4
Chimica 20/10/2011 Andrea Turano prof. Ruggeri Pressione osmotica L’unica proprietà delle soluzioni, come tali, è la pressione osmotica. La pressione osmotica si riferisce alle particelle di soluto, quindi il solvente non c’entra. Il soluto, nella soluzione, occupa tutto lo spazio che ha a disposizione nel recipiente, quindi si comporta come un gas. Allora per quanto riguarda la pressione osmotica, essendo una pressione, noi possiamo utilizzare la legge dei gas ideali (dato che parliamo di soluzione ideale). L’equazione dei gas di stato mi dice che pV = nRT; allora al posto di p, dato che con p abbiamo indicato la pressione dello stato gassoso, con molta fantasia utilizziamo la pi greca, quindi π V = nRT. Da qui ci estrapoliamo la pressione, quindi π =nRT/V (o ancora meglio π = n/V RT). Parlando dello stato delle soluzioni sappiamo che n/V ci indica la concentrazione di soluto, cioè il numero di moli fratto il volume, quindi la molarità (M). Allora l’equazione della pressione osmotica diventa π = MRT. Come sappiamo, le proprietà colligative dipendono dal numero di particelle; per la pressione osmotica dobbiamo quindi passare dalle moli alle molecole, e per fare questo occorre vedere che tipo di soluto abbiamo. Se abbiamo un soluto ideale (es. glucosio) non c’è alcuna differenza fra moli e particelle, perché il soluto ideale è tale in quanto conserva il suo stato molecolare, cioè non si dissocia. La maggior parte delle molecole reali in soluzione possono invece dissociarsi; tutte le molecole che in acqua si dissociano si chiamano elettroliti, perché si dissociano in ioni di carica opposta. Gli elettroliti che noi conosciamo sono i sali, gli acidi e le basi. Dal momento che si dissociano, queste molecole in soluzione raddoppiano la concentrazione molare. Se io metto una mole di NaCl, avrò il doppio di grammi atomi in soluzione, e cioè un grammo atomo di Na + e un grammo atomo di Cl - ; ne deriva che la pressione osmotica e le altre proprietà colligative saranno diverse. Voi sapete che gli acidi e le basi si dividono in forti e deboli. Forti,se si dissociano totalmente (es. NaCl), deboli se dissociano in parte (es. acido acetico). Dobbiamo perciò inserire un nuovo parametro, che ci permetta di stabilire quante sono le molecole che si dissociano. Questo parametro è chiamato grado di dissociazione, e si indica con α (alpha). Il grado di dissociazione α corrisponde al numero di molecole dissociate fratto il numero di molecole totali (sembra grosso modo una frazione molare), e si usa per gli elettroliti deboli, dove sostituirà, nell’equazione della pressione osmotica, la concentrazione molare. Ammettiamo di avere un acido debole qualunque, HA; questo si dissocia parzialmente, quindi si mette la doppia freccia, ad indicarmi che non è del tutto dissociato in H + e A - . All’inizio avrò solo la concentrazione dell’acido, e di ioni nessuno. In seguito avrò un certo numero di ioni che mi sarà dato dal grado di dissociazione dell’acido. Se io ho un acido forte, che si dissocia totalmente in soluzione, (es. HCl) avrò la presenza di ioni H + e ioni Cl - . Van ‘t Hoff ci dice che la correzione che bisogna fare per poter utilizzare sempre la relazione per una soluzione ideale, quando noi abbiamo un elettrolita forte, è data dalla moltiplicazione della molarità per il numero di ioni che mi derivano dalla dissociazione di una sola molecola. Una molecola di HCl si dissocia in 2 ioni, quindi devo moltiplicare la M per 2. Questo numero di ioni, in cui si dissocia la molecola, viene chiamato ν (ni). Allora, utilizzando sempre la stessa formula per un acido forte, devo scrivere π = νMRT. Van ‘t Hoff ha pensato di fare un unico fattore correttivo che vale per i non elettroliti, per gli elettroliti forti e gli elettroliti deboli. Questo fattore correttivo si chiama indice di van ‘t Hoff (i), col quale noi dobbiamo moltiplicare la concentrazione del soluto. L’equazione dell’indice è i = [(1 – α) + αν] dove se α mi indica il numero di molecole dissociate, (1 – α) mi indica il numero di molecole indissociate; ν sappiamo indicarci il numero di ioni in cui si dissocia un elettrolita. Questo indice vale dunque per tutti gli elettroliti . I valori limiti di α sono 0 e 1; se io ho un non elettrolita, α = 0; se ho un elettrolita forte α = 1; tutti i valori che stanno fra 0 ed 1 sono per gli elettroliti deboli. Normalmente questo

prof. Ruggeri - lezione 20/10/2011

Embed Size (px)

Citation preview

Page 1: prof. Ruggeri - lezione 20/10/2011

Chimica 20/10/2011 Andrea Turano prof. Ruggeri

Pressione osmotica

L’unica proprietà delle soluzioni, come tali, è la pressione osmotica. La pressione osmotica si riferisce alle

particelle di soluto, quindi il solvente non c’entra. Il soluto, nella soluzione, occupa tutto lo spazio che ha a

disposizione nel recipiente, quindi si comporta come un gas. Allora per quanto riguarda la pressione

osmotica, essendo una pressione, noi possiamo utilizzare la legge dei gas ideali (dato che parliamo di

soluzione ideale). L’equazione dei gas di stato mi dice che pV = nRT; allora al posto di p, dato che con p

abbiamo indicato la pressione dello stato gassoso, con molta fantasia utilizziamo la pi greca, quindi

π V = nRT. Da qui ci estrapoliamo la pressione, quindi π =nRT/V (o ancora meglio π = n/V ∙ RT). Parlando

dello stato delle soluzioni sappiamo che n/V ci indica la concentrazione di soluto, cioè il numero di moli

fratto il volume, quindi la molarità (M). Allora l’equazione della pressione osmotica diventa π = MRT.

Come sappiamo, le proprietà colligative dipendono dal numero di particelle; per la pressione osmotica

dobbiamo quindi passare dalle moli alle molecole, e per fare questo occorre vedere che tipo di soluto

abbiamo. Se abbiamo un soluto ideale (es. glucosio) non c’è alcuna differenza fra moli e particelle, perché il

soluto ideale è tale in quanto conserva il suo stato molecolare, cioè non si dissocia. La maggior parte delle

molecole reali in soluzione possono invece dissociarsi; tutte le molecole che in acqua si dissociano si

chiamano elettroliti, perché si dissociano in ioni di carica opposta. Gli elettroliti che noi conosciamo sono i

sali, gli acidi e le basi. Dal momento che si dissociano, queste molecole in soluzione raddoppiano la

concentrazione molare. Se io metto una mole di NaCl, avrò il doppio di grammi atomi in soluzione, e cioè

un grammo atomo di Na+ e un grammo atomo di Cl- ; ne deriva che la pressione osmotica e le altre

proprietà colligative saranno diverse.

Voi sapete che gli acidi e le basi si dividono in forti e deboli. Forti,se si dissociano totalmente (es. NaCl),

deboli se dissociano in parte (es. acido acetico). Dobbiamo perciò inserire un nuovo parametro, che ci

permetta di stabilire quante sono le molecole che si dissociano. Questo parametro è chiamato grado di

dissociazione, e si indica con α (alpha). Il grado di dissociazione α corrisponde al numero di molecole

dissociate fratto il numero di molecole totali (sembra grosso modo una frazione molare), e si usa per gli

elettroliti deboli, dove sostituirà, nell’equazione della pressione osmotica, la concentrazione molare.

Ammettiamo di avere un acido debole qualunque, HA; questo si dissocia parzialmente, quindi si mette la

doppia freccia, ad indicarmi che non è del tutto dissociato in H+ e A- . All’inizio avrò solo la concentrazione

dell’acido, e di ioni nessuno. In seguito avrò un certo numero di ioni che mi sarà dato dal grado di

dissociazione dell’acido. Se io ho un acido forte, che si dissocia totalmente in soluzione, (es. HCl) avrò la

presenza di ioni H+ e ioni Cl- . Van ‘t Hoff ci dice che la correzione che bisogna fare per poter utilizzare

sempre la relazione per una soluzione ideale, quando noi abbiamo un elettrolita forte, è data dalla

moltiplicazione della molarità per il numero di ioni che mi derivano dalla dissociazione di una sola molecola.

Una molecola di HCl si dissocia in 2 ioni, quindi devo moltiplicare la M per 2. Questo numero di ioni, in cui si

dissocia la molecola, viene chiamato ν (ni). Allora, utilizzando sempre la stessa formula per un acido forte,

devo scrivere π = νMRT. Van ‘t Hoff ha pensato di fare un unico fattore correttivo che vale per i non

elettroliti, per gli elettroliti forti e gli elettroliti deboli. Questo fattore correttivo si chiama indice di van ‘t

Hoff (i), col quale noi dobbiamo moltiplicare la concentrazione del soluto. L’equazione dell’indice è

i = [(1 – α) + αν] dove se α mi indica il numero di molecole dissociate, (1 – α) mi indica il numero di molecole

indissociate; ν sappiamo indicarci il numero di ioni in cui si dissocia un elettrolita. Questo indice vale

dunque per tutti gli elettroliti. I valori limiti di α sono 0 e 1; se io ho un non elettrolita, α = 0; se ho un

elettrolita forte α = 1; tutti i valori che stanno fra 0 ed 1 sono per gli elettroliti deboli. Normalmente questo

Page 2: prof. Ruggeri - lezione 20/10/2011

grado di dissociazione si esprime in percentuale; l’acido acetico ha, ad esempio, un grado di dissociazione α

del 5%, cioè 5 molecole si dissociano su 100; il grado di dissociazione corrisponde dunque ad α = 0,05.

(perché 5 : 100 = 0,05 : 1). Se noi la vogliamo applicare alla pressione osmotica, i = [(1 – 0,05) + 0,05 ∙ 2].

Noi abbiamo visto come la Molarità si riferisca al numero di moli, e come applicando il fattore correttivo si

passi a sapere il numero di particelle; e allora ci sarà una concentrazione che mi indicherà il numero di

particelle osmoticamente attive, cioè responsabili della pressione osmotica; questo numero di particelle si

chiama osmolarità. Gli ioni, derivati dagli elettroliti, sono le particelle che modificano la pressione

osmotica. La concentrazione di particelle attive è il doppio della concentrazione di partenza. L’osmolarità si

può facilmente calcolare moltiplicando la molarità per il fattore correttivo di van ‘t Hoff.

Il fattore correttivo di van ‘t Hoff è valido solo le la soluzione è diluita, ed arriva massimo a 10-3 M. Per

concentrazioni superiori non possiamo utilizzare il coefficiente di van ‘t Hoff, poiché le particelle di soluto

hanno delle interazioni fra di loro; questo non avveniva in soluzioni diluite perché si creava un alone di

solvatazione attorno agli ioni che impediva qualsiasi interazione. In soluzioni concentrate una parte degli

ioni si riunisce, formando il sale (quindi anche se l’elettrolita è forte, non si dissocerà completamente); per

sapere quante sono le particelle di soluto in soluzione si usa un altro parametro, l’attività.

L’attività ha formula a = yc, dove y è il coefficiente di attività specifico, e c è la concentrazione di ioni.

Il coefficiente di attività specifico dipende dalla carica dello ione, positivo o negativo che sia, per un fattore

di attività dell’elettrolita; questo fattore di attività si chiama µ (mi) ed è uguale alla semisomma degli ioni

positivi e negativi per la carica al quadrato dello ione di cui mi interessa conoscere l’attività.

µ = 1/2∑a+b x Z2

es. NaCl � µ = ½ x 2 x 1 = 1 es. CaCl2 � µ(Ca) = ½ x 3 x 4 = 6 / µ(Cl) = ½ x 3 x 2 = 3/2

Acidi e basi

La definizione più vecchia di acido, formulata da Arrhenius, è: l’acido è quel composto che in soluzione

acquosa libera ioni H+ . Mentre la base in soluzione acquosa libera ioni OH- . Il sale ci deriva dalla reazione di

un acido con una base, che non è una reazione di salificazione, ma di neutralizzazione, perché l’H+ dell’acido

viene neutralizzato dall’ OH- della base, formando una molecola di acqua. Mi restano così i due ioni,

positivo della base e negativo dell’acido, che non ho in soluzione, ma che avrò solo dopo aver allontanato il

solvente, perché quando metto il sale nell’acqua, si scioglie nei due ioni, (es. Na+ e Cl-); se io togliessi

l’acqua avrei allora il sale. La reazione è di neutralizzazione perché tutti i sali sono elettroliti forti, quindi in

soluzione saranno sempre dissociati totalmente.

Cinetica chimica

La reazione di un elettrolita con l’acqua viene indicata con una freccia, alla cui sinistra avremo i reagenti, e

alla destra i prodotti. (L’acqua può funzionare come trasportatore di ioni). Tuttavia in questo modo io non

so com’è avvenuta la reazione, ho solo reagenti e prodotti. Per sapere come avviene la reazione devo fare

appello ad un capitolo che si chiama “Cinetica Chimica”. La cinetica chimica mi indica tutto il percorso che

fanno i reagenti per dare i prodotti. Se HCl prima di dissociarsi desse origine ad altri componenti, io avrei

questi componenti e alla fine HCl. Prendiamo in esame una reazione generica: A + B � P. Quando io faccio

reagire A e B, è possibile che prima A si trasformi in A0, poi in B0, e poi, reagendo con B, mi dia P. Questi due

prodotti intermedi non ce li ho fra i prodotti; come posso misurare la velocità di queste reazioni? Io so

quanto reagente ho messo in partenza, e allora dopo un intervallo di tempo vado a vedere quanto reagente

mi rimane; quindi la velocità della reazione la possono misurare dalla variazione della concentrazione di

Page 3: prof. Ruggeri - lezione 20/10/2011

reagenti nell’unità di tempo, oppure dalla variazione della concentrazione dei prodotti nell’unità di tempo.

Quando la misuro in base alla variazione della concentrazione dei reagenti, io ho una diminuzione, perché

la concentrazione diminuisce man mano che si formano i prodotti. Mentre quando la misuro con la

concentrazione dei prodotti nell’unità di tempo ho un aumento. E… i passaggi intermedi..? I passaggi

intermedi sono chiamati “tappe limitanti”, perché mi limitano la velocità della reazione. Se quei due

passaggi intermedi sono molto veloci, allora non influiscono sulla velocità della reazione totale. Se invece

sono lenti, allora influiscono su di essa (e vengono chiamati quindi tappe limitanti). Avendo due reagenti, la

velocità della reazione mi dipenderà dalla concentrazione di questi reagenti. Se il solo reagente è A, la

velocità è V = K[A] (dove [A] è la concentrazione di A); la K, riferendosi al reagente A, è chiamata costante

specifica di velocità. Noi sappiamo che per reagire, due atomi si dovevano scontrare; allora questa reazione

cinetica può essere spiegata in base alla teoria delle collisioni: maggiore è il numero di molecole di A in

soluzione o nell’ambiente, maggiore è la possibilità che queste si scontrino e reagiscano. In questo caso la

velocità della reazione dipenderà esclusivamente dal numero degli urti che hanno le molecole del reagente.

Tuttavia, malgrado le molecole si urtino spesso, non tutte reagiscono tra di loro; per potere reagire, le

molecole devono urtarsi, e gli urti devono essere “efficaci”, e affinché gli urti siano efficaci è necessaria una

certa quantità di energia; secondo Arrhenius, questa energia prende il nome di energia di attivazione.

L’energia di attivazione è l’energia minima che devono avere i reagenti per poter dare i prodotti (per poter

reagire). Arrhenius ha voluto anche quantificare questa energia; l’energia di attivazione è data da A ∙ e-EA/RT

Dove A è la costante di Arrhenius, EA è l’energia di attivazione, R è la costante universale dei gas, e T è la

temperatura.

L’unico termine che può variare nella costante cinetica è quello che fa variare la temperatura: la velocità

della reazione dipende sì dalla concentrazione di A, ma anche dalla costante K, che varia al variare della

temperatura (una costante incoerente!); questo K, secondo Arrhenius, è uguale all’energia che le molecole

devono avere per reagire, dipende quindi dall’energia di attivazione di esse. In definitiva, fra le tante

particelle del reagente, reagiranno solo quelle cha avranno un energia di attivazione sufficiente perché

questo avvenga, e l’energia di attivazione dipende dalla natura chimica dei reagenti.

La teoria del complesso attivato. In una reazione chimica abbiamo una certa quantità di energia posseduta

dai reagenti, una quantità posseduta dai prodotti e naturalmente, per passare da una all’altra, ci deve

essere una differenza di energia che viene ceduta/assorbita. Prendiamo per esempio due reagenti,

A2 + B2, entrambi biatomici, ed essendo atomi diversi è chiaro che avranno una lunghezza di legame diversa.

Poniamo 1,1 Å per A2 e 1,2 Å per B2. Man mano che queste due molecole si avvicinano, risentono della

forza di attrazione dei nuclei di A con gli elettroni di B e viceversa, oltre che alla forza di repulsione. Essendo

la forza di attrazione maggiore, il legame A-A ed il legame B-B vengono allentati, quindi se A e B si

attraggano fra loro, la forza di attrazione allenta, senza rompere, il legame fra gli atomi uguali; la distanza

del legame è maggiore, poniamo 1,3 Å per A-A e 1,4 Å per B-B. Si viene così a creare un complesso di

forma quadrangolare, con 4 legami uguali che hanno tuttavia una lunghezza diversa fra di loro e da quelli

del prodotto, che sarà 2A-B. Avvicinandosi ancora formeranno un complesso attivato in cui tutti i legami

sono allentati e gli elettroni distribuiti sui 4 atomi legati. La lunghezza del legame è per esempio di 2 Å , ed è

uguale per tutti e quattro i legami. Continuando ad avvicinarsi, gli elettroni di legame che prima erano tra le

due molecole sono distribuiti su tutti e quattro gli atomi, in modo che si sono già formati parzialmente i

legami che daranno origine ai prodotti, e si sono allentati ancora di più i legami della stessa molecola; però

la lunghezza del legame è superiore a quella che devono avere nei prodotti finiti, perché questo composto

ha una notevole quantità di energia, quindi se il salto di energia è tale da poter dare i prodotti, allora si

formeranno i prodotti, altrimenti si tornerà indietro. Dal complesso di attivato passiamo a due molecole

Page 4: prof. Ruggeri - lezione 20/10/2011

A-B con una lunghezza di legame pari a 1,36 Å (è un esempio), con conseguente liberazione di energia.

Per passare dai reagenti (ER) al complesso attivato (EA), devo fare un salto di energia; questo salto di energia

è l’energia di attivazione. La differenza fra l’energia dei prodotti (EP) e l’energia dei reagenti è l’energia della

reazione. Quindi A2 + B2 � 2AB + Energia.

Il complesso intermedio, dove ancora non si sono rotti i legami A-A e B-B e non si sono formati

definitivamente i legami A-B, si chiama complesso attivato. Se non si forma il complesso attivato, che ha

una grandissima quantità di energia, la reazione non avviene. La differenza fra l’energia del complesso

attivato e l’energia dei reagenti è l’energia di attivazione.

Come l’energia cinetica di un gas varia da particella a particella, lo stesso possiamo dire per i reagenti: se

hanno un’energia insufficiente non si avvicinano l’un l’altro, se hanno un’energia eccessiva si scontrano e si

respingono; maggiore è la quantità di energia di cui c’è bisogno per passare dai reagenti al complesso

attivato, minore sarà il numero di molecole che possono avere quella quantità di energia; maggiore è

l’energia di attivazione, minore è il numero di molecole che formano il complesso di attivazione e, di

conseguenza, minore è la velocità di una reazione chimica. La velocità della reazione dipende infatti

dall’energia di attivazione.

Velocità delle reazioni

Per velocizzare le reazioni usiamo spesso delle sostanza che si chiamano catalizzatori. I catalizzatori sono

delle sostanze di origine sia organica che inorganica, che servono a velocizzare una reazione; la reazione

deve comunque essere possibile, il catalizzatore non può far avvenire una reazione impossibile. Alla fine

della reazione i catalizzatori devono restare invariati, come se non partecipasse ad essa. Il catalizzatore può

agire abbassando la soglia dell’energia di attivazione, in modo che sia maggiore il numero delle molecole

che può formare il complesso attivato. La nostra cellula, che fa avvenire le reazioni ad una temperatura

bassa, compresa fra i 36° ed i 40°, possiede dei catalizzatori organici, gli enzimi. Un buon catalizzatore,

organico o inorganico che sia, aumenta la velocità di circa 1000 volte; questo valore è tuttavia troppo lento

per il nostro organismo, che sfrutta quindi gli enzimi. I nostri catalizzatori hanno un’elevata specificità,

attaccandosi perfettamente al substrato corrispondente al loro sito; se cambia il substrato, l’enzima non lo

riconosce; dopo la formazione dei prodotti, il substrato cambia, così l’enzima si sposta dal prodotto ad altri

reagenti con substrato adatto. In laboratorio, invece, la velocità della reazione dipende dalla

concentrazione dei reagenti, dall’energia di attivazione, e dalla temperatura (se aumento la temperatura di

10° la velocità raddoppia).

La velocità della reazione, avendo l’equazione cinetica, la possiamo misurare o secondo la molecolarità, o

secondo l’ordine. La molecolarità mi indica da quale concentrazione di molecole dipende la velocità della

reazione; abbiamo due equazioni: V = K[A] e V = K[A][B] . Nella prima la velocità della reazione dipende

dalla concentrazione di A, cioè di una sola molecola; la velocità è quindi monomolecolare, perché dipende

da uno solo dei reagenti. Nella seconda, poiché dipende dalla concentrazione di A e dalla concentrazione di

B, cioè due molecole, la velocità è bimolecolare.

L’ordine è dato dalla somma degli esponenti delle molecole che entrano nell’equazione cinetica.

V = K[A] � I ordine V = K[A][B] � II ordine (I rispetto ad A e I rispetto a B) V = K[A]2 � II ordine