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DICEMBRE 2011 http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti_militari/CeMISS/Pagine/default.aspx Prospettiva 2011 - 2012

Prospettiva - difesa.it · Osservatorio Strategico Anno XIII numero 12 dicembre 2011 L’Osservatorio Strategico raccoglie analisi e reports sviluppati dal Centro Militare di Studi

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DICEMBRE 2011

http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti_militari/CeMISS/Pagine/default.aspx

Prospettiva2011 - 2012

Osservatorio StrategicoVice Direttore Responsabile

C.V. Valter Conte

Dipartimento Relazioni InternazionaliPalazzo Salviati

Piazza della Rovere, 83 00165 – ROMAtel. 06 4691 3204 fax 06 6879779

e-mail [email protected]

Questo numero è stato chiusoil 30 luglio 2011

- Editing grafico a cura di Massimo Bilotta -

CinaUn paese in bilicoNunziante Mastrola 55

IndiaIndia: un 2012 di riforme e sviluppoClaudia Astarita 63

America LatinaL’America Latina nell’anno del dragoneAlessandro politi 69

Organizzazioni Internazionali e Cooperazione Centro Asiatica Venti anni di indipendenza dall’URRS, ma non da MoscaLorena Di Placido 77

Settore EnergeticoIncognite energetiche per il 2012Nicolò Sartori 83

Organizzazioni InternazionaliL’ONU e la primavera araba tra il 2011 e 2012: bilancio e prospettiveValerio Bosco 91

RecensioniGeneralizzazione del concetto di “Costo”Volfango Monaci 101

Osservatorio StrategicoAnno XIII numero 12 dicembre 2011

L’Osservatorio Strategico raccoglie analisi e reports sviluppati dal Centro Militare di Studi Strategici, realiz-zati sotto la direzione del Gen. D. CC. Eduardo Centore.

Le informazioni utilizzate per l’elaborazione delle analisi provengono tutte da fonti aperte (pubblicazioni astampa e siti web) e le fonti, non citate espressamente nei testi, possono essere fornite su richiesta.

Quanto contenuto nelle analisi riflette, pertanto, esclusivamente il pensiero degli autori, e non quello del Mi-nistero della Difesa né delle Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessi appartengono.

L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file PDF) nelle pagine CeMiSS delCentro Alti Studi per la Difesa: www.casd.difesa.it

Sommario

Valter conteEDITORIALE

MONITORAGGIO STRATEGICO

Medio Oriente - Golfo Persico2011 l’anno delle ribellioni. quale futuro in Medio Oriente?Nicola Pedde 9

Regione Adriatico - Danubiana - BalcanicaEuropa Sud Orientale e balcani occidentali: verso un nuovo anno di transizione incompiuta Paolo Quercia 15

Comunità Stati Indipendenti - Europa OrientaleUna nuova stagione politicaAndrea Grazioso 23

Relazioni Transatlantiche - NATOPrime considerazioni alla vigilia delle presidenziali 2012Lucio Martino 29

Teatro AfghanoVerso un'accelerazione della transizione?Antonio Giustozzi 35

AfricaCrisi mondiale? Non in Africa, dove il PIL crescerà più che nel resto del mondoMarco Massoni 41

Iniziative Europee di DifesaLe sfide per la Presidenza di Turno daneseLorenzo Striuli 49

Anno XIII - n° 12 dicembre 2011

EDITORIALE

Insicurezza ed instabilità nel Maghreb, nuovi fattori di sfida per l’Europa

Con la morte di Gheddafi si sono pressoché spenti i riflettori mediatici sul Maghreb e sulle tran-sizioni democratiche in corso in tutti i paesi della regione, trasmettendo, indirettamente, un mes-saggio di rassicurante calma. Al contrario, la situazione interna di alcuni di questi paesi, inparticolare in Libia, rischia di precipitare, con inevitabili e pericolose conseguenze per la stabilitàe la sicurezza di un’area ben più vasta della sola regione maghrebina, poiché capace di riverberarsi,attraverso la fascia Sahelo-saharia fino alle coste dell’Africa occidentale. Non vanno peraltro ig-norate le nefaste conseguenze che il degenerare del disordine istituzionale produrrebbe sulleeconomie locali, europee e più in particolare su quella italiana. L’Italia è uno dei più importantipartner commerciali dell’area; il 31% del nostro fabbisogno di gas è legato alle forniture algerineche giungono in Italia, transitando dalla Tunisia, attraverso il gasdotto “Enrico Mattei”.Gli avvenimenti principali che hanno interessato da un anno a questa parte tutte le capitali delNord Africa non sono privi di conseguenze per i vicini paesi del Sahel. Una vera onda di chocche, partita dalla Tunisia, ha investito l’Egitto e la Libia, ed ora prosegue rischiando di frangersipericolosamente su un’area che si estende fino alle coste occidentali del continente africano.I venti delle rivoluzioni arabe potrebbero in effetti soffiare domani sui quei paesi africani, vicinio lontani, i cui governi/regimi non godono più del consenso popolare, con un evidente rischio dicontagio.Peraltro, l’affermarsi di un islam politico, uscito vittorioso dalle elezioni svoltesi in Tunisia edEgitto, ha visto scomparire, come immaginabile, le speranze di un processo di transizione demo-cratica a guida liberale/laica. Grazie alla loro popolarità, frutto di una costante e diffusa opera disostegno sociale, ma anche per la totale perdita di valori imputata ai deposti regimi, i partiti diispirazione islamica hanno facilmente sopravanzato le altre formazioni politiche nate sulle ceneridi un’opposizione soffocata da lunghi periodi di dittatura.Con sempre maggior frequenza si osserva, in Egitto come in Libia, una recrudescenza di violenzeinter-religiose, inter-etniche, di gravi minacce nei confronti di questa o quella minoranza, che mi-nano alla base ogni possibile progresso per i diritti e la dignità umana e più in generale per lademocrazia. Nel caso dell’Egitto questa contrapposizione va ben oltre gli aspetti ideologici, as-sumendo sempre più le caratteristiche di un confronto tra le forze politiche di ispirazione religiosae le Forze Armate, che ancora controllano gran parte dei meccanismi economici del paese.Numerosi osservatori sono inoltre preoccupati per i rischi associati all’assenza di controlli su vastearee del Sahel, derivanti dal disordine governativo che regna in Libia e che lascia spazi che possonoessere occupati da AQMI (Al-Qaida al Maghreb Islamico) e dalle organizzazioni malavitose adessa legate. In pratica, parafrasando l’espressione di un appassionato giornalista francese, sono sempre più ev-identi i rischi che “Le primavere arabe si trasformino nell’inverno islamico”.Questi fatti mostrano in modo evidente la vulnerabilità e la fragilità degli attuali equilibri politici,ancora fondati su sentimenti di rivalsa verso le deposte dittature e che trovano difficoltà a stabi-lizzarsi/aggregarsi intorno ad un condiviso disegno democratico. In questo peculiare momento,meritano un’attenzione particolare due paesi: l’Algeria e la Libia, se non altro per il loro pesopolitico ed economico.

EDITORIALE

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La calma che regna ad Algeri, peraltro relativa secondo le regioni ed i quartieri delle grandi città,è illusoriamente percepita come tale e pertanto non suscita l’attenzione ed i commenti della stampaeuropea e più in generale di quella occidentale.Tuttavia, l’acuta crisi politica, i disordini, le manifestazioni e gli scioperi che hanno regolarmenteagitato le masse algerine in questi ultimi anni, e l’insicurezza latente in numerose regioni (ad es-clusione delle zone di sfruttamento petrolifero e gasiero, strettamente sorvegliate) necessitano diessere seguite ed analizzate con attenzione. Tale situazione presenta tutti gli ingredienti per unapossibile – alcuni analisti dicono addirittura probabile – prossima esplosione sociale, che com-plicherebbe ulteriormente la delicata situazione dell’area. Una crisi interna algerina si riper-cuoterebbe immediatamente sulla sicurezza dell’intero sahel per il ruolo guida assunto da Algeriin iniziative regionali volte al contrasto dei traffici illeciti della regione.Occorrerà probabilmente attendere le elezioni legislative del prossimo maggio per conoscere ilpeso reale e la popolarità degli “islamico-conservatori” del Movimento per la Pace (MPP), cheperaltro, da circa dieci anni fanno parte della compagine ministeriale. Nell’attesa, non si escludeun’apertura del governo verso questi avversari politici, al fine di evitare esplosioni sociali ed as-sicurare il mantenimento dell’attuale status-quo. Potrebbe essere un segnale in tal senso la recenteamnistia concessa ad alcune migliaia (tra 4000 ed 8000) di detenuti “islamisti”.Analogamente, anche la Libia, altro paese cardine per gli equilibri regionali ed i flussi energeticiche ci riguardano, vive ancora una situazione di grande instabilità politica. Dopo sei mesi di guerracivile e prima di dotarsi di un nuovo modello di società diversa da quella conosciuta durante iquarant’anni di regime (caratterizzato da corruzione, nepotismo, clientelismo ….), la Libia si trova,alla fine di dicembre 2011, di fronte a delle sfide considerevoli in termini di sicurezza e stabilità.Riconciliare le differenti componenti del paese neutralizzando la logica dei rapporti di forza, dis-armare le milizie o integrarle nelle forze di sicurezza libiche, riavviare i servizi pubblici dove sonoancora inefficienti (soprattutto in Tripolitania), controllare e rendere sicure le frontiere (soprattuttonei confronti di AQMI), ridistribuire equamente nel paese le rendite petrolifere (il 70% del petroliosi trova in Cirenaica, mentre l’80% della popolazione vive in Tripolitania), sono solo alcune delledifficilissime sfide con cui dovrà confrontarsi il Consiglio Nazionale di Transizione nel corso del2012.L’impresa appare ardua alla luce delle scadenze imposte dall’agenda elettorale: entro il prossimogiugno dovrà essere eletta l’Assemblea Costituente, che dovrà elaborare nei 6 mesi successivi lacostituzione e le leggi conseguenti. Entro la fine del primo semestre 2013 dovranno essere elettiil Parlamento, il Presidente e dovrà essere formato un Governo pienamente legittimo.Oggi, in caso di elezioni, è probabile che il “Movimento Islamico libico” ne uscirebbe vincitore;il partito può essere senza dubbio considerato come l’equivalente locale dei fratelli mussulmani esembra evidente che dopo le recenti vittorie dei partiti islamici in Egitto, Tunisia e Marocco, ilpartito d’ispirazione religiosa libico possa aver rafforzato la propria influenza sulla scena politicalocale. I salafisti sono minoritari in Libia ed il rafforzamento del movimento dei “fratelli mussul-mani” dovrebbe impedirne l’espansione. Osservando l’attuale panorama politico libico, sembr-erebbe anche parzialmente ridotta l’influenza delle tribù che sembrerebbero non controllare più lavita politica del Paese, oggi dominata da alcuni leader locali, in particolare, quelli di Tripoli, Mis-urata e Bengasi che godono verosimilmente di un decisivo vantaggio nella corsa al potere, unita-

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EDITORIALE

mente a coloro che controllano oggi le risorse petrolifere del paese.Altro problema non da poco riguarda le Forze Armate libiche, di fatto inesistenti e sostituite damilizie che occupano larga parte del territorio ed operano senza un verio e proprio controllo cen-trale.È evidente quindi il rischio di un’implosione del Maghreb e la necessità di realizzare ogni possibilesforzo per evitare questo catastrofico scenario. L’area deve diventare una delle priorità dell’UnioneEuropea, per le inevitabili conseguenze che uno scenario di questo genere potrebbe avere sulla si-curezza e sull’economia del “Vecchio Continente”. Tale esigenza è tanto più impellente se esam-inata alla luce delle linee di indirizzo della politica estera statunitense 2012, che spostano gliinteressi e le priorità della diplomazia americana verso l’Asia. Tale politica penalizza più in gen-erale il continente africano, ad esclusione dei paesi del Golfo di Guinea.Pur nella consapevolezza della particolare congiuntura economica, l’Europa dovrebbe coglierequesto delicato momento storico per rivedere la propria politica di vicinato, orientandola mag-giormente verso l’area dell'Africa settentrionale. Andrebbe abbandonato il consuetudinario rap-porto donatore/beneficiario che per lungo tempo ha marcato la cooperazione con i partner africani,per avviare un dialogo paritario che permetta di scegliere insieme obiettivi e strumenti condivisie valorizzarli congiuntamente con strumenti di spessore, creando un rapporto di fiducia indispens-abile per il successo di nuove forme di cooperazione.Andrebbe privilegiato il rapporto con organizzazioni regionali, rivitalizzando quelle come l’Unioneper il Maghreb Arabo (UMA) capaci di rappresentare interlocutori di pari livello istituzionale. Ciòpermetterebbe di agire in condivisione di responsabilità, di concertazione, di mutual accountability,facendo leva sulla più ampia gamma possibile di strumenti per l’integrazione dei sistemi economicidei Paesi interessati, nella direzione di un più ampio contesto di multilateralismo in una più ampiaottica di condivisione di responsabilità.

Valter Conte

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MONITORAGGIO STRATEGICO

Medio oriente e Golfo Persico

Nicola Pedde

►Egitto, partiti islamici ufficialmente vittoriosi. Dopo il terzo round delle elezioni, il cui risultatodefinitivo si conoscerà il 13 gennaio, è più che certa la netta supremazia dei partiti di ispirazionereligiosa, che dovrebbero aggiudicarsi circa i 2/3 del consenso popolare. Il post elezioni vedrà loscontro tra giunta militare e partiti islamici principalmente sulla elaborazione di una nuova co-stituzione che potrebbe togliere ai militari parte dei privilegi di cui hanno finora beneficiato e li-mitare i poteri del presidente. L’altamente probabile vittoria dei partiti di matrice musulmananasconde delle insidie anche sul fronte internazionale, che potrebbe vedere un cambiamento dirotta dei rapporti con lo stato di Israele in primis. È delle scorse settimane, infatti, la dichiarazionedi Rashad Bayoumi, numero due dei Fratelli Musulmani, che vorrebbe portare al referendum iltrattato di pace con Israele. Quel che è certo, al momento, è l’assoluta volontà dei Fratelli Mu-sulmani di non andare allo scontro diretto con gli altri attori politici per mantenere fede al lorocarattere moderato rispetto alla corrente salafita.►Siria, la repressione continua, nonostante la presenza dei team ispettivi. Neanche la presenzadegli osservatori inviati dalla Lega Araba ha arginato le continue violenze in Siria. A testimoniarloil primo report degli osservatori internazionali, che continuano a chiedere lo stop delle violenze,ma non reclamano l’intervento di osservatori dell’ONU. La posizione dei ventidue paesi arabiche hanno deciso di essere presenti per denunciare le violenze del regime di Bashar al-Asad sem-bra stia attirando su di sé pesanti critiche, prima fra tutte la copertura delle violenze. Intanto l’at-tracco di cinque navi russe nei porti siriani pare essere qualcosa di più di un semplice supportologistico-umanitario alla grave situazione interna del paese. Allo stato attuale, anche l’attentatonel cuore di Damasco dello scorso 6 gennaio, che secondo gli attivisti è stato una messa in scenaper screditare gli oppositori, sembra indicare un unico percorso: repressione fino all’ultimo. Dal-l’inizio degli scontri si contano già almeno seimila morti.►Iraq, le truppe USA si ritirano, e la violenza torna ad aumentare. A poche settimane dal ritirodelle truppe statunitensi dall’Iraq, nel paese lo spettro del settarismo è più che una minaccia. Ilnuovo picco di violenza che si è registrato nelle ultime settimane testimonia come il governo diunità nazionale guidato da Nur al-Maliki sia incapace di garantire la sicurezza interna del paesee come questo cavalchi il vecchio leitmotiv della divisione religiosa per accentrare il potere. Dopoil mandato d’arresto recapitato a Tariq al-Hashimi, vice premier, legato al partito sunnita Iraqiya,

Eventi

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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Il 2011 è stato certamente un anno eccezionaleper l’area del Medio Oriente, per l’esplosionedella cosiddetta primavera araba e per l’evolu-zione delle dinamiche politiche e di sicurezzadell’intera regione.Con un ragionevole margine di certezza, si puòcertamente affermare che nessuno dei paesi del-l’area sia rimasto immune rispetto alla generalepolitica di cambiamento o tensione, innescandoprocessi di gestione della politica locale spessoconfusi e tesi all’ulteriore instabilità.Il processo di cambiamento e di crisi che ha in-teressato l’intera regione, dal Maghreb al Golfo

Persico, non sembra essersi ancora arrestato.Ma non sembrano essere stati raggiunti, almenosinora, nemmeno quegli epocali traguardi didemocrazia e cambiamento che le masse in pro-testa si erano prefissate sin dai primi giornidella primavera araba.Si è certamente infranto il tabù – o quantomenosi sta infrangendo – della minaccia rappresen-tata dai partiti di ispirazione islamica, e questopotrebbe portare ad un reale processo di tra-sformazione del rapporto con l’Occidente, fa-vorendo sempre più la crescita di esponentipolitici moderati e progressisti.

accusato di aver tentato un colpo di stato, il quadro è abbastanza chiaro. La rivalità tra sunniti,sciiti e curdi, mal gestita al vertice, rischia di far naufragare i successi economici derivati dallaproduzione del petrolio, che è ritornata a crescere, per mancanza di investimenti strutturali dovutiagli interessi delle diverse fazioni.►Yemen, la prossima uscita di scena di Saleh. L’ex presidente dello Yemen Ali Abdallah Salehha ottenuto nei giorni scorsi l’amnistia, approvata dal governo ad interim. Sebbene sia necessarioil sostegno del Parlamento, la decisione sembra essere già realtà, conforme a quanto pattuito dalConsiglio di Cooperazione del Golfo. La legge dovrebbe servire a far voltare pagina allo Yemen,liberandosi di Saleh che, tuttavia, resterà formalmente titolare fino al 21 febbraio, quando do-vrebbero svolgersi le elezioni presidenziali. Mentre Saleh e il suo entourage non saranno processatiper i crimini commessi durante le proteste popolari dello scorso anno, la popolazione continua avedere negate le proprie rivendicazioni e nel sud del paese proseguono gli scontri con i militantidi al-Qaeda.►Bahrein, la primavera dimenticata dai media. Nonostante sulla stampa occidentale quasi nonse ne parli, il Bahrein sta cercando di vivere la sua primavera. La posizione strategica del paesee la sua vicinanza al regno saudita impongono un’attenzione maggiore rispetto ad altri contestiregionali. Le proteste della popolazione di culto sciita che non tollera lo strapotere della mino-ranza sunnita popolano le piazze di manifestanti e “legittimano” il regime a controllare la folla.Nell’immediato futuro si intravedono soltanto ininfluenti cambiamenti e il mantenimento dello

2011 L’ANNO DELLE RIBELLIONI. QUALE FUTURO IN MEDIO ORIENTE?

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MONITORAGGIO STRATEGICO

Di certo assisteremo ancora ad un prolungatoperiodo di instabilità nella regione, soprattuttoin conseguenza delle crisi politiche più cruente,come nel caso della Siria e dello Yemen, o diquelle potenzialmente destabilizzanti come nelcaso dell’Iran.Ciò che è entrato in funzione, in ogni caso, è unmeccanismo di generale sostituzione generazio-nale ad ogni livello dei sistemi politici della re-gione. Favorendo l’ascesa dopo decenni dirigido immobilismo, di una componente quan-tomeno differente – e probabilmente più moti-vata e dinamica – rispetto a quella che hadominato la scena politica della regione dallaGuerra Fredda sino ai nostri giorni.

Quali saranno le crisi del 2012 in MedioOriente?Alquanto diffusa in termini geografici l’area diinstabilità, attuale o solo potenziale, nel MedioOriente per il 2012. La crisi in Siria sembra essere destinata adacuirsi nel breve periodo. L’anno è iniziato conun sanguinoso attentato il 6 gennaio, che ha pro-vocato decine di vittime nel centro di Damasconei pressi di un edificio governativo.Attentato che è stato preceduto nel mese di di-cembre da una lunga scia di sangue nella capi-tale e nelle aree periferiche dove più forte è lalotta al regime.Il 27 dicembre, nella città di Homs sono stateuccise dalle forze governative almeno 34 per-sone durante un sit-in di protesta che ha vistopartecipare oltre 30.000 persone nel quartiere diKhalidieh.Il gravissimo episodio è stato accompagnato daulteriori polemiche circa il ruolo e l’effettiva ca-pacità degli osservatori della Lega Araba nelpaese. Lo stesso giorno, infatti, era presente adHoms una delegazione guidata da MohammedAhmed Mustafa al-Dabi, ufficiale dell’intelli-gence sudanese e capo delegazione degli osser-

vatori della Lega Araba. In una nota stampa di-ramata successivamente alla sua visita nellacittà, ha affermato di aver trovato autorità col-laborative, senza fare menzione alcuna delle in-genti manifestazioni che si sarebbero svolte nelquartiere di Khalidieh.Il ministro degli esteri francese Alain Juppè haduramente commentato l’episodio, accusandoapertamente la Lega Araba di non essere ingrado di svolgere il ruolo affidatole in Siria. Enon sono mancate anche in altri paesi le criticheall’operato della missione, giudicandola ina-datta sia sul piano pratico che su quello politico.Non appare invece in modo chiaro e nitido ilprogetto politico e militare del presidente Assad,ormai nella morsa di una crisi irreversibile esempre più isolato dalla comunità internazio-nale. Secondo indiscrezioni fornite dalle pursempre limitate fonti della dissidenza ancorapresente nel paese, le autorità politiche sareb-bero del tutto incapaci di qualsiasi opzione po-litica, riservando ogni speranza sul piano dellarepressione armata.Questo, tuttavia, potrebbe portare ad un pro-cesso sempre più rapido di disgregazione del-l’apparato istituzionale, provocandone ilcollasso. Condizione che, rispetto ad una tran-sizione, presenta incognite alquanto minacciosee potenzialmente foriere di un prolungamentosine die dell’instabilità.Si registra invece la prima defezione di un uffi-ciale generale dai ranghi dell’Esercito siriano.Si tratta di Mustafa Ahmad Al-Sheikh, che è ap-parso in un video trasmesso da Al Jazeera invi-tando i militari siriani di ogni arma e grado apassare in massa con le forze dell’opposizione.Solo parzialmente diminuita la conflittualitànello Yemen, invece, sostanzialmente nell’attesadell’annunciata partenza del presidente Ali Ab-dallah Saleh dopo le elezioni del prossimo 21febbraio, e soprattutto alla luce di ciò che real-mente accadrà con l’uscita del presidente dal

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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paese. Le opposizioni politiche temono l’eventualità diun voto elettorale in qualche modo strumenta-lizzabile da Saleh, soprattutto attraverso la pos-sibilità del procrastinarsi della sua partenzadallo Yemen qualora il voto potesse essere lettocome una blanda vittoria politica.Hanno ammonito ufficialmente il presidenteSaleh gli Stati Uniti, paese nel quale il presi-dente avrebbe dovuto recarsi a dicembre per unviaggio poi cancellato per “ragioni politiche”.È stato ricordato espressamente al presidentel’impegno assunto per la transizione, e soprat-tutto l’effettiva cessione del potere al vicepresi-dente Abd Rabbou Mansour Hadi.È calata la tensione e soprattutto la violenzanella capitale, Sana’a, sebbene siano in costanteaumento le manifestazioni pacifiche della po-polazione per protestare non solo contro il pre-sidente Saleh, ma anche contro l’opposizione,gli americani e l’ingerenza del tribalismo nelladinamica di crisi del paese. Alla vigilia di nataleuna ingente processione ha visto la partecipa-zione di migliaia di cittadini verso la capitaledalle aree limitrofe, e poi al suo interno. Il 6gennaio decine di migliaia di manifestanti sisono nuovamente riversati in piazza per chie-dere pacificamente il rilascio dei detenuti poli-tici, ma anche questa volta per protestare controgli accordi internazionali definiti per agevolarela transizione e garantire l’immunità di Saleh.Piani che vengono letti come una chiara intro-missione degli Stati Uniti e dell’Arabia Sauditanella politica locale.Si sono invece registrati scontri con le forzeqaediste presenti nel sud del paese, dove l’au-toproclamato gruppo dei “Partigiani della Sha-ria” ha assunto il controllo della città di Zinjibar,scontrandosi ripetutamente con le forze del-l’esercito yemenita.Di differente natura, ma parimenti potenzial-mente esplosiva, la crisi in atto nel Golfo Per-

sico. L’Iran, quale misura di ritorsione all’incre-mento delle sanzioni e come risposta ad uneventuale attacco da parte degli USA o diIsraele, ha minacciato di chiudere l’accesso alGolfo bloccando lo stretto di Hormuz. Conte-stualmente ha avviato una poderosa esercita-zione aeronavale di circa dieci giorni con ilchiaro scopo dimostrativo di mostrare la capa-cità operativa delle proprie forze e la conse-guente possibilità di dare effettivamente seguitoa quanto minacciato.La questione si inserisce tuttavia in una più ar-ticolata e complessa faccenda di politica interna,dominata dal sempre più acceso scontro tra laGuida Suprema Ali Khamenei ed il presidenteMahmood Ahmadinejad.Sin dallo scorso mese di aprile, sono venuti alpettine i nodi di un rapporto sempre più com-plicato e conflittuale, espressione di un più ge-nerale ed ampio scontro generazionaleall’interno della Repubblica Islamica.Da un lato, quindi, la Guida rappresenta gli in-teressi e le posizioni della sempre più ristrettacomponente dell’establishment di prima gene-razione, espressione delle logiche rivoluzionariee del successivo consolidamento politico. Il pre-sidente, al contrario, rappresenta parte dellaenorme seconda componente generazionaledella Repubblica Islamica. Quella il cui ruolo èstato forgiato durante il conflitto con l’Iraq, esuccessivamente attraverso una progressivaascesa dei ranghi militari prima, ed amministra-tivi poi.Nella complessa matrice sociale iraniana sonopresenti molte componenti ideologiche, sebbenesolo una parte di queste abbia una effettiva rap-presentanza politica. Con la fine dell’epopea ri-formista, nel 2005, il sistema istituzionale èstato dominato dalle componenti conservatrici,la cui alleanza in funzione anti Khatami è statadi breve durata dopo il successo elettorale.Mentre l’universo riformista è praticamente

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MONITORAGGIO STRATEGICO

uscito dalla sfera politica, per riaffacciarvisi bre-vemente nel 2009 con l’eterogenea formazionepolitica dell’onda verde, quello conservatore hadapprima sviluppato una difficile forma di coe-sione forzata in chiave anti-riformista, e poi siè gradualmente frazionato in tre principali com-ponenti ideologiche. La prima, quella dei fon-damentalisti, è di fatto la più vicina alla primagenerazione politica iraniana, e conseguente-mente alla Guida. Difende le prerogative dellaRepubblica Islamica così come sancite dallaCostituzione, considera ogni apertura conl’esterno (e con l’Occidente in particolare) unrischio esistenziale per la stabilità nazionale, efavorisce l’assunzione di una politica regionalecauta e di continuità.La seconda è quella dei principalisti, che in Oc-cidente viene erroneamente definita dei radi-cali, e che raccoglie un eterogeneo quantoampio gruppo, espressione quasi esclusiva-mente della seconda generazione politica ira-niana. Si tratta di una compagine che sempre piùdenuncia la corruzione e l’accentramento delpotere da parte della prima generazione, che hameno timori ideologici verso l’esterno, e che so-stiene una linea di condotta in politica estera piùaggressiva, dinamica ed apertamente mirante alriconoscimento del ruolo regionale dell’Iran.La terza, ed ultima componente, è quella deipragmatici, il cui orientamento è di rigido con-servatorismo interno abbinato ad una politica diapertura economica verso l’esterno. In forteascesa nei primi anni Novanta, ed essenzial-mente espressione dell’ex presidente Rafsan-jani. Le vicissitudini politiche del riformismo edel successivo scontro all’interno del sistemadei conservatori, ha progressivamente emargi-nato questa componente.Nell’ambito, quindi, dello scontro tra la Guidae il Presidente, la prima cerca di isolare il se-condo attraverso l’adozione di una strategia dipolitica internazionale orientata alla chiusura ed

all’intransigenza con l’Occidente. La pressionesu Hormuz, quindi, deve essere intesa non giàcome ricerca di un conflitto aperto con gli USA,quanto come uno strumento per favorire l’iso-lamento paese, a danno del presidente ed innome di una sua responsabilità.Ciò che preoccupa tuttavia gli osservatori inter-nazionali, è la possibilità di una escalation ge-nerata accidentalmente. Innescando in tal modouna crisi che potrebbe avere ripercussioni gra-vissime sulla regione, non limitandosi ad unmero scambio di colpi ma estendendosi all’in-tero territorio della Repubblica Islamica.Procede invece in Egitto l’iter delle prime ele-zioni politiche libere. La terza fase delle ele-zioni vede in netta maggioranza nella conquistadei seggi della Camera bassa del Parlamento leforze della Fratellanza Musulmana e del partitosalafita, per un totale di circa il 63% dei seggi.I risultati ufficiali saranno diramati il 13 gen-naio, mentre la prima seduta del parlamento èfissata per il 23 gennaio. Si dovrà da quel mo-mento in poi affrontare lo spinoso tema della ri-forma della Costituzione, sul quale i movimentiislamisti – sebbene con varie sfumature –avranno certamente opinioni contrarie a quelledell’establishment militare.Si terranno invece il 22 febbraio i ballottaggiper l’elezione dei membri della Camera Alta, laShura, che ha una funzione essenzialmente con-sultiva.L’ultima fase sarà invece quella delle elezionipresidenziali, il prossimo giugno, che tuttaviadovranno tenersi solo successivamente alla pro-mulgazione della nuova costituzione. Ed è que-sto il nodo più spinoso delle prossime fasipolitiche in Egitto. Mentre i militari vorrebberouna revisione costituzionale che non toccasse illoro ruolo e le loro enormi prerogative econo-miche, la gran parte dei movimenti islamisti èorientato per un ridimensionamento sia delruolo dei militari che della figura del presidente.

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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Nonostante i timori espressi in Occidente suc-cessivamente alla caduta di Mubarak, la com-ponente maggioritaria della FratellanzaMusulmana si è dimostrata sino ad oggi ragio-nevole, moderata e politicamente attenta. Fu-gando, al momento, i dubbi circa la naturademocratica e libertaria del movimento. Sonopresenti certamente elementi radicali nella con-fraternita, espressione di posizioni più nette emeno portate al compromesso, ma è anche do-veroso segnalare come queste siano minoritarieed in alcun modo rappresentative della strutturaprimaria della Fratellanza. Diversa la questione per le forze del partito sa-lafita, certamente più radicali ed oltranziste. Inpochi ne avevano predetto un così eccezionalerisultato elettorale, e sarà adesso necessario in-tegrare ed amalgamare queste forze nell’ambitodi un sistema politico nuovo e pluralista, spin-gendo i salafiti sulla via della moderazione edell’attiva partecipazione.Resta infine delicata la situazione in Iraq, suc-cessivamente alla fuoriuscita delle forze armateamericane ed al traballante avvio della primavera nuova fase politica del paese.Nel mese di dicembre una catena di sanguinosiattentati ha provocato numerose vittime a Ba-ghdad ed in altre città minori del paese, col-pendo soprattutto le comunità sciite.Si tratta di un una nuova e poderosa azione fi-nalizzata alla disgregazione delle forze militarie di polizia del governo, per innescare una

nuova fase di caos che permetta la ridefinizionedegli equilibri così nettamente mutati successi-vamente alla caduta di Saddam Hussein.Una strategia precisa ma, si spera, di difficile at-tuazione. Soprattutto grazie alla determinazionedella nuova classe politica irachena e di una po-polazione ormai esausta dopo quasi dieci annidi conflitto interno, ed un ventennio precedentedi guerre ed isolamento internazionale.Anche la paventata “conquista” dell’Iraq daparte dei vicini iraniani, alla fine, non c’è stata.L’Iran ha aperto canali politici e soprattuttocommerciali, ma non ha avuto la forza di tra-sformare questo processo in una vera e propriastrategia di dominazione politica.Non sono mancati, anzi, i crescenti malumori inseno al parlamento iracheno per il comporta-mento dell’Iran sotto il profilo economico, ac-cusato da molti di operare politiche di dumpinga danno dell’economia irachena e del suo po-tenziale di ripresa. Soprattutto nel settore del-l’agricoltura sono stati segnalati comportamentiscorretti da parte di Tehran, al fine di imporre ipropri prodotti sul mercato iracheno, ed altempo stesso non permettendo lo sviluppo delsistema della produzione agricola in Iraq.Segno evidente di una politica di buon vicinatoche non è stata trasformata in una soggioga-zione politica ed economica di ampie propor-zioni complessive, come paventato sindall’inizio della campagna in Iraq.

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MONITORAGGIO STRATEGICO

RegioneAdriatico - Danubiana - Balcanica

Polo Quercia

uIl governo serbo contrario al referendum in Kosovo. Il presidente serbo Tadic si è detto con-trario al referendum che alcuni rappresentanti dei Serbi del Nord del Kosovo vorrebbero orga-nizzare per il 14 febbraio prossimo avente come oggetto “l’accettazione delle istituzioni dellaRepubblica del Kosovo”. Nonostante la posizione di Belgrado sia di non riconoscere l’indipen-denza del Kosovo, l’attuale governo serbo nel corso del 2011 ha portato avanti – nonostante letensioni e gli incidenti verificatisi ai valichi tra Kosovo e Serbia – una politica di appeasementtecnico con Pristina, sotto la mediazione dell’Unione Europea. Belgrado preferirebbe mantenerecongelata la situazione in Kosovo almeno fino al mese di marzo quando la UE dovrebbe pronun-ciarsi in merito allo status di candidato di Belgrado. u Il ministro degli esteri Davutoglu in visita a Teheran. Il Ministro degli esteri turco Davutoglusi è recato a Teheran per quella che è probabilmente una delle più delicate missioni diplomatichedegli ultimi tempi e che potrà avere profonde conseguenze sulla politica estera turca. Numerosi idossier che i due paesi condividono, o sono costretti a condividere, che saranno sul tavolo dellediplomazie internazionali nel 2012: dalla ripresa dei negoziati del 5 + 1 in Turchia, alla crisi si-riana, al futuro dell’Iraq dopo il ritiro americano, al dossier curdo. In particolare, quello che pre-occupa Ankara sono le possibili situazioni di interconnessione tra questi vari dossier, con ilpaventato rischio che il progressivo e costante allontanamento di Iran, Siria ed eventualmenteIraq dalla sfera di controllo geopolitico occidentale porti all’emersione di un asse sciita nell’esterovicino turco. uLa Corte internazionale di Giustizia si pronuncia sulla violazione del trattato Greco – Ma-cedone del 1995. Con una sentenza dei primi di dicembre la Corte internazionale di giustiziadell’Aja ha concluso che la Grecia ha violato l’accordo ad interim stipulato con l’ex RepubblicaIugoslava di Macedonia nel 1995 nel momento in cui si è opposta all’ammissione di questo Statonella Nato. Secondo l’accordo i due paesi si impegnavano a non opporre nessun veto all’accessodell’altro paese nelle organizzazioni internazionali. La Corte, che si è pronunciata su iniziativamacedone, dopo aver respinto le motivazioni di irricevibilità sostenute dalla Grecia, ha ricono-sciuto che il comportamento di Atene di opporsi all’accesso alla Macedonia nell’Alleanza Atlan-tica è in violazione del trattato bilaterale sottoscritto tra i due paesi nel 2005.

Eventi

uL’austriaca OMV si ritira dai Balcani. Similmente a quanto annunciato dalla Banca austriacaErste, anche la compagnia energetica OMV ha deciso di porre in vendite i propri assetti economicipresenti in Croazia e Bosnia Erzegovina costituiti prevalentemente da stazioni di distribuzione dibenzina. La quota di mercato della OMV in Croazia è del 13% mentre in Bosnia Erzegovina dicirca l’8%.

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L’anno appena conclusosi per la regione del-l’Europa Sud Orientale e balcanica ha lasciatoaperti molti dei dilemmi con cui era iniziato.Fatti salvi alcuni isolati miglioramenti, i princi-pali indicatori politici ed economici per la re-gione hanno infatti segnato la stagnazione o ilpeggioramento di alcuni importanti parametririspetto all’anno precedente. Il 2011 ha segnatoin molti casi l’anniversario del ventennio dellatransizione post comunista, ma ben pochi se-gnali vi sono che tale percorso possa essere con-siderato concluso. Inoltre nuove ed inatteserigidità politiche sono emerse, contribuendo adincrementare il livello di insicurezza nella re-gione e a minare il percorso di completamentodella transizione. Il primo indicatore che ha se-gnato un mancato miglioramento della situa-zione regionale è quello economico. Nonostanteil fatto che alcune delle economie della regioneabbiano mantenuto un tasso di crescita del PILche le previsioni delle istituzioni finanziarie in-ternazionali stimano superiore al 2%, appareevidente che il 2011 non è stato per i Balcanil’anno della ripresa economica che avrebbe con-sentito di recuperare il terreno perso nella crisieconomica del 2008 – 2009 che ha visto crollareil PIL dei paesi della regione di numerosi punti

percentuali. Il 2010 era stato un anno di sostan-ziale stagnazione economica con crescite moltoridotte, ad eccezione di quella turca ed albanese.Il 2011 non ha consentito alle economie dellaregione di riprendere il livello di crescita deiprodotti interni lordi, che prima della crisi si ag-girava attorno al 5% annuo, mentre i tassi di di-soccupazione sono peggiorati, sempre conl’eccezione albanese e turca che secondo lestime del FMI dovrebbero aver realizzato nel-l’ultimo anno un incremento della popolazionelavoratrice. Particolarmente grave è la situa-zione occupazionale in Kosovo, Macedonia,Bosnia Erzegovina, Serbia e Grecia. Per quasitutti i paesi dell’area il tasso di crescita del va-lore delle esportazioni di beni e servizi è statoinferiore a quello registrato nel 2010 mentresono continuati i trend di crescita del loro debitopubblico ad eccezione della Turchia. Un quadronon estremamente drammatico ma sicuramentenon brillante che indica come la competitivitàdelle economie dei paesi della regione resta inbuona parte bloccata da numerosi problemistrutturali e che probabilmente buona parte dellacrescita costante ed elevata delle economie dellaregione dello scorso decennio era il frutto arti-ficiale di operazioni esogene di finanziamenti,

EUROPA SUD ORIENTALE E BALCANI OCCIDENTALI: VERSO UN NUOVO ANNO DI TRANSIZIONE INCOMPIUTA

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trasferimenti ed investimenti provenienti dal-l’Unione Europea o da altre economie avanzate.Ora la crisi economica globale, le difficoltà fi-nanziarie di molti dei paesi occidentali – ed inparticolare di Italia e Grecia, due paesi moltopresenti nelle dinamiche economiche dei Bal-cani – e l’ampliarsi del numero dei paesi biso-gnosi di finanziamento dei propri debiti pubbliciriduce fortemente le strategie di investimenti etrasferimenti di capitali esteri verso la regione.Numerose sono le aziende europee di settoristrategici come quello bancario o energeticoche, con l’avanzamento della crisi, hanno clas-sificato come non vitali i propri investimentifatti negli scorsi anni nell’Europa Sud Orientalee che hanno preventivato per i prossimi anni lapossibile vendita dei propri assets balcanici.Anche la Turchia, paese che per molti anni èparso poter rappresentare un’alternativa geoe-conomica agli investimenti europei verso la re-gione balcanica sembra non essere in grado dimantenere i tassi di crescita registrati negli ul-timi anni, anche a causa delle perturbazioni geo-politiche avvenute nel proprio estero vicino acausa della primavera araba. Il prossimo annoil tasso di crescita di Ankara dovrebbe attestarsia livelli più “normali”, attorno al 2%, ben lon-tana dai valori “asiatici” registrati fino al 2011,segno che l’economia turca va probabilmenteincontro ad un surriscaldamento ed una norma-lizzazione dopo la crescita sostenuta realizzatanello scorso decennio; ma forse segno anche diuna crisi del modello geoeconomico neo-otto-mano innescata dalla contemporanea crisi eco-nomica europea e da quella politicamediorientale. Il duemiladodici si apre dunque per la regionecon un grande dilemma. Dopo vent’anni dal-l’avvio della transizione, coincisa con il dispie-garsi della crisi economica Occidentale e con lafrantumazione degli aspetti più ambiziosi delprogetto europeo, è forse finita la grande fine-

stra storica di opportunità per sviluppare econo-micamente ed integrare i paesi dell’Europa SudOrientale? I dati macroeconomici del 2011 e leprevisioni per il 2012 non lasciano spazio ad ungrande ottimismo. Ma anche una rilettura delloscorso ventennio di transizione economica perl’Europa Sud Orientale e balcanica non è parti-colarmente incoraggiante. Una generazionedopo, a vent’anni dall’inizio della transizionepolitico – economica della regione la maggiorparte dei paesi non ha ancora raggiunto i livellidi prodotto interno lordo del 1989. Solo per laTurchia, l’Albania e la Slovenia i nuovi spazi dilibertà politica ed economica creatisi dopo il1989 si sono tradotti in una crescita significativadelle rispettive capacità economiche. Particolar-mente brillanti sono risultate essere le crescitedi Turchia ed Albania. Posto 100 il valore delPIL al 1989, nel 2011 il Prodotto interno lordodella Turchia ha superato quota 240, ossia è piùche raddoppiato in venti anni. Per Tirana il PILè quasi raddoppiato raggiungendo nel 2011quota 180. Se verrà confermato l’attuale tassodi crescita che le stime del FMI prevedono simanterrà superiore al 3% nei prossimi quattroanni, l’Albania raddoppierà il PIL del 1989entro il 2015. A parte questi due casi, la maggioranza dei paesidella regione ha conosciuto nello scorso announa modesta crescita o una vera e propria ridu-zione della produzione industriale interna men-tre la ripresa delle esportazioni dopo la crisistenta a riprendersi. Di tutte le economie in tran-sizione dell’Europa Orientale, l’Europa SudOrientale e balcanica è quella che ha avuto pro-gressi economici più ridotti. Nel 2011 la mediadella crescita delle economie in transizione ri-spetto all’anno di riferimento 1989 per tuttal’area EBRD (composta da 30 paesi) è stata dicirca il 40%. Per l’Europa Sud Orientale soloTurchia e Albania sono sopra tale valore, la Slo-venia lo ha appena raggiunto mentre le econo-

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mie di tutti gli altri paesi della regione sonopoco superiori (Romania e Bulgaria), appenauguali (Croazia e Macedonia) o addirittura in-feriori (Serbia, Montenegro e Bosnia Erzego-vina) ai valori dei prodotti interni lordi di ventianni fa. La stessa sub regione dell’Europa SudOrientale ha avuto una maggiore difficoltà aduscire dalla crisi economica del biennio 2008 –2009 e la ripresa è in molti paesi inferiore aquella della media dell’area EBRD. Numerosesono le cause di tale ritardo, ad iniziare dal man-cato decollo dei mercati interni e dalla stretta di-pendenza dello sviluppo dai processi diinternazionalizzazione e divisione internazio-nale della produzione industriale. In questo con-testo – rafforzato dalle barriere internerappresentate dai numerosi ostacoli alla realiz-zazione di mercati domestici competitivi e tra-sparenti – notevole preoccupazione è rappre-sentata dal disimpegno politico ed economicodell’Europa dalla regione ed in particolare dallepiù acute crisi che hanno colpito Grecia ed Ita-lia. Il deterioramento della situazione econo-mica della regione ha probabilmenterappresentato una delle cause dei cambi di go-verno o di coalizioni governative registratisi nel2011. Al di là del caso greco, anche i cambi digoverno registratisi in Slovenia ed in Croaziasono attribuibili, tra gli altri fattori, anche allenon più rosee prospettive economiche per i duepaesi. Particolarmente significativo il caso dellaCroazia, in cui la lunga egemonia politicadell’HDZ è terminata proprio nel momento incui il paese ha ottenuto il via libera all’adesioneall’Unione Europea che vedrà Zagabria nuovopaese membro a partire dal 2013. Il quadro della stabilità/instabilità politica noncoincide invece con quello della situazione eco-nomica della regione. Nel 2011 due paesi dellaregione hanno visto una seria involuzione dellastabilità politica interna: l’Albania e la BosniaErzegovina. Per quanto riguarda Tirana il duro

confronto tra maggioranza ed opposizione havisto il paese tornare indietro di numerosi anni,ai tempi della violenza politica in piazza mentrele accuse di brogli elettorali e il ritiro dell’op-posizione dall’attività parlamentare hanno da unlato gettato ombre sulla legalità dell’esecutivoe dall’altro impedito al parlamento di adottareleggi importanti e riforme strutturali, facendoperdere al paese lo status di candidato al-l’Unione Europea. In Bosnia Erzegovina inveceil 2011 è passato senza che i partiti politici delpaese riuscissero a trovare un accordo sulla for-mazione del governo centrale e di alcuni go-verni cantonali dopo le elezioni dell’Ottobre2010. La situazione unica nel suo genere ha la-sciato il paese politicamente in stallo per oltreun anno ritardando l’adozione di quelle misureche possono consentire alla Bosnia Erzegovinadi procedere con due adesioni alla UE e allaNATO. La mancata formazione dell’esecutivocentrale ha comportato anche la perdita di al-cuni finanziamenti europei. La concessione diingressi senza visto ai cittadini della Bosnia Er-zegovina (così come a quelli albanesi) al ter-mine del 2010 aveva rappresentato un gesto difiducia verso il paese da parte della UE a cuinon ha fatto però seguito un atteggiamento co-struttivo delle sue tre leadership etniche. Laconseguenza della disfunzione politico – istitu-zionale della BiH fa si che il paese è l’unicodella regione che non ha ancora depositato lapropria richiesta di membership dell’UnioneEuropea. La situazione di stallo politico centralesi è creata in virtù di una coincidenza di interessitra la componente serba e quella croata della Fe-derazione che, per motivi differenti, hanno en-trambe trovato un interesse a contrastare leambizioni bosniacche di superamento dei mec-canismi costituzionali di Dayton al fine di co-struire un sistema paese più efficiente emaggiormente basato sui principi democraticiparlamentari rispetto ai criteri delle quote etni-

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che. Il timore di Banja Luka di perdere l’auto-nomia di entità de facto semi indipendente si ètatticamente sommato al crescente malcontentodella comunità croata di Bosnia Erzegovina peressere progressivamente relegata ad un ruolomarginale nel rapporto con la maggioranza bo-sniaca a causa della propria esiguità e continuadiminuzione demografica. Processo che è pro-seguito negli scorsi anni e che parallelamenteall’adesione della Croazia alla UE, alla politicadella doppia cittadinanza di Zagabria e al-l’emersione di partiti multietnici ha comportatouna diminuzione relativa nel peso dei croatinella Federazione rispetto ai valori del 1995quando i meccanismi di Dayton avevano con-gelato la situazione sul campo. La situazionepolitica dovrebbe tuttavia migliorare nel corsodel 2012 in funzione degli accordi politici rag-giunti sul finire dell’anno tra le forze politichedei tre popoli costitutivi il paese. Accordi chedovrebbero consentire la creazione di un go-verno centrale nei primi mesi del 2012, l’ado-zione del bilancio statale e la possibilità disbloccare fondi dell’Unione Europea e delFondo Monetario Internazionale. L’accordosulla formazione del governo della BiH è statoprodotto più dalle necessità di credito finanzia-rio del paese – che è stato declassato da B+ a Bai primi di dicembre dall’agenzia di rating Stan-dard and Poor’s a causa del peggioramento delclima politico – che dal raggiungimento di unnuovo consenso politico tra le componenti et-nico nazionali. Il capo della delegazione delFMI in BiH aveva chiaramente messo in evi-denza come il paese si sarebbe avviato ad un2012 di recessione – dopo la crescita dello 0,7%del 2011 – senza il rinnovo degli accordi di fi-nanziamento a lungo termine. Secondo l’ac-cordo, il nuovo esecutivo centrale sarà formatocon un premier croato e 9 ministri divisi se-condo la formula 4-3-2 (quattro bosniacchi, treserbi, due croati). Tra i temi che il paese dovrà

affrontare nel corso del 2012 vi è quello del fu-turo dell’ufficio dell’Alto Rappresentate dellaComunità Internazionale OHR, che alcuni paesieuropei vorrebbero chiudere nel 2012 in quantoidentificano in tale ufficio un elemento di im-pedimento alla normalizzazione della vita poli-tica del paese. In tale disegno, le funzionidell’OHR sarebbero sostituite da quelle delRappresentante Speciale dell’Unione Europea,che tuttavia non ha gli stessi ampi poteri diBonn a cui potenzialmente l’Alto Rappresen-tante può fare ricorso per “forzare” decisioni incaso di necessità. La vera questione di sicurezza esplosa nuova-mente nei Balcani nel corso del 2011 è quelladel Kosovo, innescata dagli incidenti di fron-tiera registratisi nel luglio scorso tra la popola-zione serba del Nord e le forze di polizia delKPS. Il motivo originario del contendere è ri-sultato essere l’applicazione di un embargo con-tro le merci provenienti dalla Serbia da parte delgoverno di Pristina che ha inviato forze specialidi polizia per riprendere il controllo del confineoccupato dai serbi, causando la morte di unagente del KPS. Ma la questione è divenuta unvero e proprio braccio di ferro tra serbi delNord, polizia di stato kosovara KPS, Eulex eKFOR, sulla questione del controllo dei valichidi confine e su quale sia la legittima autorità adesso preposta. Al di là degli incidenti di luglio,gli scontri e le tensioni sono proseguiti nel Ko-sovo settentrionale nei mesi seguenti e si sonoprotratti per quasi l’intero 2011 con i gruppi diserbi che hanno montato numerose barricate eposti di blocco sulle strade che conducono alNord, puntualmente rimosse dalle forze dellaNATO con numerosi incidenti che hanno visto23 soldati della KFOR feriti. La questione nordkosovara ha rappresentato nel 2011 la principalequestione di sicurezza etnica della regione, inparte calmierata dalla posizione complessiva-mente responsabile tenuta da Belgrado che nel

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2011 ha accettato di partecipare al dialogo tec-nico con Pristina sotto la mediazione del-l’Unione Europea, come parte della suastrategia di avvicinamento a Bruxelles. Nel2011, difatti, Belgrado, complice le austerità do-vute agli effetti della crisi economica, ha decisodi rimuovere i principali ostacoli all’ingressoverso l’Unione completando la consegna deiprincipali imputati per crimini di guerra Mladice Hadzic, rispettivamente comandante militaredei Serbi di Bosnia e leader politico dei serbi diCroazia. Frutto di questa atmosfera di disgelotecnico è stato anche l’accordo raggiunto a fine2011 sulla libertà di circolazione tra Serbia eKosovo che consente ai residenti di entrambi ipaesi di entrare e circolare liberamente nell’al-tro. Un passo avanti molto significativo se sitiene presente che Belgrado non riconosce l’in-dipendenza del Kosovo e pertanto finora non hariconosciuto come validi i nuovi documenti diidentità emessi da Pristina dopo l’indipendenzadel 2008. Inoltre un accordo di massima è statoraggiunto nei colloqui su come dare vita in fu-turo ad un controllo congiunto sul confine chepreveda la presenza delle forze di polizia di en-trambi i paesi così come dei funzionari interna-zionali. Nel 2012 la più grande sfida per Belgrado saràquella di stabilizzare i successi politici ottenutiverificando se i progressi politici compiuti conBruxelles nel corso del 2011 saranno sufficientia far procedere in avanti la candidatura dellaSerbia o se – come più volte accaduto in passato– alcuni paesi europei contrari all’allargamentoa Sud Est sono pronti a porre nuove condizio-nalità ogni qual volta vengono superate le pre-cedenti. Ciò è in parte accaduto nell’ultimosummit europeo di dicembre quando un bloccodi paesi guidati dalla Germania (tra cui Austria,Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e RegnoUnito) hanno deciso di rimandare al 2012un’eventuale decisione di concedere a Belgrado

lo status di paese candidato. Se la Serbia compie timidi passi verso l’ade-sione alla UE – pur sotto la continua spada diDamocle politica ereditata dagli anni novantache caratterizza il suo cammino – altri paesidella regione rimangono invece al palo. LaCommissione europea nel suo rapporto di fineanno ha espresso giudizi negativi sulla situa-zione di Albania e Bosnia Erzegovina in parti-colare e sulla posizione di stallo dellacandidatura macedone, concessa nel 2005 mabloccata dal veto politico di Atene. Il Montene-gro per il momento rimane l’unico paese ad es-sersi mosso nel 2011 (oltre alla Croazia,ovviamente) verso l’adesione alle UE, avendola Commissione raccomandato positivamentel’apertura dei negoziati con Podgorica che po-trebbero iniziare verso la metà del 2012. Ma ilpercorso di Podgorica non sarà facile in quanto,contrariamente al passato, la procedura di scree-ning dell’Unione Europea prevede ora d’ini-ziare dai capitoli più complessi ed in particolarequelli relativi al rule of law, diritti fondamentali,lotta alla corruzione e al crimine organizzato. Le incertezze nell’estensione dei benefici dellapartecipazione all’Unione Europea non riguar-dano solamente i paesi candidati ma anche ipaesi nuovi membri. Bulgaria e Romania, adesempio, nel 2011 hanno mancato a raggiungerel’accesso all’area di libera circolazione senzavisto di Schengen, inizialmente prevista per il2011. Nonostante l’adesione alla zona Schengensia più che altro un fatto tecnico relativo ad unacorretta applicazione di alcuni parametri tecnicie standard nei controlli dei confini esterni, ilfronte dei paesi contrari, anche per motivi poli-tici interni, ad un ulteriore allargamento del-l’area di libera circolazione sembra aumentarecon il passare del tempo, ed essersi ulterior-mente rafforzato in seguito alla crisi economicaeuropea.Un capitolo a parte è rappresentato dalla Tur-

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chia paese per il quale il 2011 ha rappresentatouna nuova sfida di cambiamento alla propria po-litica estera. Di tutti i paesi della regione del-l’Europa Sud Orientale la Turchia è, difatti,quello più esposto ai mutamenti politici dellaprimavera araba e che quindi ha dovuto reagireai cambiamenti politici che nel 2011 si sono re-gistrati nel Mediterraneo. Tale reazione ha por-tato all’apertura di un processo di revisionedella cosiddetta politica neo-ottomana aprendouna fase più contraddittoria della propria po-stura internazionale che vede Ankara costrettaa bilanciarsi tra il supporto agli Stati ad essa vi-cini e il sostegno alle opposizioni interne – inparticolare se islamiste – per non perdere il con-trollo del regime change nella regione a favoredi qualche intraprendente ex paese coloniale oin favore di paesi arabi del golfo. La questionedella ristrutturazione della politica estera neo-ottomana alle prese con gli imprevisti esiti dellaprimavera araba, che ora vede Ankara difficil-mente coinvolta nel complesso dossier siriano,potrebbe nel 2012 produrre un progressivo ral-lentamento della presenza politica ed econo-mica della Turchia nei Balcani, specialmente sedovesse rafforzarsi il contenzioso con la UE acausa della rinnovata ostilità con Cipro. Difatti,una delle nuove questioni che attendono la Tur-chia nel 2012 è rappresentata dal rapporto cheAnkara terrà nei confronti di Cipro quando nelsecondo semestre dell’anno assumerà la presi-denza di turno dell’Unione. Ankara ha già pre-annunciato che congelerà i rapporti conl’Unione Europea durante la presidenza di turno

di Cipro, a causa del contenzioso avviatosi nel2011 sulle esplorazioni di idrocarburi nelleacque del Mediterraneo Orientale. Ankara vor-rebbe che tali esplorazioni fossero rimandateposteriormente ad un’eventuale accordo sullariunificazione dell’isola, ma Cipro non vuole af-fatto collegare i due dossier ed anzi coglie l’oc-casione della linea dura di Ankara per isolareulteriormente la Turchia e far fallire i blandi ten-tativi di riunificazione della Repubblica con laTRNC. La crisi con Cipro rischia di ripercuo-tersi anche nei Balcani. Difatti Ankara ha mi-nacciato di ritirare tutti i suoi soldati dispiegatinella regione nel caso in cui la Danimarca, pre-sidente di turno nel primo semestre dell’annodella UE, dovesse decidere di devolvere allasuccessiva presidenza cipriota alcune funzionirelative all’Agenzia per la Difesa Europea di cuila Danimarca non fa parte. Il 2012 per Ankararappresenta un anno di grandi sfide geopolitichee al tempo stesso un passaggio chiave nella suaazione di rigenerazione e ripensamento dellapropria politica estera. La conflittualità conCipro non accennerà a diminuire, anzi potrebbeaumentare proprio in concomitanza con l’assun-zione della presidenza UE da parte di Nicosia.Ciò potrà essere ulteriormente accentuato qua-lora dovesse continuare anche nel 2012 la pole-mica tra Francia e Turchia sull’adesione diAnkara alla UE, ulteriormente esacerbata dallaintenzione del Senato francese di adottare unalegge sui reati di opinione che include la nega-zione del genocidio armento come reato penal-mente punibile nel paese.

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MONITORAGGIO STRATEGICO

Comunità Stati indipendentiEuropa Orientale

Andrea Grazioso

►Con una dichiarazione intesa a fornire una ricostruzione storica “ufficiale” degli eventi, il Mi-nistero degli Esteri russo ha descritto l’annessione dei Paesi baltici – avvenuta fra il 1939 ed il1940 – come una ineludibile necessità militare per l’Unione Sovietica, dovendo essa evitare chetali territori potessero essere usati da potenze ostili. Stessa ricostruzione è stata data in meritoall’occupazione della Bessarabia, nel 1940. In tale caso, il Ministero degli Esteri di Mosca hadescritto tale regione come “storicamente russa”, facendo riferimento ai caratteri etnici e nongeografici o politici. Queste dichiarazioni non possono non essere lette in relazione all’attualeconfronto verbale e politico che vede la Russia stigmatizzare fortemente la presente crescita dellecapacità militari della NATO in regioni prossime ai propri confini. I Ministeri degli Esteri dellaLituania e dell’Estonia hanno replicato a tali dichiarazioni, definendole irricevibili e storicamenteinfondate, ma evitando di citare il termine “occupazione” nei loro comunicati.►Dopo una pausa durata quattro anni, i Paesi della NATO hanno infine deciso di sospendereil rispetto delle clausole previste dal Trattato CFE, relativamente agli obblighi di notifica dellacondotta di grandi esercitazioni o lo spostamento di forze, nei confronti della Russia. Ciò, in virtùdella analoga misura di sospensione del rispetto di tali obblighi attuata dalla Russia fin dal 2007,e malgrado durante questi anni l’Alleanza Atlantica abbia ripetutamente proposto a Mosca di ri-pristinare tale previsioni. Dopo pochi giorni, anche la Georgia ha seguito i Paesi della NATO,sospendendo le comunicazioni verso la Russia.

Eventi

UNA NUOVA STAGIONE POLITICA

L’anno appena concluso sarà probabilmenteconsiderato come particolarmente significativo,in termini di cambiamento nello stato e nelletendenze politiche, economiche e militari nel-l’area in esame.

Apparentemente non si sono registrate sostan-ziali trasformazioni del quadro geopolitico egeo-strategico, quanto piuttosto la prosecuzionedelle tendenze in atto già da alcuni anni.Nondimeno, ciò ha portato a maturazione una

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serie di fenomeni che nel corso del 2011 hanno,appunto, raggiunto un nuovo stadio, compor-tando un nuovo equilibrio.L’area geografica comprendente l’Europaorientale, la Russia e le Repubbliche centroasiatiche, presa nel suo complesso, continua adessere caratterizzata da instabilità economica,prodotta sia da fenomeni finanziari e monetari– in particolare nei Paesi dell’area Euro – siadalla incompleta maturazione delle economietransitate al sistema capitalistico nel corsodegli ultimi venti anni, cioè dalla implosionedell’Unione Sovietica.Complessivamente, però, l’area registra tassi dicrescita economica superiore alla media euro-pea, e superiore all’area “occidentale” o“euro-atlantica”. Ciò può essere un fenomenotransitorio, ma nondimeno costituisce una no-vità storica che, in una certa misura, determinaun ri-equilibrio nelle relazioni con la parte piùindustrializzata e terziarizzata dell’Occidente.Tuttavia, questo stato di cose presenta anche deipotenziali aspetti di nuova vulnerabilità politicaper molti dei Paesi della regione. Con unaUnione Europea ripiegata su sé stessa e con gliStati Uniti altrettanto concentrati sulla politica“domestica”, alcuni Paesi dell’Est Europa, delCaucaso meridionale o del Centro Asia, pur go-dendo inaspettatamente di tassi di sviluppo re-lativamente elevati, sanno di non poter contaresull’attenzione dei loro alleati occidentali, al-meno per alcuni anni a venire.Ecco perché nel 2011 – ma la tendenza prose-guirà certamente nel 2012 – i fattori “esogeni”saranno più bilanciati da quelli “endogeni”alla regione; sarà necessario, quindi, capiremeglio come evolvono le dinamiche interneall’area in esame, perché gli attori esterniavranno minori capacità di penetrazione e in-fluenza.In prima battuta, questo nuovo stato di cose la-scerebbe prevedere una crescita del peso stra-

tegico della Russia, oggettivamente il “domi-nus” regionale in termini militari e (in misuraminore) economici. Ciò è, infatti, quanto sta av-venendo, almeno in alcuni ambiti.D’altra parte, la Russia stessa è alle prese confenomeni politici e sociali i quali, pur essendocatalogabili certamente come “domestici”,nondimeno risentono della trasformazione cul-turale e “tecnologica” che ha ormai raggiuntoanche la classe media russa, sull’onda lunga diquanto avvenuto in Occidente un decennio fa.Inoltre, l’interazione della Russia con il “si-stema internazionale”, sebbene più conflittualeche cooperativa, determina comunque effettisulla politica estera di Mosca, anche in terminidi relazioni con il cosiddetto “estero vicino”, ocon quello che i Russi vorrebbero che fosse an-cora tale, malgrado il diverso orientamento dimolti Paesi ex-sovietici.Ucraina e Belarus proseguono nel loro per-corso ondivago, oscillando la prima fra aspira-zioni di integrazione in Europa e voglia diconservatorismo politico, muovendosi la se-conda fra “nazionalismo autistico” e cedimentialle esigenze strategiche russe di consolida-mento della propria frontiera occidentale.Il Governo di Kiev, dopo una breve luna dimiele con l’Occidente, ha assunto un atteggia-mento di chiusura verso ogni prospettiva di mo-dernizzazione politica, tanto da rifugiarsi in unasoluzione “giustizialista” per eliminare dallascena l’avversario politico più temibile. Così fa-cendo, potrebbe essersi garantito la sopravvi-venza per alcuni anni, e magari averdisinnescato il rischio immediato di una nuova“rivoluzione arancione” capeggiata dallastessa leader del 2004. Ma potrebbe aver ancheposto le premesse per una più forte e intransi-gente opposizione, interna e soprattutto esterna,al proprio operato. La Timoshenko, che godevaormai di favori declinanti in Europa e negliStati Uniti per i suoi dubbi affari personali, oggi

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è divenuta quasi una martire del nuovo autori-tarismo ucraino, e potrebbe nel tempo coagu-lare attorno alla sua figura un movimento diopinione trans-nazionale che certamente sfug-girebbe alla capacità di controllo del Governo.La Belarus di Lukashenko, invece, pur in pre-senza di un trend economico non particolar-mente negativo, non accenna ad uscire dallastagnazione sociale e politica. Alcuni potreb-bero associare i caratteri estetici di tale regimeall’ultima Germania Democratica, la DDR diHoneker, guardia di frontiera e perciò paladinadi un sistema che potrebbe crollare tutto attorno– in tal caso nella stessa Russia – prima cheall’interno del Paese.Nel Caucaso meridionale, la Georgia rimane ilPaese più instabile, perché crocevia di interessigeo-economici e geo-strategici. In Georgia sisostanzia in buona misura ciò che la NATO, epiù di recente l’Unione Europea, teorizzanosotto l’ampia categoria di “energy security”. Altempo stesso, è il punto dove la contrapposi-zione militare fra la Russia e uno dei più strettipartner degli Stati Uniti e della NATO è piùesplicita, tanto da rappresentare uno dei motividi attrito indiretto più forti fra Mosca e Bruxel-les. La novità degli ultimi mesi è rappresentatadalla comparsa di un nuovo, fortissimo candi-dato alla guida politica del Paese, Bidzina Iva-nishvili. Fortissimo in virtù del suo patrimoniopersonale, misurabile in miliardi di dollari e sti-mato dai più pari alla metà del Prodotto InternoLordo della Georgia. Ricchezza, però, costruitae, soprattutto, conservata, in Russia, cioè nelPaese del quale Ivanishvili è anche cittadino.Così la sua doppia cittadinanza lo ha – per ora– formalmente escluso dalla partecipazioneesplicita alla contesa politica; si tratta, però, diun ostacolo che non potrà impedire al miliar-dario di influire molto pesantemente sulle ele-zioni politiche del 2012, e poi anche sullepresidenziali che dovranno indicare il succes-

sore di Saakashvili. Ovvio che il percorso diforte avvicinamento della Georgia all’Occi-dente sarebbe messo in forse dalla nuova lea-dership – se non altro per proteggere le suefortune personali da ritorsioni di Mosca – e conesso l’insieme degli interessi strategici chel’Occidente intende preservare grazie ad unaleadership amica nel Paese.Per contro, Mosca potrebbe ridurre di molto imotivi di attrito con gli Stati Uniti e la NATOproprio grazie ad un “accordo consensuale”con Tbilisi su molte questioni chiave che divi-dono i due Paesi. Qualcosa del genere è già ac-caduto, proprio di recente, con il consensogeorgiano all’adesione della Russia al WTO.Ciò potrebbe forse preludere ad un diverso at-teggiamento che alcune cancellerie occidentalisarebbero pronte ad abbracciare, se la crisieconomica dovesse indurre alla ricerca di ac-cordi con Mosca vantaggiosi in termini econo-mici, anche se a discapito di altre dimensioninelle relazioni bilaterali.In Centro Asia, fattori esogeni ed endogeni sibilanciano quasi perfettamente, determinandouna evoluzione particolarmente lenta del qua-dro complessivo. La Russia continua nel tenta-tivo di riportare sotto controllo la regione,attraverso accordi bilaterali e mediante il pro-gressivo ispessimento dei vincoli esistenti a li-vello multilaterale. Formalmente, sia lerelazioni economiche, sia quelle strategico-mi-litari, divengono più profonde, da ultimo conl’accordo (formale) di adottare decisioni collet-tive – e quindi soggette a veto di una delle parti– in tema di presenza militare di Paesi terzinella regione. Si tratta di un principio che,nell’auspicio di Mosca, porterebbe al veto russoverso ogni nuova presenza militare statunitense– ma anche indiana o magari cinese – nelle Re-pubbliche ex-sovietiche. Però è poco verosimileche tale principio sia infine accolto nella suaintegralità, giacché determinerebbe potenzial-

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mente delle limitazioni anche agli accordi bila-terali fra Mosca e i Governi locali.Soprattutto, l’elemento esogeno per eccellenza– ovvero la guerra in Afghanistan – vincola laRussia e gli alleati locali ad un atteggiamentopragmatico e realista; se gli Stati Uniti e laNATO dovessero abbandonare la regionetroppo presto, i primi a subirne le conseguenzesarebbero i Paesi del Centro Asia, e poi a ruotala stessa Russia, per le migrazioni invasive emagari le infiltrazioni terroristiche. Inoltre,l’instabilità delle relazioni fra Stati Uniti e Pa-kistan ha determinato un’ulteriore crescitadell’importanza del cosiddetto “Northern Di-stribution Network”, in pratica l’insieme di vielogistiche che raggiungono l’Afghanistan dalnord, alimentando lo sforzo bellico internazio-nale. Per alcuni anni ancora, quindi, la regionedel Centro Asia “dovrà” rimanere in equilibrio,e questo non già per l’assenza di elementi di in-stabilità – che sono anzi molteplici – ma per esi-genze geopolitiche più grandi e compellenti.

La politica interna russa sembra in movi-mentoAnche in Russia il 2011 è stato un anno impor-tante, ed anche in tal caso più per la maturazionedi fenomeni da tempo in via di sviluppo che nonper l’apparire di nuove tendenze. La novità più significativa è certamente l’appa-rente risveglio della partecipazione popolarealla vita politica del Paese; il consenso godutoda Putin e dal Partito Russia Unita, infatti, hacelato per anni la disaffezione o quantomeno ildisinteresse della maggioranza dei Russi versogli accadimenti politici. Ciò è verosimil mentestato determinato anche dal sostanziale benes-sere che ha raggiunto – quasi inaspettatamentedopo i crack finanziari della fine degli anni No-vanta – una larga parte della classe media.L’elettorato, apparentemente appagato dei posi-tivi trend economici, ha confermato anno dopo

anno un consenso distratto a Putin, Medvedeve gli altri componenti del gruppo di potere af-fermatosi ormai oltre dieci anni orsono.Ma più di recente sono cominciati ad affioraresintomi, progressivamente sempre più evidenti,di stanchezza verso “il sistema” al potere. Que-sta tendenza si è manifestata, inizialmente, conil diffondersi di posizioni nazionaliste e radicalifra la gioventù ed alcune fasce emarginate. Il ca-rattere spesso anarcoide di tali frange estremeha fatto sì che tale fenomeno non sia stato cata-logato propriamente quale forma di opposizionepolitica, quanto di emarginazione o protesta so-ciale.Nondimeno, questa forma di opposizione si èampliata, portando infine in piazza diverse mi-gliaia di manifestanti, in numerose occasioni nelcorso di tutto l’anno; soprattutto, poi, si è ma-nifestata attraverso scontri violenti, con le Forzedell’ordine o con gruppi – altrettanto radicaliz-zati – di “immigrati”, ovvero cittadini della Fe-derazione, non di etnia russa ma trasferitisi aMosca e in altri grandi centri urbani tradizional-mente e storicamente russo-etnici.Nel corso dei mesi, da queste manifestazionianarcoidi sono filtrate le prime posizioni “poli-tiche”, incentrate principalmente sulla richiestadi una radicale revisione della politica adottataverso il Caucaso settentrionale e le popolazioninon-russe, fino a giungere alla richiesta di“espulsione” – una sorta di secessione al con-trario – dell’intera regione del Caucaso dalla Fe-derazione, nonché la deportazione dei“Caucasici” in tale nuova entità indipendente.In sostanza, una sostanziale opposizione nonsolo all’approccio ufficiale del Governo versoil problema del Caucaso, ma anche un’esplicitaminaccia “politica” ad uno dei punti forti dellafigura di Putin, il quale conquistò cuori e mentidei Russi proprio riportando sotto controllo –almeno in apparenza – la Cecenia e poi le altreRepubbliche caucasiche.

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Ebbene, questo progressivo ampliarsi delle pro-teste “radicali” e nazionaliste ha assunto un pro-filo politico interamente nuovo nel momento incui si è unita alla protesta verso “il regime”anche una nuova componente, affatto radicale onazionalista, bensì liberale e modernista, unacomponente che, in tutta evidenza, non trovavae non trova in Parlamento alcun Partito in gradodi dare rappresentanza a tale posizione.In effetti, come detto, la “classe media” russa èmolto cresciuta economicamente negli ultimidieci anni, e non deve pertanto sorprendere sealmeno una parte di essa abbia assorbito idee eposizioni “post-moderne”, di critica al potere edi impegno sociale, tipiche delle società occi-dentali.Complice la rivoluzione dei media – i socialnetworks in primis – le due componenti di que-sta “nuova opposizione” hanno condiviso glispazi fisici – cioè le piazze – e quelli mediatici,tanto da mettere in seria difficoltà Governo ePartito di maggioranza.Poi, ad inizio dicembre, è giunta la sonora scon-fitta del Partito Russia Unita, che rimane ancoraal potere e capace di sostenere da solo il Go-verno, ma solo con un margine ristretto di voti.Subito le proteste di piazza hanno ripreso vi-gore, portando decine di migliaia di attivisti instrada a reclamare l’annullamento del voto, con-siderato irregolare. E rapidamente è giuntaanche la bordata di critiche da diversi Governioccidentali, a cominciare da quello Statunitense,verso l’operato poco trasparente delle Autorità.Questi due elementi hanno fatto suonare più diun semplice campanello d’allarme al Cremlino,perché si ha la netta percezione del rischio im-minente rappresentato da elezioni presidenziali– programmate per la prossima primavera –macchiate da violenze e repressioni, con la con-seguente delegittimazione anche internazionale,del candidato – quasi sicuramente vittorioso –Putin.

Ma questo fenomeno sostanzialmente nuovodelle proteste di piazza – piccole se paragonatea quelle che precedettero il crollo dell’URSS,ma pur sempre le più ampie dai tempi di Putin– ha scoperto anche una inaspettata compattezzadi tutto “l’arco parlamentare” nel rigettare talefenomeno come estraneo, per non dire esplici-tamente “straniero”. Così, sia i Comunisti sia i“LiberalDemocratici” ultranazionalisti hannocondiviso la posizione di Putin, secondo il qualesono Governi e Servizi di intelligence stranieria finanziare e fomentare i disordini. Inoltre, èda rimarcare come né la compone n te nazionali-sta (di piazza), né quella liberale abbiano finorapreso posizione critica verso la politica esterarussa, o l’allineamento del Paese nel sistema in-ternazionale. I temi della protesta sono altri, es-senzialmente di ordine interno – corruzione,violenza etnica e politica, povertà – e ciò lasciaimmaginare che semmai tale nuova opposizionedovesse un giorno divenire parte del sistema dipotere, non per questo la Russia assumerebbeuna postura internazionale differente da quellaadottata con Putin.

La politica estera e di difesaA tal proposito, il 2011 ha segnato anche nel set-tore della politica estera un ulteriore avanza-mento lungo un percorso già tracciato nelrecente passato. Putin e Medvedev hanno ulte-riormente spinto la re-integrazione economicain almeno parte dell’ex Unione Sovietica, me-diante il consolidamento dei progetti relativiall’Unione doganale ed alla futura ComunitàEconomica dell’Eurasia.In tali settori, i progressi ci sono stati, in terminidi effettivo raggiungimento degli obiettivi pre-posti, ma il numero di partner della Russia inquesto grande progetto geo-economico rimanepiuttosto ridotto. L’Ucraina, in particolare, restaancora fuori da tale “comunità”, con ciò mi-nando alla base le prospettive di un effettivo

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successo del disegno putiniano.Grande rilevanza ha, invece, la conclusione dellunghissimo negoziato che porta la Russia al-l’interno dell’Organizzazione Mondiale delCommercio (WTO). Dopo 17 anni di negoziati,infatti, alla fine di ottobre l’ostacolo principaleall’ingresso della Russia nell’Organizzazione –ovvero l’opposizione della Georgia – è stato in-fine superato. Di certo hanno pesato le fortipressioni su Tbilisi provenienti da Washingtone Bruxelles: sia gli Stati Uniti, sia l’Unione Eu-ropea, infatti, potranno beneficiare del nuovostatus della Russia. Si prevedono, ad esempio,forti incrementi nelle esportazioni di velivolicommerciali, la drastica riduzione degli onericonnessi con il sorvolo del territorio russo perle rotte dirette in estremo oriente, una sostan-ziale semplificazione nell’accesso al sempre piùampio mercato interno russo di beni di con-sumo. Naturalmente anche la Russia otterrà si-gnificativi vantaggi, quali in particolare lapossibilità di incrementare sostanzialmentel’esportazione di acciaio e prodotti semilavoratinell’Unione Europea.Non può escludersi, peraltro, che l’assenso ge-orgiano – tutti i Membri del WTO hanno dirittodi veto all’ingresso di nuovi Stati nell’Organiz-zazione – sia stato ottenuto in cambio di nuoviaiuti militari a Tbilisi, cioè nuove forniture daparte degli Stati Uniti.Anche in campo militare, la Russia ha intensi-ficato gli sforzi per ricostituire una apparato cre-dibile e capace, almeno formalmente, dicompetere con quello statunitense. Sono cre-sciuti ulteriormente gli investimenti per nuovisistemi ed è cresciuta anche l’aggressività conla quale sono condotte le periodiche esercita-zioni, nell’Ovest, nel Centro e nell’Est delPaese.Altrettanto vibrante è la retorica utilizzata daileader politici e militari russi nel criticare le mi-sure adottate dalla NATO e dagli Stati Uniti. La

questione della difesa missilistica rimane al cen-tro del contenzioso, anche se è ormai palese pertutte le parti che non si potrà mai giungere adun reale compromesso, ovvero la effettiva coo-perazione NATO-Russia in questo settore.Ecco perché la Russia ha definitivamente rottogli indugi, dichiarando formalmente – e perbocca del Presidente Medvedev – l’intendi-mento di schierare armi “offensive” capaci didistruggere le istallazioni antimissile in Europa.Ma anche la NATO, o più esattamente tutti iMembri dell’Alleanza, singolarmente presi main maniera coordinata fra loro, ha ormai presoatto formalmente del nuovo stato di cose, in ter-mini di relazioni militari con la Russia. Così,dopo anni di sospensione unilaterale del rispettodelle clausole del Trattato CFE da parte diMosca, ora anche i Paesi della NATO hanno in-terrotto tali procedure, pur mantenendo formal-mente in vigore i propri obblighi nei confrontidegli altri Stati parte.Con questo, si chiude un ciclo storico, apertosiall’indomani della caduta del Muro e dell’im-plosione sovietica. Un ciclo che ha visto unaforte diminuzione del rischio di conflitto sulContinente europeo, e l’affermarsi di un princi-pio di “sicurezza condivisa” capace di rivolu-zionare il sistema delle relazioni internazionali,quantomeno in questa regione del mondo.Con gli accadimenti del 2011, questa fase ègiunta al termine e si apre necessariamente unciclo nuovo, i cui tratti sono già emersi negli ul-timi anni. La Russia giocherà in forma “compe-titiva”, più che “cooperativa”, in tutti i settoridelle relazioni internazionali. Gli strumenti tra-dizionali del potere dello Stato – diplomazia, in-formazioni, forza militare, economia – sarannoal servizio di una leadership a volte spregiudi-cata, anche se indebolita dalle crescenti tensioniinterne. E questo ultimo fattore potrebbe rappre-sentare un nuovo rischio, anche nelle relazioniinternazionali, più che una nuova opportunità.

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Relazioni Transatlantiche

Lucio Martino

►Dicembre non è stato un mese privo di eventi di rilievo nell’ambito di quell’insieme di Stati eorganizzazioni che costituiscono la Comunità Transatlantica. Tuttavia, l’evento che in misura an-cora maggiore di cose pure rilevanti – come il veto posto dal Regno Unito in occasione dell’ultimovertice europeo – sembra destinato a influenzare più profondamente gli umori politici dei prossimimesi, è soprattutto il fallimento del “supercommittee” nominato dal Congresso degli Stati Unitinel tentativo di raggiungere un accordo bipartitico su come implementare un’ormai inevitabileserie di tagli draconiani al bilancio federale.

Eventi

PRIME CONSIDERAZIONI ALLA VIGILIA DELLE PRESIDENZIALI 2012

Retrospettivamente doveva sembrare evidentefin dall’inizio che un comitato di sei repubbli-cani e di sei democratici, incaricato di lavorarea porte chiuse per un periodo relativamentebreve non poteva rivelarsi uno strumento effi-cace per modificare i dispositivi di legge allabase del sistema fiscale e del sistema sanitariostatunitense. I componenti repubblicani del “su-percommittee” hanno ripetutamente chiestoalla propria controparte democratica se fossestata disposta ad abolire la legge sull’assistenzasanitaria voluta dal presidente Obama e seavrebbe mai accettato di elevare l’età minimadi eleggibilità per il programma Medicare finoa 67 anni. A loro volta, i Democratici hanno piùvolte chiesto ai Repubblicani di rinunciare al-

l’unico collante che ha tenuto insieme il loropartito nell’ultimo decennio: la strenua opposi-zione a qualsiasi aumento della pressione fi-scale. Tuttavia, i dodici membri del comitatobipartitico non sono riusciti a concordare ne-anche una sola misura su come ridurre un de-bito federale ormai dell’ordine dei quindicitrilioni di dollari.

Ovviamente tutte e due le parti hanno attribuitoall’altra la responsabilità del fallimento. In ef-fetti, il divario era così grande che ogni seriotentativo di colmarlo avrebbe richiesto tempinotevolmente più lunghi, non potendo prescin-dere dalla persuasione delle rispettive basi po-litiche sull’opportunità di un grande baratto

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nell’ambito del quale dar via un qualche au-mento delle tasse per una parziale riduzione delsistema sanitario. Inoltre, le possibilità di suc-cesso del “supercommittee” erano relativamentebasse anche perché nulla imponeva come indi-spensabile un’effettiva azione immediata, aparte il rischio di un nuovo declassamento deititoli di Stato e, quindi, di un conseguente au-mento del debito pubblico. La vera scadenzacon la quale l’intero sistema politico statuni-tense sa di dover fare i conti è ancora lontanaperché in mancanza di un sempre possibilenuovo intervento del Congresso, la riduzionedel deficit di 1,2 trilioni di dollari decisa per iprossimi dieci anni sarà implementata solo dalgennaio del 2013. Nel caso, sarà il bilancio dellaDifesa a risentirne in maggior misura, posto chene dovrà assorbire quasi la metà: qualcosa come600 miliardi di dollari.I membri del “supercommittee” sapevano cosìfin troppo bene che il proprio fallimento nonavrebbe condotto ad alcuna seria e immediataconseguenza, mentre con l’approssimarsi di unanuova grande tornata elettorale, nessuna delledue parti percepiva l’utilità di un accordo. Ilfatto è che i Repubblicani credevano e credonodi potersi ritrovare nel giro di un anno in con-trollo dell’intero governo federale, vale a diredi Camera, Senato e Casa Bianca, e non vedonoragioni in nome delle quali accettare anche unpiccolo aumento dell’imposizione fiscale. Daparte loro i Democratici sembrano convinti cheanche solo un ridimensionamento del pro-gramma Medicare finirebbe con il compromet-terne le possibilità di difendere la Casa Bianca,di mantenere la maggioranza al Senato e di con-quistare la Camera. In questo particolare mo-mento, almeno nella valutazione di mag-gioranza, per i Repubblicani trovare un compro-messo con i Democratici è inutile e per i Demo-cratici trovare un compromesso con iRepubblicani è rischioso. Tenendo anche solo

parzialmente conto di questi fattori, sorprendeche il “supercommittee” si sia mai effettiva-mente riunito. Eppure, entro la metà di novem-bre tutte e due le parti avevano completatoalmeno tre cicli di proposte e di controproposte.I Democratici hanno offerto la possibilità di ta-gliare i costi di Medicare in misura anche signi-ficativa, sempre a condizione di un altrettantosignificativo aumento delle entrate fiscali. I Re-pubblicani si sono ripromessi di accettare un au-mento della pressione fiscale, ma solo acondizione che i grandi tagli decisi al tempodell’amministrazione Bush divengano perma-nenti. E questo mentre il presidente Obama haannunciato l’intenzione di porre il veto su qual-siasi progetto di legge volto a ridurre l’entitàdalla spesa pubblica, anche perché nonostante itagli, il livello della spesa pubblica per il 2013sembra destinato ad attestarsi a un livello supe-riore di oltre il trenta per cento di quello stabilitonelle proiezioni del 2007. L’unico vero risultatoraggiunto dal “supercommittee” è stato cosìquello di rimettere in aperta discussione le que-stioni più importanti per l’uno e per l’altro par-tito, con l’effetto di elevare ancora il grado dipolarizzazione dell’intero sistema politico sta-tunitense alla vigilia di una nuova stagione elet-torale. Ora, per quanto buona parte dellastrategia fin qui seguita dai Repubblicani sispiega solo nella convinzione di poter vincerele prossime elezioni, la successione di eventiprevista per i prossimi mesi sembra favorire iDemocratici. In tale direzione concorrono al-meno due processi.

Due processi politici sembrano favorire i de-mocraticiIl primo è che a meno di un accordo in grado diprodurre un’adeguata maggioranza in tutte edue i rami del Congresso, il taglio alle entratefiscali deciso dall’amministrazione Bush è de-stinato a decadere entro la fine del 2012. Seb-

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bene il presidente Obama, e buona parte dellarappresentanza democratica al Congresso, nondesideri affatto la semplice fine dell’intero pac-chetto di riduzioni fiscali, in quanto ha l’effettodi proteggere una parte importante della propriabase politica, ovvero i nuclei familiari dal red-dito annuo inferiore a un quarto di milione didollari, i Democratici non sembrano così preoc-cupati da questa possibilità come invece sem-brano esserlo i Repubblicani. Il secondo è chela prospettiva della serie di riduzioni automati-che del deficit federale, non risparmiando nep-pure il bilancio della Difesa che i Repubblicanivorrebbero in aumento, è molto più dolorosa perloro che per i Democratici. In questo quadro, senei prossimi mesi dovesse mai farsi strada al Se-nato un provvedimento volto a ridurre in modoanche molto parziale il deficit federale, spette-rebbe alla maggioranza repubblicana alla Ca-mera la responsabilità tanto di approvarloquanto di bloccarlo, uno sviluppo nell’un casocome nell’altro pericoloso, poste le dinamichedella presente stagione elettorale, Se il Pentagono non nasconde forti preoccupa-zioni sul possibile esito dei tagli sull’intero edi-ficio della sicurezza nazionale, una grandeporzione dell’elettorato democratico non èmeno preoccupata dall’effetto che gli stessiavranno sul programma Medicare. Eppure, sein un modo o nell’altro il deficit pubblico nonsarà ridotto, nel lungo termine sono in molti acredere che l’andamento dell’economia statuni-tense potrebbe ritrovarsi a rispecchiare quellodi alcuni paesi europei, quali l’Italia, la Greciae la Spagna, tanto da rendere il ricorso alle piùclassiche politiche inflattive l’unico rimedio percontrastare l’avvento di una forte recessioneeconomica. Nel frattempo, per quanto riguardail breve periodo, il notevolmente pubblicizzatofallimento del “supercommittee” ha contribuitoa porre la politica fiscale al centro delle elezionipresidenziali fissate per il prossimo 6 novembre.

Tuttavia è bene tener presente che per buonaparte dell’opinione pubblica statunitense la po-litica fiscale è un concetto astratto, dibattuto acolpi di percentuali da ermetici economisti dipartito. È un qualcosa anche molto lontanodall’esigenza di far quadrare il pranzo con lacena, pagare l’affitto e rendere il sistema edu-cativo più accessibile per il ceto medio.Per vincere le elezioni serve così un messaggiochiaro e semplice, la cui ricerca costringe glielettori a scegliere tra due posizioni simbolica-mente molto lontane l’una dall’altra, vale a diretra quella di un presidente intenzionato a tassareduramente milionari e miliardari, per proteggerei beneficiari dei programmi di assistenza pub-blica, e quella di un candidato repubblicano de-terminato a restringere notevolmente ledimensioni e le capacità del governo federale,al fine di rilanciare la crescita economica. Que-ste circostanze sembrano garantire le condizionimigliori per il diffondersi di un forte sentimentodi distacco nei confronti delle tradizionali rap-presentanze che potrebbe favorire l’improvvisoemergere di nuovi soggetti politici tanto che èancora insolitamente presto anche solo per ten-tare una previsione non solo del risultato delleelezioni presidenziali, ma anche dell’esito delleprimarie repubblicane. Per ora, i tempi sem-brano maturi solo per tracciare le principali ca-ratteristiche del processo che produrrà il nomedel candidato repubblicano alla Casa Bianca.

Il nuovo meccanismo elettorale repubblicanoLa prima di queste caratteristiche è costituitadalla durata, quest’anno insolitamente lunga,delle elezioni primarie repubblicane. Dopo unafase preliminare vecchia già di molti mesi, ilprocesso di selezione delle candidature repub-blicane è destinato a coprire l’intera prima metàdell’anno, per concludersi il prossimo 26 giugnonello Utah. Per la nomina ufficiale dello sfi-dante repubblicano si dovrà comunque atten-

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dere ancora, perché tale nomina sarà ufficializ-zata quasi esattamente due mesi dopo la finedelle primarie, in occasione della convenzionedel partito prevista per il 26 agosto a TampaBay, in Florida. La durata delle elezioni prima-rie repubblicane non è l’unico elemento cherende oggettivamente difficile stabilire l’identitàdel candidato destinato a sfidare un presidentein carica che invece riceverà la sua investituraufficiale direttamente alla convenzione del suopartito, prevista per il 3 settembre a Charlotte,in Carolina del Nord.Il secondo elemento che accresce di molto il li-vello d’incertezza delle presenti elezioni prima-rie è costituito dalle regole decise lo scorso annodal partito repubblicano, regole che in buonaparte ricalcano quelle alla base dell’estenuantepercorso elettorale democratico del 2008. In ra-gione di queste nuove regole, a tutti gli Stati cheindicono elezioni prima del primo di aprile èstato chiesto di assegnare sempre i propri dele-gati in modo da rispecchiare direttamente leproporzioni di voto, invece che, come in pas-sato, lasciare aperta la possibilità di attribuirlitutti al semplice vincitore della maggioranza re-lativa. Inoltre, il nuovo meccanismo elettoraleimpedisce di porre in palio più di 1.277 delegatinelle tornate elettorali che precedono la data delprimo di aprile. L’obiettivo è rendere impossi-bile la rapida conquista dei 1.145 delegati ne-cessari per assicurarsi la vittoria allaconvenzione di agosto e prolungare nel tempol’interesse dell’opinione pubblica sull’esito diquesto particolare processo di selezione politica.La questione è resa ancora più complicata dalfatto che le nuove regole non sono completa-mente chiare per tutti, tanto che la Florida, no-nostante abbia fissato le proprie elezioni a finegennaio, continua a insistere nel suo rifiuto diassegnare secondo il nuovo meccanismo pro-porzionale tutti i propri delegati. La ricerca diun accordo potrebbe trascinarsi per mesi e po-

trebbe condurre prima all’annullamento dellapartecipazione dei delegati della Florida allaconvenzione di Tampa Bay e poi a un’infinitaserie di controversie legali.

Ai Repubblicani manca un vero “frontrun-ner”Come se l’impatto delle nuove regole non fossegià consistente, la situazione è ulteriormentecomplicata dalla mancanza quest’anno di unvero e proprio “frontrunner”. I sondaggi effet-tuati su scala nazionale dipingono da mesi unquadro nel quale i principali candidati repubbli-cani, Gingrich e Romney, sono sostanzialmenteappaiati, forti entrambi di circa un quarto del-l’elettorato. E questo nonostante Romney siageneralmente ritenuto il candidato più di ognialtro in grado di aggiudicarsi il voto degli indi-pendenti, da sempre decisivo per la conquistadella Casa Bianca. Per quanto riguarda gli altricandidati, tutto lascia supporre siano destinati auscire velocemente di scena. Tutti tranne uno.L’eccezione è costituita dal plurieletto rappre-sentante del Texas Paul, l’unico che sembra po-tenzialmente in grado di fronteggiare Gingriche Romney contribuendo a rendere ancora più in-certa la lotta per l’investitura repubblicana. Inquesti ultimi mesi, Paul è riuscito a porre in es-sere un’organizzazione che sembra adattarsimeglio delle altre alle particolarità delle nuoveregole, tanto da permettergli di accumulare de-legati e di rimanere in corsa ben oltre le prime,quasi simboliche, tornate elettorali in stati qualil’Iowa e il New Hampshire. La visione politica di Paul, distinguendosi in po-litica estera per un jeffersonianesimo impostatoal rifiuto di qualsiasi alleanza, di qualsiasi inter-vento militare e della partecipazione degli StatiUniti a qualsiasi organizzazione internazionale,comprese le Nazioni Unite, e caratterizzandosiin politica interna per un libertarismo spinto finoa proporre la chiusura della Federal Reserve,

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sembra davvero molto lontana dalla visione do-minante all’interno del partito repubblicano, al-meno in questa fase storica, tanto che leprobabilità che ottenerne la nomina sembranodavvero molto basse. Ciononostante, in un ipo-tetico scontro finale per la Casa Bianca, giàl’estate scorsa Paul sembrava alla pari con unObama sempre più vulnerabile, mentre i più re-centi sondaggi d’opinione continuano ad attri-buirgli una straordinaria presa tra gli elettori piùgiovani, categoria che il partito repubblicanonon può certo permettersi di trascurare se vuoledavvero sconfiggere l’attuale inquilino dellaCasa Bianca.Nelle primarie del New Hampshire il voto nonè limitato ai soli appartenenti al partito, il chesignifica che la partecipazione in ciascun’ele-zione è aperta anche a coloro i quali non appar-tengono a nessun partito. Di conseguenza, ilvoto espresso in tali elezioni primarie repubbli-cane può anche includere quello di persone chenormalmente votano democratico. I sondaggidel giorno dopo hanno così rivelato che ha vo-tato per Paul un numero maggiore di Liberal(quasi il trentatré per cento) di quello che ha vo-tato per qualsiasi altro candidato, e che Paul haattirato a sé il voto del quarantasei per centodegli elettori sotto i trent’anni, battendo Rom-ney in tale categoria di età di oltre venti puntipercentuali. Paul ha raggiunto risultati analoghianche in Iowa, ottenendo il quarantotto percento del voto dei giovani, dodici punti di piùdi quanto sono riusciti a fare insieme Romneye Santorum. Questo dato è in prospettiva vera-mente importante perché fu proprio il voto deigiovani ha favorire la vittoria di Obama nelleelezioni del 2008, ed è proprio all’accusa di averperso il voto dei giovani che, tra tutte, Obamasembra oggi più vulnerabile. I Democratici sonoattratti dalla dura opposizione alle guerre tipicadella politica estera di Paul, dal suo impegno arisanare il bilancio federale senza ridurre i pro-

grammi di assistenza sociale e dalla sua difesadi un patrimonio di valori tradizionali che è co-mune anche agli ambienti democratici più mar-catamente Liberal. Paul è forse l’unicocandidato di questa stagione elettorale che poisi percepisce come animato da una spinta rivo-luzionaria che si rivela nella sua più recente ri-vendicazione di vero e proprio pericolo per lostatu quo.

Verso una terza candidatura?Un altro elemento da tenere in considerazio-ne è che Paul non ha ancora escluso la possibi-lità di continuare comunque la sua avventura elettorale, anche nel caso in cui non riuscisse a vincere la candidatura repubblicana alla con-venzione di partito dell’agosto prossimo. Cosache del resto ha già fatto in occasione delle ele-zioni presidenziali del 1988.Da qualche tempo le condizioni del sistema po-litico statunitense sembravano favorire l’emer-gere di un qualcosa di nuovo e diverso rispettoa quanto il bipartitismo statunitense è riuscito aprodurre nell’ultimo periodo. Il movimentospontaneo conosciuto come Tea Party ne è forsela prova migliore, ma sembra proprio Paull’uomo destinato ad avvantaggiarsene maggior-mente. Dopo le elezioni di medio termine del2010, tutto lasciava supporre che nel 2012 que-sto qualcosa di nuovo e diverso avrebbe occu-pato comodamente il vuoto lasciato al centro dalpresidente democratico e dallo sfidante repub-blicano. A oggi questa possibilità non può esserecompletamente esclusa, specialmente se Gin-grich riuscisse mai a prevalere. Ma se invecesarà Romney il candidato repubblicano, il terzoincomodo potrebbe collocarsi a destra, condi-zionando in tal modo l’intero dibattito politicoe, con esso, l’intero esito delle elezioni presi-denziali.L’ultimo credibile terzo candidato a un’elezionepresidenziale è stato Perot, nel 1992. Da destra,

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l’allora uomo più ricco del Texas, con il diciottoper cento dei consensi tolse la Casa Bianca alBush più anziano, fermo al trentasette per cento,

per darla allo sfidante democratico, un Clintonforte solo del quarantatre per cento del voto po-polare.

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Teatro Afghano

Antonio Giustozzi

►Il governo afghano ha ritirato in dicembre il proprio ambasciatore dal Qatar, in seguito a ri-velazioni riguardanti un negoziato diretto USA-Taliban per l’apertura di un ufficio politico intale paese. Il governo afghano si lamenta di essere stato tenuto all’oscuro dei negoziati, che se-condo fonti Taliban avevano raggiunto in dicembre uno stadio molto avanzato. Le proteste diKabul e problemi interni al governo americano hanno però ritardato la conclusione di un ac-cordo.►Un documento circolato dalla leadership dei Taliban e diffuso in dicembre dalla stampa in-dicherebbe che i Taliban considerano che il conflitto è giunto a un punto di svolta. Il documentoposiziona i Taliban come un movimento che vuole essere inter-etnico e rifiuta le interferenzeesterne di ogni tipo, facendo implicito riferimento ad Iran e Pakistan.► Per la prima volta in dicembre una serie di attacchi terroristici ha avuto come bersaglio espli-cito la minoranza sciita in Afghanistan. Gli attacchi, che hanno causato decine di morti duranteil festival religioso di Ashura, sono stati rivendicati da un gruppo anti-Sciita Pakistano e dallasua filiale afghana, la cui esistenza non era stata rivelata in precedenza.►Una indiscrezione filtrata da un rapporto dei servizi di spionaggio tedeschi indicherebbe cheKarzai non sarebbe veramente intenzionato ad abbandonare il potere nel 2014 come da lui pre-cedentemente indicato. Secondo il documento Karzai intenderebbe assumere l’incarico di primoministro, posizione che attualmente non esiste e dovrebbe venire creata appositamente. Karzaisarebbe poi disposto a cedere la presidenza ad un rappresentante dell’opposizione legale.►L’intenzione americana di permettere l’apertura di un ufficio politico dei Taliban nel Qatarha ricevuto l’approvazione del governo francese. Anche il governo afghano, inizialmente ostile,ha finito con l’adeguarsi, ma chiedendo di essere coinvolto nei negoziati.► Il governo afghano ha assegnato il contratto per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferinel nord dell’Afghanistan alla CNPC cinese. Si tratta del primo contratto firmato nel settoredegli idrocarburi.► Il Presidente afghano Karzai ha ordinato lo smantellamento della Critical InfrastructurePolice. Si tratta di una milizia creata nel 2009 nel nord dell’Afghanistan; la sua eliminazionesembra rispondere alla preoccupazione del governo centrale per la crescente presenza dimilizia di dubbia lealtà nel nord del paese.

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VERSO UN'ACCELERAZIONE DELLA TRANSIZIONE?

Diversi quesiti concernenti l’Afghanistan do-vranno venire sciolti nel 2012. Il primo ri-guarda la prospettiva negoziale. Sebbene sisiano registrati dei progressi recenti, non èchiaro fino a che punto le diverse parti coin-volte siano intenzionate ad andare avanti. I Ta-liban sembrano per lo più interessati aivantaggi immediati che conseguirebbero conl’apertura di un ufficio politico, vale a dire uncerto grado di legittimazione politica. I Paki-stani sembrano considerare l’apertura di un uf-ficio politico, che essi avevano a lungocontrastato, come un male minore se verrannoloro offerte garanzie di poterlo controllare eduna mossa che potrebbe calmare almeno mo-mentaneamente la crescente ostilità americanaa Islamabad. Il governo afghano sta cercandoun modo per evitare di dover affrontare un’op-posizione armata compatta dopo il 2012,quando probabilmente dovrà assumersi la com-pleta responsabilità della condotta delle opera-zioni militari. Queste diverse prospettive nonsono necessariamente inconciliabili, ma nonconducono necessariamente a un accordo dipace.Un altro quesito da risolvere, che però sicura-mente riceverà risposta nel corso del 2012, con-cerne la possibile accelerazione del parzialedisimpegno statunitense. Il Presidente Obamasembra intenzionato a ritirare le sue truppedalle operazioni militari entro la fine del 2012;in ogni caso dovrà annunciare prima di agostocosa seguirà al ritiro di 33.000 uomini, attual-mente in corso.Più difficile è valutare la reazione afghana aldisimpegno statunitense. La tendenza predomi-nante sembra essere quella a cercare un acco-modamento con l’opposizione armata: non solo

Karzai, ma anche funzionari a livello ministe-riale e provinciale, ufficiali di esercito e poliziasembrano indirizzarsi nella stessa direzione. Seil futuro può essere predetto sulla base di quelloche è successo nelle aree già abbandonate dagliamericani nell’est del paese, allora la tendenzaall’accomodamento sembrerebbe molto piùforte dell’impatto positivo in termini di moraleed orgoglio del ‘possiamo farcela da soli’. Sul piano economico, la riduzione del numerodei soldati e quella ancora maggiore dei con-tractors al seguito di ISAF avrà ripercussionirecessionistiche sull’economia afghana, vistoche la spesa sui mercati locali si ridurrà pro-porzionalmente. Il governo afghano spera dicompensare questo calo con un’accelerazionedell’investimento nel settore minerario, comepure con un mantenimento (se non un aumento)nel livello dell’aiuto economico dall’estero.Quest’ultimo obiettivo sembra difficile da otte-nere, dato che già si nota un’erosione nel livellodell’aiuto economico e che le difficili situazionibudgetarie di gran parte del mondo occidentalenon aiuteranno. Sul piano strettamente politico interno la piùgrande attesa è per la nomina del successore aRabbani come leader del principale partitoanti-Karzai all’interno della coalizione gover-nativa (Jamiat-i Islami). Se il governatore diBalkh Atta Mohammed fosse scelto, egli po-trebbe rilanciare il partito con le sue risorse fi-nanziarie e con la sua reputazione di leaderforte.Le missioni congiunte di addestramento e men-toraggio di esercito e polizia afghani sono ormaiin corso da quasi 10 anni, essendo cominciaterispettivamente nel 2002 e nel 2005 . Nel corsodi questi anni le strutture che gestiscono adde-

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stramento e mentoraggio sono andate cam-biando quasi costantemente, fino alla loro ul-tima incarnazione in veste NATO: la NATOTraining Mission – Afghanistan (NTM-A)varata alla fine del 2009. Questo cambiamentonon può però definirsi come ‘evoluzione’: in ef-fetti la struttura è stata pesantemente criticataper la sua inefficienza, che ha diversi aspetti. In primo luogo, la missione d’addestramento èsempre stata dipendente da quella da combatti-mento (ISAF), nonostante le due strutture di co-mando non siano integrate. In questo modo, imentori si sono trovati di fronte ad una confusacatena di comando, che ha reso più difficile ilcontrollo dall’alto delle loro operazioni. Inoltre,ISAF ha mostrato la tendenza costante a privi-legiare le operazioni militari rispetto alle neces-sità dell’addestramento. Nelle aree più calde delsud afghano, per esempio, le unità dell’esercitosono state sottoposte ad un ritmo di operazionicosì intenso da non poter effettuare pratica-mente più nessun addestramento.In secondo luogo, le componenti nazionali nonsono state completamente fuse in una unicastruttura di comando. A parte la separazione daNTM-A di EUPOL, la missione europea checonsiglia il Ministero afghano dell’Interno, eGPTT, la missione tedesca, anche all’interno diNTM-A le componenti nazionali mantengonoun grado di autonomia. Un ufficiale di NTM-A,per esempio, notava a proposito di un collegadella gendarmeria francese come quest’ultimoavesse la propria interpretazione del proprioruolo nella missione, in conflitto con l’interpre-tazione di molti altri colleghi. Infine, anche lesingole componenti nazionali non sempre sonoriuscite a fondere le diverse componenti isti-tuzionali, particolarmente nel caso degli StatiUniti, dove il Dipartimento di Stato ha man-tenuto un ruolo nell’addestramento della poliziaanche dopo la presa in carico da parte del Pen-tagono nel 2005. I contractors privati, infine,

non rispondono ad alcuna catena di comando,ma semplicemente sono regolati da contratti chesi sono mostrati spesso mal concepiti, lasciandoai contractors molto spazio di manovra senzaeffettiva supervisione da parte della missioned’addestramento.In terzo luogo, lo stile di coordinamento adot-tato al fine di ridurre il peso del complesso la-voro di gestione della struttura ai livelli più altidel comando ha rallentato di molto il processodecisionale. A tali livelli si prendono decisionisulla base di compromessi tra i vari attori isti-tuzionali e nazionali all’interno di NTM-A, las-ciando poi alla struttura burocratico-militare ilcompito di mettere in atto le decisioni prese. Ilprincipio è che i problemi andrebbero risolti alpiù basso livello possibile, per non appesantireuna struttura di comando che non è stata diseg-nata specificamente per gestire un’operazionecome una missione d’addestramento. Quandoun problema non può venire risolto, passa al liv-ello superiore. Il processo è molto lento ed è ul-teriormente disturbato da varie disfunzioniburocratiche, quali la tendenza dei ranghi infe-riori a non comunicare tutti i problemi ai ranghisuperiori, e dal rapido tasso di ricambio del per-sonale, per lo più dispiegato in Afghanistan per6-12 mesi.Queste debolezze organizzative si sono incon-trate con un ambiente afghano non predispostoal successo della missione. La qualità dal mate-riale umano da formare nei corsi d’addestra-mento si è rapidamente rivelata molto inferiorealle attese. Si sapeva che il livello di educazionesarebbe stato basso, ma le reclute di esercito epolizia sono in realtà ben al di sotto del giàbasso livello culturale medio della popolazioneafghana. La grande maggioranza è in effettianalfabeta; molte reclute sembrano avere diffi-coltà congenite nell’apprendimento, probabil-mente un risultato della tendenza delle comunitàdi villaggio di mandare i giovani meno promet-

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tenti nelle forze armate. Persino le reclute deicorsi di formazione per i meccanici d’aviazionesono per lo più analfabeti, rallentando enorme-mente il lavoro degli addestratori. Il predominiodi sistemi di potere clientelari e del nepotismoall’interno dei ministeri della difesa e dell’in-terno afghani non hanno permesso un significa-tivo reclutamento di una nuova generazione diufficiali dai ranghi delle forze armate afghane,nonostante 10 anni di coinvolgimento dellapolizia nello sforzo contro-insurrezionale e 8anni di coinvolgimento dell’esercito. La debolezza del corpo ufficiali ha solo peggio-rato un problema che esisteva fin dall’inizio,ovvero la scarsa disciplina delle forze armateafghane. Abitudine diffuse come il consumo distupefacenti, l’assenza non autorizzata daireparti e l’insubordinazione non potevano cherendere il compito degli addestratori più diffi-cile. Su insistenza di NTM-A e delle struttureche l’hanno preceduta, si è cercato di filtrare ilreclutamento di eroinomani, con qualche suc-cesso anche se non sono stati completamentepurgati da esercito e polizia. Il consumo dihashish, invece, è ormai tollerato in quantotroppo diffuso per essere controllato.Non ha aiutato il fatto poi che i mentori nonsiano stati sottoposti ad alcuna selezione, masemplicemente ‘coscritti’ per prendere parte allosforzo organizzativo. Sebbene dopo la completadisorganizzazione iniziale dei corsi dipreparazione al mentoraggio siano stati organiz-zati in America e in Europa, molti mentori a tut-t’oggi vengono dispiegati senza avervi presoparte. Tali corsi, inoltre preparano solamente inmodo generico alla missione del mentore; inparticolare la preparazione per il teatro afghanosi limita al quadro generale, senza entrare neidettagli del funzionamento delle forze armateafghane, dei loro limiti e delle loro specificità.Queste mancanze sono soprattutto gravi nelcaso del mentoring della polizia afghana: si può

immaginare cosa significa addestrare un distac-camento di polizia per unità militari di qualsiasitipo, senza neanche una conoscenza superficialedel quadro legislativo afghano. La riluttanza adaffrontare apertamente il problema delle carenzedi esercito e polizia afghani si rivela contropro-ducente per lo sforzo di mentoring; spesso imentori devono improvvisare una risposta allecondizioni che si trovano ad affrontare sul ter-reno. Il risultato è inevitabilmente talvolta in-soddisfacente, ma soprattutto gli Afghani, cheassistono a continue rotazioni di unità di men-toring, si vedono somministrare soluzioni var-iegate ed improvvisate agli stessi problemi, colrisultato che la credibilità dello sforzo organiz-zativo ne viene compromessa. Quando il mentoring della polizia su larga scalafu lanciato nel 2007, nel corso del programmacosiddetto Focused District Development(FDD), i rapporti iniziali erano molto ottimistisui risultati e sembravano indicare un grossosalto in avanti delle unità della polizia che eranostate riaddestrate e poi affiancate da una squadradi mentori. In realtà è rapidamente diventatochiaro che i miglioramenti erano stati sovrasti-mati dalla missione d’addestramento, im-paziente come sempre di mostrare risultatipositivi ai propri superiori; negli anni successivitutte le unità che erano state giudicate capaci dioperare autonomamente sono state degradate;alla fine del 2011 non una singola unità dellapolizia afghana aveva ancora raggiunto questacapacità in modo permanente.Non sorprende pertanto che l’impatto della mis-sione addestrativa sulle forze armate afghane siastato fino ad oggi molto deludente. Sebbene es-ercito e polizia afghani siano migliorati notevol-mente nel corso degli ultimi 10 anni, rimangonoancora quasi completamente incapaci di operareautonomamente. In passato si tendeva a mini-mizzare l’importanza di questo lento sviluppodelle forze armate afghane: dopotutto c’era

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ISAF sempre pronta a sostenerle. Nel momentoin cui gli Americani stanno considerandol’opzione di ritirarsi dalle operazioni militarientro la fine del 2012, le disfunzioni del passatocominciano ad assumere una nuova valenza . Inquesto caso, rimarrebbe solamente un anno perportare gli Afghani al punto di poter operare colsolo sostegno delle squadre di mentori. Inoltre,è chiaro che una volta che il disimpegno dalleoperazioni di combattimento avrà luogo, disp-iegare squadre di formatori in ogni luogo e situ-azione tattica diventerà impraticabile. Le zonepiù remote e più rischiose potrebbero rimaneresenza mentori, con possibili conseguenze disas-trose per il morale degli Afghani, che ancoradipendono largamente dai partner per la logis-

tica e soprattutto per il supporto aereo ravvici-nato. Nell’est afghano, in particolare la provincia diNuristan e i distretti più settentrionali dellaprovincia di Kunar, gli americani si sono già ri-tirati nel 2010, lasciando gli Afghani a gestirela situazione per conto loro. Il risultato è checinque dei sette distretti del Nuristan sono statiabbandonati, mentre i restanti due, così come idistretti di Kunar menzionati, sono di fatto sottol’assedio degli insorti. Lasciati soli, polizia edesercito afghano hanno adottato un’attitudinelargamente passiva e difensiva, abbandonandoi villaggi al loro destino. Non rimane moltotempo per impedire che lo stesso avvenga nelresto del paese nel corso dei prossimi anni.

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Africa

Marco Massoni

►Algeria: è il “Movimento Monoteista per il Jihad in Africa Occidentale” (JAMAT TAWHIDWAL JIHAD FI GARBI AFRIQQIYA) ad aver ideato e portato a termine il rapimento di Ros-sella Urru, la cooperante italiana sequestrata il 22 ottobre a Rabuni, il centro del protocollo delFronte Polisario nei pressi di Tinduf, assieme ad altri due colleghi spagnoli. La nuova sigla diterroristi, sinora ignota, è costituita da un gruppo di scissionisti di Al Qaida nel Maghreb Islamico(AQMI), da cui intende distinguersi. AQMI per parte sua ha smentito qualsiasi sua responsabilitànel rapimento ed altri maggiori narcotrafficanti locali sono stati infastiditi nei rispettivi movimentie propositi dalla presenza e dall’azione del nuovo cartello. In dicembre sono stati arrestati sia al-cuni complici dei rapitori a Nouadhibou, in Mauritania, sia pure una dozzina di presunti fian-cheggiatori sahrawi in Algeria da parte delle forze di sicurezza del Fronte Polisario. ►Conferenza Internazionale sulla Regione dei Grandi Laghi (CIRGL) Il 15 ed il 16 dicembresi è svolto a Kampala il IV Vertice dei Capi di Stato e di Governo della Conferenza Internazionalesulla Regione dei Grandi Laghi (CIRGL), composta di undici Stati: Angola, Burundi, Kenya, Re-pubblica Centroafricana (CAR), Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo(RDC), Rwanda, Sudan, Tanzania, Uganda e Zambia. In tale occasione la Presidenza di turnodella Conferenza è passata dallo Zambia all’Uganda. Durante il Summit sono state annunciateiniziative finalizzate al sostegno delle vittime di violenza sessuale e di genere, un fenomeno par-ticolarmente rilevante nella maggioranza dei conflitti occorsi nel Continente africano. La CIRGLsi occupa di pace e sicurezza (risoluzione delle crisi in corso e prevenzione dei conflitti); demo-cratizzazione, Good Governance e promozione dei diritti umani, sviluppo economico ed integra-zione regionale; questioni umanitarie e sociali. Nel 1996 le Nazioni Unite e l’Unione Africanacon il supporto dell’Unione Europea dettero vita alla CIRGL, il cui Primo Vertice dei Capi diStato e di Governo ebbe luogo dal 19 al 21 novembre 2004 in Tanzania, allorché fu adottata lacosiddetta “Dar Es Salaam Declaration” sulla pace, la sicurezza, la democrazia e lo sviluppo. IlSecondo Summit (dicembre 2006 sempre a Dar Es Salam) dette vita al “Great Lakes Pact”, im-perniato su sicurezza, stabilità e sviluppo. ►Capo Verde: si intensificano i rapporti con la Guinea Bissau. Il Primo Ministro dell’omonimoarcipelago della Macaronesia, José Maria Neves, è stato ricevuto dal suo omologo guineano,Carlos Gomes Júnior. Lo scopo è quello di rafforzare i legami storici fra i due Paesi lusofoni me-

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diante l’istituzionalizzazione di vertici bilaterali due volte l’anno. La riforma delle Forze Armateguineane costituirà il primo delicato tema che Praia intende portare al tavolo delle discussioni,al fine di favorire un processo di institution building in Guinea Bissau, finora rivelatosi carente.►Costa D’Avorio: l’udienza di conferma dei capi di accusa rivolti all’ex Presidente ivoriano,Laurent Gbagbo, si terrà il prossimo 18 giugno presso la Corte Penale Internazionale dell’Aja,dove è agli arresti. Svoltesi nella calma e con una bassa affluenza (37 per cento), le elezioni legi-slative dell’11 dicembre hanno assegnato la maggioranza al Raggruppamento dei Repubblicani,il partito del Presidente Ouattara, che ha riportato 127 seggi su 254. Seconda forza politica è ri-sultato il Partito Democratico di Costa D’Avorio (PDCI), storico movimento di Felix Houpho-uet-Boigny, ottenendo 77 seggi; inoltre sono stati eletti anche 35 deputati indipendenti. Va notatocome il Fronte Popolare Ivoriano (FPI) di Gbagbo avesse deciso ad ogni modo di boicottare leelezioni. ►Eritrea: sono state rese più pesanti le sanzioni già precedentemente estese ai danni della piùstretta cerchia dei collaboratori del Presidente, Isaias Afewerki, da parte del Consiglio di Sicu-rezza delle Nazioni Unite, dietro l’urgente richiesta avanzata da Etiopia e Kenya. Asmara è ac-cusata di tentare di destabilizzare alcuni degli Stati facenti parte del Corno D’Africa, fornendoappoggio logistico e militare al terrorismo regionale.►Gabon: le elezioni legislative del 17 dicembre si sono svolte con un tasso di partecipazionemolto basso (15 per cento) ed hanno conferito la maggioranza assoluta al Presidente Bongo. Moltianalisti concordano sulla non trasparenza del processo elettorale.►Guinea: inizialmente previste per il 29 dicembre, sono state procrastinate al prossimo annole elezioni legislative. L’estrema difficoltà per il Presidente, Alpha Condé, di dialogare con le op-posizioni è il motivo alla base di tale rinvio. ►Libia: sospeso durante il conflitto armato, il Trattato di Amicizia Italo-Libico, sarà riattivatoa partire da nuove basi dal Presidente del Consiglio italiano, Monti, e dal Presidente del ConsiglioNazionale di Transizione libico, Moustafa Abdel Jalil, i quali si incontreranno a Tripoli in gennaio.Tra gli argomenti in agenda spicca il potenziale ruolo italiano nella ricostruzione postbellica, manon mancano le difficoltà. La nuova dirigenza libica intende comprensibilmente enfatizzare la di-scontinuità con il passato rappresentato dalla famiglia Gheddafi, e lascia intuire che il Trattatopotrà subire rinegoziazioni alla luce dell’identificazione delle priorità della nuova Libia. È d’uoporicordare che secondo il diritto internazionale i trattati impegnano non i Governi che congiuntu-ralmente li sottoscrivono, bensì gli Stati firmatari dei quali tali Governi sono in quel preciso mo-mento storico espressione. Per favorire la ripresa economica, sottoposti a blocco da marzo, sonostati scongelati molti asset libici e precisamente quelli della Central Bank of Libya, della LibyanArab Foreign Bank e della Libyan Investment Authority, i quali sono presenti tra l’altro in Uni-credit, Finmeccanica, ENI e Juventus. Secondo il Procuratore della Corte Penale Internazionaledell’Aja, Luis Moreno Ocampo, il cui mandato è in scadenza, esisterebbero i presupposti per con-siderare l’assassinio di Gheddafi un crimine di guerra. Forse in difficoltà a causa delle manife-stazioni di piazza per la sua recente rielezione, il Primo Ministro russo, Putin, ha accusatopubblicamente gli Stati Uniti, di essere coinvolti nell’uccisione di Gheddafi, avendolo pertantoprivato del diritto di un adeguato processo. In un’ottica di riconciliazione nazionale si è tenuto aZawiya il primo Forum Nazionale di Riconciliazione dei capi tribù libici. In effetti le contrappo-

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sizioni tribali sono un problema serio, che vede in campo tra i vittoriosi il gruppo di Misuratacontro quello di Bengasi e quello dei Monti Nafusa contro quello tripolino, e fra i vinti le tribù diSirte, Beni Walid e Tawergha.►Madagascar: è di grande rilievo la vista del Presidente del Governo di transizione malgascio,Andry Rajoelina, resa al Presidente francese, Sarkozy, in dicembre. Nel contempo l’ex Presidente,Didier Ratsiraka, dopo nove anni di esilio in Francia ha potuto tenere il suo primo discorso inpatria, auspicando una riconciliazione rapida e reale tra le forze politiche in campo, di cui le duecamere del parlamento, il Congresso di Transizione ed il Consiglio Superiore della Transizione,sono espressione. Va notato come facciano eccezione però proprio il partito “Arema” di Ratsirakae quello dell’ex Capo di Stato, Albert Zefy, i quali si sono volontariamente discostati dalla roadmapdegli accordi di pace in corso dall’autunno. ►Mali: la riforma costituzionale, al referendum per la quale si voterà in occasione delle elezionipresidenziali del 29 aprile prossimo, sta incontrando resistenze nella società civile. Il progettodi riforma oltre a prevedere la creazione del Senato in sostituzione dell’attuale Alto Consigliodelle Collettività Territoriali, rafforzerebbe il ruolo del Presidente della Repubblica rispetto aquello del Premier. Nel nord sono state istituite due nuove province, Touadeni e Ménaka, ed entrocinque anni verranno create undici nuove regioni, con la finalità di rafforzare il controllo ammi-nistrativo delle fragili aree del nord dello Stato saheliano, dove AQMI ha eretto il proprio san-tuario. Sono stati arrestati tre presunti rapitori dei due geologi francesi sequestrati ad Hombori,lungo il confine tra Mali e Niger alcune settimane prima.►Marocco: come conseguenza della vittoria del Parti de la Justice et du Developpement (PJD),le altre forze politiche si stanno riorganizzando sottoforma di due nuove coalizioni, ciascunadelle quali comunque ancora di minoranza: da un lato la Coalizione per la Democrazia, costituitadal Raggruppamento Nazionale degli Indipendenti, dall’Unione Costituzionale, dal MovimentoPopolare e dal Partito Autenticità e Modernità, e dall’altro lato la Coalizione Koutla Democratica,costituita dall’Unione Socialista delle Forze Popolari, dal Partito dell’Indipendenza (Istiqlal) edal Partito del Progresso e del Socialismo. È Karim Ghellab, già Ministro dei Trasporti, il nuovoPresidente della Camera dei Rappresentanti. Il sistema bicamerale marocchino prevede infattiuna Camera dei Rappresentanti, eletta a suffragio universale, ed una Camera dei Consiglieri,espressione tanto dei Consigli Regionali e dei Consigli Comunali quanto dei rappresentanti delleassociazioni professionali e di quelle sindacali. ►Mauritania: il Presidente, Mohamed Ould Abdel Aziz, si è recato in visita ufficiale ad Algeri.La preoccupazione per la crescente insicurezza nella regione è stata al centro delle discussioniintavolate con il suo omologo algerino, Bouteflika. Nel corso dell’ultimo Vertice tra i Paesi delDialogo 5+5, svoltosi a Nouakchott in dicembre, è stata decisa la costituzione di uno Stato Mag-giore non permanente, per affrontare in maniera congiunta le crescenti sfide del radicarsi delterrorismo nel Sahel. Fanno parte del Dialogo 5+5 per la sponda nord del Mediterraneo Italia,Francia, Malta, Portogallo e Spagna, mentre per la sponda sud Algeria, Libia, Marocco, Mauri-tania e Tunisia. Il prossimo Summit si terrà a Napoli in febbraio.►Niger: grazie al giacimento di Zinder il Niger è entrato nel gruppo dei Paesi produttori di pe-trolio. Inoltre è stato istituito il Comitato Bilaterale Algeria-Niger, affinché le sfide poste dal ter-rorismo nella regione siano trattate in modo sempre più condiviso ed efficace.

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►Nigeria: la setta islamista Boko Haram, guidata da Mohammed Abubakar Shakau, si è resaresponsabile di una serie di efferati attentati terroristici verificatisi pressoché simultaneamentedurante le festività natalizie principalmente nella Capitale federale, Abuja, e in altre zone delPaese quali Kaduna e Maiduguri. Si è trattato di assalti coordinati sotto un’unica regia controchiese, commissariati, caserme di polizia e contro una scuola dell’aeronautica militare. Sono statisegnalati insediamenti segreti di Boko Haram in Ciad, Camerun e Niger, cioè negli Stati confinanticon la Nigeria settentrionale. L’esecutivo nigeriano ha urgentemente indetto un vertice sulla si-curezza nazionale per i primi di gennaio.►Repubblica Araba Sahrawi Democratica (RASD): il Presidente Mohamed Abdelaziz è statorieletto alla guida della Repubblica in esilio nel corso del XIII Congresso del Fronte Polisario,svoltosi dal 15 al 23 dicembre a Tifariti, nei territori liberati del Sahara Occidentale. Abdelazizha ribadito la necessità di continuare a perseguire la via pacifica e diplomatica, anziché dareascolto ad una minoranza che intenderebbe invece ritornare alla lotta armata. Per la prima voltahanno potuto prendere parte al congresso anche delegati provenienti dai territori occupati dalMarocco dell’ex colonia spagnola. Abdelaziz è ininterrottamente al potere dal 1975.►RDC: il Presidente uscente, Joseph Kabila, è stato riconfermato con il 48 per cento delle pre-ferenze, ancorché in base ad elezioni non trasparenti, gravate da numerose irregolarità e mac-chiate da un clima di violenza secondo gli osservatori internazionali. Sarebbe arrivato secondol’anziano e storico oppositore Etienne Tshisekedi con il 32 per cento delle preferenze e terzo VitalKamerhe con il 7,7 per cento.►Senegal: sebbene proseguano gli attacchi dei separatisti della Casamance contro presidi mi-litari governativi, tuttavia è necessario registrare l’importante segnale che il Movimento delleForze Democratiche di Casamance di Jean-Marie François abbia deciso di deporre le armi e ditrasformarsi in partito politico: il “Movimento per il Federalismo e la Democrazia Costituzio-nale” (MFDC). Mentre l’opposizione non riesce a decidersi per una candidatura unica, che pre-senti una concreta alternativa al Presidente uscente, Abdoulaye Wade, il cantante Youssou Ndour,con il suo movimento, “Fekke Maci Boolè”, è sceso in campo per le presidenziali del 26 febbraio. ►Somalia: il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, si è recato in visita a Mogadiscio,da dove ha annunciato l’imminente riapertura della locale sede delle Nazioni Unite. Ban Ki-Moon ha elogiato l’intervento del Kenya, che oramai controlla il cruciale porto di Kisimayo, perl’apporto alla stabilizzazione della martoriata ex colonia italiana, che l’integrazione delle forzearmate keniote (KDF) in AMISOM comporta. Alla locale Missione dell’Unione Africana, costituitada truppe burundesi ed ugandesi, si sono venuti aggiungendo nelle ultime settimane anche soldatidi Etiopia, Gibuti e Kenya. L’insicurezza regionale del Grande Corno d’Africa, alimentato dagliShebaab, altrimenti anche autodefinitisi “autorità islamiche” (Imaraah Islamiyah), continua adessere causato dalla polveriera somala, sicché attentati a catena continuano a verificarsi nellacapitale, benchè essa sia sotto controllo delle forze di AMISOM. ►Sudafrica: importante visita del Presidente, Jacob Zuma, a Maputo, dove ha incontrato ilsuo omologo mozambicano, Armando Guebuza. Il Sudafrica intende investire nella promettenteeconomia del Mozambico, specialmente dal punto di vista energetico, dove per l’appunto recen-temente l’ENI ha scoperto un immenso giacimento di gas naturale.►Sudan: l’Alta Corte di Nairobi ha autorizzato il Kenya ad arrestare il Presidente sudanese,

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Omar al-Bashir, che ha risposto espellendo l’ambasciatore keniano. Contemporaneamente laCorte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto ai danni del Ministro della Difesasudanese, Abdelrahim Mohamed Hussein, in ragione delle sue responsabilità su crimini di guerrae contro l’umanità, commessi in Darfur tra il 2003 ed il 2004, allorquando ricopriva la carica diMinistro dell’Interno. La galoppante inflazione e le difficoltà politiche dell’esecutivo stanno fa-cendo vacillare il regime sudanese, che non riesce a mettere in pratica misure atte alla ripresaeconomica. Il nuovo Governo di coalizione, formato a dicembre dopo tre mesi di trattative, potràforse dilazionare di poco quella che si preannuncia come la fine politica di Omar al-Bashir, chepotrebbe avvenire anche prima delle elezioni presidenziali del 2014, alle quali comunque egli nonsi ripresenterebbe. Per le opposizioni al-Bashir è responsabile di aver svenduto le regioni meri-dionali, cedendo alle pressioni internazionali, che hanno spinto all’indipendenza del Sud Sudan.È stato finalmente liberato Francesco Azzarà, il cooperante dell’Ong italiana Emergency, seque-strato il 14 agosto scorso da una banda della tribù araba Rezegat a Nyala, nel Darfur meridionale.L’esercito sudanese ha annunciato di aver ucciso in Kordofan Khalil Ibrahim, capo del “Justiceand Equality Movement” (JEM), uno dei principali movimenti darfuriani, che nelle scorse set-timane aveva preso la decisione tattica di confluire con altre forze nel “Fronte Rivoluzionario delSudan”, allo scopo di rovesciare il regime di Khartoum. ►Sud Sudan: è stato ucciso il Generale Gorge Athor, capo del “South Sudan Liberation Army”(SSLA), una delle milizie che dallo scorso marzo avevano riacceso il conflitto a Jonglei, sullosfondo di preesistenti scontri interetnici fra Nuer e Murle. Suddette milizie sono probabilmenteappoggiate da Khartoum e da Asmara, per destabilizzare le già precarie condizioni generali delnuovo Stato. Athor sarebbe morto durante un combattimento nella contea di Morobo nello Statodi Central Equatoria. Juba ha subito annunciato che i miliziani di Athor potranno giovare diun’amnistia generale, qualora decidano di abbandonare la lotta armata. Il Presidente, Salva KiirMayardit, ha intrapreso la prima visita ufficiale in Israele, dove sono stati esplicitati i forti legamie la naturale alleanza strategica fra i due Paesi. Kiir ha incontrato il Presidente, Peres, il Ministrodella Difesa, Barak, ed il Ministro degli Esteri, Lieberman. Prosegue il tentativo di accerchiamentoe di isolamento di Israele ai danni del regime sudanese, con il quale Tel Aviv peraltro non intrat-tiene relazioni diplomatiche. Israele coltiva ragguardevoli interessi strategici nel confinare ilSudan e, per contro, è interessato a favorire lo sviluppo dei Paesi dell’Africa Orientale suoi alleaticome, Kenya, Etiopia, Uganda e Sud Sudan. Si è dimostrato per il momento un nulla di fatto ilprimo tentativo di mediazione di Pechino in Africa, portato avanti dall’emissario cinese incari-cato degli affari africani, Liu Guijin, allo scopo di cercare di sbrogliare la complicata matassadei problemi lasciati irrisolti dagli Accordi di Pace del 2005, che hanno condotto all’indipendenzadi Juba da Khartoum, e di conseguenza salvaguardare gli enormi interessi di Pechino per il greg-gio dei due Sudan, dai quali acquista quotidianamente cinquecentomila barili ovvero il 60 percento della produzione totale. Onde scongiurare il blocco delle esportazioni petrolifere provenientidalle due Nazioni, Guijin intenderebbe insistere sull’urgenza di trovare un accordo per la demar-cazione definitiva e condivisa delle frontiere, lungo le quali la conflittualità è sempre meno latente,in particolar modo per quanto riguarda gli Stati del Nilo Blu e del Sud Kordofan. A breve in virtùdel decisivo apporto di Washington alla causa dell’indipendenza del Sud Sudan si prevede un ri-torno delle major americane.

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CRISI MONDIALE? NON IN AFRICA, DOVE IL PIL CRESCERÀ PIÙ CHE NEL RESTO DEL MONDO

I maggiori avvenimenti africani nel corso del2011 sono stati lo sblocco della crisi post-elet-torale in Costa D’Avorio, le cosiddette prima-vere arabe (capitolazione del regime libico eonda lunga delle sue ricadute nei mesi a veniresugli interi equilibri continentali; elezioni inTunisia dell’Assemblea Costituente e maggio-ranza relativa ottenuta da Ennahdha, primo par-tito islamico democraticamente eletto in unPaese arabo-musulmano; modifica della Costi-tuzione ed elezioni legislative in Marocco), ilrafforzamento del terrorismo in Africa Occiden-tale (Boko Haram) e nel Sahel (AQMI), la ro-admap per superare lo stallo istituzionale inMadagascar, l’intervento militare keniano edetiopico in Somalia, la mediazione cinese traSudan e Sud Sudan, le riconferme al potere diJoseph Kabila in Repubblica Democratica delCongo e di Ellen Johnson-Sirleaf in Liberia,l’indipendenza del Sud Sudan ed il conseguenteriposizionamento geopolitico in atto di internaled external actor nel Corno D’Africa allargato,e, parallelamente, il consolidamento del poten-ziale inibitorio dell’East African Community(EAC) e dell’Intergovernamental Autority De-velopement (IGAD), le due Comunità Econo-miche Regionali (RECs) dell’Africa Orientale,nei confronti delle cause e degli attori della de-stabilizzazione del Grande Corno d’Africa.Da un punto di vista economico, secondo lemaggiori istituzioni finanziarie internazionali,Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazio-nale, nel 2012 la crescita dell’economia mon-diale si attesterà intorno al 2,5% ossia in ribassorelativamente a stime più ottimistiche, che la da-vano al 3,1%. Ebbene, rispetto al resto delmondo solamente in Africa si avrà nel 2012 unacrescita del PIL pari al 5,3% a fronte di un 4,9%

registrato nel corso del 2011. Ad esempio il PILdell’Angola dovrebbe raggiungere l’11% equello del Ghana superare il 30%. Di valore po-sitivo, sebbene ancora contenuta, è la crescitadei mercati interni, dunque dell’interscambiocommerciale intra-africano. Pesano tuttavia siaun’elevata inflazione, specialmente nei Paesidell’Africa Orientale, sia l’espansione demogra-fica del Continente. Per di più gli effetti del ral-lentamento delle economie di Cina, Europa eStati Uniti stanno provocando un abbassamentodei prezzi delle materie prime, l’esportazionedelle quali resta a tutt’oggi alla base delle eco-nomie africane. Tendenzialmente l’Africa staavviandosi a creare le condizioni di possibilitàper diventare nei prossimi decenni il centrodella produzione mondiale, dove Pechino ini-zierà a delocalizzare la propria produzione, unavolta sinceratasi dell’affidabilità di quegli Statiafricani che le sapranno dare ospitalità e offriremigliori garanzie di successo. Tutto ciò in virtùdella Reverse Innovation, altrimenti nota comeTrickle-Up Innovation, secondo cui le multina-zionali tendono sempre più a delocalizzare pro-prio nei Paesi emergenti non più soltanto laproduzione, ma anche il concepimento mede-simo dei prodotti, per poi da lì immetterli sulmercato globale.Sempre maggiori saranno le ingerenze delle po-tenze straniere, antiche e nuove, che, alla ricercadi ulteriori luoghi geostrategici e rendite di po-sizione economico-commerciali in Africa, fa-ranno di tutto, pur di approfittare del nuovoScramble for Africa. La caduta dell’ingom-brante Gheddafi apre in linea teorica scenari in-credibili, provocando un effetto domino. Moltidei regimi fino a poco tempo fa sostenuti e fi-nanziati dalla Libia ne stanno già subendo i

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primi effetti e ciò sta avvenendo innanzitutto inAfrica Orientale, dove l’alleanza stabilitasi fraSud Sudan, Etiopia, Kenya ed Uganda è volta acontenere ogni ambizione di Sudan ed Eritrea;qualunque stabilizzazione definitiva della So-malia, il cosiddetto “Afghanistan africano”,potrà verificarsi solo tenendone conto.Da un punto di vista politico-istituzionale, di-verse elezioni avranno luogo nel corso del 2012.Si terranno elezioni legislative in Algeria, Bur-kina Faso, Camerun, Gambia, Guinea, GuineaEquatoriale, Lesotho, Mauritania, RepubblicaDemocratica del Congo e, forse, Zimbabwe.Ancor più decisive saranno invece quelle presi-denziali, che in numerosi casi si celebreranno inconcomitanza con quelle parlamentari: Senegal(26 febbraio), Guinea Bissau (18 marzo), Mali(29 aprile), Sierra Leone, Angola, Ghana, Ma-dagascar e Kenya. Speciale attenzione andrà ri-volta al Mali per la più ampia questione dellasicurezza nel Sahel e nel Sahara; al Senegal,dove gli esiti di un ricambio al vertice sono an-cora incerti; all’Angola, in quanto una dellemaggiori economie emergenti al mondo e infineal Ghana, nuovo modello di riferimento e pila-stro in termini di affidabilità, democraticità, si-curezza e stabilità in Africa.A livello di piattaforma intergovernativa conti-nentale occorre notare come sia in calendariol’elezione del Presidente della Commissionedell’Unione Africana, in occasione del suoXVIII Summit previsto ad Addis Abeba a finegennaio. Rispetto alla pur sempre possibile ri-conferma del Presidente uscente, il diplomaticogabonese Jean Ping, il potente Sudafrica so-stiene la candidatura di Nkosazana DlaminiZuma, ex moglie del Presidente Jacob Zuma. Preoccupa molto l’estendersi a macchia d’oliodella conflittualità medio-orientale versol’Africa: a Sud nel Grande Corno d’Africa e adOvest lungo i porosi ed insicuri confini deiPaesi del Sahara-Sahel. Parte dell’arsenale li-

bico si è reso disponibile sul mercato nero ed èstato oggetto d’interesse di gruppi terroristici edi narcotrafficanti che operano nella macro-re-gione. Diverse iniziative multilaterali stannocercando di arginare la cooperazione instaura-tasi tra AQMI e Boko Haram, che si starebberointegrando in una rete, in grado di colpire dalCorno d’Africa fino alle Coste dell’Africa Oc-cidentale, minacciando concretamente quindil’Africa Mediterranea, in cui è in corso una sto-rica transizione democratica. Allo scopo di met-tere alla prova le capacità di contro-terrorismonel Sahel e nell’Africa Settentrionale, dal 27febbraio al 18 marzo si svolgerà nei territori set-tentrionali del Mali (Gao, Tessalit, Ménaka,Kati, Kidal e Timbuctù) un’esercitazione mili-tare congiunta multinazionale, a cui prende-ranno parte ben sedici Paesi, tra i quali Spagna,Paesi Bassi, Germania, Canada, Stati Uniti,Burkina Faso, Ciad, Mauritania, Niger, Senegal.

Dei tre Paesi post-rivoluzionari delle rivoltearabe – Tunisia, Egitto e Libia – la Tunisia è ilcapofila del recupero dell’ownership politica dimarca arabo-islamica. La presa di coscienzadei popoli arabi del Maghreb e del Mashrekviene rafforzandosi grazie a storiche e fino apoco tempo prima del tutto impensabili elezionidemocratiche, le quali sanciscono perlomenodal punto di vista formale e procedurale unsalto di qualità e di affidabilità nuovi ed inspe-rati. Si tratta in altre parole di una volontà, fi-nalmente liberata dall’oppressione, chepermette alle identità politico-culturali di questiPaesi di rivendicare il proprio diritto all’esi-stenza, che si esprime in questa fase storica intermini di arabizzazione e di islamizzazione, fe-nomeni ambedue legittimati da decenni di silen-zio e di maturazione coatti. Oltre a ciò varammentato che le transizioni politiche post-ri-voluzionarie e post-conflict sono momenti lun-ghi e molto delicati, le cui nuove dirigenze

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occorre salutare con rispetto ed immediata-mente coinvolgere lungo canali preferenziali dicooperazione bilaterale e multilaterale raffor-zate, tanto più che riguarda Stati d’interessestrategico per l’Italia e per l’Europa. Occorreintensificare i legami con le nuove leadership esostenerle attraverso un’attenta politica estera,ma anche monitorarne l’operato con adeguataattenzione, onde evitare esiti critici o derive au-toritarie. In effetti, alla luce dell’intrinseco con-servatorismo dell’islam politico, l’instaurarsidi maggioranze relative d’ispirazione islamicanella formazione dei Governi del risveglioarabo potrebbe contribuire alla stabilizzazionedel Medio Oriente allargato, in cui cresce lacompetizione fra Turchia e Paesi del Golfo perun maggiore prestigio e per un miglior credito.L’Arabia Saudita sta estendendo la propria

sfera d’influenza all’Africa Settentrionale adesempio attraverso l’invito, rivolto a Giordaniae Marocco, per entrare a far parte del Consigliodi Cooperazione del Golfo. Il progetto sauditadi ispirare le nuove classi dirigenti dei Paesi re-sisi protagonisti delle rivoluzioni arabe è con-diviso anche dal dinamico Qatar e dall’Iran. Èrisaputo come Riyad, Doha e Teheran avesserogià avviato da anni iniziative volte ad accre-scere il proprio favore presso numerosi Paesidell’Africa Tropicale e Saheliana, da dove oggi,per chiudere il cerchio, stanno cercando d’in-dividuare il punto d’innesto più efficace conquelli dell’Africa Mediterranea. Anche da que-sto punto di vista l’Africa si dimostra il terrenoin cui si stanno confrontando politiche di con-tenimento e d’espansione da parte di una cre-scente pletora di convitati.

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Iniziative Europee di Difesa

Lorenzo Striuli

►Il 30 novembre, i Ministri della Difesa dei Paesi membri dell'EDA (Agenzia Europea dellaDifesa) hanno avanzato l’ipotesi relativa a una serie di settori sui quali applicare le cosiddetteformule di pooling and sharing di assetti, al fine di ridurre i costi e migliorare al contempo l'ef-ficienza e la razionalizzazione dei vari sistemi militari nazionali. Sono state dunque individuateundici aree di cooperazione relativamente a ospedali da campo, rifornimento in volo, intelligence,sorveglianza e ricognizione, addestramento dei piloti, munizionamento "intelligente", logistica, eaddestramento congiunto delle marine militari, in particolare avvalendosi di cinque consulentifra ex-Direttori Nazionali degli Armamenti o ex-Capi di Stato Maggiore. Nella stessa occasioneè stato altresì sottoscritto un accordo di cooperazione dell'EDA con la Svizzera, finalizzato a con-sentire a quest’ultima la partecipazione ai progetti e programmi dell'Agenzia.►Il 1° dicembre, il Presidente francese Nicolas Sarkozy si è espresso in favore di una riconsi-derazione degli Accordi di Schengen, attualmente relativa a 22 Paesi membri dell’Unione Eu-ropea più all’Islanda, alla Norvegia e alla Svizzera. In particolare, egli ha indicato come le misurepreviste da tali accordi pongano l’intera Europa in maniera troppo esposta rispetto all’importa-zione di prodotti cinesi a basso costo, come anche all’ingresso massivo di lavoratori a basso sa-lario dagli Stati già-blocco orientale adesso aderenti alle aree di libero scambio e circolazione.La Francia nei mesi passati è stata protagonista di varie misure anti-immigrazione che hannoalimentato ampi dibattiti in Europa(in special modo in Danimarca e Olanda) circa l’opportunitàdi mantenere il sistema Schengen,ovvero di prevederne emandamenti quali: il ripristino di controlliconfinari con l’Italia al fine di bloccare immigranti magrebini che cercavano di raggiungere laFrancia, e il rimpatrio forzato di nomadi rom in Bulgaria e Romania. Di questi ultimi Paesi, l’in-gresso nell’area prevista dagli accordi continua a essere bloccato dal veto olandese. ►Il 14 dicembre, il Parlamento Europeo, con 307 voti in favore, 259 contrari e 54 astensioni,ha formulato nei confronti degli Stati membri dell’Unione Europea la richiesta di mettere apunto dei rapporti circa l’impatto delle rispettive misure antiterroristiche attuate, con specificoriferimento ai termini di costo-efficacia e ricadute sulle libertà civili. Tali documenti, poi, dovreb-bero andare incontro a un processo di valutazione comparata da parte della Commissione Euro-

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Il semestre di Presidenza di Turno danese a par-tire dal prossimo gennaio vede una serie di dos-sier aperti, che vale la pena di approfondire perle indubbie sfide sulle quali dovrà concentrarsila diplomazia di Copenaghen. 1) La crisi economica. Tradizionalmente, le at-tività di rilievo sul mondo dell’economia daparte della Danimarca nell’ambito dell’UnioneEuropea hanno teso a focalizzarsi su questionidi green economy ed efficienza energetica,mentre ora la Presidenza di Turno dovrà gioco-forza affrontare problematiche di natura finan-ziaria da parte di un Paese che, tuttavia, non ènemmeno membro della cosiddetta “eurozona”(come del resto poteva dirsi per la Polonia, cheha appena lasciato la propria turnazione di Pre-sidenza), pur se il nuovo Governo di centro-si-nistra di Copenaghen è stato eletto conun’agenda indubbiamente pro-Unione Europea.La principale sfida per la Danimarca sarà dun-que costituita dal cercare di mantenere un realeapparato di decision-making calibrato per 27Stati membri, salvaguardando al contempo gliinteressi manifestati per una maggiore integra-zione dei 17 Paesi aderenti al sistema euro. Ta-luni di questi ultimi, quali la Germania e laFrancia, come noto, stanno negli ultimi tempi

avanzando ipotesi per un nuovo Trattato cheinevitabilmente muterebbe l’attuale sistema incui (grosso modo), la Commissione formulaproposte di leggi e norme da negoziarsi sia conil Parlamento Europeo che con gli Stati membri,i quali devono espressamente adottarli per farneassumere valore legale. Il nuovo Trattato, in talsenso, si muoverebbe in direzione di maggioripoteri sovranazionali in materia di disciplina fi-scale, e sarebbe aperto all’adesione anche deiPaesi non adottanti l’euro. Proprio fra questi,tuttavia, potrebbe innescarsi una nuova ondatadi referendum di adesione, che potrebbe colpireanche la stessa Danimarca (e, in ogni caso, essa,assieme alla Bulgaria, alla Svezia, alla Repub-blica Ceca e all’Ungheria, ha da subito indicatocome occorra un passaggio parlamentare in-terno prima di procedere all’adozione di qual-sivoglia accordo in tal senso). Per ora il progettosi è concretizzato, nel dicembre scorso, in formadi sei nuovi accordi per i quali gli Stati membridovranno aderire quasi automaticamente (penaaltrettanto automatiche sanzioni) alle raccoman-dazioni formulate dalla Commissione Europeain materia di politiche di spesa pubblica e di re-gime fiscale, da consolidarsi in una proposta diTrattato che dovrebbe venire presentata nel

pea. La richiesta non ha un valore legalmente vincolante, ma nondimeno conserva un suo interesseperché mira ad indagare la materia come si è evoluta dall’Undici settembre in poi, chiedendo difornire dati circa i costi e le attività di intelligence telematica, le misure di data protection sia nelpubblico che nel privato, e anche l’ammontare delle spese verificatesi nel campo della ricercaanti-terroristica.

LE SFIDE PER LA PRESIDENZA DI TURNO DANESE

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corso del summit europeo atteso per il prossimomarzo (dopo essere stato presentato il 20 gen-naio alla presenza del Presidente del Consigliodell’Unione Europea Herman Van Rompuy), eche dunque costituirà un primo test per questonuovo sistema senza precedenti. A tale “pac-chetto” di accordi, entrati in forza il 13 dicem-bre, hanno aderito tutti gli Stati membri (euro enon-euro) dell’Unione Europea, con la rilevanteeccezione del Regno Unito, la cui decisione,motivata sia come indisponibilità a cedere ulte-riori quote di sovranità (del resto Londra a suotempo fu la capofila di quei Paesi che non ac-cettarono di aderire alla moneta unica, argomen-tandone un prevedibile insuccesso in mancanzadi un’unica autorità in materia fiscale e di tas-sazione a cui comunque essa non sarebbe maistata disposta a sottostare) che come volontà disalvaguardare le discrezionalità di quel centrofinanziario globale rappresentato dalla City lon-dinese, è stata pesantemente attaccata dal Pre-sidente francese Nicholas Sarkozy,specialmente quando il Primo Ministro britan-nico David Cameron si è spinto a richiederel’aggiunta di un protocollo esonerante Londrada alcune delle disposizioni sopramenzionate incambio di un’adesione ad altre . La Francia, dalcanto suo, pur continuando a criticare la sceltabritannica (Sarkozy ha poi dichiarato in un’in-tervista l’esistenza di “due Europe”), ha chiaritocome dal suo punto di vista la scelta di conferi-mento di maggiori poteri alla Commissione inmateria di bilanci e fiscalità sia solamente stru-mentale, in quanto il futuro dell’Unione Euro-pea sarebbe destinato a rimanere di carattere piùintergovernativo che sovranazionale. Si tratta didichiarazioni di segno esattamente opposto aquelle rilasciate dalla Cancelliera tedesca An-gela Merkel, che invece ha parlato dell’inizio diun’unione politica europea, soprattutto alla lucedel fatto che, oltre alla Commissione, in materiadi “buon governo” fiscale nel Trattato atteso vi

sarà un grosso ruolo anche per il Consigliodell’Unione Europea, e forse motivate dal fattoche Sarkozy, che nel prossimo aprile dovrà af-frontare una nuova tornata elettorale presiden-ziale, sa bene come i sondaggi diano comecontraria all’ipotesi di un nuovo Trattato lamaggioranza dei francesi, in questo in sintoniacon il candidato d’opposizione Francois Hol-lande. L’Irlanda, poi, ha reso noto come il pro-prio processo di adesione al Trattato, con tuttaprobabilità, vedrebbe l’attuazione di un referen-dum non soltanto focalizzato sullo stesso,quanto anche sulla continuazione della propriamembership nel sistema della moneta unica.Non sono solamente taluni Stati membri adesprimere dubbi e perplessità circa il nuovo “re-gime di governo dell’economia” comunitariache sta prendendo forma. Il Parlamento euro-peo, difatti, prendendo atto di come la credibi-lità delle istituzioni comunitarie stiarapidamente calando presso i cittadini europei,ha già più volte reso noto dichiarazioni per lequali sarebbe in atto un ulteriore incancreni-mento della ben nota problematica del cosid-detto “deficit democratico” dell’apparatodecisionale comunitario, rivendicando per sé unruolo maggiore rispetto a quello, senza dubbiosussidiario, attualmente rivestito, e ciò anche esoprattutto su materie economiche e finanziarie.Per ora tale organismo ha ottenuto che tre deisuoi rappresentanti partecipino ai lavori di draf-ting del testo del Trattato, i quali hanno resonoto come la maggior parte delle disposizioniche si stanno delineando siano già consentite daitermini su cui è strutturato il Trattato di Lisbona(è stata anche la posizione del resto espressa dalPresidente della Commissione Europea JosèManuel Barroso). In ogni caso, i Paesi sosteni-tori di questa “nuova Europa” (come è statagiornalisticamente definita), benché dettisi fi-duciosi per un processo di ratifica entro la pros-sima estate, dovranno con tutta probabilità

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esplorare formule alternative nell’eventualità dirallentamenti o veri e propri stop derivanti daprocessi di approvazione parlamentare quandonon referendari, cosa che in teoria sarebbe con-sentita dal fatto per il quale l’eventuale Trattatosi muoverebbe al di fuori delle tradizionali strut-ture comunitarie, dal momento che, nel corsodel summit di dicembre, il Regno Unito si è av-valso delle proprie prerogative di veto per bloc-care qualunque eventuale modifica del Trattatodi Lisbona per implementare le decisioni sin quiillustrate. E proprio tale questione potrebbe for-nire margini di manovra alla freddezza sinoramostrata dai britannici, che avrebbero ben ra-gione a questionare su come possa un eventualeTrattato intergovernativo essere implementato eregolato da organismi la cui ragion d’essere ri-posa solamente sui Trattati comunitari e soltantocon la finalità di servire gli scopi dei 27 Statimembri dell’Unione Europea, quali sono perl’appunto la Commissione, il Consiglio del-l’Unione Europea e la Corte Europea di Giusti-zia (che, nel sistema ipotizzato, dovrebbe essereinteressata dal processo di sanzionamento perbilanci nazionali ritenuti non adeguati). In tuttoquesto, Copenaghen dovrà altresì presiedere ilavori per la definizione del prossimo settennatodi bilancio comunitario (il quale comunque nondovrebbe essere presentato nell’ambito di que-sta Presidenza di Turno) e per l’emanazione dicirca una sessantina di interventi normativi at-tesi nei settori della ricerca, delle relazioniesterne, e dell’agricoltura. La Danimarca co-munque mira a dare il buon esempio per le mi-sure di rigore anti-crisi varate a livellocontinentale: sono stati infatti pianificati sola-mente otto meeting informali (in confronto aiventi attuati sotto la Presidenza polacca) a li-vello di Capi di Stato e di Governo. 2) La questione balcanica. Per lungo tempo alcentro degli interessi della politica estera del-l’Unione Europea, i Balcani sono stati un po’ re-

legati in secondo piano a livello di attenzionepubblica dai recenti avvenimenti legati alla co-siddetta “primavera araba”. In realtà, il rinno-varsi di disordini in Kosovo hanno nuovamentearroventato la regione ben oltre l’ambito di in-cidenti meramente confinari che si sono avutinegli scorsi mesi, e non può essere ignorato ilrichiamo che lo scorso novembre il Ministrodegli Esteri svedese Carl Bildt ha formulato, inuna lettera inviata alle istituzioni comunitarie,preoccupanti segnali che egli avrebbe rilevatonel corso della sua ultima visita nelle zone delnord del Kosovo. La questione tra l’altro si so-vrappone con il cammino di Belgrado verso lacandidatura all’accesso all’Unione Europea, acui la Germania si oppone in quanto propri sol-dati sono stati fatti segno di colpi d’arma dafuoco da parte di bande serbe operanti nel norddel Kosovo. In questo senso, per ora alla Serbiaè stato ipotizzato il conferimento dello status dicandidato nel marzo prossimo, e solo a condi-zione che Belgrado si mostri efficiente sia nelreprimere le attività di tali bande che nel fina-lizzare con Pristina adeguati accordi per la ge-stione dei confini fra i due Paesi. Ma laquestione balcanica non si limita soltanto adessi. Al Montenegro, ad esempio, anch’essoaspirante a un avvicinamento all’Unione Euro-pea, è stato riservato l’inizio dei colloqui d’ac-cesso per il prossimo giugno, tuttaviasubordinati a sensibili progressi da raggiungersinel contrasto al crimine organizzato e a proble-matiche di corruzione. La Bosnia, dal canto suo,nella speranza di acquisire anch’essa lo statusdi Paese candidato, è riuscita proprio a fine di-cembre a giungere a un accordo per un governodi unità nazionale dopo che da circa un anno erarimasta senza esecutivo in una situazione similea quella che per molti mesi ha caratterizzato lapolitica belga. 3) L’Ucraina. Dopo che la “questione Tymo-shenko” ha per mesi minacciato di far fallire

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quell’Eastern Partnership tanto cara alla scorsaPresidenza di Turno polacca, il 19 dicembrescorso Kiev è giunta a pattuire il testo di unTrattato bilaterale con l’Unione Europea, laquale però ne condiziona l’esecuzione alla cor-rettezza del processo elettorale che riguarderàl’Ucraina il prossimo anno. Il Trattato dovrebberiguardare accordi di libero scambio e di asso-ciazione politica, ma non contiene alcun riferi-mento all’eventuale apertura a un ingresso diKiev nella famiglia comunitaria. Il suo processodi ratifica è previsto essere completato per tuttii Paesi membri dell’Unione Europea (nonché,ovviamente, per la stessa Ucraina) fra il 2013 eil 2014, mentre per il febbraio prossimo venturodovrebbe essere formalizzato il completamentofinale del testo. Il Presidente del Consigliodell’Unione Europea Herman Van Rompuy,però, ha già dal canto suo esplicitato come il

processo di ratifica potrebbe conoscere rallen-tamenti qualora la Tymoshenko rimarrà in car-cere, cosa che spingerebbe, con tuttaprobabilità, gli osservatori elettorali dell’OSCEa dichiarare non democratiche le elezioni atteseper il prossimo ottobre. Da notare come l’ex-premier ucraina stia proprio in questi giorni af-frontando l’inizio di un altro processo basato sunuove accuse oltre quelle per le quali è già statacondannata. Sia la Presidenza di Turno daneseche la successiva, si troveranno di fronte al di-lemma se rallentare i processi di finalizzazionedel Trattato con l’Ucraina in un tentativo di pro-mozione di un processo elettorale corretto e re-almente democratico. Nel caso in cui laquestione si fermi a un punto morto, l’UnioneEuropea sembrerebbe non avere “piani B” neiconfronti di Kiev.

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Cina

Nunziante Mastrolia

►Allarme e preoccupazione ha destato una dichiarazione del ministero della Difesa cinese del13 dicembre scorso, nella quale si esprimeva l'interesse di Pechino circa l'offerta fatta dalle Sey-chelles di poter ospitare unità della marina cinese impegnate in attività di lotta alla pirateria. InIndia la notizia ha presto assunto un tono diverso: per i media indiani Pechino ha intenzione dicostruire la sua prima base militare all'estero. Un nervo scoperto per il Subcontinente dove benpresto si è lanciato l'allarme di un possibile accerchiamento da parte cinese. Lo stesso primo mi-nistro Singh è dovuto intervenire per calmare gli animi: “Our government does not share the viewthat China will attack India”. Pechino ha smentito: le Seychelles fornirebbero esclusivamente unsupporto logistico alle unità cinese, il che non implicherebbe la costruzione di una stabile basenavale. ►Altrettanta apprensione hanno suscitato le parole pronunciate da Hu Jintao il 6 dicembre scorso,con le quali, come riportato dalla maggior parte dei media internazionali, incitava la marina ci-nese “to make extended preparations for warfare”. In realtà, come più tardi è emerso, si tratte-rebbe di un errore di traduzione, il concetto espresso dal presidente cinese può, infatti, esseretradotto con il meno enfatico “combat readiness”. Hu, dunque, non ha pronunciato la paroleguerra, resta tuttavia l'apprensione e il sospetto con il quale gli attori regionali leggono qualsiasimossa da parte di Pechino. ►La Cina innalza la soglia con la quale definire il livello di povertà nel paese, adeguandosi aiparametri della Banca Mondiale: sono da ritenersi al di sotto della soglia di povertà quanti vivonocon meno di un dollaro al giorno. Questo significa che, con questi nuovi parametri, oggi sonooltre 100 milioni i cittadini cinesi poveri, che avranno diritto alle misure di assistenza sociale pre-viste dal governo.►Dal 27 dicembre scorso Beidou, il sistema di posizionamento e navigazione satellitare cinese,sviluppato come alternativa al GPS americano, è attivo anche per uso civile. Per rendere il sistemapienamente operativo a livello globale (al momento il raggio d'azione di Beidou è regionale) leautorità cinesi prevedono la messa in orbita nel 2012 di altri sei satelliti, che si andranno ad ag-giungere ai dieci già operativi.

Eventi

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UN PAESE IN BILICO

Il 2011 sarebbe dovuto essere l'anno fondamen-tale per risolvere alcune questioni in vista di un2012 fitto di concomitanze e scadenze. Dopoquattro anni gli Stati Uniti ritorneranno alleurne per le elezioni presidenziali, in Cina siapriranno le porte del XVIII Congresso del par-tito comunista. A Taiwan i cittadini sono chia-mati alle urne per le elezioni presidenziali in unpassaggio molto delicato della storia del Paesee così anche per la Corea del Sud. Inoltre “ver-ranno a scadenza simultaneamente titoli diStato, obbligazioni di aziende solide e junk-bond, per un valore complessivo che sarà quasiotto volte superiore a quello che i mercati hannoassorbito nel 2010. Solo il Tesoro USA nel 2012dovrà emettere titoli di Stato per quasi 2.000miliardi, per finanziare il fabbisogno corrente erifinanziare il debito venuto a scadenza. A que-sto verrà ad aggiungersi la valanga delle obbli-gazioni private in scadenza. Una quantità senzaprecedenti, tutta concentrata a partire dal2012”. Ebbene, poco o nulla è stato fatto nelcorso dell'anno.

Il contesto internazionaleI problemi che andavano risolti si sono anzi, inalcune circostanza, aggravati. L'economia ame-ricana resta in affanno, la disoccupazione restaalta e il fallimento del super-committee econo-mico, per un accordo sui tagli alla spesa pub-blica, fa ritornare l'incubo di un defaultamericano. Notizie che ovviamente creano seriproblemi all'amministrazione Obama, che po-trebbe fallire l'obiettivo di un secondo mandato.Proprio come accadde nel 1992 a George H.Bush, che pure aveva scacciato Saddam dal Ku-wait e assistito dalla Casa Bianca al crollo delmuro di Berlino. “It's the economy, stupid”, si

disse allora per spiegare la bocciatura di Bush.Ora la situazione è di gran lunga peggiore ri-spetto ad allora.Le difficoltà interne in America contribuisconoad innervosire le relazioni con Pechino. La cam-pagna elettorale è ormai iniziata e non è un casoche anche la voce di Obama negli ultimi mesisi sia unita a quella di quanti (compresi i candi-dati repubblicani tra cui in particolare MittRomney) individuano la Cina come responsa-bile di almeno una parte dei problemi che assil-lano l'America. Con toni anche forti, che dicerto resteranno negli annali delle relazioni traWashington e Pechino, Obama ha accusato laCina di prendersi gioco del sistema internazio-nale (“gaming”), di nascondersi astutamentedietro lo status di nazione in via di sviluppo pernon assumersi le responsabilità che invece lesono proprie in quanto seconda economia delglobo e dalle Hawaii il presidente è quasi sbot-tato “quando è troppo è troppo” (“enough isenough”): la Cina deve rivalutare lo yuan, nellasperanza (molto probabilmente vana) che cosìfacendo possa tornare a crescere l'occupazionenegli Stati Uniti.Nel contempo, sull'altra sponda dell'Atlantico,l'Europa, il primo partner commerciale di Pe-chino, potrebbe essere vicina al punto di fusionedel nocciolo e la Cina pare volerne rimanere allalarga. Dopo aver mostrato la propria disponibi-lità ad investire nei titoli del debito pubblico dialcuni stati, quella offerta è stata praticamenteritirata: troppo pericolosa la situazione per ri-schiare. Tuttavia se le difficoltà europee doves-sero aggravarsi le ripercussioni commerciali (uncalo delle esportazioni) potrebbero essere pe-santi.Pechino dunque nel corso del 2012 dovrà af-

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frontare un contesto internazionale non facile,sia dal punto di vista economico (il calo delladomanda globale), sia politico (la “China ThreatTheory”) e nel contempo è chiamata a scioglieretutta una serie di questioni economiche, sociali,ed anche politiche. Una parte delle quali sononuove, e sono emerse anche prepotentementenel corso dell'anno, altre invece più antiche e le-gate dalla via che la Cina ha scelto per ritornaread esse una grande e prospera potenza globale.

La situazione interna Il Paese è nel mezzo di una difficile, e pertanto,precaria fase di transizione che tocca l'econo-mia, la società e anche la politica.Economicamente Pechino sta provando a pas-sare da un modello trainato dalle esportazioniad uno basato sulla crescita delle domanda in-terna. L'obiettivo non è solo quello di limitare idanni prodotti da un calo della domanda inter-nazionale. C'è anche un'altra considerazione dafare: Pechino non può più mantenere la stabilitàinterna, che è legata a filo doppio al benessereeconomico della maggioranza, mantenendo ilsuo primato di esportatore di prodotti la cuicompetitività sui mercati internazionali è dovutaessenzialmente al basso costo della forza lavorocinese. Il partito ha pertanto la necessità di creare unaricca e prospera classe media che traini la cre-scita dei consumi interni e dia stabilità politica,legittimando l'operato dell'autorità del PCC. Perfare ciò Pechino sta utilizzando uno strumento,che in Europa ha avuto molto successo: lo statosociale. Welfare state che significa investimentiper la costruzione di un sistema sanitario nazio-nale, investimenti nell'istruzione, potenzia-mento delle politiche abitative e intervento asostegno dei salari. Di qui i primi interventi perun’introduzione del salario minimo e di qui l'au-mento del costo del lavoro. Per dirla in pocheparole, per affrontare la crisi economica e per

garantire la legittimazione politica del partito aPechino hanno deciso di garantire i diritti so-ciali. C'è inoltre un'altra transizione che la Cina deveaffrontare: dai prodotti labour-intensive a bassocosto ai prodotti ad alto contenuto di cono-scenza e di capitali. Un modello c'è ed è il Giap-pone (ed anche le Tigri asiatiche: Taiwan,Singapore, Corea del Sud) che è passato dai gio-cattoli a basso costo alle vette della più avanzatatecnologia. Il pericolo, lungo questo cammino,è quello di imbattersi nella middle-income trap,la trappola del reddito medio, che scatta quandoun paese si trova con un reddito pro capite com-preso tra i 3 e i 4mila dollari annui (oggi la Cinaè sui 3.300 dollari). Il rischio, come successo adalcuni Paesi dell'America Latina in passato, èquello di non riuscire a diventare un paese conalti redditi.Per fare ciò (alti redditi perché producono altovalore aggiunto) oltre ai diritti sociali è neces-sario investire nella formazione delle menti. Ep-pure su questo punto, nel corso dell'anno sonoemersi dei nodi: i migliori diplomati dellescuole superiori cinesi, preferiscono le univer-sità al di fuori della Cina. E' indicativo che, in-terrogandosi sul perché di questo fenomeno, ilGlobal Times abbia individuato la riposta nelfatto che le università cinesi mancano di pen-siero critico, mentre abbondano di rispetto perl'ortodossia. E' un punto su cui la leadership delpartito dovrà lavorare: senza un'università cheproduce sapere nuovo, innovazione tecnologicae ricerca scientifica le speranze cinesi di saliredi grado nella divisione internazionale del la-voro rimarranno scarse.Riforme dunque, così come sarà necessaria unariforma del sistema finanziario del paese, comeè apparso evidente a seguito della chiusura a ca-tena delle piccole e medie imprese di Wenzhou,che per poter accedere al mercato del creditoerano costrette a rivolgersi ad un sistema finan-

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ziario non ufficiale, che applicava tassi di inte-resse elevatissimi. E questo mentre banche diStato, che dominano il sistema finanziario delpaese, preferivano fornire liquidità alle impresedi Stato, o investire in attività speculative nelsettore immobiliare. L'intervento tempestivo delgoverno è riuscito a tamponare la situazione,imponendo alle banche di finanziare le piccolee medie imprese. Resta tuttavia da risolvere laquestione del pericoloso intreccio venutosi acreare tra banche ed imprese di stato. Questo si-gnifica che la Cina ha ancora molta strada dafare per poter essere effettivamente un'econo-mia di mercato. Ci sono poi aspetti più contingenti che comun-que potrebbero creare problemi al Paese dalpunto di vista economico. L'inflazione sta ral-lentando dopo che le autorità politiche e mone-tarie sono intervenute massicciamente perraffreddare l'economia, soprattutto nel mercatoimmobiliare (nel frattempo si moltiplicano idubbi di quanto mettono in questione l'affidabi-lità dei dati: l'inflazione in realtà sarebbe moltopiù alta rispetto alle cifre ufficiali). Il rischio èche la stretta possa essere troppo forte e avereeffetti depressivi sull'intera economia cinese,che quest'anno potrebbe non ottenere una cre-scita economica a due cifre come in passato. Viè poi anche in Cina il problema del debito: seinfatti si sommano i debiti dei governi locali,con quelli delle imprese di Stato, con il debitoufficiale del paese, i numeri si farebbero preoc-cupanti.C'è infine da tenere in considerazione che perfar fronte alla crisi economica Pechino ha inve-stito pesantemente, soprattutto nel settore delleinfrastrutture, nel più classico stile keynesiano.C'è da chiedersi cosa succederà quando questostimolo verrà meno.La transizione cinese tocca anche gli aspetti so-ciali. Il riferimento non è solo ai trend demogra-fici (invecchiamento della popolazione e

squilibri fra i sessi); né alla polarizzazione eco-nomica e sociale ancora forte o le crescenti fru-strazioni di quanti, soprattutto i giovani, imigranti e i residenti nelle aree rurali, non rie-scono a cogliere tutti i frutti sperati del miracolocinese. C'è dell'altro: è come se il Paese si guardasseallo specchio e non si riconoscesse. I tradizio-nali riferimenti culturali si sgretolano mentre ivalori propri di una società aperta non sono an-cora imperanti. In altre parole senza più Confu-cio, senza più Mao (e Marx) la Cina è orfana divalori e quindi di modelli di comportamento. Laleadership del partito ha cercato di riportare inauge i tradizionali valori del confucianesimo(che è bene precisare sono propri di una societàchiusa) ma con scarso successo, perché sono intotale antitesi con quei pezzi di occidente chedagli anni Ottanta il paese ha trapiantato al suointerno: mercato, merito e la necessità del pro-gresso, che hanno come presupposto il costantetentativo di falsificare ogni ortodossia per spin-gere avanti la conoscenza e la ricerca scienti-fica. Un paese in bilico dunque tra società aperta esocietà chiusa: insicuro ed ansioso. Di qui glishock causati da alcuni fatti di cronaca (dall'in-cidente ferroviario di Wenzhou, alla morte diuna bambina investita da un furgone e non soc-corsa da nessuno). Di qui la perplessità che nel-l'opinione pubblica sta causando uno stranofenomeno: un alto tasso di suicidi tra i ricchi.Un fenomeno che chiaramente disorienta se siconsidera che Deng aveva lanciato il paese nellasua corsa verso lo sviluppo al grido “la ric-chezza è gloria”. Di qui la costante necessità daparte della leadership di calmare gli animi e dirassicurare, di infondere fiducia, in questo sensoil varo “estemporaneo” della prima portaerei ci-nese acquistata in Ucraina.Ed infine la transizione politica. Anche in que-sto caso non si tratta solo della pressione che

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viene dal basso per una modifica dello statusquo (l'autocrazia del PCC): il movimento deicandidati indipendenti, lo scontento sociale, icasi di rivolte (che si fanno sempre più impor-tanti: si pensi a quanto accaduto nella cittadinadi Wukan) scaturiti a seguito di soprusi della au-torità locali sono indubbiamente fenomeni im-portanti, che possono avere un impatto pesantesul futuro della leadership del partito, e chevanno attentamente monitorati. E non si trattasolo dell'altra pressione esercitata da una partedella leadership, in particolare quella che facapo al premier Wen Jiabao, che preme perchéla Cina apra il cantiere delle riforme politiche,il che significa una riforma democratica delpaese. L'elemento nuovo emerso nel corso dell'anno èun altro. Al di là della lotta tra le fazioni, chegenericamente potrebbero essere definite tradi-zionalista ed occidentalista, la leadership delpartito si è resa conto che, volente o nolente, ilsistema politico va riformato perché, per dirlacon Pasolini, il Palazzo si è allontanato troppodal Paese reale. La spia di queste difficoltà sono i tanti esperi-menti di “ascolto” e di partecipazione politicache stanno sorgendo: dai sondaggi su Internetper saggiare il consenso popolare rispetto ad al-cuni provvedimenti legislativi ai ventimila ope-ratori che a Pechino bussano di casa in casa peravere indicazioni e suggerimenti sulle politicheda adottare soprattutto per far fronte ai bisognidegli anziani; dal progetto pilota delle associa-zioni Lehe, di cui si è parlato nell'OsservatorioStrategico di settembre, ai tentativi di far dialo-gare i funzionari locali con i cittadini. Esperi-menti per cercare di creare una democrazia concaratteristiche cinesi, che nascono dal rifiutoideologico della via occidentale (libere elezioniper liberi candidati). Esperimenti di cui, tutta-via, è lecito dubitare sia l'efficacia che l'effi-cienza.

Tutta queste contraddizioni, nodi, difficoltà siaeconomiche, che sociali, che politiche, come siè scritto a più riprese in passato, si possono spie-gare facendo ricorso alle analisi dello storico in-glese Arnold Toynbee. La Cina di Deng (cosìcome nella seconda metà dell'Ottocento i fautoridel movimento dell'autorafforzamento tenta-rono di rianimare l'Impero) per crescere econo-micamente ha innestato al suo interno l'istitutooccidentale del mercato. Ha preso in prestito unpezzo di occidente (il mercato e le tecnologieoccidentali), illudendosi di tenere fuori dallaCina il resto (il pluralismo politico). Ebbene,l'esperimento dell'autorafforzamento condusseal crollo dell'Impero e alla nascita di una repub-blica di stampo occidentale nel 1912. La Cinamoderna si sta rendendo conto che quel per-corso avviato da Deng non può compiersi se almercato non si affianca la democrazia. E questoperché, come sta emergendo, il mercato senzademocrazia non funziona. Questo significa chese la Cina vuole continuare verso la strada dellaprosperità e della stabilità non potrà che esseredemocratica, in senso occidentale. Per dirla di-versamente, il mercato, e la società che esso haprodotto, è incompatibile con l'attuale strutturapolitica del paese.

La situazione regionaleLo si accennava in precedenza, alle Hawaii loyuan troppo basso ha fatto sbottare Obama(“quanto è troppo è troppo”). Eppure sembrache anche a livello strategico gli Stati Uniti ab-biano perso la pazienza nei confronti della Cina.Il risultato non è solo il ritorno in Asia, inquanto Pacific power (in realtà gli Stati Unitinon hanno mai abbandonato la regione e se di“ritorno”, dopo le distrazioni mediorientali, bi-sogna parlare questo va fatto iniziare con BushW.). L'elemento più importante è la spettacolareaccelerazione data al containment di Pechino.Un nuovo Grande Gioco, come lo definiva

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l'Economist il 3 dicembre scorso, commentandola visita della Clinton in Myanmar, che si tingedi roll-back, cioè la sottrazione alla Cina di in-fluenza politica ed economica a livello regio-nale. Così ritorna in vita la QuadrilateralDefence Initiative, lanciata da Bush, un'alleanzatra le democrazie regionali (un arco delle libertàcome lo definì l'ex primo ministro giapponeseShinzo Abe) tra India, Australia, Corea del Sud,Giappone e Stati Uniti, con l'aggiunta delle Fi-lippine, del Vietnam, della Thailandia: queiPaesi che negli ultimi anni hanno sentito piùforte la pressione cinese nell'ambito delle di-spute territoriali. Infatti non si tratta solo di un'alleanza tra simili.I continui incidenti nel Mar cinese meridionalee il ricatto strategico attuato ai danni del Giap-pone con il blocco dell'esportazione delle terrerare da parte di Pechino, stanno rinsaldando lerelazioni tra alcuni componenti di questo bloccoin fieri, che prima erano molto distanti. Il Giap-pone, insieme alla Corea del Sud, sta avviandolo sfruttamento delle terre rare in India e l'Au-stralia, superando quello che era stato sempreun punto irremovibile della propria politica dianti-proliferazione, sembra decisa a vedere ura-nio all'India, che pure non ha mai firmato ilTrattato di Non-Proliferazione.Una NATO asiatica in nuce, che, nonostante letante rassicurazioni, preoccupa Pechino, chevede formarsi un vero e proprio cordone sani-tario intorno ai propri confini. Tanto più se siconsidera che evitare questo accerchiamento èsempre stato nei secoli un imperativo strategicodella Cina, che ha sempre manovrato per gio-care l'un contro l'altro i propri vicini: “per tuttala sua storia – scrive Kissinger – il principaleincubo della Cina era stato il rischio che i bar-bari non si lasciassero più «usare» e potesserounirsi per sfruttare la propria forza superiore alfine di conquistare la Cina o dividerla in feudiseparati”1. Lo scenario che ora si va materializ-

zando è, pertanto, un “incubo strategico” per laCina, che potrebbe addirittura peggiorare nelcaso di una vittoria alle elezioni presidenzialinell'isola di Taiwan di Tsai Ing-wen. Questo si-gnifica che Pechino ha fallito nel rassicurare ipaesi della regione circa il suo peaceful deve-lopment. La Cina non è vista come un “buon vi-cino”. E nel contempo, la Cina ha fallito neltentativo di creare un ordine sinocentrico nellaregione, nonostante i profitti commerciali e gliinvestimenti che il gigante cinese può garantire.L'obiettivo americano pertanto è quello dicreare un framework strategico a livello regio-nale che possa assicurare tutti i paesi della re-gione che quello cinese non potrà che essereuno sviluppo pacifico. Il che significa chel'obiettivo di Washington non è solo quello dicontenere Pechino, ma anche impedire che lepreoccupazioni dei paesi della regione possanosfociare in un'isteria anti-cinese. Se così stannole cose come reagirà Pechino? Scrive Kissinger:“Una delle differenze tra la strategia diploma-tica cinese e quella occidentale sta nel modo incui i due paesi reagiscono alla percezione dellapropria vulnerabilità. I diplomatici occidentalie americani ritengono che ci si deve muoverecon maggiore cautela al fine di evitare possibiliprovocazioni (…) Gli strateghi cinesi tendonoinvece ad aumentare i propri sforzi per rime-diare con il coraggio e la pressione psicologicaal vantaggio materiale del nemico. Credononella deterrenza, attuata nella forma della pre-emption. Quando ritengono che il loro avversa-rio stia acquisendo un vantaggio inaccettabile eche l'ago della bilancia strategica si stia muo-vendo a loro sfavore, gli strateghi cinesi cercanodi incrinare la sicurezza di sé dell'avversario edi riprendere il sopravvento psicologico, se nonanche quello materiale”2. In un altro passaggioKissinger scrive: “Il concetto di deterrenza of-fensiva comporta l'uso di una strategia preven-tiva non tanto per sconfiggere militarmente

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l'avversario quanto per infliggergli un colpo psi-cologico che lo convinca a desistere dalle sueintenzioni”3. L'elemento preoccupante è che:“l'incontro tra la visione cinese della preemptione la dottrina occidentale della deterrenza puòsfociare in un circolo vizioso: iniziative consi-derate in Cina esclusivamente difensive pos-sono essere ritenute di natura aggressiva dalmondo esterno; misure di deterrenza messe inatto dall'Occidente possono essere interpretatedai cinesi come tentativi d'accerchiamento”4.Questo è quanto sta avvenendo oggi a livello re-gionale. Iniziative messe in piedi per rassicurarei paesi della regione e garantire un'evoluzionepacifica della crescita cinese e quindi anche cal-mare gli animi in tutta l'area, potrebbero esserelette da Pechino come un tentativo di aggressivoaccerchiamento.

ConclusioniOggi la Cina è un paese in bilico, che pare in-deciso se optare per la soluzione kemalista, ecioè una totale occidentalizzazione, o richiuderele porte del paese al mondo come fece Mao e ri-tornare al passato dell'Impero. Tuttavia una de-cisione dovrà pure essere presa, perché lo statoattuale, il tentativo di far convivere pezzi di Oc-cidente all'interno di una struttura politica mo-nocratica, è insostenibile e rende (vista latensione continua tra tradizione e modernità)

ogni giorno di più il Paese schizofrenico, comeè già successo alla fine dell'Ottocento.Tensioni interne e pressioni esterne, dunque, chesi verificano in una fase delicata per il Paese.Anche perché, in aggiunta a quanto sin quidetto, il prossimo anno si apriranno le porte delXVIII Congresso del Partito, che segnerà il pas-saggio dalla quarta generazione di Hu Jintao eWen Jiabao, alla quinta generazione quella di XiJinping e Li Keqiang, che dovrebbero essere no-minati rispettivamente presidente e premier. Ilcondizionale è d'obbligo e non è escluso che cisiano delle sorprese. Tuttavia, al di là dei nomi sarà fondamentaletentare di capire quale futuro per la Cina usciràda quel Congresso, se cioè il ribollio interno ela pressione che gli Stati Uniti stanno eserci-tando nella regione porteranno al potere quantisono a favore di una reazione, probabilmente se-condo il concetto della deterrenza attiva, equindi di una alterazione dell'ordine regionale equindi una maggiore chiusura della Cina all'Oc-cidente, oppure se il Paese imboccherà la stradadella quinta modernizzazione, la democrazia.Bisognerà, in altre parole, attentamente osser-vare se questo stato di equilibrio precario verràrisolto con un ritorno alla tradizione imperialee maoista o abbracciando definitivamente l'oc-cidente.

1 H. Kissinger, Cina, Mondadori, Milano, 2011, pag. 263 2 Ivi, pag. 314 3 Ivi, pag. 1984 Ivi, pag. 125

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India

Claudia Astarita

►L'India punta al ferro dell'Afghanistan. Un consorzio di sette aziende indiane si è aggiudicatoi diritti di estrazione su tre miniere dell'Afghanistan centrale, un contratto dal valore di 10,3 mi-liardi di dollari. I diritti di esplorazione su un quarto sito sono stati invece ottenuti dai canadesidi Kilo Goldmines. Se l'India manterrà la parola data e le attività di estrazione inizieranno entroil 2015, non solo diventerà la promotrice del principale investimento straniero ottenuto dall'Af-ghanistan, ma riuscirà ad aiutare Kabul a diventare più autonoma dal punto di vista della dispo-nibilità interna di risorse minerarie. Nel solo giacimento di Hajigak, nel Bamiyan, secondo unostudio realizzato negli anni '60 dovrebbero esserci 1,8 miliardi di tonnellate di minerali di ferro.► India: bilancio sulle spese militari. Alla fine di dicembre il governo indiano ha comunicatoche il nome del vincitore tra i due candidati rimasti in gara, Eurofighter e Rafale, della maxi-commessa che vale oggi 13/14 miliardi di dollari per la fornitura di 126 velivoli da combattimentoall'Indian Air Force dovrebbe essere annunciato entro la metà di gennaio. Non solo: all'inizio del2012 potrebbe essere confermata anche un'opzione per altri 63 apparecchi che alzerebbe la postain gioco a 20 miliardi di dollari. Secondo il numero uno dell'India Air Force, Norman Anil Kumar Browne, una scelta di massimatra francesi e consorzio europeo sarebbe già stata fatta. Una decisione, questa, che ha a prescin-dere sfavorito Washington anche se, a fine 2011, l'India ha guadagnato la terza posizione nellaclassifica dei paesi che comprano più armi dagli Stati Uniti, grazie a una fornitura che ha rag-giunto il valore complessivo di 4,5 miliardi di dollari. Eppure, il Pentagono non perde occasioneper rimarcare che se gli USA avessero ottenuto anche la commessa dei 126 caccia, New Delhi sa-rebbe diventata il principale mercato americano per la vendita di armi, superando Afghanistan eTaiwan con, rispettivamente, 5,4 e 4,9 miliardi di dollari.► Anche l'India vuole censurare internet. La scelta di New Delhi di applicare nuovi controllialla rete per evitare la diffusione di notizie ritenute sensibili è stata duramente criticata sia dal-l'opinione pubblica locale che dall'estero, e molti temono che il paese stia facendo qualche passoindietro dal punto di vista della libertà di parola e che sia stata gravemente intaccata la credibilitàdella democrazia. Dal punto di vista di New Delhi giganti della rete come Google, Yahoo! e Facebook avrebbero inpiù occasioni ignorato la richiesta indiana di "esaminare immagini e dati prima di metterli online",

Eventi

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INDIA: UN 2012 DI RIFORME E SVILUPPO

permettendo quindi al paese di "visualizzare anche contenuti inaccettabili". Difficile capire qualiinformazioni rientrino nella categoria "inaccettabile". C'è chi parla di "contenuti minacciosi, vio-lenti o scabrosi", ma è molto probabile che i politici vogliano soprattutto difendersi dalle criticheche 110 milioni di internauti (destinati a diventare 600 milioni nei prossimi conque anni) potreb-bero muovere contro di loro. Non con la censura, ma con "nuovi regolamenti che contribuisconoa mantenere la pace e la stabilità nel paese". E’ però possibile che le proteste dell'opinione pub-blica costringano New Delhi a fare un passo indietro.► New Delhi corre verso il nucleare. In India, il fabbisogno energetico pro capite è passato dai450 kwh annui di inizio millennio ai 1000 kwh previsti dal governo per il 2012. Le neccessità ener-getiche dell'industria, invece, crescono da quindici anni del 9% l'anno, e il deficit energetico ac-cumulato, vale a dire la differenza tra richiesta di energia ed effettiva disponibilità, potrebbe prestoarrivare al 15%. Ecco perché, dal momento che solo il 10% della produzione interna di energiaderiva dalle rinnovabili e il 70% da carbone, gas e petrolio, New Delhi è oggi costretta a puntaresul nucleare civile, che dovrebbe riuscire a sopperire al 25% del fabbisogno nazionale entro il2050. Le opportunità offerte del nuovo interesse indiano verso il nucleare sono state colte al volo dapaesi come Russia, Kazakistan e Francia, che hanno pianificato la costruzione, entro il 2032, dinuove centrali in tutto il paese per una potenza complessiva di 63 GW, o dall'Australia, che a di-cembre ha cancellato il divieto di vendere uranio all'India. New Delhi non ha mai potuto ricevereuranio da Canberra in quanto paese non firmatario del TNP. Fortunatamente per l'India, però,l'accordo sul nucleare civile firmato nel 2005 con gli Stati Uniti ha creato un precedente che hapermesso alla nazione che possiede oggi il 23% delle riserve di venderlo anche al Subcontinente.L'Australia ha giustificato la sua scelta spiegando che la vendita di uranio all'India aiuterà ilpaese a risollevarsi, che si tratta di una decisione "in linea con le scelte della comunità interna-zionale", e che, in questo modo, New Delhi verrà aiutata a potenziare una linea di sviluppo capacedi sfruttare prevalentemente fonti di energia pulite. Quello che Camberra ha dimenticato è che,come è già successo nel 2005, il Pakistan inizierà presto a pretendere un trattamento simile, la-sciando aperta la possibilità che quest'ultimo, sentendosi sempre più insicuro, rafforzi ulterior-mente il suo legame con la Cina sul piano della cooperazione energetica e militare.

Il 2011 è stato per l'India un anno di grandecrisi. Non solo per le ripercussioni di una tur-bolenza finanziaria internazionale che indubbia-mente hanno travolto anche il Subcontinente,ma, soprattutto, per una grave instabilità politicache, mal gestita, potrebbe continuare per tuttoil 2012 mettendo a dura prova la tenuta non solo

economica della terza potenza asiatica. Ecco perché, a differenza di quanto è successonel 2011, un anno in cui New Delhi ha concen-trato la maggior parte degli sforzi nel rafforza-mento della posizione indiana fuori dai confininazionali (con risultati in alcuni casi buoni,come per il consolidamento della nuova alle-

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anza con l'Afghanistan e il riavvicinamento adalcuni paesi del Sudest asiatico, in altri negativi,come la dura ma inefficace reazione al raffor-zamento della Cina nell'Oceano Indiano (e nonsolo) e il peggioramento dei rapporti col Paki-stan, nel 2012 l'India farebbe bene a concen-trarsi soprattutto sulla politica interna.Il problema più urgente da risolvere è sicura-mente quello della rupia. Il recente indeboli-mento della valuta nazionale, infatti, potrebbefar piombare l'India nella più grave crisi finan-ziaria degli ultimi decenni. Questo perché, a dif-ferenza di quello che succede nelle principalieconomie asiatiche, il Subcontinente soffre inmaniera sistematica di deficit fiscale e di partitecorrenti, una situazione che impone a NewDelhi di andare a caccia di valuta straniera perrimanere a galla. E, naturalmente, ogni volta chela divisa nazionale si indebolisce la disponibilitàdi capitali in entrata si riduce. Il colpo di grazia alle finanze disordinate delSubcontinente lo ha dato la crisi dell'Europa. Ese i problemi di debito nel Vecchio Continentecontinueranno a peggiorare, l'India potrebbe ri-trovarsi a dover affrontare la più grave crisidella bilancia dei pagamenti dai tempi delle ri-forme economiche del 1991. I problemi di liqui-dità iniziano a farsi sentire in tutto il paese. Larupia in quattro mesi ha perso il 16% del suo va-lore, le aziende vanno tutte alla ricerca di dollariche né le banche nazionali né quelle stranierevogliono distribuire, e gli istituti di credito eu-ropei, che fino a poco tempo fa finanziavanouna buona metà dei prestiti concessi all'India,stanno tagliando quasi tutte le loro linee di cre-dito. In valore assoluto gli investimenti direttiesteri sono passati, in soli dodici mesi, da 38 a23 miliardi di dollari. Il governo è poi particolarmente preoccupatodal fatto che l'emergenza rupia debba oggi es-sere affrontata insieme a tante altre: rallenta-mento della crescita e inflazione alle stelle

(oscilla da tempo tra il 9 e il 10%), per non par-lare della perdurante paralisi politica e istituzio-nale che non permette all'esecutivo di reagire inmaniera adeguata.Tra luglio e settembre l'economia è cresciuta aun tasso del 6,9%, quasi un punto percentualein meno rispetto ai valori registrati nel trimestreprecedente (7,7%), e più di un punto e mezzorispetto al 2010 (8,5%). Non solo: le perdite piùsignificative sono state registrate dal settore ma-nifatturiero, che è cresciuto nell'ultimo trimestredel 2,7%, poco più di un terzo sia rispetto al tri-mestre precedente (7,2%), sia allo stesso pe-riodo nel 2010 (7,8%). E si tratta di un settoreche ha sempre contribuito alla crescita comples-siva del paese per il 16% circa. Del resto, se in un paese povero come l'India in-flazione e tassi di interesse sono molto alti, lacrescita scivola sotto la soglia del 7% e il go-verno continua a rimanere paralizzato da lotteinterne apparentemente irrisolvibili, gli investi-menti si fermano e le prospettive relative al fu-turo peggiorano. È vero che una moneta piùdebole dovrebbe favorire le esportazioni, ma inun sistema in cui le banche nazionali concedonoprestiti soprattutto allo stato e le aziende, per an-dare avanti, devono affidarsi a creditori stra-nieri, una rupia troppo svalutata fa aumentaretalmente tanto il valore reale dei loro debiti dapoter condurre tanti sull'orlo della bancarotta.L'India ha bisogno di riforme, di investimenti,meglio se in valuta straniera, e, ancora più im-portante, di recuperare la fiducia dei mercati,ormai convinti che anche un intervento miratodella banca centrale, la Reserve Bank of India,senza il sostegno del governo non potrà certofare miracoli, neppure nel breve periodo. Quello che mercati e investitori sperano è chela difficile situazione economica spinga l'esecu-tivo di Manmohan Singh ad approvare le ri-forme necessarie per uscire da questapericolosissima situazione di impasse. Eppure,

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nonostante l'attuale premier continui ad essereassociato agli anni del miracolo economico,visto che nel '91 fu lui, in qualità di Ministrodelle Finanze del governo di P.V. NarasimhaRao, a studiare le riforme che innescarono lagrande crescita nel Subcontinente, oggi la po-polazione (e il suo partito) non vogliono aiutarload attuare quei cambiamenti di cui il paeseavrebbe tanto bisogno. Va infatti riconosciutoche Singh molte buone idee le ha avute, masono state tutte in alcuni casi bocciate dal Par-lemento, dove l'opposizione è riuscita a convin-vere anche le forze principali della coalizione digoverno a schierarsi contro il Partito del Con-gresso, in altri bloccate dalle proteste dell'opi-nione pubblica. Tra queste, l'introduzione di un documento diidentità universale capace di aiutare i governidelle varie nazioni a identificare i destinatari deisussidi in chi ne abbia veramente diritto. Ancorapiù innovativi sono i contenuti del maxi-pac-chetto di riforme riguardante iniziative che,dagli anni '90 in poi, tutti i governi in carica sisono sempre rifiutati di approvare per motiviprincipalmente strategici. Oggi, però, l'esecu-tivo di Manmohan Singh si è reso conto diquanto un cambiamento radicale sia diventatonecessario per permettere al paese di ricomin-ciare a crescere a ritmi sostenuti e creare milionidi nuovi posti di lavoro, per sentirsi così più alriparo dal pericolo contagio proveniente da Eu-ropa e Stati Uniti e dalle preoccupanti oscilla-zioni degli indicatori relativi alla crescitanazionale. Il governo ha quindi dato la propria disponibi-lità ad autorizzare gli investimenti diretti esterinel comparto della distribuzione fino a un mas-simo del 51%; in quello dell'aeronautica civileil Ministro dell'Industria preme per alzare il tettoal 26% mentre quello per l'Aviazione vuole por-tarlo al massimo al 24%. Nel settore dei fondipensione è stato raggiunto l'accordo per autoriz-

zare l'immissione di capitali stranieri fino al26%. Infine, l'India potrà finalmente costruiredelle grandi metropoli industriali, che offrirannoalla popolazione milioni di nuovi posti di la-voro. Gli investimenti esteri in questi tre settori chiavedell'economia del Subcontinente avrebbero po-tuto portare, già nel breve periodo, all'aperturadi grandi gruppi internazionali come Wal-Mart,Tesco e Carrefour, alla stabilizzazione dellecompagnie aeree, eliminando i disservizi attualilegati all'improvvisa cancellazione di voli permancanza di fondi, e avrebbero dovuto offrireai lavoratori privati l'opportunità di versare con-tributi sicuri che avrebbero permesso loro, allaconclusione della carriera, di percepire una pen-sione.Eppure, se da un lato per convincere il governoad andare avanti in questa direzione un gruppodi quattordici uomini d'affari ha persino scrittouna lettera aperta per sottolineare come l'Indianon possa più permettersi di continuare a rima-nere indietro, confermando l’interesse degli in-vestitori per queste riforme, dall'altro non sonomancate le polemiche di chi a priori si è con-vinto che solo i grandi gruppi stranieri si sareb-bero spartiti i vantaggi della tanto decantataseconda ondata di riforme economiche, perchéi piccoli produttori e rivenditori nazionali sareb-bero stati immediatamente tagliati fuori dalmercato dalla concorrenza, visto che non avreb-bero mai trovato la forza o le capacità per rior-ganizzarsi e continuare ad essere competitivi. Alla fine sono stati i movimenti contrari alle ri-forme ad avere la meglio, costringendo l'esecu-tivo a rimandarne l'implementazione a tempoindeterminato. Un fatto che ha messo ancora dipiù in dubbio la credibilità del Partito del Con-gresso. Lo dimostra il fatto che pur avendo uf-ficialmente accettato di sospendere(temporaneamente) l'approvazione del maxipacchetto di riforme, pensato proprio per atti-

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rare quei capitali stranieri che, investiti in infra-strutture e in progetti di modernizzazione del-l'apparato industriale nazionale ne avrebberopotenziato la resa, per poter "riuscire ad andareavanti con il resto del suo programma", il Partitodel Congresso non è riuscito a trovare nel 2011neppure un compromesso accettabile per lalegge anti-corruzione. Va poi aggiunto cheanche l'unica formazione politica apparente-mente favorevole alle riforme è in realtà divisatra chi le ritiene importanti per il paese e chi neteme l'impopolarità in vista delle prossime ele-zioni.Pensata per arginare la piaga della corruzionenel paese, una legge già approvata nel mese diagosto era stata poi archiviata a seguito delleproteste dell'attivista Anna Hazare che, grazie auno sciopero della fame durato ben dodicigiorni, sempre nel mese di agosto, è riuscito,con una mossa da tanti definita poco democra-tica, a fare in modo che il Parlamento si riunisseper studiare una nuova normativa che impe-gnasse il governo a creare un ombudsman indi-pendente incaricato di indagare e,eventualmente, perseguire a termini di legge ipolitici e i funzionari pubblici accusati di avercommesso un reato. Alla fine, però, pur avendoottenuto il via libera alla Camera Bassa, a finedicembre, dopo un dibattito di oltre tredici ore,l'approvazione della nuova legge è stata rinviatadalla Camera Alta a un momento indefinito delprossimo anno. Forse a marzo, quando il Parla-mento sarà costretto a riunirsi per approvare ilnuovo bilancio. Per i sostenitori di Anna Hazaresi tratterà comunque di un fallimento visto chela nuova legge, pur avendo previsto la figuradell’ombudsman, gli ha attribuito talmentepochi poteri da renderlo, di fatto, inefficace. Piùin generale, l’incapacità del Congresso di por-tare a termine l’ennesima iniziativa a causa dellepressioni dell’opposizione interna ed esterna alpartito confermano che questa formazione po-

litica è ormai troppo debole per guidare il paese.

Dopo aver ottenuto discreti successi in politicaestera, è un peccato che il governo indiano siritrovi alla fine del 2011 nell’incapacità di co-gliere quelle opportunità che potrebbero aiu-tarlo a vincere le elezioni del 2014. L’India staattraversando una fase particolarmente deli-cata e non può permettersi di perdere altrotempo per approvare le riforme economiche diseconda generazione di cui il paese ha bisogno.Il Primo Ministro Manmohan Singh ne è con-sapevole, e sta cercando in tutti i modi di recu-perare il consenso della popolazione e deiparlamentari. Prima di riunire le Camere pervotare sulla legge anti corruzione, Singh haperfino cercato di promuoverne un’altra parti-colarmente popolare in base alla quale unnuovo sussidio alimentare, quantificabile insette chilogrammi di grano all’anno, sarebbestato concesso al 60% della popolazione, valea dire ai tre quarti degli indiani che vivono nellecampagne e alla metà delle famiglie urbane.Eppure, forse complice la consapevolezza cheun’iniziativa del genere non è finanziariamentesostenibile, o almeno non in questa fase digrandi difficoltà economiche, l’opposizione hacontinuato a rifiutarsi di sostenere il governo.Non solo: anche i fedelissimi di Sonia Gandhihanno iniziato a staccarsi dal premier. Nono-stante quest’ultimo sia convinto che il Partitodel Congresso abbia il dovere di sfruttare iprossimi due anni per rilanciare l’economiadell’India trasformandola, finalmente, in una“vera grande potenza”, chi è vicino a SoniaGandhi teme che riforme troppo impopolaripossano far crollare i consensi per il partito sianelle elezioni di alcuni stati importanti, comel’Uttar Pradesh, uno dei principali bacini elet-torati del Congresso, previste per il 2013, sianelle nazionali del 2014, nelle quali, non va di-menticato, il candidato premier potrebbe essere

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proprio il figlio di Sonia, Rahul. Un motivo inpiù per rimanere politicamente fedeli alla ve-dova dell’ex primo ministro Rajiv Gandhi.Anche se, sostiene Manmohan Singh, nel casoin cui nei prossimi due anni l’India si ritrovi adaffrontare una durissima crisi economica, per

il Congresso sarebbe comunque difficile man-tenere il consenso. Ecco perché, per il bene delpaese, non bisognerebbe farsi sfuggire questaimportante occasione per innovare il sistema. Enel 2012 l’attuale premier di certo non rinun-cerà alla sua battaglia riformista.

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America Latina

Alessandro Politi

► Il 14 dicembre 2011 l’ONG Participación Ciudadana ha aperto una campagna anticorruzionepolitica nella Repubblica Dominicana. Mancano leggi e regole specifiche per diminuire i costielettorali, fare luce su fondi e spese dei politici e punire il riciclaggio.► Il 21/12/2011 il Mercosur ha disposto il bando di battelli battenti bandiera FIG (Falkland Is-lands Government) da tutti i propri porti. È una successo diplomatico argentino all’approssimarsidel trentennale della guerra delle Falkland/Malvinas. Il Foreign Office ha protestato per quellache qualifica come un blocco economico alle isole.►Lo scorso 22/12/2011 i presidenti di Bolivia e Perù hanno firmato la dichiarazione di Cuzco.Oltre a istituire programmi di collaborazione sociale frontaliera, risolvere questioni di danni am-bientali causati al rio Suche ed al condiviso lago di Titicaca, hanno adottato una posizione politicacomune sul contenzioso marittimo Bolivia-Cile. Il Perù appoggia la Bolivia, si prepara ad aprireil porto di Ilo come sbocco temporaneo al mare per il paese vicino e ha escluso che le decisionidella Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sul contenzioso marittimo Perù-Cile pregiudichinoi diritti boliviani.

Eventi

L’AMERICA LATINA NELL’ANNO DEL DRAGONE

Non è semplicemente una crisi economica siste-micaA dispetto delle opinioni che la crisi attuale siaseria ma risolvibile nei prossimi anni, bisognaprepararsi alla prospettiva della fine di un ciclostorico trisecolare in un arco di tempo che vadalla Rivoluzione Industriale all’emergere delcrack dei mutui subprime.L’intuizione accademica su un ‘declino dell’Oc-

cidente’ non basta a misurarne la portata perchéstiamo assistendo alla fine di una civiltà:

l’ordine mondiale basato sull’espansione•delle potenze e dell’organizzazione stataleMedlantica è finito con la doppia sconfittastatunitense in Iraq e Afghanistan; per ilprossimo decennio si può presupporre chenon ci sarà un ordine mondiale, ma solo unsistema di riferimento politico internazio-

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nale, incarnato dal G20 e basato su equilibrifluidi e cambi politici fluttuanti; 1lo stato nazionale, dopo il suo apogeo in tre•guerre mondiali (I e II Guerra Mondiale,Guerra Fredda – III GM), sta visibilmentedeclinando in termini di controllo geoeco-nomico e quindi geopolitico. L’attualeguerra finanziaria che è in corso ai dannidell’Eurozona mostra quanto è ridotto ilruolo svolto da governi e stati rispetto ai 10maggiori gruppi finanziari mondiali, cherappresentano la guida oligopolistica del fi-nanzcapitalismo. A seconda della storia deidiversi paesi, i grandi stati nazionali mo-derni hanno un’età fra i 400 ed i 150 anni,un periodo nel quale è difficile evitare l’ob-solescenza;la democrazia rappresentativa, che dall’ini-•zio della Guerra Fredda (1948) è stata rap-presentata come indissolubilmenteconnessa alle economie di libero mercato e

di fatto è stata legata alle fortune della bor-ghesia sino al 1981 (deregulation Reagan-Thatcher) ed al declino del ceto medio, èstata svuotata dal sequestro dei poteri deci-sionali politici da parte degli interessi finan-ziari. Mentre si può ragionevolmentesupporre che nel prossimo decennio le vec-chie strutture potrebbero ancora sopravvi-vere, gli effetti negativi di democrazieannacquate sono già visibili in molti paesisotto forma di corruzione politica, distanzafra politici e cittadini e/o con l’avvento delpopulismo.

In un simile quadro strutturale a lungo terminedobbiamo tracciare le prospettive dell’AmericaLatina per il prossimo anno.

Gli effetti politici della crisiMolti sono gli scenari tracciati rispetto all’evo-luzione della crisi e la tavola seguente li rias-sume.

Fonte: elaborazione su fonti di stampa internazionale (Dic. 2011)

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Tuttavia, poiché nessuno sa quantificare lamassa aggregata di titoli derivati nel mondo(noti anche come asset tossici) ed il loro disag-gregato tra le maggiori aree economiche, è pru-dente usare il 2015 come data probabile di finedella crisi. Si tratta di un evento che ha forti pro-babilità di durare un decennio assumendo laforma d’una L piuttosto allungata nel segmentoorizzontale recessivo. Il problema più grandeper tutti i sistemi politici, specie per quelli lati-noamericani, è che devono far fronte a prolun-gati effetti sociali della crisi ed alle ripercussionidirette della crisi nordamericana.Vi sono quattro temi di politica interna e due diportata internazionale che sono critici:

Democrazia, non solo perché il clienteli-•smo, la demagogia ed il messianismo sonoancora radicati nei sistemi politici locali, maanche perché il golpe honduregno dimostrache la democrazia non è irreversibile.Stress statuale. Il cambio di paradigma dal•Washington Consensus al Seoul Consensuse lo spostamento verso forme ignote di con-tratto sociale aggiungono carichi addosso astati più o meno indebitati in un contesto diuna crisi generalizzata dello stato nazione,avendo per di più tradizioni istituzionali eburocrazie più fragili. In molti paesi latinoa-mericani il fenomeno positivo dell’emanci-pazione politica delle popolazioni indigeneporta con sé l’inevitabile conseguenza dicomplicare il processo di decisione politicae di pianificazione di bilancio. L’ovvio pro-blema è che uno stato, se non fallisce, ri-schia di paralizzarsi.Gestione delle tensioni e polarizzazioni po-•litiche. Le classi dirigenti attuali devono es-sere in grado di superare le vecchie rispostedi sicurezza o militarizzate che criminaliz-zavano il dissenso sociale.Stato di diritto. Esiste ancora nel continente•una diffusa cultura di favoritismo, aggra-

vata dalla cultura di corruzione e crimineorganizzato. Ciò è in grado di causare: unostato di diritto evanescente, la perdita delmonopolio della forza, una carenza di go-verno e alla fine un consenso calante neiconfronti della democrazia a favore dei so-liti uomini/donne forti.Deboli processi regionali d’integrazione. Le•debolezze interne influiscono sul ritmo e laqualità dell’integrazione regionale e sullapossibilità di realizzare agende comuni. Inproposito l’attuale crisi dell’Euro ha un im-patto devastante sui tentativi d’integrazionenel mondo perché eclissa un modello che sipensava efficace ed adattabile alle differenticondizioni locali.Fine dell’unipolarismo e del multilaterali-•smo come inquadramenti mondiali. Da unlato il multilateralismo era visto come lapromessa resa possibile dalla fine dellaGuerra Fredda; ancora adesso nel pensieropolitico ed accademico rimane la condi-zione ideale. In realtà al conflitto ha fattoseguito l’unipolarismo consociativo di Clin-ton e Herbert Bush e poi l’unipolarismo co-ercitivo di George Bush. Falliti questimodelli, hanno preso piede prima il multi-polarismo disarchico e poi quello disfunzio-nale. In queste condizioni è alquantodifficile concepire una risposta multilate-rale2.

Le circostanze in cui si affrontano questi temisaranno in parte determinate dal prossimo cicloelettorale del 2012 con le seguenti prove:

El Salvador, elezioni legislative in marzo•Messico, elezioni presidenziali e legislati-•ve in luglioVenezuela, elezioni presidenziali in ottobre•USA, elezioni presidenziali in novembre•

Fortunatamente le elezioni più importanti av-verranno prima delle notissime elezioni presi-denziali statunitensi, completando un

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consistente rinnovo dell’elite politica regionaleavviato nel 2009 3 .Il maggior problema del Salvador è il controllodell’illegalità e della violenza diffuse, insiemead una situazione economica pesante. Il partitodi sinistra al governo FLFM (Frente FarabundoMartí para la Liberación Nacional, prima ungruppo di guerriglia decenni fa) rischia il con-senso con una riforma fiscale che vuole aumen-tare le imposte sui ricchi, nella speranza diapportare beneficio agli elettori dei ceti medi ebassi. Le questioni sono complicate dagli effettinegativi del Central American Free TradeAgreement (CAFTA), firmato con gli USA, chegarantiscono importanti vantaggi alle ditte stra-niere e creano un deterioramento delle condi-zioni lavorative e della competitività delleimprese locali.Riguardo alla diffusione della violenza, favoritedalla crescente infiltrazione di narcomafie mes-sicane rivali (los Zetas e la Federazione di Si-naloa), il governo salvadoregno sembra seguire,sotto la pressione di Washington, i metodi co-stosi e piuttosto inefficaci già impiegati in Co-lombia e Messico. Si prevede che le elezionisaranno combattutissime e non si esclude unapossibile coabitazione tra presidente e parla-mento di diverso segno politico.Le prossime elezioni in Messico saranno deci-sive per la ripresa o il fallimento del paese. Èancora troppo presto per predire quali partiti ocoalizioni vinceranno, ma la guerra contro i car-telli della droga, costata la vita a circa 40.000persone, è il problema che deve esser risolto sela nazione vuole evitare in seguito la paralisi ela catastrofe del sistema.La risposta piuttosto pesante da parte delle forzemilitari e di polizia alla diffusione della lotta ar-mata mafiosa ha provocato sinora solo uno spo-stamento degli affari criminali dal Messicoall’America Centrale, ma non ha ampliato lezone di legalità, il che si riflette con un aumento

dell’emigrazione giovanile. In sé per sé le condizioni economiche non sonoancora critiche, ma il calo dell’economia previ-sto nel 2011 e nel 2012 (rispettivamente 3,8-4,8% e 3,5-4,5%, dati del Banco de Mexico)non aiuta spese ulteriori nei campi della sicu-rezza e del recupero sociale. Mentre si stannoprendendo in conto gli effetti della crisi del-l’Euro, la preoccupazione più urgente è il dol-laro a causa dei legami diretti nel NAFTA(North America Free Trade Agreement), il checostringe Città del Messico a comprare dollariper rallentare il deprezzamento del peso.Il Venezuela va incontro ad un’elezione d’im-portanza cardinale non solo perché è il terzopaese più importante del subcontinente ed unodei maggiori fornitori di petrolio degli StatiUniti, ma anche per via del suo ruolo di primomotore dell’ALBA (Alianza Bolivariana paralos Pueblos de Nuestra América)4.Esistono alcuni sondaggi a favore dell’opposi-zione, alcuni che esprimono delusione per il go-verno ed altri a favore di Hugo Chávez, l’attualepresidente, ma vi sono ancora troppe incognite.Nessuno può ancora predire sulla base di ele-menti verificabili se Chávez o un altro gerarcabolivariano affronterà le elezioni, se Chávezguarirà dal suo cancro e chi sarà il candidatodell’opposizione. L’opposizione sta preparandodelle primarie per il marzo 2012, ma i militantisono preoccupati delle intimidazioni da partedei chavisti ed i pubblici funzionari temono diperdere il lavoro se risulta che hanno votato perl’opposizione in una primaria.Ammettendo che Chávez venga sconfitto e sup-ponendo che non voglia servirsi dell’esercito odelle milizie, l’idea che si provochi un effettodomino in altri paesi filobolivariani rischia diesser superficiale. Cuba e Nicaragua potrebberoessere più toccate economicamente dal risultatoelettorale con la fine dei sussidi venezuelani.Tuttavia Bolivia ed Ecuador potrebbero trarre

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preziosi insegnamenti dalla caduta di un loro al-leato: è necessaria una amministrazione attenta,un’economia bilanciata e lottare contro la cor-ruzione ed il favoritismo.Infine, viste in un’ottica latinoamericana, le ele-zioni a Washington possono risolversi o nellacontinuazione di una politica benevola, senzaeccessiva priorità, sostanza ed energia oppurein due “nuovi” approcci repubblicani. Uno èquello sinora sostenuto dal candidato Mitt Rom-ney che si riassume nell’acronimo CEOLA(Campaign for Economic Opportunity in LatinAmerica) ed in una politica fortemente orientatain termini di mercato ed affari. I repubblicanipiù conservatori che potrebbero seguire il can-didato Rick Santorum pensano invece all’ideadi dichiarare i narcos messicani una minacciaalla sicurezza nazionale, allo stesso modo dei ji-hadisti in Asia Centrale. Alcuni commentatorimessicani si sono già allarmati all’idea di unapachistanizzazione del proprio paese, preve-dendo molte sofferenze per la popolazione e ri-sultati assai incerti nel ristabilire la legalità.Il Brasile ha già tenuto le proprie elezioni, ma isuoi problemi politici sono quelli del paese piùimportante dell’area, alcuni dei quali unici edaltri in comune al resto dei vicini. Quelli comunisono il grande divario sociale da cui deriva ladiffusa criminalità. La lotta al crimine nelle fa-velas, specie in vista dei due eventi del Mon-diale di Calcio (2014) e delle Olimpiadi (2016),era cominciata in modo molto muscolare, madovrebbe adesso essere stata integrata in un ap-proccio socialmente più attento. È chiaro che,se queste operazioni non vogliono esser di fac-ciata, saranno necessari ulteriori fondi pergrandi programmi sociali. Fortunatamente ilprossimo bilancio prevede un aumento degl’in-troiti fiscali, il che dovrebbe ridurre alcune dif-ficoltà per l’anno successivo.A livello strategico è ragionevole pensare cheBrasilia continuerà il suo approccio multibila-

terale per garantire la firma e la ratifica dei trat-tati di sicurezza con tutti i paesi confinanti edegli opportuni accordi commerciali ritenuti ne-cessari dai partner economici più deboli. Un fat-tore frenante a questo approccio è la persistenteframmentazione dei fori regionali e la diffidenzaverso la possibile egemonia brasiliana.Come per tutti gli stati dell’area, una delle sfidemaggiori, è quella di saper recuperare e reinven-tare un’organizzazione statale di qualità, nono-stante la crisi strutturale dello stato nazionale ele pressioni socioeconomiche cui è sottoposto.Secondo l’ultimo rapporto OCSE/CEPAL 5, leattuali condizioni economiche più favorevoli inAmerica Latina rispetto al resto del mondo de-vono essere usate dai governi per sviluppare po-litiche pubbliche di sviluppo a lungo termine,sostenibili ed inclusive, recuperando basi fiscalipoco sfruttate a causa di tassazioni iniquamentedistribuite.

Riscossione impositiva in rapporto al PIL(AmLat e OCSE)

Fonte: OCSE/CEPAL, Op. cit.Questo significa anche efficienza ed efficacianell’offerta di servizi pubblici, diversificazioneproduttiva, riduzione delle diseguaglianze, effi-cienza nell’amministrazione pubblica, concen-trazione degli sforzi nelle tre aree prioritariedell’istruzione pubblica, infrastrutture e svi-

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Fonte: OCSE/CEPAL, Op. cit.

Il divario crescente tra AmLat e OCSE nella banda larga

Fonte: OCSE/CEPAL, Op. cit.

La spesa pubblica latinoamericana è inferiore a quella OCSE

luppo produttivo. Il che significa adeguare labassa spesa pubblica del continente agli stan-dard dell’OCSE e migliorare, tra l’altro, la pre-

senza di comunicazioni in banda larga, come sivede dai grafici seguenti.

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Il paradosso tra esuberanza e vulnerabilità economiche

Fonte: CERES (http://www.ceres-uy.org/pdfs/Executive_Summary.pdf; 23/12/2001)

Il livello della grande strategia include necessa-riamente quella dimensione macroeconomica laquale sta creando serie divisioni tra i BRICS, inparticolar modo fra Brasile e Cina. Il Brasilecrede che le svalutazioni competitive cinesi enordamericane stanno fomentando una guerravalutaria, che potrebbe facilmente degenerare inuna guerra commerciale . In parallelo si stasvolgendo un’altra guerra finanziaria virtuale,condotta da grandi conglomerati bancari control’Euro.Questa guerra finanziaria ha dirette conse-guenze sull’Emisfero Occidentale. Mentre ilMessico ed il Venezuela sono vulnerabili ri-

spetto a fattori di crisi generati dagli USA (ildollaro ed un consolidamento fiscale sempre in-certo), il Brasile può essere toccato seriamenteda conseguenze che nascono nell’UE. Infatti, nonostante un’economia vivace ed unaumento delle esportazioni del 26% nel 2011,le strette relazioni con Germania, Paesi Bassi edItalia (due paesi con valutazione AAA del de-bito sovrano, che sono già sotto pressione allafine del 2011, ed un paese A- già sotto attaccofinanziario) sono altrettanti punti di vulnerabi-lità, creando un legame paradossale tra esube-ranza e vulnerabilità economica comedimostrato dal grafico seguente.

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1 La parola Medlantico indica i paradigmi politici e culturali che sono sorti prima nel Mediterraneo e poisono stati reinterpretati durante il periodo Atlantico da Gran Bretagna ed USA. Gli equilibri fluidi sonoequilibri tra attori statali e non statali che sono entrambi intrinsecamente instabili. I cambi politici flut-tuanti sono simili alle valute fluttuanti.2 Dal 2003 al 2009 il multipolarismo disarchico significava che un sistema internazionale non aveva re-gole sostenute da un forte consenso o da gerarchie, mentre dal primo vertice G20 assistiamo ad un multi-polarismo disfunzionale caratterizzato da: leader potenziali incapaci e riluttanti ad assumere la guida,vecchi paesi egemoni in declino, equilibri fluidi ed incerti, regole che evolvono in modo precario.3 Tra il 2009 ed il 2010 il 50% delle elite regionali è stato rinnovato (Brasile, Bolivia, Cile, Colombia,Costa Rica, Ecuador, El Salvador, Honduras, Panama, Uruguay).4L’ALBA è guidata dal Venezuela ed è un trattato politico ed economico. Altri membri sono: Antigua eBarbuda, Bolivia, Cuba, la Repubblica Dominicana, Ecuador, Honduras, Nicaragua, e Saint Vincent e leGrenadine.5Cfr. OCDE/CEPAL (2011), Perspectivas Económicas de América Latina 2012: Transformación delEstado para elDesarrollo, OECD Publishing. http://dx.doi.org/10.1787/leo-2012-es (23/12/2011).6 Il Brasile ha sollevato la questione in sede OMC senza risultati apprezzabili a fine dicembre 2011. La si-tuazione si è ulteriormente complicata perché Cina e Giappone hanno concluso un accordo per regolarel’interscambio bilaterale nelle proprie valute, scavalcando il ruolo del dollaro come moneta del commer-cio internazionale e suscitando proteste a Washington (28/12/2011).7 Peraltro all’inizio del dicembre 2011 l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha minacciato di tagliaretutte le AAA in eurozona se in tre mesi non cambiano le condizioni economiche.

In conclusione l’America Latina deve affrontaregravi rischi politici e sociali che derivano dalNAFTA, a causa della profonda crisi che coin-volge il Messico e gli USA. Inoltre l’incerto fu-turo politico del Venezuela sarà un’altra sfidacon importanti conseguenze nel subcontinente.L’idea che gl’interessi in comune tra i BRICSpossano evolvere verso una convergenza più so-lida resta al momento solo una speranza, con-traddetta dai conflitti fra Cina e Brasile sullepolitiche valutarie ed una nuova competizione

commerciale in Africa. Nel 2012 può essereanche importante per far comprendere alle elitelocali che l’intero ordine internazionale sta fi-nendo e che perciò i paesi tenderanno ad esserepiù autonomi rispetto alle crisi euroatlantica edalle crescenti difficoltà di una Cina in rallenta-mento economico, mentre saranno indotti a re-cuperare e creare uno stato di qualità perapprofittare delle presenti buone condizionieconomiche regionali in modo da garantirsi ilfuturo.

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Organizzazioni Internazionalie cooperazione centro asiatica

Lorena di Placido

►Ashgabat, Conferenza Nazioni Unite/UE per la cooperazione antiterrorismo in Asia CentraleIl 30 novembre si è svolta ad Ashgabat, capitale del Turkmenistan, una conferenza internazionaleorganizzata dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea per il rafforzamento della cooperazionetra i paesi dell’Asia Centrale in materia di antiterrorismo. Nel corso dei lavori è stato adottatoun piano d’azione congiunto, basato sulla strategia globale antiterrorismo delle NU, ed è statafirmata una dichiarazione congiunta, siglata anche da altri dieci membri delle Nazioni Unite, edai rappresentanti delle due istituzioni organizzatrici. L’evento, presieduto dal Turkmenistan esostenuto a livello regionale dalla UN Counter-Terrorism Implementation Task Force (CTITF) edal UN Regional Centre for Preventive Diplomacy for Central Asia (UNRCCA), conclude un annodi consultazioni interamente speso per la definizione del piano d’azione. Prima di recarsi a Bonn per la Conferenza sull’Afghanistan, il segretario di Stato americano Ro-bert O. Blake, Jr. si è fermato in visita nel Turkmenistan per partecipare alla conferenza, a marginedella quale ha avuto un colloquio privato con il presidente Berdymuhammedov. Blake ha manife-stato apprezzamento per l’impegno di Ashgabat nella stabilizzazione dell’Afghanistan e nella rea-lizzazione del gasdotto TAPI, che attraverserà Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan, India. ►La variabile Iran si inserisce nella questione di Manas. Il contratto di locazione per la base diManas tra il governo americano e quello kirghizo scadrà nel 2014, anno per il quale è anche pre-visto il ritiro della coalizione internazionale dall’Afghanistan. Ai dubbi sollevati sul successivoutilizzo della struttura e su un possibile nuovo impiego civile americano si è aggiunta una nuovavariabile: l’Iran. Il 29 dicembre il neo presidente kirghizo, Almazbek Atamabev, ha dichiaratoche, trovandosi a una distanza facilmente raggiungibile dai missili iraniani, nell’ipotesi del pro-seguimento della crisi nei rapporti tra Stati Uniti e Iran, con ogni probabilità nel 2014 Manasverrà semplicemente chiusa, per evitare di mettere a rischio la sicurezza dell’intero paese. L’unicaalternativa possibile suggerita dal presidente è quella di costituire, Stati Uniti e Russia insieme,una base per i trasporti civili. Ovviamente, si tratta di parole dettate dalla congiuntura attuale.Quando in precedenza era stata minacciata la chiusura della base, lo stallo era stato superato daun rincaro della quota di locazione.

Eventi

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VENTI ANNI DI INDIPENDENZA DALL’URSS, MA NON DA MOSCA

Nei venti anni di indipendenza dall’Unione So-vietica, nonostante le numerose lacune, molto èstato realizzato nel corso della costituzione dellenuove repubbliche indipendenti dell’Asia Cen-trale, ma ancor di più resta da fare per la stabilitàregionale. Gli sforzi notevoli compiuti per giun-gere all’attuale livello di indipendenza e capa-cità di leadership non nascondono che, sottomolti aspetti, per ciascuna repubblica il legamecon Mosca è ancora saldo o, quanto meno, rap-presenta un dato di cui tenere conto. Al con-tempo, l’ingresso prepotente sulla scenaregionale di un attore aggressivo e penetrantecome la Cina altera decisamente qualsiasi ten-tativo nostalgico di riproposizione di antiche lo-giche cooperative con l’ormai ex madrepatria.Paradossalmente, oscillare tra i due poli di at-trazione principali, ma non unici (Mosca e Pe-chino), sembrerebbe giovare, nel complesso, aisingoli stati, nella misura in cui hanno svilup-pato la capacità di amministrare un rapporto bi-laterale tra pari. Sotto l’egida dei protagonistidella regione, benché sia comunque irrealisticoipotizzare la soluzione delle annose piaghe perla sicurezza dell’area (crisi afgana, in primoluogo, traffici transfrontalieri, gestione delle ri-sorse idriche, tensioni interetniche, tanto per ci-tarne alcune) si ottiene tuttavia ilridimensionamento di situazioni di comune in-teresse altrimenti di più difficile gestione, senzaconsiderare gli enormi vantaggi della coopera-zione in ambito economico ed energetico. Dif-ficile ritornare all’URSS, quindi, ma verosimilecontinuare ad oscillare tra Mosca e Pechinonella continua ricerca dell’affermazione di sé.

Leadership, sicurezza interna e riflessi regio-naliIn ciascuna realtà post sovietica della regione,il processo di costruzione di una leadership cre-dibile e rispettata è iniziato al momento dell’in-dipendenza e non si è ancora concluso. In unasituazione iniziale di nebulosa confusione equasi totale mancanza di capacità gestionale, lapriorità era costituire una dirigenza politica chefosse percepita come guida infallibile e neces-saria, onorata e, soprattutto, in grado di mante-nersi salda al potere, secondo la logica chedall’equilibrio e dalla stabilità sarebbero scatu-rite continuità nella gestione del potere e mi-gliori condizioni per una prosperità duratura. Adeccezione del Tagikistan (interessato nel quin-quennio 1992-97 da una guerra civile dallaquale è uscito anche grazie all’intervento dellaRussia) e del caso kirghizo (per due volte ilpaese ha visto un violento avvicendamento nellaleadership, per due volte si è faticosamente ri-sollevato), questo processo ha condotto a risul-tati apparentemente buoni: nella generalità deicasi, gli stati sono stati costituiti, svolgono lefunzioni che sono loro proprie, hanno relazionicon l’esterno. Inoltre, seppure con sfumature egradazioni diverse, in ciascuna repubblica postsovietica si ha una gestione autoritaria dellacosa pubblica. Il dubbio che tali costruzioni sta-tali abbiano basi fragili viene proprio dallamorsa stringente delle forze di sicurezza, dal-l’assenza di contraddittorio in politica, dallapresenza di una opposizione vuota , anzi, fun-zionale agli interessi del regime. La costruzionedella leadership si è confusa con forme di rigi-

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dità che lasciano trasparire forti timori legatialla perdita del potere nei singoli paesi. Quandole ansie del leader si tramutano in ancor più durarepressione sorge il rischio che le tensioni la-tenti sfocino in contrasto aperto. Paradossal-mente, ciò è quanto avvenuto proprio nella piùaperta e (apparentemente) solida realtà post so-vietica della regione. Da maggio del 2011, ilKazakhstan ha vissuto una inaspettata stagionedi tensione sociale che si è sviluppata su due fi-loni distinti, quello del terrorismo religioso equello della rivendicazione di diritti sindacalinello strategico comparto energetico. Da non aver mai corso il rischio diretto di deriveestremiste, il paese si è trovato a subire una seriedi attacchi senza precedenti a sedi istituzionalie delle forze di sicurezza. In seguito agli atten-tati di Aktobe, a maggio 2011, del successivo adAstana e degli arresti di sospetti estremisti ef-fettuati nel corso dell’estate ad Atyrau, nellaparte occidentale del paese, il presidente Nazar-baev ha sollecitato l’adozione di misure restrit-tive orientate “alla salvaguardia della pacesociale e della stabilità”. Con la nuova legge inmateria di religione varata dalle Camere a finesettembre, sono state adottate misure restrittiveper la pratica religiosa: lo scioglimento delle co-munità religiose e la nuova registrazione dellestesse; lo stato si definisce “secolare” e acon-fessionale; la pratica religiosa viene consentitasolo alla scuola islamica Hanafita e alla ChiesaOrtodossa; agli osservanti musulmani tenuti apregare 5 volte al giorno è fatto divieto di assol-vere a quest’obbligo sui luoghi di lavoro. Talidisposizioni hanno esasperato i problemi che in-tendevano risolvere, generando, piuttosto,un’ulteriore ondata di attentati, avvenuti il 31ottobre ad Atyrau, il 9 novembre ad Almaty e il12 novembre a Taraz (centro petrolifero nonlontano dal confine con il Kirghizstan). Daiprimi arresti effettuati, gli attentati sarebberoopera del gruppo estremista Jund Al Khilafah

(Soldati del Califfato), la cui base operativa ri-siede tra Afghanistan e Pakistan. Atyrau è stata protagonista di una protesta sin-dacale senza precedenti nel paese: dal mese dimaggio centinaia di lavoratori del settore del-l’energia hanno avviato uno sciopero per chie-dere migliori condizioni di lavoro e retribuzionipari a quelle dei colleghi stranieri. La protestaha avuto anche manifestazioni estreme quali attidi autolesionismo, sciopero della fame, crea-zione di posti di blocco. Gli operai in scioperosono stati licenziati, alcuni di essi arrestati in-sieme a dei simpatizzanti. Il 16 dicembre, festadell’indipendenza del Kazakhstan, dopo mesi diagitazione inascoltata, nel centro petrolifero diZhanaozen (situato a Mangistau, la stessa re-gione in cui si trova Atyrau) la polizia ha ri-mosso con la forza un presidio di scioperantidalla piazza principale. Più di dieci operai sonostati uccisi. Si è scatenata una dura reazione po-polare, molte sedi istituzionali cittadine sonostate date alle fiamme e le autorità hanno stabi-lito il coprifuoco (inizialmente fino al 5 gennaio2012 e poi esteso fino alla fine del mese). Il pre-sidente Nazarbaev ha preso le distanze da unadirigenza colpevole, a suo dire, di non aver sa-puto affrontare la situazione nel corso di tuttiquei mesi, rimuovendo il presidente della pro-vincia di Mangistau e licenziando il suo stessogenero Timur Kulibayev da capo dell’agenziapubblica Samruk-Kazyna, che controlla la com-pagnia di stato KazMunaiGaz, dalla quale di-pendono le società che impiegano gli operai insciopero. Le autorità locali hanno anche apertoun’inchiesta per chiarire le modalità dell’inter-vento delle forze di sicurezza nei confronti degliscioperanti. I fatti di Zhanaozen hanno avuto li-mitata eco anche in altre località del paese. La gestione del dissenso rappresenta un’even-tualità del tutto imprevista. Se l’ipotesi di infil-trazioni estremiste o terroristiche era stataformulata, per via della possibilità di contagio

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dall’area afgano-pakistana e dal Caucaso, la ma-turazione di forme di opposizione organizzata etanto tenace è risultata del tutto spiazzante ecrea un precedente significativo. Certo non sitratta della declinazione locale di una “prima-vera araba”, bensì piuttosto dell’esplosione diuna situazione di grave malcontento condottaalle estreme conseguenze. Il 15 gennaio ci saranno le elezioni parlamentariin Kazakhstan. Verosimilmente, l’esito non saràmolto diverso da quelli abituali, ma l’eventua-lità di forme di protesta e contestazione sul mo-dello di quelle seguite alle elezioni russe del 4dicembre sembra una possibilità concreta.Forse, una tale e perdurante forma di protesta èstata possibile lì dove un certo controllo di re-gime è abitualmente meno stringente, ma a li-vello regionale sarà presumibilmente cura dellaleadership al potere preservarsi da rischi analo-ghi.

Mosca vista da Tashkent e da AshgabatNel corso dei 20 anni di indipendenza, il rap-porto delle repubbliche centroasiatiche conMosca ha avuto un percorso oscillante tra variegradazioni comprese tra gli estremi dell’affran-camento puro e dell’appoggio netto. L’Uzbeki-stan si colloca su una posizione di vicinanzapragmatica con l’ex madrepatria e resta semprepronto a difendere la propria indipendenza di-nanzi a richieste di partenariato troppo scomodeo vincolanti. Quindi, partecipa alla coopera-zione multilaterale negli organismi in qualchemisura successori dell’URSS, senza tuttavia la-sciarsi trascinare in derive nostalgiche. Il 19-20dicembre il presidente uzbeko Islam Karimovha partecipato a Mosca al vertice della CSI (Co-munità di Stati Indipendenti), nei riguardi dellaquale si è espresso in termini di apprezzamento,sostenendo che l’Organizzazione abbia svoltoun ruolo importante negli anni successivi allacaduta dell’Unione Sovietica, diventando un’as-

sociazione di azione pratica capace di guidarela cooperazione tra le parti in un fondamentalemomento di svolta. Per queste sue caratteristi-che la CSI è destinata ad avere un ruolo anchenel prossimo futuro. Per quanto riguarda laCSTO i toni utilizzati da Karimov sono statimolto meno lusinghieri. E ciò dipende dalla na-tura dell’Organizzazione e dalle sue finalità. LaCSTO è un’organizzazione militare (e non po-litica, come la CSI) a forte guida russa. Dalletendenze evolutive in atto sembrerebbe che sivoglia aumentare il grado di interoperabilità edi capacità di intervento rapido delle forze coin-volte. L’Uzbekistan si oppone fortemente a qua-lunque meccanismo che scavalchi la sovranitànazionale a vantaggio di una più efficiente ca-pacità decisionale da parte di istituzioni sovra-nazionali e tale opposizione diventa rifiuto seimplica una chiara supremazia russa. Così,l’Uzbekistan ha nei confronti della CSTO un at-teggiamento ambiguo: ne è membro, ma diffi-cilmente partecipa ai vertici, non sottoscrive idocumenti dell’organizzazione, né si mostra fa-vorevole alla creazione delle forze di impiegorapido. Questo atteggiamento ha indotto il pre-sidente bielorusso Aleksandr Lukashenko a do-mandarsi se non sia il caso che l’Uzbekistanesca dalla CSTO, giacché il suo atteggiamentonon è certo coerente con una membership effet-tivamente vissuta. Allo stesso modo, Karimovsi mostra del tutto contrario alla costituzionedell’Unione Euroasiatica, inopportuna ripropo-sizione nostalgica dell’URSS.Le relazioni della Russia con un importante par-tner energetico della regione centroasiatica, ilTurkmenistan, si mantengono nel complessobuone, pur senza mostrare al momento sostan-ziali margini di miglioramento. Il paese ha vis-suto (e, sotto molti aspetti, vive tuttora)nell’isolamento, fatte salve poche aperture mi-rate. Una di queste è quella concessa a Mosca,tradizionale partner nello sfruttamento delle ri-

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sorse energetiche. Nonostante il Turkmenistanabbia assunto (in qualità di associato) la presi-denza del 2012 della CSI e mostri un moderatointeresse per la cooperazione multilaterale, sem-brano ancora lontani da venire i tempi di un in-serimento di Ashgabat in contesti quali l’unionedoganale realizzata da Russia, Kazakhstan eBielorussia, oppure gli accordi di libero com-mercio (stipulati a ottobre 2011 da Russia,Ucraina, Bielorussia, Armenia, Kirghizstan,Moldova e Tagikistan). La cauta politica esteramultivettoriale attuata dal presidente Gurban-guli Berdimuhammedov e la propensione perprogetti alternativi al monopolio delle esporta-zioni di gas turkmeno, attualmente veicolato inlarga misura da Gazprom, gettano delle ombresulle relazioni con Mosca. La propensione a ge-stire in modo sempre più autonomo le ricchezzenazionali spinge Ashgabat a sganciarsi e a noncedere a lusinghe quali un aumento delle quan-tità e del prezzo del gas esportato, come propo-sto da Medvedev a margine del vertice dellaCSI. Se una proposta di questo tipo poteva es-sere presa in considerazione nella prima fasedella transizione, durante la presidenza di Nya-zov, ora, con l’affacciarsi di nuovi partner inte-ressanti perde gran parte della sua attrattiva. Direcente si è prospettata anche la possibilità dicostruire un gasdotto trans caspico che porte-rebbe il gas turkmeno e azero in Turchia e daqui verso il mercato europeo. Una simile even-tualità determinerebbe una ulteriore emancipa-zione del Turkmenistan dalla Russia e, in unacerta misura, anche dalla Cina, l’altra potenzaregionale dello spazio centroasiatico. Negli ul-timi anni il primato di Pechino su Mosca in AsiaCentrale, e in Turkmenistan in particolare, si èmolto consolidato. A partire dal 2009, quandoalcuni incidenti lungo i gasdotti gestiti da Gaz-prom in Turkmenistan fecero crollare la fiduciatra i due tradizionali partner, la Cina ha saputoinserirsi sul mercato con capacità e mezzi eco-

nomici difficilmente eguagliabili. Nel 2010,l’apertura in tempi record del gasdotto che at-traversa Turkmenistan, Kazakhstan, Uzbekistane giunge nel Xinjiang è stato il segnale delle po-tenzialità di sfruttamento di cui Pechino di-spone. Sulla base di nuovi accordi siglati a finenovembre, i volumi delle esportazioni turkmeneverso la Cina sono destinate ad aumentare, in-terferendo, di conseguenza, sulle altre attuali epotenziali direttrici delle esportazioni.

Riflessioni conclusiveIn considerazione del livello di partenza di cia-scuna repubblica, della mancanza di un’espe-rienza politica autonoma, del peso dell’ereditàsovietica, della necessità di gestire da zeronuove e complesse situazioni regionali, riferen-dosi al cammino compiuto dalle repubblichecentroasiatiche si può generalmente parlare di“un contenuto successo”. Il moderato ottimismosi deve a quanto è stato fatto per evitare gravisituazioni di contrasto e squilibrio regionale enon rappresenta un’affermazione in senso asso-luto. Anzi. A giudicare da quanto emerge insenso eversivo dai recenti sviluppi interni sem-brerebbe proprio che sussistano situazioni di in-stabilità latente, foriere di possibili risvolti alivello regionale. Finora, indipendenza delle re-pubbliche post sovietiche e neo-imperialismorusso si sono proposti in maniera altalenantesullo scenario centroasiatico, determinando unavarietà di situazioni con sfumature diverse chedipendono dal grado di ricchezza economica edi risorse di ciascun paese e dalla capacità di ge-stire in autonomia l’equilibrio politico-socialeinterno da parte delle repubbliche indipendenti.Non sempre indipendenza vuol dire per tutti au-tonomia. Secondo la tendenza in atto, nell’equi-librio regionale centroasiatico continueranno agiocare un ruolo importante sia la Russia che laCina, potenze regionali con interessi in partecalmierati dalla scelta pragmatica di co-gestire

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quello scenario piuttosto che di competere perla supremazia. Normalizzata la situazione politica interna alKirghizstan, nonostante alcune tensioni etnico-sociali ancora aperte nella parte meridionale delpaese e nella fascia transfrontaliera con il Tagi-kistan, nel breve periodo l’attenzione resterà ve-rosimilmente vigile sul Kazakhstan, teatro di

un’inattesa crisi sociale. Si è trattato, per moltiaspetti, di una straordinaria evoluzione nel qua-dro regionale che, da fenomeno interno, po-trebbe creare un precedente nella regione, inbase al modo con il quale le autorità decide-ranno di gestirlo e in base a se e come se ne dif-fonderà la notizia tra i paesi vicini.

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Settore Energetico

Nicolò Sartori

►Arabia Saudita: produzione di greggio supera i 10 milioni di barili al giorno. Il 5 Dicembreil Ministro del Petrolio saudita Ali al-Nouaimi ha annunciato che la produzione di greggio e con-densati del suo paese supera i 10 milioni di barili al giorno; il ministro ha anche confermato chel’Arabia Saudita è pronta a intervenire in caso di riduzione dell’offerta o di un aumento inattesodella domanda globale di petrolio utilizzando le proprie capacità di riserva. Il 14 Dicembre imembri dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) hanno raggiunto un ac-cordo sul rialzo della produzione totale del cartello. Allineandosi alle posizioni dell’Arabia Sau-dita, l’OPEC ha deciso di fissare i limiti ufficiali della propria produzione a 30 milioni di barilial giorno, senza tuttavia stabilire quote individuali per gli Stati membri. Il nuovo valore di riferi-mento tiene in considerazione il ritorno del greggio iracheno e libico sui mercati internazionali.►Siria: Shell e Total interrompono produzione. Con l’aggravarsi della situazione politica e disicurezza in Siria, le compagnie europee Shell e Total hanno deciso di conformarsi alle sanzionidell’UE contro il regime di Bashar al Assad sospendendo le proprie attività industriali nel paese.Le due compagnie sono i principali attori energetici internazionali operanti nel paese mediorien-tale: prima dello scoppio della crisi sia Shell che Total producevano in Siria circa 40 mila bariliequivalenti di petrolio (boe) al giorno. A qualche giorno di distanza, anche Suncor ha annunciatola sospensione delle proprie attività nel paese. La compagnia canadese produceva nel paese circa12 mila boe al giorno.►Qatar: si rafforza la cooperazione col Giappone nel settore del Gas Naturale Liquefatto(LNG). La compagnia nazionale Qatargas ha firmato una serie di accordi pluriennali (6 anni)per la fornitura di LNG con due società giapponesi, la Chubu Electric Power Company e la Shi-zuoka Gas Company. In base agli accordi, validi dal 2016 al 2021, Qatargas rifornirà le due so-cietà con circa 200 mila tonnellate di LNG. Il Qatar, insieme ad Oman e Israele, è anchefortemente interessato a intensificare le proprie relazioni commerciali con l’India. New Delhiè infatti alla ricerca di fonti energetiche per sostenere la propria crescita economica, ed ha avviatonegoziati con diversi paesi produttori per ottenere nuove forniture di gas nei mesi a venire.►Rinnovabili: rafforzata la cooperazione tra Algeria e Unione europea. Il 9 Dicembre la com-

Eventi

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pagnia energetica algerina Sonelgaz ha firmato un Memorandum of Understanding (MoU) con ilconsorzio Desertec – sostenuto dall’Unione europea – per l’esportazione di 10 gigawatt annui dienergia elettrica verso l’Europa entro il 2030. L’accordo è stato siglato alla presenza del Com-missario europeo per l'Energia, Gunther Oettinger, e del Ministro dell'Energia algerino, YoucefYoufsi.►Kazakhstan: si intensificano le proteste degli operai del settore energetico. Il regime di Astanaha risposto con risolutezza alle proteste esplose nella città occidentale di Zhanaozen: secondofonti ufficiali 16 persone sarebbero morte e oltre 100 ferite durante gli scontri tra manifestanti eforze dell’ordine. Gli operai in sciopero protestavano contro i licenziamenti messi in atto da Ozen-MunaiGaz, joint-venture tra la compagnia energetica nazionale KazMunaiGaz e l’holding cineseCITIC.► Artico: grave incidente per la piattaforma russa Kolskaya. La sicurezza delle attività di es-plorazione e produzione nel Mar Artico torna di attualità in seguito all’incidente occorso alla pi-attaforma petrolifera operata da Gazflot - società del gruppo Gazprom. La piattaforma, impegnatain attività di prospezione al largo dell'isola di Sakhalin, è affondata a picco dopo un impatto conblocchi di ghiaccio presenti nell’area e 49 dei 64 membri del suo equipaggio risultano dispersi.Sebbene l’incidente non sembri aver causato danni ambientali risultanti da perdite di greggio, latragedia dimostra le difficoltà e i rischi alla sicurezza che ancora caratterizzano le operazioninella regione artica.►Egitto: nuovo attacco all’Arab Gas Pipeline. Il 18 Dicembre è stato perpetrato l’ennesimo at-tacco dinamitardo – il decimo nel solo 2011 – all’Arab Gas Pipeline, il gasdotto che trasportagas egiziano in Israele, Giordania e Libano. Il flusso di gas naturale era tuttavia già sospeso, acausa del precedente bombardamento di fine novembre.►Iran: minaccia blocco dello Stretto di Hormuz. Il 27 dicembre il governo iraniano si èdichiarato pronto a bloccare il transito di petroliere per lo Stretto di Hormuz nel caso in cui StatiUniti e Unione europea decidano di varare nuove sanzioni contro l’industria petrolifera diTeheran. Lo stretto - che divide l’Iran dall’Oman, il cui tratto navigabile ha una larghezza di circadieci chilometri - è il principale crocevia per il commercio internazionale di petrolio e LNG. Serealmente messo in atto, il blocco annunciato dall’Iran potrebbe avere effetti dirompenti sui mer-cati e sui prezzi petroliferi globali.

INCOGNITE ENERGETICHE PER IL 2012

Quello appena conclusosi è stato un anno par-ticolarmente turbolento per il settore energeticoglobale. Caratterizzato dalla forte instabilitàpolitica in Medio Oriente determinata dal dif-fondersi della Primavera Araba - culminata congli otto mesi di guerra civile in Libia - e dall’in-

cidente nucleare di Fukushima, il 2011 ha la-sciato in eredità una serie di problematicheaperte sia in termini geopolitici che dal puntodi vista industriale. Nonostante tali difficoltàsiano state accompagnate da alcuni sviluppi in-coraggianti, è difficile ipotizzare che il 2012

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possa essere un anno di totale stabilità dalpunto di vista energetico. L’emergere di realtàindustriali alla continua ricerca di risorse persostenere la propria crescita economica e raf-forzare la propria stabilità politico-sociale con-tribuisce ad aumentare la competizioneinternazionale per l’accesso a fonti energetiche,convenzionali e non. I paesi produttori, dalcanto loro, approfittano della corsa internazio-nale all’energia per massimizzare le proprierendite di posizione, sia in termini economiciche geopolitici. Molto, infine, sarà determinatodal quadro macroeconomico internazionale:per assurdo, ulteriori performances economichenegative ed il sostanziale rallentamento dellacrescita dei paesi occidentali potrebbero averel’effetto di frenare la domanda globale di ener-gia e calmare le tensioni sui mercati.

Alti e bassi per il settore petroliferoNel 2011 il prezzo del petrolio si è attestato co-stantemente oltre i 100 dollari al barile 1, fa-cendo registrare un forte picco nei mesi diMarzo e Aprile, in concomitanza con il tragicoincidente giapponese e l’aggravarsi della crisilibica. Il mancato raggiungimento di un accordotra i membri dell’OPEC sull’incremento dellaproduzione totale di greggio ha creato forti ten-sioni sui mercati, spingendo l’InternationalEnergy Agency (IEA) – l’agenzia di coordina-mento energetico dei paesi consumatori – a ri-lasciare parte delle proprie scorte strategiche perfar fronte a una potenziale insufficienza di of-ferta globale. Sebbene con la fine del conflittolibico si sia parzialmente attenuata la pressionesui mercati e sui prezzi petroliferi, la situazioneresta tuttavia abbastanza fluida.Per quanto riguarda gli scenari futuri, l’intrec-ciarsi di processi macroeconomici di portataglobale e il possibile emergere di nuove crisi re-gionali o in paesi produttori rendono qualsiasitipo di previsione particolarmente difficoltosa.

Da un lato, l’incerto futuro dell’economia glo-bale – frenata dall’aggravarsi della crisi econo-mico-finanziaria che ha colpito i paesidell’Unione europea e dai dubbi sulla ripresaamericana – rischia di determinare un sostan-ziale rallentamento della crescita dei consumiglobali. In dicembre, sia l’OPEC che l’IEAhanno rivisto al ribasso le loro previsioni sulladomanda di greggio, che nel 2012 dovrebbe ri-manere al di sotto dei 90 milioni di barili algiorno. Inoltre, durante l’ultimo meeting del2012 il cartello ha lievemente innalzato il pro-prio target di produzione a 30 milioni di barilial giorno per l’anno a venire. Superando le re-sistenze di Teheran, sempre pronta ad ostacolaredecisioni troppo accomodanti nei confronti deipaesi consumatori, l’OPEC ha mandato unchiaro segnale di distensione ai mercati globali.Nell’occasione l’Arabia Saudita – riprendendosila leadership del cartello dopo il passo falsodello scorso giugno - ha confermato l’inten-zione di non ritoccare la propria produzione,mantenendola attorno ai 10 milioni di barili algiorno anche nel 2012.Nei prossimi mesi l’organizzazione dovrà pre-pararsi a gestire il ritorno sul mercato del greg-gio libico, tenendo in debita considerazione cheil nuovo governo di Tripoli ha la necessità dimassimizzare le proprie rendite petrolifere perdare stabilità ad un regime ancora troppo fra-gile. Stando alle ultime previsioni di Nuri Ber-ruien - Presidente della compagnia petroliferanazionale NOC – il ritorno alla piena attivitàdell’industria energetica libica sarà più rapidodel previsto, con la produzione che potrebberaggiungere i livelli pre-crisi (1,6 milioni di ba-rili al giorno) già a metà del 2012. Non è daescludere che nel corso dell’anno le autorità li-biche possano far pressioni in seno all’OPECper incrementare ulteriormente la propria capa-cità produttiva, contribuendo all’aumento del-l’offerta sui mercati globali. Se a questa

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situazione si aggiunge l’incremento della pro-duzione non-OPEC (+0,7 milioni di barili algiorno nel 2012) – determinato anche dal pro-gressivo sviluppo di risorse nell’emisfero occi-dentale – per il prossimo anno ci si potrebbeaspettare minore volatilità sui mercati petroliferiglobali. Tuttavia, nonostante queste ottimistiche pro-spettive, i pericoli sono sempre alla porta. Sel’instabilità in Siria contribuisce solo in parte adagitare i mercati energetici – con una produ-zione di poco meno di 400 mila barili al giornoil paese mediorientale è infatti un attore margi-nale nello scacchiere internazionale – l’acuirsidi tensioni interne a grandi paesi produttori ol’escalation della conflittualità in aree nevralgi-che per la produzione di greggio potrebbero ra-pidamente determinare una situazione diemergenza per il sistema petrolifero globale. Trale aree a rischio il Kazakhstan, dove il governoha avviato una repressione violenta nei con-fronti degli scioperanti del settore petrolifero,che produce quasi 2 milioni di barili di greggioal giorno; e l’Iran, che in seguito ai tentativi oc-cidentali di inasprire il regime sanzionatorio neiconfronti della sua industria energetica ha mi-nacciato di chiudere lo Stretto di Hormuz, dalquale transita circa il 17% dell’offerta globaledi petrolio. Anche Russia e Iraq potrebbero in-contrare difficoltà nei mesi a venire: Moscadovrà affrontare l’appuntamento elettorale dellePresidenziali di inizio Marzo, che potrebbe ali-mentare il malcontento di larghi strati della po-polazione e contribuire ad una destabilizzazionedel regime; il governo iracheno dovrà gestirel’uscita di scena dei militari americani e garan-tire al paese (e alla sua industria petrolifera)standard minimi di governabilità e sicurezza.Nel caso una o più di queste situazioni dovessedegenerare, l’impatto sui mercati energetici glo-bali potrebbe rivelarsi devastante.

Quali novità per il gas naturale?Il 2012 potrebbe consacrare definitivamente ilruolo globale del gas naturale. Per una serie difattori – tra cui i prezzi alti del petrolio, le ab-bondanti scoperte di shale gas negli Stati Uniti,il minore impatto ambientale rispetto a greggioe carbone – i consumi globali di gas naturalesono rapidamente cresciuti negli ultimi anni.Nel 2011, complice l’incidente di Fukushima ela parziale riconversione del mix energeticogiapponese, l’incremento è stato particolar-mente netto ed ha messo in risalto un importanteprocesso di medio-lungo periodo: l’espansionedei consumi in Asia orientale. In Cina, India,Corea del Sud, Taiwan, Vietnam e Tailandia ladomanda di gas naturale cresce di oltre il 15%all’anno, con importanti effetti sulla struttura delmercato e dei flussi commerciali globali. La cre-scente domanda asiatica implicherà necessaria-mente l’espansione del settore del gas naturaleliquefatto (LNG), in grado di collegare i grandiesportatori – Russia e paesi mediorientali – aimercati orientali in rapida espansione. Il com-mercio di LNG – che nel 2010 ha superato perla prima volta il 30% dei movimenti globali digas naturale - è destinato a crescere ulterior-mente nei prossimi mesi.In questo contesto, il tentativo della Russia diadattarsi ai cambiamenti strutturali in corsopotrà rappresentare una delle principali sfide nelsettore del gas. Ad oggi Mosca ha avuto neipaesi dell’Unione europea il suo principalesbocco commerciale: collegata ai mercati euro-pei da una fitta rete di gasdotti – in continuaespansione grazie alla recente realizzazione diNord Stream e alla probabile costruzione diSouth Stream – la Russia rifornisce l’Europacon oltre il 70% delle proprie esportazioni. Neiprossimi mesi, tuttavia, l’adozione del TerzoPacchetto Energetico da parte della Commis-sione europea e la finalizzazione del processo

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decisionale per lo sviluppo del Corridoio Sudpotrebbero creare un parziale raffreddamentodelle relazioni tra Mosca e Bruxelles. L’alterna-tiva asiatica rappresenta una soluzione partico-larmente allettante per la Russia: prezzi alti edomanda in forte crescita forniscono incentivisufficienti a giustificare ambiziosi progetti in-frastrutturali come gli impianti LNG di Yamale Shtokman. Restano da verificare l’avvedu-tezza politica e le capacità finanziarie per por-tare avanti in modo spedito questo processo.La competizione tra paesi produttori per posi-zionarsi nei mercati emergenti è destinata a farsisempre più accesa. Il Qatar, il primo esportatoredi LNG al mondo, sta provando farsi largo inGiappone: nel tentativo di raggiungere partnerconsolidati di Tokyo quali Australia, Indonesiae Malesia, le nuove forniture a lungo termine diQatargas contribuiranno a soddisfare una do-manda destinata a crescere di oltre 4 miliardi dimetri cubi (Bcm) nel 2012. Al contempo il pic-colo emirato, maggiore fornitore di gas sul mer-cato indiano, dovrà guardarsi dall’intra-prendenza di nuovi attori emergenti versoNuova Delhi. Nei mesi a venire anche Oman eIsraele potrebbero fare il loro ingresso in India,che nonostante una produzione interna pari a 50Bcm, è alla ricerca di ulteriori forniture per ri-spondere alle necessità di crescita dell’econo-mia nazionale. Particolarmente interessante è laposizione dello stato ebraico, che grazie alle re-centi scoperte nei giacimenti Tamar, Dalit e Le-viathan non solo si renderà autosufficiente dalleforniture egiziane, ma potrà diventare a breveun paese esportatore. Nonostante gli ottimi rap-porti commerciali con l’Unione europea, Israeleha prontamente annunciato la volontà di orien-tare le future esportazioni di gas verso i remu-nerativi mercati di Cina, India e delle altreeconomie emergenti. La presa di posizioneisraeliana ricorda per certi versi l’annuncio delGovernatore dell’Alaska Sean Parnell, deciso a

caricare il gas dello stato americano su naviLNG e commercializzarlo nei mercati in espan-sione dell’estremo oriente, decisamente più ap-petibili per le casse di Anchorage rispetto aquello statunitense.In ultimo, non va dimenticata l’intraprendenzacinese nel settore del gas naturale. La Cina è ilquarto paese al mondo in termini di consumidietro a Stati Uniti, Russia e Iran, e sta tentando(progressivamente) di sostituire l’utilizzo di car-bone con quello di gas naturale. Forte del pro-prio potere economico e finanziario, neiprossimi mesi Pechino potrebbe potenziare gliinvestimenti tecnologici e infrastrutturali. È pro-babile che i grandi player energetici cinesi mol-tiplicheranno i loro sforzi, tanto in patria quantoall’estero, nei settori dell’LNG e dello shale gas.Recentemente Sinopec ha incrementato la pro-pria partecipazione (dal 15% al 25%) nel pro-getto Australia Pacific LNG, joint-venture tral’australiana Origin Energy e l’americana Co-nocoPhillips, e compete con Cnooc (e SaudiAramco) per l’acquisizione del 30% della te-xana Frac Tech Holdings, che opera con suc-cesso nel settore shale americano. In questosenso, l’attivismo cinese non va letto esclusiva-mente in termini di competizione internazio-nale: gli ingenti investimenti cinesi, infatti,potrebbero avere risvolti positivi sul mercatodel gas e favorire un’ulteriore espansione del-l’offerta globale.

Futuro roseo per le rinnovabili?Il 2012 potrebbe rappresentare un anno-chiaveper lo sviluppo delle energie rinnovabili. In Eu-ropa, gli alti prezzi del petrolio e il dibattito sulfuturo del nucleare hanno riportato il temadell’energia “verde” al vertice dell’agenda ener-getica dell’Unione europea. Tuttavia, le diffi-coltà economiche e finanziarie in cui versanobuona parte dei paesi membri rischiano di ral-lentare i processi di investimento e ricerca in

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nuove tecnologie e lo sviluppo di capacità ingrado di contribuire in modo significativo allamodifica dell’attuale mix energetico europeo.Di particolare interesse potrebbe essere l’entratadei grandi paesi produttori di petrolio e gas dellaregione mediorientale nel settore delle rinnova-bili. A causa delle ingenti riserve di idrocarburidisponibili, questi paesi hanno a lungo trascu-rato il loro immenso potenziale per la produ-zione di energia da fonti rinnovabili. Negliultimi anni, tuttavia, la questione energetica hainiziato ad interessare anche i grandi esportatoridell’Africa settentrionale e del Golfo Persico.Basti pensare che - a causa di strategie di svi-luppo economico e di politiche di welfare statebasate sull’utilizzo intensivo di idrocarburi - dal2000 al 2010 i consumi di greggio dei paesi delGolfo sono aumentati del 33%, mentre quelli digas naturale sono praticamente raddoppiati. Tut-tavia, per sistemi economici in larga parte basatisu rendite derivanti dall’esportazione di gas epetrolio, nel medio-lungo periodo l’utilizzo ec-cessivo di queste risorse sul fronte interno rap-presenta un elemento di potenziale fragilità siain ambito nazionale che internazionale.Resisi conto della necessità di riequilibrare lastruttura dei propri consumi energetici, paesiproduttori come l’Arabia Saudita, gli EmiratiArabi Uniti, il Qatar, l’Iran e l’Algeria sem-brano finalmente intenzionati ad investire partedegli ingenti introiti realizzati dall’esportazionedi greggio e gas naturale in ambiziosi progettisulle energie rinnovabili. L’Arabia Saudita – cheentro il primo quarto del 2012 elaborerà la suaprima strategia sulle energie rinnovabili, ha an-nunciato investimenti per 100 miliardi di dollarinel settore solare (e in quello nucleare): le au-torità saudite puntano a raggiungere una produ-zione di 5 gigawatt da energia solare entro il2013. Nel 2012 dovrebbe entrare in attivitànegli Emirati Arabi Uniti il più grande impiantoa energia solare concentrata del Medio Oriente,

in grado di generare 100 megawatt di energiaelettrica, mentre l’Iran si appresta a sviluppareparchi eolici offshore a turbine galleggianti. Ilrapido sviluppo di know-how tecnologico nellaregione è testimoniato anche dall’intrapren-denza dell’Algeria nel settore del fotovoltaico:dal Marzo 2012 nel paese nordafricano saràoperativo il primo stabilimento privato per lafabbricazione di pannelli fotovoltaici.Nonostante le prospettive per il mercato euro-peo delle rinnovabili non siano ancora delle piùrosee, l’Unione e alcuni stati membri sembranoaver intuito il grande potenziale di sviluppo delsettore nei paesi del Medio Oriente. Nei mesi avenire potrebbe intensificarsi la cooperazionetra Unione europea e Algeria nell’ambito delprogetto Desertec, o il rafforzamento degliscambi tecnologici tra paesi europei all’avan-guardia nel settore, Germania e Spagna in pri-mis, e paesi quali il Qatar e la Tunisia. Pratichecome lo scambio di expertise tecnica e l'assi-stenza nello sviluppo del mercato potrebbero (edovrebbero) rappresentare le basi per una poli-tica energetica europea di più ampio respiro –basata non soltanto sullo sfruttamento di idro-carburi - nel proprio vicinato. L’eventuale suc-cesso dell’Unione potrebbe contribuire a unariduzione delle tensioni sui mercati tradizionalidel gas e del petrolio, a una diminuzione delleemissioni di C02 e a uno sviluppo sostenibile ditecnologie e know-how da condividere con ipaesi della regione e da poter esportare in altrearee del mondo.

ConclusioniFare previsioni sugli sviluppi di un settore com-plesso come quello energetico può rivelarsi unesercizio estremamente rischioso. Spesso, eventidi carattere puntuale sono in grado di modifi-care radicalmente - ed in brevissimo tempo -tendenze e scenari consolidati. Per quanto ri-guarda i mesi a venire, la sensazione è che

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l’evoluzione del settore energetico sarà deter-minata, in linea generale, da elementi macroe-conomici: è ipotizzabile, infatti, che le difficoltàeconomiche e finanziarie dell’occidente contri-buiranno in qualche modo ad allentare le ten-sioni sui mercati energetici internazionali. Suquesto sfondo, tuttavia, vanno preventivate si-tuazioni di imprevisto e instabilità che potreb-bero alterare il normale funzionamento dimercati altamente “psicologici” come quellienergetici.

Al contempo, è possibile vedere nel 2012 un im-portante anno di transito per l’affermazione ditendenze di medio-lungo periodo. Il crescenteruolo del gas naturale nel mix energetico glo-bale, cosi come lo sviluppo delle energie rinno-vabili, sono processi ormai in atto eprobabilmente ineludibili, che nei prossimi mesipotranno intensificarsi o rallentare, a secondadelle evoluzioni di breve periodo che caratteriz-zeranno il settore energetico nel suo complesso.

1Il greggio di riferimento è il Brent scambiato all’ICE di Londra. Per quanto riguarda il WTI, scambiato aNew York, il suo prezzo ha subito oscillazioni più rilevanti, finendo anche sotto i 75 dollari al barile nelmese di Ottobre.

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Organizzazioni Internazionali

Valerio Bosco

►Il 2 dicembre il Consiglio di Sicurezza (CdS) ha approvato la risoluzione 2022 che estendesino al 16 marzo 2012 il mandato della United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL).La missione, oltre a sostenere gli sforzi della autorità libiche nel ripristino della sicurezza, nellapromozione dello stato di diritto e del dialogo politico nazionale, nell’avvio del processo elettoralee nella preparazione di una nuova carta costituzionale, avrà ora anche il mandato di assistere ilgoverno di transizione nel contrasto alla proliferazione delle armi abbandonate dal vecchio regimee in particolare dei sistemi missilici portatili terra-aria.►Il 5 dicembre il CdS ha approvato, con l’astensione di Cina e Russia, la risoluzione 2023 sulrafforzamento delle sanzioni mirate contro l’Eritrea - embargo sulle armi, blocco dei visti edegli assets finanziari del regime, congelamento dei proventi derivanti dal settore minerario –alfine di impedirne “la continua azione di destabalizzazione del Corno d’Africa”. Il Consiglioha condannato le ripetute violazioni della sanzioni da parte del governo eritreo, nonchè l’operadi finanziamento di gruppi armati nella regione, deplorando la pratica del regime di Isaias Afe-werki di “ricorrere alla violenza e alle minacce” nella riscossione illegale di tasse nei confrontidi cittadini eritrei e membri della diaspora residenti fuori dal Paese.►Il 22 dicembre il CdS ha approvato la risoluzione 2032 che ha prolungato, per altri 5 mesi, ilmandato della United Nations Interim Security Force for Abyei, (UNISFA), dispiegata nellezone di confine contese tra Sudan e Sud Sudan

Eventi

L’ONU E LA PRIMAVERA ARABA TRA 2011 E 2012: BILANCIO E PROSPETTIVE

La primavera araba – la straordinaria richiestapopolare di democrazia e buon governo che hainvestito l’Africa settentrionale e il MedioOriente - ha indubbiamente plasmato l’agendadei lavori delle Nazioni Unite nel corso del

2011. Il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Ge-nerale (AG), il Consiglio dei diritti umani, la di-plomazia del Segretario Generale e delDipartimento Affari Politici del palazzo di vetro(DPA), diverse agenzie del sistema onusiano –

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in particolare lo United Nations DevelopmentProgram (UNDP) e l’Office of the High Com-missioner for Human Rights (OHCHR) – sisono interessate, con modalità ed esiti tra lorodifferenti, alle varie crisi politiche che hannocolpito, in Africa settentrionale, la Tunisia,l’Egitto, la Libia e, nella penisola arabica,Yemen, Barhein, Siria, dove, rispettivamente, iregimi di Ali Abdullah Saleh, del sovranoHamad bin Isa Al Khalifa e di Bashar al-Assadsono stati costretti a confrontarsi con un’ineditae intensa protesta popolare. Il presente articolosi propone di ricostruire la risposta data dal si-stema ONU, nel suo complesso, alla primaveraaraba nel 2011, nonchè di indicare alcune diquelle che saranno, presumibilmente, le lineeguide destinate ad ispirare, nel 2012, l’azionedi sostegno dell’organizzazione alle delicatetransizioni politiche in corso nell’Africa Setten-trionale e in Medio Oriente.

Il Consiglio di Sicurezza tra Libia, Siria eYemenUn esame della risposta data al sistema ONUalla primavera araba non può ovviamente pre-scindere da una breve analisi delle pincipali de-cisioni adottate dal Consiglio di Sicurezza inrelazione alle crisi che sono scoppiate in Libia,Siria, Yemen e Barhein. Pur non essendosi maipronunciato sulla Tunisia, dove, nel gennaio del2010, la protesta araba è simbolicamente co-minciata con l’atto di dimostrativo di Moham-med Bouazizi – datosi fuoco a Tunisi nelgennaio 2011 per protestare contro la chiusuraforzata del suo piccolo esercizio commerciale -il Consiglio ha segnato le prime settimane del-l’anno appena trascorso con il passaggio di sto-rici pronunciamenti e risoluzioni sulla Libia.Dopo aver condannato, il 22 febbraio, con unpress statement, l’uso della forza da parte delregime di Tripoli contro la popolazione civileed aver altresì invitato le autorità libiche al ri-

spetto del principio della responsabilità di pro-teggere (Responsibility to Protect, R2P), il 26febbraio, agendo in base all’art.41 del capitoloVII della carta delle Nazioni Unite, il Consiglioapprovava all’unanimità la risoluzione 1970.Tale documento chiedeva la cessazione delleviolenze contro la popolazione civile e stabilivaaltresì l’imposizione di un embargo sulle armiin Libia e di un pacchetto di sanzioni – travelban e congelamento degli assetts finanziari –contro la famiglia di Muammar Al-Qadhafi edalti funzionari del governo di Tripoli. In seguito,il 17 marzo, il CdS approvava– con l’astensionedi Brasile, Cina, India, Russia e Germania - larisoluzione 1973 che chiedeva il cessate il fuocoimmediato, nonchè l’arresto degli attacchi con-tro la popolazione civile da parte del regime diGheddafi, disponendo in particolare la crea-zione di una no-fly zone sui cieli della Libia. Lanuova decisione autorizzava gli Stati membri -“acting nationally or through regional organiza-tions or arrangements” – ad assumere tutte lemisure necessarie per proteggere la popolazionecivile “under threat of attack in the country- in-cluding Benghazi”, ad esclusione tuttavia diogni ipotesi di occupazione straniera (“whileexcluding a foreign occupation force of anyform on any part of Libyan territory”). Com’ènoto, nelle settimane successive all’approva-zione della risoluzione 1973, le polemiche sol-levate dai paesi emergenti – Cina, Russia, India,Brasile, Sud Africa - sulla presunta interpreta-zione militare dalla NATO alla decisione delCdS hanno creato forti tensioni in seno al pa-lazzo di vetro. Nei primi giorni di ottobre, il pre-cedente libico è stato invocato dalla Russia edalla Cina per giustificare la loro comune oppo-sizione ad una risoluzione di condanna delleviolenze perpetrate dalle autorità siriane aidanni della popolazione civile. Le suddette di-vergenze - culminate nei veti di Cina e Russiadel 4 ottobre – non hanno impedito al Consiglio

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di conservare un consenso di fondo sulla rispo-sta ad alcuni degli eventi più tramautici chehanno accompagnato sin qui la primavera araba.In primo luogo, occorre ricordare come il Con-siglio abbia approvato all’unanimità, con la ri-soluzione 2009 (16 settembre 2011) ildispiegamento della United Nations SupportMission in Lybia (UNSMIL). La missione, il cuimandato è ricordato nella sezione “Eventi”, haricevuto un mandato temporaneo di tre mesi,rinnovato più recentemente (lo scorso 2 dicem-bre) sino al 16 marzo 2012. Nondimeno, appenapochi giorni dopo lo showdown del 4 ottobre, ilConsiglio trovava un nuovo consenso nell’in-vocazione della R2P in relazione alla crisi ye-menita. Con la risoluzione 2014 (13 ottobre2011) il CdS richiamava infatti il governo ye-menita alla necessità di rispettare la propria re-sponsabilità primaria in materia di protezionedella popolazione civile, condannava all’unani-mità le violazioni dei diritti umani compiute inYemen e domandava alle autorità nazionali diassicurare l’esercizio dei diritti fondamentali inmateria di libertà di epressione, associazione emanifestazione. Il Consiglio chiedeva altresì atutte le parti in causa di ripudiare l’uso della vio-lenza e di impegnarsi nella promozione di unapacifica transizione dei poteri che ricalcasse leproposte per la soluzione della crisi presentatedai Paesi del Golfo e fondate altresì sul progres-sivo ritiro dalla scena politica del presidenteSaleh.

L’Assemblea Generale e il Consiglio dei di-ritti umani: il focus su Libia e SiriaIn relazione al caso libico, l’AG e lo HumanRights Council (HRC) hanno agito in manieraefficace nel promuovere un’efficace opera dicondanna e isolamento del regime di Gheddafi.A soli pochi giorni di distanza dalla decisionedello HRC di raccomandare all’AG di votare infavore della sospensione della membership

della Libia dal Consiglio dei diritti umani, l’As-semblea approvava la suddetta richiesta all’una-nimità. Contemporaneamente alla decisione delConsiglio di Sicurezza di affidare alla Corte Pe-nale Internazionale la conduzione delle indaginisui crimini e le violenze compiute in Libia, loHRC si riunuiva in sessione speciale ed adot-tava la risoluzione S/15-1 con la quale stabilivala creazione di una commissione di inchiestasulle violazioni dei diritti umani nel Paese, affi-dandole altresì il compito di identificare i re-sponsabili dei suddetti crimini e proporreadeguate raccomandazioni per porre fine alleviolenze. Il 15 marzo 2011 veniva così formatauna commissione d’inchiesta presieduta dal-l’egiziano Cherif Bassiouni e composta anchedalla giordana Asma Khader e dal canadese Phi-lippe Kirsch. Pur non potendo dispiegare lacommissione nel corso dell’avvio delle opera-zioni militari da parte della NATO, il Consigliodei diritti umani ha ricevuto continue informa-tive dallo OHCHR su una serie di crimini com-messi in Libia, tra i quali esecuzioni sommarie,torture, violenze contro la popolazione civile.Solo più recentemente, dal 31 novembre al 16dicembre scorso, la commissione ha visitato Tri-poli e condotto investigazioni su una serie diviolazioni dei diritti umani e del diritto interna-zionale umanitario commesse dal regime diGheddafi e dalle altre forze coinvolte nel con-flitto. Un nuovo viaggio della commissione toc-cherà, nelle prime settimane del 2012, le città diAjdabiya, Benghazi, Bani Walid, Brega, Misra-tah, Nalut, Sirte, Yefren e Zintan. Particolar-mente intensa è stata altresì l’azione dello HRCsulla situazione in Siria, cui il Consiglio gine-vrino ha dedicato ben 3 sessioni straordinarienel corso del 2011 disponendo altresì, come nelcaso della Libia, la creazione di una commis-sione d’inchiesta incaricata di fare luce sulleviolazioni dei diritti umani compiute sin dalmese di marzo. Nel corso dell’ultima sessione

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straordinaria, svoltasi lo scorso 2 dicembre, ilConsiglio ha discusso a lungo il rapporto pro-dotto dalla commissione d’inchiesta, la quale hadocumentato “patterns of summary execution,arbitrary arrest, enforced disappearance, torture,including sexual violence, as well as violationsof children’s rights”, indicando altresì nel-l’eser cito e nelle forze di sicurezza sirianei responsanabili delle violenze cominciate nelmarzo 20111.Con 37 voti a favore, 4 contrari e 6 astensionilo HRC ha ripetuto una dura condanna del com-portamento delle autorità siriane ed ha esortatoil governo di Damasco ad arrestare la repres-sione e cooperare con l’ONU per la creazionedi un ufficio dell’Alto Commissario dei dirittiumani nel Paese. Nondimeno, il Consiglio hadeciso di creare la figura di uno Special Rap-porteur incaricato di monitorare la situazionedei diritti umani in Siria e di verificare l’imple-mentazione delle raccomandazioni adottatedalla commissione d’inchiesta. Parallalementealle procedure messe in moto dallo HRC, l’As-semblea Generale ha contribuito a mantenerealta la pressione internazionale sul regime si-riano, approvando, sia nella sua commissionetecnica (terza commissione) che in sessione ple-naria ( 22 novembre e 14 dicembre), un testo dirisoluzione che ha chiesto al governo siriano diapplicare senza ritardi ulteriori il piano messo apunto dalla Lega Araba, un pacchetto di misureche include la fine delle violenze, il ritiro deipresidi militari dalle strade, il rilascio di prigio-nieri politici, nonché l’avvio di riforme politichee del dialogo con le forze di opposizione.

La diplomazia del SG e l’azione del Segreta-riato ONU La primavera araba è stata altresì al centro delladiplomazia del Segretario Generale dell’ONU edel Dipartimento affari politici, focal pointdell’organizzazione in materia di mediazione e

prevenzione dei conflitti. Il DPA ha monitoratola situazione nordafricana e mediorientale gui-dando la diplomazia del SG, inviando senior of-ficials e team di esperti chiamati a verificare losviluppo delle varie situazioni di crisi, fornendostaff di sostegno all’inviato speciale di Ban KiMoon sulla Libia ed al suo Special Adviser perla pianificazione post-conflittuale e inviando,infine, electoral officers per assistere i processielettorali e la transizione in Tunisia e in Egitto.L’approccio adottato dal Segretario Generale èstato quello di riconoscere, aldilà delle specifi-cità nazionali, “il comume denominatore dellarivolta araba in una crisi di governance e nellarichiesta di dignità, democrazia e opportunità daparte delle popolazioni dell’Africa settentrio-nale e del Medio Oriente”2 . Sin dai primi giorni successivi all’intensifica-zione delle proteste popolari contro il regime diBen Ali in Tunisia e quello di Mubarak inEgitto, il DPA ha messo a punto le coordinateper una sua azione di sostegno alla transizionedemocratica in questi Paesi. Già nel marzo2011, nei giorni più caldi della protesta di TahirSquare, una prima missione di alto livellodell’ONU, guidata dall’Under Secretary Gene-ral for Political Affairs, l’americano Lyn Pascoe,ebbe una serie di incontri con le autorità locali,comunicando la volontà delle Nazioni Unite dioffrire sostegno al Paese in materia di svilupposocio-economico, assistenza elettorale, dialogonazionale e promozione e rispetto dei dirittiumani. In cooperazione con UNDP, il DPA, haavviato un’iniziativa di sostegno al processoelettorale apertosi con le elezioni della camerabassa del parlamento egiziano e che dovrebbeproseguire, sin dai primi giorni del 2012, condiverse tornate elettorali - che riguarderannoanche la Shura Council, la camera alta dell’as-semblea nazionale - la redazione di una nuovacostituzione e la sua approvazione mediante unreferendum popolare. In relazione alla Tunisia,

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il sostegno offerto da DPA e da UNDP al pro-cesso elettorale che ha certificato la transizionedemocratica dall’impopolare regime di Ben Alialla formazione del governo guidato dall’isla-mico moderato Hamad Jebali e dal partito En-nhada diretto da Rached Ghannouchi, si èrivelata cruciale. Esperti elettorali del Segreta-riato ONU hanno accompagnato l’intera fase dipianificazione, preparazione e verifica delle ele-zioni per la formazione dell’assemble costi-tuente. Il DPA, su istruzione del SG e sumandato del CdS, ha inoltre fornito il propriosostegno all’inviato speciale di Ban Ki-Moonsulla Libia, Abdul-Elah Al-Khatib, nominato nelmarzo 2011. In seguito all’avvitamento del con-flitto e della guerra civile e contestualmenteall’avvio delle operazioni militari da parte dellaNATO, il DPA ha sostenuto l’azione dello Spe-cial Adviser del SG sulla pianificazione della ri-costruzione post-conflittuale, il britannico IanMartin, divenuto successivamente, con la crea-zione di UNSMIL, il rappresentante speciale diBan Ki Moon in Libia. Sia il SG che il capo delDPA, pur limitati dalla paralisi registrati in CdSsulla questione siriana, non hanno mancato diformulare critiche piuttosto dure nei confrontidel regime di Damasco, capitalizzando l’atten-zione dedicata al caso siriano da parte delloHuman Rights Council e del Commisario ONUper i diritti umani. La medesima politica d’in-coraggiamento al dialogo ed alle riforme è stataadottata dal SG in relazione al Barhein. Ban Ki-Moon ha più volte invitato, anche con durezza,le autorità e le forze di sicurezza del Paese a ri-spettare i diritti umani ed a rispondere con effi-cacia alla protesta popolare. Grazie alla discretapressione diplomatica esercita dal SG, dal DPAe da Navi Pillay, Commissaria ONU per i dirittiumani, in cooperazione con i Paesi del Golfo, ilsovrano del Barhein ha dato il via libera allacreazione di una commissione internazionaled’inchiesta sulle violenze del febbraio e del

marzo 2011, il cui rapporto è stato consegnatoalle Nazioni Unite alla fine di novembre. Il rap-porto, che ha documentato l’uso eccessivo dellaforza contro il movimento di protesta da partedelle forze di sicurezza nazionale, ha presentatoprecise raccomandazioni volte a creare le con-dizioni necessarie all’avvio di un dialogo inclu-sivo sulle riforme politiche ed economiche. IlSegretariato ONU ha dedicato inoltre partico-lare attenzione alla crisi yemenita inviando, sindalla scorsa primavera, una serie di missioni po-litiche volte a sensibilizzare il presidente AliAbdullah Saleh e il suo entourage sulla neces-sità di dialogare con l’opposizione e arrestare ladura repressione del movimento di protesta. IlDPA ha altresì offerto sostegno tecnico e logi-stico all’iniziativa diplomatica del consiglierespeciale del Segretario Generale sullo Yemen,il marocchino Jamal Benomar, impegnato a ne-goziare, d’intesa con la diplomazia del GulfCooperation Council, l’uscita dalla vita politicadel discusso Saleh e la gestione di una transi-zione fondata sulla creazione di una nuova co-stituzione e di un sistema parlamentaremultipartitico. La decisione del presidente Salehdi firmare, lo scorso 23 novembre, il piano ditransizione delineato dai Paesi del Golfo - unaroad map costituente che include una sorta diimmunità per il leader yemenita e l’attribuzioneallo stesso di una carica temporanea di presi-dente onorario prima della sua “abdicazione” -segnala indubbiamente il successo delle pres-sioni sin qui esercitata in maniera coordinata dalGCC, dai membri permanenti del Consiglio diSicurezza e dal Segretariato dell’ONU.

Un primo bilancioAlla luce della presente ricostruzione, un bilan-cio dell’azione ONU rispetto alla primaveraaraba nel corso del 2011 non può che essere ne-cessariamente articolato e dunque tenere contodella molteplicità delle istituzioni e attori onu-

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siani coinvolti e del tipo di iniziative assunte. Inrelazione alla performance del Consiglio di Si-curezza, l’intervento dell’organo responsabileper il mantenimento della pace e della sicurezzainternazionale è rimasto limitato ai casi di Libiae Yemen. L’incapacità del CdS di reagire ri-spetto all’escalation di violenze in Siria, una pa-ralisi determinata dai veti di Cina e Russia,conferma inevitabilmente il condizionamentoesercitato dagli interessi strategici delle grandipotenze nella capacità del massimo organo delleNazioni Unite di intervenire rispetto a situazionidi gravi e massicce violazioni dei diritti umani.Tali situazioni, in una interpretazione modernadel concetto di minaccia alla pace e alla sicu-rezza internazionale, nonché in una accettazionesempre più universale del principio della re-sponsabilità di proteggere, non possono eviden-temente essere interpretate come mere questioniinterne, soggetto al divieto d’ingerenza dellaComunità Internazionale. Nondimeno, l’impor-tanza della 1973, l’autorizzazione al dispiega-mento della missione ONU in Libia, lacondanna delle violenze in Yemen e il sostegnoall’impegno della Lega araba nella promozionedi una transizione pacifica testimoniano il ruolofondamentale giocato dal CdS nel guidare la ri-sposta onusiana alla primavera araba. La divi-sioni del Consiglio sull’intepretazione dellarisoluzione 1973 e la paralisi sul progetto di ri-soluzione presentato dai Paesi occidentali sullaSiria non hanno impedito al palazzo di vetro diproseguire il dibattito sulla necessità di accom-pagnare l’iniziativa diplomatica della Legaaraba, determinata a promuovere l’apertura diun processo di riforme in Siria. La volontà po-litica della Lega Araba di mettere fine alle vio-lenze, una serie innumerevoli di statements delSG e del Commissario ONU per i diritti umani,l’inchiesta promossa dallo HRC hanno indub-biamente contribuito a tenere viva la pressionepolitica sul CdS in relazione al caso Siria e pro-

babilmente favorito l’avvio di una nuova inizia-tiva della diplomazia russa nel corso degli ul-timi giorni del 2011. Sin dagli ultimi giorni del2011, la delegazione russa all’ONU è infatti im-pegnata nella preparazione di un delicato testodi risoluzione che possa conciliare le richiesteoccidentali – la dura condanna della repressionegovernativa – con le proposte russe e cinesi inmerito alla necessità di escludere ogni riferi-mento a sanzioni o opzioni d’intervento militaree di includere un linguaggio che identifichi unaqualche forma di equiparazione delle violenzecondotte dall’esercito siriano con quelle perpe-trate dai vari gruppi d’opposizione. Nella valu-tazione più ampia della performance dell’ONUrispetto alla crisi araba, oltre a riconoscere lacentralità dei pronunciamenti delle altre istitu-zioni cardine dell’organizzazione, l’AssembleaGenerale e il Consiglio dei diritti umani, parti-colare attenzione merita indubbiamente quantogià accennato rispetto alla vocal diplomacy delSegretario Generale, il quale, diversamente dasituazioni rispetto alla quale i suoi interventi fu-rono giudicati deboli e irrilevanti – dure critichefurono rivolte a Ban Ki-Moon per la sua passi-vità e irrilevanza nel periodo delle violenze checolpirono Myanmar e Zimbabwe nel 2007 – siè distinto per la durezza e incisività delle sue di-chiarazioni, nonché per il dinamismo della suadiplomazia pubblica e privata. In particolare, atestimonianza dell’incisività dell’azione del SG,forte del suo rinnovo alla guida dell’ONU perun secondo mandato, possono essere citati comeesempi significativi i ripetuti inviti formulatialle autorità egiziane e siriane in momenti cru-ciali delle crisi attraversate dai due Paesi. Nelloscorso mese di marzo, nella sua prima visita inEgitto dopo la rimozione del presidente Muba-rak, il SG, invitando le autorità militari ad essereall’altezzza delle grandi aspettative poste su diesse dal popolo egiziano e dall’intera comunitàinternazionale, aveva sottolineato l’urgenza di

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consolidare la transizione politica puntando sulrafforzamento della democrazia e della parteci-pazione popolare, sulla difesa delle libertà civilee dei diritti delle minoranze.3 Più recentemente,in occasione della conferenza stampa di fineanno, Ban Ki-Moon, non ha esitato ad assumereposizioni ancora più dure, che sono sembrateporlo in netta rotta di collissione con Cina eRussia e gli interessi strategici dei due membripermanenti del CdS, strenui difensori del re-gime siriano e critici, assieme agli altri Paesiemergenti, Sud Africa, Brasile e India, nei con-fonti dell’azione NATO in Libia. Dopo aver sot-tolineato come l’azione militare della NATO siastata strettamente contenuta nei limiti e nei pa-rametri identificati dalla risoluzione 1973 – “ladifesa della popolazione civile dalla repressionecon tutti i mezzi possibili” – Ban Ki-Moon hainvitato la Comunità Internazionale, “in thename of humanity”, a reagire ad una situazione,quella siriana, che “ha ormai prodotto più di cin-quemila vittime civili” 4. Stessa incisività hacontraddistinto le istituzioni e gli uomini su cuisi basa la diplomazia del Segretario Generale,in primis il Dipartimento Affari Politici. Proprioil DPA, pur non disponendo di missioni sulcampo da dove lanciare e sostenere la propriainiziativa diplomatica nei vari teatri di crisi, èriuscito a coordinare efficacemente la rispostadell’ONU mobilitando l’expertise politica e tec-nica dell’organizzazione. Si pùo in questa sedericordare l’importanza esercitata delle variemissioni diplomatiche effettuate dal DPA – siain formato high-level che low-profile – inEgitto, Siria, Yemen e Barhein alfine di incorag-giare le transizioni e pianificare le diverse ipo-tesi di assistenza del Segretariato ONU aldialogo politico interno, ai processi elettorali edi redazione di nuove carte costituzionali.Stesso livello di vocalità e incisività è infinequello che ha contraddistinto l’encomiabile per-formance dello OHCHR e del Commissario

Navi Pillay, la quale ha denunciato apertamentee senza alcuna reticenza i crimini del regime diGheddafi nonché la prosecuzione delle violentarepressione delle proteste popolari in Siria,Egitto, Yemen e Barhein.

L’ONU e la primavera araba nel 2012Non c’è dubbio che la Libia rappresenterà lasfida più rilevante per le Nazioni Unite nelcorso del 2012. UNSMIL, la cui preparazione,in termini di mandato e modalità di dispiega-mento, è stato lungamente pianificata dal Segre-tariato ONU nelle settimane precedentil’adozione della risoluzione 2009 - circostanzache ha permesso all’organizzazione di trovarsipronta al termine delle operazione militari dellaNATO - giocherà un ruolo cruciale nell’accom-pagnare la transizione e coordinare l’assistenzainternazionale alla ricostruzione del Paese. Lamissione dell’ONU sarà chiamata a garantire latenuta del quadro politico della transizione, fa-cilitare la riconciliazione nazionale e scongiu-rare quello che molti analisti ancora oggitemono, ovvero il rischio di una “somalizza-zione della Libia” e dell’avvitamento delle ten-sioni tribali e claniche. L’assistenza elettoraleofferta dal Segretariato e il sostegno al processodi redazione della nuova costituzione saranno ipunti sui quali l’ONU concentrerà altresì la suaazione. Questione cruciale rispetto alla quale èpossibile prevedere un’intensificazione delleiniziative di UNMSIL è quella relativa al con-trasto della proliferazione di armi, specialmentedei sistemi missilistici portatili terra-aria. Di-versi analisti hanno rilevato la scomparsa digran parte dei sistemi portatili di difesa anti-aerea che facevano parte dell’arsenale del re-gime di Gheddafi, sottolineando altresì il rischioche organizzazioni terroristiche come quella diAl-Qaida nel Maghreb Islamico ne siano entratein possesso 5. Il timore è che la regione delSahel - fascia desertica che comprende una pic-

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cola parte del sud dell’Algeria, il Chad, la Mau-ritania, il Niger, il Mali e che si estende percirca 3 milioni di km quadrati - già rifugio perterroristi e trafficanti di armi e droga, possa ali-mentare l’instabilità e minacciare la sicurezzadi tutti i Paesi dell’area. Un’ulteriore crescitadella cooperazione al contrasto della prolifera-zione di armi tra i Paesi della regione e tra questie le varie presenze ONU nell’area - UNSMIL,la missione ONU in Africa occidentale (UN Of-fice for Western Africa,UNOWA), l’ufficio re-gionale delle Nazioni Unite per il disarmo ( dibase a Lomé, in Togo) è dunque prevedibile. Inrelazione alla Siria, la recente iniziativa russacostringerà il Consiglio di Sicurezza a conti-nuare i complicati negoziati “dietro le quinte”per l’approvazione di una difficile risoluzioneche riesca a conciliare le posizioni di Mosca ePechino con quella dei Paesi occidentali. Le dif-ficoltà incontrate dalla missione di osservatoridella Lega Araba in Siria e le divisioni in senoa tale organizzazione sull’opportunità di prose-guire l’iniziativa diplomatica non faciliterannopresumibilmente il buon esito dei negoziati inseno al Consiglio. Mentre il relazione alloYemen, lo Special Adviser del SG giocherà unruolo fondamentale nel monitorare lo sviluppodella situazione e aggiornare il Consiglio sul ri-spetto della road map della transizione pro-mossa dall’ ONU e dai Paesi del Golfo - ilprossimo briefing di Benomar al palazzo divetro è previsto entro le prime settimane di feb-braio - la crisi del Barhein vedrà l’Ufficio ONUdei diritti umani impegnato nell’assicurare l’im-plementazione delle raccomandazioni presen-tate dalla commissione internazionale volutadall’emiro Al-Khalifa. Sul piano strettamenteoperativo, l’azione dell’ONU sarà indubbia-mente condizionata dalla capacità degli Statimembri di garantire l’adeguato sostegno poli-tico e finanziario al DPA. In particolare, comeindicato dal DPA Multi-Year Appeal 2012, l’ef-

fettiva mobilitazione dei finanziamenti al-l’azione del Dipartimento nel MENA (MiddleEast and North Africa) - contributi esterni al bi-lancio regolare annuale dell’ONU promessidagli Stati membri - giocherà un ruolo centralenel dotare il DPA delle risorse umane e finan-ziarie necessarie all’esecuzione del propriomandato. In prospettiva, è lecito auspicare e pre-vedere, nel corso del 2012, un maggiore coin-volgimento di altri attori onusiani nelladefinizione di una risposta più articolata e co-ordinata del sistema ONU alla primavera araba.In particolare, le due commissioni economicheregionali delle Nazioni Unite – la EconomicCommission for Africa, ECA, e la Economicand Social Commission for Western Asia,ESCWA – che, in diversi studi realizzati tra il2008 e il 2010, avevano già posto l’attenzionesulle crisi di legittimità e consenso delle leader-ships dei Paesi coinvolti nell’Arab Spring, sot-tolineandone le povere performance in terminidi governance6 – saranno chiamate ad integraree coordinare le loro inziative con quelle con-dotte dagli attori del Segretariato ONU, il DPAe lo OHCHR. L’ECA e la ESCWA, in ragionedella loro prossimità al teatro delle crisi, fami-liarità con la situazione dei MENA, della loroopera di coordinamento dei meccanismi regio-nali di monitoraggio e promozione della buonagovernance politica ed economica, possono in-dubbiamente arricchire e integrare le iniziativedel Segretariato di New York con expertise e co-noscenze più specifiche dei diversi moventidella primavera araba. Un accenno alle prospet-tiva per il 2012 non sarebbe infine completosenza un breve riferimento a quei Paesi chesono stati solo parzialmente o per nulla toccatidalla protesta popolare e alle eventuali possibi-lità d’intervento del sistema ONU. In primoluogo, Marocco e Algeria, dove rispettivamenteMohammed VI e il presidente Bouteflika hannopresentato progetti di riforma delle istituzioni

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politiche e della governance nazionale alfine discongiurare il contagio dell’Arab Spring, neces-siteranno un attento monitoraggio da parte delSegretariato ONU alfine di preservare, purnell’ascesa dell’islamismo politico, la stabilitànazionale ed eventualmente incoraggiorne edaccompagnarne il processo di democratizza-zione. Non è infine da escludere che l’ONUdebba ricalibrare il profilo della sua azione inSudan, dove il regime di Al-Bashir, sin qui in-colume alla primavera araba, è alla prese conun’impopolarità crescente legata ai costi sociali

ed economici della secessione del Sud Sudan eall’intensità delle repressione delle libertà civilie politiche. La triplice presenza ONU nell’area– con la United Nations Mission in Sud Sudan(UNMISS), la forza ibrida ONU-Unione Afri-cana in Darfur, la UNISFA nella regione diAbieyei – dovrebbe tuttavia consentire all’Or-ganizzazione di analizzare periodicamente iltermometro politico della situazione ed even-tualmente suggerire l’adozione di iniziativevolte a prevenire il rischio di una transizionecruenta.

1 United Nations, General Assembly, Report of the Independent International Commission of Inquiry onthe Syrian Arab Republic, 23 November 2011, A/HRC/17/2/Add. 2.2 Cfr. www.un.org/wcm/content/site/undpa/op/main/enewsletter/news0711_mideast, DPA new focus onMENA, ultimo accesso 29 dicembre 2011.3 United Nations News Center, Visiting Egypt, Ban urges country to serve as inspiration for wider Arabworld, 15 march 2011.4 UN News Center, Secretary-General: End of the Year Press Conference, 14 December 2011.5 Samia Lokmane-Khelil, Lybie: un Arsenal qui fait peur, in l’Afrique, Janvier-Fevrier 2012.6 Cfr. United Nations Economic Commission for Africa, African Governance Report II, Oxford Press,2009; United Nations Economic and Social Commission for Western Asia, Report of the Expert GroupMeeting on Policies for Peacebuilding and Conflict Prevention in Western Asia, December 2009 e Infor-mation Kit on Sustainable Development Under Conditions of Conflict or Political Stability, January 2010.

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RECENSIONE

Titolo: Generalizzazione del concetto di “Costo

Autore: T.Col. Volfango Monaci

Il costo, nell'uso quotidiano della parola, e' il valore di un bene o di un servizio, espresso medianteil suo prezzo in denaro. Il concetto di costo puo' (e talvolta ''dovrebbe'') essere generalizzato, aseconda dei casi, in termini di altre e diverse tipologie dotate di utilita', ma che non sono, per loronatura, convertibili in moneta.

Nell'ambito militare ed in ambiente dicombattimento, sono tipicamente considerati''costi'' le perdite: - di vite umane; - della possibilita' di muovere; - dell'elemento sorpresa (o segretezza); - dell'occasione (o istante propizio); - etc…. Si tratta di risorse la cui utilita',ovviamente, non e' monetizzabile e, pertanto,esse non hanno prezzo.

Il concetto di ''costo'', così come lo si intende neldibattito economico pubblico e privato, viene poiad essere profondamente mutato da numerosifenomeni peculiari del tempo di guerra (fenomenidi estrema scarsita' o indisponibilita' di risorse,ad esempio) che contribuiscono non poco acomplicare lo scenario economico e le dinamichedei prezzi in moneta.

I risultati illustrati in questo studio, e gli ambiti applicativi prefigurati, sebbene presentati acoronamento di evocazioni concettuali nello specifico ambito militare, sono costruttivamenteelaborati in modo da poter essere applicabili ad un vasto ventaglio di scenari e di circostanze.

Edizione: 2010Editore: Centro Militare di Studi StrategiciPrezzo: Disponibile gratuitamente, all'indirizzo web:http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti_militari/CeMISS/Pubblicazioni/News206/2010-09/Pagine/Generalizzazione_del_concetto_di_costo_11893.aspx