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Lezione 15-16 novembre 2010 PROF. ALFONSO GIORDANO ASPETTI GEOECONOMCI DEL MONDO: OLTRE LE VECCHIE DICOTOMIE PREMESSA Lo scopo perseguito in queste due lezioni è quello di fornire una panoramica dei processi storici e delle relative conseguenze prodotte sul sistema internazionale sul finire del bipolarismo. In particolare, in un corso come "Geografia dell'incertezza e dell'informazione" si è ritenuto fondamentale illustrare come il passaggio dall‟internalizzazione alla globalizzazione e l‟entrata di nuovi attori sempre più influenti sulla scena internazionale siano nozioni indispensabili per capire il complesso rapporto che esiste tra l‟analisi del territorio, i fenomeni politici e la diffusione (ed eventuali distorsioni) delle informazioni che le riguardano, spesso caratterizzate da un alone di incertezza. Con il superamento delle vecchie dicotomie (Nord-Sud o Centro Periferie, così come interpretate da teorie e schemi esposti in classe e nelle slides) le relazioni internazionali non sono più appannaggio dei singoli Stati, ma sono determinate e a loro volta condizionano le azioni dei nuovi protagonisti della scena internazionale, quali organizzazioni internazionali e sovra-nazionali, multinazionali, ONG, etc. Le relazioni internazionali sono diventate sempre più complesse, si sono ampliate e velocizzate e il coinvolgimento di nuovi attori ha comportato nuove interdipendenze che rendono lo scenario internazionale sempre più incerto. In altre parole, il crollo del blocco sovietico ha determinato la fine di un sistema mondiale basato su due superpotenze e due sistemi economici e conseguentemente la fine o per lo meno l‟allentamento delle rispettive aree di influenza, portando quindi ad un sistema mondiale multiforme e difficile da interpretare e quindi, ancora una volta, incerto. Risulta dunque importante avere nuovi strumenti di lettura per poter interpretare e comprendere l‟attuale sistema-mondo e i possibili scenari futuri, anche in riferimento agli strumenti di informazione e al loro ruolo nella comunità internazionale. In particolare, il sistema di informazione è cresciuto in quantità, in fruibilità e in diffusione, ma allo stesso tempo è diminuita la sua sistematicità. L‟elevato afflusso di informazioni a cui oggi siamo esposti e la possibilità di accedere a più fonti (non sempre attendibili) rischia di confondere gli utenti, in quanto non provvisti dei corretti strumenti di lettura degli attuali eventi. Pertanto, in queste lezioni si è inteso fornire gli schemi interpretativi adatti per poter interpretare correttamente il complesso sistema di interdipendenze globali, attraverso l‟esame degli eventi storici, la loro evoluzione, i protagonisti internazionali di questo processo e i possibili, seppur incerti, scenari futuri.

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Lezione 15-16 novembre 2010

PROF. ALFONSO GIORDANO

ASPETTI GEOECONOMCI DEL MONDO: OLTRE LE VECCHIE DICOTOMIE

PREMESSA

Lo scopo perseguito in queste due lezioni è quello di fornire una panoramica dei processi storici e

delle relative conseguenze prodotte sul sistema internazionale sul finire del bipolarismo. In

particolare, in un corso come "Geografia dell'incertezza e dell'informazione" si è ritenuto

fondamentale illustrare come il passaggio dall‟internalizzazione alla globalizzazione e l‟entrata di

nuovi attori sempre più influenti sulla scena internazionale siano nozioni indispensabili per capire il

complesso rapporto che esiste tra l‟analisi del territorio, i fenomeni politici e la diffusione (ed

eventuali distorsioni) delle informazioni che le riguardano, spesso caratterizzate da un alone di

incertezza.

Con il superamento delle vecchie dicotomie (Nord-Sud o Centro – Periferie, così come interpretate

da teorie e schemi esposti in classe e nelle slides) le relazioni internazionali non sono più

appannaggio dei singoli Stati, ma sono determinate e a loro volta condizionano le azioni dei nuovi

protagonisti della scena internazionale, quali organizzazioni internazionali e sovra-nazionali,

multinazionali, ONG, etc. Le relazioni internazionali sono diventate sempre più complesse, si sono

ampliate e velocizzate e il coinvolgimento di nuovi attori ha comportato nuove interdipendenze che

rendono lo scenario internazionale sempre più incerto. In altre parole, il crollo del blocco sovietico

ha determinato la fine di un sistema mondiale basato su due superpotenze e due sistemi economici e

conseguentemente la fine o per lo meno l‟allentamento delle rispettive aree di influenza, portando

quindi ad un sistema mondiale multiforme e difficile da interpretare e quindi, ancora una volta,

incerto. Risulta dunque importante avere nuovi strumenti di lettura per poter interpretare e

comprendere l‟attuale sistema-mondo e i possibili scenari futuri, anche in riferimento agli strumenti

di informazione e al loro ruolo nella comunità internazionale. In particolare, il sistema di

informazione è cresciuto in quantità, in fruibilità e in diffusione, ma allo stesso tempo è diminuita la

sua sistematicità. L‟elevato afflusso di informazioni a cui oggi siamo esposti e la possibilità di

accedere a più fonti (non sempre attendibili) rischia di confondere gli utenti, in quanto non provvisti

dei corretti strumenti di lettura degli attuali eventi. Pertanto, in queste lezioni si è inteso fornire gli

schemi interpretativi adatti per poter interpretare correttamente il complesso sistema di

interdipendenze globali, attraverso l‟esame degli eventi storici, la loro evoluzione, i protagonisti

internazionali di questo processo e i possibili, seppur incerti, scenari futuri.

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1. Dall’internazionalizzazione alla globalizzazione

Il concetto di globalizzazione è emerso per la prima volta attorno al 1960 quando lo studioso

canadese Marshall McLuhan coniò il termine “villaggio globale”1 per descrivere l‟impatto delle

nuove tecnologie delle comunicazioni sulla vita sociale e culturale. I due termini dellʹenunciato si

contraddicono a vicenda, il “villaggio” esprime qualcosa di piccolo, mentre “globale” sta a

significare l‟intero pianeta. Le due scale geografiche estreme naturalmente contrapposte si ritrovano

unificate. La globalizzazione può essere definita come un processo (o un insieme di processi)

consistente in una trasformazione nell‟organizzazione spaziale delle relazioni e delle transazioni

sociali che produce flussi e reti transcontinentali o interregionali di attività, interazioni e potere. In

via generale, si può sostenere che la globalizzazione consiste nell‟accumulo di legami tra le

principali regioni del mondo e tra svariati ambiti di attività: più che un singolo processo, essa

implica almeno quatto diversi tipi di cambiamento:

‐ essa estende attività sociali, politiche ed economiche attraverso le frontiere politiche, le regioni e i

continenti;

‐ intensifica la dipendenza reciproca con il progressivo aumento dei flussi di commercio,

investimenti, finanza, migrazione e cultura;

‐ accelera il mondo: l‟introduzione di nuovi sistemi di trasporto e comunicazione implica un più

rapido movimento di idee, beni,informazioni, capitali e persone;

‐ determina un maggiore impatto degli eventi remoti sulla nostra vita.

Quando si parla di globalizzazione si fa riferimento in genere a quella di natura economica, ciò

anche perché i suoi effetti sono maggiormente evidenti. Gli ambiti nei quali, a livello economico, il

fenomeno globalizzante si manifesta riguardano sia la sfera dell‟economia reale (cioè la produzione,

distribuzione e consumo di beni e servizi) che quella dell‟economia finanziaria (monete e capitali).

Questo fenomeno è però in atto da secoli e non è affatto una novità degli ultimi decenni.

L‟interconnessione tra varie aree del mondo è sempre esistita ed è nata appunto sin dai primi

movimenti di persone con i relativi traffici. Questa interconnessione è stata tradizionalmente

chiamata “internazionalizzazione”. La globalizzazione però è molto probabilmente qualcosa di

diverso e di più rispetto all‟internazionalizzazione sia per quanto riguarda gli attori coinvolti, che

per l‟intensità del processo e, infine, per l‟estensione geografica.

La globalizzazione coinvolge, infatti, oltre che gli Stati‐nazione (l‟internazionalizzazione prevedeva

invece relazioni tra “nazioni”), anche altri soggetti non statuali quali le multinazionali (o

1 MCLUHAN M. (1964), Understanding Media: The Extensions of Man, Routledge, London

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transnazionali), le Organizzazioni Internazionali, le ONG ecc. Il processo di globalizzazione è

inoltre più intenso in quanto maggiormente pervasivo nella vita dell‟individuo (toccando diversi

aspetti della vita umana, non solo quello economico quindi) ed enormemente più rapido (si pensi

alle tecnologie dell‟informazione quali internet). Infine, la globalizzazione comporta una estensione

geografica maggiore perché giunge in aree del pianeta prima non interessate dal fenomeno

dell‟internazionalizzazione, rendendole così parte del sistema.

Tabella 1: Internazionalizzazione e globalizzazione

Fonte: Adattata da Conti S., Dematteis G., Lanza C., Nano F. (2006), Geografia dell’economia

mondiale, UTET, Torino, pag. 194

Tre fattori su tutti hanno contribuito alla “esplosione” della globalizzazione:

Il mutamento della situazione geopolitica ed economica verificatosi alla fine degli anni 80‟;

L‟evoluzione tecnologica;

Lo sviluppo della telematica degli ultimi decenni.

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Con la fine della Guerra Fredda ed il crollo delle economie pianificate e dei connessi sistemi

socio‐politici (avvenuto simbolicamente con la caduta del Muro di Berlino nel 1989) - che

caratterizzavano l‟Europa orientale e una parte dell‟Asia - insieme all‟apertura della Cina

all‟economia di mercato, ha favorito l‟imporsi di un unico tipo di sistema economico, basato sul

libero commercio tra gli stati. Così gli intensi scambi di capitali e di merci, che già riguardavano

buona parte della Terra, si sono estesi a tutto il pianeta. L‟affermazione della globalizzazione è stata

poi favorita anche da altri due fattori e cioè l‟evoluzione tecnologica e lo sviluppo della telematica.

L‟evoluzione della tecnologia ha permesso la messa a punto di sistemi di trasporto molto più veloci,

facilmente accessibili e poco costosi, così da rendere sempre più conveniente e rapido lo

spostamento delle persone e delle merci da un capo all‟altro del mondo. Lo sviluppo della

telematica (telecomunicazioni legate all‟informatica) ha visto un progresso tale da permettere lo

scambio di un enorme volume di informazioni, in tempo reale, fra i popoli di tutti i paesi della

Terra. Pertanto, la riduzione delle distanze e le più strette interrelazioni fra tutti i Paesi del mondo

che ne conseguono, impongono un nuovo modo di porsi nei confronti dei grandi problemi

contemporanei. Gli squilibri demografici, la mobilità delle persone, l‟organizzazione del lavoro,

l‟inquinamento ambientale, il tipo di risorse utilizzate e la questione della loro esauribilità sono temi

che non possono essere considerati separatamente nelle singole entità territoriali. Il modo nel quale

questi temi saranno affrontati da un gruppo di paesi, ma anche da un singolo Stato, avrà

ripercussioni su tutti gli altri.

2. Le teorie interpretative dei sistemi economici mondiali

L‟interpretazione del sistema economico mondiale in chiave, “globale” si deve allo sociologo e

storico e americano Immanuel Wallerstein e alla sua teoria detta dell‟economia‐mondo, la cui prima

elaborazione risale al 19746. Alla base della teoria di Wallerstein c‟è l‟idea che l‟organizzazione

degli spazi geografici derivi da lungo processo storico basato non tanto su singoli Stati, quanto

invece su costruzioni sociali più vaste e articolate munite di una propria base

“economico‐materiale” e culturale indipendente, tali cioè da costruire dei veri e propri “mondi”, che

egli chiama appunto “sistemi‐mondo”. I sistemi‐mondo possono essere suddivisi in due tipologie:

gli imperi‐mondo e le economie‐mondo. Gli imperi‐mondo si caratterizzano come sistemi

particolarmente gerarchizzati in senso verticale, dove il momento politico primeggia su quello

economico e il cui funzionamento è fondato su meccanismi di produzione della ricchezza di tipo

“ridistribuitivo‐tributario” e sull‟espansionismo territoriale. La ridotta elasticità interna e l‟elevata

conflittualità esterna è allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza di questi sistemi. Le

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economie‐mondo sono invece agglomerati di tipo orizzontale, dove non esiste un centro o un unico

vertice politico, ma dove risaltano piuttosto fattori e legami di ordine culturale, sociale ed

economico di rilevanza territoriale più vasta rispetto a quella governabile da un‟entità politica.

Tradizionalmente le economie‐mondo pre‐moderne si sono frequentemente sviluppate intorno alle

grandi vie dʹacqua (ad es.: il Mediterraneo, il Golfo Persico, l‟Oceano Indiano), ma anche alle

grandi arterie commerciali terrestri, mostrando, tuttavia, anch‟esse una accentuata instabilità

intrinseca e tendendo perciò a trasformarsi o ad essere inglobate in imperi o a disintegrarsi.

Un mutamento radicale avviene con l‟affermarsi dell‟economia‐mondo europea, che a tutti gli

effetti rappresenta le origini del sistema economico mondiale odierno. Si tratta del risultato di un

processo plurisecolare che inizia nell‟Europa nel XVI secolo, quando, in concomitanza con

l‟espansione coloniale seguita alla scoperta dell‟America, prende forma il capitalismo mercantile, la

cui peculiarità consiste nella capacità di espandersi in modo praticamente illimitato attraverso la

diffusione e l‟allargamento del mercato. Differentemente da quanto accade nelle altre

economie‐mondo, il nuovo sistema usa i meccanismi dell‟accumulazione del capitale per infilarsi in

ogni spazio dell‟economia sociale, e riesce ad assorbire le aree esterne (imperi‐mondo, altre

economie‐mondo, minisistemi), arrivando a creare sulla fine del XIX secolo uno spazio economico

unico sulla Terra. Un successo di tale rilevanza non è spiegabile se non si prende in considerazione

anche un‟altra peculiarità dell‟economia‐mondo capitalistica: la sua capacità, cioè, a funzionare e a

consolidarsi attraverso la separazione tra sfera economica e sfera politica. In tal modo la nuova

economia‐mondo si è potuta sviluppare non solo evitando la sua trasformazione in un

impero‐mondo, ma anche ottenendo vantaggio dall‟esistenza di più centri politici, potendo anzi

utilizzare le discontinuità politico‐territoriali e le varietà di modalità operative locali come fattori di

ulteriore espansione.

3. Sviluppo Sostenibile e Impatto ambientale

L‟aumento della popolazione mondiale in relazione alle risorse ha sollevato, non solo in tempi

recenti, discussioni legate alla capacità di portata del Pianeta. Questa è data capacità di un ambiente

(o ecosistema, o pianeta) e delle sue risorse di sostenere un certo numero di individui. Esiste una

quantità massima di popolazione che un dato ambiente può sopportare, superata la quale le sue

capacità di sostenere future generazioni sono messe a repentaglio. Il limite della capacità di carico

di un territorio non è fisso, ma può innalzarsi con l‟introduzione di nuove tecnologie in grado di

accrescere la capacità produttiva dell‟ambiente.

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Fra i più noti studiosi che si sono dedicati al rapporto popolazione‐risorse rientra l‟inglese Thomas

Malthus, che nel 1798 pubblicò il suo “Saggio sui principi della popolazione”. La sua analisi si basa

sull‟ipotesi che la ʺla popolazione ha la costante tendenza ad aumentare al di là dei mezzi di

sussistenzaʺ. La soluzione avanzata da Malthus per evitare il collasso mondiale consiste in un

rigoroso controllo delle nascite, basato sull‟astensione dal matrimonio e dalle pratiche sessuali.

Negli anni ʹ60 e ʹ70 del 1900 il pensiero di Malthus fu ripreso e rielaborato dai neomalthusiani, che

ammonivano sulle disastrose conseguenze derivanti dalla crescita della popolazione e

dell‟esaurimento delle risorse. Nel 1968 il biologo americano Paul Ehrlich pubblicò un volume dal

titolo “The population bomb”, nel quale prevedeva di lì a dieci anni l‟inevitabile morte per fame di

milioni di persone.

La maggiore attenzione agli evidenti problemi ambientali ha fatto evolvere il dibattito sulla

ricchezza del mondo industrializzato e sul divario nei consumi delle risorse da un piano spesso

eccessivamente moralista a quello di reali questioni di sopravvivenza del Pianeta. L‟attenzione sulla

portata di carico della Terra ha come corollario una riflessione sull‟attuale sistema economico

prevalente e sulla sua capacità di soddisfare i bisogni della popolazione attuale senza nulla togliere

alle generazioni future. In altri termini la capacità di portata è data da:

– la grandezza della popolazione di riferimento;

– l‟attività economica, i suoi ritmi e il consumo di risorse pro capite;

– la tecnologia usata per mantenere quell‟attività, quei ritmi e quei

– consumi;

– la quantità di risorse disponibili.

Fra gli indici ideati più recentemente per misurare l‟impatto e la richiesta umani nei confronti della

natura vi è l‟Impronta ecologica. Questo indice statistico ideato dal WWF mette in relazione il

consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle. In pratica, rappresenta

ʺil pesoʺ che ogni popolazione ha sullʹambiente. Tre fattori determinano l‟Impronta di un Paese:

popolazione, consumi pro capite e quantità di risorse necessarie a sostenere quei consumi. Il calcolo

dell‟Impronta ecologica, in definitiva, può determinare se una nazione, una regione o il mondo

intero sta o meno vivendo entro i propri limiti ecologici.

Più articolato è l‟Indice di Sostenibilità Ambientale ESI sviluppato dalla Yale University e dalla

Columbia University in collaborazione con il Forum economico mondiale e il Centro comune di

ricerca della Commissione europea. LʹESI è un indice aggregato che si propone di valutare la

capacità delle nazioni di proteggere il proprio ambiente nei prossimi decenni, tenendo conto di una

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serie di variabili di tipo socio‐ economico, ambientale ed istituzionale. LʹESI dovrebbe dare gli

strumenti per una razionale politica ambientale, e fornire unʹalternativa al PIL e allʹIndice di

Sviluppo Umano nella misura del progresso di un paese. Ad un alto valore dellʹindice

corrispondono i paesi che hanno maggiore probabilità di mantenere il proprio ambiente in buone

condizioni nel lungo periodo.

§ 3.1 segue: Lo sviluppo sostenibile dell’ecosistema “uomo - terra” come paradigma per il 21°

secolo

Il rapporto Brundtland ha ispirato, comunque, importanti conferenze delle Nazioni Unite,

documenti di programmazione economica e legislazioni, sia nazionali che internazionali, e qualsiasi

discussione effettuata in questi ultimi anni su temi economici e/o ecologici2.

Il concetto di “sviluppo sostenibile” è stato dunque assurto come paradigma di una crescita

economica, culturale e sociale rispettosa dei tempi della natura e delle generazioni future. Va detto

che gli stati – ma anche le culture, i gruppi, gli individui ‐ interpretano il concetto di “sviluppo

sostenibile” nel modo che più si adatta ai propri bisogni. Così alcuni enfatizzano la sostenibilità

economica per aumentare il loro livello di consumi, altri la sostenibilità ambientale per proteggere

specie a rischio. Sintetizzando, possiamo identificare tre aspetti universalmente riconosciuti come

sfaccettature del concetto di “sviluppo sostenibile:

- Sviluppo sostenibile della natura: non consumare risorse più velocemente di quanto esse non

possano rinnovarsi.

- Sviluppo sostenibile dell‟economia: lavoro per tutti e sempre più elevati standard di vita.

- Sviluppo sostenibile della società: pari opportunità di vita per tutti.

4. Le rappresentazioni della strutturazione dello spazio globale

Il sistema economico e politico mondiale così come è strutturato oggi non è, come abbiamo visto

quando si è accennato all‟economia‐mondo capitalistica, un “dato” naturale scaturente da

un‟evoluzione più o meno lineare del mondo nel suo complesso o dall‟incontro autonomo di civiltà,

culture, formazioni politiche ed economiche diverse. Il sistema mondiale corrente è soprattutto il

frutto della prevalenza su scala globale di un unico modello di organizzazione socio‐economica e

politica, il “modello europeo”, o, più generalmente, “occidentale”, che nel corso del suo processo

2 Agenda 21 nel 1992, Protocollo di Kyoto nel 1997, Dichiarazione del Millennio nel 2000

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d‟affermazione ha destrutturato, assorbito, omogeneizzato e riorganizzato in modo strumentale a sé

ogni altra realtà preesistente o “diversa”. Tale evoluzione ha attraversato vari periodi, ciascuno dei

quali ha lasciato un proprio segno di riconoscimento sugli assetti mondiali attuali.

Fino a tutto il XVII secolo è l‟Europa che vede lo sviluppo del sistema capitalistico. I fenomeni

economici vengono organizzati secondo una bipartizione fra uno spazio interno europeo, con

colonie americane comprese, e uno spazio esterno extraeuropeo. E‟ quindi il sistema europeo con le

sue dipendenze coloniali ad assistere ad una polarizzazione dello spazio. Il centro del sistema si

colloca dapprima in Spagna, successivamente nell‟Europa nordoccidentale, dove si formano le

precondizioni dell‟economia industriale fondata sul libero lavoro (Nord Francia, Inghilterra, Paesi

Bassi). La periferia è invece fatta dall‟Europa orientale e dall‟America a dominazione iberica, poi

anche da quella anglofrancese, dove a prevalere sono le attività primarie, e quelle agricola ed

estrattiva, basate più che altro sul lavoro forzato e sulla schiavitù. La semiperiferia comprende la

Francia meridionale, l‟Italia settentrionale, poi anche Svezia, il Brandeburgo‐Prussia, dove

primeggiano la mezzadria e forme intermedie di lavoro. La guerra dei trent‟anni, conclusa nel 1648,

decreta, insieme con la nascita del sistema degli Stati, anche il manifestarsi del primo conflitto tra le

potenze centrali per l‟egemonia sulla nuova economia‐mondo. Il sistema europeo si estende poi

gradualmente tra il XVIII e il XIX sul resto del mondo, assorbendo dentro il proprio circuito

economico gli spazi esterni (gli imperi persiano, cinese e ottomano, il subcontinente indiano, il

Sudest asiatico, l‟Africa Sub‐Sahariana), e ciò sia direttamente quali colonie di sfruttamento, sia

indirettamente in qualità di partner commerciali, ultimando così il proprio sistema di colonie di

popolamento (Australia, Nuova Zelanda). Viene proiettata in questo modo su scala globale anche la

polarizzazione dello spazio geografico venutasi a formare in Europa nei precedenti due secoli e

testata nelle colonie e semicolonie d‟oltremare dell‟area atlantica fin dal „600 mediante il cosiddetto

“commercio triangolare”. Le relazioni tra centro e periferia traslate fuori dall‟Europa vengono

organizzate a partire dal principio fondato sul binomio dominanza - dipendenza, che prevede una

subordinazione e riconversione sempre più forti delle strutture socio‐economiche delle periferie

extra‐europee secondo le esigenze proprie dei mercati e dei processi produttivi delle metropoli

continentali (economia di piantagione, monocoltura, fornitura di manodopera ecc.). A questo

vigoroso meccanismo non si sottraggono neppure le ex‐colonie americane, che si allacciano, come

gli Stati Uniti, ai processi di trasformazione economica in atto nella madrepatria al fine di

convergere verso il centro del sistema mondiale, oppure come l‟America Latina, non riuscendo però

a venir fuori dalla loro situazione di subalternità e restando quindi confinate in uno spazio

marginale. L‟europeizzazione del mondo si universalizza e in qualche modo si rende indipendente a

partire dalla rivoluzione industriale inglese a cavallo tra „700 e „800, passando attraverso la

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rivoluzione francese dell‟89, arrivando fino al ʹ900 avanzato. L‟organizzazione politica degli spazi

geografici si uniforma al modello di Stati nazione di matrice europea, mentre il modo di concepire

la produzione industriale diffonde il lavoro salariato, eliminando o assimilando ogni forma residua

forma “altra” di organizzazione del lavoro. I rapporti gerarchici centro‐periferia restano

sostanzialmente immutati nel corso del tempo. A cambiare sono invece la collocazione dei poli

economici centrali e le relazioni egemoniche tra gli Stati al potere. Fino all‟inizio del „900 tocca

all‟Europa nordatlantica il ruolo cardine dell‟economia‐mondo, in un primo momento sotto il

faticoso condominio franco‐britannico, successivamente sotto l‟egemonia della sola Gran Bretagna,

focolaio della rivoluzione industriale. Negli anni „70 dell‟800 si affacciano però alla ribalta nuovi

concorrenti: la Germania e, per la prima volta un paese non europeo, gli Stati Uniti. La lotta per il

predominio provoca, come noto, due guerre mondiali e si risolve con lo spostamento del centro di

gravità del mondo al di fuori dell‟Europa, per l‟appunto negli Stati Uniti. La nuova egemonia

statunitense garantisce quanta anni circa di stabilità in Europa, a fronte del prezzo di una crescente

conflittualità col nuovo antagonista eurasiatico, l‟URSS. Quando dopo il 1991 questa conflittualità

bipolare viene meno, le altre conflittualità si moltiplicano sia in periferia, sia al centro, in Europa,

ma soprattutto tra centro (in Nord) e la periferia (il Sud). Contemporaneamente si assiste alla

crescita di un nuovo colosso economico, il Giappone, e di quello demografico, la Cina. Ciò, in un

certo senso, preannuncia lo spostamento del centro in una nuova area, quella del Pacifico.

Il mondo ha visto quindi, nelle sue diverse fasi storiche il prevalere di questa o quell‟altra visione

politica, socio‐economica, culturale e/o ideologica. Ogni campo disciplinare ha cercato di

interpretare queste visioni secondo le proprie peculiarità di indagine scientifica. Le discipline

geografiche, in linea con quanto premesso all‟inizio di questa trattazione, prediligono un approccio

allo stesso tempo sistemico, cioè tenendo conto delle diverse componenti del quadro d‟insieme, e

concreto, a partire quindi dagli elementi realmente verificabili sul territorio. Avvalendosi della sua

modalità principe di indagine, e cioè l‟analisi spaziale (i fatti umani, così come si manifestano in

relazione allo spazio terrestre) e multiscalare, la geografia tende a dare dello spazio globale una (o

più) rappresentazioni della sua struttura. Ciò avviene in genere gerarchizzando lo spazio e

verificandone le posizioni, le differenze, e le variazioni. Dovendo rappresentare lo spazio, il

discorso geografico si esprime quindi anche attraverso immagini e metafore (ma anche con

indicatori quantitativi) che per quanto semplificanti la realtà delle cose, possono mettere in luce

elementi nuovi, far rilevare relazioni non considerate prima, porre in evidenza continuità e rotture.

Come fatto rilevare poco prima, anche la metafora proposta dall‟immagine Nord‐Sud tende a

semplificare la realtà dei fatti: è facile far rilevare che non tutti i paesi in via di sviluppo si trovano

nella parte sud del mondo. Così come la tradizionale prospettiva interpretativa dei rapporti tra

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economie a livello di sistema mondiale basata sul dualismo centro‐periferia è discutibile3. La realtà

è molto più articolata e complessa: ci sono infatti paesi non ricchi appartenenti al sud del mondo

che non sono affatto periferici e che partecipano attivamente ai cicli produttivi e, allo stesso tempo,

paesi del centro che rischiano l‟esclusione. Tuttavia, pur con tutti i limiti descrittivi della realtà, una

immagine aiuta a contestualizzare i concetti teorici e a calarli nella probabile realtà. Le

rappresentazioni geografiche hanno quindi tentato di descrivere le gerarchie politico ed economiche

mondiali, che nell‟arco degli ultimi cinquant‟anni sono venute in parte mutando. All‟epoca del

bipolarismo prende forma la ripartizione geopolitica del pianeta in Primo, Secondo, Terzo e Quarto

mondo. A partire dagli anni „80 del Novecento il problema Nord‐Sud emerge come disequilibrio

principale degli assetti geo‐economici mondiali. Nell‟ultimo decennio del secolo, con il collasso del

mondo comunista appaiono nuove gerarchie. Occorre notare infine che il legame tra

rappresentazioni e teorie non è univoco e lineare: se per un verso è evidente che alcune

rappresentazioni riflettano le ideologie, le teorie e gli orientamenti politici nelle quali vengono alla

luce e si sviluppano, è più difficile stabilire se e quando le immagini geografiche abbiano fornito

spunti per la formulazione di teorie e ideologie.

§ 4.1 segue: Una lettura politico‐ideologica: la metafora dei Quattro Mondi

I termini “sottosviluppo” e “Terzo Mondo” fanno parte del gergo politico della fase iniziale della

Guerra Fredda, essendo comparsi per la prima volta a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del

Novecento. La denominazione “Terzo Mondo” fu coniata nel 1952 dal demografo e economista

francese Alfred Sauvy in un articolo del giornale “L‟Observateur”, nel quale la situazione politica

mondiale dell‟epoca è paragonata a quella della Francia pre‐rivoluzionaria. Il parallelismo che

Sauvy fa rilevare riguarda la situazione della società francese alla vigilia della Rivoluzione, ripartita

com‟era in “tre stati”, l‟ultimo dei quali, il “Terzo stato”, che includeva la massa della popolazione,

sarebbe insorto e avrebbe preso il sopravvento, come sempre secondo Sauvy, il mondo si poteva

frazionare in “Tre Mondi”, l‟ultimo dei quali, il Terzo appunto, comprendente i due terzi

dell‟umanità, sarebbe stato destinato a sollevarsi e imporre un nuovo ordine internazionale.

A partire da tale parallelismo, il Primo Mondo era assimilato con le vecchie e nuove potenze

coloniali (potenza “neocoloniale” erano considerati gli Stati Uniti), e più in generale, con i paesi a

regime di economia di mercato, vale a dire capitalistica. Il Secondo Mondo era composto

dall‟insieme dei paesi socialisti, in parte appartenenti al blocco sovietico. Il Terzo Mondo, infine,

3 Per una critica al modello centro-periferia si veda VANOLO A. (2006), Geografia economica del sistema-mondo. Territori e reti

nello scenario globale, UTET, Torino.

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radunava la massa dei paesi ex coloniali e dei movimenti di liberazione nazionale, in prevalenza

presenti in Asia e in Africa, accomunati oltre che dalla posizione economica e politica di

subalternità, dal fatto di non identificarsi in nessuno dei primi due mondi.

Nel corso degli anni, la distinzione fra i Tre Mondi ha assunto una connotazione più marcatamente

economica e, correlata col termine “sottosviluppo” nella sua versione meno dura e più politically

correct di “in via di sviluppo”, fu recepita dalle stesse organizzazioni internazionali. L‟espressione

“Primo Mondo” diventò così equivalente di paesi industrializzati a economia di mercato (Market

Economies), quella “Secondo Mondo” continuò a individuare i paesi socialisti a economica

pianificata (Central Planned Economies), e quella “Terzo Mondo” cominciò a collimare con i paesi

in via di sviluppo, sigla PVS (Developing Economies). Ma vi è da aggiungere il “Quarto Mondo”,

che viene in effetti viene visto come il “quarto stato” della Francia pre‐rivoluzionaria, che non esiste

a livello nominale, ma che, di fondo, segnala di fatto il mondo degli esclusi.

L‟espressione compare per la prima volta sulla stampa negli anni „70 per indicare la porzione più

misera dei paesi del Terzo Mondo, i paesi sottosviluppati veri e propri, quasi del tutto, se proprio

non del tutto, privi di risorse naturali di qualche rilievo o di capacità industriali.

§ 4.2 segue: Una visione economico‐sociale: lo schema Nord‐Sud

La ridefinizione delle gerarchie mondiali odierne, lette non più tanto in chiave politico‐ideologica,

quanto piuttosto in una prospettiva economicosociale, si deve a una Commissione dell‟ONU

presieduta dall‟ex cancelliere dell‟allora Germania Ovest, Willy Brandt, le cui conclusioni sono

sintetizzate nell‟ormai conosciuto Rapporto sullo sviluppo mondiale, edito nel 1980 sotto il titolo

emblematico Nord/Sud. L‟argomento chiave del Rapporto è incentrato sulla rottura ancora più

profonda e radicale che si è venuta ad aggravare negli ultimi decenni all‟ombra della

contrapposizione Est‐Ovest e mentre tutti i commentatori internazionali erano concentrati su questo

confronto. Questa nuova divisione, suscettibile di compromettere in maniera irreversibile gli

equilibri mondiali, è quella che contrappone i paesi ricchi e industrializzati dell‟emisfero Nord e il

resto del mondo che è invece costretto soventemente a vivere ai limiti della sussistenza, che è

caratterizzato da una crescita economica lentissima, se non stazionaria, ed è appesantito da profondi

problemi demografici, etnici e socio‐culturali. Nella visione proposta dal Rapporto Brandt, il Nord

del mondo comprende non solo i paesi avanzati dell‟emisfero nord geograficamente inteso

(l‟America settentrionale, Messico escluso, l‟Europa, inclusa l‟URSS, e il Giappone), ma anche

alcuni paesi industrializzati dell‟emisfero sud, come lʹAustralia, la Nuova Zelanda. In questa

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visione, la parte sud del mondo finisce col coincidere con la vasta area del sottosviluppo comunque

essa venga classificata (paesi in via di sviluppo, Terzo e Quarto Mondo).

In ogni caso, ancora oggi, questo schema rappresenta un utile paradigma di riferimento per

analizzare le grandi dinamiche geoeconomiche globali. Lo schema Nord‐Sud ha infatti il merito di

mettere in luce le distorsioni connaturate ai meccanismi di fondo che caratterizzano lo sviluppo

economico mondiale: dominio delle economie più forti (quelle identificate come “centro”), scambio

ineguale tra paesi ricchi e paesi poveri (un rapporto che va sempre peggiorando), indebitamento in

aumento e costante impoverimento dei paesi più deboli. Tuttavia, come ogni modello a carattere

descrittivo‐generalista, corre il rischio, se non rinnovato e adattato ai continui mutamenti della

complessa realtà di oggi, di perdere in capacità esplicativa e rendere più confusa l‟analisi dei

processi che vuole interpretare.

§ 4.3 segue: La Triade e i paesi emergenti e in transizione

Di recente nuovi elementi tendono a ridisegnare la fisionomia geoeconomica e politica del mondo.

Da un lato, vi è da segnalare la tradizionale versione interpretativa che individua nella cosiddetta

“Triade”, formata da USA, Unione Europea e Giappone, i paesi dominanti sullo scacchiere

internazionale. Si tratta di una definizione utilizzata spesso nel commercio internazionale per

indicare appunto il trittico dei paesi/aree più industrializzate del mondo: il primo gruppo è

rappresentato dagli Stati Uniti, il secondo dai paesi dellʹEuropa Occidentale (sostanzialmente l‟UE)

e il terzo gruppo è rappresentato dal Giappone. Sono in pratica le classiche potenze economiche

“occidentali”, che nel mercato globale vengono identificate in raffronto ad altri gruppi economici

indiscutibilmente più deboli oppure ad altri nuovi gruppi economici emergenti, sui quali gruppi

economici però, grazie al suo potere politico ed economico la Triade proietta la sua grande

influenza. Per altro verso però, si ha un graduale ma durevole processo di differenziazione e

riallocazione delle gerarchie interne ai paesi che fanno parte del cosiddetto del Terzo Mondo (si

pensi per esempio a Israele, che da tempo viene annoverato tra i paesi industriali). D‟altra parte, un

processo per alcuni aspetti analogo sta avvenendo nei paesi dell‟emisfero nord, le cosiddette

“economie in transizione”, investiti dalla turbolente situazione post‐comunista.

Relativamente al Terzo Mondo, mentre si estende la lista dei paesi più poveri del Quarto Mondo

(che va detto, sono meno poveri che in passato, ma più poveri in relazione ai più ricchi), va notato

però che stanno anche man mano emergendo almeno tre categorie di Stati i cui livelli di sviluppo si

avvicinano a quelli delle economie più avanzate. Questi risultati sono incoraggianti fino al punto

tale che si può arrivare a configurare quello che si potrebbe definire, il Nord del Sud del mondo.

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Una prima categoria di questi paesi riguarda gli Stati a rendita petrolifera (Algeria, Arabia Saudita,

Bahrein, Brunei, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Iran, Iraq, Indonesia, Kuwait, Libia, Oman, Nigeria,

Venezuela ecc.).

Una seconda categoria è quella denominata come “nuovi paesi industriali” o NIE (Newly

Industrialized Economies), così chiamati a partire dalla metà degli anni ʹ80. Si tratta delle “quattro

tigri” dellʹAsia orientale (Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Singapore), tutte caratterizzate da

sostenuti ritmi di crescita economica e da una intensa presenza sul mercato internazionale. Alla

stessa categoria, pur con tassi di crescita meno brillanti, sono da ascrivere anche Filippine,

Indonesia, Malaysia e Thailandia, definiti dalla stampa di settore come i “quattro dragoni“ del

Sud‐Est asiatico. Il paese senza dubbio a più rapida industrializzazione dell‟Asia, ma anche del

mondo, è la Cina, con un tasso di crescita costantemente a due cifre per oltre un decennio e in

procinto di ricoprire un ruolo leader mondiale non solo in campo economico ma anche

politico‐strategico.

La terza categoria di paesi emergenti è parecchio variegata, comprendendo Stati di grandi

dimensioni che dispongono di una forte base agricola e/o mineraria e di un apprezzabile apparato

industriale (per es.: Argentina, Brasile, India, Messico e Sudafrica), o che si trovano in una fase di

decollo industriale più o meno avanzato (Bangladesh, Egitto, Pakistan, Turchia), piccoli Stati con

reddito elevato (Cile, Uruguay), ma anche mini‐stati e dipendenze con un pronunciato sviluppo nel

settore terziario legato alle agevolazioni fiscali (Bahamas, Bermuda, Isole Cayman, Antille

Olandesi), al turismo (Maurizio, Seicelle, Trinidad e Tobago) o ad altri settori (Macao, Swaziland).

Una delle relativamente recenti classificazioni per tipo di paesi è quella inerente i BRIC e cioè:

Brasile, Russia, India, Cina. Questi paesi condividono una grande popolazione (Russia e Brasile

oltre il centinaio di milioni di abitanti, Cina e India oltre il miliardo di abitanti), un immenso

territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e, cosa più importante, sono stati caratterizzati da

una forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale, soprattutto nella fase iniziale del

XXI secolo.

5. Gli indicatori quali-quantitativi dei divari territoriali

Un buon metodo per orientarsi nel continuo mutare delle situazioni geo-economiche di questʹinizio

secolo è quella di considerare i criteri analitici più elementari di classificazione proposti dalle

organizzazioni internazionali. Il dato di base più comunemente utilizzato dalle principali

organizzazioni internazionali è quello del reddito pro capite in termini di Prodotto nazionale lordo

(PNL) in dollari USA.

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La Banca Mondiale ha classificato i paesi del mondo in quattro classi di reddito secondo i seguenti

parametri: paesi a basso reddito; paesi a reddito medio basso; paesi a reddito medio alto; infine

paesi ad alto reddito. Sempre secondo la Banca Mondiale, le prime tre classi si ascriverebbero alla

categoria dei paesi in via di sviluppo (PVS), con l‟avvertenza però che “ciò non comporta

necessariamente che i paesi che fanno parte del gruppo non siano entrati in fase di sviluppo, né che i

paesi che ne sono esclusi siano pienamente sviluppati”.

Pur considerando questi limiti, la ripartizione per classi di reddito conferma sostanzialmente e in

qualche modo specifica maggiormente a trent‟anni di distanza i risultati del Rapporto Brandt. A

tutt‟oggi una cinquantina di paesi che potremmo definire “benestanti” (ad alto reddito), con solo il

15% della popolazione mondiale, posseggono il 78% delle risorse mondiali. Tra i restanti paesi,

metà della popolazione (vale a dire oltre il 40% sul totale) continua ad essere ai limiti della

sussistenza (cioè a basso reddito), un terzo (il 35% del totale) inizia a superare il livello dei consumi

primari (reddito medio basso), mentre il restante 10% della popolazione mondiale accede o sta

finalmente accedendo ai consumi di massa e ad una economia industriale (reddito medio alto).

Un indicatore di sviluppo macroeconomico molto usato e realizzato nel 1990 dalle Nazioni Unite, è

l‟Indice di Sviluppo Umano (HDI‐Human development index)4. È stato utilizzato dalle Nazioni

Unite a partire dal 1993, affiancandolo al PIL (Prodotto Interno Lordo), per valutare la qualità della

vita nei paesi membri. In precedenza, veniva utilizzato soltanto il PIL, indicatore di sviluppo

macroeconomico che rappresenta il valore monetario dei beni e dei servizi prodotti in un anno su un

determinato territorio nazionale, ma che si basa quindi esclusivamente sulla crescita, non tenendo

conto del capitale (soprattutto umano e naturale) che invece è rilevante nei processi di crescita.

Questi parametri macroeconomici stimano esclusivamente il valore economico totale o una

distribuzione media del reddito. In sostanza, un cittadino molto ricco fa ricadere, nel calcolo così

effettuato, la sua ricchezza su molti poveri falsando in tal modo il livello di vita di questi ultimi. Si è

cercato quindi, mediante l‟Indice di Sviluppo Umano, di tener conto di altri e differenti fattori, oltre

al PIL pro‐capite, che non potevano essere posseduti in modo rilevante da un singolo individuo,

come l‟alfabetizzazione e la speranza di vita. La scala dellʹindice è in millesimi decrescente da 1 a 0

e si suddivide in paesi ad alto sviluppo umano (indice compreso tra 1 e 0,800), paesi a medio

sviluppo (indice compreso tra 0,799 e 0,500), paesi a basso sviluppo (indice compreso tra 0,499 e

0).

4 http://hdr.undp.org/en/

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6. Attori globali e interdipendenze territoriali

L‟attuale scenario mondiale vede operare molteplici soggetti, tutti fortemente interdipendenti tra di

loro: nessuno degli attori, siano Stati, multinazionali o organizzazioni sovra‐statuali, può nei fatti

agire isolatamente. Ma questo sistema così integrato e interagente è al suo interno lacerato da

drammatici squilibri. Interdipendenza e squilibrio non sono però elemento distintivo esclusivo del

mondo contemporaneo: ciò che è nuovo è il fatto che non si riferiscono solo alle relazioni tra alcuni

elementi, ma investono il sistema mondo nel suo complesso. Si tratta allora di capire quali sono i

principali attori che operano nello scenario mondiale e come interagiscono e si influenzano

vicendevolmente.

§ 6.1. segue: Stati, gerarchie sistemiche e geopolitica economica

Il sistema politico ed economico mondiale si basa in primo luogo sulle relazioni internazionali tra

Stati, è quindi innanzitutto un sistema di Stati. Il termine “internazionale” fa però diretto riferimento

al rapporto tra nazioni. E‟ bene non confondere il significato diverso discendente dai termini

“Stato”, “Nazione” e “Stato nazionale”. Perché si possa parlare di Stato c‟è bisogno della presenza

di almeno tre elementi:

1) un territorio dai confini più o meno riconosciuti, nell‟ambito del quale si stanzia,

2) una popolazione residente in maniera permanente, e

3) una sovranità esercitata su entrambi, appunto dallo Stato. Lo Stato è quindi un concetto di natura

giuridico‐politico‐territoriale.

Diversamente dallo Stato, la nazione è un gruppo umano che però può anche non coincidere con la

popolazione che si colloca nel territorio controllato dallo Stato. Mentre “popolazione” esprime una

dimensione sostanzialmente quantitativa, la nazione ha una caratteristica principalmente qualitativa:

è cioè un insieme di persone che si riconosce in comuni valori quali cultura, religione, lingua,

tradizioni ecc. Se lo Stato è la modalità dominante dell‟organizzazione politica contemporanea, lo

Stato nazionale, è la forma ideale nella quale Stato e nazione tendono a coincidere; è cioè una

nazione che ha il proprio Stato e non vi sono al suo interno gruppi minoritari troppo numerosi che

ambiscono a forme di autonomia più o meno marcate5. Ciò fa pensare al fatto che possano esistano

nazioni senza Stato (come per esempio i Kurdi) e Stati multinazionali (la Svizzera, il Belgio).

Al fine di comprendere l‟interrelazione tra gli Stati è possibile confrontando i valori riguardanti i

primi dieci Stati in termini di superficie e popolazione con gli analoghi valori degli ultimi

5 DE BLIJ H.J., MURPHY A.B. (2002), Geografia umana, cultura, società, spazio, Zanichelli, Bologna

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microstati. Il divario è tanto più vistoso se si assume come parametro discriminate quello delle

dimensioni demografiche. Al riguardo possono bastare un paio di dati: il 60% della popolazione

planetaria si concentra in 10 Stati che contano oltre cento milioni di abitanti (Cina, India, USA,

Indonesia, Brasile, Pakistan, Russia, Bangladesh, Giappone e Nigeria), i quali occupano un

territorio pari al 40% della superficie abitata del globo. Ma ciò che realmente mette in evidenza la

forte gerarchizzazione del sistema di Stati odierno è dato dalle statistiche relative al Prodotto

Nazionale Lordo (PNL) delle dieci principali potenze economiche del mondo. Questi dieci Stati da

soli incidono per oltre il 70% sul prodotto lordo mondiale complessivo. Ci sono quindi tutti gli

elementi per identificare il gruppo di Stati dominante sul sistema mondo: le 8 maggiori potenze

industriali (USA, Giappone, Cina, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada), le cinque

potenze militari munite di armamento atomico, il cosiddetto “club nucleare” (USA, Russia, Francia,

Regno Unito e Cina), che sono in sostanza le stesse potenze vincitrici del secondo conflitto

mondiale e che, in quanto tali, sono anche i massimi decisori politici nell‟ambio delle relazioni

internazionali nella loro qualità di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell‟ONU dotati

di diritto di veto.

Oggi stiamo assistendo a una trasformazione politica che potrebbe essere tanto rilevante quando lo

fu la creazione degli Stati‐nazione: il legame esclusivo tra geografia e potere politico sta fortemente

mutando. La nostra nuova era è testimone della diffusione di strati di autorità entro e oltre le

frontiere politiche. Nuove istituzioni hanno collegato gli stati sovrani tra di loro trasferendo inoltre

la sovranità in luoghi situati al di là dello Stato‐Nazione. Sono sorte cosi Istituzioni di

regolamentazione sovranazionale e internazionale, così come Organizzazioni Regionali (dalle Aree

di Libero Scambio alle Unioni Economiche) che hanno influenza, spesso determinante, sulle

decisioni degli Stati e in alcuni casi incidono (come nel caso dell‟UE) direttamente sulla vita dei

loro cittadini all‟interno delle frontiere degli stessi Stati. Si è sviluppato un corpus di leggi regionali

e internazionali su cui si fonda un sistema nascente di governo globale, di natura sia formale che

informale, suddiviso in diversi strati. Il diritto internazionale ne è così uscito rafforzato e

maggiormente diffuso. Gli Stati, infatti, ne debbono sempre più tener conto su un crescente numero

di argomenti: i crimini contro l‟umanità, le questioni ambientali, i diritti umani. Tali leggi, inoltre,

sono sostenute non solo dalle Istituzioni internazionali preposte ma da un numero crescente di

Organizzazioni non Governative (ONG) transnazionali che fanno sentire la propria voce. Inoltre, le

multinazionali, principale vettore della globalizzazione economica, sono spesso indicate quali mezzi

di dominio degli Stati, ma anche come maggiori concorrenti degli Stati stessi arrivando ad avere

fatturati superiori ai bilanci statali.

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Per tutte queste ragioni, molti autori hanno parlato di “fine della storia”6, “fine dello

Stato‐nazione”7,“fine della geografia”

8. Questa trasformazione della politica internazionale non

implica la morte dello Stato‐nazione. Gli Stati ‐ soprattutto alcuni, come sopra individuato ‐ restano

comunque i principali attori dell‟arena internazionale sia in campo politico che in quello

economico9. Dopo una prima fase caratterizzata dalla cessione di parti di sovranità da parte di molti

Stati (comunque mai toccando la sfera militare e di politica estera) e di forte slancio alla

cooperazione multilaterale, gli Stati hanno riacquistato molte delle loro prerogative. Ciò è avvenuto

anche in conseguenza del mutato clima internazionale in termini di sicurezza (soprattutto per i tristi

eventi del settembre 2001).

Lo Stato, secondo l‟analisi economica oggi prevalente, riveste tre principali funzioni: allocare le

risorse (se il mercato è in difficoltà), ridistribuzione (politica fiscale e di trasferimento) e

stabilizzazione (provvedimenti congiunturali contro sottoccupazione o inflazione). Dal punto di

vista internazionale, la totale apertura delle frontiere alle merci estere può costituire un pericolo per

alcuni settori, incapaci di sostenere una concorrenza di tale portata. Una delle preoccupazioni dello

Stato è in effetti quella di tutelare i settori più deboli, e garantire l‟indipendenza nazionale nei

settori considerati strategici. In questo senso molto spesso lo Stato si trova ad ostacolare il processo

di globalizzazione. Alcuni studiosi privilegiano i comportamenti del libero mercato con questo

intendendo un ruolo minimo dello Stato, mentre altri sostengono che la figura centrale nelle

relazioni economiche internazionali non è il mercato bensì lo Stato. In ogni caso è ormai evidente

che lo Stato deve confrontarsi con nuovi attori e nuovi processi presenti sulla scena internazionale,

tanto che si parla di relazioni transnazionali, cioè al di là degli Stati. Questi nuovi attori e nuovi

processi invece di sostituire il mondo familiare degli Stati, lo avvolgono e lo complicano. C‟è

necessità quindi di analizzare i nuovi attori intervenuti, a cominciare da uno dei più potenti e

presenti: le multinazionali.

§ 6.2. segue: Imprese internazionali, multinazionali, transnazionali e globali

L‟altro grande attore della scena economica mondiale contemporanea è costituito dalle quelle

società che genericamente vengono chiamate “multinazionali”. Si tratta di imprese o gruppi di

imprese, di grandi dimensioni, che operano direttamente o attraverso consociate in più paesi, in

genere di diversi continenti, e che in virtù del loro peso economico - finanziario, sono in grado di

6 FUKUYAMA F. (1992), La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano.

7 OMHAE K. (1996), La fine dello Stato nazione e la crescita delle economie regionali, Baldini e Castoldi, Milano.

8 VIRILIO V. (1997), “Fin de l’histoire, ou Fin de la Géographie? Un monde surexposé”, Le Monde Diplomatique, Août.

9 Vedasi GILPIN R. (2009), Economia politica globale. Le relazioni economiche internazionali nel XXI Secolo, Egea-Bocconi

Editore, Milano.

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influenzare le scelte politico economiche di Stati e organizzazioni internazionali10

.

L‟organizzazione tipo più semplice di una multinazionale prevede un centro direttivo o una società

madre, solitamente localizzata in un paese industrializzato, ove si concentrano le risorse finanziarie,

le conoscenze tecniche, le decisioni strategiche, ma anche i profitti, e una concatenazione di filiali

estere e/o partecipazioni ad altre società. Mentre, l‟impresa internazionale è fondamentalmente di

carattere commerciale, non impianta (a differenza della multinazionale) stabilimenti produttivi

all‟estero, ma si limita all‟acquisto di materie prime e alla vendita dei beni ottenuti dalla loro

trasformazione dovunque ci sia richiesta.

Un‟altra denominazione che si suole dare ad imprese che operano avendo sedi all‟estero è quella di

“transnazionale”. Con questo termine si vuole indicare quel raggruppamento privato di interessi che

opera in diverse nazioni e continenti e che può anche avere una sede centrale in una sola nazione,

ma senza che per questo vi siano precise identità o vincoli nazionali. In altre parole, la differenza

risiederebbe nel legame più o meno marcato con la nazione di origine dell‟impresa: più forte nella

multinazionale, meno, fino all‟estinzione, in quella transnazionale. Un buon metodo per valutare

questo fenomeno di sradicamento nazionale è dato dal calcolo dell‟indice di transnazionalità,

costituito dalla media dei seguenti tre rapporti:

1) investimenti esteri su investimenti totali (nazionali e stranieri);

2) vendite estere su vendite totali;

3) occupati esteri su occupati totali.

Più il valore dell‟indice si avvicina a 100 più l‟impresa si può considerare transnazionale (e quindi

con meno vincoli nazionali). Quando l‟impresa perde totalmente il suo rapporto con il paese di

origine (cioè si verifica una transnazionalità molto spinta) si può invece parlare di impresa

“globale”. Una impresa globale è sempre più concentrata a cercare alleanze e a stipulare accordi di

cooperazione in molte parti del pianeta. Si riscontra una maggiore flessibilità che rimette in

discussione le gerarchie di verticali di comando e di organizzazione della produzione. Le affiliate

aumentano di numero, non rappresentano più unità di secondo livello e diventano sempre più

autonome formando un sistema a rete diffuso su tutti i continenti. La produzione può quindi

avvenire contemporaneamente in diversi paesi, mentre le fasi di fornitura possono essere affidate a

imprese indipendenti operanti a scale geografiche differenti. Altra caratteristica è data dalla

presenza congiunta di produzioni altamente specializzate (e destinate a servire determinati mercati)

e di altre molto standardizzate. Una impresa globale considera infatti il mercato mondiale come un

10 Per statistiche e dati su Multinazionali (TNCs - Transnational Corporations) e Insvestimenti diretti esteri (FDI – Foreign Direct

Investments) vedasi il sito dell‟UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development):

http://www.unctad.org/Templates/Page.asp?intItemID=4976&lang=1

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unico mercato, intende vendere a tutti lo stesso prodotto e può capitare che “sfidi” il potere degli

Stati così come la loro possibilità di intervento. Un elemento peculiare è dato dal fatto che l‟impresa

globale investe de‐localizzando la propria produzione dove i costi sono più bassi. Difatti, in un

mercato dominato dalla globalizzazione non è più il prodotto a fare la differenza, ma il fattore

lavoro che è difficile da spostare al contrario del capitale che è mobile. Il processo produttivo viene

frammentato così che ogni stadio venga localizzato nel paese che dà il maggiore vantaggio

comparato in termini di costo del lavoro più basso. Vi è comunque da notare che la localizzazione

geografica continua a rivestire un ruolo importante. Infatti, capacità e infrastrutture di uno specifico

contesto geografico continuano a limitare le possibilità delle imprese nel muoversi in totale libertà.

Nonostante il carattere sempre più “globale” di queste imprese, continuano a persistere differenze

nelle modalità operative, nello stile di management e in quello di impresa. Segno che non si tratta di

organizzazioni totalmente indipendenti dalla situazione socio‐economica (cioè dal contesto

territoriale) in cui operano e hanno sede: i caratteri culturali insomma continuano a contare.

Diversi fattori hanno contribuito all‟espansione delle multinazionali. Un primo necessario fattore è

stato dato dall‟apertura delle frontiere e dal nuovo clima politico che si è instaurato in ambito

mondiale: il ritorno al libero scambio istituzionalizzato dal GATT (General Agreement on Tariffs

and Trade) nel 1947, la creazione di zone di integrazione economica, la fine della divisione del

mondo tra capitalismo e socialismo che ha portato ad uno spazio economico mondiale

essenzialmente regolato dal mercato. Altro essenziale fattore è quello del raggiungimento di alcuni

progressi tecnici che ha permesso l‟abbattimento dei costi di trasporto e di comunicazione.

Determinante altresì è stato il controllo delle materie prime che ha portato le imprese multinazionali

a localizzarsi geograficamente in prossimità delle riserve. La localizzazione geografica entra in

ballo anche per quanto inerisce la prossimità ai grandi mercati di sbocco, inizialmente solvibili solo

nei paesi tradizionalmente sviluppati ma recentemente presenti anche all‟Asia e all‟America Latina.

La pura logica del maggior profitto ottenuto abbassando i costi salariali ha portato al fenomeno

della delocalizzazione, cioè dello spostamento di interi stabilimenti nei paesi emergenti dell‟Asia,

dell‟America Latina o dell‟Europa orientale, dove i salari per lavori non qualificati o semiqualificati

sono almeno 10 volte inferiori a quelli dei paesi sviluppati. Ciò se da un lato ha contribuito alla

diminuzione delle spese (e quindi ad un maggior profitto per l‟impresa) e al miglioramento della

competitività del prezzo dei prodotti, ha portato in evidenza il problema della perdita di milioni di

posti di lavoro nei paesi sviluppati in conseguenza della detta delocalizzazione. In un contesto

caratterizzato da una già elevata mobilità umana accentuatasi proprio grazie alla globalizzazione, la

delocalizzazione industriale provocherebbe nei paesi sviluppati (che subiscono lo smantellamento di

industrie con la conseguente perdita di posti lavoro) un ritorno alle migrazioni, almeno in certe

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classi sociali toccate da detta delocalizzazione. Nei paesi in via di sviluppo invece, la presenza delle

multinazionali, oltre alle già citate inique condizioni di lavoro, porterebbe a fenomeni di internal

displacement (migrazioni interne forzate) che investono popolazioni locali o indigene, successivi

all‟acquisto da parte delle multinazionali di territori (per presenza di risorse o anche per questioni

localizzative) ove queste popolazioni vivevano. Alle multinazionali sono addebitate, oltre che lo

sfruttamento della manodopera locale, il saccheggio delle ricchezze di questi paesi tramite un

mercato delle materie prime a costi bassissimi, l‟imposizione delle loro strategie ai paesi dove

vanno ad impiantarsi riducendone in questo modo la sovranità, l‟esportazione di un merchandising

culturale che distruggerebbe l‟individualità dei diversi paesi tramite dei “prodotti globali” imposti a

dei “consumatori globali”.

Coloro che invece sono favorevoli, al contrario, ritengono che le multinazionali siano fondamentali

al processo di crescita economica mondiale e che lo loro strategie possano accelerare lo sviluppo di

numerosi paesi sottosviluppati. Gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) delle multinazionali farebbero

pervenire nei paesi poveri reddito e quindi sufficiente risparmio, nonché conoscenze tecnologiche

adeguate, risorse finanziarie e capitali fissi, sotto forma di tecnologie e di conoscenze indispensabili

per lo sviluppo economico. Allo stesso modo le multinazionali eserciterebbero un ruolo positivo

sullo sviluppo del commercio di questi paesi con l‟estero, favorendo la crescita delle esportazioni, e

quindi la riduzione del deficit commerciale e di conseguenza l‟incremento delle importazioni.

L‟apertura al commercio internazionale, la comparsa di un sistema economico e sociale similare a

quello dei paesi occidentali svilupperebbero nella popolazione nuovi comportamenti sociali e

demografici, connessi all‟aspirazione a una maggiore libertà individuale e alla democrazia. Secondo

questa visione quindi le multinazionali parteciperebbero non solo allo sviluppo economico ma

anche a quello politico.

§ 6.3 segue: Istituzioni internazionali e regolamentazione multilaterale

Oltre agli Stati e alle multinazionali, altri attori con differenti pesi e ruoli occupano la scena politica

ed economica globale. Tra questi, vanno annoverate le Istituzioni e organizzazioni internazionali,

tanto quelle che operano su scala planetaria (come l‟ONU), che quelle a livello regionale (per es.

l‟UE), sia quelle che hanno obiettivi specifici (la CECA – Comunità Europea del Carbone e

dell‟Acciaio), che generali (l‟Unione Africana). Queste organizzazioni possono essere poi

classificate in:

a) intergovernative, quando gli accordi sono soprattutto il frutto di rapporti tra governi (è il caso

della maggior parte delle Organizzazioni Internazionali propriamente dette);

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b) sovranazionali, quando operano al di sopra dei governi e le cui decisioni incidono direttamente

sulla vita dei cittadini appartenenti agli Stati che aderiscono all‟organizzazione (applicabile per ora

alla sola Unione Europea);

c) transnazionali, quando ad agire sono organizzazioni al di là degli Stati, come è tipicamente il

caso delle ONG, Organizzazioni appunto non Governative (per es. Amnesty International).

Alle istituzioni internazionali spetta il compito di controllare il processo di globalizzazione e dare

supporto ai paesi il cui inserimento nell‟economia mondiale risulta problematico, non solo per i

paesi stessi ma anche per il sistema economico nel suo complesso. Per quello che qui interessa, le

istituzioni particolarmente rilevanti ai fini della comprensione dei sistemi economici internazionali

sono l‟Organizzazione Mondiale del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca

Mondiale. L‟Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), nata nel 1994 dagli accordi di

Marrakech, subentrando al GATT, ha l‟obiettivo di consentire lo sviluppo del commercio

internazionale di beni e servizi. I paesi membri hanno accettato di aprire le proprie frontiere ai

prodotti esteri e, in generale, di non sovvenzionare le proprie esportazioni.

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) è stato creato nel 1944, a seguito dellʹentrata in vigore

degli accordi della Conferenza di Bretton Woods, con il compito di evitare disordini monetari nel

periodo del primo dopoguerra. Successivamente, negli anni ‟80 il FMI ha assunto un mandato

differente. Da allora, infatti, la sua funzione è principalmente quella di gestire l‟indebitamento dei

paesi in via di sviluppo e di aiutare i paesi emergenti, nel caso di crisi finanziarie. Tali aiuti devono

tuttavia sottostare ad alcune condizioni: gli Stati devono accettare i provvedimenti che il FMI

impone loro. Massiccia riduzione della spesa pubblica, austerità monetaria, apertura a merci e

capitali esteri, chiusura delle imprese meno redditizie, privatizzazioni, sono tutte disposizioni che

contribuiscono ad indebolire ulteriormente economie già impoverite dal debito o dalla fuga di

capitali esteri. Per queste ragioni il FMI è spesso oggetto di numerose critiche.

La Banca Mondiale (più correttamente definita Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo

Sviluppo) è un organismo internazionale dell‟Organizzazione delle Nazioni Unite, istituito il 27

dicembre 1945, insieme con il Fondo Monetario Internazionale. Essa riunisce vari organismi che

accordano prestiti e aiuti ai paesi in via di sviluppo. Dalla fine degli anni ‟90 la Banca Mondiale ha

avviato alcuni progetti che non solo tenevano conto dei fattori sociali, ma facevano riferimento a

intermediari più vicini alle popolazioni di quanto non fossero i governi locali. La portata della

globalizzazione, quindi, sembra oggi essere il risultato di diversi fattori, non tutti favorevoli ad una

apertura incondizionata. Se, da un lato, i grossi produttori (come le multinazionali) mirano ad

organizzare processi produttivi su scala mondiale, sperando nel minor numero di restrizioni

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Lezione 15-16 novembre 2010

possibile, gli Stati, ed in una certa misura gli organismi internazionali, operano in modo da porre dei

limiti alle leggi di mercato. I paesi in via di sviluppo, tuttavia, non possono considerarsi al riparo

dalle conseguenze talvolta implicate dagli spostamenti di capitale e di persone e le regioni più

svantaggiate rimangono sostanzialmente estranee ai guadagni generati dalla liberalizzazione degli

scambi commerciali.

§ 6.4. segue: Forum internazionali e global governance

Accanto alle Istituzioni/Organizzazioni internazionali, gli Stati intrattengono relazioni, oltre che a

livello bilaterale, anche attraverso dei Forum di cooperazione più o meno formalizzati. Spesso

queste forme di cooperazione nascono anche in conseguenza della incapacità delle Istituzioni

internazionali ad operare concretamente ed incisivamente. Normalmente la cooperazione è allargata

solo ad alcuni Stati: quelli più ricchi e influenti e altri rilevanti in alcuni settori o momenti storici.

Una delle formule più conosciute è quella del cosiddetto G8, una sigla che sta ad indicare le riunioni

dei capi di governo dei paesi più industrializzati. In questi incontri vengono decise le linee di

condotta generali da tenere nell‟ambito delle principali questioni internazionali. Il G8 è nato nel

1973, anno della prima crisi petrolifera, inizialmente tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e

l‟allora Germania Occidentale, per poi diventare nello stesso anno G5 con l‟aggiunta del Giappone,

e allargarsi nel 1976 divenendo G7 a Italia e Canada. Dal 1997 ha partecipato anche la Russia,

facendo così riscontrare la usuale denominazione di G8. I temi trattati hanno riguardato

naturalmente l‟economia, ma anche ambiente, terrorismo, droga, conflitti regionali.

Da alcuni anni si assiste al prodursi di geometrie variabili nella partecipazione del numero degli

Stati ai Forum: dal G20 al G2. Il G20 è stato creato nel 1999, dopo una successione di crisi

finanziarie per favorire l‟internazionalizzazione economica e la concertazione tenendo conto delle

nuove economie in sviluppo. Esso riunisce perciò i 19 paesi più industrializzati (quelli dell‟ex‐G8 in

primis) con l‟Unione Europea. Il G20 rappresenta i due terzi del commercio e della popolazione

mondiale, oltre al 90% del PIL mondiale. Del G20 fanno parte, oltre i G8, Australia, Arabia

Saudita, Argentina, Brasile, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Sudafrica, Turchia. Il

G2 si svolge invece tra Stati Uniti e Cina e rappresenta il rapporto privilegiato tra i 2 grandi Stati. Il

rapporto si è affermato nel corso del 2009 con la contemporanea sostituzione del G20 al G8. Il

rapporto è indotto ‐ anche ‐ dalla situazione economica mondiale e da quella reciproca dei 2 Stati:

infatti la Cina è il principale creditore degli Stati Uniti. Inoltre, i numeri parlano chiaro: gli Stati

Uniti sono il 4° Stato del mondo per superficie e il 3° per numero di abitanti; la Cina è il 3° Stato

del mondo per superficie e il 1° per numero di abitanti.

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Va detto anche che la messa in pratica delle decisioni concordate rimane però minima e si limita a

definire una linea di orientamento per i governi nazionali, le imprese multinazionali e le

organizzazioni internazionali.

§ 6.5 segue: Zone di integrazione economica e logiche di prossimità geografica

Tra le economie nazionali e l‟economia mondiale si pongono dei blocchi regionali che sono ormai

divenuti attori a pieno titolo dell‟interscambio globale. I blocchi regionali, detti anche zone di

integrazione economica, riguardano aree geografiche nelle quali gli Stati decidono, attraverso un

processo fatto di accordi successivi, la creazione di zone di libero scambio, più o meno vaste e

caratterizzate dalla soppressione delle tariffe doganali tra i paesi membri. Non si tratta comunque di

un fenomeno recente. Già nel 1834, infatti, per iniziativa della Prussia, venne creato lo Zollverein,

che riuniva diversi Stati tedeschi sotto forma di unione doganale. Nel 1944, Belgio, Lussemburgo e

Paesi Bassi posero, a loro volta, le basi per un‟unione doganale: il Benelux. Nel marzo 1957 venne

siglato il Trattato di Roma, che portò alla creazione della Comunità Economica Europea (CEE). I

paesi europei non sono i soli però a cercare la costituzione di sinergie tra i sistemi economici

nazionali, come testimonia la nascita del NAFTA‐North American Free Trade Association, appunto

nel Nord America. Anche i paesi del Sud del mondo cercano di adottare strategie di accordi

doganali ed economici. Tra queste si può citare il MERCOSUR (Mercato Comune Sudamericano) o

l‟ASEAN (Association of Southeast Asian Nations).

.Attualmente l‟economia maggiormente integrata è l‟Unione Europea e la sua zona Euro. Il grado di

integrazione economica può essere categorizzato in sei stadi:

Area di commercio preferenziale;

Area di libero scambio;

Unione doganale;

Mercato comune;

Unione economica e monetaria;

Integrazione economica completa.

Il primo passo verso l‟integrazione economica è quindi costituito dalla costituzione di una area di

commercio preferenziale, che è un blocco commerciale che dà accesso preferenziale ad alcuni

prodotti provenienti da determinati paesi. Ciò si ottiene riducendo i dazi, ma non abolendoli

completamente. Un altro metodo per dare accesso preferenziale è tramite la fissazione di quote

riservate ad alcune tipologie di merci di certi paesi. Un esempio di area di commercio preferenziale

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è quella formata dall‟Unione Europea e i paesi ACP (Africa‐Caraibi‐Pacifico). Le aree di

commercio preferenziale sono stabilite tramite accordi commerciali. Può essere definita come la

forma più debole di integrazione economica.

Il secondo stadio dellʹintegrazione economica è dato dall‟area di libero scambio che riguarda un ben

definito gruppo di paesi che hanno concordato di eliminare dazi, quote e preferenze tariffali su molti

(o addirittura su tutti) i beni tra di loro scambiati, i membri di una area di libero scambio non hanno

la stessa politica doganale verso i paesi non membri.

L‟unione doganale, terzo livello di integrazione economica, rappresenta un tipico esempio di

accordo di commercio preferenziale (su base regionale) tra paesi. Vengono abbattute le barriere

commerciali che impediscono la libera circolazione delle merci e viene istituita una tariffa doganale

esterna comune.

Il mercato unico è un‟unione doganale con politiche comuni sulla regolamentazione dei prodotti,

dei tre fattori di produzione (terra, capitale e lavoro) e di impresa. L‟obiettivo è quello di favorire la

semplificazione dei movimenti di capitale, lavoro (e quindi persone), beni e servizi tra i paesi

membri. A volte si distingue il mercato unico come la forma più integrata del mercato comune. In

modo comparativo il mercato unico è più incentrato nel rimuovere le barriere fisiche (confini),

tecniche (standard) e fiscali tra gli stati membri. Tali barriere impediscono la libertà di movimento

dei quattro fattori di produzione.

Una unione economia e monetaria è un mercato unico con una moneta comune. Si stabilisce tramite

un accordo commerciale ed è il quinto stadio dellʹintegrazione economica. L‟integrazione

economica completa costituisce lo stadio finale dell‟integrazione economica. A seguito di una

integrazione economica completa, le unità economiche integrate hanno poco o trascurabile controllo

sulla politica economica, posseggono una unione monetaria totale e una armonizzazione fiscale

completa o quasi completa. L‟integrazione economica completa è più comune all‟interno di un

paese che non tra istituzioni sovranazionali. Inoltre, l‟integrazione economica generalmente tende a

precedere l‟integrazione politica. E‟ evidente che questi processi si attivano soprattutto tra paesi che

hanno convenienza ad integrarsi sia vista la complementarietà delle loro economie, sia sulla base

della prossimità geografica. Paesi cioè che sono vicini non solo territorialmente (non c‟è comunque

bisogno che ci sia sempre una stretta continuità territoriale) ma anche dal punto di vista

socio‐politico. Si tratta cioè di aree culturali con caratteristiche assimilabili e potenzialmente

integrabili. L‟integrazione economica permette di passare dal fenomeno della “regionalizzazione” al

processo del “regionalismo”.

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La regionalizzazione riguarda un fenomeno spontaneo che crea spazi economici transnazionali tra

regioni e paesi senza che ci sia una formale organizzazione. La regionalizzazione è cioè basata su

forti relazioni commerciali tra due o più paesi che aumentano le loro transazioni di beni e servizi

per ragioni di prossimità geografica. Il regionalismo invece, è un progetto governativo di tipo

top‐down che necessita di una base di consenso delle popolazioni coinvolte, e procede attraverso

negoziazione e dialogo intergovernativo, nel tentativo da parte degli Stati di creare meccanismi

formali per affrontare argomenti di interesse transnazionale. La creazione di questi accordi formali

tende a costituire spazi economici (e come abbiamo visto, successivamente anche politici) integrati

di cooperazione. Si tratta, in sostanza, di una delle risposte degli Stati all‟incedere della

globalizzazione.

I blocchi regionali sono ormai presenti, a diverso livello di integrazione, in tutto il pianeta. Alcuni

sono fortemente operativi e protesi verso gradi di integrazione sempre più intensa, altri restano

accordi solo sulla carta. In ogni caso, si configurano come attori importanti dei sistemi economici

mondiali riguardando diversi settori commerciali, liberalizzando gli scambi e permettendo la libera

circolazione di merci, capitali e persone.

§ 6.6 segue: Città globali e territori locali

In tempi di sempre maggiore interconnessione planetaria, le città, alcune città, stanno assumendo

sempre più nuove funzioni in qualità di nodi della rete di collegamenti mondiali. Con la

globalizzazione, la città, espressione di un luogo fisico posizionato in una parte della Terra e nel

quale si localizzano le attività umane, diventa un attore globale. La città globale è quindi un

concetto teorico per studiare le città come luoghi di intersezione tra globale e locale. In via generale,

una città globale o città mondiale corrisponde ad un concetto di città con una serie di caratteristiche

nate grazie all‟effetto della globalizzazione e alla costante crescita dell‟urbanizzazione.

Sommariamente, alcuni criteri per definire una città globale sono:

fama a livello internazionale della città. Un esempio è il riconoscimento del nome;

influenza e partecipazione ad eventi internazionali e aspetti di importanza mondiale come,

per esempio, la realizzazione di grandi eventi sportivi, politici o sociali ed essere sede di

organismi internazionali;

essere centro di una grande conurbazione e possedere una popolazione abbastanza grande

nell‟area metropolitana;

essere dotata di un aeroporto che funzioni da ʺhubʺ internazionale, e avere un gran numero

di connessioni aeree con le grandi città del mondo;

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possedere un avanzato sistema di trasporti dentro la città ed essere ben collegati con altre

città;

avere un‟infrastruttura avanzata nel settore delle telecomunicazioni;

denotare caratteri cosmopolitici;

avere un ambiente culturale proprio, grazie allʹesistenza di festival cinematografici, eventi

musicali, gallerie dʹarte ecc.;

essere sede di diverse imprese multinazionali e importanti per il commercio mondiale.

Durante il XX Secolo, Londra Parigi e New York sono state considerate le tre principali città del

mondo, città che esercitavano nel resto del globo una grande influenza. Secondo Saskia Sassen11

,

una delle principali studiose del fenomeno, oggi vi sono tre città globali: New York, Tokyo e

Londra (con l‟esclusione di Parigi, quindi). Le tre città globali sarebbero città connesse globalmente

ma disconnesse localmente, fisicamente e socialmente, al punto che non avrebbe più senso parlare

per loro di città. Nel sistema economico mondiale, le città globali sono quindi il centro di snodo per

commerci, finanza, attività bancarie, innovazioni e sbocchi di mercato. Le città globali quindi

rappresentano una componente strategica dell‟economia mondiale e servono ad identificare

territorialmente i processi di potere scaturiti dalla ristrutturazione economica

§ 6.7 segue: Attori informali: ONG, lobby economiche e reti globali

Gli attori informali si possono distinguere in tre categorie:

1) associazioni o gruppi di associazioni, genericamente chiamate ONG (Organizzazioni Non

Governative) che si fanno portavoce delle istanze della società civile nelle diverse sedi

internazionali (Amnesty International, Federazione della Croce Rossa, Médecins sans Frontières,

Greenpeace International, WWF);

2) lobby (gruppi di pressione) economiche che rappresentano gli interessi del mondo degli affari

presso Stati e organizzazioni governative internazionali (associazioni imprenditoriali di settore, la

rete internazionale delle Camere di Commercio il Trans Atlantic Business Dialogue, ma anche le

varie mafie e le associazioni criminali internazionali a scopo di lucro);

3) reti globali che si riferiscono a relazioni fatte di contatti più o meno istituzionalizzati tra categorie

di persone che hanno comuni interessi professionali o esigenze sociali.

11 SASSEN S. (2003), Le città nell‟economia globale, Il Mulino, Bologna.

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Gli ambiti di attività delle associazioni internazionali espressione della società civile sono di varia

natura: sociale, religiosa, umanitaria, professionale, tecnica ecc., e coprono tra i più disparati campi,

dalla tutela dell‟ambiente, a quella della pace, dalla protezione dellʹinfanzia e della terza età, alla

difesa della donna, della persona, e così via.

Nelle reti globali, che hanno avuto un grosso sviluppo grazie alle tecnologie dell‟informazione e

della comunicazione, si possono includere quelle che hanno in comune interessi professionali come

per esempio: esperti in varie materie fondamentali per l´economia globale delle multinazionali;

giudici che hanno a che fare con un numero crescente di regole e di divieti internazionali che

richiedono un certo grado di standardizzazione transfrontaliera; ricercatori universitari e dei centri

di ricerca su temi specifici; funzionari di polizia incaricati di scoprire i flussi finanziari che

foraggiano il terrorismo. Un alto tipo di rete globale riguarda invece quella dei lavoratori e degli

attivisti politici con scarse risorse, che comprende settori importanti della società civile globale, reti

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