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Psicodinamica ed aspetti mitologico/etnopsicoanalitici del matricidio e del figlicidio

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Psicodinamica

ed aspetti mitologico/etnopsicoanalitici

del matricidio e del figlicidio

Era un’aurora speciale, l’aurora che tingeva d’argento il mattino di quel 15

dicembre.

Correva l’anno 37 d.C.

Il bagliore meraviglioso del sole nuovo rischiarava lieve i contorni morbidi di una

‹‹vita›› che, timida, sbocciava. La sua fulgida iridescenza promanava silenziosa,

direttamente dal dio ‹‹Apollo››.

Un presagio strabiliante, questo, che sarebbe stato presto ineluttabilmente

macchiato, tuttavia, dalla funesta novella di cui quel ‹‹parto podalico›› si faceva

oratore, attraverso il quale un pavido ‹‹essere››, pallido come un raggio di luna,

sceglieva di fare la sua comparsa, tra le stelle del firmamento, sul palcoscenico della

storia.

Due profezie terribilmente lontane l’una dall’altra, avviluppate nella loro

insensata ed inesorabile ‹‹ambivalenza››, avrebbero ‹‹segnato››, quella vita inerme, per

sempre.

Lo stigma di tali implacabili vaticini avrebbe imprigionato un esile corpicino in

‹‹cerca d’autore››, quasi fosse un personaggio uscito fuori dal sorprendente cappello

pirandelliano, tra le patetiche catene della ‹‹solitudine››, relegandolo sull’eremo di una

‹‹esistenza›› consumata nella tormentata ‹‹ricerca di sé stesso››, narcotizzato

dall’illusione di ritrovarsi dove si era perduto, là, nel tiepido ‹‹ventre della mamma››,

paradigma di quel fantastico ‹‹brodo primordiale›› nel quale, in principio, alcuni atomi

si ‹‹incontrarono›› per diventare molecole e alcune molecole si ‹‹incontrarono›› per

divenire ‹‹sostanza organica››, dando luogo al formidabile valzer della vita.

Alla mamma quel cucciolo di uomo supplicava incessante una soffice carezza,

un abbraccio che sapesse sussurrargli ‹‹affetto sincero››, una ‹‹scheggia d’amore››,

quell’amore puro ed innocente per cui un bambino si strugge più di ogni altra cosa al

mondo. Un amore in grado di conferire ‹‹significato›› alla realtà. Un amore che

trascende l’umano per proiettarsi direttamente nell’infinito, lungo le sconfinate distese

dell’immensità, tra i rilievi scoscesi dell’anima.

Sfortunatamente però quel ‹‹vagito innocente››, orgoglioso eppure alquanto

incredulo di condividere un frammento favoloso dell’Eden, non riceverà mai la risposta

che avrebbe sperato

Assai severo ed amaro sarà il ‹‹cuore di mamma›› per quel bimbo prescelto, da

un fato cieco, perché diventasse ‹‹Imperatore di Roma››.

E così ‹‹Nerone›› si esibirà, nella sua danza del tempo, al ritmo incalzante di un

‹‹nostalgico›› rondò, sulla scia ricamatagli nel ‹‹cielo terso dei sentimenti›› dall’anelito

di un paradiso ‹‹drammaticamente perduto›› per una verità che nessuno gli dirà mai, e

crescerà drogato dal sapore agrodolce che intride profondamente la paura

inconfessabile di ‹‹percepirsi in bilico, su di un impalpabile refe, lungo il crinale che

separa la vita dalla morte››, e assisterà, immobile, alla stridente dissoluzione cui sarà

condannata, dal giudizio inappellabile del suo ‹‹cuore››, l’anima di quella persona così

importante per lui, una disintegrazione perpetrata lentamente e con sottile cinismo

dentro il suo scrigno della ‹‹memoria››, su di una impassibile ‹‹imago di donna››, dallo

tsunami dei suoi travolgenti pensieri, così indomabili nel loro atavico e devastante

moto perpetuo tra gli abissi della coscienza.

A nulla servirà il suo sforzo di ripudiarli, ‹‹magnificandoli›› sotto le spoglie

vieppiù seducenti del ‹‹gioco circense›› e della ‹‹lirica››, affinchè il fardello della loro

acredine sia per lui più ‹‹lieve da sentire››, mentre scivola sulla pelle.

In lontananza si ode l’eco di un barbaro destino che non avrebbe esitato, di lì a

poco, ad impossessarsi della sua realtà, dipingendola del suo triste arcobaleno.

Quando durante un banchetto suo fratellastro Britannico si accascia, avvelenato

a morte, Agrippina comprende che oramai lo spirito del male, un irresistibile ‹‹djinn››,

che con abile maestria riesce ad insinuarsi nei recessi più reconditi delle anime,

annegando gli individui nell’oceano del delirio, di un delirio di onnipotenza dove vita

e morte non esistono più se non nella ‹‹rapsodia della follia››, riverberandosi in un

pensiero invincibile che diviene ‹‹agito›› e poi subito dopo nuovamente pensiero, con

un incedere eterno, inesorabile, è entrato ad abitare nella ‹‹casa›› del figlio, dalla quale,

forse, non sarebbe mai più uscito.

Se una donna malese Tuareg cade in uno stato definito ‹‹eswed››, assai simile ad

una depressione profonda, essa viene considerata in un certo senso ‹‹sospesa››,

proiettata cioè verso una nuova dimensione pur restando saldamente ancora legata a

quella da tutti condivisa come realtà. Tale evento eccezionale viene celebrato con balli

e canti. In un giubilare incontenibile a quella donna è concesso di soddisfare ogni suo

desiderio, ogni sua pulsione, ogni sua passione. Per un tempo indefinito ogni potere è

nelle sue mani.

Danzerà al ritmo della sua follia sino a quando, spossata, si lascerà cadere. Solo

allora sarà guarita. Il dolore tra le donne Tuareg significa, in un momento particolare,

libero sfogo di sfrenati desideri. Come se l’anima della donna eletta si servisse in

qualche modo del dolore lancinante che la depressione porta inscindibilmente con sé,

per ritornare là dove ogni desiderio, bizzarro o meno che fosse, smetteva di esistere

perché già soddisfatto ancora prima che si generasse.

Ed è così che allora diviene possibile ad una madre, contagiata dal virus mortale

della vanità, ‹‹insidiare›› il proprio figlio, imponendogli viscidamente una

‹‹femminilità›› crudele, efferatamente ‹‹incestuosa››. In una ‹‹pulsione›› incontenibile

di possesso, di ‹‹dominio incondizionato ed incondizionabile dell’altro››, di

‹‹irrefrenabile appartenenza reciproca›› quale unica via per la sopravvivenza, si

intrecciavano muti i misteri di due vite ricolme del ‹‹vuoto di un senso››, e nel ‹‹talamo

fantastico›› del loro amore inconsolabile prendeva forma l’ultimo disperato tentativo

di ‹‹ricongiungersi›› per ricreare, finalmente, quel continuum che potesse legarli, come

un tempo dimenticato, all’infinito.

Accadeva allora che lo spettro di un ‹‹delitto orrendo›› si vestisse di sacralità,

incistando i suoi tentacoli nelle maglie di una ritualità sacrificale, in ossequio alla quale

l’annullamento del ‹‹corpo materno›› avrebbe significato la ‹‹conquista fantasmatica››

della anima ‹‹irraggiungibile›› a cui quel corpo era appartenuto, sconcertante

rivendicazione storica di un oscuro e per certi versi costituzionale ‹‹cerimoniale

cannibalico di trasformazione›› databile, secondo molti studiosi, a partire dall’Uomo

di Pechino, il ‹‹Sinantropo›› eurasiatico abitatore del Pleistocene Medio (700000 -

120000 anni fa), che finisce, in questo caso, per restare agganciato esclusivamente alla

sua ‹‹dimensione simbolica››, mantenendo comunque inalterato, in tutto il suo greve

carico di indicibile violenza, l’assetto ‹‹emozionale›› ad esso saldamente sotteso.

Una sorta di ‹‹Wihtigo››, enorme spirito antropofago plasmato di ghiaccio,

quindi ‹‹emozionalmente freddo e distaccato››, tipico dell’universo psichico di talune

tribù amerindiane come quelle dei ‹‹Salteaux››, degli ‹‹Ojibway›› e dei ‹‹Cree››,

repentinamente, accompagnato da un catastrofico sentimento di ‹‹angoscia››, assale

l’individuo generando nel suo ‹‹grembo›› un ‹‹mostro raggelante›› dal quale egli, al

pari di ogni ‹‹gravida›› col suo ‹‹concepito››, prova invano a liberarsi cercando di

sputarlo fuori di sé, sopraffatto vieppiù dall’impeto di una ‹‹nausea›› insostenibile e di

un ‹‹vomito›› sfrenato. Il suo ingresso sulla scena psichica del giovinetto, gli ridesta

‹‹ancestrali spinte pulsionali cannibaliche›› rinvenibili antropologicamente addirittura

nei primordiali agglomerati umani, costituiti da ‹‹donne›› e non, come si era

inizialmente pensato, da uomini, nel nucleo dei quali un prodigioso ‹‹potere catartico››

era attribuito alla ‹‹placenta››, un organo metà mamma metà bambino, in virtù della

sua ‹‹ambivalente›› funzione di ‹‹nutrimento›› e di ‹‹avvelenamento›› per il feto, la

quale veniva venerata come ‹‹oggetto cultuale›› di divinità, in quanto ritenuta ‹‹doppio

del bambino››, indi ‹‹mangiata››, all’interno giustappunto di una ‹‹ritualità sacra››, in

ragione dei suoi ‹‹effetti antiossidanti››, straordinariamente taumaturgici.

Tale ‹‹istinto placentofago›› sarà modificato in seguito, sulla scorta di una

qualche rielaborazione della morte per ‹‹placenta accreta››, e trasformato, come è

avvenuto nel grande clan ugandese dei ‹‹Baganda››, in un solenne cerimoniale

cumulativo da riservare ad ogni placenta di neonato deposta sotto un banano, idolatrato

vieppiù quale ‹‹santuario inviolabile››, affinchè alcuno non avesse ad appropriarsi

indebitamente di frutti o infusi da esso concepiti, ai quali verosimilmente si attribuiva

capacità di ‹‹surrogare›› l’anima della placenta inumata, evenienza che sarebbe stata

vissuta come ‹‹apocalittica›› per il neonato, in quanto il suo ‹‹soffio vitale›› avrebbe

istantaneamente, sospinto da una forza incontrastabile, raggiunto il suo ‹‹alter

placentare››, introdottosi nel corpo ‹‹impuro›› di un estraneo, di un ‹‹alieno›› rispetto

a quel segreto, rispetto a quel legame magico ed inviolabile con la mamma, un estraneo

pertanto vieppiù colpevole, col suo ignobile e sprovveduto gesto, della potenziale

‹‹disintegrazione›› di una intera etnia. Ciò risulta abbastanza facile comprenderlo se

pensiamo alla genesi stessa della placenta, ossia al processo che conduce lo zigote, il

‹‹prodotto fecondativo›› cioè dell’incontro tra cellula uovo e spermatozoo, a diventare,

mediante molteplici suddivisioni del suo materiale cellulare, dapprima ‹‹morula››,

successivamente ‹‹blastocisti››, ed infine ‹‹trofoblasto››, il quale nella sua struttura più

periferica assumerà una caratteristica ‹‹sinciziale››, in altri termini un ammassamento

corpuscolare dentro cui le singole membrane di separazione cellulare vengono a

dissolversi, ed in un grande magma citoplasmatico si aggrovigliano le sostanze nucleari

di tutte le cellule di partenza. Tale ammasso cellulare definito, noto come

‹‹sinciziotrofoblasto››, possiede una straordinaria ‹‹attività citolitica›› che gli consente

di ledere, consumare, la mucosa uterina, infiltrandola come le radici di un albero

infiltrano la terra. In questo modo è possibile all’embrione procedere all’impianto.

Perché un embrione si impianti è necessaria una aggressione. E’ necessario che

la mucosa uterina perda qualcosa di ‹‹sé›› per accogliere ‹‹l’altro da sé›› che andrà a

legarsi intimamente, stringendo un vero e proprio patto di sangue, attraverso le lacune

ematiche, a sé. Ogni nuova vita si unisce con ‹‹rabbia›› alla mamma, entrando quasi

con forza nella sua casa. Ogni nuova vita chiederà alla mamma di perdere qualcosa di

sé perché essa la possa abitare, perché essa la possa ‹‹riempire››.

Lentamente poi, in siffatto complesso sinciziale, incominciano a comparire spazi

cavitari i quali accoglieranno il sangue ‹‹materno›› il quale si andrà, all’interno del suo

apparato di contenimento, a giustapporre al sangue ‹‹fetale››, in quella struttura

biologica dalla connotazione assai ‹‹ibrida››, ‹‹ambivalente››, come abbiamo appena

visto, pur tuttavia assolutamente indispensabile per la vita, chiamata dunque

‹‹placenta››.

La portata pragmatica degli elementi antropologici, cui è stato dato un semplice

accenno in questa primissima fase di trattazione e che si presenteranno man mano

numerosi, intersecandosi con peculiari aspetti mitologici, diverrà chiara nel corso della

trattazione, quando ad essi si aggiungeranno ulteriori parametri interpretativi di matrice

squisitamente ‹‹psicodinamica››, in ragione dei quali riaffioreranno, dai fondali

misteriosi della psiche, letture orientate su più livelli e , prevedibilmente, ‹‹risposte››

ad interrogativi che continuano a costellare, col loro carico di inquietudine, le menti di

intere generazioni.

Resasi perfettamente conto di quanto poco o niente avrebbe potuto contro la furia

cieca che aveva ordinato a suo figlio di immolarla, chi forse non fu mai né ‹‹donna››

né ‹‹madre›› e più di tutto, né ‹‹figlia››, bensì solo ‹‹ambigua sorella nel contagioso

vuoto esistenziale›› di un uomo complice di quella stessa ‹‹ambiguità››, passato agli

annali sotto il nome di ‹‹Caligola››, chiese ed ottenne che lo ‹‹stile assassino›› del boia

la ferisse mortalmente nel ‹‹ventre››, il ‹‹tempio sacro›› dal quale era scaturito il primo

zampillo della cascata di vita che avrebbe, in quel frangente ‹‹mortale››, bagnato di

eternità attraverso un agito vieppiù ‹‹immortale››, decretato l’affogamento della sua.

Un chiromante la aveva predetto come il figlio sarebbe salito sul gradino più alto

dell’Impero, e come da ‹‹imperatore››, ovvero da dominatore del mondo e di ogni realtà

umana in esso contenuta, proprio come Adamo quando avesse mangiato del ‹‹frutto

proibito››, l’avrebbe uccisa. Eppure sarebbe stata pronta ad accettare qualunque fato.

Qualsiasi cosa purchè suo figlio, colui il quale aveva, nascendo, colmato il suo

‹‹vuoto›› ancestrale, fosse diventato ‹‹re sacro››, trascinando su di sé, proprio come un

‹‹pharmakos›› il quale dopo un periodo di immensa felicità e soddisfacimento di ogni

bisogno del corpo veniva dal popolo fustigato sui genitali e condotto nudo fuori dalla

città affinchè fosse bruciato vivo, il ‹‹male›› della sua comunità, il male della storia che

lo aveva eletto, e quindi inevitabilmente anche l’inferno della sua stessa madre, per

portarlo a morire con sé, nel martirio di una vita vissuta a metà tra i sussulti della realtà

umana e la torre d’avorio costruitagli intorno dalle fantasie proiettategli addosso dalla

sua gente, dalla sua storia, non appena gli fosse comparso sulla pelle il primo segno di

invecchiamento.

Sarebbe morto senza ‹‹invecchiare›› mai, proprio come Faust. Sarebbe vissuto

tutta la vita senza ‹‹crescere›› mai.

Per scongiurare allora il rischio di essere un giorno privata del ‹‹trono›› di Roma,

la sua ‹‹rivale›› Messalina, ‹‹infedele›› sposa di Claudio, ninfa il cui feroce supplizio

nei confronti di chiunque osasse ripudiarne la capricciosa ed accattivante femminilità

era temuto al pari di una irreparabile sciagura, ordinò ad alcuni sicari di trucidare il

piccolo mentre dormiva, ma essi si diedero alla fuga impietriti quando un aspide si levò

dal suo guanciale, dove l’indomani, una leggenda racconta, fu ritrovata una ‹‹muta›› di

serpente.

Questi si era dunque spogliato del suo manto lasciandolo in eredità ad un

bambino, che avrebbe fatto metaforicamente sua quella ‹‹pelle di serpente››,

strisciando anch’egli sulla ‹‹terra generatrice›› con il peso languido del suo corpo, in

intimo contatto, senza potersene mai distaccare.

L’angoscia esistenziale di Nerone, raffigurata nel viso e nel corpo della sua

fragile ed enigmatica madre, sarebbe stata la sua ‹‹dimora››, la sua ‹‹culla››, la sua

‹‹tomba››.

Dinanzi al di lei corpo straziato, adagiato ancora caldo, si racconta che Nerone

abbia ‹‹accarezzato›› dolcemente le parti in cui la sua giovane femminilità era riuscita

a vincere il confronto con il tempo, mentre abbia deplorato le altre in cui il solco

tracciato dall’incedere dei giorni si mostrasse vieppiù evidente. Ritorna, come

vediamo, una paradigmatica dualità, una ‹‹ambivalente dicotomia›› che ci riporta

mirabilmente indietro alla funzione placentare di ‹‹veleno e nutrimento››, laddove una

madre non ha saputo costituire quel ‹‹filtro›› adeguato per le emozioni travolgenti del

proprio bambino, divenendo ad un tempo ‹‹nutrimento›› e ‹‹tossina››, fonte di

‹‹amore›› e di ‹‹odio››, ‹‹inizio›› e ‹‹fine››.

Agrippina si ritrova qui, in questo preciso momento, a fare i conti una volta per

tutte coi suoi sbagli, con i suoi imperdonabili sbagli. E probabilmente pure ogni donna,

ogni mamma, si ritrova a vivere un istante della propria vita faccia a faccia con la paura

dei propri sbagli, nella ‹‹paralizzante›› percezione di non essere stata ciò che avrebbe

voluto, e incantata dal ‹‹sogno impossibile›› di riscrivere daccapo le pagine della sua

storia non si accorge si insinuano viscidamente, nella sua anima, le propaggini

ameboidi di un delirio, quel delirio di ‹‹conoscenza del Bene e del Male››, e con essa

di ‹‹metamorfosi celestiale››, che la Bibbia lega vieppiù ad una ‹‹mela››, la cui

lucentezza aurea obbligò Paride, un semplice mandriano, ad una scelta drammatica,

alla quale sarebbe conseguita, con la ‹‹guerra di Troia››, l’eccidio del mondo, ad un

‹‹serpente››, come quello che si alzò a difesa di Nerone in una notte di odio, simbolo,

nella Grecia antica, della ‹‹sessualità›› femminile, della ‹‹voluttà››, della ‹‹fertilità››,

ed infine ad una giovane donna, Eva, ‹‹madre›› archetipica di tutte le donne.

Serpente e drago (in greco ‹‹dràkon›› significa anche serpente), fantasticamente

divengono i depositari di indomabili spinte pulsionali, selvagge forze intrise di istinto

dallo smisurato potere distruttivo e mosse da inaudita cupidigia, che si lasciano

sedimentare esauste sui fondali dell’inconscio, nei confronti delle quali l’essere umano

si sente tremendamente impotente.

Questo atteggiamento lo si evince anche dallo sguardo fulminante, paralizzante,

con cui si è soliti immaginare il volto del drago (dràkon deriverebbe la sua radice da

‹‹dèrkesthai››, che significa ‹‹guardare››), ad indicare verosimilmente gli attimi in cui

ciascuno di noi si trova a percepirsi in balia di qualcosa che ama ed odia allo stesso

tempo, da cui non se ne vuole distaccare ma che vorrebbe controllare, eppure non vi

riesce.

Associare la figura del serpente a quella della donna comporta quindi

l’attribuzione a quest’ultima di valenze ‹‹istintuali››, ‹‹distruttive››, seducentemente

‹‹ambigue››. Una antica leggenda Andalusa racconta di un serpente che si trascina di

notte, quando è più facile eludere la sorveglianza, per portarsi sul giaciglio, dove la

madre e il suo bambino sono assopiti soavemente, ponendosi immobile tra i due. Egli

aspetta paziente il momento opportuno per compiere la sua atroce vendetta, che si

realizza puntuale quando ad un certo punto il bambino, in preda alla irresistibile

pulsione di fame ed al desiderio di ‹‹ciucciare il capezzolo della mamma››, incomincia

a singhiozzare. Il serpente allora delicatamente introduce la sua coda tra le labbra

innocenti del piccolo e sfiora, con le sue ‹‹labbra›› il capezzolo della mamma, che non

si accorge dell’inganno. Egli continua a godere del latte e del piacere orale, mentre il

bambino, il quale avendo appagato il desiderio di ciucciare che evidentemente è ben

più pregnante di quello della fame, non emette più richiami in direzione della mamma,

lentamente ed inesorabilmente, morirà. Il serpente rappresenta nient’altro che una

modalità di ‹‹essere›› della donna, quella di ‹‹donna›› appunto, in opposizione ad

un’altra modalità di essere che è quella di ‹‹madre››. Due antitetiche fenomenologie

del ‹‹femminile›› si incrociano. La madre in qualche modo colpevole per la sofferenza

prima e per la morte poi del proprio figlio. Una valenza oltremodo ambivalente investe

la figura della donna.

E’ innegabile scorgere, nell’aura misteriosa che avvolge, come una spessa ed

impenetrabile coltre plumbea, quella stupenda armonia di ‹‹sguardi››, ‹‹abbracci››,

‹‹sorrisi››, ‹‹carezze››, e con essi pure il tremendo ‹‹vuoto della loro presenza››, che si

libra instancabile nell’oscuro ‹‹campo magnetico›› generatosi tra una madre ed un

bambino, qualcosa di ineffabilmente avvincente, anche se i suoi contorni appaiono più

che mai indefiniti, evanescenti, e il confine si fa così pericolosamente ‹‹fragile››,

‹‹corruttibile››.

Le pagine di cronaca non esitano tante, troppe volte, con indicibile spietatezza e

brutalità, a lacerare le nostre ‹‹coscienze languide e confuse››, riproponendoci ‹‹scene››

e prospettandoci ‹‹scenari›› dal sapore apocalittico che i nostri umili sensi avrebbero

fatto bene a meno di esperire nella loro intrinseca dimensione di realtà, lasciandoli

vivere nella innocuità della fantasia, quella galassia magnifica dove l’impossibile

diviene miracolosamente possibile, dove il Peccato Originale di assomigliare a Dio, di

addormentarsi e risvegliarsi ‹‹sul trono›› dell’immenso, ‹‹Re›› e ‹‹Regina›› del Cielo e

della Terra, scopre tutta la sua caducità dentro una nudità, in un corpo cioè che

condensa su di sé la totalità delle convulse spinte dinamiche dell’essere umano,

lasciandosi turbinare incessantemente perché abbacinato dalla fatale illusione di

‹‹fermare il tempo›› col suo moto.

Già, il corpo. Quel corpo che Icaro aveva consegnato alle ali dell’anziano padre

Dedalo perché gli ‹‹regalassero il Sole››. Quel corpo che riesce a costituire ognuno di

noi parte di un ‹‹incantevole spettacolo››. Quel corpo sul quale vibrano instancabili

‹‹sentimenti››, ‹‹emozioni››, ‹‹sensazioni››. Quel corpo sapiente custode della nostra

‹‹Anima››, del suo anelito verso l’eternità.

Un corpo, infine, che si scopre, oggi più che mai, malgrado la sua immancabile

vulnerabilità, bramoso di farsi carico dell’Infinito, fino a pretendere di possederlo

anche con la morte, nella morte. ‹‹Morte›› che assurge a forza vieppiù irrefrenabile la

quale lentamente e subdolamente si impossessa di tutto quanto ci appartiene.

Il ‹‹vuoto dell’oblio›› si colora di significato e ricolma, inesorabilmente, i

forzieri della nostra memoria, obnubilando la nostra volubile volontà, sino ad abusare,

con ‹‹perversa delicatezza››, di lei. Così, si narra, ebbe luogo, nel disegno mitologico

dei Greci, il concepimento di Elena, di quella ‹‹donna sterile›› e quindi mai all’altezza

di essere ‹‹madre››, per il riscatto della cui ‹‹femminilità›› pagarono in tanti, forse

troppi, un prezzo molto alto, la propria vita. Il corpo nudo e candido della giovane

Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta, ‹‹lavato›› dalle tiepide acque del fiume Eurota,

si faceva per Zeus, ‹‹padrone›› del Tempo e dello Spazio, polla di irrinunciabile

‹‹delizia››, e fu allora che, mutatosi nelle sembianze di uno splendido cigno dalle ali

nivee, egli planò soavemente su di lei stringendola in un tenero abbraccio di ‹‹acerbo

piacere››, lungo un interminabile istante, che avrebbe lasciato, dentro il suo corpo

muliebre, una caustica ed inestinguibile scia.

Ci troviamo qui a cercare ragioni, per quanto assurde esse possano mai essere,

che contribuiscano in qualche misura a rendere meno terrificante l’idea che una madre

possa ‹‹squarciare›› il capo innocente del proprio bambino o della propria bambina, o

li possa ‹‹soffocare›› immergendoli dolcemente in una vasca da bagno, o li possa

sadicamente ‹‹deporre in un freezer›› affinchè congelino mantenendo intatta la loro

integrità, o li possa, ancora, ‹‹scaraventare via›› come fossero sudicia immondizia nel

fondo di un cassonetto perché siano triturati insieme agli altri rifiuti e di loro, della loro

‹‹vergogna di nascere››, non rimanga più traccia. E tali ragioni ineluttabilmente

vengono ad intessersi prepotentemente con quelle in ossequio alle quali sia un figlio

od una figlia a ‹‹massacrare›› la propria madre, infierendo come uro imbizzarrito sulle

sue membra in una cornice di abominevole bestialità, nel baratro di una pena

insostenibile dal quale, una volta sprofondati, non c’è speranza.

Le ragioni di tale scempio ci sono e, probabilmente, sono tante, ma non è

ritrovandole e circoscrivendole in definite categorie, dalle quali staremo attenti di

‹‹mantenerci alla larga››, che la nostra anima sarà paga.

Qualunque sforzo ciascuno di noi sappia fare non sarà mai in grado di esimerlo

dall’essere presente più che mai dentro un male che non è solo quello che ci fanno

vedere attraverso gli scintillanti colori di una ‹‹scatola magica›› con la pretesa di ‹‹dirci

la verità››; il male di chi condivide un tempo ed uno spazio che un Disegno più grande,

infinitamente più grande di noi, ci ha dato in grazia, è inesorabilmente il ‹‹male di

ciascuno di noi››. Ed un percorso alla ricerca delle radici profonde di questo male finirà,

purtroppo, per scandagliare l’anima di ognuno di noi fino a far galleggiare ciò che

temevamo, ciò che ci illudevamo fosse morto per sempre, negli ‹‹inferi del nostro

inconscio››, laddove Crono, l’Urvater, aveva funestamente fatto precipitare i suoi

fratelli affinchè nessuno potesse ‹‹prendere il suo posto››, neppure i suoi figli, i quali

furono da egli ferocemente divorati uno ad uno. Aveva aiutato la madre, Gaia,

personificazione della Terra e di tutto quanto essa mirabilmente produce, a

‹‹detronizzare›› il marito Urano, suo padre, raffigurazione del Cielo, ‹‹origine›› cioè di

tutte le cose, ‹‹evirandolo››, dopo avergli teso un agguato, mediante un falcetto

donatogli dalla stessa genitrice. Successivamente sposò la sorella Rea ma i suoi

genitori, depositari della saggezza e della conoscenza, avevano emesso un triste

presagio nei suoi confronti, in accordo al quale uno dei suoi figli lo avrebbe

detronizzato a sua volta; è per questo che egli decise di divorare i suoi piccoli via via

che Rea glieli presentava. Così generò ed ingoiò Estia, Demetra, Era, Plutone e

Poseidone. Si salvò solo l’ultimo dei suoi figli, Zeus, poiché Rea, stremata dal reggere

su di sé il peso tremendamente intollerabile di una ‹‹imperscrutabile colpa orribilmente

lacerante››, ingannò Crono presentandogli, in sostituzione del figlio, una pietra avvolta

in fasce, che egli prontamente ingurgitò. E fu lo stesso Zeus che, al termine di una assai

lunga e sanguinosa guerra, indusse il ‹‹padre ripudiato›› a ‹‹vomitare››, dopo averli

simbolicamente ‹‹ricostruiti›› dentro di sé, tutti i suoi fratelli, condannandolo infine

alla prigione eterna del ‹‹Tartaro››.

Zeus quindi come unica possibilità di salvezza, unica speranza affinchè la

‹‹verità›› si vestisse di un corpo ed attraverso quel corpo cercasse di ‹‹cambiare la

storia››.

Il mito, nel suo rincorrere il cambiamento, accompagna da sempre l’essere

umano e continuerà a farlo per sempre. Sarà lui allora ad accompagnarci, in questo

folle viaggio alla ricerca di un frammento di senso, e non lo farà da solo, perché avrà

accanto a sé il nostro ‹‹inconscio››, colui cioè che ci appartiene probabilmente più di

ogni altra cosa, colui che ci permette di metterci in gioco senza razionalizzazioni, senza

giustificazioni, nella ‹‹nudità›› della nostra umanità.

Forse, alla fine di questo momento che mi onoro di condividere con il lettore,

quella nube che pervade il ‹‹cielo›› della nostra coscienza ci sembrerà meno scura.

Forse riusciremo a scorgere un bagliore di luce tra le mura di una caverna che ora ci

appare tetra e senza via d’uscita, e per questo, verosimilmente, ci sgomenta, lasciandoci

precipitare nella ‹‹gola di una angoscia›› la quale, incapace di ‹‹esperire sulla pelle›› il

peso della sua violenza, sceglie di chiamarsi ‹‹depressione››, acquistando lo status di

una ‹‹malattia socialmente accettata››, e per questo, evidentemente, assai meno

pericolosa.

Solo quando avremo compreso quale repellente ‹‹mostro›› prende forma

all’interno dell’incredibile ‹‹magma metafisico›› che congiunge madri e bambini, sarà

più facile per noi ‹‹guardare in faccia›› noi stessi, il nostro mondo, e scoprire che è

strepitosamente ‹‹raccapricciante›› eppur ‹‹incantevole›› sotto il drappo enigmatico

che ne confonde appena il profilo, lasciandocelo tinteggiare coi pennelli della fantasia,

per ritrovare insieme, così farà meno male, l’origine del ‹‹dolore››.

Un fremito pudico mi sfiora lieve qui, lungo la schiena, mentre scorro alcuni

scritti appartenenti ad una civiltà di quasi cinquemila anni fa, quella dei Sumeri, che in

accadico significa ‹‹portatori di cultura››, portatori cioè di vita su di una ‹‹landa››, la

regione mesopotamica, stretta tra il Tigri e l’Eufrate, fortemente paludosa perché

spesso allagata dai loro straripamenti e quindi assai dura da ‹‹fecondare››, come una

donna, libera di essere fecondata solo per pochi giorni, ‹‹landa›› durante tutti gli altri,

i quali hanno lasciato in eredità una toccante apologia della ‹‹madre ideale››, un ritratto

surreale che diviene presto elegia, illuminando, con il suo fulgido e variopinto

acquerello, l’accesso buio alla spelonca nella quale, umilmente, ci accingiamo ad

entrare. Un giovane di nome Ludingirra si allontana da casa perché obbligato ad un

lungo e faticoso viaggio, e prega un araldo di consegnare a sua madre, rimasta a casa

in ansia per lui, il messaggio che egli avrebbe scritto di suo pugno, mosso da tutto

l’amore che aveva dentro.

Sa bene, pur non vedendola, che ella è tanto preoccupata, così tanto da non

riuscire a dormire…………………. ‹‹essa, nella camera di cui non è stata mai detta

parola amara, non smette di domandare a tutti i viaggiatori notizie sulla mia salute››.

Poi invita l’araldo a deporre nelle mani ‹della madre la lettera che gli avrebbe lasciato.

Ella lo accoglierà esultante presentandosi a lui come una donna che non rinuncia alla

sua femminilità, neppure quando l’ansia materna dovesse prendere il

sopravvento……‹‹rimetti questa lettera nelle mani di mia madre, che si sarà ornata per

te››.

Sembra alquanto paradossale un così dolce riferimento all’alcova nella quale sua

madre ‹‹si offre›› ad ogni viaggiatore, ad ogni pellegrino in cerca di una meta, quale

punto di riferimento. Un figlio allora si prepara ad affrontare da solo il viaggio della

vita e spedisce qualcuno da sua madre perché le riferisca, attraverso un’ambasciata,

che la loro ‹‹storia››, verosimilmente, proseguirà senza più vederli insieme.

Ma l’araldo non conosce la donna, ed ecco che Ludingirra gli disegna, con

maestria encomiabile, il suo ritratto, affinchè egli la possa riconoscere, tra tutte le altre,

e ‹‹raggiungere››. Attraverso il messaggero, nel quale si sente vieppiù identificato, ed

il ‹‹contenuto simbolico ad esso intimamente connesso››, ossia quello di essere

‹‹foriero di un significato››, foriero di una ‹‹emozione mai espressa››, di un ‹‹desiderio

mai esternato››, probabilmente il figlio sogna di raggiungere egli stesso quell’amore

‹‹impossibile››, quell’amore che ‹‹si dona›› ai viandanti nella camera di cui non è stata

mai detta parola amara, un amore che non permette a quella donna di essere la

‹‹sorgente di piacere assoluto›› per suo figlio, destinandolo ad un esilio dalla verità di

sé stesso che ne farà un ‹‹uomo›› in grado di vivere nella giungla del mondo, eppure

mai pago nel suo cammino alla sventurata ricerca del ‹‹perduto amore››, per tutti i

giorni che vivrà.

‹‹Il suo nome è Shat-Ishtar››, gli dice. Gli parla di una ‹‹personalità radiosa››,

una ‹‹dea splendida››, una ‹‹giovane adorabile››, benedetta sin dal tempo della sua

giovinezza, una donna amata, cara, piena di vita. La paragona ad un ‹‹agnello››,

rimandando forse inconsciamente al significato votivo di tale animale e con esso a

quel’implicito richiamo al ‹‹sacrificio ultimo›› cui l’imago materna è sottoposta dai

propri figli in ogni universo virtuale, e molte volte purtroppo, in quello ‹‹adeso alla

dimensione di realtà››, infine alla ‹‹buona panna››, al ‹‹miele››, al ‹‹burro che cola dal

cuore››, a sostanze insomma non in grado di mantenere una forma propria, una propria

identità, bensì coatte a ricalcare quella degli oggetti che con esse entrano in contatto;

una mamma in ultima analisi assai ‹‹seducente sotto il profilo sensuale››, se pensiamo

che la lingua è uno degli organi, insieme ai genitali, con il maggior numero di recettori

sensoriali di cui siamo provvisti, ma anche una mamma ‹‹ambigua››, indefinita, dai

confini velati, incapace di ‹‹contenere›› ed altresì portata a ‹‹lasciarsi contenere››, come

è tipico del burro che cola, o del miele, o della panna.

Poi prosegue dicendo che ‹‹mia madre è la luce viva dell’orizzonte, una cerva

montana, la stella scintillante del mattino, un prezioso cammeo, un topazio di

Marhashi, una parure di principessa, piena di seduzione, dei gioielli di corniola,

apportatori di gioia, ma anche un anello di stagno, un braccialetto di ferro, un bastone

d’oro e d’argento brillante››…….Notiamo la forte ‹‹ambivalenza›› di significati, un

elemento questo assai tipico per designare il ‹‹simulacro archetipico femminile›› in

generale e nello specifico la ‹‹figura materna››, condiviso a diverso modo, vedremo,

da tutte le culture, che diviene eccezionalmente evidente quando, più tardi, Ludingirra

tratteggerà la madre come ‹‹una perfetta statuina d’avorio, piena di fascino›› ma anche

come ‹‹un angelo di alabastro, su un piedistallo di lapislazzuli››, una figura cioè soave

e delicata, ma dalla assoluta ‹‹inconsistenza emozionale››, alla quale manca quindi un

piedistallo, o meglio c’è ma ha un valore effimero. Torna pertanto ancora una volta il

richiamo alla ‹‹identità››, alla promiscuità dei suoi orli, alla asimmetria della sua

sagoma.

‹‹Mia madre è la pioggia nella sua stagione, l’acqua per il grano interrato, una

ricca messe, un ottimo orzo, un giardino d’abbondanza colmo di ogni delizia, un abete

bene adacquato, carico di pigne, il frutto del Nuovo Anno, il raccolto del primo mese››.

C’è qui un profondo appello alla ‹‹fertilità››, alla sua capacità di generare non soltanto

nell’aspetto squisitamente materiale, ma anche e soprattutto in quello ‹‹emozionale››.

La pioggia nella sua stagione è probabilmente da collegarsi al ‹‹latte dei primi sei mesi

di vita››, nei quali la mamma instilla nel corpo e nel cuore dei suoi figli l’acqua della

vita, quel latte che non sarà solo sostanza di nutrimento biologico ma, al di sopra di

tutto, surrogato fantasmatico di esperienze emozionali fortissime per i bambini, dalla

portata inimmaginabile.

Continua definendo la madre come ‹‹un canale che trasporta le acque

fecondatrici sino ai fossi d’irrigazione››, ricalcandone ancora una volta sia l’aspetto di

passività emozionale, sia un sottile richiamo alla ‹‹sessualità femminile›› nella sua

dimensione anatomica, costituita infatti da ‹‹strutture canalari›› all’interno delle quali

avviene la migrazione e poi l’incontro dei gameti.

E’ su questo canovaccio che si dipana il testo finale del componimento.

Ludingirra persiste nel vedere la madre come un ‹‹dattero dolcissimo, eccellente, molto

ricercato››, una ‹‹festa››, un’‹‹offerta piena di esultanza››, un ‹‹canto di abbondanza››,

un ‹‹cuore amante la cui gioia è inestinguibile››, come cioè qualcosa che coinvolge

tutti, che diviene in un certo senso patrimonio di tutti, di ogni innamorato, di ogni

partecipante alla sagra in onore di una ‹‹conquista insperata››, e quindi nient’affatto

sua, come il suo cuore avrebbe ardentemente desiderato, e poi conclude con due

espressioni assai significative, all’interno delle quali la madre viene ad essere associata

dapprima ad una ‹‹meravigliosa ghirlanda sfarzosamente guarnita››, suggellando,

laddove ce ne fosse ancora bisogno, quella effigie ‹‹ambivalente›› con cui è stato sin

dalle prime battute introdotto il tema emozionale centrale del componimento; una

semplice fiala contenente schegge di testuggine, quindi all’apparenza priva di ogni

contenuto prezioso, oltreché ripugnante ed indesiderabile, cui fa da contraltare un

insieme di profumi vieppiù delizioso e delicato, così come nel secondo ed ultimo caso,

ad un ‹‹diadema›› con il quale si incorona una regina, la sua ‹‹principessa››,

dall’apparenza assai incredibilmente sublime, fascinosa, accattivante, fa da contraltare

una decorazione sfarzosa, imponente, quasi a rimarcare quanto quel diadema da solo

non basti ad illuminare di sé, e quanto invece abbia bisogno di risultarne in qualche

modo sofisticato, adulterato, per essere riconosciuto.

Come l’amore di ‹‹mamma››, straziato nella sua incapacità di essere puro e

pertanto adulterato, edulcorato, molto più di quanto si possa immaginare, con un

dolciastro veleno.

Assume allora uno straordinario significato il contenuto del messaggio che

Ludingirra consegna all’araldo perché lo riferisca a sua madre, a lei sola. In una sola

riga è racchiuso tutto quanto il suo cuore aveva appassionatamente idealizzato di lei,

tutto quanto la sua sconfinata fantasia aveva regalato a quella ‹‹imago irraggiungibile››.

In una riga, in una sola riga, non più lasciatagli in forma scritta, bensì consegnata alla

caducità delle sue parole, e dunque alla legittima e forse ‹‹voluta›› venalità del tempo,

è racchiuso il ‹‹vuoto di una presenza›› che la fervida immaginazione di un figlio, per

quanto incontenibile e fiera, non potrà mai colmare. Il messaggero le riferirà che

“Ludingirra”, il suo figlio diletto, le manda ‹‹i suoi migliori auguri››.

Ogni individuo, secondo Eric Berne, vive il tempo della sua vita come

prigioniero di un ‹‹copione››, una sorta di sceneggiatura del proprio destino.

Quella che sarà la ‹‹parte›› recitata da ciascuno di noi viene redatta in una forma

chiamata ‹‹metacomunicativa››, ossia non-verbale, nel trans agire abituale tra le madri

ed i propri bambini.

Ognuno di noi quindi viene inconsciamente a progettare un piano di vita, e lo fa

nei suoi primissimi tre anni di vita. Si ritroverà così ad acquisire uno ‹‹stile››, una

modalità peculiare con la quale affronterà tutti i momenti, belli e brutti, della sua vita,

che ne farà una persona di successo od una fallimentare in ogni attività nella quale

sceglierà di mettersi in gioco, ma soprattutto si ritroverà ad acquisire la stessa

possibilità di ‹‹scegliere liberamente››, nel corso della sua esistenza, di ‹‹essere›› ed

allo stesso tempo di ‹‹essere diverso›› da ciò che è. Se ciò non accade come dovrebbe,

il peso di un destino già deciso, inalienabile, si ergerà all’orizzonte rendendo la

‹‹ballata della vita›› priva di musicalità, di dignità.

E’ il ‹‹condizionamento culturale››, legato intrinsecamente all’allevamento,

attraverso cui prende forma un processo di istantanea interiorizzazione ed

identificazione inconscia sia dei modelli di vita che dei valori di riferimento

appartenenti alla cultura in cui mamma e bambino si trovano inseriti, al quale l’infante

si trova inconsapevolmente ad essere sottoposto, a determinare l’articolarsi di tale

‹‹copione››. Si tratta, in buona sostanza, di un ‹‹programma di vita›› trascritto nel corso

della primissima infanzia, il quale subisce molteplici rifacimenti man mano che

l’individuo segue il suo percorso di crescita sino all’età adulta, pur conservando però

immutati trama e finale.

Il nostro viaggio parte da qui. Dalla storia di ogni uomo e di ogni donna. Dalla

storia che li ha preceduti e da quella che li seguirà. Se solo volessimo appena pensare

di prescindere da essa, avremmo clamorosamente sbagliato tutto sin dall’inizio. E

quando parliamo di storia parliamo di ‹‹memoria››, e se parliamo di memoria parliamo

anche di ‹‹coscienza››, cioè della esperienza di sé in rapporto all’altro da sé.

Ecco allora che acquista senso l’individuo nel suo integrarsi con la moltitudine

di emozioni che si fanno persone e sottoforma di persone incidono su di lui, sul suo

crescere, sul suo ‹‹cambiare››.

Storia significa cambiamento, ed è proprio nel cambiamento e nelle molteplici

sfumatore lungo le quali esso si esprime che andremo a ricercare le ragioni del dolore.

Parlare di ‹‹uomo›› e di ‹‹donna››, di ‹‹figlio›› e di ‹‹figlia››, di ‹‹padre›› e di

‹‹madre››, immancabilmente ci induce a rivisitare il museo nel quale è conservata la

storicità di una ‹‹sessualità›› esperita, nella sua dimensione ‹‹sensoriale ed

emozionale››, assai prima che cognitiva, in forme attraverso le quali un ‹‹pregnante

contenuto di ambiguità››, razionalmente inaccessibile ma non per questo scevro di

importanti ripercussioni, si è tramandato lungo le generazioni incastonandosi

nell’ingranaggio fantasmatico proprio di culture prima e di singoli individui poi, per

riemergere dalle rovine della personalità, allorquando la sua coesione è

irrimediabilmente compromessa, sottoforma di obelisco attorno al quale

ingloriosamente ricostruire il mito infranto di sé stessi.

L’esplorazione di tale ambiguità ci porta abbastanza lontano nel tempo,

all’interno della realtà aborigena australiana, dove un rituale di ‹‹iniziazione puberale››

parecchio singolare sancisce l’avvenuta ricostituzione del ‹‹mito indifferenziato

primordiale››, caratterizzato, in parallelo con il ‹‹caos originario››, dalla presenza

simultanea del maschile e del femminile. Ne deriva un ‹‹mostro androginoide›› dal

significato simbolico eccezionale.

Il rituale si compie su giovanissimi soggetti di sesso maschile, il cui ‹‹membro››

viene abilmente inciso in corrispondenza della superficie elastica di rivestimento

posteriore, creando una fenditura tra glande e scroto che risulta visibile unicamente

quando persiste lo stato di erezione, ‹‹conferendo›› al soggetto la straordinaria capacità

di possedere ad un tempo gli organi sessuali maschili e femminili.

L’idea di una ‹‹bisessualità›› originaria, l’archetipo cioè di una ‹‹divinità

androgina››, è riscontrabile, oltre al caso specifico preso in esame, a partire da culture

vieppiù arcaiche, come ad esempio quelle cosiddette ‹‹megalitiche››, del periodo cioè

a ponte tra il neolitico e l’età dei metalli, le quali ci hanno lasciato in eredità architetture

senza tempo come i ‹‹Dolmen››, i ‹‹Menhir›› e i ‹‹Cromlech›› (celeberrimo quello di

Stonehenge), ma è nel ‹‹fenomeno sciamanico›› di alcuni aggregati etnici, come quello

dei Chukchi siberiani o dei Dayaki Ngadju della regione del Borneo, che tale modello

si appropria del ‹‹contenuto figurativo›› più pregnante, riconoscendo a figure

terribilmente ‹‹ambigue›› la responsabilità di stabilire l’incontro ‹‹paradigmatico››

della ‹‹Terra›› con il ‹‹Cielo››, nel contatto tra la ‹‹divinità celeste›› e l’‹‹umanità

terrena››.

Vediamo allora come attraverso una ‹‹mediazione›› incentrata sulla lacerazione

del confine sessuale, con ‹‹trasformazione›› profonda della identità, l’essere umano

abbia tentato di portarsi al di là della sua stessa natura, proiettandosi oltre il margine

della sua storia, per ricongiungersi alla ‹‹fantasmatica dimensione primordiale›› e

ridefinire, nel rituale sacro, la dimensione mitologica di ‹‹Caos indifferenziato›› grazie

alla quale ottenere il guadagno più alto, la ‹‹palingenesi››, in altri termini la Somma

rinascita in una nuova ‹‹realtà››, premiata del dono della ‹‹reminiscenza››, assai più

forte, assai più potente.

Tale indifferenziazione, tale disordine, trova nel mito di Dioniso la sua umana

sublimazione, in un ‹‹modello›› cioè di incontro col dolore, attraverso il quale la natura

umana prova a ‹‹spogliare di dignità›› la essenza stessa della sofferenza, così da non

sentirne il gemito, così da non vibrarne addosso il palpito.

E nel suo ‹‹slancio immortale›› si trascina dietro di sé l’ambiguità, e con essa la

disintegrazione di ogni barriera. La linea sottile che separa ‹‹Eros›› e ‹‹Thànatos››, la

vita e la morte, si infrange impietosamente, le ‹‹categorie›› ed i ‹‹paradigmi›› che

sorvegliano il processo del pensiero si miscelano intensamente, l’‹‹intelaiatura›› di

personalità si necrotizza, lasciando l’essere nel quasar di una irrazionale angoscia, per

lenire la quale tutto, in una sorta di irriducibile ‹‹delirio mistico›› diviene possibile.

Non ci sorprende dunque comprendere come la liturgia dionisiaca si tinga di

macabro, riverberando esecrande pulsioni che trovano nel vilipendio della morale, nel

sovvertimento di ogni armonia precostituita, il loro acme di esaltazione. Chiunque

venga ad incontrare sul suo cammino Dioniso non può fare a meno di essere inondato

da una ‹‹follia›› devastante, figlia ‹‹illegittima›› di occulti moti dell’anima, di un’anima

inquieta e ‹‹sola con la propria solitudine››, coi propri affanni, che finisce, come scrive

Nietzsche (cfr. “La nascita della tragedia”), a proposito dello ‹‹spirito dionisiaco››, per

seguire la sua incontenibile forza creativa e spiccare il volo verso il ‹‹senso››

dell’esistenza che altro non è se non pura ‹‹irrazionalità e dolore››, quella stessa

‹‹istintualità pulsionale›› cieca ed insaziabile che Schopenhauer riconoscerà come

motore di tutto l’universo, eternamente protesa a soddisfare desideri i quali, essendo

legati a qualcosa che non si ha o non si è, ingenerano nell’anima una spiacevole

‹‹condizione di bisogno›› e, conseguentemente, di pervasiva ed insostenibile infelicità,

quell’infelicità drammatica che sceglierà multiformi maschere dietro le quali celare il

suo viso deforme, dalla melanconia col suo ‹‹tedium vitae›› alla schizofrenia incipiente

col suo ‹‹erlebnis››, la tremenda percezione cioè di un inarrestabile e catastrofico

‹‹mutamento interiore››, dalle poussées di panico ai disturbi di personalità.

Non è un caso a questo proposito ricordare come Pan e Dioniso condividessero

l’ebbrezza orgiastica alla quale il loro ‹‹dolore esistenziale›› impediva di rinunciare.

Pan, un dio ferino, che amava vivere anch’egli ‹‹solo con sé stesso››, perso tra i boschi,

preda inerme dell’impeto di ‹‹pulsioni primordiali›› dissacranti in ossequio alle quali

avrebbe profanato qualsiasi equilibro sacro, qualsiasi suprema armonia, pur di seguire

un destino ‹‹insensibile›› che lo spingeva a torturarsi nell’oblio della solitudine e di

desideri mai paghi, affinchè non avesse mai ad esperire quel sentimento di ‹‹noia›› che

ancora Schopenhauer definirà straordinariamente come un ‹‹vuoto peggiore di ogni

sofferenza››, e che egli caccerà angosciosamente via da sé emettendo un ‹‹urlo

agghiacciante››, un grido che, secondo la tradizione mitologica, avrebbe cagionato

negli essere umani una sconvolgente esperienza percettiva, chiamata, in suo onore,

‹‹timor panico››. Già, un urlo. Penso al primo vagito, quello di un bambino che ‹‹vede

la Luce››. Penso all’ultimo strido, quello soffocato dall’aleggiante fantasma della

morte. Penso al guaito struggente con cui chiediamo aiuto. Penso al ruggito animale

con il quale coloriamo la nostra rabbia assassina mentre sferriamo il pugnale del nostro

atavico rancore nel ventre di chi condivide con noi, come Pan e Dioniso, la ‹‹paura

dell’infelicità››.

Vedo allora nell’urlo una dimensione profondamente carnale, ‹‹umana››, e come

tale profondamente proiettata verso l’immortalità della sua origine, una origine

fortemente intrisa di dolore, il ‹‹dolore del parto››, uno strido in cui ‹‹sofferenza e

piacere›› si fondono straordinariamente, annullando la linea di demarcazione che le

separa, per perdersi l’una nell’altra, in quell’indefinito ed ‹‹indefinibile›› dal quale

siamo partiti ed al quale, alla fine del nostro viaggio insieme, forse, chissà, ritorneremo.

Quando provo ad immaginare l’immensità, la mia mente d’incanto si acquerella

d’azzurro, e l’oceano, nella sua vastità, tinge di turchese il cielo della mia coscienza,

regalandomi il dipinto naif di un’alba dopo la tempesta, una terrificante tormenta, lunga

una notte d’inverno, una notte che non muore mai, come quella che ti colora di buio la

stanza dell’anima nei freddi inverni della memoria, e gli occhi della mia fantasia si

perdono nell’orizzonte, sospesi tra i delfini che zampillano in compagnia dei flutti

sonnecchianti e giocano a rincorrersi instancabili, felici più che mai di ‹‹esserci›› in

quello strabiliante spettacolo celeste, felici di bagnarsi incessantemente nel ventre di

quell’oceano che ha bagnato, un’alba lontana, tanto lontana da scomparire nei labirinti

del tempo, la vita che nasceva. In greco ‹‹delphys›› significa ‹‹utero››. Il luogo a noi

assai più caro. La nostra ‹‹prima pelle››. La nostra ‹‹prima casa››. Il ‹‹paradiso›› che

ha teneramente ospitato il blocco indifferenziato di ‹‹marmo biologico›› perché un

‹‹Artista Mirabile››, di un ‹‹dove›› e di un ‹‹quando›› così distante dal nostro, ne

facesse capolavoro. Un luogo che, una volta attraversato anche se per un solo,

infinitesimo istante, non si dimenticherà mai più.

Delfino infatti significa appunto ‹‹dell’utero››, appartenente cioè all’utero. Come

ciascuno di noi. Eppure quando pensiamo al delfino pensiamo alla libertà, al suo essere

‹‹padrone›› di quel meraviglioso oceano al quale ‹‹appartiene››. In realtà egli è libero,

sì, nella misura in cui ‹‹riconosce quella appartenenza››.

Può navigarla la sua prateria d’azzurrità, ma ad un certo punto sente forte il suo

richiamo e si lascia re immergere, per continuare a vivere. ‹‹Gebärmutter›› è il termine

tedesco che traduce la parola ‹‹utero››. La cosa assai strana è che in esso è contenuta

un’altra parola importante, ‹‹mutter››, che vuol dire ‹‹madre››. E’ bellissimo pensare

che in francese mamma si esprima con ‹‹mère››, proprio come mare, che si scrive e si

pronuncia ‹‹mer››. Mamma e mare, separate solo da una ‹‹e›› finale, da una sola

congiunzione, che più che separare, evidentemente unisce la mamma al mare, in un

avvincente richiamo a quell’oceano sublime che colora di blu il passato più remoto di

ogni essere umano.

Madre ed utero come qualcosa di inscindibile. Madre ed utero in una

appartenenza sublime. Chiunque appartiene alla ‹‹madre›› appartiene anche al suo

‹‹grembo›› e viceversa. La esperienza prenatale ha visto ciascuno di noi fluttuare

soavemente, meravigliosamente sospeso, come rapito da un ‹‹ascetico nirvana››, in una

cuna che sapeva di nuvola per quanto era soffice, un giardino dell’Eden dal quale ha

dovuto essere strappato suo malgrado, provando dolore. Una ‹‹angoscia ineffabile››

cinge il nostro corpo col suo abbraccio, una stretta piacevolmente mortale che non ci

abbandonerà più.

Una mamma non è solo importante per il suo bambino perché lo protegge, lo

pulisce, si prende cura di lui. C’è molto, molto di più. Ella prodigiosamente gli

struttura, durante le primissime fasi di vita, la dimensione dell’‹‹Inconscio››,

permettendo cioè al suo Es, quella forza ‹‹selvatica››, brada, propria di ogni essere

animale, indefinibile ed incontenibile, di diventare una entità biopsicologica definita in

grado di simbolizzare, ovvero di associare, nell’immediatezza di un istante, ad una

parola una immagine, un suono, la memoria di un profumo. Ma l’inconscio possiede

anche una dimensione metafisica, oltre che biopsicologica, una spinta propulsiva che

gli consente di varcare qualunque frontiera, come quella spazio-tempo, e condurre

l’essere umano a contatto con il Cosmo, inducendo a dissolversi nell’Universo ed a

raccoglierne, allo stesso tempo, i frammenti meteorici dentro di sé.

Quando Es diviene Inconscio, grazie alla mamma, si appropria di simboli e

figure per cominciare, nella sua nuova veste, a vivere nel mondo che ha sempre

desiderato, un mondo parallelo, un mondo alternativo dove l’unica cosa che davvero

conta è seguire la ‹‹felicità››, sfiorarla, afferrarla, sedotto da quel ‹‹Lustprinzip››, il

principio di piacere che lo porterà, valicando la soglia dello spazio e del tempo, a

rincorrere il ‹‹diletto›› qualunque esso sia, dovunque esso si annidi, anche a rischio che

possa fare male.

Non importa affatto all’inconscio della realtà. Egli è cieco a ciò che gli sta

intorno. Sa essere egoista e prepotente. E’ drogato di piacere. Solo questo conta per lui.

E lo esperisce vivendo di ‹‹immagini››, icone fantastiche alle quali aggiunge e sottrae

libido, la sua ‹‹energia›› vitale.

E allora accade ad esempio che questa energia venga improvvisamente via da un

fotogramma della sua pellicola immaginativa e, attraverso un processo chiamato

‹‹Verschiebung››, altrimenti detto ‹‹spostamento››, vada a schiantarsi su altre

immagini, altre rappresentazioni che possono essere legate alla precedente come

potrebbero anche non esserlo, e dunque abbiamo il fenomeno del lutto, delle fobie,

dell’innamoramento. Ma ancora l’immagine diviene, mediante la vera e propria

‹‹simbolizzazione››, quasi l’oggetto stesso. E’ questo che esperiamo nei sogni. Nei

simboli onirici sono presenti ‹‹in carne ed ossa›› gli oggetti in tutta la loro essenza, le

persone in tutta la loro fragile umanità, che, se fossimo svegli, la nostra coscienza non

ci permetterebbe mai di affrontare faccia a faccia. Infine, pur di dare vita a diverse

immagini contemporaneamente se esse gli permettono quella ‹‹delizia sublime›› per la

quale sarebbe disposto a tutto, proprio tutto, egli le fonde insieme, creandone una

nuova, per mezzo di un processo noto come ‹‹Verdichtung››, ‹‹condensazione››, che le

contenga in sé in ogni loro sfumatura, in ogni loro tonalità affettiva, in sostanza, in ogni

loro aspetto.

Mentre alleva il suo piccolo la mamma eroga, senza neppure rendersene conto,

una miriade di variegati segnali meta comunicativi, cioè non verbali, come gli

‹‹ammiccamenti››, le ‹‹smorfie››, i vari ‹‹corrugamenti››, le ‹‹posture››, il mobile

‹‹gesticolare›› che ne accompagna le parole, direzionando in qualche modo, pena una

disapprovazione stampata sul suo sguardo di mamma ed oltremodo insostenibile per

lui, le sue ‹‹risposte comportamentali›› affinchè siano in linea con le aspettative del

peculiare habitat sociale e culturale in cui essi si trovano il quale esige, innanzitutto ed

essenzialmente, che egli sappia, in ogni tempo e in ogni dove, ‹‹imbrigliare›› il

‹‹cavallo pazzo›› del suo inconscio imparando a ‹‹trasferire nel tempo››, un tempo al

quale sappiamo purtroppo l’inconscio è idiosincratico, l’appagamento del suo

‹‹desiderio››, quel desiderio che Schopenhauer faceva derivare direttamente da un

‹‹bisogno››, ma che nel caso dell’inconscio diviene irrefrenabile ‹‹pulsione››,

incistandosi, come vedremo in seguito, nel corpo e nell’anima, lacerandole.

Contestualizzando all’interno di un apparato culturale e sociale, in virtù di quel

processo denominato “condizionamento culturale”, la mamma fa diventare il suo

piccolino una ‹‹persona››. E’ meraviglioso.

I ‹‹Mohave››, un popolo dell’Africa occidentale, sostengono che un bambino è

psicologicamente maturo già nel grembo materno, nel quale ‹‹sogna magicamente›› il

suo destino, un destino che può rifiutarsi di accettare, quindi può decidere di non venire

al mondo, come ancora, più atrocemente, di ‹‹assassinare›› dall’interno la mamma

sancendo, ineluttabilmente, anche la propria di morte.

C’è un potere eccezionale di cui viene investito il feto prima ed il bambino poi,

quel piccolo ‹‹umanoide›› cui in Costa d’Avorio i Baulè si rivolgono chiamandolo

‹‹straniero››, ‹‹auéfuéh››, messaggero venuto da Bloôlo, la Terra degli spiriti, un luogo

dove si nasconde probabilmente un misterioso segreto che egli è venuto, con la sua

presenza in forma umana, a rilevare.

Sei figli erano inspiegabilmente morti, uno dopo l’altro, pochissimo dopo essere

nati. Peleo provava una pena tremenda per questo. Era una notte speciale quella che

stava per cominciare. Era la prima notte di luna calante da quando suo figlio, il suo

ultimo figlio, aveva visto la luce. Mosso da un ‹‹terribile presentimento››, si fece strada

con la forza tra le ‹‹donne allucinate›› che si dibattevano per fermarlo, portandosi

all’entrata di quella grotta maledetta. Raccontare a sé stesso ciò che i suoi occhi stavano

mirando in quel momento senza tempo, fu lo sforzo più grande di tutta la sua vita. Sua

moglie Teti, sacerdotessa della ‹‹Madre-Luna››, con al fianco la tenebrosa Arpale, sua

dama di compagnia, si apprestava ad effettuare, come era accaduto per tutti gli altri

figli, un raggelante rituale.

Era pronta ad ‹‹iniziare›› il suo bambino, il loro bambino, con il fuoco.

Quell’inerme ‹‹simulacro umano›› sarebbe stato ‹‹intinto›› ripetutamente nella

fiammata di aria arroventata che si sollevava da un’ara incandescente di tizzoni ardenti

e poi cosparso di ambrosia. Non avrebbe smesso fino a quando egli non fosse diventato

‹‹immortale››, fino a quando la natura mortale che il padre gli aveva trasmesso non

fosse stata cancellata. Solo così sarebbe diventato una ‹‹cosa sola›› con lei. L’ira di

Peleo non tardò, e fu straziante. Trafisse Arpale con la sua spada e strappò via il suo

innocente figlioletto dalle braccia di quella donna strepitante che d’improvviso era

diventata un ‹‹mostro››.

Gli lesse persino sul viso uno strano ghigno di delusione, un ambiguo sorrisino

che non apparteneva a quella Teti che aveva conosciuto, a quella Teti che non aveva

mai accettato la vita da regina che gli aveva ‹‹regalato››, legata com’era al mare, ai suoi

sconfinati litorali arenosi, alla sua brezza salmastra, ai delfini sui quali cavalcava lungo

i suoi dossi dalla cresta spumosa, alla risacca rischiarata dagli immacolati raggi di luna,

all’olezzo inebriante emanato dalle alghe sospinte a riva, alle schegge di ghiaia che le

strusciavano lievi tra le mani per addormentarsi sul letto delle dita, a quei luccicanti

specchi d’acqua cinti di pallide pietre, a quella Teti così assetata di una libertà che forse

non ha mai incontrato e che mai, avrebbe immaginato, l’avrebbe condotta oltre la soglia

della follia.

Un pensiero tuttavia si fa strada lieve tra le colline della sua memoria, e lo riporta

indietro al suo primo incontro con quella musa, apparsagli sulla coda di una spuma

pitturata d’arcobaleno, sollevata da un ‹‹delfino››, mentre solcava felice l’azzurrità del

mare. Non può dimenticare cosa accadde però quando, giunta in una gola marina, ella

si addormentò. Il suo viso dolce ed un corpo morbido come la neve fecero insorgere in

lui il desiderio incoercibile di abbracciarla e così le sue membra lambirono quelle di

Teti che, improvvisamente, diede inizio ad uno spettacolo di ‹‹metamorfosi›› senza

precedenti. Se egli avesse allentato la presa, anche se per un solo istante, l’avrebbe

persa e forse sarebbe morto, gli aveva confidato il padre stesso di quella stupenda ninfa.

Dapprima rogo incandescente, poi maroso selvaggio, poi ancora fauci roventi di

leone, serpente e infine seppia. Al termine di tutto ciò Teti si abbandonò a Peleo. Ciò

che colpisce la mia fantasia in questo momento è il fatto di come, prima di consegnare

la sua femminilità, rappresentata simbolicamente dal ‹‹serpente›› e dalla ‹‹seppia››, che

sia per il suo aspetto sia per la sua consistenza rimanda all’organo genitale femminile,

la ninfa abbia assunto valenze maschili dai tratti fortemente aggressivi, violenti.

Emerge ancora una volta l’ambivalenza, un alternarsi di forme antitetiche che ci

accompagnerà per tutta la durata del nostro viaggio. Uomini e donne a metà, dai quali

deriveranno generazioni a metà, culture a metà, frammenti di un universo a metà.

Quella vita rubata con forza al tocco soporifero della morte avrebbe portato per

sempre su di sé, dentro un nome che ti penetra nella carne come un brivido in un giorno

d’estate, il peso di tale struggente momento.

Achille, già, il cui nome significa ‹‹colui il quale, con le sue tenere labbra, non

aveva mai potuto carezzare i tiepidi capezzoli della mamma››, lasciandosi riempire dal

caldo soffio di vita che con il latte sarebbe entrato dentro di lui donandogli la felicità

che emana dall’immenso.

L’impareggiabile condottiero, ‹‹consacrato›› alla gloria degli altari divini dalla

apocalittica guerra di Troia, non dimenticherà mai, tuttavia, cosa gli è stato ‹‹negato››

perché tutto ciò si realizzasse. L’amore della mamma. Il ricordo del ‹‹cuore›› sarà

accanto a lui. Sarà però solo un ricordo. Il ricordo di qualcosa che non c’è mai stato né

ci sarà più. Nessuna gloria potrà mai restituirglielo nella sua dimensione di realtà fatta

di sensazioni, di emozioni, di sentimenti inesprimibili per quanto straordinariamente

belli.

Crescerà sotto la cura di Chirone, nient’altri che il padre di sua madre, un ‹‹uomo

a metà››, dal torso umano e dalle gambe di un cavallo, discendente dall’unione impura

tra Issione, figlio del re di Fregia, e Nefele, una nuvola, come traduce il greco, cui Zeus

aveva dato l’aspetto di sua moglie Era, che lo stesso Issione stava cercando di insidiare

non rendendosi conto di essere di fronte ad una dea, la Regina delle dee, per lui

immancabilmente irraggiungibile.

Centauro, scaturito al loro ‹‹amplesso››, avrebbe provato un bizzarro godimento

nell’accoppiarsi con le cavalle magnesie, generando i Centauri, tra cui appunto

Chirone.

La colpa incancellabile di Teti è stata probabilmente quel desiderio ‹‹cieco›› di

donare a suo figlio una natura diversa da quella che la sorte gli aveva riservato,

spogliandolo vieppiù di una umanità per lei inaccettabile ustionandolo, bruciandogli

cioè la languida ‹‹pelle di uomo›› oliandolo con ambrosia, il nettare grazie al quale una

nuova pelle, più forte, più resistente, immortale, si sarebbe generata. Proprio come il

serpente che una notte fece compagnia al piccolo Nerone, perdendo la sua pelle sul suo

cuscino per acquistarne una nuova, forse quella di un innocente bambino.

‹‹Cambiare pelle›› significa per un attimo ‹‹de-differenziarsi››, smettere cioè di

essere ciò che si era prima per tornare ad essere qualcosa di diverso. E’ come se in

qualche modo riaffiorasse, dagli abissi dell’anima, il ‹‹bisogno compulsivo›› di

ritornare ad uno stadio primordiale indefinibile, dove la ‹‹sostanza›› resta così com’è,

libera vieppiù di essere qualsiasi cosa. Dove la femminilità ‹‹generatrice››, che la

popolazione sudanese dei Bambara fa originare dalla scia pulverulenta di ‹‹Pemba››, il

dio supremo plasmato di aura mulinante, bagnata della sua saliva e riempita del suo

‹‹alito›› sacro, incontra il suo confine, il ‹‹maschile›› come altro da sé, e sceglie di

assimilarlo come il latte assimila e discioglie il miele, mutandone la sostanza ma

lasciandone intatta la fragranza, in un amore che ‹‹uccide››.

C’era una volta un ‹‹mondo altro››, al confine del mondo, e c’era un ‹‹tempo

altro››, fuori dal tempo, prima del tempo. E c’era una stirpe di donne-guerriero,

chiamate ‹‹Amazzoni››, cioè private della mammella destra, mutilata per consentire

loro di maneggiare efficacemente la alabarda, allungare opportunamente l’arco di

bronzo e scagliare frecce mortali, le quali ripudiano i maschi ma del cui liquido

seminale hanno inevitabilmente bisogno per generare altre Amazzoni. Ecco allora che

li rapiscono dalle tribù vicine, li ‹‹violentano›› con la seduzione operata dalla loro semi-

identità, e li cacciano via. Uccideranno o storpieranno tutti i figli maschi che da quelle

unioni nasceranno, preservando solo le femmine, che alleveranno per farne superbe

donne-soldato. Madri a metà, femmine a metà, incapaci di provare dolore nel

massacrare i propri figli, eppure obbligate al ‹‹piacere››, in un talamo surreale, con

uomini privati di ogni dignità. Ma quel dolore che così tanto rinnegano da sé stesse,

scaraventandolo nel Tartaro della loro primitiva ambiguità, non tarderà a farsi avanti

per sfidarle, e lo farà con la loro stessa crudeltà, presentandosi al loro cospetto in una

forma a loro familiare e verso la quale non saranno state addestrate ad agire. Il rancore

selvaggio di Dioniso non le risparmierà. Un lago di sangue coprirà per l’ultima volta

le cicatrici di una identità senza tempo, senza confine, senza ‹‹identità››.

Il ‹‹piacere nel dolore››, l’oscuro Dioniso, stretto nella morsa assassina di un

eterno rituale ‹‹bastardo››, come ‹‹ibrida›› è stata la sua vita, vieppiù segnata dal

massacro cannibalico cui sarebbe stato impietosamente sottoposto, su volere di Era,

venendo dilaniato, lessato e divorato dai Titani, dalla insperata ‹‹rinascita›› concessagli

da Rea attraverso il corpo mortale di Semele, dalla sua ‹‹infanzia impura›› mascherato

da fanciulla, dalla sua trasformazione in capra, nella simbologia Andalusa associata

‹‹alla donna ed al Diavolo›› tanto che un aneddoto racconta di come strusciando

velocemente, quando è buio pesto, la mano sulla groppa di una capra si assista alla

fuoruscita di faville infernali, e infine dalle cure impartitegli dalle ninfe del monte Nisa,

che gli avrebbero insegnato a ricavare il vino dalla vite, incontra il ‹‹dolore nel

piacere››, legato ad una verginità violentata da una maternità cieca, irriverente,

dissacrante.

E così piacere e dolore si fondono mirabilmente in un tragico bolero, dove amore

e morte abitano, con la loro sensualità e per una sola notte, l’alcova del ‹‹senso››, nella

speranza di regalargli un figlio.

Forse è questa la sciarada segregata nella cella più recondita ed inaccessibile

della femminilità. La capacità di ‹‹congiungere amore e morte›› nel perfido gioco tra

piacere e dolore, raggiungendo una catartica atarassia dove il ‹‹ricordo pulsionale›› si

spegne nel presente eterno del suo concretizzarsi, dove cioè ‹‹simbolo›› ed ‹‹agito›› si

miscelano per diventare, in un fremito mortale, cassandra immortale.

L’amore sarebbe nato a prezzo di un gigantesco sacrificio. Era questo il vaticinio

immortale cui nessun esser umano avrebbe mai potuto sottrarsi. E quando Urano,

avvolto in una morbida trapunta di nembi aspettò la notte per sfiorare la ruvida pelle di

Gea, una ‹‹mano implacabile›› lo spogliò della sua identità, privandolo dei genitali e,

con essi, della sua divina inviolabilità. La terra, Gaia, fu inondata da quel sangue

sgorgante a fiotti, mentre l’ultima goccia di liquido seminale liberato insieme a tutto

quel sangue cadde giù a strapiombo per infrangersi contro la schiuma delle onde

marine, generando Afrodite.

Da allora in poi ogni donna, come la madre Terra, avrebbe portato dentro sé

l’onta di quel sangue. La sua sensualità, la sua voluttà, la sua femminilità sarebbero

state frutto di una ferita alla identità.

‹‹Urano››, il Cielo, nasce da ‹‹Gaia›› stessa. E’ lei, la suprema madre-

generatrice, l’archetipo cui l’inconscio collettivo collegherà nei tempi la femminilità,

a generare dal suo magma di energia Urano, dunque la ferita insanabile di Urano sarà

anche la ferita vieppiù insanabile di Gaia, ma questo vuol dire che ogni donna, nella

sua ‹‹femminilità generatrice››, paga il prezzo della sua identità, perdendo una parte di

sé, quella forse più definita e definibile, per fare ritorno al Caos originario delle

valenze, la ‹‹babilonia dei desideri primordiali››, al confine del tempo.

Non è un caso che i due momenti più significativi della realtà femminile corrano

sul filo del piacere e del dolore, restandone sospesi in equilibrio perfetto.

Mi riferisco al passaggio oltre la soglia della verginità, con il ‹‹primo rapporto

sessuale››, ed al suggello della maternità, con il ‹‹parto››. Sono essi due momenti

intrisi, inutile negarlo, di ‹‹dolore››, ma al contempo non possono prescindere dalla

dimensione del ‹‹piacere››, che contamina fatalmente quel dolore conferendogli un

sapore assai strano, incredibilmente accattivante.

La ‹‹prima notte››, peccaminosa luna piena al cui irresistibile richiamo ogni lupo

selvatico accorre stregato, luogo fantasmatico dove un ‹‹desiderio sconosciuto››

conserva immacolato il suo fremito adolescente eppur lo vernicia di una strana

sgomento, assume le sembianze del bel giovane dalla regale criniera ‹‹Imeneo››, il

quale è partorito dall’unione tra Dioniso ed Afrodite, ancora una volta tra dolore e

piacere, e muore improvvisamente il giorno delle sue nozze, per diventare uno

‹‹stargate››, la chiave magica cioè che consente l’ingresso nella dimensione posta

immediatamente al di là della verginità, quella della ‹‹conoscenza››. Associare Imeneo

all’esile membra nella posta a preservare la sacralità di quel ‹‹recesso sublime››,

costretta a morire, lacerandosi, perché il destino di ogni femminilità si compia, è quanto

mai spontaneo.

Tuttavia anche nella storia di Hyménaios si rinviene un certo richiamo alla

ambiguità, raffigurata dal suo apparire, pur essendo uomo, assai simile ad una fanciulla

e ancora da ‹‹amori impuri›› come quello per Apollo, o per Tamiri. Nel sacro

congiungimento nuziale egli trova la morte, così come trovano la morte con lui tutti i

‹‹frammenti torbidi›› e confusi del suo passato, permettendo alla dimensione indistinta

nella quale si agitava, prima di allora, la sua sessualità, di rivestirsi vieppiù di

significato, nel miraggio sublime della ‹‹creazione››, nell’esperienza ‹‹divina›› della

maternità. Ma il suo destino ha scritto che egli possa rinascere subito dopo la sua morte,

e quindi riportare in vita, una volta attraversata la soglia, quella ambiguità che gli era

stata compagna in un passato che evidentemente non è stato mai dimenticato. Ciò

significa, in ultima analisi, che il ‹‹sacro congiungimento nuziale››, e con esso la

‹‹maternità››, non preserva l’anima dal riaffiorare di quelle micidiali angosce legate

alla galassia della ‹‹primordiale ambiguità››, e l’anima stessa si ritrova a confrontarsi,

giorno dopo giorno, con lo spettro di ‹‹Fobos››, il simbolo di una paura indicibile dalla

quale vorrebbe fuggire ad ogni costo, ma non ce la fa. A poco possono, per aiutarla, le

sovrastrutture di stampo ‹‹nevrotico›› che costruirà ed in cui troverà riparo (l’illusione

di un amore, di una posizione sociale, di un benessere economico e potrei proseguire

fino all’infinito). La ‹‹conoscenza›› porta inevitabilmente con sé il peso di quella

terribile ambiguità.

Efesto non ha mai perdonato sua madre Era per averlo riportato in vita dalla sua

immaginazione, generandolo, come era precedentemente accaduto per Atena, partorita

dalla testa di Zeus, direttamente da sé, probabilmente con l’unico fine di castigare lo

stesso Zeus. Sarebbe stata sua madre stessa, poi, incapace di amarlo, a provocargli la

caduta rovinosa dell’Olimpo che lo avrebbe deturpato per sempre. Il suo rancore così

fu tale da indurlo a fabbricare con oro luccicante un trono stupendo ed offrirlo in dono

alla madre affinchè, adagiandosi da superba regina quale era, ne restasse intrappolata.

E così fu. La avrebbe lasciata per tutta la durata della eternità soffocare tra le catene di

quel trono mostruoso se paradossalmente non vi fosse stato l’intervento di Dioniso,

vittima tra l’altro della feroce persecuzione di Era perché figlio illegittimo di Zeus, a

persuaderlo, aiutato dall’effetto dell’alcol che Efesto, in sua compagnia aveva

tracotato, affinchè recedesse da tale proposito. La vergogna di un corpo così ripugnante

a causa del quale sarebbe stato indegno di ‹‹amore vero›› lo condurrà, quando si unirà

in matrimonio con Afrodite, a dubitare fortemente della sua fedeltà. Il suo ingegno lo

porterà, di conseguenza, ad inventare uno strumento grazie al quale quel senso di

indegnità e vergogna suo compagno da sempre, si riconoscerà in tutta la sua

drammaticità dinanzi ad una inoppugnabile realtà, consentendogli di smascherare

l’incontro d’amore di sua moglie con Ares. Fucinò abilmente anelli intrecciati assai

sottili, impercettibili come tele di ragno eppure così resistenti che nessuno avrebbe

potuto scioglierli o distruggerli, e li sistemò tutt’intorno al suo letto nuziale. Il seguito

è facile comprenderlo. Avrebbe lasciato i corpi nudi dei due amanti imprigionati tra

quelle catene per sempre se Zeus non gli avesse restituito quanto egli aveva offerto in

dote in cambio della mano di Afrodite. E’ come se lo implorasse a rendergli immutati,

così come erano stati in principio, i suoi sentimenti, le sue speranze, i suoi sogni. Così

evidentemente non era né sarebbe mai potuto essere. Era troppo accecato dalla rabbia

per comprendere la tragicità di quel gesto di Afrodite.

Quel giorno maledetto tutto il mondo fu testimone inerme di un evento che

avrebbe segnato il destino di ogni mortale. Ma nessuno ne intuì la carica devastante.

L’amore aveva incontrato il dolore dell’odio e vi si era unito nell’esperienza del

piacere. La loro unione dissacrante avrebbe condannato le generazioni ad essere

spettatori come Efesto, quando meno l’avrebbero immaginato, dell’adulterio

consumato dalla propria anima. Un funesto presagio si sarebbe abbattuto come un

uragano, su ogni essere umano.

Il ‹‹piacere del proibito›› e la paura ad esso legata entreranno ad abitare nella

casa degli esseri umani e vi dimoreranno per sempre. E così l’idea di subire violenza

si incisterà nell’universo simbolico femminile, ma non lo farà con valenza passiva e

negativa, bensì trasfigurandosi in ‹‹desiderio››, proprio così, in voluttuosa brama di

soggiacere a quella impetuosità che la coscienza tenta di scolpire come pericolo

mortale e della cui responsabilità la donna è da lei affrancata. Quel retrogusto un po’

aspro che solo ‹‹piacere›› e ‹‹violenza››, in misura diversa e diversamente graduabile,

riescono a lasciare nella bocca dell’anima dopo essere stati da questa sorseggiati

mediante la tisana prodotta dalla loro miscela, farà sì che ogni istante di puro piacere

venga esperito dalla donna impregnato di quell’odore, intinto di quel sapore che, una

volta provato, difficilmente può essere riposto nell’oblio della memoria. E nel tormento

di riconoscere come ‹‹sua›› quella conturbante frenesia che la assale quando è chiamata

a vivere nella integrità di sé stessa un’autentica ‹‹esperienza di piacere››, sospesa tra il

timore e la voglia che quella cascata possa farsi così travolgente da annegarla, diviene

olocausto di sé stessa, di quel ‹‹dolore originario››, di quell’ansia primordiale intrisa di

ambiguità.

Lentamente incomincia a sperimentare una inesorabile ‹‹trasmutazione››. La sua

femminilità, la sua maternità, probabilmente nulla di lei sarà più come lo aveva

immaginato prima di ‹‹conoscere››.

Piacere e dolore ancora una volta insieme, ancora una volta morbosamente

aggrovigliati nelle trame della loro solitudine, capaci di ‹‹corrompere›› la dignità

dell’anima, deformandola, trasformandola.

Il senso di vuoto la donna lo porta intimamente incastonato nella sua biologia,

sin dagli albori della sua esistenza. Ogni bambino possiede qualcosa che lei, bambina,

non ha. Una inspiegabile imperfezione, un singolare difetto del suo essere, una

mancanza vissuta come privazione legata chissà a che cosa, magari ad una colpa, ma

quale, diviene allora quell’assenza. E nell’universo simbolico prende inizio il valzer

immaginifico dei significati. Un profondo e radicale ‹‹sentimento di inferiorità›› e forse

di inadeguatezza si impossessa del suo inconscio, permeando le ‹‹emozioni del corpo››.

L’illusione che prima o poi una presenza cancellerà quel ‹‹silenzio della carne››

sedurrà, abbandonandola stremata sul ciglio della strada, la sua vita che cresce, sola

più che mai nell’abisso di una vergogna tanto dura da sopportare.

Improvvisamente, come dice Groddeck (“Il libro dell’Es), ‹‹giunge il momento

del concepimento, la magnificenza della sazietà, della scomparsa del vuoto, e con esso

dell’invidia lacerante e della vergogna. Poi nasce una nuova speranza, la speranza che

nel suo corpo cresca una nuova parte del suo essere, per l’appunto il figlio, che non

avrà questo difetto perché sarà maschio››. Maschio sarà, secondo Groddeck, il

desiderio che ogni donna porta dentro di sé non appena è al corrente di aspettare un

bambino.

Il dolore di un vuoto che sembrava incolmabile sceglie il momento del parto per

diventare piacere immenso. Un atto di voluttà superiore suggellerà una sequenza di

attimi incancellabili, lasciando nella memoria una impressione eterna. ‹‹Chi assiste ad

un parto, dice sempre l’autore, assiste ad un evento sbalorditivo: la partoriente urla e si

lamenta, ma sul suo volto brilla un’eccitazione incredibile e i suoi occhi emanano

quello strano bagliore che nessun uomo dimentica, dopo che l’ha fatto nascere negli

occhi di una donna. Sono occhi strani, occhi stranamente velati, che parlano di

voluttà››.

Idealmente ogni concepimento è inevitabilmente riconducibile al corpo fantastico

che prende forma nel sogno della prima notte di nozze. Esce da una prigione, verso la

libertà. E più di ogni altra cosa l’uomo ama la libertà. Per la prima volta respira,

assapora il piacere di far entrare in sé l’aria della vita; per tutta la vita respirare per lui

sarà la cosa più bella.

Durante il parto è colto dalla paura, la paura di soffocare. E la paura rimane per

tutti i giorni della sua vita la compagna di ogni gioia sublime. Di ogni gioia che gli fa

battere forte il cuore. Prova dolore, nel suo incedere verso la libertà; e dolore egli

provoca alla mamma con la sua testa dura; cercherà in eterno di rivivere questa duplice

esperienza. E la prima cosa che colpisce i suoi sensi è l’odore del sangue, frammisto ai

vapori stranamente eccitanti del grembo femminile. Nel nostro naso c’è un punto che

possiede una stretta affinità con la zona sessuale. Il lattante lo possiede come l’uomo

adulto. Tuttavia, il sangue che si versa quando nasce un bimbo e a cui essenza egli inala

col primo respiro, tanto che non la dimenticherà mai, è il sangue della mamma.

Possibile che egli non ami questa mamma? Possibile che non lo unisca a lei un legame

di sangue diverso da quello cui abitualmente si pensa? E, celato nel profondo, dietro

tutto ciò attende qualcos’altro, un qualcosa che unisce il bambino alla madre con mani

forti come quelle di un dio: la ‹‹colpa e la morte››. Perché chi sparge sangue dovrà

vedere sparso anche il proprio sangue. La madre è la culla e la tomba, dà la vita e la

morte››.

E così Oreste, nella tragedia di Euripide, ucciderà sua madre, Clitemnestra, rea

di aver assassinato suo padre Agamennone, di ritorno vittorioso dalla spedizione di

Troia.

Non gli ha mai perdonato di aver sacrificato sua figlia Ifigenia, immolandola

sull’altare come dono ad Artemide affinchè placasse il vento furioso e concedesse alle

sue navi di giungere a Troia. E così, come in un copione che reitera la sua trama di

morte, a sangue si aggiunge altro sangue, in un susseguirsi infinito di dolore e

sofferenza.

Attorno alla figura di Clitemnestra ruota il senso di un gesto paradigmatico,

utopisticamente catartico, come quello compiuto, in tutta la sua tragicità, da Nerone.

Clitemnestra è una donna i cui pensieri e le cui azioni ripercorrono quelle poste

in essere dall’uomo, è una femmina che ha scelto di vestirsi simbolicamente da

maschio, incorporandone emozioni e sensazioni, desideri e frustrazioni.

L’assassinio di Agamennone realizza una profonda falla nella rete di legami

attraverso i quali gli uomini si pongono in relazione tra loro e con gli dei. La terra è

stata costretta a bere sangue sgorgato da una vita strappata con violenza da colei che di

quella vita avrebbe dovuto essere il punto d’incontro con l’infinito. Zeus aveva imposto

una legge severissima, nota come legge di Dike, affinchè il cosmo fosse regolato con

giustizia. In accordo a questa inconfutabile legge, il sangue versato sulla terra può

essere cancellato solo ed unicamente con altro sangue. Quindi il gesto terribile di

Clitemnestra ha avuto il potere di mettere a repentaglio l’esistenza stessa del cosmo

intero. Ecco allora la necessità che fosse immediatamente ripagato.

Vediamo ancora tornare il ‹‹principio di ambivalenza›› dal quale eravamo partiti,

ma che, come sostenuto sin dall’inizio, non ha smesso di accompagnarci in questo

lungo viaggio. In un certo senso ogni cosa si trova ad essere ad un tempo anche

l’opposto di sé stessa, coincidendo con essa, come affermerà Niccolò Cusano quando

parlerà di ‹‹coincidenza degli opposti››. Quindi ogni cosa genera, immancabilmente, la

propria negazione di sé. Allo stesso modo in cui Clitemnestra ha dato la vita a quel

figlio che poi ne decreterà la morte, anche il delitto da lei compiuto porta con sé

imprescindibilmente anche la sua stessa morte. L’immagine ambigua di un serpente

primeggia incontrastata in tutto lo scorrere delle Coefore, lasciateci da Eschilo, dove

Oreste, interpretando l’incubo che ha sconvolto sua madre, si trova ad identificarsi con

il mostro, ma allo stesso tempo porta alla luce, in tutta la sua crudeltà, la vera natura di

entrambi. Sua madre ha generato un serpente poiché essa stessa è un serpente.

L’immagine del sogno è bifronte. Assume il nome di Anfisbena, un serpente fantastico

con due teste, del quale si diceva si potesse muovere sia in avanti che indietro, quindi

sia in un senso che nell’altro, portando con sé la morte in entrambe le direzioni. Oreste

impersona il serpente, il figlio assassino che massacrerà sua madre; sua madre allo

stesso tempo si identifica con la vipera, la femmina assassina che ha soffocato

mortalmente nel giogo delle sue spire la gloriosa aquila regale. Se il figlio riconosce in

sé la sua natura malvagia, viperina, è perché tale natura gli è stata trasmessa dalla

madre. Quando Oreste si guarda riflesso nel serpente, improvvisamente si ritrova anche

nella figura di sua madre, che ha generato quel mostro.

E allora per punire la madre il figlio è condannato a diventare uguale a lei,

macchiandosi, inesorabilmente, della sua stessa incancellabile colpa. Oreste, come

ogni figlio del mondo, si troverà ad identificarsi con la madre, assumendone la stessa

identità.

La sua vittoria sarà anche la vittoria di suo padre. La colpa di sua madre, d’altro

canto, sarà anche la sua stessa colpa. Oreste non potrà in alcun modo sottrarsi al

compito ingrato di riconoscere il suo stesso sangue nel sangue di sua madre, un sangue

che è obbligato a versare. ‹‹Che debbo fare? E’ mia madre! Come posso ucciderla? Ma

è legge: gocce di sangue a terra versate chiedono altro sangue››. Il sangue che egli versa

è il sangue che da lei ha ricevuto con la vita, succhiandolo dal suo capezzolo come

latte.

Ritorna l’ambiguità in tutto il suo dramma. Ritorna l’ambiguità di una natura,

quella di Oreste, figlio ad un tempo dell’aquila e del serpente. In lui, come in ogni

figlio, confluiscono i destini dei genitori, incrociandosi tragicamente. Assistiamo come

impietriti, ad una fusione tra gli opposti, che probabilmente ci appartiene più di quanto

immaginiamo e per questo ci fa terribile paura. Ed è proprio in questa fusione che

prende consistenza il ‹‹ghenos››, il cui unico scopo è quello di rigenerarsi incessante,

ripresentando drammaticamente l’efelide della contaminazione, una contaminazione

che si diffonde inarrestabile da una generazione all’altra. Così ad un certo punto

compariranno sulla scena le Erinni, concepite da Gaia con il sangue sgorgato dai

genitali di Urano dopo l’evirazione operata dal figlio Crono, a rappresentare

simbolicamente la coscienza tormentata dal rimorso, ma non basteranno a salvare

Oreste dal suo dolore lacerante, trafittivo, incontenibile.

Il dolore si trova qui a dividere il suo spazio di tormento con un odio profondo,

ancestrale, più forte, sembra quasi, dell’amore, di qualsiasi amore. Ma può mai essere

vero odio quello che una madre ed il proprio bambino si trovano ad esperire fino a

vederlo cristallizzato nella loro pelle, nelle loro ossa, nella loro anima?

Probabilmente il rancore esperito dalla madre per il proprio bambino e mai da

essa accettato, è riconducibile, per molteplici aspetti, al complesso di Edipo. Una madre

e sua figlia si trovano inevitabilmente, durante una fase del loro percorso di vita

insieme, a percepirsi come acerrime nemiche, nutrendo l’una nei confronti dell’altra

un livore indicibile. Il riferimento ad una espressione assai tipica, quella cioè di

‹‹vecchia strega maledetta›› è legata all’incantesimo da essa provocato sull’uomo

amato: così come avviene dentro la fiaba, si verifica parallelamente nell’inconscio della

bambina. L’idea di strega trae la sua origine in qualche modo proprio dal complesso di

Edipo: nella strega viene ad identificarsi la stessa mamma la quale, sfruttando le sue

arti magiche, cattura simbolicamente il papà, un papà che la figlia reclama tutto per sé.

In altre parole, dice sempre Groddeck, madre e strega sono, per l’Es dell’anima

affabulatrice dell’umanità, la medesima cosa. ‹‹Ci troviamo di fronte ad una esperienza

di odio di un figlio nei confronti della madre che ha qualcosa di stupefacente e che

soltanto in misura minima trova il suo contrappeso nella convinzione che esistano

streghe giovani e belle, empie creature dai capelli rossi, convinzione nata dall’odio

della madre che invecchia nei confronti della figlia giovane e focosa, mestruata da poco

(ecco i capelli rossi). E’ chiaro allora come l’odio nei confronti della madre da parte

della figlia si acuisca in occasione della gravidanza di quest’ultima. Infatti, per essere

incinta, la mamma deve aver ricevuto quelle carezze paterne che la figlia rivendica per

sé. Ella si è procurata il bambino esercitando ingiustamente le sue arti magiche e quindi

ingannando la figlia.

In ogni figlia divampa, durante la gravidanza della madre, un’atroce gelosia; essa

non è sempre evidente, ma esiste. E, sia che si esprima sia che rimanga celata nel

profondo, è sempre repressa e rimossa dalla violenza del precetto morale ‹‹onora tuo

padre e tua madre altrimenti morirai››, talvolta di più talvolta di meno, ma sempre col

medesimo risultato, quello di far nascere un complesso di colpa. E tale complesso di

colpa pretende una punizione, e precisamente una punizione nella stessa forma della

colpa in questione.

Ella ha odiato sua madre, e allora il figlio che porta in grembo la ripagherà della

stessa moneta. Ella voleva derubare sua madre dell’amore del padre: la stessa sorte

toccherà a lei per mano della figlia che nascerà. Occhio per occhio, dente per dente.

Ecco in parte anche il perché l’inconscio della maggior parte delle donne desidera un

figlio maschio. Il senso di colpa che ogni figlia prova nei confronti della madre le

impone di essere capace di odiare il bambino che porta in grembo: non c’è nulla da

fare. Ancora, durante il parto il bambino, proprio per il fatto di nascere sparge il sangue

della madre. E chi sparge sangue dovrà vedere sparso anche il proprio sangue. La donna

in stato interessante non può far altro che temere il bambino che sta per nascere: sarà

il vendicatore. E nessuno sarà tanto buono da amare sempre il vendicatore, neppure la

mamma››.

Eppure madre e bambino vivono, per un momento che sa di eternità, un incontro

assai sublime.

Come dimenticare che la prima percezione dell’essere umano al momento della

nascita, quindi al momento del suo ‹‹contatto›› con la realtà, è forse proprio l’odore del

ventre materno? Nei primi mesi ogni bambino farà esperienza di tutto quanto accade,

in termini bio-psico-ormonali, nell’area addomino-pelvica materna. In termini di

variazioni di odore egli percepirà, tramite le dinamiche di flusso sanguigno, i momenti

mestruali col loro sapore stranamente conturbante, così come i momenti di eccitazione

materna legati alla fase di ovulazione, e con essi un inspiegabile desiderio di ‹‹incesto››

troppo lontano nello scorrere psico-ontogenetico perché possa essere fermato e

cristallizzato in immagini, in simboli attorno ai quali articolare fantasie. Rimane allora

come una cometa vagante nel suo ‹‹cosmo psichico in espansione››, turbinandogli le

nebulose dell’anima con emozioni indefinibili, in cui piacere e dolore compaiono per

la prima volta lasciandolo in balia di una sensazione d’angoscia straripante, che con

ogni verosimiglianza costituirà il letto lungo il quale scivolerà impetuoso, spaccandone

gli argini, il torrente emozionale della sua vita.

Ciò cui aspira l’inconscio dell’essere umano è di fare ritorno a casa, nella dimora

rappresentata da quel ventre di donna dal quale si è allontanato senza che davvero lo

volesse, probabilmente senza che fosse biologicamente ancora pronto a farlo, ma che

non ha mai smesso di sognare, ogni istante della sua vita.

E’ assai intrecciato il rapporto che lega la madre al proprio bambino. Un rapporto

che può spingersi oltre qualsiasi confine, fino ad un atto estremo di ricongiungimento

che nelle maglie del delirio riporta coercitivamente le due anime insieme, in

quell’abbraccio ideale della fantasia, dove vita e morte sono un tutt’uno.

Fin dai primissimi giorni di vita (fin dall’ottavo giorno), il neonato si mette in

comunicazione con la madre per mezzo di informazioni propriocettive. Infatti egli si

accorge subito se viene tenuto in braccio da una persona occasionale; il modo insolito

con cui viene tirato su dalla culla, con cui viene trattato in grembo e con cui viene

stretto fra le braccia e, finanche, il modo con cui viene cullato lo fa subito strillare, in

preda ad evidente disagio. Il pianto comunica a chi lo tiene in braccio questo disagio,

tanto che questi, in gran fretta e non senza un certo impaccio, lo ripassa, se può, alla

madre. A questo punto, il neonato si calma: il suo volto esprime soddisfazione beata

(delizia) e il suo corpo si rilassa. Anche questi sono segnali per la madre, che proprio

in tal modo può modulare la sua stretta che finisce per diventare tenero abbraccio.

L’ideale abbraccio della madre è quello che avvolge il figlioletto, mettendolo a

contatto con il proprio corpo il massimo possibile, senza ostacolarne la respirazione: il

petto, le braccia e le mani materne devono fare del loro meglio per ricreare vieppiù

l’avvolgimento totale già sperimentato nel grembo perduto. E se l’abbraccio materno

non basta, vi sono altri momenti analoghi a quelli sperimentati nell’utero; in casi come

questi, la madre passa a dondolare dolcemente il suo piccolo in senso orizzontale. Ma

se questo non bastasse, ella è pronta ad alzarsi e camminare avanti ed indietro per la

stanza, continuando a cullare il piccolo. Tutte queste intimità hanno uno specifico

effetto rilassante, perché riproducono certi ritmi già sperimentati nella vita prenatale.

La madre, sbirciando il figlioletto, arriva a sintonizzare il dondolio della culla,

dosando con estrema finezza il numero delle scosse da imprimervi al minuto. E’ stato

sperimentalmente dimostrato che, a ritmi molto lenti oppure molto rapidi, il dondolio

della culla perde il suo effetto calmante, che si ottiene solo quando la culla raggiunge

le 60-70 oscillazioni al minuto, cioè il ritmo del battito cardiaco di un adulto. Il pianto

umano è simile a quello delle piccole scimmie che emettono una serie di suoni striduli

e ritmici, ma è senza lacrime e, nelle prime settimane di vita, anche il bambino piange

allo stesso modo. Dopo questo breve periodo, al segnale vocale si aggiungono le

lacrime. Per qualche ragione, dice Morris, è stato trascurato il fatto che, solo tra tutti i

primati, l’uomo piange con le lacrime, ma è ovvio che ciò deve avere un significato

peculiare per la nostra specie.

Secondo lui, in primo luogo, questo segnale visivo è reso efficace perché le

nostre guance sono prive di peli e le lacrime vi scivolano copiosamente; ma la chiave

è data dalla risposta materna: quando il bambino piange, la madre gli asciuga gli occhi.

Ciò significa detergere dolcemente la pelle del viso, cioè stabilire un intimo

contatto che esercita sul piccolo un’azione calmante; forse è questa la funzione

fondamentale della copiosa lacrimazione che così spesso bagna il viso del giovane

animale umano: la lacrimazione copiosa si è evoluta come ‹‹sostituto dell’urina››,

capace di stimolare una risposta di contatto intimo nei momenti di difficoltà

interpersonali. Infatti la madre, nella specie umana come in molte altre specie, prova

un fortissimo impulso a pulire il corpo della sua prole, quando si sia bagnato di urina

ad esempio. Secondo D. Morris, dunque, il pianto dell’adulto ha lo stesso significato

comunicativo dell’enuresi notturna di un bambino che deve fronteggiare la nascita

della sorellina. Il comportamento materno non è qualcosa che deriva alla donna

geneticamente, almeno non soltanto. Esso è la risultante di fattori innati e fattori

appresi. Gli esperimenti di Noble e Curtis sui pesci, quelli sulle tacchine ottenuti da

Lorenz e la sua èquipe, i dati etologici di Schaller sulle scimmie antropomorfe, tutti

stanno a dimostrare che esso si realizza compiutamente solo sulla base di informazioni

trasmesse per via ‹‹esosomatica››, ossia culturale. I comportamenti riservati alla prole

potrebbero in tal modo venire ridimensionati a ‹‹comportamenti di osservazione››.

Una mamma impara a fare la mamma solo se ha avuto una mamma che glielo ha

saputo insegnare. E’ così. Inutile negare. Non glielo dice il DNA come deve fare. Non

è previsto in natura per nessuno tra gli esseri viventi. Noble e Curtis sostituirono le

uova di una coppia inesperta, ossia che si riproduceva per la prima volta, con uova

appartenenti a un’altra specie. Quando le uova si schiusero, i due pesci accettarono i

nuovi nati come se fossero loro figli e li allevarono; e ogni volta che si imbattevano in

piccoli della loro specie, non esitavano a mangiarli. Questa tendenza si rivelò definitiva

quando la coppia potè allevare figli propri: appena schiuse le uova, i nuovi nati

venivano divorati dai loro genitori, che avevano imparato a considerare propri tutto un

altro tipo di figli. Esiste dunque, fin dalle specie filogeneticamente più antiche, un

particolare tipo di apprendimento che rende capaci gli individui di distinguere fra prole

propria e prole di altre specie. ‹‹L’istinto›› dei nostri due pesciolini era stato deviato

per sempre da una informazione aberrante. Dal canto suo, l’èquipe di Lorenz, nel

proseguire sue proprie finalità sperimentali, si trovo nella necessità di rendere sorde

varie tacchine che, per altro, poterono incubare normalmente le loro uova. Ma quando

esse si dischiusero, le tacchine cominciarono a beccare a sangue i loro piccoli che

teneramente pigolavano intorno: si comportavano come son solite fare con qualsiasi

intruso che si avvicini troppo al loro nido, paventando intenzioni ostili nei riguardi

della loro prole inetta. Evidentemente nemmeno le tacchine possiedono adeguate

informazioni genetiche circa l’aspetto esteriore dei loro piccoli, ma si servono di

particolari segnali acustici per distinguerli dai loro predatori e dalle loro prede. Infatti

la tacchina becca qualunque cosa si muova nelle vicinanze della sua area di difesa

(territorio) e che non sia tanto grande da scatenare una reazione di fuga che trascenda

la sua aggressività.

Quindi solo l’espressione sonora del pulcino che pigola è in grado di facilitare

le reazioni materne e mettere sotto inibizione l’aggressività. La specie umana, come

tutte le specie a prole inetta, possiede un tipo di apprendimento in fase precoce che

permette al neonato di riconoscere la mamma ed alla mamma di riconoscere il neonato.

Tale apprendimento va sotto il nome di ‹‹IMPRINTING›› e si realizza in un periodo

sensibile, critico, che di norma è precoce e breve, è irreversibile, ossia una volta attuato

non regredisce più, ed inoltre non necessita di una ricompensa, anzi le punizioni

possono rinforzarlo.

Con questo tipo di apprendimento precocissimo e irreversibile, infatti, la natura

riesce a superare uno degli svantaggi inevitabilmente insito nella modalità di

trasmissione delle informazioni genetiche. Il messaggio genetico è, per sua stessa

natura, generico ed incapace di prevedere le fattezze individuali dell’oca madre. Se

un’ochetta dovesse essere ‹‹istruita›› geneticamente riguardo alla madre, potrebbe

avere ragguagli solo intorno ad una madre e non intorno alla propria madre in

particolare – dice Mainardi. Spetta alle informazioni esosomatiche questo compito e

solo esse permettono il rapporto inter-individuale: solo a mezzo di questo tipo di

comunicazione, gli esseri viventi finiscono per riconoscersi come individui.

Secondo le più recenti acquisizioni della biologia, la fine del periodo critico

dell’imprinting sembra dovuta alla comparsa di uno stato emozionale detto, dai biologi,

paura. Essi, con particolari accorgimenti sperimentali, hanno potuto concludere che la

paura non dipende in assoluto dall’età, ma dal contesto tra la percezione di un oggetto

familiare e uno non familiare, dalla differenza tra una situazione sperimentata e una

nuova. Riconoscere che una cosa è nuova richiede una precedente esperienza. Se questa

manca non può avvenire una tale discriminazione e di conseguenza neppure l’insorgere

della paura.

Per tutte queste considerazioni si può dire che, nella specie umana, il periodo

critico in cui è possibile l’imprinting termina all’ottavo mese.

Sulla base delle ricerche cliniche di Spitz si può ritenere che l’infante di homo

sapiens, il quale sperimenta l’ansia, se non già nel grembo materno, alla nascita, fa la

sua conoscenza con la paura a circa otto mesi di età. Spitz ha denominato erroneamente

questa situazione infantile ‹‹angoscia dell’ottavo mese››: qui il bambino resta vittima

di un inedito stato emotivo perché, per la prima volta in vita sua, è in grado di stabilire

che si trova in presenza di un volto sconosciuto. Fino ad allora aveva sorriso

indifferentemente a qualsiasi volto umano che gli si presentasse davanti perché non

sapeva distinguere fra volto della madre e volto sconosciuto. Solo quando la

maturazione è avanzata una tale discriminazione diventa possibile. Si fa così la

conoscenza con una nuova emozione: la ‹‹paura››.

Allo scadere del periodo neonatale, a circa trenta giorni di età, l’infante comincia

a sorridere al volto umano, sia esso quello della madre o di un qualsiasi altro

osservatore.

Come ha potuto precisare Spitz, cui dobbiamo questi risultati, l’infante sorride

solo se il volto umano si presenta dirimpetto. Non sorride se il volto umano gli viene

presentato di profilo.

L’infante, a differenza del neonato, è dunque in grado di ricevere, oltre le

informazioni propriocettive (provenienti dalle sensibilità profonde e inerenti

l’equilibrio corporeo) e quelle sonore, informazioni visive. Tra i due ed i sei mesi

l’infante può distinguere la figura dallo sfondo e i visi benevoli da quelli ostili o

corrucciati. Riesce quindi a riconoscere e quindi a distinguere il ‹‹segnale di

approvazione›› ed il ‹‹segnale di disapprovazione››. Egli comincia ben presto ad

attribuirvi il giusto significato e così il segnale viene trasformato in messaggio. Esso

fornisce all’infante questo tipo di informazione: ‹‹bravo, ti stai comportando come

desidero io! Ti voglio bene e ti starò sempre vicino››.

Nell’altro caso, il messaggio trasformato nel nostro linguaggio articolato-

simbolico potrebbe suonare pressappoco così: Pericolo! Non ti stai comportando come

piace a me: resterai a vedertela da solo.

In questo modo, la madre sceglie inconsapevolmente dal repertorio del suo

infante i comportamenti che giudica opportuni e conformi alle sue esigenze culturali,

mentre elimina quelli che non riesce ad apprezzare. Infatti la disapprovazione materna

(oppure quella di ogni persona importante) induce nell’infante uno stato di disagio

intollerabile per evitare il ripetersi del quale questi comincia a comportarsi in modo

conforme ai desideri materni.

Freud ha insistito efficacemente su questa primordiale esperienza di disagio cui

soggiace l’infante pressato dalla disapprovazione materna. Egli etichettò questa

situazione con il termine ‹‹Hilflosigkeit›› (l’esser senza aiuto). Qui il lattante, che

dipende interamente dagli altri per il soddisfacimento delle sue tensioni (o, che è lo

stesso, per la soddisfazione dei suoi bisogni: sete, fame, pulizia, calore, ecc…), vive

un’esperienza drammatica: si coglie come un essere impotente a procacciarsi l’azione-

oggetto specifica, capace di metter fine alla tensione interna. E’ dopo aver sperimentato

tale situazione di pericolo (perdita o separazione dalla madre) che comincia a viverla

come una persona onnipotente. In quanto esperienza universale, attraverso la quale

debbono passare tutti i lattanti, la Hilflosigkeit crea il ‹‹bisogno di essere amati››.

Questo bisogno non abbandonerà mai più l’uomo per tutto il corso della sua esistenza.

Ritengo giusto a questo punto condurre il lettore sul significato che riveste la

pelle, un manto dal sapore magico che riesce a confinare l’essere umano nella dignità

di persona, conferendogli una identità, una dimensione di realtà, la possibilità di

tracciare una storia sull’arenile del tempo, riappropriandosi di un frammento di infinito

che gli appartiene da sempre.

Ebbene, la pelle costituisce il luogo del sistema sensoriale più ancestrale, il tatto,

intorno al quale si organizzano, nel neonato, le prime esperienze percettive.

Nelle sue due funzioni fondamentali, quella ‹‹protettiva›› rispetto a tutto ciò che

è nocivo nel mondo esterno, e quella ‹‹contenitiva›› di ciò che necessariamente ha

bisogno di essere custodito e non disperso nell’ambiente, è nascosto il senso ultimo

della nostra realtà psichica, quello cioè di proteggere e custodire il cuore dell’anima, il

seme di Assoluto che un Disegno imperscrutabile depone con la delicatezza di un fiore

affinchè germogli al calore del sole, le nostre emozioni, per diventare Anima e volare

fino all’immortalità.

Ma la pelle è il luogo della esperienza sensoriale primaria, è cioè il primo veicolo

di sensazioni per il feto prima e per il neonato poi. La mente nasce proprio sotto la

spinta e con il preciso compito di elaborare tale esperienza sensoriale primaria. Attorno

a quella specializzata e complessa struttura sensoriale che è la pelle, si costituisce e si

organizza il sentimento di sicurezza e di identità dell’essere umano. E tutto ciò avviene

alla presenza di una figura mediatrice che si prende cura del bambino e risponde al suo

irrefrenabile ‹‹bisogno di contatto››. Tale figura non poteva essere altri che la mamma.

In etologia è stata ampiamente sottolineata l’importanza della pelle e dei

comportamenti ad essa legati quali il leccare, lo strofinare, l’aggrapparsi, il mordere,

per la sopravvivenza degli animali, specie i mammiferi. J. Bowlby e Mary Ainsworth

hanno evidenziato come il contatto fisico precoce con la pelle della mamma sia

indispensabile per il costituirsi del legame di attaccamento e la sua qualità sia vieppiù

influenzante il sentimento di sicurezza personale dell’individuo. Dalle ricerche

sperimentali emergono nel bambino 3 stili di attaccamento sviluppati sulla base delle

esperienze relazionali della prima infanzia, ossia sicuro/autonomo, ansioso/evitante ed

ansioso/resistente, tali stili, in altre parole tali modalità di porsi del bambino poi nei

riguardi di sé stesso e del mondo esterno, si organizzano sulla base delle prime

esperienze relazionali e di contatto fisico e mentale con la madre. E’ il contatto pelle-

pelle ad essere il principale organizzatore di queste primordiali esperienze relazionali.

Molti autori hanno ad esempio posto in relazione un attaccamento non sicuro, e

quindi gli stati mentali che si organizzano in relazione ad esso nel neonato e nel

bambino, con l’insorgenza, nel corso della adolescenza e della età giovane-adulta, di

alcune dermopatie come iperidrosi, orticaria cronica, prurito generalizzato ed alopecia,

nelle quali è usualmente considerata rilevante la componente emozionale.

Freud sosteneva come ‹‹l’Io fosse innanzitutto una entità corporea: non soltanto

una entità superficiale››, ma anche la proiezione di una superficie. L’Io, secondo

Freud, allora, deriva in definitiva dalle sensazioni corporee, soprattutto da quelle che

provengono dalla superficie del corpo. Il corpo quindi come proiezione mentale della

superficie del corpo e come rappresentante degli elementi superficiali dell’apparato

psichico. Nel 1968 Ester Bick incomincia a parlare di ‹‹pelle psichica››. Didier Anzieu,

nel 1974, individua nell’Io pelle il modello originario che conserva, come un

palinsesto, i segni riscritti, graffiti, in parte cancellati, di una scrittura originaria

preverbale fatta di tracce cutanee. Con il concetto di ‹‹io pelle››. Anzieu designa una

rappresentazione di cui si serve l’Io del bambino, durante le fasi precoci dello sviluppo,

per rappresentarsi se stesso come Io che contiene, che ingloba i contenuti psichici, a

partire dalla superficie del corpo. E, secondo Anzieu, dal momento che ogni attività

psichica si appoggia immancabilmente su di una funzione biologica, anche l’Io pelle

trova il suo appoggio sulle diverse funzioni della pelle, ossia quella di contenere e

trattenere all’interno il buono ed il pieno che l’allattamento, la cura, il bagno di parole

vi hanno accumulato, così come quella di essere superficie di separazione (interfaccia)

che segna il limite con il fuori e, al tempo stesso, barriera che protegge dalla

penetrazione e dalle aggressioni esterne da parte di esseri od oggetti, ed infine quella

di essere, come la bocca, luogo e mezzo di comunicazione primario con gli altri, con

cui stabilire relazioni significative di cui conserva le tracce.

Anzieu sembra voler privilegiare, all’interno della complessità dell’universo

sensoriale cutaneo, la sensorialità tattile e, nello specifico, quell’area affettiva

straordinaria della relazione madre-bambino costituita dal congiungimento pelle contro

pelle, il più completo possibile, tra il corpo della madre e quello del bambino.

E’ dal corpo della madre che il bambino riceve i primi messaggi di rassicurazione

e di gratificazione da parte dell’ambiente dopo la catastrofe sensoriale della nascita e

prima delle gratificazioni orali provenienti dall’allattamento. Attorno a tale spazio di

contatto intimo e prolungato si sviluppa quello che egli definisce il ‹‹fantasma di una

pelle comune›› che, secondo Anzieu, sembra essere all’origine del concetto stesso di

spazio e della nozione di contenitore psichico.

La sensorialità tattile esperita nel rapporto madre-bambino favorisce lo

svilupparsi di un oggetto psichico, uno schema affettivo di involucro, di pelle psichica,

che diviene la base, le fondamenta, su cui emerge e si struttura il sentimento di

separatezza, di coesione e di integrità del Sé.

Autori come Bion, Winnicott e Bowlby hanno sottolineato l’importanza delle

cure materne o, meglio, della capacità della madre di raccogliere, di contenere

(holding) e dare significato alle emozioni del bambino. Il fallimento di tale funzione di

holding, in cui si può rilevare una povertà ma anche un eccesso di stimolazione da parte

della madre, comporterà lo speculare fallimento della funzione contenitrice

dell’involucro psichico, con la conseguenza di generare un’angoscia tremenda nel

bambino. Se pensiamo alla famosa coperta di Linus, quello cioè che in psicologia si

definisce oggetto transazionale, possiamo pensare, secondo Gaddini, come se si tenga

conto dell’importanza delle prime esperienze tattili alla nascita e della loro

riattivazione mentale nell’invenzione dell’oggetto transazionale appunto, è

comprensibile che esso, in ultima analisi, si faccia carico di rappresentare il risultato di

una elaborazione mentale evolutiva della perdita definitiva del contatto fisico.

Anche Daniel Stern si è inserito prepotentemente in una problematica così

importante, parlando di ‹‹involucro proto-narrativo›› per descrivere il modo in cui il

bambino si rappresenta, attraverso quelle che l’autore definisce forme della sensazione

temporale, l’esperienza emotiva legata alla sequenza di eventi significativi

dell’interazione con la madre.

Attraverso l’interazione ripetuta con la madre si delineano schemi sensoriali

diversi dell’evento (‹‹l’essere-con›› l’altro), dai quali emerge e prende forma uno

schema o una organizzazione psichica più globale che acquista significato profondo

per il bambino, ossia ‹‹l’essere con››, dove cioè le due realtà in gioco sono unite ma

separate. Tale concetto di involucro protonarrativo (l’essere con) può essere applicato

al flusso continuo di informazioni che arrivano al bambino dal mondo della sensorialità

cutanea ipotizzando che l’incontro o il contatto pelle a pelle ripetuto e prolungato e

prolungato con il corpo materno possa diventare la base sensoriale con il più grosso

peso, per il determinarsi di uno schema affettivo che è stato descritto in psicoanalisi

come configurazione contenuto-contenitore. Quest’ultima troverà nel resto della vita

infinite realizzazioni che, però, rimanderanno sempre a quella esperienza sensoriale

originaria che ha dato origine e nome allo schema. Questa pelle immaginaria primitiva

si sostituisce, quindi, al tempo stesso come contenitore e come contenuto e sulla

stabilità ma anche sulla flessibilità di questo confine si costruirà l’identità corporea e

psicologica dell’uomo ma anche la sua capacità di mettersi in relazione con l’altro.

Già nella vita intrauterina il feto appare sollecitato da molteplici esperienze

sensoriali che si determinano all’interno del complesso sistema della relazione

materno-fetale. Il feto manifesta una motricità che si rende sempre più complessa e

articolata con il trascorrere del tempo della gravidanza e che viene gradualmente

percepita dalla madre. Alcuni studi hanno suggerito l’ipotesi di una sorta di

‹‹adattamento›› del feto a stimoli di vario genere provenienti dal corpo materno. Si

potrebbe quindi pensare a questa prima fase dell’esperienza vitale come un

organizzarsi iniziale di un complesso universo sensoriale fatto di attività e risposte

adattative. Questa sensorialità viene a svilupparsi all’interno della relazione affettiva

con la madre con tutta la messe di emozioni che preparano, accompagnano e

sostengono le diverse fasi della gravidanza in una dimensione genitoriale che prevede

la presenza affettiva della figura paterna. Con la nascita le sollecitazioni sensoriali

divengono particolarmente intense. In presenza della mente materna si viene a

sviluppare l’apparato mentale del neonato la cui funzione iniziale, secondo Armando

Ferrari, appare quella di registrare e contenere il marasma del mondo sensoriale.

Secondo l’Autore sarebbe all’interno di questo passare dalla fisicità alla psichicità, e

nelle zone intermedie tra l’una e l’altra, che si sviluppano, nel neonato, le matrici

arcaiche delle emozioni (l’agitazione motoria, il pianto, la cianosi etc...) le quali

devono trovare nella madre la figura etologicamente attesa in grado di svolgere la

funzione di rendere metabolizzabili le esperienze emotive del neonato.

Nelle prime settimane di vita del bambino gran parte dell’interazione sociale con

le figure di accadimento è al servizio della regolazione fisiologica; così i genitori, ed

in particolare la mamma, cullano, accarezzano, cantano e parlano al bambino al fine di

rendere l’intensità del suo sentire più tollerabile favorendo, in tal modo, un adeguato

costituirsi dei cicli sonno-veglia, giorno-notte e fame-sazietà.

Le osservazioni e le riflessioni sviluppate in ambito psicoanalitico sulle prime

esperienze relazionali del bambino hanno posto l’accento su questi fenomeni di

regolazione fisiologica come mediatori nel costituirsi della vita interiore del neonato.

Freud riteneva che il costituirsi di una vera e propria barriera agli stimoli proteggesse

il bambino dalla necessità di registrare gli stimoli esterni. Margaret Mahler ipotizzò

l’esistenza di una fase cosiddetta di autismo normale, nella quale il bambino sarebbe

privo di relazione con il mondo esterno. Questo approccio psicoanalitico classico alle

fasi precoci dello sviluppo del bambino ha portato ad una visione del neonato per la

quale questi sarebbe in relazione con il mondo esterno solo indirettamente e cioè nella

misura in cui l’ambiente di accudimento regola e modula i suoi stati interni (fame, sete,

etc).

Gli studi condotti in ambito psicologico negli ultimi anni hanno mostrato in che

modo il bambino piccolo può sperimentare gli affetti ed i cambiamenti dello stato di

tensione, nonché le percezioni del mondo esterno che accompagnano gli affetti ed i

cambiamenti di tensione, sollecitando l’attenzione al costituirsi di una vera e propria

esperienza sociale del bambino stesso, che porterebbe, secondo Stern, al costituirsi

progressivo di un senso di un Sé emergente, risultato sia dai prodotti delle diverse

esperienze di interazione sia dal processo stesso di interazione. Secondo Stern il

bambino nascerebbe con la tendenza innata del sistema percettivo all’accoppiamento

tra esperienze tattili e visive, visive ed uditive, etc…(trasferimento trasmodale

dell’informazione).

Anche Armando Ferrari propone questa autonomia mentale del neonato fin dalla

nascita con una incipiente capacità di discriminazione delle proprie sensazioni che si

manifesta attraverso le prime correlazioni tra le diverse e confuse sensazioni fisiche.

Egli propone che, nel corso dello sviluppo del neonato, un organo di senso possa, di

volta in volta, svolgere la funzione di coordinamento interno registrando un’esperienza

sensoriale catturando la sensazione interna e finalizzandola collegandosi all’oggetto

(olfatto-odore materno; vista-seno, mani-corpo della madre, e così via…).

Questo processo porterebbe dalla sensazione ai primordi della simbolizzazione

e quindi alla formazione dello spazio psichico.

Ecco allora la pelle, nel suo contatto con la mamma, in gioco nelle prime

esperienze interne del bambino e nella definizione dei precursori dell’attività simbolica

e della costituzione stessa dello spazio mentale. Le percezioni tattili primitive, legate

al contatto con la mamma, contribuiscono così allo svilupparsi dell’immagine

corporea, della stima di sé e della modulazione adattativa dell’ansietà, funzione che in

seguito si traduce nella modulazione delle emozioni.

Quante innumerevoli cose legano la madre al proprio bambino. Persino la pelle

ce lo ricorda giorno dopo giorno, attimo dopo attimo. Essa è l’origine di tutto il suo

meraviglioso universo di corpo e psiche, e, paradossalmente, la sua fine.

Prima allora di cercare di comprendere se e quanto possa influire, in modalità

ancora da definire, una condizione psicopatologica franca in un comportamento

materno aberrante, che poi diventerà inevitabilmente la condizione per un futuro

comportamento filiale altrettanto aberrante, io vorrei porre l’attenzione del lettore sul

fatto che una madre può trovarsi nella condizione di essere inadeguata, prima ancora

che assassina, e questo naturalmente rappresenta una fonte di pericolo continuo per il

suo bambino. E probabilmente la responsabilità andrebbe addebitata all’allevamento

operato su quella mamma quando era infante. Ci sono, come possiamo vedere,

moltissimi punti di osservazione dai quali possiamo formulare ipotesi critiche,

moltissime stazioni che cadenzano tutto l’arco di vita di quella straordinaria ‹‹donna-

mamma››, ciascuna delle quali direi ‹‹fondamentale››.

Un bambino possiamo educarlo in modo da farlo diventare come piace a noi.

Dal bambino si può ottenere rispetto, aspettarsi che condivida pienamente i nostri

sentimenti, nell’amore e nell’ammirazione del bambino ci si può rispecchiare, di fronte

a lui ci si può sentire forti, quando se ne è stanchi lo si può affidare ad altri; grazie a lui

è possibile, infine, sentirsi al centro dell’attenzione: gli occhi del bambino seguono

ogni movimento della madre, per quanto possa essere una persona colta, dinanzi alla

propria creatura li sentirà ridestarsi dal profondo del proprio inconscio e tendere al

soddisfacimento. Il bambino lo avverte chiaramente, e rinuncia presto ad esprimere le

proprie esigenze, quando però, in seguito, nell’adulto emergono, durante la terapia, i

sentimenti infantili di abbandono, ciò avviene con una sofferenza ed una disperazione

di tale intensità che ci risulta evidente che quel bambino non sarebbe sopravvissuto al

proprio dolore.

Per sopravvivere avrebbe dovuto poter contare proprio su quell’ambiente

empatico, assecondante, che gli era mancato. Dunque i sentimenti erano stati respinti

nell’inconscio.

Mettere in dubbio questa dinamica vorrebbe dire smentire i numerosissimi dati

che provengono dal lavoro terapeutico. Nella difesa, per esempio, dal sentimento di

abbandono provato durante la prima infanzia si possono riconoscere vari meccanismi.

Accanto alla semplice negazione troviamo perlopiù la lotta spossante e senza

tregua per raggiungere – con l’aiuto di simboli (droga e sostanze da cui si diventa

dipendenti, gruppi, culti di ogni tipo, perversioni) – il soddisfacimento dei bisogni

rimossi e nel frattempo divenuti perversi. L’adattamento ai bisogni dei genitori

conduce spesso allo sviluppo della ‹‹personalità come sé››, ovvero a ciò che si definisce

un falso sé.

L’individuo sviluppa un atteggiamento in cui si limita ad apparire come ci si

aspetta che debba essere, e si identifica totalmente con i sentimenti che mostra. Il suo

vero Sé non può formarsi né svilupparsi, perché non può essere vissuto. Ogni essere

umano ha dentro di sé un cantuccio, a lui stesso più o meno celato, in cui si trova

l’apparato scenico del dramma della sua infanzia. Gli unici che con certezza avranno

accesso a questo deposito saranno i nostri figli. Per mezzo loro, l’apparato scenico sarà

vitalizzato: il dramma va avanti.

Che cosa capita quando la madre non è in grado di aiutare il proprio figlio? Che

cosa capita quando non solo non riesce ad indovinare e ad esaudire i bisogni del figlio,

ma presenta anche lei carenze affettive, cosa che si verifica molto sovente? In tal caso

cercherà di soddisfare i propri bisogni personali servendosi del bambino, anche se

questo non esclude un forte legame affettivo. A questa relazione di sfruttamento

mancano però componenti che sono di importanza vitale per il bambino, come

l’affidabilità, la continuità e la costanza; soprattutto manca lo spazio in cui il bambino

potrebbe vivere i suoi sentimenti e le sue sensazioni. Il bambino sviluppa allora quegli

atteggiamenti di cui la madre ha bisogno, atteggiamenti che al momento gli salvano la

vita (ossia gli assicurano ‹‹l’amore›› della madre o del padre), ma che alla lunga gli

impediranno di essere sé stesso. In tal caso i bisogni naturali tipici dell’età del bambino

non vengono integrati nella personalità, ma vengono scissi o rimossi. Pur senza esserne

consapevole, questo individuo continuerà in seguito a vivere immerso nel proprio

passato.

Il rischio più grande, a questo punto, è la creazione di una breccia in seno alla

struttura di personalità, con dispersione incontrollata del contenuto libidico, le cui

conseguenze sono assolutamente da considerarsi imprevedibili sotto il profilo sia della

destrutturazione del pensiero e dei sui modelli di regolazione, sia degli eventuali agiti,

o meglio definibili ‹‹acting out›› che da questi ultimi scaturiscono.

Una realtà psicologica complessa quindi, la quale si regge su di una coesione

propria mediante la quale i singoli elementi semplici, le istanze ‹‹Es››, ‹‹Inconscio››,

‹‹Io›› e ‹‹Super-Io››, che la compongono, sono tenuti saldamente in relazione tra di

loro. E come le carte di un mazzo hanno un legame tra loro determinato dalla ‹‹struttura

del gioco››, sia esso briscola, scopa, tressette, poker, così gli elementi della personalità

sono tenuti insieme dalla ‹‹struttura della lingua››, il canale cioè attraverso il quale

decodificare e veicolare messaggi ‹‹interindividuali›› e, contemporaneamente,

‹‹intraindividuali››.

La ‹‹parola›› è nient’altro che l’espressione di un codice posseduto in comune

dalla madre e dal suo lattante; è quindi un simbolo, e come tale è in grado di garantire

le coesione oppure, drammaticamente, la scissione della personalità. ‹‹Pensiero››,

‹‹parola››, ‹‹identità›› si trovano così ad essere intimamente connessi. La loro

sovrapposizione viene a delinearsi molto precocemente. Ritorna nuovamente, in un

certo senso, quell’idea di ‹‹copione›› che avevamo visto inizialmente. E’ nella genesi

dell’inconscio, il quale, unico tra le istanze a disporre pienamente del linguaggio come

codice attraverso il quale fare ‹‹esperienza di sé››, permette all’individuo di

simbolizzare e quindi di ‹‹afferrare›› l’inconscio dell’altro (l’idea Junghiana di

‹‹Inconscio collettivo››), che il sistema di personalità trova il progetto della sua

strutturazione futura, in risposta agli input ambientali.

La gravidanza per ogni essere vivente è il momento in cui la sua origine divina

si veste di realtà e si manifesta in tutta la sua potenza. Per l’uomo rappresenta il contatto

con l’Infinito, con la dimensione soprannaturale della creazione, con un’anima che si

costituisce vita ed abita un corpo, nutrendosi di quel corpo, in un continuum di eternità.

La madre ed il bambino sono gli anelli di passaggio della catena trans generazionale.

Quando il bambino nasce eredita attraverso il canale bioumorale tutta una serie di

informazioni emotive che si trasmettono attraverso la fisicità (i recettori vengono

eccitati sull’area adrenergica). Ma oltre alle informazioni emotive egli riceve anche e

soprattutto proiezioni (p.es. la scelta del nome). La madre, quando nasce il figlio, viene

chiamata a sviluppare l’empatia, che si estrinseca attraverso un processo di regressione

della mamma a quando lei era feto; ella va nella sua preistoria che è fatta

sostanzialmente di mostri (con la conseguente paura di partorire un mostro) che

consente alla donna stessa di costruirsi l’immagine del figlio, e così lei si costruisce un

bambino interno cicciottello e ricciolino che smussi in qualche modo il mostro di paura.

Ma se la donna ha avuto un difficile rapporto con la madre, questa donna va a

percorrere ‹‹l’area dell’archetipo materno negativo››. E allora la sua maternità sarà

vissuta in maniera catastrofica, con conseguenze inimmaginabili. Per interrompere

allora questa catena c’è bisogno di una terza persona che si faccia carico delle angosce

arcaiche e gliele restituisca trasformate, e questa terza figura viene ad essere

rappresentata dalla figura maschile, dal partner il quale, attraverso il suo lato femminile

faccia questo lavoro di assorbimento e restituzione. Se vogliamo, possiamo identificare

taluni fattori di rischio per quelli che potrebbero essere comportamenti aberranti della

madre nei confronti del proprio bambino o, da un’altra prospettiva, per quella che

potrebbe essere la predisposizione all’insorgenza di una evidenza fenomenologica di

sintomatologia ‹‹depressiva›› nel puerperio. Una gravidanza ad esempio in cui la donna

esperisce fantasie di danno genetico patologiche, che occupano in modo ossessivo la

sua mente per cui essa non si costruisce l’immagine bella del figlio interno, come anche

una donna che in gravidanza esperisce angosce di morte che la spingono ad assicurarsi

che la gravidanza vada bene per cui non le permettono di costruirsi l’immagine bella

del figlio interno, o ancora una donna che esperisca fantasie di essere danneggiate

durante il parto per cui essa costruisce l’immagine di un figlio persecutore. Tutto questo

naturalmente si complica terribilmente in presenza di una sintomatologia ansiosa o di

un habitus depressivo della donna, e naturalmente raggiunge il suo culmine di gravità

in termini potenziali se la donna in gravidanza viene lasciata in solitudine, esperendo

le fantasie persecutorie o, peggio ancora, la assenza di fantasie, senza alcun punto di

riferimento al quale aggrapparsi nei momenti di angoscia e sconforto. E’ quindi

assolutamente fondamentale la ‹‹reverie›› paterna, di una figura intimamente legata

alla gravida, che sappia assorbire le angosce di regressione materna, liberando la donna

dal compito di sopportare una ulteriore gravidanza oltre quella che la sua ‹‹biologia››

le sta imponendo.

Il bambino, che alla nascita non corrisponde al bambino immaginario dei suoi

genitori o è addirittura assente nella mente dei genitori, vivrà la sua vita sin dai suoi

inizi nel ruolo di capro espiatorio, in condizioni di abuso, deprivato di cure, o seviziato,

maltrattato fisicamente o costretto ad essere come i genitori lo vogliono o ad essere il

ricettacolo delle parti negative della famiglia. Vivrà in una condizione in cui il

parametro della normalità è ciò che lui riceve e non risponderà reagendo e

arrabbiandosi con il mondo e con gli uomini ma generando un profondo senso di colpa

che, poiché si struttura in una fase iniziale dello sviluppo, è un senso di colpa arcaico

dovuto ad una colpa senza nome commessa dal bambino, che Neumann ha chiamato

‹‹senso di colpa primario›› (E. Neumann. 1980), che ha una connotazione archetipica.

Per tutto il suo sviluppo il senso di colpa primario determina nel bambino la

convinzione che non è amato perché è un anormale, immondo, secondo la logica che

‹‹essere amati significa che si è stati buoni; mentre se non si è amati significa che si è

cattivi›› (E. Neumann, 1980). Il senso di colpa permane lasciando ilo bambino nella

solitudine e nello smarrimento in un mondo che è caos e annullamento, ed espulso

dall’ordine naturale, dubita poi del proprio diritto all’esistenza.

Oltre al ‹‹senso di colpa primario››, con il suo potere devastante e psicotizzante,

il bambino è sollecitato da altri sentimenti, soprattutto quando il suo Io, seppur fragile,

ha la possibilità di un qualche funzionamento: l’angoscia per gli abusi subiti e per

l’attesa e la minaccia del loro imminente ripetersi, la depressione derivante dalle carenti

cure affettive e dal pericolo di perdere garanzie affettive, il senso di colpa secondario,

derivante dal provare sentimenti di ira, rabbia, ostilità, che sono reazioni normali in

altre condizioni di vita, non sono permessi né accettabili in un contesto ambientale

abusante in cui al bambino non è dato viverli, esprimerli, descriverli, ma ci si deve

difendere per impedire che le sue verità siano evidenti soprattutto a sé stesso. Ora, quel

bambino diventerà adulto. E se è una ‹‹bambina›› diventerà donna. E probabilmente

‹‹mamma››. E allora?

Le conseguenze sono abbastanza prevedibili, se mettiamo insieme i tanti

elementi raccolti sino a questo momento.

Le neuroscienze sono ad un passo dallo scoprire finalmente l’inconscio. Sarà

questa la svolta. Per chi come me questo lo ha sempre pensato non è che una conferma.

Per molti altri sarà un mea culpa dal sapore amaro. Ciò che lo psicoanalista

Silvano Arieti, 50 anni fa, aveva ipotizzato sulla depressione e sulla schizofrenia, oggi,

con l’ausilio di esami strumentali più che mai sofisticati, è stato perfettamente

dimostrato, come ad esempio la deafferentazione frontale in corso di schizofrenia. Lo

straordinario prodigio cui stiamo assistendo è quello di vedere confermato proprio dalle

neuroscienze quanto postulato dalla psicoanalisi quando tale supporto non era neppure

ipotizzabile. Questo conferisce, al dialogo psicoanalitico, un valore ancora più grande.

Viene oggi con convinzione ristabilita la centralità dell’emozione in quanto in grado di

permettere alla coscienza di esistere. ‹‹Emozione e coscienza›› sono intimamente

congiunte, ed è dal loro interscambio reciproco che l’individuo si costituisce realtà

reagente all’ambiente in cui è collocato. Secondo la teoria del ‹‹dual aspect monism››,

mente e cervello sono in sostanza la medesima cosa, pur utilizzando due linguaggi

differenti. L’uomo è l’insieme delle connessioni che si sono stabilite nel corso della

storia dell’individuo. Ritorna, come vediamo, la storia a decidere chi siamo. L’indagine

analitica altro non è se non una lettura critica della storia. L’uomo si distingue dagli

altri animali non solo per il possesso e la trasmissione di generazione in generazione di

quell’apparato sovrabiologico che è la civiltà, ma anche, se la storia e i cambiamenti

nel tempo sono caratteristiche essenziali della civiltà umana e quindi dell’uomo, per il

desiderio di cambiare la propria civiltà. E quindi di ‹‹cambiare se stesso››. Nel creare

la storia l’uomo ‹‹crea se stesso››. Il processo storico poggia dunque sul desiderio

dell’uomo di diventare altro da ciò che è.

E tale desiderio è sostanzialmente un desiderio inconscio. Ancora oggi l’umanità

crea la storia senza essere assolutamente consapevole di ciò che vuole realmente o di

quali condizioni sarebbero necessarie per porre fine alla sua infelicità; di fatto ciò che

sta facendo sembra renderla sempre infelice. Tale infelicità si chiama progresso, ma si

veste di depressione. E così, dal desiderio, dalla rimozione, dalla sofferenza dell’anima,

si giunge al compromesso con il corpo, con la sua carne. In una realtà olistica, quella

della malattia.

In questa sede sarà chiaro come l’elemento biologico non faccia altro che

sposare quanto l’arte psicoanalitica sta cercando da sempre di affermare, ossia che

l’uomo vive nell’equilibrio delle istanze psicologiche dell’Es (inconscio), che vive in

ossequio al principio di piacere, dell’Io che vive in ossequio al principio di realtà e del

Super-Io che si pone quale giudice, quale arbitro dell’incontro-scontro tra ‹‹Inconscio››

ed ‹‹Io››. I neurotrasmettitori cerebrali altro non sono se non le parole attraverso le

quali esse si inviano i ‹‹messaggi d’amore e di odio›› lungo le miliardi di sinapsi che

collegano tra loro tutti i miliardi di neuroni in dotazione ad ogni essere umano.

Ebbene, la risposta al perché della fenomenologia della depressione e forse della

gran parte dei disturbi psichiatrici la neuropsicobiologia ce la fornisce. Essa va sotto il

nome di ‹‹Serotonina››. Verosimilmente rappresenta il messaggero universale del

viaggio dell’uomo verso l’Infinito. Gli altri neurotrasmettitori risentono in diverso

modo della veicolazione della serotonina nei circuiti cerebrali, ecco perché ritengo che

il ruolo chiave sia senza ombra di dubbio giocato proprio dalla serotonina lungo il

percorso storico dell’uomo. Ed a riprova di ciò è stato dimostrato come il sottotipo

recettoriali 5-HT4 a livello del SNC sembri modulare il progressivo rilascio di vari

neurotrasmettitori quali acetilcolina, dopamina, serotonina stessa, gaba, potenziando la

trasmissione sinaptica e la memoria. I corpi dei neuroni serotoninergici sono localizzati

sulla linea mediana del tronco cerebrale a livello di bulbo, ponte e mesencefalo,

concentrati nei nuclei del rafe. I nuclei del rafe danno origine ad un gruppo omogeneo

di neuroni che proiettano i propri assoni verso tutte le principali aree del Sistema

Nervoso Centrale (SNC): corteccia, talamo, amigdala, ippocampo, nuclei della base,

nucleo accumbens, cervelletto, midollo spinale. Le fibre serotoninergiche che

proiettano verso le lamine I e II e verso il nucleo spinale del trigemino, indicano un

coinvolgimento del sistema serotoninergici nel controllo del dolore.

La serotonina, attraverso le sue proiezioni verso le diverse aree cerebrali,

partecipa al controllo di numerose funzioni come il sonno, il tono dell’umore, l’ansia

e la paura, l’aggressività, la motivazione e la ricompensa, l’apprendimento e la

memoria, il controllo della fame, le funzioni sessuali, la regolazione dei ritmi

circadiani, la regolazione del sistema neuroendocrino, la risposta allo stress e la

sensibilità al dolore. Non posso non soffermarmi un attimo sull’importanza di tutto ciò.

Lo stesso mediatore responsabile del disturbo psichiatrico che terrorizza solo a

pensarlo è poi colui il quale ci permette di vivere in un certo senso la nostra umanità,

di esperire stati d’animo, sensazioni, di sognare, di conoscere, in una parola, di vivere.

E allora qual è il senso di tutto ciò? Lascio al lettore la sua personale risposta. Sembra

oramai dimostrato come la vita serotoninergica che inizia nel Nucleo Mediano del Rafe

e innerva l’ippocampo dorsale aumenti la resistenza e la tolleranza allo stress, per cui

la modulazione del sistema serotoninergici influenzerebbe le arre principali coinvolte

nel Disturbo di Panico, ad esempio, attraverso una rapida riduzione dell’attività

noradrenergica, una riduzione del rilascio di CRF ed una modificazione dei

comportamenti di difesa/fuga. In corso di Depressione, così come in molte altre

malattie psichiatriche, il livello di serotonina cerebrale è ridotto. E’ stata riscontrata,

nei soggetti con condotte suicidarie, una riduzione del binding del traportatore della

serotonina a livello della corteccia prefrontale dorso laterale, orbito frontale ed a livello

del talamo. La presenza di una riduzione del trasportatore in soggetti con condotte

suicidarie concorda con il riscontro di una relazione tra riduzione della funzione

serotoninergici e discontrollo degli impulsi.

Qui si impone un’altra riflessione. Nelle patologie in cui il soggetto non è in

grado di controllare i propri impulsi (Piromania, Gioco d’azzardo patologico,

Cleptomania, Disturbo esplosivo intermittente, Tricotillomania), il livello di serotonina

è vieppiù basso, così come accade nella depressione ed in molte altre malattie

psichiatriche, tant’è vero che la terapia per tali disturbi è condotta con SSRI per

aumentare il livello proprio di serotonina. E allora appare più che mai chiaro come un

soggetto depresso non possa riuscire a controllare i propri impulsi perché colui il quale

determina il padroneggia mento, il controllo appunto degli impulsi proprio a livello

biologico, è da egli prodotto in scarsa, scarsissima quantità.

Di conseguenza egli è fortemente a rischio di compiere qualcosa che si impone

senza che riesca a frenarla in alcun modo. Lo stesso discorso vale per il ‹‹disturbo

ossessivo-compulsivo››, ossia per quella particolare situazione in relazione alla quale

il soggetto non riesce a controllare i suoi pensieri, che gli si impongono al di là di ogni

suo sforzo di cacciarli via, ed assumono un carattere coercitivo obbligandolo a dei

comportamenti che egli non vorrebbe ma che divengono indispensabili, inarrestabili

nel loro attuarsi. Anche qui il livello di serotonina è più che mai ridotto ed il soggetto

può potenzialmente commettere qualsiasi gesto, associandolo a qualsiasi pensiero. Ma

non è ancora finita. Sembra che le aree maggiormente coinvolte nell’ ‹‹ansia sociale››

siano rappresentate dall’amigdala, dai gangli basali e dai circuiti frontali; dato che il

sistema serotoninergici si estende sia a livello dell’amigdala che a livello dei circuiti

corticostraiatali, è possibile ipotizzare che la serotonina rivesta un ruolo anche nella

genesi dell’Ansia Sociale. Modelli animali hanno dimostrato che una riduzione della

funzione serotoninergici porta all’evitamento di comportamenti sociali di tipo

affiliativi, mentre l’incremento della funzione serotoninergici porta ad un incremento

della socializzazione. Questo quindi ci dice come un soggetto con depressione tenda a

distaccarsi emozionalmente e fisicamente dagli altri. E allora una mamma può anche

arrivare a non percepire più il proprio figlio con quel trasporto emozionale che ci

aspetteremmo. L’Ansia è definibile come uno stato di inquietudine, un’attesa timorosa

di eventi negativi, infausti, ma, mentre la paura è un’emozione che origina da una

minaccia reale, l’ansia è priva di un oggetto o di un evento scatenante definito,

configurandosi come una risposta ad un pericolo indefinito, vago, verso il quale

l’individuo percepisce un sentimento di inadeguatezza. E’ quindi una risposta emotiva

fisiologica, in quanto determina un aumento della vigilanza e dell’attenzione al fine di

affrontare al meglio situazioni di stress; se però si manifesta in assenza di fattori

scatenanti o si protrae nel tempo o si rivela controproducente ed interferisce con il

funzionamento globale dell’individuo, diviene patologica.

Recentemente, l’ipotesi neuroanatomica del Disturbo di Panico, è stata rivista

alla luce delle nuove acquisizioni ottenute dalla ricerca preclinica nel settore della

neurobiologia dei meccanismi di ansia, paura ed evitamento e dalle evidenze cliniche

dell’efficacia terapeutica degli SSRI. Risulta chiaro che l’attacco di panico rappresenta

una risposta comune a varie cause ed è abbastanza simile alle conseguenze fisiologiche

e comportamentali che si osservano negli animali da esperimento in seguito a stimoli

condizionati dalla paura. Queste risposte sono verosimilmente mediate da specifici

circuiti cerebrali che coinvolgono primariamente l’amigdala e le sue proiezioni

all’ippocampo, alla corteccia prefrontale, all’ipotalamo ed al tronco encefalico. Al

centro del vissuto di ansia sono entrate di prepotenza l’amigdala e le strutture limbiche,

che sappiamo essere il crocevia delle emozioni. E qui ritorna la serotonina. Il

trasmettitore per eccellenza. Quindi una alterazione nel suo fluire diviene importante

nel gestire le emozioni e nell’esperire in un certo modo una sensazione di ansia e di

paura. Ma questo è intimamente legato poi a tutto l’apparato simbolico di cui la nostra

mente si nutre, a tutto l’universo fantastico in cui è orbitante. E così la serotonina,

ancora una volta, entra di diritto nella nostra psiche e ci resta.

In ultima analisi vorrei citare la relazione che lega serotonina alla Psicosi, cioè

alla patologia psichiatrica per eccellenza, quella che comunemente etichettiamo con il

termine tremendo di Schizofrenia.

La ‹‹Psicosi›› viene definita come una sindrome in cui si ha una compromissione

del giudizio di realtà caratterizzata in primis da ‹‹deliri›› ed ‹‹allucinazioni››. Con

particolare riferimento alla Schizofrenia queste manifestazioni vengono definite come

sintomi positivi (‹‹o più recentemente come dimensione psicopatologica della

distorsione di realtà››), mentre in senso lato vengono considerati come psicotici anche

sintomi come ritiro sociale, appiattimento affettivo, abulia, definiti come sintomi

negativi o, meglio, dimensione ‹‹impoverimento››. Nel corso degli anni è stata raccolta

una grande mole di dati riguardo al coinvolgimento della 5-HT nella genesi dei sintomi

delle ‹‹dimensioni psicopatologiche›› considerate cruciali nelle Psicosi.

Principalmente gli studi hanno seguito tre linee di evidenza: 1) azione psicotomimetica

di molecole con meccanismo d’azione tipicamente serotoninergico; 2) alterazione del

metabolismo serotoninergico in pazienti psicotici (studi sul liquor, sulle piastrine e

post-mortem); 3) azione efficace di farmaci con meccanismo serotoninergico nel

ridurre sintomi psicotici spontanei o indotti. Una ultima considerazione in merito a

questo è relativa al fatto che il ‹‹Disturbo Borderline›› di personalità con le sue condotte

molto spesso imprevedibili e disastrose sia per l’individuo in questione che per chi gli

vive accanto, riconosce un intervento di carattere farmacologico basato sugli SSRI ad

altissimi dosaggi, a riprova di quanto la serotonina sia invischiata in problematiche di

personalità che possono anche passare non diagnosticate in quanto apparentemente

compatibili con una modalità di vita normale, ma che in realtà possono essere causa di

situazioni terribili, come stiamo avendo modo di comprendere con sempre maggiore

amarezza, negli ultimi tempi.

Siamo allora arrivati al dunque. Una riduzione di serotonina può anche essere

responsabile di taluni, a volte anche molto gravi, sintomi psicotici. Credo che a questo

punto il quadro si sia definitivamente chiarito. Nel momento in cui il soggetto è in

preda ad un episodio depressivo, in relazione al suo ridotto livello di serotonina

circolante, egli è in balia di ansia, angoscia, panico, ossessioni, compulsioni, deliri ed

allucinazioni. Non è più padrone di sé. Potrebbe attuare qualsiasi comportamento,

anche quello più insensato.

Quando una donna viene in un certo senso obbligata a strutturare un assetto di

personalità a tipologia francamente ‹‹depressiva››, sarà oltremodo persuasa di essere

fondamentalmente ‹‹cattiva››. Si lamenta della propria avidità, egoismo, competitività,

vanità, orgoglio, rabbia, invidia, lussuria. Ritiene perversi e pericolosi tutti questi

normali aspetti dell’esperienza.

Teme di essere, riprendendo Nancy Williams, ‹‹intrinsecamente distruttiva››.

Queste angosce possono assumere un tono più o meno orale ‹‹ho paura che la mia fame

possa distruggere gli altri››), o di livello anale (‹‹la mia opposizione e il mio sadismo

sono pericolosi››). Le personalità depressive hanno tratto dalle loro esperienze di

perdita non elaborate la convinzione che sia stato qualcosa in loro ad allontanare

l’oggetto. Hanno trasformato il sentimento di essere rifiutate nella convinzione

inconscia di meritare quel rifiuto, di averlo provocato con le proprie mancanze, e che

in futuro saranno inevitabili altri rifiuti se qualcuno arriverà a conoscerle intimamente.

Tentano con tutte le forze di essere persone ‹‹buone›› ma temono di essere

scoperte nelle loro pecche e allontanate come persone indegne.

E la reazione ad un senso di colpa che appare, in certi casi, incommensurabile,

può rivelarsi, purtroppo, assolutamente imprevedibile. Inoltre, in corso di un episodio

prolungato o meno di melanconia, si assiste ad una regressione della libido oggettuale,

cioè dell’investimento libidico sul mondo esterno, a livelli pregenitali di tipo ‹‹orale

cannibalico›› e ‹‹sadico-anale››, mentre l’Io opera una intensa regressione di carattere

narcisistico; entrambi i movimenti contribuiscono a costituire, nella vera posizione

melanconica, l’autenticità dell’organizzazione psicotica.

In questa situazione tutto corre il rischio di complicarsi vieppiù sia per il soggetto

presentante la fenomenologia depressiva, sia per chi gli vive accanto.

Se a ciò aggiungiamo la concreta possibilità, a mio avviso, che una ‹‹posizione

depressiva››, riprendendo per un istante la Klein, sia semplicemente il compromesso

finale messo in atto dall’Io per eclissare in qualche modo la terrificante sensazione

legata all’emergere di una ‹‹posizione schizoparanoide››, assai pericolosa, il quadro

assume contorni assolutamente chiari in relazione alla possibilità concreta di produrre,

in realtà, agiti in grado di sfuggire a qualsivoglia prevedibilità, a qualsivoglia

paradigma morale, ideologico, nel senso più allargato, ‹‹umano››.

Una mamma lasciata sola con il suo dolore di vivere, con il peso di un disagio

così difficile da spiegare, può lentamente ma inesorabilmente riappropriarsi di una

modalità di lettura della realtà denominata ‹‹pensiero magico››, quella per intenderci

propria dei bambini e degli uomini primitivi, ma anche dei soggetti fobici ed ossessivi,

ad esempio. Si tratta della convinzione di potere, mediante azioni, pensieri e parole,

incidere sul corso degli eventi. ‹‹Azioni››, ‹‹pensieri›› e ‹‹parole›› allora divengono

dunque, in un certo senso, ‹‹onnipotenti››.

Dentro questa cornice si viene a collocare quel ‹‹gesto estremo›› in virtù del

quale finalmente dare una ‹‹risposta›› alla solitudine esistenziale, all’oblio dell’essere,

alla paura atroce della morte.

Amore e morte si incontrano ancora, come Ares ed Afrodite, come il buio e

l’aurora, come la pioggia ed il deserto, come il corpo e la sua anima.

Una leggenda persiana racconta che quando Dio creò l’uomo ordinò a tutti i suoi

angeli di prostrarsi davanti a lui, ma Lucifero, che amava ed adorava Dio più di ogni

altra cosa, non accettò di prostrarsi dinanzi a qualcuno che non fosse Dio stesso, anche

se a chiederglielo era stato proprio Dio. Per questa ragione fu condannato a vivere

nell’Inferno per tutta l’eternità, lontano da colui che egli amava come nessuno mai.

L’inferno allora come privazione dell’amore ‹‹vitale››. Un delitto, di

conseguenza, come agito insostituibile affinchè quell’amore agognato, quel miraggio

inarrivabile eppur tremendamente vicino, quel corpo muto di emozioni riesca, a

raggiungere lo stesso inferno in cui l’amante punito giace mesto. Un corpo privato

d’amore si trasforma. Kafka ha saputo descrivere mirabilmente tale ‹‹metamorfosi››,

in grado di massacrare la carne penetrandola e calcificandola perché non restasse più

traccia di ciò che c’era prima, di un’emozione difficile da sopportare, di un sogno mai

sognato da cancellare. Per fuggire dal ‹‹vuoto di vivere›› Grete, così come amava

chiamarlo sua mamma, lasciò che il suo essere nel mondo divenisse un ‹‹mostro››, un

orribile mostro, mosso da un disperato sforzo di rassegnazione per una vita trascorsa

nella sterile quotidianità, e forse, in ultima analisi, di estrema giustificazione.

Una giustificazione che non riuscirà a lenire lo struggente dolore di Medea,

protagonista della omonima ‹‹tragedia›› di Euripide, una creatura ferina dalla durezza

rocciosa, inflessibile come il ferro, intrisa di odio e passione che scorrono come cascata

impetuosa e trovano il loro culmine nella vendetta di una belva tradita, in un agito

irrimediabile che brucia l’essenza stessa della maternità e con essa della femminilità.

Ferendo a morte i suoi piccoli ella tenta invano di ignorare le proprie assurde

ferite, trasformandosi irrimediabilmente, come le profetizzerà la banditrice Corifea,

nella ‹‹più triste delle donne›› Ishtar, la dea della luna che dà e che toglie la vita,

dispensatrice della vita ma anche distruttrice della vita stessa, regina del Cielo e della

Terra ma anche dell’Inferno, ritorna con tutta la sua violenza di ‹‹madre›› sulla scena

del mondo.

Ishtar, nel suo simbolizzare l’inconscio, diviene la dea dell’Immortalità, ma è

allo stesso tempo la regina degli Inferi, di quel mondo cioè incontrollato ed

incontrollabile di impulsi distruttivi, catastrofici, devastanti. Nelle sue forme

continuamente mutevoli essa interpreta tutti i possibili ruoli femminili. E’ chiamata

figlia e sorella del dio lunare, il quale nello stesso tempo è anche suo figlio. E’ la donna,

la personificazione, come direbbero i Cinesi, dello ‹‹Yin››, il principio femminile,

l’Eros. Per le donne è il principio stesso del loro essere. Per gli uomini la mediatrice

tra se stessi e la fonte segreta della vita nascosta nelle profondità dell’inconscio.

Ma come abbiamo detto Ishtar è soprattutto la dea dell’immortalità, e come tale

la speranza, la possibilità di vita dopo la morte. Immortalità come superamento della

morte, e quindi come incorporazione della morte stessa.

Un gesto delittuoso a partenza dalla madre o diretto alla madre allora si appropria

di un significato simbolico straordinario, incorporando la ‹‹morte-madre-utero-mare››

perché ci sia un nuovo parto, una rigenerazione, una rinascita che ha superato la morte,

divenendo più forte, più pura, in una parola, ‹‹immortale››.

Per gli egiziani Iside sarà la vergine in grado di concepire il suo primogenito

prima di nascere essa stessa. Nel suo ‹‹hieros gamos››, cioè nel matrimonio sacro con

il dio, quando cioè tutti i suoi istinti avranno il sopravvento totale su di lei lasciandola

in balia di sé stessa, nel vortice di una passionalità inarrestabile, permettendole di

superare tale condizione divenendo, con la consapevolezza di ciò donna ‹‹una-in-se-

stessa››, in possesso finalmente della sua anima maschile, il contatto con l’infinito, così

tanto agognato, sarà finalmente compiuto.

Adone viene aggredito da un orso, nel quale Afrodite, sua madre, si era

trasformata. Attis si castra e si uccide dopo essere stato reso folle da sua madre Cibele.

Hor, il figlio di Iside, fu ucciso da Set, che sua madre rimandò in libertà dopo che il

figlio glielo aveva portato in catene, sapendo bene quello che poi avrebbe fatto. In

questi miti vediamo la duplicità della figura materna. Ritorna l’ambiguità dalla quale

eravamo partiti. Una madre che sa essere ad un tempo radiosa e compassionevole,

piena di amore materno e di pietà, ma contemporaneamente riesce ad essere oscura e

feroce, terribilmente cattiva, non tollerando la dipendenza infantile del figlio, poiché la

debolezza e l’attaccamento del figlio la indeboliscono, proprio come la sua eccessiva

sollecitudine indebolisce il figlio stesso. Per gli indiani il Grande Signore ‹‹Shiva››,

dominatore assoluto dell’Infinito, si manifesta attraverso la sua controparte femminile,

‹‹Shatki››, nei fenomeni del mondo i quali si rivelano in tutta la loro molteplicità, e

ritornano quindi di nuovo nella divinità. Shatki, la madre, diventa ‹‹Kali››, la

Distruttrice, e Shiva accompagna con la sua danza il mondo nella distruzione e nel

nulla, come in precedenza con la sua stessa danza l’aveva creato.

Per finire vorrei ricordare il mito nordico delle ‹‹Valchirie››, il quale credo

riassuma bene quanto abbiamo cercato di sviluppare in questo excursus che ci ha

portato attraverso un tempo ed un luogo, quello psichico, laddove si insinuano

silenziose le ragioni delle nostre scelte, assai lontano, fino a farci afferrare un passato

che è allo stesso tempo presente e futuro, principio e fine, nulla ed infinito. Ed in questo

passato un volto, uno sguardo, una emozione soltanto si fa carico del peso insostenibile

dell’essere che nasce, vive e muore, ogni giorno, ogni attimo. E’ uno sguardo di donna,

quello di mamma. Ecco allora il perché quest’ultima riflessione. La valchyrja è colei

che sceglie i caduti (‹‹Kiria›› su kjòsa sta per ‹‹scegliere››, mentre i ‹‹valr›› sono i

caduti). Uno straordinario guerriero, una invincibile amazzone che arrivava a cavallo

sul campo di battaglia simile ad una furia.

Semmai un soldato ne avesse percepito la presenza, avrebbe esperito la terribile

sensazione di sentire l’alito della morte soffiare su di lui. La sua fine sarebbe stata

vicina.

E così la stessa valchiria, che nella sua ambiguità unisce la violenza di un feroce

soldato alla grazie di un meraviglioso cigno bianco, lo avrebbe preso con sé e lo

avrebbe condotto al cospetto del Grande Padre, attraverso un lungo viaggio nel cuore

degli Inferi, e, una volta giunti a destinazione, avrebbe accolto essa stessa il solfato

prescelto nel luogo sacro del Valalla, offrendogli in dono un corno ricolmo di idromele.

Come non leggere in questo mito tutto l’incanto legato alla donna-mamma, a colei cioè

che, attraverso la sua terribile umanità (la donna-guerriero, preda cioè dei suoi impulsi

ferini crudeli e spietati) diviene ‹‹guida››, veicolo cioè di ‹‹trasformazione››.

La valchiria, la mamma, come dispensatrice di conoscenza, come abbiamo visto,

del bene e del male, in grado di chiudere il ciclo terreno di ogni essere umano, di ogni

suo figlio. Scegliendo il destino del soldato ne sancisce inevitabilmente la fine. Proprio

come accade tra la mamma e suo figlio, in quegli anni irripetibili in cui le parole non

sono ancora entrate a far parte del patrimonio cognitivo del bambino, lasciando alle

emozioni la responsabilità di un compito così tremendo, così importante. Ma la

valchiria, piena di amore infinito, trascina il soldato morente con sé, su di sé, dentro sé,

attraverso il ‹‹male›› dell’Inferno, ‹‹uccidendolo›› e morendo, probabilmente insieme

a lui, abbagliata da un ‹‹sogno››, forse un ‹‹delirio››, quello di rinascere.

Nel gesto estremo con cui una mamma sancisce tragicamente il destino del

proprio figlio, come in quello mediante il quale un figlio sancisce, irrimediabilmente,

il destino della propria madre, è racchiuso, verosimilmente, l’ irrazionale desiderio,

frutto scongiurato di emozioni innocenti ed incontenibili, mai libere di viversi nella

loro autenticità durante il transagire dell’infanzia, di rinascere, di riscrivere le pagine

di una storia, quella della vita, alla luce della ‹‹conoscenza››, quella che inevitabilmente

si ottiene, come accade per la valchiria, passando attraverso la porta dell’Inferno.

Madre e figlio al confine di un terribile delirio, in quella tenue linea dove vita e morte

si perdono l’una nell’altra, dove piacere e dolore si sciolgono per diventare una

emozione indefinibile, come indefinibile era il ‹‹Caos›› dal quale la vita stessa è

originata, in un luogo che non c’è, in un tempo che non c’è mai stato, innestando un

rituale di trasformazione perpetuo che la avrebbe portata sino a noi.

Era un’aurora speciale, l’aurora che tingeva d’argento il mattino di quel 15

dicembre.

Il bagliore meraviglioso del sole nuovo rischiarava lieve i contorni morbidi di una

‹‹vita›› che, timida, sbocciava. Nell’illusione struggente di vivere un frammento di

Paradiso, avrebbe incontrato l’Inferno. Quel fiore non sarebbe mai germogliato.

Avrebbe preferito morire così da ritornare nel ventre della ‹‹terra››…….

Per ricominciare a sognare…di rinascere come fiore……nel verde prato del Paradiso.

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