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Prosa dEros di L. Nivoul

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La sua prosa, come la poesia, spesso dolcemente melanconica, si rivela a tratti dolorosa per la sensazione che trasmette: di chi vive un amore che va oltre la fisicità, importantissima e tocca corde profonde.

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L. NIVOUL

Prosa d’Eros

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni Prosa dEros di L. Nivoul Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzio-ne, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 78979108/8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN eBook 978897277729 Collana PINK http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni ri-ferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, in-dirizzi e”mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da conside-rarsi puramente casuale e involontario. Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edi-zioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore.

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Tango Sarebbe stata la musica del preludio in quell'insistente nota del mio abito nero slacciato perso ad annunciarti il ventre.

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BIOGRAFIA DELL’AUTORE L. Nivoul è nata in provincia di Trento, dove vive e la-vora. Insegna materie scientifiche e ama il suo lavoro che le permette di stare a contatto con i bambini e allo stes-so modo è appassionata della scrittura, poiché le dà l’opportunità di dipingere con la sua sensibilità sia la realtà vissuta che l’immaginario fantastico. BIBLIOGRAFIA

American Clouds ˜ Primo e Secondo Libro, due ro-manzi di narrativa rosa di cui è coautrice. Zdenko, l’ultimo dei Thun ˜ Romanzo Storico, scritto in concomitanza con lo straordinario evento che ha visto aprire al pubblico, per la prima volta nella storia Castel Thun, uno dei più splendidi manieri trentini, rimasto intatto nei secoli e reso ora museo della Pro-vincia Autonoma di Trento e dono per l’Umanità. Prosa d’ Eros ˜ Racconti Poesia dAmore ˜ Primo volume Poesia dEros Poesie dAmore Verso ˜ Secondo volume Prosa d’ Eros ˜ Racconti è la sua opera d’esordio.

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Sensibile

Sento la pressione delle tue dita risalire dal fondo-schiena verso l’alto.

Le affondi nelle graziose fossette che tanto ti attrag-gono, che sovrastano i glutei sodi quasi a focalizzarne meglio la morbida linea sinuosa.

«Hai un culo così seducente, tesoro.» Al tocco della pressione si unisce quello del calore

che, seppur localizzato in quelle piccole rientranze, avverto distintamente e mi concede un vago senso di piacere.

Il vento fuori non smette e il sibilo giunge fin qui, oltre le finestre chiuse, blindate.

È la neve che volteggia in alto sulle cime, in un tur-binio di forza incessante, un vortice bianco che sfavil-la e che sembra volerla distruggere, portandola via. Vuol farla scendere inesorabilmente verso valle, dove andrà a perdersi fino a morire.

Le tue calde dita sulla pelle della schiena continua-no a risalire. La mano non si ferma, prosegue verso la parte alta fin sulle spalle, indugiando via via in moti e pressioni incostanti lungo la colonna, dove le vertebre sembrano opporre un ostacolo al tuo silenzioso per-corrermi.

Non posso evitare il pensiero di quanto riusciamo a godere, anche solamente sfiorandoci appena la pelle. Un canto raccolto, a tratti laconico, a seguire infine più intenso, che si apre in espressioni sicure, vermi-

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glie e che interpreta magistralmente le sensazioni in-terne.

Accosto gli occhi per chiuderli alla luce fioca che oc-cupa la stanza e nel buio il senso del tatto si acuisce tanto che posso seguire ancor meglio le evoluzioni delle tue dita, in un’azione alternata e persistente di premere e allentare.

Perché è tutto così bello ciò che proviene da te? Indugio a lungo in questo pensiero che è spugna,

acqua e ossigeno; è voler rubarti le mani e straziarti la bocca di baci.

È immaginare un tatuaggio marcato con lingue di fuoco sulla pelle, è raggiungere la neve su quella cima innevata di marzo e parlarle, annunciando di te!

Poi ti avvicini alla nuca e la sfiori. Hai spostato di lato i miei lunghi capelli e il tuo tocco si fa impalpabi-le.

I fiocchi di neve scendendo dall’alto raggiungono i rami degli abeti, vi sostano, gustano appena l’ebbrezza del volo in discesa, sempre più in basso, fi-no a sciogliersi nel canto insistente del giorno.

Perché in te ritrovo schizzi di bianco, foreste di az-zurro e lo stesso deserto che diviene un crogiuolo di mille sapori?

Ci vorrebbe una fata dai mille poteri per svelare questo segreto, che in fondo segreto non è!

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Parisina Malatesta D’Amor si muore

Era leggiadra quando indossava quel vestito di piume, a simboleggiare un potere di donna che forse non aveva, ma che avrebbe voluto. Appariva guerriera infuocata di un ardore rapace e amava quel falco co-me una creatura amica.

Usciva dalle sue stanze ai primi albori dell'aurora e in un lampo la scorgevi lontana, sul suo cavallo Nero, forte e tenace e allo stesso tempo fedele e paziente, si-lenziosamente sottomesso, sia alle sue tenere carezze sia ai suoi improvvisi scatti d'ira, che in breve si me-scolavano alle lacrime.

Parisina: donna bambina, moglie precoce, amante appassionata, sogni mai realizzati, amplessi costretti, violenza.

In certi pomeriggi la potevi sentir urlare nelle stalle del Castello e scagliarsi come una forsennata contro Nero, che frustava, insultava, batteva con pugni sul collo, strappandogli lunghi crini dalla folta criniera. Poi, con la stessa repentinità dell'ira, in lei ritornava la pace e si disperava per ciò che aveva fatto al suo ca-vallo. Era una creatura fra le più care, la sua costante compagnia e l’espressione di un amore profondo. Tra-scorreva le sue giornate intenta nelle cavalcate fra i lecci del bosco vicino e le sue occupazioni che spesso assomigliavano ai giochi delle bambine. Non sapeva cos'era l'amore, né conosceva il significato del tradi-mento e ciò che accadde fu tutto per caso o forse un

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intreccio del destino. Un giorno, durante un viaggio con Ugo, figlio di suo marito, sentì qualcosa agitarle il petto, una cosa insolita e sconosciuta; ne cercò le trac-ce nella memoria, invano. Poi fra i due fu un lungo, interminabile sguardo che mescolò i colori degli occhi e fece tremare le mani di entrambi. Sentì l’inusitato bisogno di avvicinare il suo viso alla bocca di quel ra-gazzo, con una tremula timidezza, per rubarne il re-spiro, quasi fosse la sua stessa aria, lo stesso ossigeno che stava respirando lei, quello di cui aveva necessità.

Fu il parto di un giorno nuovo, l’inizio di una notte eterna. La passione li travolse ogni notte e in ogni momento della giornata. Quali precauzioni prendere? Quali attenzioni avere? Come frenare un amore così impulsivo, così giovane e vivace? Era il primo, era bel-lissimo, tutto da scoprire, tutto da inventare.

Era la fine di marzo quando nacque il suo amore, la sua unica grandissima passione per Ugo d’Este. Mai come in quei giorni il Castello le parve una reggia grandiosa, ove poteva eclissarsi nei rari momenti in cui il suo amante non era con lei. Si nascondeva nelle stanze più oscure, poiché non sopportava vedersi ri-flessa nei grandi specchi che coprivano le pareti delle sale e che proiettavano la sua immagine moltiplican-dola in sfaccettature, di volta in volta diverse. Can-gianti apparivano le espressioni del suo volto che, se-condo il momento, facevano trasparire un segno d’allegria, ma più spesso l’angoscia, l’ansia, l’attesa per la nostalgia di Ugo. Prepotente sentiva il bisogno di averlo accanto, di lasciarsi avvolgere dalle carezze e da tutti quei baci. Si rannicchiava allora in un angolo, al buio e lì rimaneva a piangere per ore, finché non

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era ritrovata dalla sua serva fedele, consolata e cocco-lata.

Ilde, la devota custode dei suoi sogni, la riportava nel mondo dei vivi, benché per Parisina fosse di morte ogni giorno trascorso senza il corpo caldo e passionale di Ugo a contatto col suo. Provava a distrarla e intrat-tenerla mostrandole, ad esempio, il nuovo abito che stava confezionando per lei. Le faceva ammirare le stoffe pregiate, scelte nelle forti tonalità del rosso carminio, che veniva accostato a tinte arancioni e screziato nel bordeaux pompeiano. Erano questi i co-lori che ben si addicevano al suo temperamento forte e temerario. La serva toglieva dai cassetti per mo-strarglieli trine e merletti, perle di fiume e di mare, piccoli rubini che sarebbero diventati degni accessori dell’abito. Parisina rimaneva assorta ben poco fra quei colori: il tempo di sentire nel cortile del Castello i primi colpi di spada sferrati dai soldati in allenamen-to. Scendeva a precipizio lo scalone centrale, così co-me si trovava, senza badare all’abbigliamento e al volo si faceva passare una spada e intratteneva con i solda-ti lunghe ed estenuanti battaglie. Ilde la osservava dalla finestra, sostava volentieri lì a guardare la sua padroncina, bella, fiera, orgogliosa e forte come un soldato. Spesso con la memoria percorreva a ritroso un sentiero nel tempo e ritornava al giorno in cui Pa-risina era giunta al Castello, accompagnata dal padre, signore di Cesena.

Ricordava con nitidezza il momento in cui la fan-ciulla apparve dalla carrozza, sospinta un po’ avanti dal padre, piccola, impaurita, piangente.

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Non aveva nemmeno quattordici anni e doveva di-ventare la nuova sposa di Niccolò III d’Este, signore di Ferrara. Un moto di calore, misto a compassione s’impossessò in quel momento del cuore di Ilde. Le parve già di amarla come una madre, mentre la segui-va con gli occhi e la vedeva attraversare il vasto corti-le, salire l’imponente scalone esterno, prima di sparire dietro al portone di ferro del palazzo padronale. Ri-suonavano tetri i passi di Andrea Malatesta, mentre pestava le grandi piastre di marmo rosa che rivestiva-no il lungo corridoio, verso l’accesso alle stanze del Marchese. Da lì a poco lo avrebbe incontrato, nel sa-lone dei ricevimenti. Gli aveva chiesto in sposa sua fi-glia Laura, detta Parisina. Con questo matrimonio a-vrebbe ottenuto la sua alleanza e i suoi favori. Certo, una figlia è pur sempre una figlia, ma quell’alleanza con Ferrara gli era quasi indispensabile per garantirsi un periodo di relativa tranquillità politica. Così Nicco-lò, per la seconda volta, avrebbe avuto una sposa ap-pena quattordicenne.

Parisina seguiva il padre in preda ad una sorta di terrore virginale che la costringeva a tenere lo sguardo a terra e seguiva ogni venatura rossa nel marmo che scorreva sotto i suoi piedi. Le sembrava di affondare piacevolmente nell’acqua fresca di un ruscello, estra-niandosi dalla realtà. Poi lo intravide e dovette alzare gli occhi su Niccolò, sul suo padrone. Lo scorse infine seduto su un trono di damasco arabescato. L’aspetto era goffo e flaccido, il volto sorridente e bonario. Di-stolse di colpo lo sguardo da quell’uomo; non riusciva nemmeno a immaginare che sarebbe diventato suo marito. Il pensiero retrocedette, ritornò nella sua ca-

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sa, ai prati intorno, all’allegria vissuta con le sorelle, alle corse sfrenate su Bianco, il suo cavallo preferito. Tutto le apparve così caro, così amabilmente vissuto e di colpo si fermò. Il padre se ne accorse e la costrinse a procedere, fino a presentarsi a lui, poi a inchinarsi, a sorridergli e a concedergli la mano. Lo guardò negli occhi e si sentì perduta... amare quell’uomo? Come avrebbe fatto ad amarlo? Poi le tornarono alla mente le raccomandazioni di sua madre.

«Parisina, sarà Niccolò d’Este il tuo sposo! Affezio-nati a lui, è un uomo potente, aiuterai la tua famiglia, se sarai una sposa devota e servile. Concediti a lui senza troppe ritrosie, ricordati i miei consigli e ti abi-tuerai a fargli da moglie! Su, Piccola mia! Non essere così triste e afflitta!»

«No, no, madre mia!» aveva gridato lei con tutte le sue forze.

In un gesto istintivo si portò le mani alle orecchie, coprendole per non risentire l’eco di quelle parole. Ciò che sentì insediarsi nelle zone più remote del suo es-sere, mentre era costretta a guardarlo, fu un senso a-cuto di repulsione e di ostilità.

Nei giorni successivi conobbe Ilde e fu come tornare a casa. Con lei si sentì accolta e amata. La serva la i-struì sul “come si fa”, su come essere piacevolmente accondiscendente col marito, sul come dargli piacere, ma lei ne fu così refrattaria da provocare in Ilde una sorta di soffusa disperazione e di sfiducia sul destino della piccola ribelle. Quella puledrina che amava i ca-valli era tanto bella quanto selvatica, ostinata, decisa e irascibile. Così la serva si affidò, infine, alla preghiera e sperò ardentemente nella buona sorte.

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Quella sera, per il primo incontro carnale con Nic-colò, Ilde la lavò, la profumò di rose selvatiche e vestì il suo corpo di un abito bianco, ampio e lungo. Le pet-tinò a lungo i capelli corvini, mentre un silenzio gra-vido di dolore e pianto occupava tutta la stanza. Pari-sina era seduta davanti alla finestra, gli occhi vitrei, persi nel cielo del crepuscolo, rosso di sangue verso il tramonto del sole. La pelle olivastra del suo volto si era sbiancata in un pallore cadaverico e freddo. Vole-va scindere l’anima dal corpo, separandola, così sa-rebbe potuta uscire attraverso la finestra e vagare as-sieme agli uccelli notturni, imitandone il verso e gu-stando l’ebbrezza della libertà.

Avrebbe volato alto, sopra i boschi di lecci e betulle, avrebbe assunto sembianze di falco rapace, di artigli, di becco. Si sarebbe potuta difendere... solo il calore delle mani di Ilde la tratteneva lì. Gridava alla sua a-nima di fuggire lontana, prima di dover cedere il cor-po, prima di darlo in prestito alle mani avide, grasse e inanellate del marchese.

Poi la vennero a chiamare. Ilde s’inginocchiò a lei un attimo prima che uscisse. La serva rimase muta, ma la fissò con gli occhi pieni di lacrime e una suppli-ca silente. Conosceva bene le ire del marchese quando non si sentiva accettato!

Parisina ricambiò il suo sguardo con fierezza: ora non vi era più traccia di paura in lei, saette di sfida lampeggiavano nelle sue iridi scure. Si lasciò baciare le mani e uscì dalla stanza avvolta nel fruscio della lunga veste che sfiorava il pavimento. Mentre il mar-chese s’impadroniva di lei, penetrandola e godendo

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senza ritegno, Parisina sopportò. Non un lamento né un grido uscirono dalle sue labbra serrate.

Era un falco ora e non aveva più paura. Si librava in alto, libera, sopra il bosco di lecci e, sorridendo, in-contrava il cielo.

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Questo racconto narra in modo fantasioso la storia vera di Laura Malatesta, detta Parisina, andata in sposa a Niccolò III d'Este. È morta a vent'anni per Amore e Passione. La notte del 21 maggio 1425 Pari-sina e Ugo D'Este, figlio di Niccolò III d'Este, dopo tre giorni di sommario interrogatorio, vengono con-dannati e decapitati nelle prigioni del Castello di Ferrara.

La conobbi per caso, attraverso un percorso rico-

struttivo fatto d’immagini in mostra al castello di Ferrara. La vidi, lessi le brevi didascalie sotto le foto e lei mi apparve, così come l'ho descritta qui. Perso-naggi, tempi ed eventi sono reali, mentre la narra-zione è frutto d’invenzione.

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Vidovici e l’innamorata della Luna

La casa è molto povera, come la donna. L'ho vista di spalle, in riva al mare, una sola volta e

mi è subito piaciuta. Con lei ho pensato alla Luna, poi all'amore, di lei ho creduto che un giorno si fosse in-namorata della luna, prima di decidere di andarsene.

L'abito scuro si muove leggermente all'alito del ven-to e aderisce quasi con pudore al suo corpo di donna matura; un corpo né elegante né tozzo, ma carico di quella sensualità contadina che riconduce col pensie-ro al campo, al gregge, alla stalla, alla casa di pietra, alla vita di sussistenza.

È lì, sola, in riva al mare, i capelli protetti dal fazzo-letto nero e in mano quella valigia di cartone scuro, trattenuta fra le dita, nuova, fatta fare per la partenza, per l'addio.

È sola, nessuno l'ha accompagnata. Il mare calmo si agita appena nella risacca, come i suoi pensieri, in un costante movimento ondulatorio.

«Vado via, lascio la mia terra, quest'isola di sole e secca. Di là del mare c’è il Continente e ci sarà un po-sto anche per me!»

Lo sciabordio dell'acqua continua, come il volo dei gabbiani. Quante volte ha desiderato e immaginato questo momento, quante volte ha desistito per la pau-ra del nuovo. La massa d'acqua le preme contro il cuore, alle spalle il peso della montagna e lassù, dove finisce l'impervio sentiero, c’è il paese. Poche sparute case, con le stalle e i piccoli orti rinsecchiti. La sua ca-

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sa è povera, come lei, come tutti lì. Vita grama da iso-lani dimenticati da Dio.

Ballava sotto la luna la sera prima della partenza, in una danza sensuale, a tratti lenta, poi vorticosa. E lei si sentiva inebriata di armonia, sulla piccola terrazza adibita a balera in occasione della festa. Avrebbe volu-to mostrarsi al suo uomo così, ammaliata nella danza che stava conducendo, per eccitarlo, sapendo quanto gli piacesse. Lui però non c’era più. Nel turbinio dei movimenti, tenui luci si proiettavano sulla sua pelle chiara, sul candido vestito di cotone, dritto, semplice, cucito per la festa. E la luna spavalda pareva complice dei suoi desideri, come lo era il mare giù in lontanan-za nel suo lento rilucere sotto i raggi lunari.

Innamorarsi della luna era stato come innamorarsi del sogno, della speranza, della vita come la ricordava da fanciulla, pregna dello stesso fascino, delle incer-tezze e dei tremori infantili. Negli anni successivi si era però fatta strada in lei la coscienza della miseria, che nasceva fin dal mattino, in quel sole caldo e im-mutabile, scandiva le ore di ogni giorno, fin sul calar della sera. Nel silenzio dell'isola gravava il biancore delle notti in solitudine, uguali le une alle altre, ma anche quelle turbolente e passionali trascorse con I-van. La sua era una vita senza un lavoro, senza un uomo vero, senza amore.

Poi Ivan se ne era andato. Lo rivede ancora la sera del commiato, le sue mani rudi e callose appoggiano sui suoi fianchi, negli occhi ha la sorpresa del distac-co, sì, perché più ancora di lei, era stupito della sua stessa decisione di andar via: lasciare l'isola per un luogo di speranza. La miseria spegne anche la passio-

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ne, vanifica i sentimenti, spezza l'anima. Era partito così Ivan, immusonito, quasi senza parole, senza l’abbandonarsi dei corpi, senza baci né carezze. Le pa-reti della sua casa sembrano custodire ancora i suoni e i rumori delle loro lunghe notti di sesso, quando lei si concedeva a lui e soddisfaceva le sue voglie, sempre più ardite. Al mattino si ritrovava da sola nel letto, il corpo sfasciato dalle eccessive richieste dell’uomo, le membra indolenzite, il cuore vuoto. Nell’aria della piccola stanza sentiva un acre odore di sesso rista-gnante che le dava quasi la nausea. La miseria crea al-tra miseria, nient'altro.

«La Leda se ne andrà a giorni» mormoravano in paese e lei, passando, reggeva quegli sguardi di con-danna, di approvazione, di rimprovero, d’invidia, di ammirazione. Tesa in quello sforzo proseguiva oltre, senza intrattenersi, senza commentare, già appesanti-ta dal fardello della sua scelta, ma allo stesso tempo animata dal desiderio di iniziare qualcosa di nuovo: era la vita che la chiamava a sé.

Così quel mattino era uscita di casa, lasciando la porta spalancata, non per disprezzo, né per dispetto, ma una porta aperta come a segnare una nuova via, una nuova possibilità. Abbandonava una cucina anne-rita dal fumo, con le assi del pavimento sconnesse e un’angusta stanza da letto, il cassettone di ciliegio di sua madre, un letto scricchiolante e i calcinacci dell'intonaco caduti ai piedi delle pareti. Dalle due piccole finestre, non si vedeva nemmeno il mare, sol-tanto il bosco di lecci e di querce.

Mentre scendeva dalla ripida discesa, lasciando il paese, non si è più girata indietro la Leda, nemmeno

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ora che è qui a due passi dal mare. Il suo sguardo scruta l'orizzonte e, mentre intravede in lontananza la sagoma del battello che si avvicina, si addolcisce di una tenerezza ampia e vitale. Intanto alle sue spalle l’isola sprofonda lentamente nel dorso di un mostro marino addormentato. La Luna è scomparsa dalla vol-ta celeste e i primi caldi raggi del sole s’infrangono sulla liscia superficie dell’acqua.

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Ansia

Aveva respirato a lungo, nell'attesa di qualcosa d'indefinibile che avrebbe calmato un po' la sua ansia. Lo attendeva e sperava di essere pronta per il momen-to in cui sapeva già di perdere la propria identità, quando lui sarebbe entrato e lei gli avrebbe dedicato tutto il suo essere donna e amante, sensibile al suo es-sere uomo, forte e determinato.

Si sfiorava appena con le labbra la pelle delle brac-cia; voleva provare lei, per prima, ciò che lui avrebbe provato. Ne odorava il profumo lieve, impresso nei pori della pelle fresca, ne sentiva la fragranza, ne gu-stava l'invito a leccarla leggermente e a umettarla con la lingua, per bagnarla appena e avvertirne l'evapora-re e poi sorridere a quella sensazione di brezza leggera che si alzava dalla pelle per incontrare l'aria.

Così acuiva quegli istanti di attesa, esasperandosi. Le sembrava quasi di non ricordare nemmeno i

tratti del viso del suo amante. Aveva continuato a pensare a lui durante il giorno, forse troppo, e ora nel-la sua immaginazione i suoi lineamenti sembravano scomporsi in frammenti di luci, d’immagini, di perce-zioni. Ma la bellezza del suo volto era tale che costrin-geva ogni parte scomposta a ritrovare in fretta il giu-sto luogo, la perfetta sistemazione nel suo spazio mentale. Lì la sua immagine si sarebbe ricomposta, a breve, per non abbandonarla più, nell'amato ritratto del suo viso bellissimo, impresso nella sua mente, per altre ore e ore.

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Accarezza le pieghe del lungo vestito che ha scelto assieme a lui e che sembra non aver inizio, né una fi-ne. Quell’indumento è l'idea stessa del mare e ne era-no rimasti entusiasti. È come se il mare giacesse ai suoi piedi per accarezzarle le gambe affusolate. Im-magina le mani del suo uomo nel gesto di sfiorarle la pelle: le appaiono così avare di carezze a volte o ina-spettatamente generose in certi momenti.

E il colore del vestito! Come assimilarlo all'azzurro del mare?

C'è infatti il riverbero dei coralli e delle conchiglie impresso nella trama della stoffa, c'è il colore della sua pelle. È questo il loro mare, dove adagiano i loro corpi, nel delirio dell'amore. Quale profumo è tratte-nuto dai capelli? Ne raccoglie una ciocca, è un ricciolo biondo morbido, friabile e stretto fra le dita, lo porta alle narici... non sente.

E lui cosa sentirà quando affonderà il viso nei capel-li? Sentirà ciò che a lei sfugge, poiché ogni sua parte gli appartiene, profuma e fiorisce, nel giacere insieme a lui.

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Solco

C'era lui, dietro, a cingerle i fianchi e ad accarezzar-li, come lambendoli, acqua sui sassi levigati e un so-stare delle sue mani, lì, dove l'incavo dei fianchi rende sottile e sensibile la carne e dove la mano si perde, nel seguire la curva sinuosa che s’irrigidisce un po' risa-lendo sul lato del corpo, mentre affina il suo moto on-dulatorio quando scende di nuovo, incontrando la co-scia e infine sosta, come necessaria ricerca di pace. Un respiro, e ricomincerà.

Lei ha gli occhi chiusi e la luce del tramonto dietro le montagne chiude alla vista ogni cosa, ogni sensa-zione provata, come per custodirle lì, dentro i suoi oc-chi.

Lo sente fremere, ansimare, dietro di lei, dove i cor-pi si toccano, s’insinuano quasi nella carne, dove il sangue pulsa e riscalda, dove la mente tace.

Attende il primo solco di luna, per baciarlo e inau-gurare la notte.

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Fumo

Girava voce da qualche tempo che Mark fosse cam-biato e Luise lo stava osservando, continuamente...

Non usciva quasi più di casa, nemmeno per assolve-

re quelle facezie quotidiane della spesa frugale: due pezzi di pane, le uova, una fetta sottile di formaggio, che andavano a costituire il suo vitto essenziale. Quel-lo della pura sussistenza.

«Potrei mettermi a consumare pane raffermo in-zuppato nel caffelatte anche ai pasti» diceva ogni tan-to fra sé, di fronte allo squallore dei ripiani vuoti del frigorifero «e non ci sarebbe molta differenza, or-mai.»

Raramente usciva anche per procurarsi il giornale da leggere durante il pomeriggio e lo faceva soltanto quando sapeva che sarebbero usciti degli articoli utili per il lavoro che aveva iniziato. Acconsentiva a dele-gare spesso la sua vicina di casa, una zitella premuro-sa con tempo da vendere e che, nel caso di Mark, il mio scrittore, come lo definiva, assolveva ben volen-tieri a questo “obbligo”. In realtà questo impegno era motivo di soddisfazione perché provava per lui una sorta di stucchevole ammirazione, anche se non era mai stata resa partecipe di che cosa egli stesse scri-vendo o rielaborando. Tuttavia cullava dentro di sé l’anelito inconfessato che sarebbe diventato uno scrit-tore famoso, o almeno conosciuto e, a quel punto, ne sarebbe stata veramente orgogliosa, come se una par-te di merito fosse sua. Con quel modo di aiutarlo, ad

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esempio nel fargli la spesa e nello stargli vicino dalla porta accanto, dimostrandosi gentile, avrebbe avuto conferma che la sua disponibilità e il tempo che gli aveva dedicato avevano dato buoni frutti. Ma non era soltanto questo...

C’era una cosa che faceva fatica persino a confessare a se stessa: aveva preso coscienza dell’influsso sensi-bile che quell’uomo esercitava su di lei. Si traduceva sempre più spesso in un sottile stato ansioso quando, varcando la soglia del suo appartamento, lo scorgeva lì, seduto alla scrivania che costituiva ormai una pro-paggine del suo corpo. Sempre intento a leggere o a scrivere, fumava senza sosta, ammorbando l’aria di quell’odore acre e impregnante che fuorusciva addirit-tura dalla battuta della porta d’ingresso e si spandeva nell’aria del corridoio e poi giù per le monumentali scale di marmo dell’antico palazzo.

Luise, che prima detestava il fumo, era giunta al punto di non provare più fastidio nel sentirlo e nel re-spirarlo quando si trovava in casa sua.

«Buongiorno, Mark. Come va il lavoro?» chiedeva, senza riuscire a soffermarsi troppo davanti a lui. Spesso rispondeva con un accenno di sorriso scostan-te, alzando la testa per un attimo dal foglio.

«Buongiorno, Luise. Pensa di uscire oggi? Avrei qualche commissione da affidarle... come al solito. È sempre gentile lei» diceva in fretta, prima di abbassa-re la testa sulla scrivania.

«Uscire qualche volta non le farebbe male» si az-zardava ad aggiungere Luise, mentre raccoglieva da terra riviste e fogli sparpagliati ovunque, ma non si aspettava risposta. Ormai lo conosceva bene, da

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quando era venuto a vivere nel suo stesso palazzo, cir-ca due anni addietro e, a quel tempo, aveva portato con sé una zaffata di esaltante novità. Era affacciata alla finestra quel giorno, quando il pullman si era fermato cigolando nello slargo della piazza e lo aveva visto scendere.

«Chi sarà quell’uomo? Non ha l’aria di essere uno di queste parti» aveva detto, parlando con l’inquilina del piano di sotto, come lei affacciata a curiosare.

L’alta e slanciata figura si era stagliata nel vano a-perto della porta del pullman, rimanendo immobile per qualche istante.

«Guardalo... ma cosa fa? Non scende?» aveva chie-sto con un velo di trepidazione nella voce. Poi lo aveva seguito senza staccargli gli occhi di dosso, mentre prendeva dal baule del pullman lo scarso bagaglio che aveva e si dirigeva con un fare circospetto verso casa sua, dove c’erano appartamenti liberi per essere affit-tati. Luise aveva sentito l’eccitazione salirle lungo le gambe e la schiena e si era affrettata a raggiungere l’entrata del suo appartamento: l’aveva aperta giusto in tempo per sentire il portiere parlare col nuovo ve-nuto.

«Dunque... ben arrivato signor Mark Schil... » non era riuscita ad afferrare il cognome completo «sì, per lei ci sarebbe un piccolo appartamento a due stanze, al secondo piano, con vista sul cortile interno, ma non sulla piazza.»

«Va bene, non ho esigenze particolari, lo prendo. Sono qui soprattutto per lavoro» aveva spiegato bre-vemente lui. Si capiva benissimo che era uno che a-vrebbe dato poca confidenza. Pochi istanti dopo, con