra una peluria.

Ma perché questa “meraviglia” nel nominare degli esempi di flora che indefinitiva non sono un’esclusiva del Carso. Se di meraviglia si può parlare,sta nel fatto che per uno degli strani fenomeni, detti appunto carsismi,queste piante si trovano ad altitudini inusuali. Infatti il loro habitat natura-le è molto più alto. Per spiegare la presenza di tante specie ad altezze cosìbasse bisogna tener presente una cosa e cioè che l’altezza del punto preso inconsiderazione sul livello del mare, deve essere triplicato. Se ci troviamo a200 metri sul livello del mare, è come se fossimo a 600 metri. Ciò è riscon-trato non solo nella flora ma anche nella fauna. Il nostro ciglione carsico, ela piana retrostante fino a giungere alle prime montagne, non supera mai i350 metri sul livello del mare, eppure, da un ultimo censimento, si riscon-tra che esso è popolato da una colonia di oltre 2.000 caprioli.

Dalla nostra guida illustrata cerchiamo, con molta fatica e non semprecon successo per quelle meno note, di individuare le tante specie di pianteche, salendo il sentiero, ci si presentano per la prima volta. Oltre il quercetodovremmo individuare l’acero minore dalle caratteristiche foglie e tre lobi,aceri campestri, ornielli, carpinelle, carpino bianco, olmi campestri, acacie,sambuchi, salici, castagni e alcune grosse querce, il tutto accompagnatopurtroppo da rovi, ortiche e dalla vitalba che sono i testimoni dell’abban-dono e dell’incuria.

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Qui vorrei fare un piccolo inciso per precisare una cosa. Io, e non vorreiche altri come me cadessero nel medesimo errore, credevo che il nome“vitalba” fosse il nome corretto di quella che si usa chiamare “vite america-na” cioè quel rampicante che a volte, come l’edera, avvolge le piante fino afarle soffocare. In realtà la vitalba, il cui nome scientifico è Clematis vitalba,appartiene alla famiglia delle Ranuncolacee ed è propria dei boschi dellezone temperate. Ha un aspetto sarmentoso (simile all’aspetto del ramo sec-co della vite) con fusto legnoso e volubile, con foglie opposte e divise in 5foglioline ovate. I suoi fiori sono biancastri, con numerosi stami sporgentie sono raggruppati in pannocchie.

Un po’ a lato del sentiero notiamo tre castagni secolari che in autunno,si dice, siano meta di “pellegrinaggio” di numerosi escursionisti per racco-gliere le prelibate castagne cadute a terra.

A lato del sentiero scorre un solco profondo invaso da ortiche e rovi che,ora, è un torrentello occasionale, ma che sicuramente, a suo tempo, deveessere stato un grosso corso d’acqua continuo tanto da essere riuscito adincidere nel flysch il profondo solco ancora visibile.

La vegetazione si manterrà così varia fino a giungere allo stagno diContovello. Ora le campagne sono più curate ed i vigneti sono tenuti per-fettamente con il terreno privo di erbacce ed i solchi lungo i filari perfetta-mente arati . I salici qui sono più numerosi, data anche la vicinanza dell’ac-qua, perché agli agricoltori ed ai viticultori i loro rami servono per farelegature a scopo agricolo. Il sottobosco del vicino boschetto di acacie ècostituito da grossi cespugli di biancospino. È in questo punto del percorsoche cominciamo ad osservare la fine del flysch e le prime formazioni dicalcare. Come detto precedentemente, le torrenziali piogge, hanno portatoverso il mare il flysch lasciando ben pulito e levigato il calcare.

Siamo arrivati a quello che è denominato lo stagno di Contovello, cheviene definito uno stagno carsico, ma il suo bacino è ancora in parte pog-giante sul flysch oltre che sul calcare. Esso non dovrebbe pertanto esserechiamato “carsico” perché, per essere tale, dovrebbe essere completamente

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calcareo. Il laghetto di Contovello ha una profondità massima di 2,50 me-tri e si calcola che abbia un volume di circa mille metri cubi d’acqua.

La vita animale di questo specchio d’acqua ai più, come a noi del restoprima di approfondire la visita, è del tutto o quasi sconosciuta. Esso puòsembrare un banale laghetto d’acqua stagnante, in realtà, anche a causadell’acqua non troppo limpida, che non permette una visione del suo fon-dale, non si può notare che in esso vivono molte specie di pesci.

Aguzzando la vista e con molta pazienza, mia moglie ed io, siamo riusci-ti ad intravedere ed individuare molti tipi di pesci rossi, qualche pesce gat-to, tritoni comuni, molti insetti acquatici ed infine le anatre; queste ultimesicuramente discendono dai germani reali, dei quali però non conservanopiù i caratteristici colori del piumaggio, dovuto probabilmente, anche ainumerosi incroci con razze domestiche ivi residenti.

Chinandoci verso l’acqua possiamo intravedere anche delle piccole tar-tarughe, comunemente dette della Florida, e che sono reperibili in qualsiasinegozio di animali.

È facile intuire che questi animali non siano giunti da soli nello stagnoma bensì “scaricati” da qualcuno, che stanco di tenere in casa le bestiole,magari regalo natalizio o pasquale di bimbi viziati, le ha depositate nellaghetto alterando così l’ecologia del luogo.

Intorno allo stagno, come già detto, notiamo il salice piangente ed ipioppi neri italici che crescono sulla sua riva erbosa.

A questo punto ci allontaniamo da questo splendido angolo, non primadi aver scattato un’altra fotografia a ricordo e proseguiamo, sulla stradaasfaltata, verso l’abitato di Prosecco. Ai margini di questa strada oltre allespecie già incontrate troviamo il primo grande abete mentre sulla piazzettadi Contovello, dinanzi alla chiesetta, svettano verso il cielo parecchi ippo-castani.

Ci addentriamo nell’abitato, dove nei giardini delle case osserviamo sva-riati tipi di piante la collocate dai proprietari; ci è dato di vedere pertantopiante di molti tipi: arbusti ornamentali, rose canine, abeti, lillà, pini neri,cipressi, noci, mandorli, ciliegi, ecc.

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Arrivati al monumento alla Resistenza ci inoltriamo, lasciandolo sulladestra, attraversiamo un boschetto di cedri e, passando nuovamente tra lecase, ci avviciniamo al bosco. Ci accorgiamo di essere alle ultime propagginidel paese perché negli spazi liberi, ai lati della strada, la vegetazione si fasempre più spontanea e caratteristica: aceri, ciliegi canini, qualche prugnolo,aceri minori, rovi, ciliegi selvatici, rose canine, ornielli, carpinelle,roverelle.......

Oltrepassiamo l’ultima casa a destra termina così anche l’asfalto e citroviamo ad un bivio. Noi continueremo diritti e ci inoltreremo sul sentie-ro n° 6, girando a sinistra, scendendo, ritorneremmo a Grignano e Miramare.

Ed è proprio in questo punto che noi abbiamo un piccolo pezzo di ter-reno dove avrei dovuto piantare l’emero per mia moglie.

Entriamo sul sentiero n° 6, il quale porta fino a S.Croce e alla VedettaItalia, e sulla sinistra possiamo ammirare una bella pineta di pino nero chefu importato dall’Austria e pertanto chiamato anche pino austriaco. Esso fupiantato dall’amministrazione asburgica per il rimboschimento della pie-traia carsica. Questa è forse una delle più significative dimostrazioni di quantoprima asserito sul fenomeno del carsismo relativo all’altezza sul livello delmare, infatti in nessun altra parte, il pino nero è potuto attecchire a quotecosì basse.

L’attuale politica di rimboschimento, non si sa bene perché, non usi piùil pino nero, che pur radicando molto bene sui terreni sassosi e abbiso-gnando di poca acqua per crescere, venga sostituito da altre piante.

Per fortuna la natura fa il suo corso indipendentemente dai voleri poli-tici dell’uomo e, più avanti, il sottobosco si è intanto arricchito di pini nerigiovani di seconda e spontanea generazione.

Proseguendo nel cammino arriviamo ad una radura che sulla destra ci faritrovare un’altra pineta e sulla sinistra possiamo notare delle grosse piantedi rovere e delle roverelle.

Sulla destra, dobbiamo prestare molta attenzione per notare, che nelmuretto a secco di tipo carsico, c’è una breccia alla quale segue una “tracciacalpestata” più che un vero e proprio sentiero. Questo è appunto il prosieguo

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della nostra passeggiata che si inoltra nella pineta. Non essendo un sentiero “segnato” dal C.A.I. dobbiamo stare molto

attenti a seguire il calpestio dei precedenti escursionisti per non perdere lastrada. Poco male, direte voi, non siamo di certo in una boscagliasudamericana e tutt’al più si dovrebbe fare qualche centinaio di metri inpiù, poco importa, già la meta è vicina.

Il sottobosco di questa zona è molto vario infatti incontriamo, alternati,dei cespugli bassi di rovi e di vitalba, qua e là troneggiano dei biancospini,dei frassini, aceri e lecci. Le roverelle, molto sottili, svettano alte verso ilcielo in cerca della vitale luce che le folte chiome del pino nero nega loro.

La vegetazione, alle volte più fitta e alle volte più rada ci accompagnalungo il cammino; le piante sono quelle già incontrate lungo il percorsofatto. Ma ecco, all’improvviso, abbiamo la conferma del fenomeno di florainusuale all’altezza orografica del posto. Dopo una leggera discesa trovia-mo una piccola pietraia i cui sassi presentano evidenti i fenomeni di erosio-ne combinata di muschi e licheni con gli agenti atmosferici. I muschi infat-ti hanno intaccato la superficie permettendo alla successiva acqua piovanadi insinuarsi ed allargare i solchi e le fessure dopo di che i licheni hannotrovato facilità di adattamento.

Muschi e licheni....ci fanno pensare alle steppe russe o, comunque, adesolate lande nordiche.....

Il sentiero a questo punto si allarga in quanto il Corpo Forestale delloStato ed i volontari dell’antincendio hanno, parecchi anni fa, creato unadelle tante linee tagliafuoco per preservare le nostre pinete dal propagarsidelle fiamme in caso d’incendio, circoscrivendo così il focolaio a più ridottedimensioni.

Ricordo quel periodo perché, facendo parte io pure del servizio di prote-zione civile nel gruppo della Sezione di Trieste dell’A.R.I., AssociazioneRadioamatori Italiani, proprio sul terreno di nostra proprietà fu installatala base operativa che coordinava, via radio, il lavoro delle squadre. Comeappoggio logistico a questa operazione ci furono pure i volontari del Grup-po Fuoristrada Trieste che con i loro mezzi facevano la spola lungo le linee

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tagliafuoco per il trasporto in punti di raccolta dei cespugli, rami, arbusti equant’altro veniva tolto per creare queste linee. Sono felice, nel mio picco-lo, di aver contribuito, seppur minimamente, a preservare e mantenerequell’immenso patrimonio che è il nostro Carso.

Nel frattempo siamo giunti ad un trivio, a sinistra si ritorna al sentieron° 6, quello che porta a S.Croce, a destra si ritorna, attraversando il cimite-ro di guerra autro-ungarico, verso Prosecco e diritti a poche diecine di me-tri si arriva all’Hostaria al Pini dove ci concediamo una sosta per gustaredue buone fette di strudel di mele, un generoso bicchiere di vino bianco edun’aranciata, prima di prendere l’autobus 44, che si ferma proprio li davan-ti, per ritornare a casa.

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AURISINA

Oggi ci accingiamo ad un altro tipo di gita. Visiteremo una localitàdell’altipiano carsico, non tanto per fare una lunga passeggiata in mezzo aiboschi, per sentieri o per prati, ma per vedere con occhio attento quello chei testi ci forniscono sulla caratteristica di questo particolare villaggio carsico.

Normalmente l’uomo ama vedere stupendi paesaggi mozzafiato, infuocatitramonti magari ai tropici, cieli infiniti, azzurri e sereni o, talvolta, variegatida piccole nubi alle quali cerca, con la fantasia, di dare sembianze conosciu-te, lunghe spiagge incontaminate di sabbia fine e bianca con ai marginidelle ombrose palme dalle quali raccogliere succose noci di cocco, o piùsemplicemente catene montuose, massicci, pareti rocciose a picco o pendiiricoperti di abeti lussureggianti d’estate e bianchi di neve d’inverno a noipiù vicini.. Queste montagne sono rocce, pietre, sassi.

Il Carso è un sasso infinitamente bello ed Aurisina è l’esempio lampantedella sua bellezza, di un villaggio nato e cresciuto dal e sul sasso.

Aurisina fu, un tempo, un nodo ferroviario, un bivio importantissimodella strada ferrata in uscita da Trieste nelle direttrici che portavano all’allo-ra capitale Vienna e verso l’Italia.

Se prendiamo Aurisina come luogo di residenza essa è un enorme can-tiere di buche profonde, dove da secoli, prima eserciti di cavatori che ma-nualmente, ed ora meccanicamente estraevano ed estraggono degli enormimassi di pietra per costruire palazzi, monumenti o semplici case.

È un’immensa ricchezza che l’uomo ha saputo sfruttare tagliando,sapientemente e con arte, banchi di roccia compatta fino dai tempi deiRomani. Con queste rocce i Romani edificarono Aquileia ed il suo portononché palazzi e templi persino a Roma.

La pietra di Aurisina è considerata la migliore del mondo, superiore adogni altra, dura come una gemma ed è il cuore del Carso.

Durante i secoli di lavorazione della pietra ad Aurisina si sono creatidegli immensi spazi ricoperti da brecciami, bianco testimone della trasfor-mazione della roccia informe, staccata dal monte in blocchi cubiformi da

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venire successivamente lavorati.Quasi a nascondere questa desolazione, la natura ha fatto nascere una

selva di pini, di carpini e di frassini, delle macchie di sommaco e profumaticespi di timo e di salvia.

Lungo le bianche strade del villaggio di Aurisina, oggi non si sentonopiù i ritmici colpi di mazza e di scalpello dei cavatori ed il muggire deiruminanti buoi accasciati ai lati della cava che aspettano il loro turno pertirare il carro con i blocchi del marmoreo prodotto. Rumori tenui, dolci,quasi accattivanti, che creavano un atmosfera di operosità, di un sereno efaticoso vivere, testimoniato dal sudore della fronte che bagnava un lavoropesante e spesso ingrato.

Oggi il paesaggio è diverso, al posto dei buoi troviamo grossi autotrenidai chiassosi colori, udiamo, assordanti, i martelli pneumatici che hannosostituito le mazze e gli scalpelli. Ci ledono i timpani i cigolii dei cavi d’ac-ciaio che corrono su mobili gru che, quasi fossero dei leggeri fardelli, spo-stano i grossi blocchi cubiformi che pesano parecchie tonnellate.

Abbiamo modo di vedere profonde voragini sulle cui pareti notiamotagli freschi con il brecciame bianco alla loro base. Sembrano ferite freschecon le gocce di sangue che testimoniano la sofferenza del Carso.

Un grande scrittore ed estimatore del Carso, Scipio Slataper amava, inmodo particolare, questo punto del Carso al quale ha dedicato innumere-voli scritti. Amo ricordare, in modo particolare, un passo che così recita:

“....attraverso le mille fessure della pietra, senti arrivare al cuore il grandelamento dell’acqua che corre nelle profondità della terra e beato sorridi alpispillare roteante delle rondini, alle nuvole che si trastullano nella luce, rab-brividenti pudiche sotto le fredde dita curiose del vento, alle stelle germogliantinel cielo quando nel vespro si diffonde sul mondo un tepore leggero come fiatoprimaverile....”

Ci sembra quasi che non si tratti di un villaggio carsico ma di trovarci alcospetto di una creatura di Dio, messa li per far gioire ed innamorare chi,come noi, si sofferma e si immedesima nella realtà della natura che locirconda.

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Dalla zona delle cave di Aurisina, partono parecchi sentieri in tutte ledirezioni. Noi prendiamo uno in particolare, quello che attraverso giovaniboschi, sull’orlo di strapiombi e sassi a picco, corre verso l’abbraccio delmare.

Sui nostri passi incontriamo la maestosa stazione ferroviaria, monu-mento, oggi inutile, di quello che era il nodo ferroviario di una delle piùimportanti linee ferroviarie d’Europa e ci soffermiamo alla fresca ombra deisuoi grandi e secolari ippocastani. Usciti dal sottopassaggio ci sono quattrolarghi sentieri, prendiamo quello di mezzo, seminato di minuto brecciame,e dopo aver oltrepassato alcune case puntiamo diritto verso la Torre dell’ac-qua costruita sull’orlo del ciglione.

Vicino alla torre, vediamo affiorare dalle pietre, le ricostruite fonda-menta di una casa contadina dell’epoca romana. Alla fine del sentiero pun-tiamo diritto verso il mare di Sistiana, la cui baia occhieggia radiosa e l’am-miriamo dallo slargo ai piedi delle torre piezometrica.

La vista sul mare è aperta, immensa, lo sguardo non riesce ad abbraccia-re tutto il paesaggio. Bisogna girare la testa e scegliere, come fosse unamacchina fotografica, gli scorci ed imprimerli nella memoria come su diuna pellicola. Uno, dieci, cinquanta fotogrammi che si assommano nellamente, fotogrammi lontani della costa istriana, di Monfalcone, Grado,Lignano, Trieste, Muggia e quelli vicini della sottostante scogliera con iporticcioli di Sistiana, Santa Croce, Barcola.....

A sinistra dello slargo della torre piezometrica, quasi per caso notiamoun segno sulla pietra, che sta ad indicare un vecchio sentiero, ora in disusoe non riportato su recenti guide, che scendendo, presumiamo porti verso lastrada costiera.

Essendo il sentierino ancora percorribile in quanto non molto sommer-so dalla vegetazione, decidiamo di provare a perlustrarlo, sotto il sole, allavista del verde grande mare, tra i pini, i lecci, l’odore del timo e della salviaed il sommesso rumore che proviene dalle onde che si infrangono sullascogliera. Nory ed io istintivamente ci guardiamo negli occhi ed abbiamo lasensazione di trovarci in un paradiso terrestre.

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Purtroppo, non si sa perché, le cose belle sono destinate a durare pocoinfatti, dopo qualche centinaio di metri, il sentiero diventa più ampio e ciimbattiamo in una grande dimora, bella in verità, ma che stona inserita nelpaesaggio carsico.

Si sa, l’uomo è una strana creatura che tutto dissacra e cancella. Il sentie-ro diventa un’agevole strada, di facile percorrenza e poco dopo ci imbattia-mo in un’altra moderna, bella e grande villa, seguita da un’altra e un’altraancora.

Aurisina, un mondo dai due volti, quello duro, compatto, granitico,

severo, fiero e solenne della parte a monte, mentre quello che si affacciasul golfo, verso il mare, risulta essere ameno, gaio, giocondo, ridente, mitee piacevole.

Due volti, due mondi, due sentimenti nei quali giocano, contrastandositra di loro, le sensazioni provate in questo breve itinerario.

Le immagini ed i profumi che il Carso hanno saputo infonderci,radicandoli nella mente e nell’animo, qualcosa di tangibile, sentimenti diammirazione, di sorpresa e di stupore per quella meraviglia del Creato cheè il nostro Carso. Sempre che sappiamo e vogliamo sentirli.

Siamo giunti alla strada costiera, all’altezza di Canovella dÈZoppoli. Lagita è finita, aspettiamo il pullman della SAITA per rientrare, felici, a Trieste.

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VAL ROSANDRA

Val Rosandra.... quanti ricordi! Ogni triestino, che possa definirsi tale,deve essere andato almeno una volta in “valle” come in dialetto viene sem-plicemente chiamata. Palestra di roccia per i più esperti, semplice passeg-giata per la maggior parte dei suoi frequentatori.

Mia moglie ed io ci siamo stati parecchie volte, ed ogni volta sembra laprima, perché l’atmosfera, la luce, la stagione, la temperatura e tante altrecose la fanno cambiare agli occhi di chi la vuol vedere non solo come unapasseggiata.

Questa volta incomincerò a raccontare di quando mio padre e mia ma-dre mi hanno portato in Val Rosandra per la prima volta. Sarà stato il 1948o 1949, non ricordo bene, era da poco finita la guerra, ed io avevo 11 o 12anni.

Non c’erano autobus o corriere che portassero in zona, pertanto la gitaera veramente una gita e bisognava, da casa, fare il tragitto andata e ritornoa piedi.

Partimmo molto presto, il mattino, eravamo in cinque....anzi in sei. Papà,mamma, io, due miei cugini valtellinesi, Gianni e Dario, ospiti a casa miaper le vacanze estive e Rocky.

Rocky era il mio cane, un cane lupo non di razza, ma forte ed agile comeun toro.

Zaino in spalla, papà e borsa a tracolla, la mamma, pieni di panini im-bottiti per sfamarci e di bibite per dissetarci. Noi ragazzi solo la borracciacon l’acqua fresca legata alla cintura dei pantaloni.

La galleria di piazza Foraggi non era ancora finita e pertanto non sipoteva attraversarla. Il percorso d’obbligo era salire a Cattinara e da lì scen-dere verso Bagnoli della Rosandra.

Chi non ha i miei anni, non può nemmeno immaginare come si presen-tasse la zona allora. Partimmo da viale Ippodromo, subito dopo piazza dei

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Foraggi, a sinistra c’era quello che rimaneva del Pastificio Triestino bom-bardato e incendiato nel 1944 a seguito di un’incursione aerea da partedegli Alleati. Sulla destra del viale c’era l’Ippodromo di Montebello dove,come adesso, i pomeriggi dei giorni festivi gruppi di scommettitoriassiepavano le gradinate incitando i loro beniamini nella speranza di rica-varne una buona vincita.

Dopo, solo campi coltivati, qualche stretta strada di campagna e casettecontadine disseminate in qua ed in là.

Dietro l’attuale sede dell’A.C.I. iniziava la via Francesco Veruda, la cuilarghezza, sicuramente, non superava i due metri. Dopo aver attraversato lavia Scomparini e abbandonato il selciato in porfido, iniziammo a percorre-re la vecchia strada di Rozzol, in terra battuta, che oggi la chiameremmo“sentiero”.

In mezzo a campi ed orti ben coltivati, l’allegra compagnia procedeva dibuon passo con il cane che, andando avanti e indietro, faceva almeno trevolte il percorso.

Il sentiero, in leggera salita, si dirigeva verso il colle di Melara che alloraera cosparso di gigantesche querce e che in primavera diventava di un gialloincandescente, dovuto alle innumerevoli ginestre in fiore.

Il nostro cammino si faceva più lento perché il sentiero, che correvalungo il fianco del colle, diventava più impervio, ma non per Rocky checontinuava imperterrito a correre, quasi volesse spronarci ad andare anchenoi più veloci. Il sentiero costeggiava un enorme vigneto che si perdevalungo il fianco del colle fino a giungere a Cattinara. Al termine di questacoltivazione una casa rossa e bianca di stile coloniale troneggiava dall’altoin faccia al sole e dalla quale si poteva vedere tutto il golfo. Non ho daticerti, ma mi è stato riferito che l’intera proprietà, di parecchie decine diettari, fosse di un noto gioielliere di allora.

Si dà il caso che, a quei tempi, non ci fossero i frastuoni delle automobi-li, motociclette, motorini, autobus, camion che dobbiamo sopportare oggi,ma il silenzio, la pace, il verde dato dai querceti che coprivano Melara e

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Montebello sono ancora vivi nella mia memoria.

La grande casa coloniale oggi non c’è più, non ci sono più i vigneti, iboschi, le ginestre, il verde, il viottolo che noi percorremmo, ma in cambioabbiamo tanto cemento, larghe strade asfaltate, tanti pali di cemento e diferro che sorreggono le illuminazioni stradali ai vapori di mercurio e sosti-tuiscono gli alberi. I boschi sono stati rimpiazzati da selve di antenne tele-visive e per la telefonia mobile.

Bisognerebbe chiedersi, a questo punto, se tutto ciò è progresso tecnolo-gico, necessità di spazi vitali, esigenze per un miglioramento della vita, op-pure pura follia distruttrice, interessi economici e commerciali di pochi adiscapito di molti, o più semplicemente che nessuno può o vuole fermare lacorsa del tempo.

Non sta a me giudicare, ognuno è libero di trarre le sue conclusioni.

Ma ritorniamo alla nostra gita; eravamo nel frattempo giunti a Cattinara,l’antica Gattinara, presidio romano che difendeva la strada che da Tergesteportava al Carso. Tra le poche case e una trattoria vedemmo la chiesa conaccanto il cimitero. Il sentiero proseguiva verso la Chiusa, antico confinedoganale del libero comune triestino, che si trovava nei pressi dell’attualeospedale che, oggi, ha coperto i verdi prati. Lì in primavera, sbocciavano ibucaneve precoci, e le gialle primule formavano una distesa che sembravaun mare le cui onde altro non erano che l’ondeggiare dei fiori alla leggerabrezza.

Da lì, per fortuna, iniziava la discesa e sulla nostra destra, in basso, scor-gemmo il villaggio di S.Giuseppe che si affacciava sulla piana di Zaule.L’attuale nome di S.Giuseppe della Chiusa è una contrazione del modo concui veniva identificato l’antico villaggio e cioè, S.Giuseppe oltre la Chiusa.Saranno state le dieci del mattino e noi ragazzi cominciavamo a sentire uncerto languorino ed allora papà e mamma decisero che era il caso di fareuna breve sosta . I miei cuginetti, Gianni e Dario, pur essendo contenti di

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fermarsi per la merenda, ci presero in giro dicendo che in montagna non cisi ferma dopo neanche due ore di camminata.

Come dice la canzone, dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, cirimettemmo in cammino sul sentiero che correva ai margini della stradaasfaltata, che da Cattinara scendeva verso Bagnoli e San Dorligo. Dopoaver percorso in allegria la discesa, canticchiando, ci ritrovammo nella piaz-za di Bagnoli e da lì imboccammo la stradina che, tra le case, ci avrebbeportato all’inizio dell’escursione vera e propria in Val Rosandra.

Lungo il sentiero, sulla sinistra, scorgemmo il rifugio Premuda del C.A.I.ma, avendo già fatto sosta per la merenda, tirammo avanti diritti con passoregolare e spedito in quanto ci rimaneva da fare la parte più impegnativadel percorso. Il nostro cane correva sempre avanti e indietro, abbaiandofelice, con la bocca aperta e la lingua penzoloni ma ecco, all’improvviso,visto il torrentello d’acqua vi ci si buttò dentro sguazzando nelle sue gelideacque. Mamma lo richiamò immediatamente perché aveva paura che,accaldato com’era, potesse prendere qualche malanno.

A malincuore Rocky uscì dall’acqua e, come fanno tutti i cani, cominciòa scuotersi violentemente per togliersi l’acqua di dosso in un fuggi fuggi daparte nostra per non essere investiti dalla “doccia” indesiderata e fuori pro-gramma.

Per me fu la prima esperienza di passeggiate “in montagna” e mi sembròdi una difficoltà immensa. Seguendo il sentiero alle volte vicino al torrentee alle volte più in quota in un’oretta circa giungemmo al paesino di Botazzoe lì facemmo la seconda sosta.

Ricordo che per arrivare al paese attraversammo un ponticello sul tor-rente all’inizio del quale, sulla destra, c’era la sbarra di confine che dividevaTrieste dall’allora Jugoslavia. Un soldato e un carabiniere in armi vigilavanoil punto, dall’interno di una piccola garitta, mentre dall’altra parte, al limi-tare del bosco, un’intera pattuglia di miliziani, armati fino ai denti, eranoaccampati vicino ad una grande tenda militare.

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Ci fermammo poco dopo il paese, su di un prato verde, e dopo essercidissetati, iniziammo a consumare il nostro pranzo fatto di vitello impanatomesso tra il pane, uova sode, un po’ di prosciutto e una fettina di torta dimele fatta dalla mamma.

Noi bambini avremmo dovuto giocare e saltare sul prato, ma la stan-chezza iniziava a farsi sentire ed essendo esattamente a metà percorso, al-trettanta strada ci aspettava ed era meglio risparmiarsi.

Anche Rocky, che comunque non stava mai fermo, camminava lenta-mente sul prato senza correre come prima.

A quel punto a papà venne una buona idea e ci propose, invece di fare aritroso il percorso già fatto, avremmo potuto salire verso Draga S. Elia e dalì a Basovizza dove avremmo trovato la corriera che ci avrebbe portato giùfino in città.

Da Botazzo fino a Draga S.Elia la strada era molto ripida e faticosa e civolle una buona oretta per arrivarci, ma da lì a Basovizza la strada era abba-stanza pianeggiante e verso le sei di sera, giungemmo davanti alla chiesa diBasovizza dove c’era la fermata delle corriere.

Avevamo avuto abbastanza fortuna in quanto la partenza della corriera eraprevista per le 18.50 e rimaneva “solamente” tre quarti d’ora da aspettare.

Tutti seduti sul muretto che circondava il sagrato della chiesa, stanchi,ma felici di quella bella esperienza, ricordavamo i punti della gita che c’era-no piaciuti di più. Commenti favorevoli anche dai cugini, che abituati amontagne ben più impegnative, dissero che sentieri così suggestivi, chiusitra le rocce e con tanta vegetazione, da loro in Valtellina non ce n’erano.

Rocky era accovacciato ai piedi del muretto, anche lui distrutto dallafatica, che si leccava le zampe e potemmo constatare che erano abbastanzagonfie.

La corriera arrivò quasi in orario e ci portò in città. Erano le 20 e rien-trammo nella casa che avevamo lasciato 12 ore prima..........una veloce ri-sciacquata sotto la doccia e tutti a nanna.

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In tempi più recenti, con mia moglie, la Val Rosandra l’abbiamo visitatacon uno spirito meno avventuroso e con un altro intento.

Lasciata la macchina sul piazzale di Bagnoli, anche noi ci siamo inoltratilungo il sentiero. Le case oggi sono belle, molte sono restaurate in modocoerente, lasciandone tutte le caratteristiche carsiche antiche della costru-zione e adattandone gli interni alle moderne esigenze di vita.

Il rifugio Premuda oggi è un accogliente locale, che pur conservando irequisiti di rifugio montano, è dotato di una cucina che può servire deibuoni pasti a tutti i frequentatori della valle ed anche a chi si ferma lì so-lamente per gustare un buon panino di prosciutto crudo carsolino ed ungeneroso bicchiere dei vino terrano.

Sembra quasi impossibile, ma ogni volta che ci siamo inoltrati nella val-le, ci è sembrato di vedere un nuovo ambiente. Sicuramente è dovuto dalledifferenze climatiche o di orario, se il sole è a picco oppure obliquo, se iltorrente ha più o meno portata idrica con conseguente più o meno fragoredello scorrere dell’acqua tumultuosa. Sta di fatto che è un vero piacere en-trare lungo i sentieri alzando gli occhi per ammirare le rocce a picco, pale-stra di roccia per tanti scalatori, le guglie e i lastroni che formano il MonteStena, il San Michele e il Monte Carso.

La valle è stata scavata dall’acqua nei millenni e porta scritto nella suapietra tutto il lungo e difficile cammino compiuto, ma è anche un miracolodi luci e di ombre, di aridità e di rigogliosità, di durezza e di dolcezza. Unlembo di terra dove, in ogni stagione, abbiamo la possibilità di trovare trac-ce di un silenzioso incanto e di una bellezza che ci dà la gioia e la voglia divivere.

Procedendo, sembra quasi di sentirci circondati dalla dolce leggenda dellasfortunata principessa Rosandra alla quale la fata dei fiumi ha dato la pace,ma non ha potuto fermare il copioso pianto per il suo perduto amore, piantoche ancora oggi alimenta le chiare, limpide e fredde acque del torrente.

La Val Rosandra è uno dei pochi e rari esempi di luoghi dove l’uomonon è riuscito a provocare danni con il suo insaziabile desiderio di distru-

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zione, di modificazione e di stravolgimento della natura, dove si può anco-ra respirare aria pura e sentire, nel silenzio, il cinguettio degli uccellini,restare deliziati da piccoli fiorellini bianchi, gialli, rossi o blu che timida-mente si lasciano ammirare in mezzo ai fili d’erba che sembrano quasiessere stati messi lì per proteggerli.

Volgiamo lo sguardo in alto, a sinistra, per scorgere quello che è rimastodel vecchio tracciato della ferrovia che collegava Campo Marzio a Divacciae all’interno dell’Istria, ora sede di una comoda passeggiata per turisti.Guardiamo la vicina galleria e nuovamente la leggenda si impadronisce deinostri pensieri. Uno scoglio alto, slanciato e sporgente, si dice sia quello cheè rimasto dell’antico castello di Draga, tra le quali mura viveva, taglieggiandoi viandanti e mercanti di allora, un perfido mago.

Lungo il crinale ammiriamo il belvedere di Moccò e un’altra leggendaaffiora. Il belvedere è stato eretto sui resti di un grande castello costruito daiBarbamoccolo a difesa e guardia della Valle da incursioni di tribù nomadidedite al saccheggio. Più realistico e ancora oggi visibile nei suoi ruderi, ildirimpettaio castello di San Servolo, che conobbe e sopportò tutte le furiedelle guerre che Trieste dovette sostenere con Venezia.

Continuiamo la nostra passeggiata e, dopo passata una piccola salitina,alziamo nuovamente gli occhi per vedere un contrafforte roccioso sulla cuicima è stato posto un cippo a perenne memoria di Emilio Comici, uno deipiù grandi, se non il più grande alpinista nato a Trieste. Ai piedi del cippo,non visibile dal sentiero, c’è pure una lastra di pietra sulla quale sono incisialtri nomi, tutti di nostri alpinisti che in una soleggiata giornata di gioven-tù lasciarono i loro inizi di vita sulle pareti della valle o in vicine montagne.

Tante volte mi sono chiesto, senza darmi però una logica risposta, cosaspinge questi giovani a mettere a repentaglio la loro vita per sfidare unaparete di roccia ed arrivare in cima alla montagna.

Si dice che il salire una parete sia una palestra di vita, che la gioia dellascalata sia qualche cosa di incommensurabile, che, giunti in cima, l’animosi apre in una serenità celestiale e che si è più vicini a Dio.

Sarà vero, vuol dire che il mio amore per la natura e la montagna non è

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così grande come io credevo fosse, ma sono contento così. Preferisco guar-dare, osservare, studiare e poterlo fare ogni volta che ne ho voglia pur rima-nendo un anonimo, che non poterlo più fare ed avere un cippo a ricordo.

A questo punto decidiamo di salire su quel minuscolo pianoro dovesorge la chiesetta di Santa Maria in Siaris. Dopo un’arrampicata, per l’ertasalita, giungiamo dinanzi alla piccola costruzione per ammirare da lassù unpaesaggio stupendo che ci riempie gli occhi di giochi di luci, di chiaroscuripoiché il sole gioca, alternandoli, sulla parete rocciosa di fronte. Vorremmoentrare nella chiesetta per una breve preghiera al Signore e un ringrazia-mento per tutte le bellezze che la natura, in quella valle, ci offre, ma lachiesetta è chiusa e di essa poco si sa, sembrerebbe che sia stata costruitaancor prima del XIV secolo.

Il 3 maggio, è il giorno in cui tutti quelli che amano e frequentano la ValRosandra, si ritrovano, a migliaia, per rendere omaggio a Santa Maria erendere grazie a Dio. Viene celebrata la messa, ma all’interno riescono atrovar posto solamente quelle poche decine di persone che di buon mattinosono giunti sul piccolo sagrato antistante, mentre gli altri sostano in pre-ghiera e seguono la messa diffusa dagli altoparlanti, giù giù per il sentierofino in fondo alla valle.

Seduti sulle pietre, mia moglie ed io, mangiamo mezzo panino ciascu-no, più per riposarci un po’, che per necessità di far merenda, dopodichériprendiamo la discesa verso la valle per uno stretto sentiero che porta giùfino al letto del torrente, alla Fonte Oppia e ai piedi della stupenda cascata.A questo punto decidiamo di ritornare indietro seguendo il sentiero checosteggia il torrente, che si trova a destra, mentre sulla sinistra, a tratti,ammiriamo i resti dell’acquedotto romano, che prendendo l’acqua dallaFonte Oppia, la portava attraversando la piana di Zaule e Servola, finoall’antica Tergeste.

Il pomeriggio è passato, stiamo per uscire dalla valle e dirigerci alla piaz-za di Bagnoli dove ci attende l’automobile per rientrare a casa. Ci giriamoun’ultima volta, quasi a voler fotografare, per ricordo, l’immagine della Val

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Rosandra ripromettendoci di ritornare quanto prima e prendere il viottoloche porta alla Grotta delle Gallerie e ai terrazzoni che si stendono al sole oall’ombra degli alberi ai bordi del torrente, meta di famiglie con i bambini,che chiassosi e gioiosi, giocano a palla con il costante pericolo che finiscanelle gelide acque del Rosandra.

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DUINO

Oggi abbiamo deciso di fare una passeggiata nei pressi di Duino, diconei pressi perché il territorio Duinate geograficamente si estende oltre aquello che è il suo castello e le case che lo circondano.

Duino è come un enorme sasso che il Signore, per mano della natura, haposto a picco sul mare per cantare e magnificarne l’azzurro intenso, quasi acontrastare le pietre e i colori del territorio retrostante.

All’estremità di questo sasso sorgeva il vecchio castello di Duino, di-strutto nel Quattrocento, di cui oggi possiamo vedere solo i ruderi.

Nel medioevo era chiamato Tybein, che era il signore di questo lembodel Carso, ma si ignora l’epoca esatta della sua costruzione, che sembraperò antecedente all’anno 1000. Comunque fu eretto in quella precisa po-sizione in quanto dominava a sud la scogliera di Sistiana e padroneggiava anord le boscaglie degradanti verso il Timavo. La sua grande sovranità, però,era sul mare e sul porto di Duino.

Il nuovo ed attuale castello fu eretto intorno ad un torrione romano epiù volte ampliato da parte dei signori di Walsee investiti dall’Austria areggere il ducato di Duino dopo la morte dell’ultimo dei discendenti, Ugodi Duino, e che fu anche il primo capitano austriaco di Trieste. Il nuovocastello fu già in piena efficienza agli inizi del XV secolo e serviva pure aproteggere il villaggio sorto ai suoi piedi, sulla strada chiamata GèminaTimavi e che provenendo da Aquileia portava a Trieste.

Estinta la famiglia dei Walsee, l’Austria affidò, per un breve periodo, lacontea agli Hoffer e cioè fino alla morte del suo capostipite in battagliacontro i Turchi. Dal 1587 la signoria passò ai Torriani, che eseguironoimportanti lavori nel castello nuovo badando non solo a crearsi un puntodi difesa inespugnabile, ma provvidero ad attrezzarlo a tutte le più modernecomodità per la vita quotidiana convertendo la dimora del castello in unvero soggiorno principesco.

Il castello divenne poi patrimonio dei principi della Torre e Tasso, madurante la guerra del 1915-1918 venne quasi totalmente distrutto.

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Nel 1920 i principi ricostruirono il castello restituendolo agli antichisplendori ed oggi le sue porte si aprono solamente per accogliere mostre difamosi artisti o congressi internazionali. Sulla torre sventola la bandiera chevuole essere anche un invito a tutti i popoli dell’Europa e del mondo adunirsi in un comune destino.

All’uopo è stato creato, in tempi recenti, entro i possedimenti dei prin-cipi, il Collegio del Mondo Unito che accoglie studenti di tutto il mondoaccomunati in uno spirito di fratellanza e che assieme, indipendentementedal colore della pelle e della fede religiosa, studiano e si avviano, dopo undifficile esame finale, all’arduo cammino della vita, in una società che lorostessi dovranno modificare onde cercare di evitare future guerre eincomprensioni nel desiderio di creare un mondo migliore.

Lasciamo il paese e ci avviamo verso Sistiana. Proprio all’incrocio con latrafficatissima strada statale 14, sulla destra, inizia un sentiero che costeg-giando il crinale carsico porta fino a Sistiana.

Recentemente questo sentiero è stato ripristinato ed è stato intitolato aRainer Maria Rilke, il poeta tedesco, nato a Praga nel 1886 ma che visse lasua giovinezza tra Monaco e Berlino. Egli viaggiò moltissimo alla ricerca diun’identità che rafforzasse il suo misticismo.

Si recò in Russia da Tolstoj, a Parigi dove fu segretario di Rodin, celebrescultore francese, andò in Scandinavia, in Nordafrica e Spagna. Dal 1911 al1912 soggiornò al castello di Duino, ospite della principessa Maria vonThurn und Taxis.

Cosciente di una vocazione poetica, che egli chiamava religiosa, vivevaal tempo stesso una lotta per affermare ciò che è più prossimo a noi, scor-gendo nella propria poesia non un prodotto della volontà, ma il segno diuna sottomissione a qualcosa di più grande, che ha fatto collocare Rilkevicino alla fenomenologia.

Ed è con questo spirito, che nel 1912 iniziò a scrivere quell’opera im-mortale che sono le Duineser Elegien (Elegie di Duino) terminate nel 1922a Muzot in un castello valdese della Svizzera.

In una rigida mattina di gennaio, Rilke camminando a stento sulla sco-

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gliera, mentre la bora con violenti raffiche sconvolgeva il mare e traeva dallerocce, come da arpe Eoliche, un lamentoso suono, ad un tratto egli avvertìuna misteriosa voce interiore dettargli, in due versi, l’attacco della sua pri-ma Elegia: “chi mai, se io gridassi, mi udrebbe dalle schiere degli Angeli?” chefa ricordare la potenza della prima frase della quinta sinfonia di Beethoven.Quella stessa sera, Rilke aveva riempito tutti i fogli della sua prima Elegia.

In tutte le Elegie difficilmente si cerca un cenno dell’ambiente duinese.Solamente fugaci gli accenni al castello di Duino, dove viveva: “Fuori ilmare, fuori il Carso, fuori la pioggia; forse domani la bufera”

Rilke, nell’approfondimento progressivo del suo pensiero, si astraeva dalmondo, e astratte dal mondo erano le sue liriche.

Nel 1926 morì di leucemia e fu sepolto a Raron nei pressi di Montreux.Colà un violino, di una grande artista, diede al poeta delle “Elegie Duinesi”,l’estremo saluto con musiche di Sebastian Bach.

Ritorniamo alla nostra passeggiata, la prima parte del sentiero si snodaall’interno di una pineta, poi il percorso prosegue con un gioco meraviglio-so di luci e di spazi, negli anfratti del sasso, sale per specchiarsi nel mare chesotto strapiomba fra cespi profumati di timo e di salvia, scende per perdersiin mezzo all’ombra dei pini, nel verde delle siepi di sommacco, di frassini,sbuca improvviso su terrazze di pietra, si infila in dedali di bianca roccia,attraversa pietraie candide come nubi nel cielo d’estate.

Nei punti in cui più alta si alza la roccia, troviamo delle diramazioni cheportano a vecchie posizioni di artiglieria contraerea. Quelle postazioni, oggi,sono altrettanti belvederi.

Tutto il sentiero offre ininterrottamente stupendi sguardi sulla barrierarocciosa e sul mare. Sembrerebbe, ma non lo è, una natura mortamagistralmente impressa su tela da qualche noto pittore impressionista;piante e cespugli si arrampicano sui pilastri più esposti, sulle roccestrapiombanti. Nei punti più inaccessibili, sporgono canestri di ginestre,olivi, pruni e l’edera che danno vita alla roccia. Sotto, in basso, il verde,azzurro e pigro mare disegna e sussurra l’antica canzone dell’onda.

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Ci fermiamo un momento per sederci su di una grande pietra perdeliziarci di questa visione. Sembra quasi di sentire il canto del sasso delCarso che si affaccia e si specchia nel mare: una nenia dolcissima che stemperail cuore simile al sussurro del mare che, da bambino, udivo poggiando l’orec-chio alla conchiglia raccolta sulla spiaggia.

Riprendiamo la poca strada che ancora ci manca per giungere allo slargodi Sistiana, dove sorge il punto d’informazioni dell’Azienda di PromozioneTuristica e dove termina il sentiero Rilke.

Il castello di Duino è oramai lontano, il miracolo di sasso sposato allaterra e al mare ci saluta e ci sorride, ci invita a non dimenticarlo e a ritorna-re presto a trovarlo. Ci fermiamo un istante per un ultimo sguardo, ed iosento il desiderio di ringraziarlo per la gioia che mi ha dato pregando, nelcontempo, data l’intenzione dell’attuale principe di vendere la proprietà,che non cada in mano di qualche speculatore che lo trasformi in residenzadi lusso per ricchi viziati.

Decidiamo, prendendo la macchina per spostarci, di vedere un’altra zonadel comune di Duino e cioè la zona alle foci del Timavo.

Pur essendo a pochi chilometri di distanza il paesaggio è del tutto diver-so, il terreno è pianeggiante, rigoglioso di vegetazione ed il verde la fa dapadrone. Non si tratta certamente del delta del Po, ma la foce del Timavo èabbastanza ampia e piacevole, meta di passeggiate domenicali di gruppifamiliari in una zona pedonale dove non ci sono pericoli di automobili peri bambini.

Il Timavo è un fiume che nasce dal Monte Nevoso, in Slovenia, e per-corre col nome di Timavo Superiore un tratto iniziale di 47 chilometri suterreni arenacei ed impermeabili. Giunto però a 15 chilometri dalla costa,là dove hanno inizio le formazioni calcaree del Carso vero e proprio, deltutto permeabili, esso precipita nelle Grotte di San Canziano e proseguequindi il suo corso sotterraneo per circa 40 chilometri in direzione da sud/est a nord/ovest per tornare alla luce subito dopo a San Giovanni al Timavo

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sotto forma di ricche sorgenti, le cui acque danno origine a un unico corsod’acqua, lungo appena 2 chilometri, e frettolosamente corre verso il marenel golfo di Trieste a poca distanza di Monfalcone.

Il suo corso sotterraneo è alimentato da numerose sorgenti carsiche e daaltri corsi d’acqua ipogei ed è conosciuto solamente per grandi linee, in quan-to sono ancora molto poche le voragini carsiche conosciute ed esplorate.

Nory ed io sediamo su di una panchina per leggere uno dei libretti cheportiamo con noi. È un libro che racconta un’altra leggenda, ma dato ilsuggestivo posto, il rumore dell’acqua ed il vociare della gente che, passeg-giando, ci si avvicina per poi allontanarsi ci fa immedesimare e, quasi in unsogno ad occhi aperti, crediamo di vedere quello che in realtà non c’è.

La terra allora era divinamente bella, era nella sua piena stagione, e gliargonauti dopo aver percorso il mondo, risalite le azzurre acque del’Istro,avevano trovato riposo presso le foci del Quieto. Giasone e Medea si eranosaziati d’amore nei boschi che dalla Punta del Dente corrono verso la baiadi Pirano, i colli di Trieste e le dolci acque del Timavo. Medea, nelle sue oredi esaltante felicità terrena, aveva piantato sul Carso, in quelle terre che ilmare lambisce con infinita dolcezza e la pioggia di marzo rende leggere,l’amato lauro di Venere e beata aveva giocato con le spume bianche delTimavo godendo del sole e dell’acqua.

Anche i Dioscuri, figli di Leda e di Giove, avevano conosciuto la gioia dicorrere sulla terra del Carso e quando i loro cavalli si abbeverarono nelleacque del Timavo e, nitrendo, riconobbero la divinità del fiume, essi innal-zarono sul sasso, lambito dall’acqua, là dove oggi sorge, sommersa nell’om-bra, la bella chiesa di San Giovanni in Tuba, un tempio al sole ed insegna-rono alle genti del luogo ad allevare con arte i cavalli, che popolarono que-sta terra e crebbero con forti garretti portando dentro al petto il furore delvento. Genti forti vennero ad abitare queste nostre contrade e cavalcaronoi cavalli duinati nelle lotte sostenute per fermare il passo delle legioni ro-mane e che qui conobbero una sanguinosa sconfitta.

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Stiamo fantasticando con queste notizie apprese dal nostro fascicolo,vivendo in un altro tempo, vedendo non quello che vediamo realmente,ma quello che crediamo di vedere quando, all’improvviso, colpiti da unpallone lanciato sbadatamente da un bambino, ci ritroviamo nella realtà, sudi un bel prato verde con il Timavo, che imperterrito continua scorrereverso il mare.

Si è fatto tardi, è ora di raccogliere le nostre cose, avviarci alla macchinae rientrare a casa sereni e felici di aver passato una bella giornata all’ariaaperta, un po’ con la realtà, un po’ con la fantasia.

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DA PROSECCO A SANTA CROCE

Come già prima accennato, noi possediamo un piccolo pezzo di terra aProsecco nel quale abbiamo sistemato due roulottes ed una piccola costru-zione in muratura. Quando le nostre figlie erano piccole, d’estate, passava-mo lunghi periodi in questa specie di camping privato concedendoci spessodelle passeggiate lungo i sentieri che da Prosecco vanno nelle varie direzio-ni.

Una domenica, ricordo, avevamo deciso di fare i “turisti” e vedere checosa i due paesini di Prosecco e Santa Croce offrivano.

Prosecco ha due aspetti, quello antico e quello moderno: la parte anticacon costruzioni prettamente carsiche con muri in pietra, piccole finestre,tetti regolari con uno o due comignoli, addossate le une alle altre in viuzzestrette quasi a volersi proteggere vicendevolmente, qualche piccolo cortile eforse qualche piccolo terrazzo in pietra al primo piano; la parte nuova emoderna composta da belle ville con ampi finestroni e tetti più o menomovimentati in modo da dare un’impronta architettonica alla costruzione,circondate da ampi giardini recintati, portici, terrazze, vialetti e belle aiuolecurate.

Turisticamente parlando, l’unica cosa che il paese ci offre è la sua piùantica costruzione, la chiesa. Essa fu eretta, come risulta da un’iscrizioneposta sopra il portale, nel 1637. L’interno non presenta affreschi e arredi diparticolare rilievo, ad eccezione del suo organo che ha ben 1.500 registri. Ilcampanile è alto 37 metri ed è visibile da molte parti dell’altipiano ed èdotato di tre campane, i cui suoni sono in mi bemolle, fa e sol, dando adesse la possibilità di formare degli accordi particolarmente piacevoli.

La chiesa è dedicata e consacrata a San Martino e l’undici Novembre,infatti, in paese c’è festa grande per onorare il Patrono. Viene allestito unpiccolo parco dei divertimenti, c’è pure una fiera con bancarelle di tutti itipi ed in tutte le trattorie viene servita la “gelatina”: un brodo concentratodi carne di maiale che, a freddo, posto nei piatti di portata si rapprendedando alla pietanza un aspetto trasparente nel quale si intravedono i pezzetti

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di carne ed il tutto viene accompagnato da generose bottiglie di vino Terrano.Dopo aver girato per le viuzze e visitata la chiesa iniziamo la passeggiata

verso Santa Croce prendendo quel sentiero numero 6 che passa davanti alnostro campo e che, in piccola parte, avevamo già percorso durante l’escur-sione da Miramare all’Hostaria ai Pini.

Entriamo nel bosco di bellissime conifere d’alto fusto il cui sottobosco,in alcuni punti, è veramente rigoglioso e nel silenzio riposante del luogosentiamo solamente il rumore dei nostri passi sul sentiero e sugli aghi dipino che lo ricoprono. Dopo circa quaranta minuti di passeggiata arrivia-mo ad un bivio che a destra porta verso il paese di Santa Croce, mentre asinistra conduce verso il monte S. Primo. Noi decidiamo, come program-mato, di andare verso Santa Croce e passiamo accanto a verdi doline e aformazioni rocciose caratteristiche. Il sentiero piega leggermente a sinistraed ecco che ci troviamo di fronte il paese e la tipica cappella di San Rocco,piccola e rustica costruzione di stile gotico.

Una bizzarra caratteristica di questa cappella è data dalla statua esternache raffigura un pellegrino questuante. All’interno della cappella si leggeun’iscrizione del 1646, data in cui si presume sia stata edificata.

All’origine il paese era abitato prettamente da pescatori che, per un ripi-do sentiero, scendevano al sottostante piccolo porto ed era arroccato sulciglione carsico prospiciente il mare, ora invece è diventato un centro den-samente popolato che si estende fino alla provinciale Prosecco-Aurisina edove, in armonia, convivono sia il ceppo italiano che quello sloveno.

La chiesa, dedicata all’Invenzione della Croce (3 maggio) sembra siastata costruita in epoca antecedente il 1500, anche se sulla facciata un’iscri-zione porta la data del 1570 che potrebbe significare, però, una sua parzialericostruzione. Altre date sono incise come quella, con iscrizione latina, sullaporta della chiesa e che porta il nome di Reinaldo Scarlicchio, datata 1613.Sul campanile, alto 30 metri, troviamo incisa la data dell’anno 1543. Daticerti di queste chiesette carsiche non se ne trovano, anche perché sono frut-to della devozione degli abitanti del luogo che da soli, con i pochi mezzi adisposizione, erigevano in tempi diversi il loro punto di ritrovo spirituale.

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Vicino alla chiesa parrocchiale scorgiamo un edificio che gli abitanti diSanta Croce chiamano “Vecchia Scuola” e sulla quale cerchiamo di leggere,ma con scarso risultato, un’iscrizione latina datata 1499.

Altre cose Santa Croce non offre per quanto riguarda costruzioni anti-che o monumenti, però ci regala uno spettacolo unico che solamente leipuò offrirci. Ci affacciamo sul piazzale costruito a fianco della chiesa e dellastrada che scende alla stazione ferroviaria e ci si presenta d’un tratto unavisione di straordinaria ampiezza: la costa istriana, dalla lanterna di Salvorea Pirano, Isola, Capodistria e Muggia, Trieste con i suoi due porti, la sco-gliera da Barcola a Miramare e Grignano, la costiera dal porto di SantaCroce a Sistiana, Duino e Monfalcone. In fondo notiamo la foce dell’Isonzoe la laguna fino a Grado. Nel centro il mare, un quadro esteticamente per-fetto, con una ideale fusione di colori e coronato, in questa giornata parti-colarmente limpida, dall’incantevole visione delle Alpi Carniche e Giulie.

Anche questa passeggiata è terminata, pian piano rientriamo nel paeseper avvicinarci alla strada provinciale ed attendere l’autobus che ci riporteràa Prosecco.

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DA SANTA CROCE AL BIVIO D’AURISINA

Un giorno, ricordo, avremmo voluto rifare il “sentiero 21” a noi moltocaro, quello che, attraverso vie campestri e cavalcavia ferroviari, va, anziscusate, andava da Rupingrande ad Opicina.

È da tanto tempo ormai che il sentiero 21 non esiste più, due manufattidella moderna civiltà lo hanno tagliato in due tronconi rendendolo inagibile,l’oleodotto transalpino, ma soprattutto l’autostrada che corre lungo l’alti-piano.

Era una passeggiata semplice, pianeggiante, ma tanto suggestiva tra bo-schetti deliziosi e ombreggiati d’estate, e prati fioriti. Era un sentiero pocofrequentato e la vegetazione era intatta, tanto che per seguire il sentiero, eranecessario scorgere i segnavia bianchi e rossi con il numero 21 apposti suglialberi per non perdersi.

Decidiamo allora, in alternativa, di fare il percorso che da Santa Croceva al Bivio di Aurisina. Saliti in piazza Oberdan sull’autobus 44 in mezz’oracirca scendiamo al centro di S.Caroce. Proprio in quel punto, il sentiero siinfila tra case vecchie e rustiche per passare poi in una pietraia cespugliata asinistra del nuovo villaggio creato per ospitare i profughi istriani.

Il sentiero diventa una carraia, e lo si nota dai solchi paralleli lasciati daicarri o dai trattori che di là transitano, si dirige verso dei boschetti dappri-ma radi poi sempre più fitti fino a giungere in una rigogliosa pineta carsica.Nella pineta la carraia ritorna ad essere un sentierino che costeggia dellepiccole doline coperte di cespugli e dei lunghi banchi rocciosi.

Passando da uno scorcio all’altro, sempre piacevoli e differenti, ad untratto vediamo una torre circolare che supera la vetta dei pini. Ci fermiamoper consultare il nostro immancabile libretto che ci darà notizie certe suquesta struttura.

Si tratta della torre costruita tra il 1854 ed il 1856 dalla Società delleFerrovie Meridionali, quella che collegava Vienna a Trieste, per sollevarel’acqua delle polle di Aurisina, sorgenti al livello del mare.

Questa torre oggi viene denominata “Torre vecchia” per distinguerla

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dalla torre, molto più grande e più recentemente costruita situata pocosopra la strada costiera.

La storia di questo acquedotto delle Ferrovie è strettamente connessacon la storia dell’approvvigionamento idrico della città di Trieste.

Gli ingegneri, incaricati dei rilievi per la costruzione della ferrovia, ave-vano notato che gli operai che lavoravano sul tronco sotto il villaggio diSanta Croce, si rifornivano di ottima acqua potabile scendendo sulla spiag-gia, dove avevano trovato parecchie sorgenti al livello del mare.

Una volta accertata la potabilità e genuinità dell’acqua, venne fatta unaminuziosa relazione alla direzione centrale dei lavori denominando il sitocome “polle di Aurisina”.

Trieste, da anni, abbisognava di un acquedotto che le assicurasse acquasana e abbondante ed è per questo che la direzione accolse con grande inte-resse la relazione inviata dai loro ingegneri.

Intercorsero fitte corrispondenze tra Vienna e Trieste e venne costituita,anche con molti azionisti locali, una società per azioni per la costruzione diun acquedotto. La presidenza della neo costituita società venne affidata albarone von Buck di Vienna.

Le sorgenti, situate a circa tre chilometri dal piccolo porto di Santa Cro-ce, vennero circondate da un muro e rinserrate in un fabbricato e un serba-toio venne scavato nella roccia per raccogliere l’acqua sgorgata dalle polle.

Dal serbatoio, alcune pompe a vapore progettate ed eseguite dalla Fab-brica Macchine Sigl, facevano salire l’acqua alla torre di elevazione posta a182 metri sul livello del mare e da lì una condotta in tubi di ghisa portaval’acqua alla stazione ferroviaria di Aurisina ed un’altra condotta portaval’acqua a Miramare e a Trieste.

L’imponente opera di costruzione dell’acquedotto fu affidata ad un tec-nico, l’ingegner Carlo Junker, lo stesso che, più tardi, fu incaricatodall’Arciduca Massimiliano a costruire il Castello di Miramare.

L’entrata in funzione e l’inaugurazione dell’acquedotto che riforniva lacittà di Trieste avvenne il 27 luglio 1857.

Dopo aver appreso queste interessanti informazioni, riprendiamo la nostra

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passeggiata lungo il sentiero che scende tra i gradoni coltivati con una bel-lissima vista sul mare e sulla costiera. Volgendo lo sguardo a sinistra ammi-riamo Grignano, Miramare ed in fondo, come una perla incastonata, lacittà di Trieste.

Sempre con l’ausilio del nostro libretto, cerchiamo di scoprire, nella zonadi Santa Croce a mare, delle sporgenze rocciose che altro non erano chedelle “vedette” usate dai pescatori come punti di osservazione per la pesca altonno, una volta molto sviluppata. Notiamo uno o due punti che potreb-bero essere le citate vedette, ma non avendo dati certi, teniamo per buonala nozione appresa senza la conferma naturale.

Odorose piante di timo e di salvia costeggiano il sentiero e ci accompa-gnano, con il loro profumo, nella nostra passeggiata tra lecci, pini e ginepriche nascono dal brecciame e incorniciano deliziose visioni.

Sotto di noi, in trincea, passa la linea ferroviaria per Trieste e ancora piùsotto corre il nastro d’asfalto della trafficatissima strada costiera. Il sentieroriprende a salire e, giunti quasi sul crinale, ci si apre un vastissimo panora-ma. La giornata è limpidissima e possiamo scorgere sullo sfondo le Alpi,ancora parzialmente innevate, dal monte Cavallo, sopra Pordenone, alleDolomiti e dal Canin al monte Tricorno.

Abbassando lo sguardo, verso il mare, notiamo le baie di Sistiana e diDuino con le rocce che le avvolgono, più in la Monfalcone e la focedell’Isonzo con le sue “basse” di Punta Sdobba e Grado.

Proseguendo, con impresso questo vasto panorama, giungiamo ad unapiccola centrale elettrica dalla quale un sentiero ci porta verso il centro dellaborgata di Aurisina ed alla sua moderna piazza dove sorge il nuovo edificiodel Comune.

Di là, in cinque minuti, raggiungiamo la stazione ferroviaria di BivioAurisina, dove pazientemente attendiamo l’arrivo del treno che ci riporteràalla Stazione Centrale di Trieste, non prima, però, di aver ancora una voltaammirata la Cava Romana, i cui blocchi di magnifica pietra bianca si accu-mulano sullo scalo. Quella pietra è il prodotto più mirabile del Carso Trie-stino.

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Anche per oggi la gita è terminata, un po’ stanchi, ma felici di aver vistoed imparato qualche cosa di nuovo, per noi.

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LA COSTA DA SISTIANA AL TIMAVO

Poiché nostra figlia Paola abita, con la sua famiglia, a Duino, decidiamodi fare una gita da quelle parti per poter, al rientro verso fine giornata,andare a trovare i nostri nipotini e, perché no, anche a riposarci un po’prima del rientro a casa.

Decidiamo di fare questa gita per cercare di scoprire ed imparare un po’la “storia” di questa parte della nostra regione, zona terminale del Carsoverso il mare.

Ammiriamo la baia di Sistiana mare racchiusa da alte pareti rocciose, dapendii boscosi e le due lunghe scogliere che la proteggono dalle insidie delmare.

Mi affiorano alla memoria ricordi di gioventù e racconto a Nory, che dabambino nel 1947, io avevo dieci anni, con i miei genitori ci recavamoabbastanza spesso in quei luoghi, perché mia zia Wanda , la sorella di miamadre assieme al marito Franco ed ai due figli Gianni e Dario era venuta,per un mese, a villeggiare a Sistiana.

La zia, triestina di nascita, aveva sposato lo zio Franco che era valtellinesee pertanto, né lui né i figli nati a Sondrio, avevano mai visto il mare.

La baia era del tutto differente, si scendeva per una stretta stradina e siarrivava su di una spiaggia sabbiosa deserta, solamente alcuni casoni di pe-scatori e tante reti da pesca stese ad asciugare. Ricordo che lo zio Franco almattino presto si faceva accompagnare sulla spiaggia in attesa del rientrodei pescatori per poter acquistare e gustare, appena pescate, le ostrichevive. Erano la sua colazione.

Sempre grazie al nostro inseparabile libretto, leggiamo che sulla spiaggiadella baia furono rinvenuti mosaici appartenenti a edifici della stazione ro-mana di Sistillianum che comprendeva ville e bagni. Il nome di Sistillianumvenne impresso sul sigillo trecentesco della città di Trieste e stava ad indica-re il limite occidentale del territorio della città.

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La baia di Sistiana ha avuto un andamento ciclico, dallo splendore deitempi romani alla semplice spiaggetta del dopoguerra.

Il tempo passava e la baia cambiava volto di stagione in stagione. Pianpiano la spiaggia venne coperta e resa agibile alle automobili, l’edilizia pri-vata e commerciale sostituì i casoni. La parte occidentale della baia fu tra-sformata in un ampio e lussuoso campeggio che comprendeva oltre le piaz-zole di sosta per le tende e le roulottes, un bellissimo albergo, un ottimoristorante e una sala da ballo all’aperto. Il complesso si chiamava “LaCaravella” ed ebbe fama di essere uno dei più attraenti e ricercati campeggid’Italia.

Sul lato orientale, molto vicino alla cava che negli anni ’20 lavorava apieno ritmo per procurare i materiali necessari per la costruzione del portonuovo di Trieste, si erigeva il bagno ristorante “ da Castelreggio” il cui tito-lare, Carlo Castelreggio, era un abilissimo cuoco e un perfetto anfitrione.Memorabili le scorpacciate di semplici fritti misti di pesce freschissimoaccompagnati da un delizioso vino bianco prodotto dallo stesso Carletto,così era affettuosamente chiamato dagli amici, e tratto dalla vendemmiadelle sue vigne.

Anni splendidi seguiti, purtroppo, dal ciclico andamento della baia cheha fatto sparire la Caravella lasciando una landa desolata e, dopo la mortedi Carletto e di sua moglie Mariuccia, anche “da Castelreggio, le varie ge-stioni più o meno fortunate hanno fatto decadere il luogo. Speriamo in unrilancio del sito e, se il ciclo, come insegna la storia, ora è destinato arisalire, avremo, forse, la possibilità di riavere rivitalizzato un angolo splen-dido della nostra costa.

A mezza costa, in mezzo a delle casette disseminate, sorge un vecchiopalazzo in stile italico del XVII secolo, munito di feritoie per la sua difesacontro le scorrerie che allora infestavano l’alto Adriatico. All’epoca era lasede amministrativa per i poderi di Sistiana appartenenti alla Contea diDuino.

Dopo la baia di Sistiana, verso Duino, vediamo un muro di roccia, altocirca ottanta metri, che cade a picco sul mare, molto profondo in quel

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punto della costa e che conferisce un colore azzurro carico alle acque.La barriera di sasso si estende per oltre due chilometri e termina al Ca-

stello di Duino. La roccia è talmente compatta e poco fessurata che rendeimpossibile l’accesso anche dal mare non presentando nè insenature o grot-te nè, tantomeno, spiaggette per l’attracco.

Sopra questa barriera di rocce corre il sentiero che ho già descritto epercorso con mia moglie denominato “passeggiata Duinese” ed ora intesta-to a Rainer Maria Rilke.

A questo punto scendiamo al porticciolo di Duino per ammirare quella,che non a torto, è considerata una delle più eleganti insenature dell’altoAdriatico con le sue rive ben curate sulle quali campeggiano alcune buonetrattorie. Arrivando dal mare il colpo d’occhio è veramente splendido equesta piccola baia nulla può invidiare a ben più note consorelle della costatirrenica.

Da Duino la scogliera si abbassa lentamente di livello fino a giungere alTimavo. Tutta questa zona, in epoche remotissime, fu abitata. Infatti scavieffettuati in caverne in mezzo al bosco al di là del porto hanno fornito deireperti interessantissimi di armi in pietra attribuibili ad abitatori trogloditisicuramente di epoche anteriori a quelle che la leggenda degli Argonauti edi Diomede si riferiscono.

La distruzione totale dei boschi tra Duino e il Timavo e la conseguentetrasformazione della fertile zona in sterile landa hanno causato lo spopola-mento di quelle terre per lungo tempo.

Qui decidiamo di fermarci e non proseguire verso la foce del Timavoche in altra occasione abbiamo visitato e piegando a destra, ci avviamoverso la strada statale per sbucare di fronte alla moderna chiesa diS.Giovanni, disegnata dall’architetto Angelo Mazzoni con il suo belportichetto ed il suo svettante campanile. A poca distanza vediamo ergersil’erma del Comando della III armata con il monito: “Rispettate il campodella morte e della gloria” proprio di fronte al gruppo di lupi in bronzo chericordano le gesta dei due reggimenti di fanteria della Brigata “Lupi di To-scana”.

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Proprio in quel punto attendiamo pazientemente l’arrivo del pullmandi linea proveniente da Monfalcone che ci porterà fino a Duino da Paola,Gianni e dai tre nipotini, anche questa volta soddisfatti della passeggiata“culturale” effettuata.

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SUL SAN LEONARDO

Una gita, Nory ed io, abbiamo voluto riservarla per salire sul monte SanLeonardo. A casa, consultando i famosi nostri libretti, abbiamo scopertoche il San Leonardo ha un’intensa storia tutta sua e, questa volta, abbiamodeciso di fare la gita dopo esserci ben documentati su cosa andare a vedere.

Il San Leonado, dai Triestini pomposamente chiamato monte, è unapiccola altura verso il margine nord del Carso Triestino. In quei luoghi siala storia che la preistoria, hanno lasciato profonde tracce e radici. La vistadalla cima è qualcosa di entusiasmante, infatti lo sguardo corre ad abbrac-ciare la rada di Sistiana, la baia di Panzano, le varie lagune di Grado, si vedechiaramente il monte Cavallo, sopra Pordenone, le Dolomiti, le AlpiCarniche, le Alpi Giulie, la Selva di Tarnova e quella di Piro, il Monte Re ei monti della Vena, nonché, più vicini, l’altipiano di Duttogliano e diComeno ed infine il Carso Triestino disseminato di villaggi più o menograndi. Da lassù si spazia l’orizzonte per 360° e solamente questo è già unappagamento che, se muniti di un buon binocolo, un’oretta se ne va sola-mente per soddisfare il desiderio di ammirare il panorama.

Nella lontanissima preistoria l’uomo che abitava le numerose cavernedisseminate sul territorio, usava la cima del “monte” per scrutare i viciniclivi boschivi e la selvosa piana carsica a caccia di prede per soddisfare i suoibisogni alimentari.

Foreste immense ricoprivano tutto l’altipiano carsico, torrenti raccoglie-vano le acque dei colli circostanti per finire nel grande fiume, che nellaprofonda depressione, scendeva fino ad Jamiano. Il Timavo non aveva an-cora scavato il suo quasi fantastico letto sotterraneo che da San Canziano vafino a San Giovanni di Tuba, ma scorreva tutto in superficie.

Più tardi alcune comunità si stabilirono sulla vetta del San Leonardo peravere più possibilità di difesa da attacchi sia delle belve feroci che dell’uomo.Essi cinsero la collina con un triplice muro circolare, costituito da un altovallo sopra una fossa profonda e divenne quello che è chiamato il “villaggiomurato”. Nacque così il celebre Castelliere di San Lorenzo che è uno di quelliche ci hanno lasciato meravigliose testimonianze della loro esistenza.

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È probabile che i torrenti, affluenti del Timavo, ed il Timavo stesso,abbiano tanto inciso il terreno, in modo da filtrare negli strati inferiori,tanto da costringere l’uomo a ritornare nelle numerose caverne dove l’ac-qua spesso ristagnava. Sempre a causa dell’erosione e l’assottigliarsi dei cor-si d’acqua, le volte di queste caverne crollarono trasformandosi, con stu-penda metamorfosi, in valloni circolari nel cui centro affluirono acque eterriccio. Si formarono così i caratteristici valloncelli carsici oggi scientifi-camente chiamati doline dall’omonimo vocabolo sloveno che significa val-le, avvallamento.

Castellieri e caverne vennero abbandonate in tempi assai più recentiquando, per probabile estinzione o abbandono dei territori da parte deglianimali feroci, l’uomo decise di scendere nelle piane sottostanti costruen-dosi i primi focolai ai piedi delle rocce di Ternova e Samatorza.

L’uomo cominciò allora una dura battaglia con la foresta per poterdissodare terreni e farne campi da semina. In breve le foreste si diradaronoe riapparvero le sterili rocce che, flagellate da terribili venti, a malapenariuscivano, nelle doline, a trattenere la terra necessaria per le colture.

La vetta del San Leonardo restò, comunque, per gli antichi abitatori delluogo un ricovero di salvezza tanto che eressero un sacello pagano nel qualel’uomo volle fissare la dimora del suo nume tutelare che, la credenza diceva,vagasse sulla cima del monte alla ricerca di un suo domicilio.

Quando la popolazione carsica accettò la religione cristiana il sacello delmonte San Leonardo venne prima abbattuto per poi erigere, al suo posto,un santuario cristiano. Per costruirlo furono usati tutti i materiali trovatisul posto e cioè i ciottoli e i sassi del vallo del vecchio castelliere nonché lepietre del sacello pagano.

Non si sa a chi fu originariamente consacrato il tempio; solo in tempipiù recenti esso fu dedicato a San Leonardo. La scelta di questo santo cuidedicare il tempio fu data dal fatto che egli è considerato il protettore deideboli e del tempo, nel senso atmosferico.

Leonardo era un nobile francese alla corte di Clodoveo I° che si conver-tì al cristianesimo, fu battezzato e divenne un missionario in Aquitaniadove subì il martirio che lo beatificò. Egli veniva invocato dai villici duran-

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te i temporali ed i fortunali ed esso placava la tempesta e salvava i campi edi loro raccolti. Questa funzione di patrono dei campi e del tempo era unaconcezione di antiche ideologie germaniche, ma che la Chiesa, nel tardomedioevo, riconobbe a San Leonardo confermando questa dedizione po-polare. Nessun altro nome di Santo protettore sarebbe stato più appropria-to per il luogo, data la sua prerogativa di avere una visibilità circolare dioltre cento miglia, che permetteva di avvistare in tempo l’arrivo dei fortunalie correre ai ripari.

Per moltissimi anni, la vetta ed il Santuario, furono meta di pellegrinag-gi, il 6 di novembre festa dedicata a San Leonardo, lungo i ripidi sentieri daparte di devoti cristiani che celebravano le funzioni religiose ed i conse-guenti festeggiamenti.

Ma le popolazioni erano in continua evoluzione e pertanto vollero eri-gere, intorno l’anno 1500, pure un oratorio fuori dell’abitato di Samatorzae congiunto ad essa con una stradina solitaria. Intorno il 1600, l’oratorio,divenne la chiesa di S. Ulrico, suggestiva per il suo romitaggio e per l’auste-rità della costruzione.

Il santuario di San Lorenzo venne abbandonato e pur essendo in assolu-to decadimento, resistette alle incurie fino ad un centinaio di anni fa, quan-do crollò definitivamente e ne rimasero solo le mura perimetrali.

In tempi più recenti, prelevati dagli abitanti i pietrami e quant’altropoteva necessitare per nuove costruzioni, rimasero visibili solo le fonda-menta.

Salendo ora il San Leonardo, in vetta, si trovano antiche vestigia chefanno affiorare alla memoria epoche remotissime, lontane e recenti che sug-gestionando ed impressionando profondamente ci fanno capire l’impor-tanza di questo osservatorio naturale del Carso.

Avendo appreso cose nuove, oltre a quelle poche che già sapevamo, de-cidemmo che la prima domenica di sole e cielo terso, ci saremmo recati sulposto per cercare di “vedere” tutto quello che avevamo letto.

La domenica venne, mettemmo in macchina le pedule con i calzettoni,

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la merenda e una borraccia d’acqua e ci avviammo verso la meta della no-stra gita: il San Leonardo.................. mi venne improvvisamente da rideree dal tanto ridere seguirono le lacrime, tanto che dovetti fermare la macchi-na ai bordi della strada.

Mia moglie, preoccupata, mi chiese cosa fosse successo, ed io, dopo es-sermi un po’ calmato ed asciugati gli occhi dalle lacrime, le spiegai chementre leggevamo le notizie sul San Leonardo, io con la mente cercavo di“vedere” tutto quello che in escursioni precedenti, fatte con l’amico Piero,non avevo visto e tutto ciò mi sembrò impossibile in quanto Piero era uncultore del Carso.

Era tutto molto semplice, leggevamo del San Leonardo, ma io con lamente vedevo il Lanaro.............ecco perché non capivo!!!!

Rimisi in moto la macchina e andammo a fare una bellissima gita sulSan Leonardo, felici, perché avrei e avremmo visto una località nella qualenon c’eravamo mai stati.

Fu una gita ed un’esperienza indimenticabile.

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LA ROCCA DI MONRUPINO

Termino questo mio breve racconto sulle “gite” fatte con Nory, parlan-do della rocca di Monrupino. Non è stata lasciata per ultima perché menoimportante, anzi, per me è forse il posto più bello e suggestivo del Carso.

Monrupino è un sito che, tutti gli amici, parenti e conoscenti che hofatto visitare, sono rimasti a bocca aperta per la suggestiva atmosfera cheinfondeva all’animo.

L’aspra rocca sulla quale sorge la chiesa di Monrupino è una consuetaformazione rocciosa calcarea che appare parecchio fratturata e parecchiinghiottitoi naturali si aprono sulle pareti.

La cima della rocca si può raggiungere da 2 versanti, il primo e piùcomodo, attraverso una ripida rotabile, che girando a spirale, raggiunge ilgrande portone ligneo posto a levante. Il secondo è un’erta pedonale che,verso la fine, diventa una scalinata e raggiunge una pittoresca posterla* sullato di ponente. Dalla posterla, con alcuni gradini in parte incisi nella roc-cia, si esce sul piazzale.

Il vasto piazzale, che fa da corona alla vetta della rocca, è stato ricavatodalla sommità di un Castelliere. Le pareti a picco che circondano la roccada ogni lato, la rendevano inespugnabile e inaccessibile dalle belve. La roc-ca di Monrupino, per queste caratteristiche, viene considerato uno dei prin-cipali centri, se non addirittura il primo, del Carso. La punta di una lanciadi bronzo è considerata uno dei più importanti reperti trovati sul posto.

2000 anni fa, sui resti del Castelliere, i Romani costruirono una basefortificata per poter controllare, dall’alto, il transito attraverso il valico diZolla delle merci e degli uomini che dal mare raggiungevano la valle delVipacco.

La fortificata rocca di Monrupino divenne nuovamente rifugio per lapopolazione intorno la metà del 1500 quando, in quelle zone, continue

* POSTERLA = piccola porta d’accesso in una fortezza o nelle mura d’una città

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scorrerie dei Turchi rendevano pericolosa la vita nei villaggi delle vallate. ITurchi avevano mire di conquista dell’Europa orientale, tant’è che nel 1529arrivarono sotto Vienna, cingendola d’assedio per parecchie settimane.

La prima cappella, all’interno della rocca, fu costruita nel 1316 e che nel1512 divenne una chiesa, press’a poco della forma di quella attuale. Nel1559, di fronte alla chiesa, all’altro lato del piazzale, fu eretta la canonica.La chiesa fu danneggiata e riattata parecchie volte e nel 1856 fu elevata alrango di parrocchia.

Quell’antichissima costruzione a ridosso del portone d’ingresso, a le-vante, è la parte più importante del complesso in quanto era l’antica casadel Comune.

La chiesa che, solidissima da lassù, sfida da secoli le bufere del Carso, alsuo interno possiamo vedere una pregevole pala, su lastra di rame, datata1794, a firma di “Candidus”, e che rappresenta la Mater Salvatoris. Dinotevole e pregevole fattura c’è pure un crocefisso eseguito da ignota manoartigiana. Fuori dalla chiesa possiamo ammirare una ben lavorata pila del-l’acqua santa.

Circa trent’anni fa il vecchio organo, irrimediabilmente guastatosi, èstato sostituito da uno nuovo e più moderno con ben 21 frontali e 12registri.

Il campanile, alto una ventina di metri, è stato costruito nel 1802 ed èvisibile da tutto il Carso. Esso contiene 3 campane, la prima porta la datadel 1798 le altre due, recenti, del 1952. Gli archivi della chiesa sono moltoantichi, vi si possono trovare alcuni documenti del 1512.

La vista è apertissima e si può vedere a nord la Selva di Tarnova, l’impo-nente massa del Nanos, gli altipiani di San Daniele e di Comeno.

A Ovest possiamo vedere il monte Lanaro, mentre ad est notiamo ilmonte Orsario. Infine a sud c’è tutto il Carso Triestino da Duino a Basovizza.Il raggio d’orizzonte, da lassù, è veramente eccezionale essendo stato calco-lato in 78 chilometri.

È questo un ambiente suggestivo, silenzioso, lontano dai rumori del

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traffico e della caotica civiltà moderna. Quando ci si siede sulle mura checircondano il piazzale non è difficile, con la mente, correre indietro neisecoli e rivivere le epoche rurali e pastorizie dove la vita era sicuramente piùbreve, ma anche il tempo scorreva lentamente senza la frenesia che oggi ciaccompagna.

Chiudere gli occhi ed ascoltare il leggero fruscio delle foglie degli alberiappena mosse da una leggera brezza, il cinguettio degli uccellini, lo strideredelle cicale che succhiano la linfa dei frassini, ci danno un dolce senso dibenessere che non vorremmo finisse mai.

Come tutte le cose belle, anche questo è destinato a finire presto, l’oraserale incalza e bisogna riprendere la macchina per rientrare a casa.

Brevemente ho cercato di esprimere le nostre esperienze tentando dispiegare le nostre impressioni provate durante queste fugaci escursioni dipoche ore al massimo. Nella mia mente sono rimasti tanti quadri, scorci,situazioni, immagini, che, di tanto in tanto, in una rapida carrellata mifanno rivedere, esaminare e ricordare le nostre

GITE IN CARSO

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CONCLUDENDO...

Carso. Penso che solo chi ci è nato e lo vive possa capirlo. Com’è possi-bile amare una landa piena di mistero su di un pianoro di sasso a malapenacoperto da un sottile stato di terra dove l’uomo, testardo, cerca di coltivarele sue piante, lottando e rubando spazio alle pietre.

L’inverno, con la sua gelida Bora che tutto spazza e nulla risparmia, soloil ginepro che si piega alle raffiche resiste con le sue radici aggrappate aquella poca terra ed alle pietre. I pini, serrati l’un l’altro, intrecciano lechiome quasi a fare barriera e, flettendosi, fanno da scudo all’irruentovorticare del vento tipico del Carso.

Anche l’uomo, come il ginepro, resta attaccato alla sua terra, soffre manon si lamenta, potrebbe migrare in lidi più temperati e confortevoli mano, resta lì testardo, cocciuto, ostinato, e tutto questo perché? Perché chiama il Carso lo accetta così com’è, nel bene e nel male, come una sposa allaquale bisogna restare fedeli nella buona e nella cattiva sorte, finché mortenon ci divida.

Ma ecco arrivare la primavera dove, dai detriti, fra le rocce, negli anfrattie dalla poca terra esplode d’un tratto la flora carsica, che sembra più unaflora montana che d’altipiano, dove l’erba, le piante, gli arbusti, gli alberellispuntano da ogni zolla e perfino dalle crepe della pietra e, in pochi giorni,i prati verdeggiano nascondendo le pietre, dando un aspetto rigoglioso alterritorio.

Non ci si ricorda più dell’inverno che aveva spogliato il Carso, sembrasolamente un brutto sogno.

Anche questo è il miracolo del Carso, come l’autunno, che ancora unavolta fa cambiare aspetto al paesaggio. Il Carso si veste dei colori più mera-vigliosi, dilagano le foglie di tinta rosseggiante per arrivare fino al rossofiamma viva, alternate a foglie color giallo intenso, e tutti questi coloriparzialmente coprono il verde dei prati. Gli scorci che si possono vederesembrano dei quadri di pittori famosi che con sapienti pennellate copronola tela in un susseguirsi di toni chiaroscuri.

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Noi questi quadri, non occorre che andiamo a vederli in pinacotechefamose, li abbiamo qui, sotto gli occhi, vivi splendenti, a centinaia, ma chedico a migliaia, basta avere occhi, animo e cuore per saperli guardare.

È veramente difficile spiegare il Carso, perché per chi non lo conosce,non ci sono parole che possano bastare a descriverlo, non ci sono scrittori opoeti che possano farlo entrare nell’animo della gente e nel loro cuore. Perchi il Carso lo conosce, non occorrono parole, sa già tutto.

Ma allora questo mio scritto è del tutto inutile? Credo di sì, ma a me fapiacere lo stesso di averlo scritto.

Finito di scrivere Maggio 2001Ringrazio tutti coloro che con i loro scritti, dai quali ho tratto nozioni e spunti, hannopermesso questa mia esposizione:Carlo Chersi, Mario Coloni, Giorgio Cusma, Fiorenza De Vecchi, Livio Grassi, GiuseppePittàno, Lorenza Resciniti, Laura Losei Ruaro, Pino Sfregola, Maria Vidulli Torlo

Enciclopedia Multimediale Gedea, De Agostini

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INDICE

PRESENTAZIONE ............................................................................................. 3

PENSIERI .......................................................................................................... 5

PENSIERI ............................................................................................................ 7POETI ................................................................................................................. 9INFANZIA ......................................................................................................... 1018 ANNI ............................................................................................................ 11SONO CONTENTO ........................................................................................ 13NONNO OCCHIALI ....................................................................................... 15NONNO “CIUPO” ........................................................................................... 17MIO PADRE E MIA MADRE .......................................................................... 20MIO SUOCERO E MIA SUOCERA ................................................................ 23LE MIE “BAMBINE” ........................................................................................ 26MONELLERIE DEL DOPO GUERRA ........................................................... 28SCENETTE IN BANCA ................................................................................... 32PROSECCO ...................................................................................................... 44don P.G. .............................................................................................................. 51AMORE FRATERNO ....................................................................................... 553 DICEMBRE 1988 - 3 OTTOBRE 1998 ........................................................ 59QUARANT’ANNI... .......................................................................................... 62

INFANZIA ....................................................................................................... 67

INFANZIA ......................................................................................................... 70

NATO A TRIESTE ........................................................................................ 101

PREFAZIONE ................................................................................................. 103CAPITOLO 1 .................................................................................................. 104CAPITOLO 2 .................................................................................................. 117CAPITOLO 3 .................................................................................................. 123CAPITOLO 4 .................................................................................................. 134CONCLUDENDO... ...................................................................................... 145

GITE .............................................................................................................. 149

INTRODUZIONE .......................................................................................... 151COS’È IL CARSO ........................................................................................... 153DA MIRAMARE A PROSECCO .................................................................... 158

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AURISINA ....................................................................................................... 168VAL ROSANDRA............................................................................................ 172DUINO ........................................................................................................... 181DA PROSECCO A SANTA CROCE ............................................................. 187DA SANTA CROCE AL BIVIO D’AURISINA .............................................. 190LA COSTA DA SISTIANA AL TIMAVO ....................................................... 194SUL SAN LEONARDO .................................................................................. 198LA ROCCA DI MONRUPINO ...................................................................... 202CONCLUDENDO ......................................................................................... 205

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Questo volumeè stato fotocomposto da

F&G Prontostampa sas - Triestee impresso da

Global Print s.r.l.Gorgonzola (MI)

nel mese di marzo 2004