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28 geoinforma P R O G E T T I Progettare e costruire in Tanzania Il centro di aggregazione “Bethzatha”: dall’idea al cantiere Ha dei pilastri che si avvitano verso l’alto, pareti arancione dipinte con animali e un frontone che riproduce il cielo che ne ha visto la fondazione. È Bethzatha, il centro per bambini disabili costruito in Tanzania grazie all’impegno di alcuni volontari del Servizio civile nazionale “Il centro è nato perché non ci sono servizi per i bambini disabili della zona di Wanging’ombe”, spiega Simona Rania, che si è occupata del censimento dei bambini e delle prime attività di Bethzatha. “Non è un centro di riabilitazione, ma solo di ag- gregazione. Però è soprattutto grazie alla socializzazione tra i bambini che si raggiunge lo scopo di toglierli dall’isolamento a cui spesso sono costretti. In questo modo si solleva il problema all’interno dei villaggi e delle istituzioni, che troppo spesso lasciano le famiglie sole e senza aiuti. La legislazione della Tanzania è molto avanzata e prevederebbe anche l’inserimento scolastico, ma le classi sovraffollate e la sfiducia dei genitori finiscono per vanificare la legittima domanda di maggiori diritti. Con questo centro si vorrebbe dare una prima risposta”. Il centro La costruzione del centro è terminata in tempo per la sua inaugurazione, avvenuta il 24 aprile 2009. Per le attività con i bambini si rendeva necessaria la presenza di una sala di dimensioni adeguate, con servizi igienici maschili e femminili, uno spa- zio per il gioco e un ufficio. “All’idea iniziale di costruire un centro chiuso tra quattro pareti si è presto sostituita quella di aprirlo all’esterno, in modo da essere il più accogliente possibi- le” spiega Rania. La forma si è perciò ispirata alle abitazioni locali, case di fango costituite da tre ambienti: una stanza centrale d’ingresso, spesso con un piccolo portico e con la copertura a capanna, e due stanze laterali, simmetricamente coperte da una singola falda di tetto. Il centro ha ripreso metà della for- ma di queste case: l’ingresso non avviene più sul lato lungo ma sul lato corto, un vasto porticato rende più graduale il passaggio all’interno e l’aula ha un’alta copertura a una falda sola. I servizi igienici sono stati realizzati all’ingresso, in modo da avere un accesso dall’esterno e uno dall’interno, mentre l’ufficio è una stanza più piccola e posta simmetricamente ai bagni. La costruzione Costruire in Africa – come del resto succede nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo (pvs) – crea al progettista e al direttore dei lavori problemi a prima vista insormonta- bili: per la mancanza di elettricità, per gli alti prezzi di alcuni materiali da costruzione, per la semplicità dei mezzi e delle conoscenze della manovalanza. Ogni giorno sembra doversi legare a una difficoltà sempre Ignazio Caruso Il progetto del prospetto principale con la riproduzione di alcune costellazioni sulla facciata

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Progettare e costruire in TanzaniaIl centro di aggregazione “Bethzatha”: dall’idea al cantiere

Ha dei pilastri che si avvitano verso l’alto, pareti arancione dipinte con animali e un frontone che riproduce il cielo che ne ha visto la fondazione. È Bethzatha, il centro per bambini disabili costruito in Tanzania grazie all’impegno di alcuni volontari del Servizio civile nazionale

“Il centro è nato perché non ci sono servizi per i bambini disabili della zona di Wanging’ombe”, spiega Simona Rania, che si è occupata del censimento dei bambini e delle prime attività di Bethzatha. “Non è un centro di riabilitazione, ma solo di ag-gregazione. Però è soprattutto grazie alla socializzazione tra i bambini che si raggiunge lo scopo di toglierli dall’isolamento a cui spesso sono costretti. In questo modo si solleva il problema all’interno dei villaggi e delle istituzioni, che troppo spesso lasciano le famiglie sole e senza aiuti. La legislazione della Tanzania è molto avanzata e prevederebbe anche l’inserimento scolastico, ma le classi sovraffollate e la sfiducia dei genitori finiscono per vanificare la legittima domanda di maggiori diritti. Con questo centro si vorrebbe dare una prima risposta”.

Il centroLa costruzione del centro è terminata in tempo per la sua inaugurazione, avvenuta il 24 aprile 2009. Per le attività con i bambini si rendeva necessaria la presenza di una sala di dimensioni adeguate, con servizi igienici maschili e femminili, uno spa-zio per il gioco e un ufficio. “All’idea iniziale di costruire un centro chiuso

tra quattro pareti si è presto sostituita quella di aprirlo all’esterno, in modo da essere il più accogliente possibi-le” spiega Rania. La forma si è perciò ispirata alle abitazioni locali, case di fango costituite da tre ambienti: una stanza centrale d’ingresso, spesso con un piccolo portico e con la copertura a capanna, e due stanze laterali, simmetricamente coperte da una singola falda di tetto.Il centro ha ripreso metà della for-ma di queste case: l’ingresso non avviene più sul lato lungo ma sul lato corto, un vasto porticato rende più graduale il passaggio all’interno e l’aula ha un’alta copertura a una falda sola. I servizi igienici sono

stati realizzati all’ingresso, in modo da avere un accesso dall’esterno e uno dall’interno, mentre l’ufficio è una stanza più piccola e posta simmetricamente ai bagni.

La costruzioneCostruire in Africa – come del resto succede nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo (pvs) – crea al progettista e al direttore dei lavori problemi a prima vista insormonta-bili: per la mancanza di elettricità, per gli alti prezzi di alcuni materiali da costruzione, per la semplicità dei mezzi e delle conoscenze della manovalanza. Ogni giorno sembra doversi legare a una difficoltà sempre

Ignazio Caruso

Il progetto del prospetto principale con la riproduzione di alcune costellazioni sulla facciata

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imprevista, che pure si finisce sem-pre con l’imparare come affrontarla. Anche la costruzione di Bethzatha non ha fatto eccezione.Dopo la fase progettuale e le scelte formali, infatti, si è passati al cantiere e alla costruzione vera e propria, con la prima questione da affrontare per l’uomo bianco che ne è a capo (il mzungu in kiswahili): la scelta degli operai.Nei pvs si tende a lavorare con uno o più muratori – esperti del loro me-stiere e quindi meglio pagati – e con alcuni manovali che aiutino. Per le assunzioni si applica spesso il crite-rio della discriminazione positiva: a parità di capacità viene preferita la persona più svantaggiata (solitamen-te quella più povera). Ciò non toglie che un cantiere edilizio non è un’as-sociazione a favore dei più deboli, neanche se questi sono il fine ultimo del lavoro; per aiutare chi è povero ci sono organizzazioni specifiche a cui affidarsi e, pur essendo tentati di farlo, è sempre meglio evitare il puro assistenzialismo. Il passo successivo – che in questa situazione può essere un ostacolo difficoltoso – è la scelta dei fornitori con cui intrattenere rapporti com-merciali. Accordata la fiducia a un negozio, infatti, è buona norma che il costo dei suoi prodotti venga sal-tuariamente confrontato con quello degli altri. All’acquisto del prodotto, poi, va sempre verificata la quantità di prodotti acquistata e accertata la loro qualità. Può succedere – com’è stato anche nel cantiere di Wanging’ombe – che i sacchi di cemento da 50 kg abbiano invece 47, 45, anche 42 kg. Considerando che ogni sacco vale tre giorni di paga di un manovale, è chiaro che un ammanco reiterato può risultare economicamente consistente. Non è infrequente che di alcuni prodotti – dal cemento alle lamiere del tetto – si debba fare a meno per diversi giorni, dovendo quindi avere piani di lavoro alternativi in attesa del materiale necessario; oppure ci si deve adeguare a quello che il mer-cato locale offre, come un unico tipo di tondino di ferro per il calcestruzzo armato: in questo caso è l’architetto che deve trarne le conseguenze ed eventualmente ridimensionare il suo progetto.I laterizi sono invece un prodotto di più facile approvvigionamento, perché vengono realizzati sul posto riempiendo casseforme di legno con

terra argillosa; i mattoni vengono poi lasciati asciugare, ammucchiati per creare un forno e infine cotti lentamente da tronchi di legno, piut-tosto grossi affinché non producano fiamme eccessive. Il prodotto finale ha una superficie irregolare dovuta all’essersi seccato sulla nuda terra, può presentarsi di dimensioni piut-tosto variabili ed essere stato poco o troppo cotto. È soprattutto a causa di queste dif-ficoltà che gli edifici in queste parti del mondo vengono generalmente costruiti a un singolo piano fuori ter-ra, in modo da ridurre le complessità di esecuzione dei lavori e l’impiego di cemento; per lo stesso motivo si usano muri portanti, affinché lo spessore possa reggere il peso del-la copertura creando al contempo una naturale escursione termica tra interno ed esterno. Per sostenere muri portanti anche la fondazione dell’edificio viene creata continua: nel centro di aggregazione di Wanging’ombe la si è realizzata usando blocchi di una locale pietra granitica, posti sopra un letto di sab-bia e legati con una malta bastarda di uguali parti di sabbia e di terra stabilizzata con un 10% di cemento. Questo genere di struttura distribu-isce meglio i carichi sul terreno di

fondazione – molto scadente perché, scavato senza l’ausilio di mezzi mec-canici, risulta piuttosto superficiale – e diminuisce il rischio di crepe; la sabbia sotto la fondazione, invece, può attutire parzialmente le scosse sismiche. Al fine di irrobustire la struttura si è poi sovrapposto un cordolo di cls armato, mentre gli angoli di mura-tura sono stati legati da malta di cemento. Tali angoli, creati laddove la costruzione è più sollecitata, dan-no la sicurezza necessaria affinché il resto delle pareti – a due teste e con tessitura “gotica” – possano essere legate con una malta con basse dosi di cemento. Tra il cordolo di cls e la prima fila di mattoni viene posto in opera un foglio di polipropilene, per isolare l’eventuale umidità di risalita; tale materiale può essere facilmente ricavato dai sacchi di cemento già svuotati del loro contenuto. Il poli-propilene ha elevate caratteristiche meccaniche e di leggerezza, è resi-stente al calore, agli agenti chimici e ha un buon isolamento elettrico: oltre che per gli imballaggi, quindi, può essere impiegato proficuamente anche in ambito architettonico. Gli stessi sacchi, legati insieme, imper-meabilizzano e isolano il sottofondo

Una vista dell’aula del centro, spazio di gioco e di aggregazione per i bambini disabili e le loro madri

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dei pavimenti, fatto di mattoni di scarto sormontati da una gettata finale di cemento.

L’edificioNel progetto di Bethzatha ci si è posti il problema comune agli edi-fici costruiti nei pvs con il concorso esterno di progettisti dei Paesi più “sviluppati”: è meglio spendere meno e costruire di più oppure spen-dere molto per creare un edificio con standard qualitativi accettabili anche nel nord del mondo? Entrambe le strade hanno i loro limiti: nel primo caso la qualità del costruito è sempre piuttosto scarsa e di durata minore, con una bassa qualità abitativa degli edifici; nel secondo caso – pur nel lodevole intento di rifiutare criteri di decoro diversi a seconda dei Paesi – si è spesso giunti alla costruzione di cattedrali nel deserto: splendide, assai costose, poco funzionali, inso-stenibili per le scarse possibilità del Paese ospite. Nel centro Bethzatha si è cercato di raggiungere una buona qualità ar-chitettonica senza spreco di risorse. Oltre all’uso di cemento solo laddove indispensabile (e alla sua sostituzio-ne con scelte progettuali di minor impatto estetico, ma non meno efficienti), si sono riusati quanto più possibile i materiali (come i sacchi del cemento, il legno di casseforme e impalcature o i chiodi, sempre recuperati). In più decine di alberi sono stati piantati in luogo di quelli usati per cuocere i mattoni, in modo da diminuire al minimo gli impatti ambientali del nuovo edificio.

Un portico di 40 metri quadrati è stato costruito aperto al pubblico, affinché molte delle attività del centro si possano svolgere all’aperto, senza dover temere il sole della savana o la stagione delle grandi piogge. Per la cultura africana il portico dà anche la sensazione che un edificio non sia chiuso verso chi gli si avvicina, apparendo ostile, ma che al contra-rio accolga con degli spazi ariosi, permettendo all’ospite di sostare tra gli spostamenti – sempre piuttosto lunghi – riposando sotto una bene-fica ombra.I cinque pilastri che sostengono il portico sono stati creati “tortili”, con una sagoma che esalta il mo-vimento ascendente. Per realizzarli si sono usati dei blocchi cavi di ce-mento come casseforme a perdere: normalmente impiegati per creare finestre di piccole dimensioni (per esempio per i bagni), sono stati qui rovesciati, armati con tondini di ferro e riempiti di calcestruzzo. I quattro pilastri simmetrici hanno un tenue color crema, mentre il quinto – più piccolo e asimmetrico rispetto agli altri – è stato colorato per sottoli-nearne e vivacizzarne la diversità, utilizzando quelle tonalità accese caratteristiche dell’Africa che, oltre a piacere molto ai bambini, incontrano il gusto locale.L’aula centrale è illuminata e areata da quattro finestre e da una serie di aperture di blocchi di cemento. È coperta da un’unica falda, ha il pavimento in cemento a vista – co-perto da appositi materassini, stuoie e tappeti, a seconda delle esigenze

del centro – e le sue pareti sono tutt’ora oggetto di una decorazione che riproduce animali africani nello stile vivace dei tingatinga, una tecni-ca di pittura con motivi zoomorfi su sfondo monocromatico tipica della Tanzania.Sul lato sud della costruzione, lad-dove si incontrano i due edifici, l’alta parete cieca è stata decorata con l’inserimento di bottiglie vuote tra i mattoni, leggermente sporgenti ver-so l’esterno nella parte circolare della base. Esse riprendono le costellazio-ni che vi erano nel cielo italiano la notte del 17 novembre 2008, giorno in cui sono stati cominciati i lavori, e di notte – illuminando l’interno per le attività serali del centro – ricreano le lontane luci notturne del Paese donatore. È qui dentro che Rania – aiutata da Paskalina Nyudike, una donna di Wanging’ombe – si prende cura dei bambini. “Ed è il posto ideale per farlo – dice – L’edificio è diventato un punto di richiamo per il villaggio e in breve ne sarà probabilmente il centro più rappresentativo. Nel raggio di 100 km non esistono altre costruzioni come questa, originale per i colori e per la forma, né ci sono istituzioni simili aperte al pubblico. Già ora gli altri cooperanti e volontari italiani portano qui in visita i loro ospiti, e questo è un motivo di orgoglio per Wanging’ombe. E per questi bam-bini che, ovviamente, sono ancora sorpresi e felici di potersi incontrare e giocare qui”.

I cantieri in Africa pongono insormontabili problemi di sicurezza al direttore dei lavori, come mostraquesta immagine del cantiere di Bethzatha

Ignazio CarusoArchitetto. Fondatore di Archisocial, net-work per l’architettura nei Paesi in via di [email protected]