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PUSKIN, Umili Prose

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La Russia attraverso gli occhi di un grandissimo: ne sentirete il sapore tra le labbra.

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I Classici Universale Economica Feltrinelli

Aleksandr Sergeeviç Pu√kin, considerato uno dei massimi poetidella Russia del XIX secolo e il padre della moderna letteratura rus-sa, fu autore di liriche, poemi, favole, romanzi, racconti, drammie saggi. Nato a Mosca nel 1799 da una povera famiglia aristocra-tica, cominciò molto presto a comporre versi. Fu allevato da baliee precettori, frequentò poi il liceo di Carskoe Selo ed ebbe succes-so fin dal primo poema, Ruslan e Ljudmila, pubblicato nel 1820.Impiegato al ministero degli Esteri, fece parte di un gruppo di ra-dicali, molti dei quali saranno coinvolti nella rivolta decabrista del1825. Nel 1820 fu cacciato dalla capitale e confinato a Ekaterino-slav, a causa di alcuni suoi componimenti poetici politici. Fu poitrasferito a Ki√inëv in Moldavia, dove scrisse tra l’altro Il prigio-niero del Caucaso, e quindi a Odessa. Dal 1824 fu costretto a vive-re in esilio, nell’isolamento della tenuta familiare di Michajlovskoe,vicino Pskov, e anche lì continuò a scrivere poemi, diventando benpresto il maggior rappresentante del romanticismo russo. Nel 1823aveva iniziato a comporre il romanzo in versi Eugenio Onegin, pub-blicato nel 1833. Nel 1826 il nuovo zar Nicola II gli consentì di tor-nare a Mosca in segno di perdono ma in cambio di ciò Pu√kin do-vette mostrare di aver rinunciato ai suoi sentimenti rivoluzionari.Nel 1830 si sposò con Natal’ja Goncarova, da cui ebbe quattro fi-gli. Durante il soggiorno a Boldino, nel 1830, scrisse alcune opereteatrali: Mozart e Salieri, Il festino durante la peste, Il cavaliere ava-ro e L’ospite di pietra. Nel 1831 pubblicò il dramma storico BorisGodunov e, in forma anonima, I racconti di Belkin. Nel 1834 pub-blicò La donna di picche e nel 1836 La figlia del capitano. Aveva an-che iniziato un’opera storica su Pietro il Grande che lasciò in-compiuta. Indebitato e infelice per il suo matrimonio, Pu√kin morìper difendere l’onore della moglie in un duello con il barone fran-cese Georges D’Anthès, a Pietroburgo, nel 1837.

Feltrinelli

ALEKSANDR S. PU◊KINUmili prose

I racconti di Belkin. La donna di picche.KirdΩali. La figlia del capitano

Traduzione e cura di Paolo Nori

Titolo delle opere originaliPOVESTI POKOJNOGO IVANA PETROVIÇA BELKINAPIKOVAJA DAMAKIRDˇALIKAPITANSKAJA DOÇKA

Traduzione dal russo diPAOLO NORI

© Giangiacomo Feltrinelli Editore MilanoPrima edizione nell’“Universale Economica” – I CLASSICIluglio 2006

ISBN 88-07-82184-2

www.feltrinelli.itLibri in uscita, interviste, reading,commenti e percorsi di lettura.Aggiornamenti quotidiani

Amici miei, che senso ha tutto questo?Io forse, se dal ciel fu decretato,d’esser poeta cesserò ben presto,e da un novello demone invasato,Febo sprezzando e la sua minacciosaira, coltiverò l’umile prosa;tanto per rallegrar con un raccontoalla maniera antica il mio tramonto,che non già di malvagi le vicendefosche e fatalità vi narrerò,ma con semplicità dipingeròd’una famiglia russa le leggende,i sogni dell’amor puri e soavied i costumi rustici degli avi.1

Evgenij Onegin, III, XIII

1 Traduzione di Ettore Lo Gatto.

Nota sulla pronuncia dei nomi e delle parole russe

Nei nomi russi e nelle parole russe la lettera ç si pro-nuncia come la c di cielo, la lettera √ più o meno come sc inscemo, la lettera Ω come la j francese (jeton), la √ç come scin sciare, la ch come il ch tedesco (ich), la z è la s sonora ita-liana (rosa), mentre la s è sempre sorda (sera), la c si pro-nuncia come la z in pazzo, la j come una i semivocalica (gio-co), la ë vale ió con o (chiusa) accentata, la y è una vocaleche sta a metà tra la i e la u.

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Questa traduzione è stata condotta sul testo della raccolta delle ope-re di A.S. Pu√kin disponibile in rete alla pagina www.rvb.ru/pushkin, checorrisponde al testo della raccolta delle opere in dieci volumi uscita tra il1959 e il 1962 per la ChudoΩestvennaja Literatura, a cura di D.D. Blagij,S.M. Bondi, V.V. Vinogradov e Ju.G. Oksman.

Le notti passavano inavvertitamente

di Paolo Nori

Ho cominciato a leggere Pu√kin in Algeria, nel 1985. Ave-vo ventidue anni e lavoravo lì e mi ero portato dall’Italia unlibro di Dostoevskij e nella prefazione citavano Pu√kin e rac-contavano com’era importante per la prosa russa dell’Otto-cento e avevo scritto a mia mamma e le avevo chiesto dimandarmi delle cose di Pu√kin, non le poesie, che sono tra-dotte, le prose che sono tradotte anche loro ma che unatraduzione è difficile che le rovini mentre una poesia una tra-duzione è difficile che la conservi.

Allora mia mamma mi aveva mandato una raccolta del-le prose di Pu√kin e io avevo cominciato a leggerla però nonmi era tanto piaciuta, all’inizio.

Le raccolte delle prose di Pu√kin sono ordinate quasitutte in ordine cronologico e la prima che vien pubblicatadi solito è Il negro di Pietro il Grande, cinque capitoli di unromanzo storico incompiuto che per il grande critico otto-centesco Vissarion Belinskij sono “infinitamente al disoprae migliori di qualsiasi romanzo storico russo preso a sé e ditutti quanti messi insieme”. Invece per me in Algeria mi eransembrati deludenti. “Ti è piaciuto Pu√kin?” mi aveva chie-sto mia mamma. “L’inizio l’ho trovato un po’ deludente,” leavevo risposto, “ma non l’ho ancora finito.”

Dopo poi mi eran piaciute, delle cose, lì dentro, non mieran piaciute quelle cose incompiute Il negro di Pietro ilGrande, Romanzo epistolare, Gli ospiti si radunarono in vil-la, Nell’angolo della piccola piazza, Le notti d’Egitto. Non chefossero brutte, erano un po’ deludenti.

Invece mi eran piaciute delle cose che poi, a pensarci, do-vevano essere quelle che eran piaciute anche a Pu√kin, se leaveva finite e pubblicate e poi, a pensarci, quelle che a me

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erano sembrate deludenti dovevano essere sembrate un po’deludenti anche a Pu√kin, se non le ha mai finite e non le hamai pubblicate.

Ecco, l’idea di fare una raccolta della narrativa di Pu√kincon solo le cose che Pu√kin ha pubblicato quando era vivo,forse era una buona idea, avevo pensato fin dal 1985 là inAlgeria e oggi, vent’anni dopo, delle volte la vita, la facciodavvero.

Allora dopo andare a guardare, la prima cosa in prosapubblicata da Pu√kin, anche se la pubblica in forma semia-nonima (chiede all’editore di sussurrare al libraio il suo no-me perché il libraio lo sussurri al lettore), sono I racconti diBelkin, che il fondatore della moderna slavistica italiana Et-tore Lo Gatto, nonostante il parere del grande critico otto-centesco Vissarion Belinskij (secondo il grande critico ot-tocentesco Vissarion Belinskij, I racconti di Belkin sono “l’au-tunno, l’autunno, il freddo piovoso autunno dopo una me-ravigliosa, splendida, fragrante primavera”),2 Ettore Lo Gat-to considera I racconti di Belkin un’opera fondamentale tan-to da dire che non è vero, quel che disse Dostoevskij che iromanzieri russi dell’Ottocento sono usciti tutti dal Cappot-to di Gogol’, è vero piuttosto che sono usciti dal Direttore del-la stazione,3 uno dei Racconti di Belkin.

La successiva opera in prosa pubblicata da Pu√kin, laprima che pubblica con il suo nome, è La donna di picche,che secondo il critico ottocentesco Vissarion Belinskij nonera un vero racconto, ma un semplice aneddoto.

Contro questa asserzione di Belinskij, Eridano Bazzarel-li pone l’accento sulla forma, della Donna di picche. “La pri-ma osservazione che si deve fare,” scrive Bazzarelli, “riguar-da ‘la forma’ del racconto: una forma del tutto ‘formata’.”4

Ma già qualche anno prima di Bazzarelli un critico so-vietico, lo Slonimskij, si dichiara in disaccordo con il gran-de critico russo Vissarion Belinskij e scrive che nella Don-na di picche “i complicati compiti compositivi sono risolticon geniale facilità e leggerezza”.

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2 Belinskij, Vissarion, Povesti, izdannye Aleksandrom Pu√kinym (Rac-conti pubblicati da Aleksandr Pu√kin), Pb, 1834, ora in A.S. Pu√kin: pro etcontra, Tom 1. Spb, 2001, p. 77.

3 Lo Gatto, Ettore, Pu√kin prosatore, in Pu√kin, A., Opere in prosa, vol.I, Roma 1946, p. 20.

4 Bazzarelli, Eridano, La donna di picche, in La donna di picche, Mi-lano 19942, p. 15.

“La congiunzione e fusione delle due linee della narra-zione,” scrive Slonimskij, “quella reale e quella fantastica,produce un’impressione quasi musicale. È maestosa comela fusione della volta in una cattedrale gotica. Per la sua se-vera nettezza di composizione, La donna di picche si avvi-cina alle opere architettonico-musicali”5 scrive Slonimskije anch’io, nel mio piccolo, fin dall’Algeria devo dire che que-sta musicalità io l’avevo sentita.

Segue poi un racconto che a me è sempre sembratoesemplare, un racconto di ambientazione greco-moldavo-turca con una scena che sembra presa da un western di Ser-gio Leone, KirdΩali, pubblicato da Pu√kin nel 1834 sulla ri-vista “Biblioteca per la lettura”.

E benché su questo racconto il grande critico russo Vis-sarion Belinskij non abbia mai scritto niente, io non me lason sentita di lasciarlo fuori dall’antologia, mentre mi sonosentito di lasciar fuori Il viaggio ad Arzrùm durante la cam-pagna del 1829, pubblicato sul “Contemporaneo” nel 1836,per via che è un diario di viaggio e non c’entra molto, colresto, resto che appartiene, nella mia testa, a una categoriaben precisa, anche se non so darle un nome.

C’è, nelle quattro opere in prosa che son qui raccolte,una specie di tono comune che produce un effetto comune.Sia nei Racconti di Belkin, che nella Donna di picche, che inKirdΩali, che nella Figlia del capitano si raccontano cose chesi son sentite raccontare da qualcun altro.

È un modo per tagliar fuori il problema della verosimi-glianza, è un modo per farla finita col narratore onniscien-te, è un modo per far nascere continuamente nel lettore ladomanda “Chissà se è vero?”, domanda che a me viene sem-pre quando leggo qualcosa che mi piace che mi sembra abi-ti sempre in una regione che sta a cavallo tra il sì e il no, epoi c’è dell’altro.

C’è un passo di Dovlatov in cui alcuni russi emigrati inAmerica si lamentavano del fatto che i propri figli, ameri-cani, non sapevano leggere il russo, e sarebbero cresciutisenza poter leggere Dostoevskij in originale. “Come faran-no?”, “Come faranno?”, “Come potranno vivere senza averletto Dostoevskij in originale?” si chiedevano tutti fino a che

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5 Slonimskij, A.L., O kompozicij “Pikovoj damy” (Sulla composizionedella “Donna di picche”), in Pu√kinist (Il pu√kinista), vol. IV, Pietrogrado1922, cit. in Lo Gatto, op. cit., p. 30.

uno non ha detto “Be’, anche Pu√kin, non ha mai letto Do-stoevskij in originale”.6

Ecco, la cosa incredibile, a leggere questi racconti e que-sto romanzo, è che furono scritti quando la letteratura rus-sa dell’Ottocento non esisteva.

Io tutte le mattine che mi svegliavo, in questo periodo chetraducevo le prose di Pu√kin, le Umili prose di Pu√kin, io quan-do entravo nello studio dopo aver fatto la doccia e la colazio-ne al mattino pensavo che io davvero avevo una fortuna.

Dopo per scrivere questo breve saggio introduttivo hocercato delle critiche sulla Figlia del capitano.

Più che nella critica del grande critico russo dell’Otto-cento Vissarion Belinskij, che alla Figlia del capitano prefe-riva l’incompleto Dubrovskij, e che della Figlia del capitanodiceva sbrigativamente che era una specie di Onegin in pro-sa, più che nella critica del grande Vissarion Belinskij io mison ritrovato nell’opinione espressa da Gogol’ in una dellesue lettere raccolte in quel libro terribile che è Brani sceltidalla corrispondenza con gli amici.

“In confronto con la Figlia del capitano,” scrive Gogol’,“tutti i nostri romanzi e racconti sembrano uno stucchevo-le sbrodolamento. La purezza e la schiettezza vi si trovanoad un gradino così alto che la realtà stessa sembra artificio-sa e caricaturale. Per la prima volta vengono messi in scenacaratteri autenticamente russi: il semplice comandante del-la fortezza, sua moglie, il tenente; la stessa fortezza col suounico cannone, la disorganizzazione dell’epoca e la sempli-ce grandezza della gente semplice: tutto ciò è non solo la pu-ra verità, ma perfino meglio della verità. E così dev’essere,questa è la vocazione del poeta: farci uscire da noi stessi efarci tornare in una forma purificata e migliore.”7

Parma, 9 aprile 2006

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6 Dovlatov, Sergej, Solo na IBM (N’ju-Jork. 1979-1990) (Solo all’IBM

[New York 1979-1990]), ora in Sobranie socinenij (Raccolta delle opere),t. 4, pp. 225-226.

7 Gogol’, Nikolaj Vasil’eviç, Brani scelti dalla corrispondenza con gliamici, Milano 1996, pp. 182-183.

RACCONTI DEL POVERO IVAN PETROVIÇ BELKIN

S.ra Prostakova:Proprio, signor mio, findall’infanzia gli piacciono le storie.Skotinin:Mitrofan somiglia a me.

Il minorenne8

8 Commedia di Denis Ivanoviç Fonvizin (1745-1792).

Nota dell’editore

Dopo esserci adoperati per la pubblicazione dei Rac-conti di I.P. Belkin oggi proposti al pubblico, desideravamoaggiungere ad essi una sia pur breve biografia del poveroautore e con questo soddisfare in parte la giusta curiositàdegli amanti delle patrie lettere. Per far ciò ci rivolgemmoa Mar’ja Alekseevna Trafilina, la più stretta parente ed ere-de di Ivan Petroviç Belkin; ma, purtroppo, da lei non ci fupossibile avere nessuna notizia, dal momento che il defun-to ella non lo conosceva. Ci consigliò di rivolgerci, a tal pro-posito, a un uomo rispettabile che era stato amico di IvanPetroviç. Seguimmo tale consiglio, e alla nostra lettera ri-cevemmo la sottoriportata auspicata risposta. La pubbli-chiamo senza cambiamenti né note di sorta, come prezio-sa testimonianza di un nobile modo di giudicare e di unaamicizia toccante e, nello stesso tempo, come notizia bio-grafia del tutto soddisfacente.

Egregio Signor mio ****,la sua rispettabilissima lettera del 15 del mese corren-

te, ho avuto l’onore di riceverla il 23 dello stesso mese, nel-la quale lei mi manifesta il desiderio di avere notizie detta-gliate sulle date di nascita e di morte, sulle occupazioni, sul-la condizione famigliare cosiccome sugli usi e i costumi delpovero Ivan Petroviç Belkin, che fu mio amico sincero e vi-cino di tenuta. Con mio grande piacere adempio a questosuo desiderio e le inoltro, egregio signor mio, tutto ciò che,della sua conversazione, così come delle mie proprie os-servazioni, posso ricordare.

Ivan Petroviç Belkin nacque da onesti e nobili genitorinell’anno 1798 nel villaggio di Gorjuchino. Il suo povero

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padre, il vicemaggiore Pëtr Ivanoviç Belkin, fu sposato al-la fanciulla Pelageja Gavrilovna della casata dei Trafiliny.Era uomo non ricco, ma temperato e, nel campo dell’eco-nomia, assai pronto d’ingegno. Il loro figlio ricevette l’e-ducazione elementare dal sagrestano del villaggio. A que-sto buon uomo egli doveva, pare, l’amore per le letture eper gli studi nel campo delle lettere russe. Nel 1815 entròin servizio nel reggimento di fanteria dei cacciatori (il gra-do non lo ricordo) nel quale rimase fino a tutto il 1823. Lamorte dei suoi genitori, occorsa in modo quasi contempo-raneo, lo costrinse a congedarsi e a tornare al villaggio diGorjuchino, sua patria.

Subentrato nella direzione della tenuta, Ivan Petroviç,a causa della sua inesperienza e del suo buon cuore, in bre-ve tempo trascurò l’impresa e indebolì il rigido ordine del-l’amministrazione paterna. Dopo aver cambiato lo starosta9

coscienzioso e sveglio del quale i contadini (come loro abi-tudine) non erano contenti, affidò la direzione del villaggioalla sua vecchia dispensiera, che aveva conquistato la suafiducia con l’arte di raccontar storie. Quella stupida vecchianon ha mai saputo distinguere una banconota da venticin-que rubli da una da cinquanta; i contadini, dei quali eracompare, non la temevano affatto; lo starosta che avevanoscelto li assecondava talmente, negli imbrogli che aveva-no concordato, che Ivan Petroviç fu costretto a eliminare lacorvée e a istituire un modestissimo tributo in natura; maanche allora i contadini, sfruttando la sua debolezza, il pri-mo anno ottennero a furia di preghiere uno sconto specia-le e gli anni successivi il tributo in natura lo pagarono perdue terzi con delle noci, con dei mirtilli rossi e con roba delgenere; e anche così pagavano in ritardo.

Essendo amico del povero genitore di Ivan Petroviç, sti-mavo fosse un dovere offrire anche al figlio i miei consiglie più di una volta mi offersi di ristabilire l’ordine prece-dente, da lui abbandonato. A questo fine, essendomi reca-to una volta da lui, chiesi i libri mastri, chiamai quel truf-fatore dello starosta e, in presenza di Ivan Petroviç, mi de-dicai a un attento esame degli stessi. Il giovane proprieta-rio all’inizio si mise a seguirmi con tutta l’attenzione e la di-

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9 In generale capogruppo, capoclasse, qui capo dei contadini di un vil-laggio (ai tempi della servitù della gleba).

ligenza possibili; ma quando dai conti risultò che negli ul-timi due anni il numero dei contadini era aumentato e ilnumero degli uccelli da cortile e dei capi di bestiame era di-minuito in modo particolare, Ivan Petroviç si contentò diqueste prime cognizioni e non mi ascoltò oltre, e nel preci-so momento in cui io, con le mie ricerche e con severi in-terrogatori, avevo ridotto quel truffatore dello starosta a unacondizione di straordinario smarrimento e l’avevo costret-to a un silenzio assoluto, con mio grande dispetto sentii IvanPetroviç che russava della grossa sulla sua sedia. Da quelmomento smisi di intromettermi nelle sue disposizioni am-ministrative e affidai i suoi affari (come faceva lui stesso)alle disposizioni dell’Altissimo.

Ciò non turbò in alcun modo, tuttavia, le nostre ami-chevoli relazioni; giacché io, compatendo la sua debolezzae la perniciosa sua negligenza, consuete tra i nostri giova-ni nobili, amavo sinceramente Ivan Petroviç; ed era del re-sto impossibile non amare un ragazzo così mite e sincero.Da parte sua, Ivan Petroviç aveva rispetto dei miei anni eaveva per me una cordiale propensione. Fin proprio al suotrapasso ci vedevamo quasi tutti i giorni, ed egli apprezza-va la mia semplice conversazione, benché per lo più né lenostre abitudini, né le nostre forme di pensiero, né i nostricostumi fossero affini tra loro.

Ivan Petroviç conduceva la vita più temperata, evitavaogni eccesso: non mi è mai successo di vederlo in stato diubriachezza (cosa che nella nostra regione si può conside-rare un inaudito miracolo); per lo stesso sesso femminileaveva invece grande inclinazione, ma la pudicizia era in luiveramente quella di una fanciulla.10

A parte i racconti, che vi degnate di menzionare nellavostra lettera, Ivan Petroviç ha lasciato un gran numero dimanoscritti, parte dei quali li ho io e parte li ha usati la di-spensiera per diversi usi domestici. Così l’inverno scorsotutte le finestre della sua dépendance erano ricoperte dallaprima parte di un romanzo che egli non aveva terminato. Isummenzionati racconti erano, sembra, la sua prima espe-rienza. Essi, come diceva Ivan Petroviç, per la maggior par-

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10 Segue un aneddoto che non pubblichiamo, considerandolo super-fluo; assicuriamo d’altronde il lettore che esso non contiene nulla di bia-simevole per la memoria di Ivan Petroviç Belkin. [N.d.A.]

te sono reali, e li aveva sentiti raccontare da personaggi di-versi.11 Tuttavia i nomi sono quasi tutti inventati da lui stes-so, e i nomi dei villaggi e dei paesi sono presi a prestito dal-la nostra contrada, per la qual cosa anche il mio paese è no-minato da qualche parte. Questo non dipese da qualche in-tenzione cattiva, ma esclusivamente da insufficienza im-maginativa.

Ivan Petroviç nell’autunno del 1828 si ammalò di feb-bre da raffreddore, mutatasi in febbre ardente, e morì no-nostante il vigilante zelo del nostro medico, uomo moltoabile, soprattutto nella cura delle malattie radicate, tipo icalli e cose del genere. Spirò tra le mie braccia nel trente-simo anno dalla nascita e fu seppellito nella chiesa del vil-laggio di Gorjuchino vicino ai suoi poveri genitori.

Ivan Petroviç era di statura media, gli occhi li aveva gri-gi, i capelli chiari, il naso dritto; il volto era bianco e ma-grolino.

Ecco, egregio signor mio, tutto quello che ho potuto ri-cordare in merito al modo di vivere, alle occupazioni, alleabitudini e all’aspetto esteriore del mio povero vicino e ami-co. Ma nel caso in cui vi venisse in mente di fare di questamia lettera un uso qualsiasi, docilissimamente prego di nonmenzionare il mio nome; dal momento che, benché io mas-simamente rispetti e ami gli scrittori, entrare nel loro no-vero lo stimo eccessivo e, alla mia età, indecente. Con il sin-cero sentimento del mio rispetto eccetera.

1830 novembre 16Villaggio Nenaradovo

Considerando un dovere esaudire la volontà del rispetta-bile amico del nostro autore, gli esprimiamo la nostra profon-da riconoscenza per le notizie procurateci, e speriamo che ilpubblico apprezzi la sua sincerità e la sua bonomia.

A.P.

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11 Effettivamente, nel manoscritto del sig. Belkin sotto ogni raccontoè scritto, di mano dell’autore: sentito dalla tal persona (grado o titolo e ini-ziali del nome e del cognome). Trascriviamo per i ricercatori curiosi. Il di-rettore della stazione gli è stato raccontato dal consigliere titolare A.G.N.,Lo sparo dal tenente colonnello I.L.P., Il fabbricante di bare dal fattore B.V.,La tormenta e La signorina contadina dalla fanciulla K.I.T. [N.d.A.]

Lo sparo

Ci siamo battuti.BARATYNSKIJ12

Giuravo di ucciderlo perdiritto di duello (gli devoancora il mio sparo).La sera al bivacco13

I

Eravamo nel paese di ***. Si sa com’è la vita di un uffi-ciale dell’esercito. Al mattino studio, maneggio; pranzo dalcomandante di reggimento o in una locanda di ebrei; la se-ra punch e carte. A *** non c’era neanche una famiglia chericeveva, neanche una ragazza da marito. Ci trovavamo dal-l’uno o dall’altro, dove, a parte le nostre uniformi, non ve-devamo niente.

Un solo uomo apparteneva al nostro ambiente senzaessere militare. Aveva circa trentacinque anni, e noi perciòlo consideravamo vecchio. L’esperienza gli dava, di frontea noi, molti vantaggi; inoltre, la sua abituale tetraggine,l’indole violenta e la lingua cattiva avevano una grande in-fluenza sulle nostre giovani menti. Un che di misteriosocircondava la sua sorte; sembrava russo, ma aveva un no-me straniero. Aveva servito, in passato, negli ussari, e confortuna, anche; nessuno conosceva le ragioni che l’aveva-no spinto a ritirarsi dal servizio e a stabilirsi in paese do-ve viveva a un tempo poveramente e con prodigalità: an-dava sempre a piedi, con un logoro soprabito nero, ma man-teneva una tavola imbandita per tutti gli ufficiali del no-stro reggimento. È vero che il suo pranzo consisteva in dueo tre pietanze preparate da un soldato in congedo, ma in-tanto lo champagne scorreva a fiumi. Nessuno conoscevané le sue sostanze, né le sue entrate, e nessuno osava chie-

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12 Evgenij Abramoviç Baratynskij (1800-1844), poeta e amico perso-nale di Pu√kin, era noto nel primo Ottocento come “Il cantore della Fin-landia”.

13 Racconto del 1822 di Aleksandr Aleksandroviç BestuΩev-Marlinskij(1797-1837).

dergliene conto. Si trovavano da lui dei libri, per la mag-gior parte militari, e dei romanzi. Li dava volentieri in pre-stito, senza mai chiederli indietro; perciò non rendeva maiai proprietari i libri che aveva avuto in prestito. La sua oc-cupazione principale consisteva nel tiro con la pistola. Lepareti della sua stanza erano tutte tarlate dalle pallottole,tutte un foro come un alveare. Una ricca collezione di pi-stole era l’unico lusso della povera casa d’argilla in cui vi-veva. La maestria che aveva raggiunto era inverosimile, ese si fosse offerto di colpire una pera sul cappello di qual-cuno, nessuno nel nostro reggimento avrebbe esitato a of-frirgli la propria testa. Le nostre conversazioni riguarda-vano spesso i duelli; Sil’vio (lo chiamerò così) non interve-niva mai. Alla domanda se gli fosse successo di battersi, ri-spondeva secco che gli era successo, ma non scendeva neiparticolari, e si vedeva che domande del genere gli dispia-cevano. Noi pensavamo che avesse sulla coscienza qualchevittima disgraziata della sua terribile abilità. Del resto, nonci veniva neanche in mente di sospettare in lui qualcosa disimile alla paura. Ci sono persone il cui solo aspetto al-lontana sospetti del genere. Un avvenimento improvviso cisbalordì tutti.

Una volta dieci dei nostri ufficiali pranzarono daSil’vio. Si era bevuto come al solito, vale a dire moltissimo;dopo pranzo cercammo di convincere il padrone di casa atener banco. Rifiutò a lungo, giacché non giocava quasi mai;alla fine ordinò di tirar fuori le carte, versò sul tavolo unacinquantina di cervonez14 e si mise a far banco. Noi lo cir-condammo e il gioco cominciò. Sil’vio era abituato, quan-do si giocava, a restare in assoluto silenzio, non litigava enon spiegava mai. Se a un puntatore succedeva di sbaglia-re un calcolo, lui o pagava subito quello che mancava, o se-gnava quel che c’era in eccesso. Noi lo sapevamo già e lo la-sciavamo fare a modo suo; ma tra di noi c’era un ufficialetrasferitosi da noi di recente. Egli, giocando appunto quel-la volta, sbadatamente mise una posta in più. Sil’vio preseil gesso e pareggiò il conto come faceva di solito. L’ufficia-le, pensando che si fosse sbagliato, si mise a chieder spie-gazioni. Sil’vio in silenzio continuò a tener banco. L’ufficia-le, perdendo la pazienza, prese la spazzola e cancellò ciò che

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14 Monete da dieci rubli.

gli sembrava scritto inutilmente. Sil’vio prese il gesso e scris-se ancora. L’ufficiale, infervorato dal vino, dal gioco e dal ri-so dei compagni, si considerò crudelmente offeso e, furio-so, afferrato dal tavolo un candeliere di bronzo, lo gettò suSil’vio, che fece appena in tempo a schivare il colpo. Erava-mo increduli. Sil’vio si alzò, pallido di rabbia, e con occhiche mandavano scintille disse: “Egregio signore, favoriscauscire, e ringrazi Dio che questa cosa è successa in casa mia”.

Non avevamo dubbi sulle conseguenze, e considerava-mo il nuovo compagno già morto. L’ufficiale uscì imme-diatamente, dicendo che era pronto a rispondere dell’offe-sa come avrebbe fatto comodo al signore che teneva ban-co. Il gioco continuò ancora qualche minuto; ma, accor-gendoci che il padrone di casa non era dell’umore per gio-care, smettemmo uno dopo l’altro e ci dirigemmo ai nostriappartamenti, parlando dell’imminente posto vacante.

Il giorno dopo al maneggio ci chiedevamo già se fosseancora vivo il povero tenente quando egli stesso apparve tradi noi; facemmo anche a lui la stessa domanda. Rispose chedi Sil’vio non aveva ancora nessuna notizia. La cosa ci stupì.Andammo da Sil’vio e lo trovammo in cortile che piantavauna pallottola dopo l’altra in un asso attaccato al portone.Ci accolse come sempre, senza dire parola sugli avvenimentidel giorno precedente. Passarono tre giorni, il tenente eraancor vivo. Noi, stupefatti, ci chiedevamo: davvero Sil’vionon si batte? Sil’vio non si batté. Si accontentò di una lievespiegazione e fece pace.

Ciò avrebbe potuto nuocergli straordinariamente nel-l’opinione della gioventù. La scarsità di coraggio meno ditutto è scusata dai giovani, che nell’audacia di solito vedo-no la summa dei meriti umani e la scusa di ogni possibilevizio. Però piano piano tutto venne dimenticato, e Sil’vio ri-conquistò la sua antica autorità.

Io solo non potevo più avvicinarmi a lui. Avendo per na-tura un’immaginazione romantica, più di tutti, prima diquesto fatto, mi ero legato a un uomo la cui vita era un enig-ma e che mi sembrava l’eroe di qualche racconto misterio-so. Mi voleva bene: o comunque solo con me metteva daparte il suo abituale aspro sarcasmo e parlava di vari argo-menti con ingenuità e con un piacere non comune. Ma do-po quella sera infelice il pensiero che il suo onore era mac-chiato e non era stato lavato per colpa proprio sua, questo

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pensiero non mi abbandonava e mi impediva di trattarlocome prima; avevo vergogna a guardarlo. Sil’vio era trop-po intelligente ed esperto per non notarlo e non indovinar-ne la ragione. Sembrava che la cosa lo addolorasse; o co-munque notai in lui, un paio di volte, il desiderio di averecon me una spiegazione; ma sfuggii tali circostanze eSil’vio mi lasciò perdere. Da quel momento ci vedemmo so-lo in presenza d’altri, e le nostre schiette conversazioni delpassato si interruppero.

I distratti abitanti della capitale non hanno idea di tan-te impressioni molto comuni per gli abitanti dei villaggi odelle cittadine, per esempio l’attesa del giorno postale; ilmartedì e il venerdì la nostra fureria di reggimento era pie-na di ufficiali: chi aspettava soldi, chi lettere, chi giornali.I pacchi di solito venivano aperti lì, le notizie venivano co-municate e la fureria presentava un quadro animatissimo.Sil’vio riceveva le lettere all’indirizzo del nostro reggimen-to e di solito si trovava lì anche lui. Una volta gli diedero unpacchetto del quale strappò i sigilli con l’aria della massi-ma impazienza. Scorrendo la lettera, i suoi occhi scintilla-rono. Gli ufficiali, ognuno impegnato con la propria lette-ra, non notarono niente. “Signori,” disse loro Sil’vio, “le cir-costanze richiedono la mia assenza immediata; parto sta-notte; spero che non rifiuterete di pranzare con me un’ulti-ma volta. Aspetto anche lei,” continuò rivolgendosi a me,“l’aspetto senza fallo.” Ciò detto uscì in fretta, mentre noi,accordatici di ritrovarci da Sil’vio, ci lasciammo andandociascuno per conto suo.

Arrivai da Sil’vio all’ora prescritta e trovai da lui quasitutto il reggimento. Tutti i suoi beni erano già stati siste-mati; restavano solo i nudi muri crivellati dagli spari. Ci se-demmo intorno al tavolo; il padrone di casa era eccezio-nalmente di buon umore, e presto la sua allegria si fece ge-nerale; i tappi saltavano continuamente, i bicchieri traboc-cavano e tintinnavano incessantemente e noi, con tutta ladiligenza possibile e immaginabile, auguravamo al parten-te un buon viaggio e ogni bene. Ci alzammo da tavola or-mai a tarda notte. Mentre prendevo il berretto Sil’vio, cheaveva detto addio a tutti, mi prese per un braccio e mi fermònell’istante in cui mi preparavo a uscire. “Ho bisogno di par-lare con lei,” disse piano. Rimasi.

Gli ospiti se n’erano andati: eravamo rimasti in due, ci

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eravamo seduti l’uno di fronte all’altro e in silenzio aveva-mo acceso le pipe. Sil’vio era preoccupato; non c’era piùnemmeno una traccia della sua febbrile allegria. Un tetropallore, gli occhi scintillanti e il fumo denso che usciva dal-la sua bocca gli davano l’aspetto di un vero diavolo. Passa-rono alcuni minuti e Sil’vio interruppe il silenzio.

“Può darsi che noi non ci vedremo mai più,” mi disse,“prima della separazione volevo chiarirmi con lei. Avrà po-tuto notare che considero poco le opinioni altrui; ma a leivoglio bene, e sento che sarebbe stato penoso, per me, la-sciarle un’impressione sbagliata.”

Si interruppe e si mise a riempire la sua pipa spenta; iotacevo, gli occhi bassi.

“Le è sembrato strano,” continuò lui, “che non abbiachiesto soddisfazione a quell’ubriacone balzano di R***.Sarà d’accordo con me che avendo io il diritto di sceglierel’arma, la sua vita era nelle mie mani, mentre la mia eraquasi al sicuro; potrei attribuire la mia temperanza alla so-la magnanimità, ma non voglio mentire. Se avessi potutopunire R*** senza esporre minimamente la mia vita, perniente al mondo gliel’avrei fatta passare liscia.”

Guardai Sil’vio con stupore. Questa confessione mi met-teva in un grande imbarazzo. Sil’vio continuò.

“È proprio così: io non ho diritto di espormi alla mor-te. Sei anni fa sono stato schiaffeggiato, e il mio avversarioè ancora vivo.”

La mia curiosità fu molto sollecitata.“Non si è battuto con lui?” chiesi. “Le circostanze, pro-

babilmente, vi hanno separato.”“Mi sono battuto, con lui,” rispose Sil’vio, “ed ecco il ri-

cordo del nostro duello.”Sil’vio si alzò e tolse da un cartone un cappello rosso

con una nappa dorata, con un gallone (quello che i france-si chiamano bonnet de police)15: lo indossò; era attraversa-to da un foro di pistola a un ver√ok16 dalla fronte.

“Lei sa,” continuò Sil’vio, “che ho servito nel reggimen-to degli ussari***. Conosce il mio carattere: sono abituatoa primeggiare, ma da giovane questa era per me una ma-nia. Ai nostri tempi la furia era di moda: io ero il più furio-

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15 In francese nel testo.16 Antica misura di lunghezza russa corrispondente a 4,4 centimetri.

so dell’esercito. Ci si vantava dell’ubriachezza: io bevevo piùdel famoso Burcov,17 esaltato da Denis Davydov.18 Duelli nelnostro reggimento ce n’erano continuamente: io in tutti eroo testimone, o interprete. I compagni mi adoravano e i co-mandanti di reggimento, che cambiavano continuamente,guardavano a me come a un male necessario.

“Quietamente (o inquietamente) mi godevo la mia glo-ria, quando si sistemò da noi un ragazzo di ricca e nobilefamiglia (non lo voglio nominare). Mai nella vita avevo in-contrato un uomo così fortunato e così brillante. Si imma-gini la gioventù, l’intelligenza, la bellezza, l’allegria più vio-lenta, il coraggio più spensierato, un nome altisonante, sol-di da non saper quanti e che non gli finivano mai, e si im-magini che effetto dovette produrre tra di noi. Il mio pri-mato vacillò. Sedotto dalla mia gloria, cominciò a cercarela mia amicizia; ma lo accolsi freddamente, e lui senza nes-sun rimpianto si allontanò da me. Cominciai a odiarlo. Isuoi successi nel reggimento e nella società femminile miconducevano alla completa disperazione. Iniziai a cercaredi litigare con lui; ai miei epigrammi rispondeva con epi-grammi che mi sembravano sempre più sorprendenti e piùsottili dei miei e che, purtroppo, erano senza paragonepiù divertenti: lui scherzava mentre io m’incattivivo.

“Alla fine, una volta, al ballo di un possidente polacco,vedendolo oggetto dell’attenzione di tutte le signore, e so-prattutto della stessa padrona di casa, che aveva con me unarelazione, gli dissi in un orecchio una banale volgarità. Av-vampò e mi diede uno schiaffo. Ci gettammo sulle sciabo-le; le signore caddero in deliquio; ci separarono, e quellastessa notte andammo a batterci.

“Era l’alba. Ero nel luogo convenuto insieme ai miei tresecondi. Con un’impazienza che non si può dire aspettavoil mio avversario. Il sole primaverile era sorto, e il caldo giàsi faceva sentire. Lo vidi da lontano. Andava a piedi, con ladivisa sopra la sciabola, accompagnato da un padrino. Gliandammo incontro. Si avvicinava tenendo in mano un ber-retto pieno di ciliegie. I secondi ci contarono dodici passi.

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17 Aleksandr Petroviç Burcov (m. 1813), ufficiale degli ussari che i con-temporanei definiscono “Un accanito scapestrato”.

18 Generale russo (1784-1839), autore di canti militari all’epoca mol-to popolari.

Io avrei dovuto sparare per primo: ma l’emozione dell’astioera in me tanto forte, che non mi fidai della precisione delmio braccio e, per darmi il tempo di calmarmi, gli cedettiil primo sparo; il mio avversario non accettò. Proposero ditirare a sorte: il numero uno venne a lui, eterno beniaminodella sorte. Prese la mira e mi forò il berretto. Era il mioturno. La sua vita era infine nelle mie mani; lo guardai avi-damente, sforzandomi di cogliere almeno un’ombra di in-quietudine... Stava sotto il tiro della pistola scegliendo dalberretto le ciliegie mature e sputando i noccioli che volan-do arrivavano fino a me. La sua indifferenza mi fece anda-re su tutte le furie. Che vantaggio mi viene, pensai, a pri-varlo di una vita che non gli è affatto cara? Un pensiero cat-tivo mi passò per la testa. Abbassai la pistola. ‘Lei, sembra,ha altro per la testa che la morte,’ gli dissi, ‘faccia pure co-lazione, non la voglio disturbare.’ ‘Lei non mi disturba af-fatto,’ ribatté, ‘spari pure, o, del resto, faccia come crede:mi deve uno sparo; sarò sempre ai suoi ordini.’ Mi rivolsi aisecondi avvisandoli che non avevo intenzione di spararequel giorno, e con questo finì il nostro duello.

“Diedi le dimissioni e mi ritirai in questo paese. Da al-lora non è passato giorno senza che pensassi alla vendetta.Ed ecco che è venuta la mia ora...”

Sil’vio cavò dalla tasca la lettera che aveva ricevuto ilmattino e me la diede da leggere. Qualcuno (il suo incari-cato d’affari, sembrava) gli scriveva da Mosca che la notapersona doveva presto unirsi in matrimonio con una gio-vane e bellissima ragazza.

“Lei indovina,” disse Sil’vio, “chi è questa nota persona.Vado a Mosca. Vedremo, se prima delle sue nozze prenderàla morte con la stessa indifferenza con cui la aspettava tem-po fa con le ciliegie!”

Dette queste parole Sil’vio si alzò, gettò a terra il suoberretto e cominciò ad andare avanti e indietro per la stan-za come una tigre nella sua gabbia. L’avevo ascoltato im-mobile; strani, contraddittori sentimenti mi agitavano.

Entrò il servo e annunciò che i cavalli erano pronti.Sil’vio mi strinse forte la mano; ci baciammo. Sedette su uncarro dove stavano due valigie, una con le pistole, l’altra conle sue cose. Ci salutammo ancora una volta, e i cavalli si lan-ciarono al galoppo.

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II

Passarono alcuni anni, e per motivi famigliari fui co-stretto a stabilirmi in un povero villaggio del distretto diN***. Occupandomi di economia domestica, non smisi di rim-piangere in silenzio la mia precedente vita rumorosa e spen-sierata. La cosa più difficile fu abituarmi a passare le lun-ghe serate autunnali e invernali in assoluto isolamento. Fi-no all’ora di pranzo tiravo avanti in qualche modo, parlavocon lo starosta, giravo per affari o visitavo le nuove istitu-zioni; ma appena cominciava a far notte, non sapevo lette-ralmente dove sbattere la testa. Il piccolo numero di libriche avevo trovato sotto gli armadi e nella dispensa lo ave-vo imparato a memoria. Tutte le fiabe che si era potuta ri-cordare la dispensiera Kirilovna me le aveva raccontate; lecanzoni delle contadine mi annoiavano. Mi sarei messo abere degli amari, ma mi facevano venire mal di testa; sì, loconfesso, avevo paura di diventare un ubriacone per ama-rezza, cioè il più disgraziato degli ubriaconi, del che vedet-ti molti esempi nel nostro distretto. Veri e propri vicini dicasa non ne avevo, tranne due o tre afflitti la cui conversa-zione consisteva prevalentemente in singulti e sospiri. Erameglio la solitudine.

A quattro verste19 da me si trovava una ricca tenuta cheapparteneva alla contessa B***; ma in essa viveva solo l’am-ministratore, e la contessa aveva visitato la sua tenuta solouna volta, nel primo anno del suo matrimonio, e anche al-lora vi aveva vissuto non più di un mese. Però nella secon-da primavera del mio ritiro si diffuse la voce che la contes-sa e il marito sarebbero venuti in estate nel loro villaggio.E infatti arrivarono all’inizio del mese di giugno.

L’arrivo di un ricco vicino è una grande epopea, per chivive in campagna. I possidenti e i loro domestici ne parla-no da due mesi prima e per tre anni dopo. Per quanto miriguarda, lo confesso, la notizia della presenza di una gio-vane e bellissima vicina ebbe su di me un grande effetto; ar-devo per l’impazienza di vederla, e perciò la domenica se-guente il suo arrivo mi diressi dopo pranzo al villaggio di*** a presentarmi alle loro eccellenze come vicino più pros-simo e devotissimo servitore.

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19 Una versta corrisponde a 1,067 chilometri.

Un lacchè mi condusse nello studio del conte, e andò adannunciarmi. L’enorme studio era arredato con tutto il lus-so immaginabile; lungo le pareti c’erano degli armadi di li-bri, e su ognuno un busto di bronzo; sul camino di marmoc’era un grande specchio; il pavimento era rivestito di pan-no verde e coperto di tappeti. Avendo perso l’abitudine allusso, nel mio povero canto, e non avendo visto da temporicchezze altrui, ero intimorito e aspettavo il conte con unacerta trepidazione, come un postulante di provincia cheaspetti l’ingresso di un ministro. Le porte si aprirono ed en-trò un uomo sui trentadue anni, di bell’aspetto. Il conte misi avvicinò con aria cordiale e benevola; cercai di rincuo-rarmi e cominciai a presentarmi, ma egli mi anticipò. Ci se-demmo. La sua conversazione, disinvolta e cortese, dissipòpresto la mia timidezza selvatica; cominciavo già a pren-dere la mia posa abituale, quando d’un tratto entrò la con-tessa, e l’imbarazzo si impossessò di me più fortemente diprima. Era davvero una bellezza. Il conte mi presentò; avreivoluto sembrare disinvolto, ma più mi sforzavo di assume-re un atteggiamento naturale più mi sentivo goffo. Per dar-mi il tempo di rimettermi e di abituarmi alla nuova cono-scenza, si misero a parlare tra loro, trattandomi come unbuon vicino e senza cerimonie. Io nel frattempo mi misi adandare avanti e indietro, esaminando i libri e i quadri. Nonsono un conoscitore di quadri, ma uno attirò la mia atten-zione. Raffigurava un panorama svizzero, e mi colpiva inesso non la pittura, ma il fatto che il quadro fosse trapas-sato da due pallottole piantate una sull’altra.

“Ecco un bel tiro,” dissi rivolgendomi al conte.“Sì,” disse, “un tiro molto notevole. E lei, spara bene?”

continuò.“Egregiamente,” risposi, rallegrandomi del fatto che la

conversazione avesse toccato alla fine un oggetto che mi eracaro. “A trenta passi non sbaglio una carta, naturalmentecon delle pistole che conosco.”

“Davvero?” disse la contessa come se la cosa la interes-sasse molto, “e tu, amico mio, la colpisci una carta da tren-ta passi?”

“Prima o poi,” rispose il conte, “proveremo. A suo tem-po non sparavo male; ma son già quattro anni che non pren-do in mano una pistola.”

“Oh,” notai io, “in tal caso scommetto che sua eccellen-

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za non colpirebbe una carta a venti passi: la pistola richie-de un esercizio quotidiano. Questo lo so per esperienza. Danoi al reggimento ero considerato uno dei tiratori migliori.Una volta mi è successo per un mese intero di non prende-re in mano la pistola: le mie erano a riparare; cosa crede,sua eccellenza? La prima volta che ho sparato, dopo, ho fal-lito per quattro volte di seguito il bersaglio di una bottigliaa venticinque passi. Avevamo un capitano, spiritoso, sim-patico; si trovava lì e mi disse: sembra che tu, fratello, nonriesca a alzare la mano sulla bottiglia. No, sua eccellenza,non bisogna trascurare questi esercizi, si perde la pratica inun attimo. Il migliore tiratore che mi è riuscito di incontra-re sparava tutti i giorni, come minimo tre volte prima dipranzo. Per lui era la regola, come il bicchierino di vodka.”

Il conte e la contessa erano contenti che mi fossi mes-so a parlare.

“E come sparava?” mi chiese il conte.“Sparava così, sua eccellenza: succedeva che vedesse

una mosca sulla parete: lei ride, contessa? Succedeva chevedesse una mosca sulla parete e gridasse: ‘Kuz’ka, la pi-stola!’. E Kuz’ka gli portava la pistola carica. Lui spara, eschiaccia la mosca sulla parete.”

“È incredibile,” disse il conte, “e come si chiamava?”“Sil’vio, sua eccellenza.”“Sil’vio!” esclamò il conte, saltando su dal suo posto.

“Lei conosceva Sil’vio?”“Come non conoscerlo, sua eccellenza; eravamo amici;

nel nostro reggimento era considerato uno di noi; ma sonogià cinque anni che non ho sue notizie. E anche sua eccel-lenza, pare, lo conosceva?”

“Lo conoscevo, lo conoscevo bene. Non le ha racconta-to... ma no; non penso; non le ha raccontato un incidentemolto strano?”

“Forse uno schiaffo, che aveva ricevuto a un ballo da unperdigiorno?”

“E le ha detto il nome di quel perdigiorno?”“No, sua eccellenza, non l’ha detto... Ah, sua eccellen-

za,” continuai, avendo indovinato la verità, “mi scusi... nonsapevo... è forse lei?”

“Io stesso,” rispose il conte con aria straordinariamen-te turbata, “e il quadro trapassato è un ricordo del nostroultimo incontro...”

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“Ah, mio caro,” disse la contessa, “per l’amor di Dio nonraccontare; per me ascoltare sarebbe terribile.”

“No,” ribatté il conte, “racconterò tutto; lui sa come hooffeso il suo amico: che sappia come Sil’vio si è vendicato.”

Il conte mi avvicinò una poltrona e io, con viva curio-sità, ascoltai il seguente racconto:

“Cinque anni fa mi sono sposato. Il primo mese, the ho-ney-moon,20 l’ho passato qui, in questo villaggio. A questacasa devo i minuti migliori della mia vita e uno dei più gra-vosi ricordi.

“Una sera, andavamo a cavallo insieme; il cavallo di miamoglie si impuntò per qualcosa; lei si spaventò, mi diede leredini e si diresse verso casa a piedi; io andai avanti. Nelcortile vidi una carrozza di strada; mi dissero che nello stu-dio c’era un uomo che non aveva voluto rendere noto il suonome, ma che aveva detto semplicemente di avere un affa-re con me. Entrai in questa stanza e vidi nell’oscurità unuomo impolverato con la barba lunga; stava in piedi qui, vi-cino al camino. Mi avvicinai cercando di ricordare i trattidel suo viso. ‘Non mi hai riconosciuto, conte?’ disse con vo-ce tremante. ‘Sil’vio!’ gridai, e, lo confesso, sentii i capelliche d’un tratto mi si rizzavano in testa. ‘Proprio io,’ conti-nuò, ‘ti devo uno sparo; sono venuto a scaricar la mia pi-stola: sei pronto?’ La pistola gli sporgeva da una tasca late-rale. Contai dodici passi e mi misi là nell’angolo, pregan-dolo di sparare in fretta, prima che tornasse mia moglie. In-dugiò, chiese luce. Portarono delle candele. Chiusi a chia-ve la porta, ordinai che non entrasse nessuno e lo pregai an-cora di sparare. Tirò fuori la pistola e prese la mira... Con-tavo i secondi... Pensavo a lei... Passò un minuto terribile.Sil’vio abbassò il braccio. ‘Mi spiace,’ disse, ‘che la pistolanon sia caricata a noccioli di ciliegia... un proiettile è pe-sante. Mi sembra sempre che il nostro non sia un duello,ma un omicidio: non sono abituato a prendere di mira unuomo disarmato. Ricominciamo da capo; tiriamo a sortechi deve sparare per primo.’ La testa mi scoppiava. Sembrache rifiutassi... Alla fine caricammo un’altra pistola; arro-tolammo due biglietti; li mise nel berretto che una volta ave-vo trapassato; estrassi ancora il numero uno. ‘Tu, conte, haiuna fortuna diabolica,’ mi disse con un sogghigno che non

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20 In inglese nel testo.

dimenticherò mai. Non capisco cos’avessi e in che modo ab-bia potuto costringermi a questo... ma: sparai, e colpii que-sto quadro qua.” (Il conte indicò con un dito il quadro tra-passato; il suo volto ardeva come un fuoco; la contessa erapiù pallida del suo fazzoletto: io non potei trattenere un’e-sclamazione.)

“Sparai,” continuò il conte, “e, per fortuna, mancai ilbersaglio; allora Sil’vio (in quel momento era, davvero, or-ribile), Sil’vio cominciò a prender la mira. All’improvviso leporte si spalancarono, Ma√a entrò di corsa e con uno stril-lo mi si gettò al collo. La sua presenza mi restituì tutte leforze. ‘Cara,’ le dissi, ‘non vedi che scherziamo? Come ti seispaventata! Va’, bevi un bicchier d’acqua e torna da noi; tipresenterò un vecchio amico e compagno.’ Ma√a tuttavianon era convinta. ‘Dite, dice la verità mio marito?’ disse ri-volgendosi al terribile Sil’vio, ‘è vero che scherzate entram-bi?’ ‘Lui scherza sempre, contessa,’ le rispose Sil’vio, ‘unavolta scherzando mi ha dato uno schiaffo, scherzando miha trapassato, ecco, questo cappello, scherzando adessomi ha mancato; ora è venuta anche a me la voglia di scher-zare...’ Con queste parole voleva prendere la mira... in suapresenza! Ma√a si gettò ai suoi piedi. ‘Smettila, Ma√a, è ver-gogna!’ gridai infuriato; ‘e lei, signore, la smette di deride-re una povera donna? Spara o non spara?’ ‘Non sparo,’ ri-spose Sil’vio, ‘sono soddisfatto: ho visto il tuo turbamento,la tua paura; ti ho costretto a spararmi, mi basta. Mi ricor-derai. Ti lascio alla tua coscienza.’ E stava per uscire, ma sifermò sulla porta, guardò il quadro che avevo trapassato,sparò quasi senza mirare e scomparve. Mia moglie giacevasvenuta; i servi non osarono fermarlo e lo guardarono conorrore; egli uscì sul terrazzino, fece un urlo al cocchiere ese ne andò prima che potessi riavermi.”

Il conte tacque. In questo modo conobbi la fine del rac-conto il cui inizio, tempo prima, mi aveva tanto colpito. Ilsuo protagonista non l’incontrai più. Dicono che Sil’vio, al-l’epoca della rivolta di Alessandro Ypsilanti,21 comandasseun drappello di eteristi,22 e che sia stato ucciso in una bat-taglia vicino a Skuljani.

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21 Alessandro Ypsilanti (1792-1828), già aiutante di campo dello zarAlessandro I, divenne nel 1817 il capo dell’Eteria, società segreta per la li-berazione della Grecia dal giogo turco.

22 Membri dell’Eteria.

La tormenta

I cavalli corron per il poggio,Calpestano la neve alta...Ecco da un lato un tempio divino,L’unica cosa che si vede.

D’un tratto intorno è la tormenta;La neve si rovescia a fiocchi;Un corvo nero, sibilando con le ali, batte

sulla slitta;Il profetico lamento dice: tristezza!I cavalli di frettaGuardan fissi nella scura lontananza,Alzando la criniera...ˇUKOVSKIJ23

Alla fine del 1811, in un’epoca per noi memorabile, vi-veva nella sua tenuta il buon Gavrila Gavriloviç R**. Era ri-nomato in tutto il distretto per ospitalità e schiettezza; i vi-cini andavano da lui continuamente a mangiare, bere, gio-care cinque copeche alla volta al boston con sua moglie ealcuni per dare un’occhiata alla loro figlia, Mar’ja Gavri-lovna, una snella, pallida fanciulla diciassettenne. Ella ve-niva considerata un buon partito, e molti la riservavano persé o per i figli.

Mar’ja Gavrilovna era stata educata sui romanzi fran-cesi, e, dunque, era innamorata. L’oggetto che aveva sceltoera un povero sottufficiale dell’esercito che si trovava in li-cenza nel suo villaggio. Va da sé che il giovane ardeva diuguale passione e che i genitori della sua amata, notata laloro reciproca inclinazione, proibirono alla figlia di pensa-re a lui, e lui lo ricevettero peggio, come un membro dellacorte d’assise a riposo.

I nostri amanti avevano una corrispondenza, e ogni gior-no si vedevano a quattr’occhi in un boschetto di pini, o nel-la vecchia cappella. Là si giuravano reciprocamente eterno

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23 Vasilij Andreeviç ˇukovskij (1783-1852), poeta e traduttore, fu se-guace di Schiller, traduttore di Omero, amico di Pu√kin e precettore di cor-te. L’epigrafe è tratta dalla sua ballata Svetlana (1813).

amore, si lamentavano del destino e facevano vari propo-nimenti. Scrivendosi e parlandosi in tal modo, essi (com’èmolto naturale) arrivarono al seguente ragionamento: senoi l’uno senza l’altro non possiamo respirare, e se il vole-re dei genitori crudeli intralcia la nostra felicità, non po-tremmo farne a meno? S’intende che questa bella pensatavenne in mente all’inizio al giovanotto e che piacque mol-tissimo all’immaginazione romantica di Mar’ja Gavrilovna.

Arrivò l’inverno e interruppe i loro incontri; ma la cor-rispondenza si fece ancor più vivace. Vladimir Nikolaeviçin ogni lettera la pregava di darsi a lui, di sposarsi in se-greto, di nascondersi per un po’ di tempo, di gettarsi poi aipiedi dei genitori i quali, naturalmente, sarebbero stati toc-cati alla fine dall’eroica costanza e dall’infelicità degli aman-ti e avrebbero detto loro immancabilmente: “Figlioli! Veni-te nelle nostre braccia”.

Mar’ja Gavrilovna esitò a lungo; un gran numero di pia-ni di fuga fu respinto. Alla fine acconsentì: il giorno stabi-lito non avrebbe dovuto cenare e si sarebbe ritirata nellapropria camera con la scusa di un mal di testa. La sua ca-meriera era parte del complotto; entrambe dovevano usci-re nel giardino per il terrazzino posteriore, dietro il giardi-no trovare una slitta pronta, salirvi e recarsi a cinque ver-ste da Nenaradovo nel villaggio di ̌ adrino, direttamente inchiesa, dove Vladimir avrebbe dovuto aspettarle.

Alla vigilia del giorno decisivo Mar’ja Gavrilovna nondormì tutta notte; preparò le sue cose, mise in ordine bian-cheria e vestiti, scrisse una lunga lettera a una signorinasensibile, amica sua, un’altra ai suoi genitori. Si accomia-tava da loro con le espressioni più toccanti, scusava la suatrasgressione con l’invincibile forza della passione e finivacol fatto che il momento più felice della sua vita lo consi-derava il momento in cui le sarebbe stato permesso di get-tarsi ai piedi dei suoi carissimi genitori. Sigillate entrambele lettere con un sigillo di Tula24 sul quale erano raffiguratidue cuori ardenti con una graziosa iscrizione, si gettò sulletto appena prima dell’alba e si assopì; ma anche allora or-ribili sogni la svegliavano continuamente. Ora le sembravache nel preciso momento in cui sedeva sulla slitta per an-darsi a sposare il padre la fermasse, con penosa rapidità la

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24 Città russa nota per l’industria metallurgica e meccanica.

sollevasse sulla neve e la gettasse in un buio sotterraneo sen-za fondo... e lei volava a precipizio con un inesprimibilemancamento del cuore; ora vedeva Vladimir giacere nel-l’erba, pallido, insanguinato. Egli, morendo, la pregava convoce acuta di affrettarsi a sposarlo... altre brutte, insensatevisioni passarono davanti a lei una dopo l’altra. Alla fine sialzò, più pallida del solito e con un sincero mal di testa. Ilpadre e la madre notarono la sua inquietudine; la loro dol-ce premura e le loro incessanti domande – cos’hai, Ma√a?sei forse malata, Ma√a? – le straziavano il cuore. Si sforzòdi tranquillizzarli, di sembrare allegra, e non poté. Vennesera. L’idea che per l’ultima volta passava la giornata tra isuoi famigliari le stringeva il cuore. Era più morta che vi-va; in segreto si accomiatava da tutte le persone, da tutti glioggetti che la circondavano.

Servirono la cena; il cuore si mise a batterle forte. Convoce tremante dichiarò che non voleva cenare e si mise a sa-lutare il padre e la madre. Essi la baciarono e, come al soli-to, la benedissero; ella per poco non scoppiò a piangere. Ar-rivata nella sua camera, si gettò su una poltrona e si sciolsein lacrime. La cameriera cercava di convincerla a calmarsie a farsi forza. Tutto era pronto. Mezz’ora dopo Ma√a avreb-be dovuto lasciare per sempre la casa paterna, la sua came-ra, la tranquilla vita di ragazza... Nel cortile c’era la tormenta;il vento ululava, le imposte ballavano e sbattevano; tutto lesembrava un minaccioso e triste presagio. Presto in casa tut-to si placò e si addormentò. Ma√a si imbacuccò in uno scial-le, si mise una veste pesante, prese in mano il suo scrignet-to e uscì sul terrazzino posteriore. La domestica dietro di leiportava due fagotti. Scesero in giardino. La tormenta non siera placata; il vento soffiava in senso contrario come sesi sforzasse di fermare la giovane delinquente. A stento ar-rivarono in fondo al giardino. Sulla strada le aspettava unaslitta. I cavalli, intirizziti, non riuscivano a star fermi; il coc-chiere di Vladimir camminava avanti e indietro lungo le stan-ghe trattenendo i più focosi. Aiutò la signorina e la sua ca-meriera a sedersi e a sistemare gli involti e lo scrignetto, pre-se le redini e i cavalli volarono via. Affidata la signorina al-la tutela del destino e della maestria del cocchiere Terë√ka,rivolgiamoci al nostro giovane amante.

Vladimir era stato in giro tutto il giorno. Al mattino erastato dal prete di ˇadrino; a fatica si era accordato con lui;

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poi era andato a cercare dei testimoni tra i possidenti suoivicini. Il primo al quale si era presentato, la quarantennecornetta a riposo Dravin, aveva accettato con piacere. Que-sta avventura, gli aveva assicurato, gli ricordava i tempi pas-sati e le bricconate degli ussari. Aveva convinto Vladimir afermarsi da lui a pranzo e gli aveva assicurato che per glialtri due testimoni non ci sarebbero stati problemi. In ef-fetti, subito dopo pranzo erano comparsi l’agrimensore◊mit, con baffi e speroni, e il figlio del capitano della poli-zia distrettuale, un ragazzo di sedici anni entrato da poconegli ulani. Essi non solo avevano accettato la proposta diVladimir, ma gli avevano giurato perfino di essere pronti asacrificare per lui la vita. Vladimir li aveva abbracciati en-tusiasta ed era andato a casa a prepararsi.

Da tempo si era fatto buio. Egli aveva mandato il suo fi-dato Terë√ka a Nenaradovo con la sua trojka e con partico-lareggiate, circostanziate istruzioni, e per sé aveva ordina-to di attaccare una piccola slitta a un cavallo e da solo, sen-za cocchiere si era diretto a ˇadrino, dove due ore dopo sa-rebbe dovuta arrivare anche Mar’ja Gavrilovna. Conoscevala strada, e il tragitto era in tutto di venti minuti.

Ma Vladimir era appena uscito dal limitar del villaggio,che si alzò il vento e venne una tale tormenta che non si ve-deva più niente. In un attimo la strada fu coperta; i dintor-ni scomparvero in una foschia torbida e giallastra, attra-verso la quale volavano bianchi fiocchi di neve; il cielo siunì alla terra. Vladimir si trovò nei campi e invano volle dinuovo finir sulla strada; il cavallo andava a caso e conti-nuamente ora montava su un cumulo, ora sprofondava inuna buca; la slitta continuamente si ribaltava. Vladimir sisforzava solo di non perdere la giusta direzione. Ma gli sem-brava che fosse già trascorsa più di mezz’ora, e non era an-cora arrivato al boschetto di ̌ adrino. Passarono ancora die-ci minuti circa; e il boschetto non si vedeva. Vladimir an-dava per campi attraversati da profondi burroni. La tor-menta non si placava, il cielo non schiariva. Il cavallo co-minciava a stancarsi, e lui era fradicio di sudore, nonostantefosse continuamente nella neve fino alla cintola.

Alla fine si accorse che non andava nella direzione giu-sta. Si fermò: cominciò a pensare, a rammentare, a ragio-nare, e si convinse che avrebbe dovuto prendere a destra.Andò a destra. Il cavallo si muoveva appena. Era già più di

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un’ora che era per strada. ˇadrino non doveva essere lon-tano. Ma andava, andava, e il campo non finiva mai. Solocumuli e burroni; continuamente la slitta si ribaltava, con-tinuamente lui la risollevava. Il tempo passava; Vladimir co-minciava ad agitarsi molto.

Alla fine da un lato qualcosa cominciò a nereggiare. Vla-dimir voltò da quella parte. Avvicinatosi, vide un boschet-to. Grazie a Dio, pensò, adesso siamo vicini. Fiancheggiò ilboschetto, sperando di finire subito sulla strada conosciu-ta o di aggirare il boschetto; ˇadrino si trovava subito die-tro di esso. Presto trovò una strada ed entrò nello scuro de-gli alberi spogliati dall’inverno. Il vento là non poteva infu-riare; la strada era piana; il cavallo riprese le forze e Vladi-mir si tranquillizzò.

Ma andava, andava, e ̌ adrino non si vedeva; il boschettonon finiva mai. Vladimir con orrore si accorse che era inun bosco sconosciuto. La disperazione si impadronì di lui.Frustò il cavallo; la povera bestia si mise al trotto, ma pre-sto cominciò a sbagliare e un quarto d’ora dopo andava alpasso, nonostante tutti gli sforzi del povero Vladimir.

Pian piano gli alberi iniziarono a diradarsi, e Vladimiruscì dal bosco; ˇadrino non si vedeva. Doveva essere circamezzanotte. Lacrime sgorgarono dai suoi occhi; andava acasaccio. Il tempo si era placato, le nubi si erano disperse,davanti a lui giaceva una pianura bianca coperta da un bian-co tappeto ondulato. La notte era abbastanza chiara. Videpoco lontano un villaggio minuscolo composto da quattroo cinque case. Vladimir vi si diresse. Alla prima piccola isbascese dalla slitta, corse alla finestra e si mise a bussare. Do-po qualche minuto si aprì l’imposta di legno e un vecchiet-to sporse la sua barba bianca. “Chette serve?” “È lontanoˇadrino?” “Se è lontano ˇadrino?” “Sì, sì! È lontano?” “No,lontano: una decina di verste, saranno.” A questa rispostaVladimir si mise le mani nei capelli e rimase immobile, co-me un uomo condannato a morte.

“Dindove vieni, te?” continuò il vecchio. Vladimir nonaveva l’animo di rispondere alle domande. “Puoi, tu, vec-chietto,” disse, “trovarmi un cavallo fino a ˇadrino?” “Ec-checcavallo abbiamo, noi?” rispose il contadino. “E non pos-so prendere almeno una guida? La pagherò quello che vuo-le.” “’Spetta,” disse il vecchio abbassando l’imposta, “te man-do il figlio, te compagna.” Vladimir si mise ad aspettare.

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Non passò un minuto che cominciò ancora a bussare. Sialzò l’imposta, si mostrò la barba. “Chette serve?” “E tuo fi-glio, allora?” “’Desso arriva, s’inscarpìna. Sei ghiacciato?Entra riscaldarti.” “Ti ringrazio, manda subito tuo figlio.”

La porta cigolò; uscì un uomo con una pertica e andòavanti; ora indicava, ora cercava la strada coperta da cu-muli di neve. “Che ore sono?” gli chiese Vladimir. “Prestosarà l’alba,” rispose il giovane contadino. Vladimir non pro-feriva più verbo.

Avevan cantato i galli ed era già chiaro, quando rag-giunsero ˇadrino. La chiesa era chiusa. Vladimir pagò laguida e andò nel cortile dal prete. Nel cortile la sua trojkanon c’era. Che notizia l’aspettava!

Ma torniamo ai buoni possidenti di Nenaradovo e ve-diamo cosa succede.

Ma niente.I vecchi si erano alzati ed erano andati in salotto. Ga-

vrila Gavriloviç in berretto da notte e giacca di flanella, Pra-skov’ja Petrovna in veste da camera ovattata. Era stato por-tato il samovar, e Gavrila Gavriloviç aveva mandato la ca-meriera da Mar’ja Gavrilovna a sapere come stava e comeaveva passato la notte. La cameriera era tornata, aveva an-nunciato che la signorina aveva passato la notte piuttostomale, che adesso stava piuttosto bene e che piuttosto pre-sto sarebbe venuta in salotto. Infatti si era aperta la portae Mar’ja Gavrilovna si era accostata a dare il buongiorno albabbino e alla mammina.

“Come va la tua testa, Ma√a?” aveva chiesto Gavrila Ga-vriloviç. “Meglio, babbino,” aveva risposto Ma√a. “A te, pro-babilmente, Ma√a, ti ha intossicato il carbone,” aveva det-to Praskov’ja Petrovna. “Può darsi, mammina,” aveva ri-sposto Ma√a.

Il giorno era passato senza problemi, ma la notte Ma√asi era ammalata. Avevano mandato in città per il medico.Era arrivato la sera e aveva trovato la malata in delirio. Eracominciata una forte febbre e la povera malata per due set-timane si era trovata al limitar della tomba.

Nessuno in casa sapeva della fuga congetturata. Le let-tere da lei scritte la vigilia erano state bruciate; la sua ca-meriera non aveva detto niente a nessuno, temendo l’iradei padroni. Il prete, la cornetta a riposo, il possidente baf-futo e il giovane ulano erano stati discreti, e non senza ra-

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gione. Il cocchiere Terë√ka non diceva mai niente di su-perfluo, neanche da ubriaco. In questo modo il segreto fumantenuto da più di mezza dozzina di cospiratori. MaMar’ja Gavrilovna stessa nell’incessante delirio raccontavail suo segreto. Le sue parole però erano così assurde che lamadre, che non si era allontanata dal suo letto, poté capi-re da esse solo il fatto che sua figlia era perdutamente in-namorata di Vladimir Nikolaeviç e che, probabilmente, l’a-more era la causa della sua malattia. Ella si consigliò conil marito, con qualche vicino, e alla fine decisero tutti una-nimemente che evidentemente questo era il destino diMar’ja Gavrilovna, che moglie e buoi dei paesi tuoi, che lapovertà non è un vizio, che non si vive di solo pane e via diseguito. I proverbi e i modi di dire sono sorprendentementeutili nei casi in cui facciamo fatica a giustificare il nostrocomportamento.

Nel frattempo la signorina aveva cominciato a rimet-tersi. Vladimir da tempo non si vedeva, a casa di GavrilaGavriloviç. Temeva l’accoglienza abituale. Decisero di man-darlo a cercare e di annunciargli una felicità inattesa: l’as-senso al matrimonio. Ma quale fu la meraviglia dei possi-denti di Nenaradovo quando in risposta al loro invito rice-vettero da lui una lettera semifolle! Annunciava loro chenon avrebbe messo piede nella loro casa e pregava di di-menticare un infelice per il quale la morte restava la solasperanza. Dopo qualche giorno seppero che Vladimir si eraarruolato. Era l’anno 1812.

A lungo non seppero come annunciare la cosa alla con-valescente Ma√a. Ella non menzionava mai Vladimir. Giàqualche mese più tardi, trovato il suo nome nella lista di co-loro che si erano distinti ed erano stati seriamente feriti aBorodino, ella svenne, e si temette che le tornasse la febbre.Tuttavia, grazie a Dio, lo svenimento non ebbe conseguenze.

Un altro dolore la visitò: Gavrila Gavriloviç spirò, la-sciando alla sua discendente tutti i suoi beni. Ma l’ereditànon la consolò; condivideva sinceramente l’afflizione dellapovera Praskov’ja Petrovna, giurò di non separarsi mai dalei; entrambe lasciarono Nenaradovo, luogo di tristi ricor-di, e andarono a vivere nella tenuta di ***.

I pretendenti turbinavano intorno alla cara e ricca ra-gazza da marito; ma lei a nessuno diede mai la benché mi-nima speranza. La madre a volte provava a convincerla a

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scegliersi un amico; Mar’ja Gavrilovna scuoteva la testa e sifaceva pensierosa. Vladimir già non esisteva più: era mor-to a Mosca, alla vigilia dell’ingresso dei francesi. La sua me-moria sembrava sacra per Mar’ja; per lo meno ella avevaconservato tutto ciò che poteva ricordarlo: i libri da lui let-ti un tempo, i suoi disegni, gli spartiti e i versi che egli ave-va trascritto per lei. I vicini, che avevano saputo tutto, sistupivano della sua costanza e con interesse aspettavano l’e-roe destinato alla fine a trionfare sulla triste fedeltà di que-sta vergine Artemisia.25

Nel frattempo la guerra era finita in gloria. I nostri reg-gimenti tornavano dall’estero. Il popolo correva loro in-contro. Come musica si suonavano le canzoni dei vinti: Vi-ve Henri Quatre,26 il valzer del Tirolo e le arie della Gio-conda.27 Gli ufficiali, partiti per la campagna quasi adole-scenti, tornavano, fattisi adulti all’aria della guerra, co-perti di croci. Il soldati allegramente parlavano tra loro,facendo entrare continuamente nel discorso parole tede-sche e francesi. Che tempi indimenticabili! Tempi di glo-rie e di entusiasmi! Come batteva forte un cuore russo al-la parola patria! Com’erano dolci le lacrime di bentorna-to! Con che accordo si univano i sentimenti di orgoglio po-polare e di amore per il sovrano! E per lui che momentofu quello!

Le donne, le donne russe furono allora impagabili. La lo-ro abituale freddezza era scomparsa. Il loro entusiasmo eraincantevole quando, incontrando i vincitori, gridavano: urrà!

E nell’aria buttavan le cuffiette.

Chi, tra gli odierni ufficiali, non riconoscerà che alladonna russa egli dovette la migliore, la più preziosa onori-ficenza?

In questo splendido periodo Mar’ja Gavrilovna viveva

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25 Regina della Caria, moglie di Mausolo, che alla morte del maritone celebrò la memoria con un monumento funebre destinato a divenirecelebre, e che poi non resse al dolore della vedovanza e morì (nel 351 a.C.);viene indicata come esempio di amore coniugale.

26 In francese nel testo. Dalla commedia La partie de chasse de Henry IV(1774), del drammaturgo e chansonnier francese Charles Collé (1709-1783).

27 Dall’opera comica Joconde (1814) di Nicolò Isouard (o Nicolò deMalte), compositore maltese (1775-1818).

con la madre nel governatorato di *** e non vedeva in chemodo nelle due capitali si festeggiava il ritorno dalla guer-ra. Ma nei distretti e nei villaggi l’entusiasmo generale, for-se, era ancora più forte. L’apparizione in questi luoghi di unufficiale era per lui un vero e proprio trionfo, e per i fidan-zati in frac andava male nelle sue vicinanze.

Abbiamo già detto che, nonostante la sua freddezza,Mar’ja Gavrilovna come prima era sempre circondata daipretendenti. Ma tutti dovettero ritirarsi quando apparvenel suo castello il colonnello ferito degli ussari Burmin, conSan Giorgio all’occhiello e con un interessante pallore, co-me dicevano le signorine del luogo. Aveva circa ventisei an-ni. Era venuto in licenza nei suoi possedimenti, che confi-navano col villaggio di Mar’ja Gavrilovna. Mar’ja Gavri-lovna lo considerava molto. In sua presenza la sua con-sueta pensosità si animava. Non si poteva dire che ella ci-vettasse con lui; ma un poeta, notando il suo comporta-mento, avrebbe detto:

Se amor non è che dunque?...28

Burmin era in effetti un giovanotto molto simpatico.Aveva proprio quell’ingegno che piace alle donne. Un inge-gno per il decoro e l’osservazione, senza nessuna pretesa espensieratamente canzonatorio. Il suo comportamento conMar’ja Gavrilovna era semplice e libero; ma qualsiasi cosadicesse o facesse, la sua anima e i suoi sguardi la seguiva-no sempre. Sembrava di indole quieta e modesta, ma si as-sicurava che fosse stato un orribile perdigiorno, e questonon lo danneggiava nell’opinione di Mar’ja Gavrilovna, laquale (come tutte le giovani signore in generale) perdona-va volentieri le bricconate, che testimoniavano il coraggioe l’ardore del carattere.

Ma più di tutto... (più della sua dolcezza, più della suaamabile conversazione, più dell’interessante pallore) il si-lenzio del giovane ussaro più di ogni cosa eccitava la suacuriosità e la sua immaginazione. Non poteva non essersiaccorta di piacergli molto; probabilmente anche lui, con ilsuo ingegno e la sua esperienza, aveva già potuto notare che

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28 In italiano nel testo. Citazione di un verso dell’ottantottesimo sonet-to di Petrarca (che nell’originale suona: “Se amor non è, che dunque è?”).

ella lo considerava: per quale motivo non l’aveva ancora avu-to ai suoi piedi e non aveva ancora sentito la sua dichiara-zione? Cosa lo tratteneva? La timidezza che sempre ac-compagna l’amor proprio, l’orgoglio, o la civetteria di unoscaltro Don Giovanni? Era per lei un mistero. Pensandocibene, ella decise che la timidezza doveva essere l’unica spie-gazione e si propose di incoraggiarlo con una grande at-tenzione e, a seconda delle circostanze, anche tenerezza.Preparava il più inaspettato degli scioglimenti e con impa-zienza attendeva il momento della romantica dichiarazio-ne. Il segreto, di qualsiasi genere sia, è sempre penoso perun cuore femminile. Le sue manovre di guerra ebbero l’ef-fetto desiderato: o per lo meno Burmin si fece così pensie-roso e i suoi occhi neri con un tal fuoco si fermavano suMar’ja Gavrilovna che il momento decisivo, sembrava, eraprossimo. I vicini parlavano del matrimonio come di un af-fare già concluso, e la buona Praskov’ja Petrovna si ralle-grava del fatto che la figlia avesse finalmente trovato un de-gno fidanzato.

La vecchietta sedeva una volta da sola in salotto distri-buendo il grande-patience,29 quando Burmin entrò nellastanza e subito chiese di Mar’ja Gavrilovna. “È in giardino,”rispose la vecchietta, “vada da lei, io l’aspetto qui.” Burminpartì e la vecchietta si fece il segno della croce e pensò: ma-gari l’affare si facesse oggi!

Burmin trovò Mar’ja Gavrilovna vicino allo stagno, sot-to un salice, con un libro in mano e vestita di bianco, unavera eroina da romanzo. Dopo le prime domande Mar’jaGavrilovna smise apposta di sostenere la conversazione, ina-sprendo in tal modo il reciproco turbamento, dal quale sa-rebbe stato possibile uscire forse soltanto con una imme-diata e decisa spiegazione. Successe così: Burmin, senten-do l’imbarazzo della sua posizione, annunciò che da tem-po cercava l’occasione per aprirle il proprio cuore, e chiesequalche minuto di attenzione. Mar’ja Gavrilovna chiuse illibro e abbassò gli occhi in segno di assenso.

“Io l’amo,” disse Burmin, “io l’amo appassionatamen-te...” (Mar’ja Gavrilovna arrossì e chinò la testa ancora dipiù.) “Sono stato imprudente, ad assecondare una cara abi-tudine, l’abitudine di vederla e di ascoltarla ogni giorno.”

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29 Solitario con le carte da gioco.

(Mar’ja Gavrilovna si ricordò la prima lettera di St.-Preux.)30

“Ora è tardi per opporsi al mio destino; il suo ricordo, il ri-cordo della sua cara, incomparabile figura, d’ora in poi saràla croce e la delizia della mia vita, ma io devo ancora adem-piere un grave dovere, svelarle un segreto orribile e metteretra di noi un ostacolo insormontabile...” “Un ostacolo è sem-pre esistito,” lo interruppe con animazione Mar’ja Gavrilov-na, “non avrei mai potuto essere sua moglie.” “So,” le rispo-se lui piano, “so che lei ha amato, ma la morte e tre anni dipianti... Buona, cara Mar’ja Gavrilovna! Non cerchi di pri-varmi dell’ultimo conforto; il pensiero che lei avrebbe accet-tato di fare la mia felicità se... Taccia, per l’amor di Dio, tac-cia. Lei mi tormenta. Sì, io so, io sento che lei sarebbe statamia, ma: io sono l’essere più infelice... Io sono sposato!”

Mar’ja Gavrilovna gli gettò uno sguardo stupito.“Sono sposato,” continuò Burmin, “sono sposato da più

di tre anni e non so chi sia mia moglie e dove sia e se deb-ba un giorno o l’altro rivederla!”

“Cosa sta dicendo?” esclamò Mar’ja Gavrilovna. “Checosa strana! Continui! Poi racconterò io... ma continui, mifaccia la grazia.”

“All’inizio del 1812,” disse Burmin, “mi stavo affrettan-do a raggiungere Vil’na, dove si trovava il nostro reggimen-to. Una volta, arrivato a tarda sera a una stazione di posta,avevo ordinato di attaccare in fretta i cavalli quando d’untratto si alzò una tremenda tormenta e il custode e il coc-chiere mi consigliarono di aspettare. Li ascoltai, ma un’in-comprensibile agitazione si impadronì di me; sembrava chequalcuno mi desse delle spinte. Frattanto la tormenta nonsi calmava; io non mi trattenni, ordinai ancora di attacca-re e partii nel bel mezzo della bufera. Al cocchiere venne inmente di seguire il fiume, cosa che avrebbe dovuto accor-ciarci il cammino di tre verste. Le rive erano alte; il coc-chiere superò il punto in cui si tornava sulla strada, e in talmodo capitammo in un posto sconosciuto. La bufera nonsi era placata; vidi una luce e ordinai di dirigerci là. Erava-mo arrivati in un paese; nella chiesa di legno c’era una lu-

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30 “Il faut vous fuire, mademoiselle, je le sens bien: j’aurais dû beau-coup moins attendre; ou plutôt il fallait ne vous voir jamais. Mais quoi fai-re aujourd’hui? Comment m’y prendre?” Inizio della prima lettera del ro-manzo epistolare di Jean-Jacques Rousseau La nouvelle Héloïse (1761).

ce. La chiesa era aperta, oltre la staccionata c’erano delleslitte; sul terrazzino d’ingresso andavano delle persone. ‘Diqua! di qua!’ gridarono delle voci. Ordinai al cocchiere diavvicinarsi. ‘Scusa, dove ti sei fermato?’ mi disse qualcuno,‘la sposa è svenuta; il pope non sa cosa fare; eravamo pron-ti a tornare indietro; vieni giù un po’ alla svelta.’ In silenziosaltai già dalla slitta ed entrai in una chiesa illuminata de-bolmente da due o tre candele. Una ragazza sedeva su unapanca in un angolo buio della chiesa; un’altra le sfregava letempie. ‘Grazie a Dio,’ disse quella, ‘ce ne ha messo a veni-re. Per poco non ha fatto morire la signorina.’ Il vecchioprete mi si avvicinò con la domanda: ‘Ordina di comincia-re?’. ‘Cominci, cominci, paparino,’ risposi distrattamente.Sollevarono la fanciulla. Non mi sembrò brutta... Incom-prensibile, imperdonabile leggerezza... mi misi accanto alei davanti al leggio; il prete aveva fretta; i tre uomini e lacameriera reggevano la sposa e si occupavano solo di quel-lo. Ci sposarono. ‘Baciatevi,’ ci dissero. Mia moglie rivolseverso di me il suo pallido viso. Avrei voluto baciarla... Leigridò: ‘Ah, non è lui! Non è lui!’ e cadde priva di coscienza.I testimoni mi fissarono con occhi spaventati. Io mi girai,uscii dalla chiesa senza nessun impedimento, salii sul car-ro e gridai: ‘Andiamo!’.”

“Dio mio!” gridò Mar’ja Gavrilovna, “e non sa cos’è sta-to della sua povera moglie?”

“Non lo so,” rispose Burmin, “non so come si chiami ilpaese in cui mi sono sposato, non mi ricordo da che sta-zione di posta ero partito. In quel periodo davo così pocaimportanza alla mia delittuosa bricconata, che, uscito dal-la chiesa, mi addormentai e mi svegliai il mattino del gior-no dopo già nella terza stazione di posta. Il servo che allo-ra era con me morì durante la campagna, di modo che nonho speranze di trovare colei della quale mi feci beffa cosìcrudelmente e che ora è così crudelmente vendicata.”

“Dio mio, Dio mio,” disse Mar’ja Gavrilovna, afferran-dogli un braccio, “allora era lei! E non mi riconosce?”

Burmin impallidì... e si gettò ai suoi piedi...

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Il fabbricante di bare

Non vediamo forse tutti i giornidelle bare,Canizie del decrepitouniverso?DERΩAVIN31

Le ultime suppellettili del fabbricante di bare AdrijanProchorov furono caricate sul carro da morto e una coppiadi cavalli magrissimi per la quarta volta si trascinò dalla Ba-smannaja alla Nikitskaja, dove il fabbricante di bare si tra-sferiva con tutta la casa. Chiusa a chiave la bottega, egli af-fisse al portone un avviso che diceva che la casa era in ven-dita e in affitto, e si diresse a piedi verso la nuova dimora.Avvicinandosi alla casetta gialla che per tanto tempo avevasedotto la sua immaginazione e che alla fine egli aveva com-prato per una somma considerevole, il vecchio fabbricantedi bare sentì con stupore che il suo cuore non esultava. Ol-trepassata la soglia sconosciuta e trovato nella sua nuovaabitazione il subbuglio, sospirò per la vecchia stamberga nel-la quale, per ben diciotto anni, tutto era stato condotto conl’ordine più severo; cominciò a sgridare entrambe le figlie ela lavorante per la loro lentezza e si mise egli stesso ad aiu-tarle. Presto l’ordine fu stabilito; la vetrina con le immagini,l’armadio con le stoviglie, il tavolo, il divano e il letto occu-parono gli angoli loro assegnati nella stanza sul retro; in cu-cina e in salotto trovarono spazio i manufatti del padrone dicasa: bare di tutti i colori e di ogni misura, così come armadicon cappelli, mantelli e torce funebri. Sul portone fu alzatauna insegna che raffigurava un corpulento Amorino con unatorcia capovolta in mano con la scritta: “Qui si vendono e sirivestono bare semplici e tinte, e si danno anche a noleggio

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31 Gavril Romanoviç DerΩavin (1743-1816), poeta e politico russo, giàgovernatore di Olonec e Tambov, fu prima segretario di Caterina II e poi,sotto Alessandro I, ministro della Giustizia. L’epigrafe è tratta da La ca-scata (1791-1794).

e si riparan le vecchie”. Le ragazze andarono nella loro stan-za. Adrijan fece il giro della sua abitazione, sedette alla fi-nestra e ordinò di preparare il samovar.

L’illuminato lettore sa che sia Shakespeare sia WalterScott presentarono i loro fabbricanti di bare come uominiallegri e scherzosi, affinché questo contrasto colpisse piùfortemente la nostra immaginazione.32 Per rispetto della ve-rità non possiamo seguire il loro esempio e siamo costret-ti a confessare che l’indole del nostro fabbricante di barecorrispondeva perfettamente al suo tetro mestiere. AdrijanProchorov di solito era cupo e pensieroso. Rompeva il si-lenzio solo per rimproverare le figlie quando le trovava sen-za far niente alla finestra, a guardare i passanti, o per chie-dere per le sue opere un prezzo esagerato a coloro che ave-vano la sfortuna (ma a volte anche il piacere) di aver biso-gno di esse. Così Adrijan, seduto alla finestra e bevendo lasettima tazza di tè, come suo solito era immerso in tristimeditazioni. Pensava alla pioggia torrenziale che, una set-timana prima, aveva incontrato fin dall’inizio del funeraledi un brigadiere a riposo. Molti mantelli perciò si erano ri-stretti, molti cappelli si erano imbarcati. Prevedeva speseinevitabili, dal momento che la sua vecchia riserva di abitifunebri gli si stava riducendo in uno stato pietoso. Avevasperato di rifarsi della perdita sulla vecchia mercantessaTrjuchina, che già da un anno si trovava in fin di vita. Mala Trjuchina stava morendo a Razguljaj, e Prochorov teme-va che i suoi eredi, nonostante le sue promesse, stimasseroinutile chiamarlo da così lontano e si accordassero con l’im-presario più vicino.

Queste riflessioni furono interrotte in modo inatteso datre massonici picchi alla porta. “Chi è?” chiese il fabbricantedi bare. La porta si aprì e un uomo, nel quale dal primosguardo era possibile riconoscere un artigiano tedesco, en-trò nella stanza e con aria allegra si avvicinò al fabbrican-te di bare. “Mi scusi, vicino cortese,” disse con quella par-lata russa che noi oggi non possiamo sentire senza sorri-dere, “mi scusi, l’ho disturbata... Volevo alla svelta far co-noscenza con lei. Io sono ciabattino, il mio nome è Gotlib◊ul’c, e vivo da voi attraverso la strada, in quella casetta cheè di fronte alle vostre finestre. Domani festeggio le mie noz-

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32 Shakespeare nell’Amleto, Walter Scott nella Sposa di Lammermoor.

ze d’argento, e prego lei e le sue figlie di pranzare da me inamicizia.” L’invito fu accolto favorevolmente. Il fabbrican-te di bare pregò il ciabattino di sedere e di prendere unatazza di tè, e grazie all’indole aperta di Gotlib ◊ul’c prestoessi parlavano amichevolmente. “Come va il commercio divostra grazia?” chiese Adrijan. “Eh, eh, eh,” rispose ◊ul’c,“così cosà. Non mi posso lamentare. Anche se, naturalmente,la mia merce non è come la sua: un vivo senza scarpe se lacava, ma un morto senza tomba non vive.” “La pura verità,”notò Adrijan; “però, se un vivo non ha soldi per comprarele scarpe, non c’è da arrabbiarsi, si va scalzi; ma un mortopovero anche gratis prende la bara.” In questo modo la con-versazione continuò tra i due per un po’; alla fine il ciabat-tino si alzò e salutò il fabbricante di bare rinnovando il suoinvito.

Il giorno dopo, alle dodici in punto, il fabbricante di ba-re e le sue figlie uscivano dal cancello della casa appenacomprata e si dirigevano dal vicino. Non starò a descriverené il caffettano russo di Adrijan Prochorov, né gli abiti eu-ropei di Akulina e Dar’ja, scostandomi in questo caso dalleabitudini dei romanzieri contemporanei. Ritengo, tuttavia,non sia superfluo notare che entrambe le fanciulle indos-savano cappelli gialli e scarpe rosse, cosa che succedeva lo-ro solo nei casi solenni.

Lo stretto appartamento del ciabattino era colmo di ospi-ti, per la maggior parte artigiani tedeschi con le loro moglie apprendisti. Di funzionari russi c’era solo una guardia, ilfinlandese Jurko, che aveva saputo conquistare, nonostan-te la sua umile condizione, la particolare benevolenza delpadrone di casa. In tale condizione aveva servito per venti-cinque anni con fedeltà e giustezza come il postino di Po-gorel’skij.33 L’incendio dell’anno dodici, annientando l’anti-ca capitale, aveva distrutto anche la sua gialla garitta. Masubito dopo la cacciata del nemico al suo posto ne com-parve una nuova, grigiastra con colonnine bianche di ordi-ne dorico, e Jurko cominciò di nuovo ad andare avanti e in-dietro davanti a essa con la scure e in corazza di bigello.34 Lo

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33 Il postino Onufrij è il protagonista di un racconto di Antonij Pogo-rel’skij (pseudonimo di Aleksej Alekseeviç Perovskij, 1787-1836).

34 In corsivo un verso tratto dalla fiaba di Aleksandr Efimoviç Izmaj-lov (1779-1831), Pachomovna la stupida. Il bigello è un ruvido panno dicolore grigiastro.

conoscevano la maggior parte dei tedeschi che vivevano vi-cino alla porta Nikitskaja; ad alcuni di essi era anche suc-cesso di pernottare da Jurko nella notte tra la domenica eil lunedì. Adrijan fece subito conoscenza con lui, un uomodel quale presto o tardi poteva accadere di avere bisogno, equando gli ospiti si sedettero a tavola, essi si sedettero in-sieme. Il signor e la signora ◊ul’c e la loro figlia, la dicias-settenne Lotchen, pranzando con gli ospiti li pregavano in-tanto di non far cerimonie e aiutavano la cuoca a servire.La birra scorreva. Jurko mangiava per quattro; Adrijan nongli era da meno; le sue figlie facevano complimenti; la con-versazione in tedesco si faceva di ora in ora più rumorosa.All’improvviso il padrone di casa richiamò l’attenzione e,stappando una bottiglia incatramata, ad alta voce disse inrusso: “Alla salute della mia buona Luisa!”. Il semicham-pagne cominciò a schiumare. Il padrone di casa baciò te-neramente il fresco viso quarantenne della sua compagnae gli ospiti bevvero rumorosamente alla salute della buonaLuisa. “Alla salute dei miei graditi ospiti!” esclamò il pa-drone di casa stappando una seconda bottiglia, e gli ospitilo ringraziarono vuotando ancora i suoi bicchierini. Qui ibrindisi cominciarono a susseguirsi uno all’altro: bevveroalla salute di ciascun singolo ospite, bevvero alla salute diMosca e di un’intera dozzina di cittadine germaniche, bev-vero alla salute di tutte le corporazioni in generale e di cia-scuna in particolare, bevvero alla salute dei mastri e degliapprendisti. Adrijan bevve con diligenza e si rallegrò tantoche egli stesso propose qualche brindisi scherzoso.

D’un tratto uno degli ospiti, un grasso panettiere, alzòil bicchierino ed esclamò: “Alla salute di quelli per i qualilavoriamo, unserer Kundleute!”.35 La proposta, come tutte,fu accolta con gioia e unanimemente. Gli ospiti comincia-rono a inchinarsi l’uno all’altro, il sarto al ciabattino, il cia-battino al sarto, il panettiere a entrambi, tutti al panettie-re e così via. Jurko, tra questi inchini reciproci, gridò, ri-volto al proprio vicino: “Be’? Bevi, paparino, alla salute deituoi morti”. Tutti scoppiarono a ridere, ma il fabbricantedi bare si ritenne offeso e si accigliò. Nessuno se ne accor-se, gli ospiti continuarono e già suonava il vespro quandosi alzarono da tavola.

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35 Dei nostri avventori! (in tedesco nel testo).

Gli ospiti se ne andarono tardi e per la maggior parteubriachi. Il grasso panettiere e un rilegatore il cui viso

sembrava rilegato in marocchino rosso,36

accompagnarono sottobraccio Jurko alla sua garitta, se-guendo in tal caso il modo di dire russo “il debito è belloquando vien pagato”. Il fabbricante di bare tornò a casaubriaco e in collera. “Cosa vuol dire, allora,” ragionava adalta voce, “che il mio mestiere è meno onesto degli altri? For-se il fabbricante di bare è il fratello del boia? Cosa ridono,gli infedeli? Forse il fabbricante di bare è il buffone di Na-tale? Volevo invitarli nella casa nuova, offrirgli un lauto ban-chetto: guai al mondo se faccio una cosa del genere! Chia-merò invece quelli per i quali lavoro: i morti ortodossi.” “Co-sa dici, babbino?” disse la serva che gli stava togliendo lescarpe, “che sciocchezze dici? Fatti il segno della croce! Chia-mare i morti nella casa nuova! Che paura!” “Per Dio se lichiamo,” continuò Adrijan, “e domani stesso. Fatemi il pia-cere, miei benefattori, domani sera da me a festeggiare; vioffrirò ciò che Dio mi ha mandato.” Con queste parole il fab-bricante di bare andò a letto e poco dopo russava.

Nel cortile era ancora buio quando Adrijan si svegliò.La mercantessa Trjuchina era morta quella stessa notte eun corriere dal suo amministratore aveva galoppato fino aAdrijan con la notizia. Il fabbricante di bare gli diede perquesto dieci copeche di mancia, si vestì in fretta, prese unacarrozza e andò a Razguljaj. Al portone della defunta c’eragià la polizia e i mercanti andavano avanti e indietro comecorvi che avessero annusato un corpo morto. La defunta erastesa sul tavolo, gialla come la cera, ma non ancora defor-mata dalla putrefazione. Intorno a lei si stringevano i pa-renti, i vicini e i servi. Tutte le finestre erano aperte; le can-dele ardevano; dei preti leggevano delle preghiere. Adrijansi avvicinò al nipote della Trjuchina, un giovane mercantecon un soprabito alla moda, annunciandogli che la bara, lecandele, i mantelli e gli altri accessori funebri gli sarebbe-ro stati subito consegnati in perfetto ordine. L’erede lo rin-graziò distrattamente dicendo che sul prezzo non avrebbe

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36 Verso della commedia Il fanfaronedi Jakov BorisoviçKnjaΩnin (1742-1791).

trattato e che contava in tutto sulla sua coscienza. Il fab-bricante di bare, come suo solito, giurò che non avrebbepreso più del dovuto; scambiò uno sguardo significativo conl’amministratore e cominciò a darsi da fare. Tutto il giornoviaggiò da Razguljaj alla porta Nikitskaja e viceversa; sottosera aveva fatto tutto e si diresse a casa a piedi, lasciandolibera la sua vettura. Era una notte di luna. Il fabbricantedi bare arrivò felicemente alla porta Nikitskaja. Vicino allachiesa dell’Ascensione lo chiamò il nostro conoscente, Jurko,che, riconosciutolo, gli augurava la buonanotte. Era tardi.Il fabbricante di bare aveva già raggiunto la propria casaquando d’un tratto gli parve che qualcuno si fosse avvici-nato al suo portone, avesse aperto la porticina e si fosse na-scosto dentro. “Cosa vorrebbe dire?” pensò Adrijan. “Chipuò volere qualcos’altro da me? Non sarà un ladro che siintroduce in casa mia? O sono degli innamorati che vannodalle mie stupide? Bella roba!” E già il fabbricante di barepensava di chiamare in aiuto il suo conoscente Jurko. Inquel momento qualcun altro si era avvicinato alla portici-na e si preparava a entrare ma, vedendo correre il padronedi casa, si era fermato e si era tolto il cappello a tre punte.Il suo viso ad Adrijan sembrò conosciuto, ma nella frettanon fece in tempo a distinguerlo bene. “È venuto a confe-rire con me,” disse, ansando, Adrijan, “entri, faccia la cor-tesia.” “Non fare cerimonie, paparino,” rispose quello convoce sorda, “vai avanti tu; mostra la strada agli ospiti!”Adrijan non ebbe neanche il tempo di fare cerimonie. Laporticina era socchiusa, andò su per la scala e l’altro dietrodi lui. Ad Adrijan sembrava che nelle sue stanze cammi-nassero delle persone. “Che diavoleria!” pensò, e si affrettòa entrare... qui gli vennero a mancare le gambe. La stanzaera piena di morti. Dalla finestra la luna illuminava i lorovolti gialli e blu, le bocche infossate, torbide, gli occhi se-michiusi e i nasi sporgenti... Adrijan con orrore riconobbein essi le persone sepolte a sua cura e nell’ospite entrato conlui il brigadiere sepolto con la pioggia torrenziale. Tutti, si-gnore e uomini, accerchiarono il fabbricante di bare con in-chini e saluti, tranne un povero diavolo sepolto gratis nonmolto tempo prima, il quale, imbarazzandosi e vergognan-dosi dei suoi stracci, non si avvicinava e stava umile in unangolo. Gli altri erano tutti vestiti decorosamente: le de-funte in cuffia e nastri, i funzionari morti in uniforme, ma

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con le barbe non fatte, i mercanti con i caffettani della fe-sta. “Vedi, Prochorov,” disse il brigadiere a nome di tutta larispettabile compagnia, “ci siam levati tutti al tuo invito; so-no rimasti a casa solo quelli che non potevano più, che si so-no completamente dissestati, quelli a cui sono rimasti solole ossa senza pelle, ma di quelli uno non ha resistito: volevatanto esser da te...” In quel momento un piccolo scheletro sifece strada tra la folla e si avvicinò ad Adrijan. Il suo teschiosorrideva carezzevolmente al fabbricante di bare. Brandellidi panno verde chiaro e rosso e di decrepita tela pendevanoda lui come da un’asta, e le ossa delle gambe sbattevano ingrossi stivaloni come pestelli nel mortaio. “Non mi hai ri-conosciuto, Prochorov,” disse lo scheletro. “Ricordi il ser-gente della guardia a riposo Pëtr Petroviç Kurilkin, quellostesso al quale nell’anno 1799 hai venduto la tua prima ba-ra, e oltretutto di pino per una di quercia?” Con queste pa-role il morto gli tese un abbraccio osseo; ma Adrijan, rac-cogliendo le forze, urlò e lo respinse. Pëtr Petroviç traballò,cadde e si sfasciò tutto. Tra i morti si levò un mormorio diindignazione; tutti intervennero in difesa del loro compa-gno, attaccarono Adrijan con ingiurie e minacce e il poveropadrone di casa, assordato dalle loro grida e quasi schiac-ciato perse la presenza di spirito, cadde egli stesso sulle os-sa del sergente della guardia a riposo e svenne.

Il sole illuminava già da tempo il letto sul quale giace-va il fabbricante di bare. Alla fine egli aprì gli occhi e videdavanti a sé la lavorante che ravvivava il samovar. Con or-rore Adrijan si ricordò tutti i fatti del giorno precedente. LaTrjuchina, il brigadiere e il sergente Kurilkin si presentaro-no confusamente alla sua immaginazione. Aspettò in si-lenzio che la lavorante gli rivolgesse la parola e gli annun-ciasse le conseguenze delle avventure notturne.

“Come hai dormito, babbino Adrijan Prochorov?” dis-se Aksin’ja, passandogli la veste da camera. “È passato a cer-carti il vicino sarto e la guardia del posto è corsa ad avvi-sare che oggi è l’onomastico del commissario, ma tu ti de-gnavi di dormire e non ti abbiamo voluto svegliare.”

“E sono venuti a cercarmi dalla povera Trjuchina?”“Povera? È morta forse?”“Ma che stupida! Non mi hai aiutato ieri a preparare i

suoi funerali?”“Cosa dici, babbino? Ti è impazzita la testa o l’ubria-

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chezza di ieri non t’è ancora passata? Che funerali ci sonstati, ieri? Hai banchettato tutto il giorno dal tedesco, seitornato ubriaco, sei caduto sul letto, e hai dormito fino aquest’ora che han già suonato per la messa.”

“Davvero?” disse rallegrandosi il fabbricante di bare.“Proprio così,” rispose la lavorante.“Be’, se è così dammi il tè alla svelta e va’ a chiamar le

mie figlie.”

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Il direttore della stazione

Registratore di collegio,Il dittatore della stazione di posta.PRINCIPE VJAZEMSKIJ37

Chi non ha maledetto i direttori delle stazioni, chi nonha litigato con loro? Chi, in un momento di ira, non ha chie-sto loro il libro fatale per scriverci su la sua inutile lamen-tela per le persecuzioni, le irregolarità, i ritardi? Chi non liconsidera rifiuti del genere umano, come gli antichi scrit-turali o, per lo meno, come i briganti di Murom? Saremo,tuttavia, corretti, ci sforzeremo di metterci nei loro pannie, forse, giudicheremo con molta più indulgenza. Chi è, ildirettore della stazione? Un vero martire di quattordicesi-ma classe,38 protetto dal suo grado solo dalle percosse, e an-che questo non sempre (mi rivolgo alla coscienza dei mieilettori). Che impiego è l’impiego di questo dittatore, comelo chiama scherzosamente il principe Vjazemskij? Non è unvero ergastolo? Senza pace né di giorno, né di notte. Tuttala stizza accumulata nel corso di un viaggio noioso, il viag-giatore la sfoga sul direttore. Il tempo è odioso, la strada ècattiva, il postiglione testardo, i cavalli non tirano e il col-pevole è il direttore. Entrando nella sua umile abitazione,il passeggero lo guarda come si guarda un nemico; bene, segli riesce di liberarsi velocemente dell’ospite non invitato,ma se non ci sono cavalli? Dio! Che ingiurie, che minaccecominciano a cadere sulla sua testa! Con la pioggia e con ilfango è costretto a correre per i cortili; con la bufera, conun freddo da lupi va in anticamera per riposarsi almeno un

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37 L’epigrafe è tratta, con qualche cambiamento, dalla poesia La sta-zione (1825) di Pëtr Andreeviç Vjazemskij (1792-1878).

38 La Tabella dei gradi di dignità, introdotta da Pietro il Grande, divi-deva i servitori dello stato russo in quattordici gradi, l’ultimo dei quali eraRegistratore di collegio, il grado del direttore della stazione di posta.

momento dalle grida e dalle spinte degli inquilini irritati.Arriva un generale: il direttore tremante gli dà le due ulti-me trojke, compresa quella postale. Il generale se ne va sen-za dirgli grazie. Cinque minuti dopo: suona un campanel-lo. E un corriere militare gli getta sul tavolo il suo ordineper ricevere i cavalli. Cerchiamo di capire davvero tutto ciò,e al posto dell’indignazione il nostro cuore si riempirà disincera compassione. Ancora qualche parola: per vent’an-ni ho girato la Russia in tutte le direzioni; conosco quasitutte le strade postali; conosco qualche generazione di po-stiglioni; è difficile che non riconosca il volto di un diretto-re, con pochi non ho avuto a che fare. Il curioso corredodelle mie osservazioni di viaggio spero di pubblicarlo trapoco: nel frattempo dico solo che il ceto dei direttori dellestazioni viene presentato all’opinione pubblica nel modopiù falso. Questi tanto calunniati direttori sono in genera-le persone pacifiche, servizievoli, propensi alla civile con-vivenza, modesti nel pretender degli onori e non troppo ve-nali. Dai loro discorsi (che i signori di passaggio ingiusta-mente disprezzano) si possono ricavare molte cose curiosee istruttive. Per quel che mi riguarda, io, lo confesso, pre-ferisco la loro conversazione ai discorsi di qualsiasi fun-zionario di sesta classe che viaggi per necessità demaniali.

Si può indovinare facilmente che ho degli amici nel ri-spettabile ceto dei direttori. Effettivamente, il ricordo di unodi loro è per me prezioso. Le circostanze, nel passato, ci av-vicinarono, e io adesso ho intenzione di parlare di lui con icortesi lettori.

Nell’anno 1816, nel mese di maggio, mi successe di at-traversare il governatorato di *** su una strada oggi di-strutta. Avevo un grado insignificante, viaggiavo con caval-li di posta e pagavo l’indennità per due cavalli. In conse-guenza di ciò, i direttori con me non facevano cerimonie, espesso prendevo con la forza quello che, a mio avviso, misarebbe spettato di diritto. Essendo giovane e irascibile,mi indignavo per la bassezza e la pochezza d’animo dei di-rettori quando questi ultimi assegnavano la trojka che ave-vano preparato per me alla carrozza di un signore d’altogrado. Per quanto tempo non mi potei abituare al fatto cheun servo scrupoloso mi saltasse nel servire le portate al pran-zo del governatore. Adesso l’una e l’altra cosa mi sembranodel tutto normali. Infatti, cosa sarebbe stato di noi se inve-

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ce della regola buona per tutti: grado, rispetta il grado, se nefosse introdotta in uso un’altra, per esempio: intelligenza,rispetta l’intelligenza. Che litigi sarebbero sorti! E i servi dachi avrebbero cominciato a servire le pietanze? Ma torno almio racconto.

Era una giornata calda. A tre verste dalla stazione di ***cominciò a piovigginare, e un attimo dopo una pioggia tor-renziale mi aveva bagnato fino alle ossa. All’arrivo alla sta-zione la mia prima preoccupazione fu di rivestirmi al piùpresto, la seconda di chiedere il tè. “Ehi, Dunja,” gridò il di-rettore, “metti su il samovar e va’ a cercar della panna.” Aqueste parole uscì da dietro il tramezzo una ragazza suiquattordici anni e andò nell’ingresso. La sua bellezza micolpì. “È tua figlia?” chiesi al direttore. “Mia figlia,” rispo-se con l’aria dell’amor proprio soddisfatto, “ed è così giudi-ziosa, così svelta, tutta la sua povera mamma.” Quindi simise a trascrivere il mio foglio di viaggio, e io cominciai aosservare i quadretti che abbellivano il suo umile ma lindorifugio. Raffiguravano la storia del figliol prodigo: nel pri-mo, un rispettabile vecchietto in berretto da notte e vesteda camera salutava un giovane irrequieto che in fretta ri-ceveva la sua benedizione e un sacchetto con i soldi. In unaltro era raffigurato a chiari tratti il comportamento de-pravato del giovane: è seduto a un tavolo circondato da fin-ti amici e da donne senza vergogna. Più avanti il giovane,rovinatosi, vestito di stracci e con il cappello a tre punte,pascola i maiali e divide con loro il pasto; sul suo volto so-no raffigurati profonda tristezza e pentimento. Alla fine erapresentato il suo ritorno dal padre; il buon vecchietto congli stessi berretto da notte e veste da camera gli corre in-contro: il figliol prodigo è in ginocchio; in lontananza il cuo-co uccide il vitello grasso e il fratello maggiore interroga unservo sulla ragione di tanta felicità. Sotto ogni quadrettolessi dei discreti versi tedeschi. Tutto ciò si è conservato fi-nora nella mia memoria, così come i vasi con le balsami-ne39 e il letto con la tendina variopinta e altri oggetti che al-lora mi circondavano. Vedo come l’avessi di fronte il pa-drone di casa stesso, un uomo sui cinquant’anni, fresco e

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39 Erba annua del genere impaziente (Impatiens balsamina), dai fiorigialli e dai frutti a valve che nel momento della maturità scagliano i semiappena toccati.

vigoroso, e il suo lungo soprabito verde con tre medagliecoi nastri scoloriti.

Non avevo fatto in tempo a saldare il mio vecchio po-stiglione che Dunja era tornata con il samovar. La piccolacivetta al secondo sguardo si accorse dell’impressione cheaveva prodotto su di me; abbassò i grandi occhi blu; mi mi-si a parlare con lei, mi rispondeva senza nessuna timidez-za come una ragazza che conosceva il mondo. Offrii a suopadre un bicchiere di punch; a Dunja servii una tazza di tè,e noi tre cominciammo a conversare come se ci conosces-simo da un secolo.

I cavalli da tempo erano pronti, ma io ancora non vole-vo separarmi dal direttore e dalla sua figliola. Alla fine li sa-lutai; il padre mi augurò buon viaggio e la figlia mi accom-pagnò fino alla carrozza. Nell’ingresso mi fermai e le chie-si il permesso di baciarla; Dunja acconsentì... Posso conta-re molti baci,

Da quando mi occupo di questo,

ma nessuno mi ha lasciato un così lungo, un così piacevo-le ricordo.

Passarono alcuni anni, e le circostanze mi condusserosu quella stessa strada, in quegli stessi luoghi. Mi ricordaidella figlia del vecchio direttore e mi rallegrai al pensieroche l’avrei rivista ancora. Ma, pensai, il vecchio direttore,forse, l’han già cambiato; probabilmente Dunja è già spo-sata. Anche il pensiero della morte di uno o dell’altro ba-lenò nella mia mente, e mi avvicinavo alla stazione di ***con un triste presentimento.

I cavalli si fermarono alla casetta di posta. Entrato nel-la stanza, riconobbi subito i quadretti raffiguranti la storiadel figliol prodigo; il tavolo e il letto si trovavano al postodi prima; ma alle finestre non c’eran più fiori, e tutto in-torno indicava la vecchiezza e la trascuratezza. Il direttoredormiva sotto un tulup40; il mio arrivo l’aveva svegliato; sialzò. Era proprio Samson Vyrin; ma com’era invecchiato!Mentre si concentrava per trascrivere il mio foglio di viag-gio, io guardavo la sua canizie, le profonde rughe nel suovolto da tempo non raso, la sua schiena incurvata e non po-

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40 Pelliccia rozza di pecora o montone.

tei non meravigliarmi di come tre o quattro anni avesseropotuto trasformare un uomo vigoroso in un gracile vec-chietto. “Mi hai riconosciuto?” gli chiesi, “noi siamo vecchiconoscenti.”

“Può essere,” rispose cupo, “qui la strada è grande; sisono fermati molti viaggiatori.” “Sta bene la tua Dunja?”continuai. Il vecchio si accigliò. “Chi lo sa,” rispose. “Allo-ra, si vede, s’è sposata,” dissi. Il vecchio fece finta di nonaver sentito la mia domanda e continuò, sillabando, a leg-gere il mio foglio di via. La smisi con le mie domande e or-dinai di mettere la teiera sul fuoco. La curiosità comincia-va a inquietarmi, ma speravo che il punch sciogliesse la lin-gua del mio vecchio conoscente.

Non mi sbagliavo: il vecchio non rifiutò il bicchiere chegli era offerto. Notai che il rum rischiarava la sua cupezza.Al secondo bicchiere divenne loquace: si ricordò o fece fin-ta di ricordarsi di me, e ascoltai da lui un racconto che al-lora mi interessò e mi colpì molto.

“Così lei conosceva la mia Dunja?” cominciò. “E chi nonl’ha conosciuta? Ah, Dunja, Dunja! Che ragazza che era!Chiunque passava, elogiavano tutti, non biasimava nessu-no. Le signore le regalavano chi un fazzoletto, chi degli orec-chini. I signori viaggiatori apposta si fermavano, come sevolessero pranzare, oppure cenare, mentre invece era soloper guardarla più a lungo. Delle volte, un gran signore, an-che se era irritato davanti a lei si calmava e mi parlava conbenevolenza. Ci creda o no, signore, i corrieri, i corrieri mi-litari si fermavano a parlare con lei per delle mezz’ore. Te-neva su la casa: qualcosa da mettere in ordine, qualcosa dapreparare, riusciva a far tutto. E io, vecchio stupido, non laguardavo mai abbastanza, non mi saziavo mai della miagioia; non le volevo forse bene, alla mia Dunja, non la vez-zeggiavo, forse, la mia cocca? Forse non aveva di che vive-re? Mannò, per i guai non ci son scongiuri, a quel che è scrit-to non si scappa.” Qui si mise a raccontarmi nei dettagli lasua pena. Tre anni prima, una volta, una sera d’inverno,mentre il direttore stava rigando un nuovo libro e sua figliadietro il tramezzo stava cucendosi un abito, una trojka siavvicinò e un viaggiatore con un berretto circasso, con uncappotto militare, avvolto in uno scialle, entrò nella stanzachiedendo dei cavalli. I cavalli erano tutti fuori. A questanotizia il viaggiatore era pronto ad alzar la voce e lo staffi-

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le; ma Dunja, abituata a scene del genere, uscì di corsa dadietro il tramezzo e carezzevolmente si rivolse al viaggia-tore con la domanda: non avrebbe per caso desiderato man-giare qualcosa? L’apparizione di Dunja produsse il suo so-lito effetto. L’ira del viaggiatore passò. Accettò di aspettarei cavalli e ordinò la cena. Toltosi il fradicio cappello dal pe-lo lungo, liberatosi dallo scialle e strappatosi di dosso il cap-potto, il passeggero risultò essere un giovane ussaro slan-ciato con baffi neri. Si accomodò dal direttore e si mise aparlare allegramente con lui e con sua figlia. Portarono lacena. Nel frattempo i cavalli erano arrivati e il direttore or-dinò che immediatamente, senza dar loro da mangiare, liattaccassero alla carrozza del passeggero; ma, tornato, trovòil giovanotto quasi senza sensi steso su una panca; si erasentito male, la testa aveva cominciato a dolere, ripartireera impossibile... Che fare? Il direttore gli cedette il suo let-to e si sarebbe dovuto, se il malato non si fosse sentito me-glio, il giorno successivo mandar qualcuno a S*** a cerca-re un medico.

Il giorno successivo l’ussaro stava peggio. Il suo uomoandò a cavallo in città a cercare un medico. Dunja gli av-volse la testa in un fazzoletto intriso di aceto e sedette conil cucito al suo letto. Il malato in presenza del direttore ge-meva e quasi non proferiva verbo, tuttavia bevette due taz-ze di caffè e, gemendo, ordinò il pranzo. Dunja non si al-lontanava da lui. Chiedeva continuamente da bere e Dunjagli allungava un boccale di una limonata che ella stessa ave-va preparato. Il malato vi intingeva le labbra e ogni volta,restituendo il boccale, in segno di riconoscenza con la suadebole mano stringeva la mano della piccola Dunja. All’o-ra di pranzo arrivò il medico. Egli sondò il polso del mala-to, parlò con lui in tedesco e in russo annunziò che quel chegli occorreva era solo il riposo, e che nel giro di due giornigli sarebbe stato possibile riprendere la strada. L’ussaro gliconsegnò venticinque rubli per la visita e lo invitò a pran-zo: il medico accettò; mangiarono entrambi con grande ap-petito, bevvero una bottiglia di vino e si lasciarono moltocontenti l’uno dell’altro.

Passò un altro giorno e l’ussaro si ristabilì del tutto. Eraeccezionalmente allegro, scherzava continuamente, ora conDunja, ora con il direttore; fischiettava delle canzoni, chiac-chierava coi passeggeri, registrava i loro fogli di viaggio sul

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libro postale e si era così affezionato al buon direttore cheil terzo mattino gli dispiaceva dire addio al suo cortese ospi-te. Come giorno era domenica; Dunja si preparava alla mes-sa. All’ussaro attaccarono la carrozza. Salutò il direttore, loricompensò generosamente per l’alloggio e il vitto; salutò an-che Dunja e si offrì di accompagnarla fino alla chiesa, chesi trovava al limitare del villaggio. Dunja era perplessa...

“Di cosa hai paura?” le disse il padre, “guarda che suasignoria non è un lupo e non ti mangia: va’ fino alla chie-sa.” Dunja si sedette in carrozza vicino all’ussaro, il servosaltò sulla sponda, il postiglione fischiò e i cavalli partiro-no al galoppo.

Il povero direttore non capiva in che modo avesse po-tuto egli stesso permettere alla sua Dunja di partire con l’us-saro, come si fosse fatto accecare in tal modo e cosa fossesuccesso allora alla sua intelligenza. Non era passata mezz’o-ra che il suo cuore aveva cominciato a far male, a far ma-le, e l’inquietudine si era impadronita di lui a tal punto chenon si trattenne e andò a messa lui stesso. Avvicinandosi al-la chiesa vide che la gente se ne stava già andando, che Dunjanon era né nel recinto né sul terrazzino. Entrò in fretta inchiesa: il parroco scendeva dall’altare; il sagrestano spe-gneva le candele; due vecchiette pregavano ancora in un an-golo; ma Dunja in chiesa non c’era. Il povero padre a fati-ca si decise a chiedere al sacrestano se era o non era stataa messa. Il sacrestano rispose che non c’era stata. Il diret-tore tornò a casa più morto che vivo. Un’ultima speranzagli restava: a Dunja, per la leggerezza degli anni giovanili,era venuto in mente di fare un giro fino alla stazione suc-cessiva, dove viveva la sua madrina. Con una agitazione do-lorosa aspettava il ritorno della trojka sulla quale le avevapermesso di salire. Il postiglione non tornava. Alla fine ver-so sera arrivò solo e ubriaco, con una notizia micidiale:“Dunja dall’altra stazione è andata più avanti con l’ussaro”.

Il vecchio non sopportò la sua disgrazia; si coricò subi-to in quello stesso letto in cui il giorno prima giaceva il gio-vane ingannatore. Ora il direttore, considerando tutte le cir-costanze, indovinò che la malattia era stata simulata. Al po-veretto venne una gran febbre; lo trasportarono a S*** e alsuo posto destinarono temporaneamente un altro. Quellostesso medico che era venuto dall’ussaro curò anche lui. As-sicurò al direttore che il giovanotto era perfettamente sano

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e che fin da allora aveva indovinato le sue cattive intenzio-ni, ma aveva taciuto, temendo il suo staffile. Dicesse la ve-rità, il tedesco, o volesse solo vantarsi della sua lungimi-ranza, sta di fatto che non confortò in alcun modo il pove-ro malato. Appena rimessosi dalla malattia, il direttore chie-se al capo delle poste di S*** un congedo di due mesi e, sen-za dir niente delle sue intenzioni, si diresse a piedi dietrosua figlia. Dal foglio di via seppe che il capitano di cavalle-ria Minskij andava da Smolensk a Pietroburgo. Il postiglioneche l’aveva portato raccontò che per tutta la strada Dunjapiangeva, anche se sembrava che andasse di sua volontà.“Magari,” pensò il direttore, “riporterò a casa il mio agnel-lino smarrito.” Con questo pensiero arrivò a Pietroburgo,si fermò al reggimento Izmajlovskij, in casa di un sottuffi-ciale a riposo, suo antico commilitone, e cominciò le sue ri-cerche. Presto seppe che il capitano di cavalleria Minskijera a Pietroburgo e che viveva nella locanda Demut. Il di-rettore decise di presentarsi a lui.

Al mattino presto arrivò in anticamera e chiese di rife-rire a sua signoria che un vecchio soldato chiedeva di in-contrarlo. Il lacchè militare, mentre puliva uno stivale sul-la forma, gli disse che il signore dormiva e che prima delleundici non avrebbe ricevuto nessuno. Il direttore se ne andòe tornò all’ora indicata. Minskij stesso gli andò incontro investe da camera e con un berretto rosso. “Di cosa hai biso-gno, fratello?” gli chiese. Il cuore del vecchio ribollì, le la-crime gli inondarono gli occhi ed egli, con voce tremante,disse solo: “Sua signoria! Faccia la grazia divina!”. Minskijgli gettò uno sguardo veloce, avvampò, lo prese per un brac-cio, lo condusse in un salottino e chiuse la porta dietro disé. “Sua signoria,” continuò il vecchio, “ogni lasciata è per-sa; mi restituisca almeno la mia povera Dunja. Ormai si èdivertito a sazietà, con lei: non la rovini inutilmente.” “Quelche è fatto è fatto,” disse il giovanotto fortemente turbato,“io ho sbagliato verso di te e sono lieto di chiederti scusa;ma non pensare che io possa abbandonare Dunja: sarà fe-lice, ti do la mia parola d’onore. A te a cosa serve? Mi ama;non è più abituata alla sua condizione di prima. Né tu nélei dimentichereste quello che è successo.” Poi, infilandogliqualcosa nella manica, aprì la porta e il direttore, senza ri-cordare egli stesso come, si trovò per strada.

A lungo stette immobile, infine vide nel risvolto della sua

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manica un involto di carta; lo tirò fuori e svolse alcuni asse-gnati spiegazzati da cinque e dieci rubli. Le lacrime di nuo-vo gli inondarono gli occhi, lacrime di sdegno! Strinse le ban-conote in una pallottola, le gettò per terra, le pestò col taccoe se ne andò... Dopo essersi allontanato di qualche passo sifermò, si fece pensieroso... e si voltò... ma gli assegnati nonc’eran già più. Un giovanotto benvestito, vedendolo, corseverso una vettura, salì in fretta e gridò: “Andiamo!”.

Il direttore non si mise a corrergli dietro. Decise di tor-nare a casa nella sua stazione, ma prima voleva vedere al-meno un’altra volta la sua povera Dunja. Perciò due giornidopo ritornò da Minskij; ma il lacchè militare gli disse se-vero che il signore non riceveva nessuno, col petto lo spin-se fuori dall’anticamera e gli chiuse la porta in faccia. Il di-rettore stette, ristette, poi se ne andò.

Quello stesso giorno, di sera, camminava per il Litejnyjdopo aver fatto dire un Te Deum alla chiesa di Tutti gli Af-flitti. A un tratto sfrecciò davanti a lui un calesse elegantee il direttore riconobbe Minskij. Il calesse si fermò davantia una casa a tre piani, proprio all’ingresso, e l’ussaro corsesu per il terrazzino. Un’idea felice balenò nella testa del di-rettore. Tornò indietro e, raggiunto il cocchiere: “Di chi è,fratello, il cavallo?” chiese, “non è di Minskij?”. “Proprio,”rispose il cocchiere, “e a te cosa interessa?” “Ecco cosa: iltuo signore mi ha ordinato di portare alla sua Dunja un bi-gliettino; ma io ho dimenticato dove abita, Dunja.” “Pro-prio qui, al secondo piano. Hai tardato, fratello, col tuo bi-gliettino: adesso da lei c’è lui in persona.” “Non è impor-tante,” ribatté il direttore con un ineffabile movimento delcuore, “grazie dell’indicazione, e io adesso faccio il mio do-vere.” E con queste parole andò su per le scale.

La porta era chiusa; suonò, passarono alcuni secondi diun’attesa per lui penosa. Si sentì il rumore della chiave, gliaprirono. “Sta qui Avdot’ja Samsonovna?” chiese. “Qui,” ri-spose una domestica giovane, “cosa vuoi da lei?” Il diretto-re, senza rispondere, entrò nella sala. “Non si può, non sipuò,” gli gridò dietro la domestica, “Avdot’ja Samsonovnaha degli ospiti.” Ma il direttore, senza ascoltare, andò avan-ti. Le due prime stanze erano buie, nella terza c’era luce. Siavvicinò alla porta spalancata e si fermò. Nella camera,splendidamente arredata, Minskij sedeva pensoso. Dunja,vestita con tutto il lusso della moda, sedeva sul bracciolo

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della sua poltrona come una cavallerizza sulla sua sella in-glese. Guardava Minskij con tenerezza, avvolgendosi i suoiriccioli neri sulle dita scintillanti. Povero direttore! Mai lafiglia gli era sembrata tanto bella; volente o nolente la am-mirava. “Chi c’è?” chiese lei senza alzar la testa. Egli tac-que. Non ricevendo risposta, Dunja alzò la testa... e con ungrido cadde sul tappeto. Minskij, spaventato, si precipitòper sollevarla e d’un tratto, vedendo sulla porta il vecchiodirettore, lasciò Dunja e si avvicinò a lui tremando di rab-bia. “Cosa vuoi?” gli disse stringendo i denti, “perché mi vie-ni dietro di nascosto dappertutto, come un bandito, mi vuoiscannare? Fuori di qua!” e con il forte braccio, preso il vec-chio per il colletto, lo spinse giù per le scale.

Il vecchio tornò nel suo appartamento. Il suo amico gliconsigliò di fare reclamo; ma il direttore ci pensò, ci fece unacroce sopra e decise di lasciar perdere. Due giorni dopo tornòda Pietroburgo indietro alla sua stazione e si rimise di nuo-vo al suo dovere. “E sono già più di due anni,” concluse, “chevivo senza Dunja e che di lei non so niente di niente. Se è vi-va o no, lo sa il Signore. Ne succedon tante. Non è la prima,non sarà l’ultima, a essere sedotta da un perdigiorno di pas-saggio che la tiene e poi la lascia. Ce ne son molte a Pietro-burgo, di piccole stupide, oggi in raso e in velluto e doma-ni, guardi, spazzano la strada coi morti di fame. Quandopenso delle volte che anche Dunja, forse, finirà così, allorasenza volerlo faccio un peccato e le auguro la tomba...”

Questo fu il racconto del mio amico, vecchio direttore,racconto continuamente interrotto dalle lacrime, che asciu-gava in modo pittoresco con la propria falda, come lo ze-lante Terent’iç nella ballata di Dmitriev.41 Queste lacrime inparte erano provocate dal punch, del quale egli sorbì cin-que bicchieri nel corso del suo racconto: ma sia come siaesse colpirono fortemente il mio cuore. Dopo che ci conge-dammo, a lungo non potei dimenticare il vecchio direttore,a lungo pensai alla povera Dunja.

Recentemente, ancora, attraversando il paese di ***,mi ricordai del mio amico; venni a sapere che la stazioneche egli comandava era già stata eliminata. Alla mia do-manda: “È vivo il vecchio direttore?”, nessuno seppe dar-

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41 Riferimento alla poesia Il maresciallo di cavalleria a riposo (carica-tura) di Ivan Ivanoviç Dmitriev (1760-1837).

mi una risposta soddisfacente. Decisi di visitare il luogoconosciuto, presi a nolo dei cavalli e mi diressi verso il vil-laggio di N.

Succedeva d’autunno. Nubi grigiastre coprivano il cielo;un vento freddo tirava dai campi mietuti, trascinando consé le foglie rosse e gialle degli alberi che incontrava. Arrivaial villaggio al tramonto del sole e mi fermai alla casetta po-stale. Nell’antiporta (dove una volta mi aveva baciato la po-vera Dunja) venne fuori una donna grassa e alle mie do-mande rispose che il vecchio direttore era morto da un an-no, che nella sua casa si era stabilito un fabbricante di bir-ra e che lei era la moglie del fabbricante di birra. Mi di-spiacque per il mio viaggio inutile e per i sette rubli spesi in-vano. “Di cos’è morto?” chiesi alla moglie del birraio. “Be-veva, babbino,” rispose. “E dove l’hanno sepolto?” “Oltre illimite del villaggio, vicino alla sua povera moglie.” “Non misi può accompagnare alla tomba?” “Perché non si può? Ehi,Van’ka! Basta far confusione col gatto. Porta il signore al ci-mitero e fagli vedere la tomba del direttore.”

A queste parole un ragazzino cencioso, rosso e guerciocorse fino a me e mi portò subito oltre il limite del villaggio.

“Conoscevi il defunto?” gli chiesi per la strada.“Come si faceva a non conoscerlo! Mi ha insegnato a in-

tagliar gli zufoli. Delle volte (sia pace all’anima sua), tor-nava dall’osteria e noi dietro: ‘Nonno, nonno, le nocciolet-te!’. E lui ci dava le nocciolette. Ci stava sempre, con noi.”

“E i passeggeri lo ricordano?”“Adesso ci son pochi passeggeri; magari viene l’asses-

sore, ma lui non ha tempo per i morti. Poi d’estate è venu-ta una signora, e quella ha chiesto tanto del vecchio diret-tore e è andata sopra la sua tomba.”

“Che signora?” chiesi io, curioso.“Una bellissima signora,” rispose il ragazzino, “aveva una

carrozza con sei cavalli, con tre piccoli signori e con una nu-trice e con un cane nero; e quando le hanno detto che il vec-chio direttore era morto è scoppiata a piangere e ha dettoai figli: ‘Sedete tranquilli, io vado al cimitero’. E a me mihan chiamato a condurla. E la signora ha detto: ‘La cono-sco, la strada’. E mi ha dato cinque copeche d’argento, unacosì brava signora.”

Arrivammo al cimitero, un luogo nudo, non recintato,disseminato di croci di legno, senza neanche l’ombra di

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un albero. In vita mia non avevo mai visto un cimitero co-sì triste.

“Ecco la tomba del vecchio direttore,” mi disse il ra-gazzino, saltando su un mucchio di sabbia sul quale erapiantata una croce nera con un’immagine di rame.

“E la signora è venuta qua?” chiesi.“È venuta,” rispose Van’ka, “io l’ho guardata da lonta-

no. Si è inginocchiata qua e è stata inginocchiata molto. Epoi la signora è andata al villaggio e ha chiamato il pope,gli ha dato dei soldi e se n’è andata, e a me ha dato cinquecopeche d’argento, grande signora!”

Anch’io diedi cinque copeche al ragazzino e non rim-piansi più né il viaggio, né i sette rubli che avevo speso.

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La signorina contadina

Con tutti i vestiti, tu, Du√en’ka,Sei bella.BOGDANOVIÇ42

In uno dei nostri remoti governatorati si trovava la te-nuta di Ivan Petroviç Berestov. In gioventù aveva servito nel-la guardia, si era ritirato dal servizio nel 1797, era andatonel suo villaggio e da allora non era più andato da nessunaparte. Era stato sposato con una povera nobile che era mor-ta di parto in un momento in cui lui si trovava su un cam-po di caccia. L’esercizio dell’economia domestica lo consolòpresto. Costruì una casa secondo un proprio progetto, isti-tuì presso di sé una manifattura di panno, triplicò i profit-ti e cominciò a considerarsi l’uomo più intelligente in tut-ta la contrada, non contraddetto in ciò dai suoi vicini chevenivano da lui ospitati con le loro famiglie e i loro cani.Nei giorni feriali portava una giacchetta di cotone, per lefeste indossava un soprabito del panno fabbricato in casa;egli stesso trascriveva le spese e non leggeva niente tranne“Il bollettino del senato”. In generale gli volevan bene, ben-ché lo considerassero superbo. Non andava d’accordo conlui solo Grigorij Ivanoviç Muromskij, il suo vicino più pros-simo. Costui era un vero e proprio gran signore russo. Aven-do sperperato a Mosca la maggior parte dei suoi averi edessendo nel frattempo rimasto vedovo, era andato nel suoultimo villaggio dove aveva continuato a fare bizzarrie magià in un altro senso. Aveva coltivato un giardino inglese nelquale spendeva quasi tutto ciò che rimaneva delle sue ren-dite. I suoi stallieri erano vestiti come jockey inglesi. Sua fi-glia aveva una madame inglese. I suoi campi li lavorava luisecondo il metodo inglese:

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42 Versi tratti dal poema Du√en’ka (Piccola anima) di Ippolit Fëdoro-viç Bogdanoviç (1743-1803).

Ma in un’altra maniera il pane russo non vien su,43

e nonostante una significativa diminuzione delle spese, lerendite di Grigorij Ivanoviçnon aumentavano; anche in cam-pagna egli trovava il modo di far degli altri debiti; con tuttociò, veniva considerata persona non stupida, giacché, primodei possidenti del suo governatorato, aveva pensato di ipo-tecare la tenuta presso il consiglio di tutela; operazione chesembrava a quei tempi eccezionalmente complicata e au-dace. Tra le persone che lo biasimavano, Berestov era il piùsevero di tutti. L’odio per le innovazioni era un tratto di-stintivo del suo carattere. Egli non poteva parlare con in-differenza dell’anglomania del suo vicino e continuamentetrovava l’occasione per criticarlo. Se mostrava a un ospite isuoi possedimenti, in risposta alle lodi per le sue disposi-zioni di economia domestica, “Eggià”, diceva con un sorri-so furbo, “da me non è come dal mio vicino Grigorij Ivano-viç. Perché dovremmo rovinarci all’inglese! Sarebbe megliosfamarsi alla russa”. Questi e altri scherzi, per lo zelo dei vi-cini, erano portati a conoscenza di Grigorij Ivanoviç con ag-giunte e spiegazioni. L’anglomane sopportava le critiche conl’impazienza dei nostri giornalisti. Andava in bestia e chia-mava il suo Zoilo44 orso e provinciale.

Tali erano i rapporti tra questi due possidenti, quandoil figlio di Berestov arrivò in campagna da lui. Aveva stu-diato all’università di *** e avrebbe voluto entrar nell’eser-cito, ma il padre non era d’accordo. A un impiego civile ilgiovanotto non si sentiva per niente adatto. L’uno non la da-va vinta all’altro e il giovane Aleksej si mise a vivere, nel frat-tempo, come un gran signore, lasciandosi crescere i baffiper ogni evenienza.

Aleksej in effetti era in gamba. Davvero sarebbe stato unpeccato, se il suo corpo snello non fosse mai stato stretto inuna divisa militare e se egli, invece di mettersi in mostra su

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43 Verso dalla satira di Aleksandr Aleksandroviç ◊achovskij (1777-1846), Molière, il tuo dono con niente al mondo si può paragonare! (1808).

44 Storico e retore greco (400-320 a.C.), che compose una storia di An-fipoli (la sua città natale, in Macedonia) e una dalle origini alla morte diFilippo il Macedone, ma che è conosciuto per le feroci critiche a Omero,per le quali gli fu dato il soprannome di Homeromastix (sferza di Ome-ro). Attaccò apertamente anche Isocrate e Platone, che criticavano lo sti-le di Lisia, che lui invece ammirava.

un cavallo, avesse passato la sua giovinezza curvo sulle car-te di una cancelleria. Vedendo come alla caccia saltava sem-pre per primo senza guardare la strada, i vicini dicevano con-cordi che da lui non sarebbe mai uscito un buon capufficio.Le signorine lo guardavano e qualcuna non poteva staccar-gli gli occhi di dosso, perfino; ma Aleksej di loro si occupa-va poco, ed esse a ragione della sua insensibilità suppone-vano un legame amoroso. In effetti, passava di mano in ma-no la trascrizione dell’indirizzo di una delle sue lettere: “AdAkulina Petrovna Kuroçkinaja, a Mosca, di fronte al mona-stero Alekseevskij, nella casa del ramaio Savel’ev, e a lei umi-lissimamente la prego di consegnar questa lettera ad A.N.R.”.

Chi tra i miei lettori non ha vissuto in un villaggio, nonsi può immaginare l’incanto di queste signorine distrettua-li! Educate all’aria aperta, all’ombra dei meli dei loro giar-dini, la conoscenza del mondo e della vita la ricavano dailibri. La solitudine, la libertà e la lettura sviluppano prestosensi e passioni sconosciuti alle nostre distratte bellezze.Per una signorina il suono di una campanella è già un’av-ventura, un viaggio nella città vicina segna un’epoca dellavita e la visita di un ospite lascia un lungo, e a volte eternoricordo. Certo, ciascuno è libero di ridere di alcune delle lo-ro stranezze, ma gli scherzi di un osservatore superficialenon possono distruggere le loro qualità sostanziali, tra lequali è importante la particolarità del carattere, la singola-rità (individualité),45 senza la quale, secondo Jean-Paul, nonesiste nessuna grandezza umana. Nelle capitali le signorericevono, forse, un’educazione migliore; ma l’esperienza delmondo attenua il carattere e rende le anime uniformi comei copricapi. Questo sia detto non come giudizio, e non co-me biasimo, però comunque nota nostra manet,46 come scri-ve un commentatore antico.

È facile immaginare che impressione doveva produrreAleksej nella cerchia delle nostre signorine. Fu il primo aessere di fronte a loro tetro e disincantato, il primo che parlòloro di gioie perdute e della sua giovinezza sfiorita; oltre-tutto portava un anello nero con la figura di una testa mor-ta. Tutto ciò era straordinariamente nuovo in quel gover-natorato. Le signorine impazzivano per lui.

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45 In francese nel testo.46 In latino nel testo.

Ma la più presa di tutte, da lui, era la figlia del mio an-glomane, Liza, o Betsy, come la chiamava di solito Grigo-rij Ivanoviç. I loro padri non si frequentavano, lei non ave-va ancora visto Aleksej mentre tutte le sue vicine giovaniparlavano solo di lui. Aveva diciassette anni. Degli occhineri vivacizzavano il suo volto bruno e assai piacevole. Erafiglia unica e di conseguenza era viziata. La sua vivacità ei suoi continui scherzi incantavano il padre e facevano di-sperare la sua madame, Miss Jackson, una cerimoniosa si-gnorina quarantenne che si imbellettava e si tingeva di ne-ro le sopracciglia, due volte l’anno rileggeva Pamela, rice-veva perciò duemila rubli e moriva di noia in questa bar-bara Russia.

Di Liza si occupava Nastja; era più grande, ma altret-tanto sventata della sua signorina. Liza la amava molto, leconfidava tutti i suoi segreti, insieme a lei escogitava le sueimprese; in una parola, Nastja era nel villaggio di Priluçinouna figura molto più significativa di tutte le confidenti del-la tragedia francese.

“Mi permetta oggi di fare una visita,” disse un giornoNastja vestendo la signorina.

“Permetto; ma dove?”“A Tugilovo, dai Berestov. La moglie del cuoco fa l’ono-

mastico e ieri è venuta a invitarci a pranzo.”“Ecco!” disse Liza, “i signori litigano, e i servi si invita-

no tra loro.”“E noi cosa c’entriamo coi signori?” ribatté Nastja. “E io

poi sono sua, non del suo paparino. Lei se non sbaglio nonha ancora litigato con il giovane Berestov; e i vecchi che simanchino pure di rispetto, se questo li diverte tanto.”

“Cerca, Nastja, di vedere Aleksej Berestov, e poi rac-contami bene come è fatto e che tipo d’uomo è.”

Nastja promise e Liza aspettò tutto il giorno con impa-zienza il suo ritorno. La sera Nastja venne.

“Be’, Lizaveta Grigor’evna,” disse entrando nella stan-za, “ho visto il giovane Berestov: l’ho guardato a sazietà; sia-mo stati insieme tutto il giorno.”

“Come mai? Racconta, racconta bene.”“Va bene: eravamo io, Anis’ja Egoronva, Nenila,

Dun’ka...”“Sì, lo so. Ma poi?”“Aspetti, racconto per bene. Allora, siamo arrivate pro-

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prio al momento del pranzo. La stanza era piena di gente.C’erano quelle di Kolbino, quelle di Zachar’evo, la mogliedel fattore con le figlie, quelle di Chlupino...”

“Sì, e Berestov?”“Aspetti. Allora ci siam messi a tavola, la moglie del fat-

tore a capotavola e io accanto a lei... e le sue figlie faceva-no il muso, ma io ci sputo sopra...”

“Ah, Nastja, sei così noiosa con tutti i tuoi dettagli!”“Ma lei è così impaziente. Insomma ci siamo alzati da

tavola... e eravamo stati a tavola tre ore, e il pranzo era sta-to ottimo, blanc manger blu, rosso e a strisce... insomma cisiamo alzati da tavola e siamo andati in giardino a giocarea chiapparella, e il signore giovane è lì che s’è presentato.”

“Be’, è vero che è così bello?”“Incredibilmente bello, una bellezza, si può dire. Snel-

lo, alto, le guance tutte rosse...”“Davvero? E io che pensavo che fosse pallido. Be’? Co-

me ti è sembrato? Triste, pensieroso?”“Cosa? Uno così scatenato non l’ho mai visto in vita mia.

S’è messo a giocare con noi a chiapparella.”“A giocare con voi a chiapparella? Non è possibile.”“È molto possibile. E cosa non ha fatto. Mi ha preso e

mi ha baciato.”“Di’ quello che vuoi, Nastja, tu menti.”“Dica quello che vuole, non mento. A stento mi sono

sbarazzata di lui. Ha passato tutto il giorno con noi.”“Ma se dicono che è innamorato e non guarda in faccia

nessuno?”“Non so, ma a me mi guardava anche troppo, e anche a

Tanja, la figlia del fattore; e anche a Pa√a di Kolbino, sì, è unpeccato dirlo, non ha fatto torto a nessuno, un briccone tale!”

“È incredibile. E cosa si dice di lui in casa?”“Il signore, dicono, è splendido: così buono, così alle-

gro. Ha una sola cosa che non va: gli piace troppo correrdietro alle donne. Che per me non è un gran male: col tem-po rinsavisce.”

“Come mi piacerebbe vederlo!” disse Liza con un so-spiro.”

“Dov’è il problema? Tugilovo non è lontano, in tutto sontre verste: vada a passeggiare da quella parte o ci vada a ca-vallo; lo incontrerà, probabilmente. Lui tutti i giorni, al mat-tino presto, col fucile va alla caccia.”

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“No, non è bene. Può pensare che gli corro dietro. Ol-tretutto i nostri padri sono in lite, e a me è proibito far lasua conoscenza... Ah, Nastja! Sai cosa faccio? Mi vesto dacontadina!”

“Infatti; si mette una camicia grossa, un sarafan,47 e sene va tranquilla a Tugilovo; scommetto che Berestov nonse la fa scappare.”

“E poi io parlo bene come parlan giù di qui. Ah, Nastja,cara Nastja, che bell’idea!” e Liza andò a dormire con l’in-tenzione di realizzare senz’altro il suo bel progetto.

Il giorno successivo si dedicò alla realizzazione del suopiano, mandò a comprare al mercato della tela grossa, delcotone azzurro e dei bottoni di rame, con l’aiuto di Nastjasi tagliò una camicia e un sarafan, mise a cucire tutte le ra-gazze e per sera era tutto pronto. Liza si provò le nuove co-se e ammise davanti allo specchio di non essersi mai tro-vata così bella. Ripeté la sua parte, camminando si inchinòprofondamente e poi dondolò più volte la testa, come i gat-ti finti, parlò come i contadini, rise nella manica e si gua-dagnò la piena approvazione di Nastja. Una cosa le riusci-va difficile: aveva provato ad attraversare il cortile scalza,ma l’erba pungeva i suoi teneri piedi, e la sabbia e i sasso-lini le sembrarono intollerabili. Anche qui Nastja la aiutò:prese la misura del piede di Liza, corse nel campo dal man-driano Trofim e gli ordinò un paio di scarpe di fibra di ti-glio di quella misura. Il giorno dopo, prima dello spuntardell’alba, Liza già si alzava. Tutta la casa dormiva ancora.Nastja dietro la porta aspettava il mandriano. Risuonò ilcorno e la mandria del villaggio cominciò a passare lungoil cortile signorile. Trofim, passando di fronte a Nastja, lediede delle piccole variopinte scarpe di fibra di tiglio e ri-cevette da lei cinquanta copeche di compenso. Liza pianpiano si vestì da contadina, diede sussurrando a Nastja lesue istruzioni riguardo a Miss Jackson, uscì sul terrazzinoposteriore e attraverso l’orto corse nei campi.

L’aurora brillava a oriente, e le file dorate delle nuvolesembrava aspettassero il sole come i cortigiani aspettanoil sovrano; il cielo chiaro, la freschezza mattutina, la ru-giada, un vento leggero e il canto degli uccelli riempirono

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47 Veste tradizionale delle contadine russe, senza maniche, da indos-sare sopra alla camicia.

il cuore di Liza di un’allegria infantile: temendo un incon-tro con qualcuno che conosceva non sembrava cammi-nasse, sembrava volasse. Avvicinandosi al boschetto chestava al confine con la proprietà paterna, Liza andò piùpiano. Qui ella avrebbe dovuto aspettare Aleksej. Il cuorele batteva forte, non sapeva nemmeno lei perché; ma lapaura, che accompagna le nostre bricconerie giovanili, necostituisce il principale incanto. Liza entrò nella semio-scurità del boschetto. Un sordo rumore rimbombante viaccolse la ragazza. La sua allegria si chetò. A poco a pocosi abbandonò a un dolce fantasticare. Pensava... ma si puòforse determinare con precisione quello a cui pensa una si-gnorina diciassettenne, da sola, in un boschetto, tra le cin-que e le sei di un mattino di primavera? Così, lei cammi-nava, pensierosa, per la strada ombreggiata dai due lati daalti alberi, quando d’un tratto un bellissimo bracco da fer-ma si mise ad abbaiarle. Liza si spaventò e gettò un grido.Nello stesso momento risuonò una voce: “Tout beau, Sbo-gar, ici...”48 e un giovane cacciatore saltò fuori da dietro unarbusto. “Buona, cara,” disse a Liza, “il mio cane non mor-de.” Liza aveva già fatto in tempo a rimettersi dalla paurae riuscì subito a sfruttare le circostanze. “Ma no, signore,”disse fingendosi un po’ spaventata, un po’ timida, “ho pau-ra: ve’, è così cattivo; adesso attacca ancora.” Aleksej (il let-tore l’ha già riconosciuto) nel frattempo aveva considera-to attentamente la giovane contadina. “Ti accompagno, sehai paura,” le disse, “mi permetti di venire con te?” “E cheti disturba?” rispose Liza, “chi vuol far faccia, e la strada èdi tutti.” “Di dove sei?” “Di Priluçino: sono la figlia di Va-silij il fabbro, vado per funghi.” (Liza portava un canestrellocon una cordicella.) “E tu, signore? Sei di Tugilovo, forse?”“Sì, esatto,” rispose Aleksej, “sono il cameriere del giova-ne padrone.” Aleksej voleva che nei loro rapporti fosseroalla pari. Ma Liza lo guardò e scoppiò a ridere. “Invece men-ti,” disse, “ma non sei finito su una stupida. Si vede che tusei il padrone.” “Perché lo pensi?” “Per tutto.” “Cioè?” “Macome si fa a non conoscere un padrone da un servo? Enon sei vestito così, e parli in un altro modo, anche il ca-ne non lo chiami come noi.” Liza di momento in momen-to piaceva sempre di più ad Aleksej. Abituato a non fare ce-

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48 In francese nel testo.

rimonie con le belle contadine, avrebbe voluto abbracciarla;ma lei saltò lontano e prese d’un tratto un aspetto così se-vero e serio che, benché facesse ridere Aleksej, lo tratten-ne da ulteriori tentativi. “Se lei vuole che noi si sia nel fu-turo amici,” disse con importanza, “non si permetta di usci-re dai limiti.” “Chi ti ha insegnato questa saggezza?” chie-se Aleksej scoppiando a ridere. “È stata Nasten’ka, forse,la mia conoscente, o è stata la vostra signorina? Ecco perche strade si diffonde l’istruzione.” Liza si accorse che erauscita dal suo ruolo, e si corresse subito. “Ma cosa pensi,”disse, “che non sia mai stata a casa dei padroni? Buono:sento e vedo tutto. Però,” continuò, “chiacchierare con te,di funghi non ne raccolgo. Vai, te, padrone, da una parte,che io vado da un’altra. Chiediamo scusa...” Liza voleva al-lontanarsi, Aleksej la trattenne per la mano. “Come ti chia-mi, anima mia?” “Akulina,” disse Liza sforzandosi di libe-rare le sue dita dalla mano di Aleksej, “lascia, padrone; èora di tornare.” “Be’, amica mia Akulina, sarò immanca-bilmente ospite del tuo paparino, Vasilij il fabbro.” “Cosadici?” ribatté con vivacità Liza, “per amor di Dio, non ve-nire. Se a casa sanno che ho parlato con il padrone nel bo-schetto da soli sono finita; mio padre, Vasilij il fabbro, miammazza di botte.” “Però io ti voglio rivedere immanca-bilmente.” “Be’, qualche volta vengo ancora qua a cercarei funghi.” “Quando?” “Domani, per dire.” “Cara Akulina, tibacerei, ma non ho il coraggio. Così domani a quest’ora,vero?” “Sì, sì.” “E non mi imbrogli?” “Non ti imbroglio.”“Giura.” “Insomma, per il venerdì santo, verrò.”

I giovani si lasciarono. Liza uscì dal bosco, attraversò ilcampo, furtivamente entrò nel giardino e precipitosamen-te corse nella fattoria, dove l’aspettava Nastja. Lì si cambiò,distrattamente rispose alle domande dell’amica impazien-te e si presentò in salotto. La tavola era imbandita, la cola-zione pronta e Miss Jackson, già imbellettata e stretta dalbusto in forma di fiasco, tagliava delle sottili tartinette. Ilpadre la lodò per la sua passeggiata mattutina. “Non c’èniente di più salutare,” disse, “dello svegliarsi all’alba.” Epoi addusse alcuni esempi di longevità umana tratti da ri-viste inglesi, notando che tutte le persone che vivevano piùdi cent’anni non facevano uso di vodka e si alzavano all’al-ba estate e inverno. Liza non l’ascoltava. Ripeteva nei suoipensieri tutte le circostanze dell’incontro mattutino, tutta

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la conversazione di Akulina con il giovane cacciatore e lacoscienza cominciava a rimorderle. Inutilmente obiettavaa se stessa che la conversazione non era uscita dai confinidel decoro, che questa bricconeria non avrebbe potuto ave-re nessuna conseguenza; il mormorio della sua coscienzaera più rumoroso di quello della sua ragione. La promessache aveva dato per il giorno successivo più di ogni altra co-sa la inquietava: era quasi decisa a non mantenere il suo so-lenne giuramento. Ma Aleksej, dopo averla aspettata inva-no, sarebbe potuto andare a cercare nel villaggio la figlia diVasilij il fabbro, la vera Akulina, una grassa fanciulla but-terata, e in tal modo avrebbe indovinato il suo scherzo scon-siderato. Questo pensiero terrorizzava Liza, ed ella decisedi presentarsi di nuovo il mattino successivo nel boschettocome Akulina.

Dal canto suo, Aleksej era incantato; per tutto il giornopensò alla sua nuova conoscenza; la notte, l’immagine del-la bellezza bruna anche nel sonno perseguitò la sua imma-ginazione. L’alba spuntava appena che era già vestito. Sen-za darsi il tempo di caricare il fucile, scese nei campi colsuo fedele Sbogar e corse al luogo dell’incontro promesso.Circa mezz’ora trascorse in un’attesa per lui insopportabi-le; alla fine vide tra gli arbusti balenare il sarafan blu e sigettò verso la cara Akulina. Ella sorrise per l’entusiasmodella sua gratitudine; ma Aleksej notò fin da subito sul suoviso tracce di tristezza e di agitazione. Volle conoscerne laragione. Liza confessò che la sua azione le sembrava scon-siderata, che lei se ne era pentita, che questa volta non ave-va voluto mancare alla parola data ma che questo incontrosarebbe stato anche l’ultimo e che lo pregava di interrom-pere una conoscenza che non avrebbe potuto portare a nien-te di buono. Tutto ciò, s’intende, fu detto con parole conta-dine; ma pensieri e sentimenti inusuali in una ragazza sem-plice colpirono Aleksej. Egli impiegò tutta la propria elo-quenza per distogliere Akulina dal suo proposito; l’assicuròdell’innocenza dei suoi desideri, promise che non le avreb-be mai dato motivo di pentimento, le ubbidì in tutto, la scon-giurò di non privarlo della sua unica gioia: vedersi con leia tu per tu, anche ogni due giorni, anche solo due volte lasettimana. Parlava la lingua di una sincera passione e inquei momenti era davvero innamorato. Liza l’ascoltava insilenzio. “Dammi la parola,” disse alla fine, “che non mi cer-

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cherai mai nel villaggio e non chiederai di me. Dammi laparola che non cercherai altri incontri con me a parte quel-li che io stessa indicherò.” Aleksej stava per giurare sul ve-nerdì santo ma ella lo interruppe con un sorriso. “Non miservono giuramenti,” disse Liza, “è sufficiente la tua solapromessa.” Dopo di che conversarono amichevolmente pas-seggiando insieme per il bosco fino a che Liza non gli dis-se: è ora. Si separarono, e Aleksej, rimasto solo, non pote-va capire in che modo una semplice ragazza di campagnain due incontri avesse saputo prendere un vero potere su dilui. I suoi rapporti con Akulina avevano per lui il fascinodella novità, e benché le prescrizioni della strana contadi-na gli sembrassero gravose, il pensiero di non attenervisinon gli passò nemmeno per la testa. Fatto è che Aleksej, no-nostante l’anello fatale, la corrispondenza segreta e il tetrodisincanto, era un bravo e fervido ragazzo e aveva un cuo-re puro, capace di provare i piaceri dell’innocenza.

Se dessi ascolto solo ai miei desideri, senza fallo e contutti i particolari mi metterei a descrivere gli incontri deidue giovani, la crescita delle reciproche inclinazione e con-fidenza, le occupazioni, le conversazioni; ma so che la mag-gior parte dei miei lettori non condividerebbe questo pia-cere. Questi dettagli in generale devono sembrare sdolci-nati, e allora li ometto, dicendo in breve che non erano pas-sati neanche due mesi che il mio Aleksej era già follemen-te innamorato, e Liza non era indifferente, benché più ta-citurna di lui. Erano entrambi veramente felici e pensava-no poco al futuro.

L’idea di un legame indissolubile balenava abbastanzaspesso nelle loro menti, ma non ne parlavano mai tra di lo-ro. La ragione era chiara; Aleksej, per quanto fosse attac-cato alla sua cara Akulina, capiva comunque la distanza chec’era tra lui e una povera contadina; mentre Liza sapevaquanto odio esistesse tra i loro padri, e non si azzardava asperare in una reciproca riconciliazione. Inoltre il suo amorproprio era segretamente istigato dall’oscura, romanticasperanza di vedere alla fine il possidente di Tugilovo ai pie-di della figlia del fabbro di Priluçino. D’un tratto un fattoimportante per poco non cambiò i loro rapporti reciproci.

In un chiaro, freddo mattino (di quelli di cui è prodigoil nostro autunno russo), Ivan Petroviç Berestov uscì peruna passeggiata a cavallo prendendo con sé a ogni buon

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conto tre paia di levrieri, uno staffiere e qualche ragazzinodella servitù con le bàttole. Nello stesso momento GrigorijIvanoviç, sedotto dalla buona stagione, ordinò di sellare lasua cavallina a coda mozza e al trotto andò a fare un gironei suoi possedimenti anglicizzati. Avvicinatosi al bosco, vi-de il proprio vicino che cavalcava con dignità, in un sopra-bito foderato di pelo di volpe, e aspettava una lepre che deiragazzini con le grida e le bàttole cacciavano dalla macchia.Se Grigorij Ivanoviç avesse potuto prevedere questo incon-tro, sicuramente avrebbe voltato da una parte; ma era capi-tato su Berestov del tutto inaspettatamente e d’un tratto siera trovato a un tiro di pistola da lui. Non c’era niente da fa-re. Muromskij, da europeo civilizzato, si avvicinò al proprioavversario e cortesemente gli rivolse un saluto. Berestov ri-spose con uno zelo pari a quello dell’orso in catene che si in-china ai signori per ordine del suo domatore. In quel mo-mento la lepre saltò fuori dal bosco e si mise a correre per icampi. Berestov e lo staffiere cominciarono a gridare conquanto fiato avevano in gola, liberarono i cani e partirono algaloppo a tutto andare. La cavalla di Muromskij, che nonera mai stata alla caccia, si spaventò e si mise a correre sfre-natamente. Muromskij, che si credeva un ottimo cavalleriz-zo, la lasciò libera e fu intimamente contento dell’opportu-nità di liberarsi del fastidioso interlocutore. Ma la cavalla,avendo galoppato fino a un burrone che prima non avevanotato, all’improvviso scartò di lato e Muromskij non restòin sella. Dopo essere caduto abbastanza duramente sul ter-reno gelato, giacque maledicendo la sua cavallina a codamozza la quale, come riavendosi, si fermò subito non appe-na sentì di essere senza cavaliere. Ivan Petroviç gli si avvi-cinò al galoppo e si informò se non si fosse fatto male. Nelfrattempo lo staffiere ricondusse la cavalla colpevole tenen-dola per le redini. Aiutò Muromskij a montare in sella e Be-restov lo invitò a casa sua. Muromskij non poté rifiutare, dalmomento che si sentiva in debito, e fu così che Berestov tornòa casa con gloria, dopo aver braccato una lepre e conducen-do il suo avversario ferito e quasi prigioniero di guerra.

I vicini, facendo colazione, conversarono in modo ab-bastanza amichevole. Muromskij chiese a Berestov una car-rozza, dal momento che riconobbe che per la contusionenon era in grado di tornare a casa in sella. Berestov lo ac-compagnò fin sopra al terrazzino d’ingresso, e Muromskij

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non se ne andò prima di aver avuto la sua parola d’onoreche sarebbe andato a pranzare in amicizia il giorno suc-cessivo (e anche Aleksej Ivanoviç) a Priluçino. In tal modoun’inimicizia antica e profondamente radicata sembravasul punto di interrompersi per l’indole paurosa di una ca-valla a coda mozza.

Liza corse incontro a Grigorij Ivanoviç. “Cosa significa,babbo?” disse con stupore, “perché zoppica? Dov’è il suo ca-vallo? Di chi è questa carrozza?” “Non indovineresti mai, mydear,”49 le rispose Grigorij Ivanoviç e le raccontò tutto quel-lo che era successo. Liza non credeva alle sue orecchie. Gri-gorij Ivanoviç, senza darle il tempo di riprendersi, le annun-ciò che il giorno successivo avrebbero avuto a pranzo i dueBerestov. “Ma cosa dice!” disse ella, impallidendo. “I Bere-stov padre e figlio! Pranzano da noi domani! No, babbo, fac-cia come vuole, io per niente al mondo mi faccio vedere.”“Ma cos’hai, sei impazzita?” ribatté il padre, “sei diventatatimida, o nutri per loro un odio ereditario da eroina roman-tica? Basta, non far la scema...” “No, babbo, per niente almondo, per nessun tesoro comparirò dinnanzi ai Berestov.”Grigorij Ivanoviç alzò le spalle e non discusse più, dal mo-mento che sapeva che a contraddirla con lei non si ottenevaniente, e andò a riposarsi dalla sua curiosa passeggiata.

Lizaveta Grigor’evna andò in camera sua e fece chiamareNastja. Entrambe ragionarono a lungo della visita del gior-no dopo. Cosa avrebbe pensato Aleksej, se avesse ricono-sciuto nella signorina beneducata la sua Akulina? Che opi-nione avrebbe avuto del suo comportamento e dei suoi prin-cipi, del suo buonsenso? D’altra parte, Liza avrebbe moltovoluto vedere l’impressione che avrebbe prodotto su di luiun incontro così inatteso... All’improvviso le venne un’idea.La riferì subito a Nastja: se ne rallegrarono entrambe comedi una trovata e decisero senz’altro di metterla in pratica.

Il giorno dopo a colazione Grigorij Ivanoviç chiese allafiglia se intendeva ancora nascondersi ai Berestov. “Babbo,”rispose Liza, “io li vedrò, se questo le fa piacere, ma a unacondizione: in qualsiasi modo mi presenti di fronte a loro,qualsiasi cosa faccia, lei non mi sgriderà e non darà nessunsegno di stupore o di malcontento.” “Ancora qualche scher-zo!” disse, ridendo, Grigorij Ivanoviç. “Be’, d’accordo, d’ac-

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49 In inglese nel testo.

cordo; accetto, fa’ quello che vuoi, monella mia dagli occhineri.” Con queste parole la baciò in fronte, e Liza corse aprepararsi.

Alle due in punto una carrozza fatta in casa, tirata dasei cavalli, entrò nel cortile e rotolò vicino a un rotondo tap-peto d’erba all’inglese verde scuro. Il vecchio Berestov salìsul terrazzino d’ingresso con l’aiuto di due lacchè di Mu-romskij in livrea. Dietro di lui arrivò il figlio a cavallo ed en-trò con lui in sala da pranzo, dove la tavola era già imban-dita. Muromskij accolse i suoi vicini nel modo più affet-tuoso, propose loro di visitare il giardino e il serraglio e licondusse per dei sentieri scrupolosamente spazzati e co-sparsi di sabbia. Il vecchio Berestov si dispiacque tra sé dellavoro e del tempo persi in ghiribizzi così inutili, ma tac-que per gentilezza. Suo figlio non condivideva né la scon-tentezza del possidente oculato, né il rapimento dell’anglo-mane gonfio d’amor proprio; aspettava con impazienza l’ap-parizione della figlia del padrone di casa, della quale avevasentito molto parlare, e benché il suo cuore, come sappia-mo, fosse già occupato, una giovane bellezza aveva sempredei diritti sulla sua immaginazione.

Ritornati in sala da pranzo, si sedettero tutti e tre: i vec-chi ricordarono i tempi passati e aneddoti di vita militare,mentre Aleksej pensava al ruolo che avrebbe interpretato inpresenza di Liza. Decise che una fredda distrazione era inogni caso la scelta più decente e si preparò di conseguen-za. La porta si aprì, lui voltò la testa con una tale indiffe-renza, con una tale dignitosa negligenza che il cuore dellapiù inveterata civetta sarebbe infallibilmente mancato. Sfor-tunatamente, invece di Liza era entrata la vecchia Miss Jack-son, imbellettata, tirata, con gli occhi bassi e con un picco-lo inchino, e il bellissimo movimento di guerra di Aleksejfu inutile. Non aveva fatto in tempo a raccogliere le forze,che la porta si aprì di nuovo e questa volta entrò Liza. Tut-ti si alzarono: il padre stava per mettersi a presentare gliospiti ma d’un tratto si fermò e si morse in fretta le labbra...Liza, la sua bruna Liza, era imbiancata fin sopra alle orec-chie, più imbellettata della stessa Miss Jackson; riccioli fin-ti, più chiari dei suoi capelli veri, erano sistemati come nel-le parrucche di Luigi XIV; le maniche à l’imbécile50 sporge-

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50 In francese nel testo.

vano come le faldiglie di Madame de Pompadour; la vita erastretta come la lettera ics e tutti i brillanti di sua madre chenon erano ancora stati collocati al Monte di Pietà brillava-no alle sue dita, collo e orecchie. Aleksej non poté ricono-scere la sua Akulina in questa buffa e splendente signorina.Suo padre le fece un baciamano ed egli con dispetto lo se-guì; quando toccò le sue piccole dita biancastre gli sembròche tremassero. Nel frattempo fece in tempo a notare il pie-dino, messo avanti con intenzione e calzato con tutta la ci-vetteria possibile. Questo lo riconciliò un po’ con il resto delsuo abbigliamento. Per quel che riguarda la cipria e il bel-letto, nella semplicità del suo cuore, a dire il vero, in un pri-mo momento non li notò e poi non li sospettò neppure. Gri-gorij Ivanoviç ricordò la sua promessa e si sforzò di non mo-strare nessun tipo di stupore, ma lo scherzo di sua figlia glisembrò così divertente che poté a stento trattenersi. Nonvenne da ridere all’inglese cerimoniosa. Ella indovinava cheil belletto e la cipria erano stati rubati dal suo comò, e unpurpureo rossore di stizza spuntava attraverso l’innaturalebianchezza del viso. Ella gettava sguardi fiammeggianti al-la giovane briccona la quale, differendo a un altro momen-to ogni spiegazione, faceva finta di non notarli.

Si sedettero a tavola. Aleksej continuò a interpretare ilruolo del distratto e pensieroso. Liza faceva la preziosa, par-lava tra i denti, cantilenando e soltanto in francese. Il pa-dre continuamente la guardava con tanto d’occhi, non ca-pendo il suo scopo ma trovando tutto ciò molto divertente.L’inglese andava in collera e taceva. Solo Ivan Petroviç eraa suo perfetto agio; mangiava per due, beveva quanto vole-va, rideva del suo riso e più passava il tempo, più si facevaamichevole, più chiacchierava e più rideva.

Alla fine si alzarono da tavola. Gli ospiti se ne anda-rono e Grigorij Ivanoviç diede libero sfogo al riso e alle do-mande. “Cosa ti è saltato in mente di prenderli in giro?”chiese a Liza. “Ma sai cosa? Il belletto, a dire il vero, ti siaddice; non entro nei segreti della toilette femminile, maal posto tuo comincerei a imbellettarmi; non troppo, si in-tende, appena.” Liza era al settimo cielo per il successodella sua pensata. Abbracciò il padre, gli promise di pen-sare al suo consiglio e corse a implorare clemenza alla stiz-zita Miss Jackson, che a stento acconsentì ad aprirle laporta e ad ascoltare le sue giustificazioni. Liza aveva ver-

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gogna a mostrarsi di fronte a degli sconosciuti così mora;non aveva avuto il coraggio di chiedere... era convinta chela buona, cara Miss Jackson l’avrebbe perdonata... ecc. ecc.Miss Jackson, accertatasi che Liza non pensava di pren-derla in giro, si tranquillizzò, baciò Liza e in segno di rap-pacificazione le regalò un vasetto di belletto inglese, cheLiza accettò anche con l’espressione di una sincera rico-noscenza.

Il lettore indovinerà che il giorno successivo al mattinoLiza non tardò ad apparire nel boschetto degli appunta-menti. “Sei stato, signore, a trovare i nostri padroni?” dis-se subito ad Aleksej. “Come ti è sembrata la signorina?”Aleksej rispose che non l’aveva notata. “Peccato,” obiettòLiza. “E perché?” chiese Aleksej. “Perché volevo chiedertise è vero, come dicono...” “Cosa dicono?” “È vero o no, cheio somiglio alla signorina?” “Che scemenza! Lei di fronte ate è un perfetto mostro.” “Ah, signore, fai peccato a dire co-sì: la nostra signorina è così bianca, così una signorina ele-gante! Come posso paragonarmi a lei?” Aleksej le giurò chelei era meglio di tutte le possibili signorine bianche e, pertranquillizzarla del tutto, cominciò a descriverle la sua pa-drona con dei tratti talmente buffi, che Liza rise di cuore.“Però,” disse con un sospiro, “anche se la signorina, forse,è buffa, io di fronte a lei son sempre una stupida analfabe-ta.” “Eh!” disse Aleksej, “sai che perdita! E poi, se vuoi, tiinsegno subito l’abicì.” “Ma davvero,” disse Liza, “perchénon proviamo, a ogni buon conto?” “Va bene, cara; comin-ciamo adesso.” Si sedettero. Aleksej cavò fuori di tasca unamatita e un taccuino e Akulina imparò l’alfabeto con unavelocità incredibile. Aleksej non smetteva di meravigliarsidella sua prontezza di spirito. Il mattino successivo ella vol-le anche provare a scrivere; all’inizio la matita non l’asse-condava, ma dopo qualche minuto cominciò anche a scri-vere le lettere abbastanza bene. “Che cosa straordinaria!”disse Aleksej. “Le nostre lezioni vanno più in fretta che conil sistema Lancaster.”51 Effettivamente, alla terza lezioneAkulina distingueva già le sillabe di Natal’ja, figlia di boia-ro,52 alternando la lettura a delle osservazioni che provoca-

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51 Il cosiddetto Mutuo insegnamento, metodo di studio del pedagogoinglese Lancaster (1771-1838).

52 Romanzo di Nikolaj Michajloviç Karamzin (1766-1826).

vano il sincero stupore di Aleksej, e imbrattò un intero fo-glio di aforismi tratti da quello stesso racconto.

Passò una settimana e tra di loro iniziò una corrispon-denza. La cassetta delle lettere fu costituita nel tronco ca-vo di una vecchia quercia. Nastja in segreto faceva le fun-zioni del postino. Là Aleksej portava lettere scritte a gran-di caratteri e là trovava su semplice carta blu gli scaraboc-chi della sua amata. Akulina, evidentemente, si era assue-fatta a un forma migliore del discorso e la sua mente visi-bilmente si sviluppava e si educava.

Nel frattempo la recente conoscenza tra Ivan PetroviçBerestov e Grigorij Ivanoviç Muromskij si rafforzava sem-pre di più e presto si trasformò in amicizia, ecco in qualicircostanze: Muromskij pensava spesso al fatto che alla mor-te di Ivan Petroviç tutta la sua tenuta sarebbe passata adAleksej Ivanoviç; che in tal caso Aleksej Ivanoviç sarebbestato uno dei più ricchi possidenti di quel governatorato eche non c’era nessuna ragione di non sposarlo con Liza. An-che il vecchio, dal canto suo, benché vedesse nel suo vicinoqualche stravaganza (o, secondo la sua espressione, ca-priccio inglese), tuttavia non negava in lui molte qualità ec-cellenti, per esempio: un pregio raro; Grigorij Ivanoviç eraparente stretto del conte Pronskij, uomo celebre e potente;il conte avrebbe potuto essere molto utile ad Aleskej, e Mu-romskij (così pensava Ivan Petroviç) si sarebbe rallegratodel caso di maritare convenientemente la figlia. I vecchi fi-no a un certo punto avevano pensato tutto ciò ciascuno perconto proprio, poi alla fine ne avevano parlato l’un con l’al-tro, si erano abbracciati, si erano promessi di trattare l’af-fare come si deve e avevano cominciato a darsi da fare ognu-no da parte sua. A Muromskij si presentò una difficoltà: con-vincere la sua Betsy a conoscere più da vicino Aleksej, chelei non vedeva fin dalla memorabile cena. Sembrava chenon si piacessero molto l’un l’altro; per lo meno Aleksej nonera più tornato a Priluçino, mentre Liza tornava nella suacamera ogni volta che Ivan Petroviç li degnava di una suavisita. Ma, pensava Grigorij Ivanivoç, se Aleksej sarà da metutti i giorni, allora Betsy dovrà innamorarsi di lui. Questoè nell’ordine delle cose. Il tempo aggiusta tutto.

Ivan Petroviç era meno preoccupato del successo deisuoi piani. Quella stessa sera chiamò il figlio nel suo stu-dio, accese la pipa e, dopo aver taciuto un po’, disse: “Co-

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me mai, Alë√a, è un po’ di tempo che non parli del serviziomilitare? O la divisa da ussaro non ti incanta più?”. “No,babbino,” rispose rispettosamente Aleksej, “vedo che nonle piacerebbe, che entrassi negli ussari; il mio dovere è diubbidirle.” “Bene,” rispose Ivan Petroviç, “vedo che sei unfiglio riguardoso; questo mi consola; non ti voglio però for-zare; non ti costringo a entrare... subito... nel servizio sta-tale; ma per il momento ho intenzione di sposarti.”

“A chi, babbino?” chiese, stupefatto, Aleskej.“A Lizaveta Grigor’evna Muromskaja,” rispose Ivan Pe-

troviç; “una gran bella fidanzata, no?”“Babbino, al matrimonio ancora non ci penso.”“Tu non ci pensi, così io per te ci ho pensato e ripensato.”“Come vuole, Liza Muromskaja non mi piace per niente.”“Poi ti piacerà. Ti abitui, ti innamori.”“Non mi sento capace di fare la sua felicità.”“Non sono affari tuoi, la sua felicità. Be’, è così che ri-

spetti la volontà paterna? Bravo!”“Come desidera, io non mi voglio sposare e non mi spo-

serò.”“Tu ti sposerai, o io ti maledico, e la tenuta, per Dio, la

vendo e la sperpero e non ti lascio il becco di un quattrino!Ti do tre giorni per rifletterci, e intanto non osare presen-tarti davanti ai miei occhi.”

Aleksej sapeva che se il padre si ficcava in testa qualco-sa, quella cosa, secondo l’espressione di Taras Skotinin,53

non gliela togli neanche con un chiodo; ma Aleksej avevapreso dal babbo, ed era altrettanto difficile fargli cambiareopinione. Andò in camera sua e si mise a riflettere sui con-fini del potere paterno, su Lizaveta Grigor’evna, sulla so-lenne promessa del padre di far di lui un mendicante e in-fine su Akulina. Per la prima volta vide chiaramente di es-sere appassionatamente innamorato di lei: il pensiero ro-mantico di sposarsi con una contadina e di vivere del pro-prio lavoro gli passò per la testa, e più pensava a questaazione decisiva, più la trovava sensata. Da qualche tempogli appuntamenti nel boschetto si erano interrotti a causadella stagione piovosa. Scrisse ad Akulina una lettera conla grafia più nitida e lo stile più rabbioso, le annunciò lasciagura che li minacciava e le propose senz’altro la propria

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53 Personaggio del Minorenne di Fonvizin.

mano. Portò subito la lettera alla posta, nella quercia, e andòa dormire molto contento di sé.

Il giorno successivo Aleksej, fermo nel suo proposito, almattino presto andò da Muromskij per spiegarsi con luiapertamente. Sperava di provocare la sua magnanimità edi attirarlo dalla propria parte. “È in casa Grigorij Ivano-viç?” chiese fermando il suo cavallo davanti all’ingresso delcastello di Priluçino. “No che non c’è,” rispose un servo,“Grigorij Ivanoviç è dal mattino che s’è degnato di uscire.”“Che peccato!” pensò Aleksej. “È in casa almeno LizavetaGrigor’evna?” “È in casa, sì.” E Aleksej scese da cavallo, mi-se le redini in mano a un lacchè e si incamminò senza far-si annunciare.

“Si risolverà tutto,” pensava avvicinandosi al salotto,“mi spiegherò con lei stessa.” Entrò... e rimase di stucco!Liza... no, Akulina, la dolce, bruna Akulina, non in sara-fan, ma con un vestitino bianco da mattina, sedeva davantialla finestra e leggeva la sua lettera; era così intenta chenon l’aveva sentito entrare. Aleksej non poté trattenere un’e-sclamazione gioiosa. Liza trasalì, alzò la testa, gettò un gri-do e volle scappare. Lui si gettò a trattenerla. “Akulina! Aku-lina!” Liza si sforzava di liberarsi di lui... “Mais laissez-moidonc, Monsieur; mais êtes-vous fou?”54 ripeteva lei, con-torcendosi. “Akulina! Amica mia, Akulina,” ripeteva lui ba-ciandole le mani. Miss Jackson, testimone di questa scena,non sapeva cosa pensare. In quel momento si aprì la por-ta ed entrò Grigorij Ivanoviç.

“Ahà,” disse Muromskij, “così voi, sembra, vi siete giàmessi d’accordo...”

I lettori mi libereranno dall’inutile obbligo di descrive-re lo scioglimento.

FINE DEI RACCONTIDI I.P. BELKIN

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54 In francese nel testo.

I racconti di Belkin sono stati scritti nell’autunno del 1830 aBoldino. Il primo, Il fabbricante di bare, nel manoscritto ha la da-ta del 9 settembre. Il direttore della stazione: 14 settembre. La si-gnorina contadina: 20 settembre. Lo sparo: 14 ottobre. La tormen-ta: 20 ottobre. Il 9 dicembre Pu√kin comunicava “in gran segreto”a P.A. Pletnëv di aver scritto “in prosa cinque racconti che han fat-to diventar matto Baratynskij”. Nell’aprile del 1831 Pu√kin lesse aMosca i racconti a M.P. Pogodin. I racconti furono pubblicati informa anonima. Alla raccolta venne aggiunta la “Nota dell’edito-re” che contiene la biografia di Belkin. Poco prima della pubbli-cazione, Pu√kin cambiò l’ordine iniziale e spostò Lo sparo e La tor-menta all’inizio della raccolta. Il libro fu pubblicato a cura diPletnëv. In una lettera dell’agosto del 1831, Pu√kin lo prega di “sus-surrare il mio nome a Smirdin perché lo sussurri ai lettori”. Il li-bro uscì alla fine di ottobre del 1831 col titolo Racconti del pove-ro Ivan Petroviç Belkin pubblicati da A.P. In un’edizione del 1834il nome di Pu√kin compare per intero (Racconti pubblicati da Alek-sandr Pu√kin).

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LA DONNA DI PICCHE

La donna di picche significa una se-greta malevolenza.Nuovissimo libro divinatorio

I

Ma nei giorni bruttiSi riunivan, loro,Spesso.Raddoppiavano – Dio li perdoni! –Da cinquantaA cento,E vincevano,E segnavanoCol gesso.Così,Nei giorni brutti,Passavan loroIl tempo.

Una volta avevano giocato a carte dalla guardia a ca-vallo Narumov. La lunga notte invernale era passata inav-vertitamente; si eran seduti a cena dopo le quattro del mat-tino. Quelli che avevano finito vincendo mangiavano congrande appetito, gli altri, distratti, sedevano davanti ai loropiatti vuoti. Ma era comparso lo champagne, la conversa-zione si era animata e tutti vi avevano preso parte.

“Com’è andata, Surin?” aveva chiesto il padrone di casa.“Ho perso, come al solito. Bisogna riconoscere che so-

no sfortunato: gioco poste basse, non mi agito mai, non miconfondo mai, e perdo sempre.”

“E non ti sei mai fatto tentare? Non hai mai raddop-piato? La tua fermezza è straordinaria, per me.”

“E Germann, com’è?” disse uno degli ospiti indicandoun giovane geniere. “Non ha mai preso in mano una cartain vita sua, ma fino alle cinque del mattino sta con noi e ciguarda giocare.”

“Il gioco mi interessa molto,” disse Germann, “ma nonsono in condizione di sacrificare il necessario nella speranzadi acquisire il superfluo.”

“Germann è tedesco, è calcolatore, ecco tutto!” notòTomskij. “Se c’è qualcuno che non capisco, invece, è mianonna, la contessa Anna Fedotovna.”

“Chi? Cosa?” strillarono gli ospiti.“Non riesco a comprendere,” continuò Tomskij, “il mo-

tivo per cui mia nonna non gioca!”“Che cosa c’è di straordinario,” disse Narumov, “nel fat-

to che una vecchia ottantenne non giochi?”

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“Allora non sapete niente di lei?”“No! Bravo, niente!”“Oh, allora ascoltate.“Bisogna sapere che mia nonna, sessant’anni fa, andò a

Parigi e fu là molto alla moda. La gente correva per vederela Vénus moscovite55; Richelieu la corteggiava, e la nonnaassicura che per poco non si sparò, per la sua freddezza.

“A quei tempi le signore giocavano al faraone. Una vol-ta a corte lei perdette sulla parola dal duca di Orléans unacifra altissma. Tornata a casa, mia nonna, togliendosi i neidal viso e slacciando la faldiglia, annunziò al nonno la suaperdita e gli ordinò di pagare.

“Il povero nonno, per quanto ricordo, era una specie dimaggiordomo della nonna. La temeva come il fuoco; tutta-via, saputo di una perdita così grave, andò fuori di sé, portòi conti, le dimostrò che in mezzo anno avevano speso mez-zo milione, che a Parigi non avevano né il villaggio mosco-vita né quello di Saratov e assolutamente si rifiutò di paga-re. La nonna gli diede uno schiaffo e andò a dormire da so-la, come segno del suo sfavore.

“Il giorno successivo ordinò di chiamare il marito, spe-rando che la punizione domestica avesse fatto effetto, malo trovò irremovibile. Per la prima volta nella sua vita ar-rivò con lui a discutere e spiegare; pensava di farlo vergo-gnare, dimostrando accondiscendente che c’è debito e de-bito e che c’è differenza tra un principe e un carrozzaio. ‘Co-sa?’ si ribellava il nonno. ‘No, e basta.’ La nonna non sape-va cosa fare.

“Conosceva intimamente un uomo molto notevole.Avrete sentito parlare del conte Saint-Germain,56 sul qua-le si son dette tante cose favolose. Sapete che si facevapassare per l’ebreo errante, per l’inventore dell’elisir dilunga vita e della pietra filosofale e così via. Di lui ride-vano come di un ciarlatano, e Casanova nelle sue memo-rie dice che era una spia; però, Saint-Germain, nonostanteil mistero che l’avvolgeva, aveva un aspetto rispettabile e

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55 In francese nel testo.56 Il conte Saint-Germain (1700?-1780 o 1784), avventuriero d’origi-

ne ignota, definito da Voltaire “conte per ridere”, pretendeva di aver due-mila anni e di aver conosciuto Gesù Cristo. Dopo aver vissuto alla corte diLuigi XV, fu espulso dalla Francia e si recò in Russia, dove partecipò allacongiura che portò al trono Caterina II (1762).

in società era una persona molto piacevole. La nonna loama ancora oggi alla follia e si arrabbia se parlano di luimancandogli di rispetto. La nonna sapeva che Saint-Ger-main poteva disporre di forti somme di denaro. Decise diricorrere a lui. Gli scrisse un biglietto e lo pregò di anda-re subito da lei.

“Il vecchio strambo comparve subito e la trovò straor-dinariamente afflitta. Ella gli descrisse con le tinte più buiela barbarie del marito e alla fine disse che riponeva tutta lapropria speranza nella sua amicizia e cortesia.

“Saint-Germain rifletté.“ ‘Potrei favorirle questa somma,’ disse, ‘ma so che non

sarebbe tranquilla fino a che non si fosse sdebitata con me,e non voglio darle altre preoccupazioni. C’è un altro siste-ma: lei può rifarsi.’ ‘Ma, caro conte,’ rispose la nonna, ‘le di-co che di soldi non ce n’è affatto.’ ‘I soldi qui non servono,’obiettò Saint-Germain: ‘abbia la bontà di ascoltare.’ E allo-ra le rivelò un segreto per il quale ciascuno di noi paghe-rebbe caro...”

I giovani giocatori raddoppiarono l’attenzione. Tomskijaccese la pipa, diede una tirata e continuò.

“Quella stessa sera la nonna si presentò a Versailles, aljeu de la Reine.57 Il duca di Orléans teneva banco: la nonnasi scusò un po’ di non avere portato il dovuto, come giusti-ficazione inventò una piccola storia e si mise a puntare con-tro di lui. Scelse tre carte, le giocò una dopo l’altra: tutte etre le fecero vincere il pieno e la nonna si rifece del tutto.”

“Un caso!” disse uno degli ospiti.“Una favola!” notò Germann.“Può darsi che fossero carte segnate?” sostenne un terzo.“Non credo,” rispose Tomskij con importanza.“Come!” disse Narumov, “hai una nonna che indovina

tre carte di fila e non hai ancora imparato la sua cabala?”“Sì, un corno!” rispose Tomskij, “lei aveva quattro figli,

tra i quali anche mio padre: tutti e quattro giocatori ap-passionati, e a nessuno ha rivelato il suo segreto; anche senon sarebbe stato male per loro e neanche per me. Ma ec-co cosa mi ha detto lo zio, il conte Ivan Il’iç, e me l’ha ga-rantito sul suo onore. Il povero Çaplickij, quello stesso chemorì povero dopo aver sperperato milioni, una volta nella

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57 In francese nel testo.

sua gioventù perse – se ricordo bene, da Zoriç58 – sui tre-centomila. Era disperato. La nonna, che era sempre severacon le bricconerie dei giovani, per qualche ragione ebbepietà di Çaplickij. Gli diede tre carte perché le giocasse unadopo l’altra, e si fece dare la sua parola d’onore che per l’in-nanzi non avrebbe giocato mai più. Çaplickij si presentò dalsuo vincitore: si misero a giocare. Çaplickij giocò sulla pri-ma carta cinquantamila e vinse un pieno; raddoppiò la po-sta, riraddoppiò: si rifece e rimase anche vincente...

“Però è ora di andare a dormire: già le sei meno unquarto.”

Infatti albeggiava; i giovani vuotarono i loro bicchieri esi separarono.

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58 Semën Gavriloviç Zoriç, accanito giocatore, fu uno dei favoriti diCaterina II.

II

Il paraît que monsieur estdécidément pour les suivantes.Que voulez-vous, madame? EllesSont plus fraîches.59

Conversazione mondana

La vecchia contessa *** sedeva nel suo camerino di fron-te allo specchio. Tre domestiche la circondavano. Una te-neva un barattolo di rosso per le guance, un’altra una sca-tola con le forcine, la terza una cuffia con nastri color delfuoco. La contessa non aveva la minima pretesa alla bel-lezza da tempo andata, ma conservava tutte le abitudini del-la sua giovinezza, seguiva rigidamente la moda degli annisessanta e si vestiva così a lungo e così diligentemente co-me sessant’anni prima. Alla finestra sedeva al telaio una si-gnorina, sua protetta.

“Buongiorno, grand’maman,”60 disse, entrando, un gio-vane ufficiale. “Bonjour, mademoiselle Lise.61 Grand’maman,le porto una supplica.”

“Cosa c’è, Paul?”“Mi permetta di presentarle uno dei miei amici e di por-

tarlo al suo ballo di venerdì.”“Portalo direttamente al ballo e presentamelo là. Sei sta-

to ieri da ***?”“Come no! Ci siamo molto divertiti; si è ballato fino al-

le cinque del mattino. Era così bella Eleckaja!”“Eeeh, caro! Cos’ha di bello? Era forse così sua nonna,

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59 A giudicare da una lettera a Pu√kin dell’aprile del ’34, questa epi-grafe (Sembra che il signore preferisca decisamente le cameriere. Cosavuole, signora, sono più fresche), in francese nel testo, è presa da un dia-logo del Davydov con la signora M.A. Naryçkina. Davydov (1784-1839) funoto, oltre che come poeta, come teorico e pratico della guerra partigia-na, che condusse contro le truppe di Napoleone e sulla quale scrisse uncelebre saggio.

60 In francese nel testo.61 In francese nel testo.

la principessa Dar’ja Petrovna?... A proposito, dev’esseremolto invecchiata, la principessa Dar’ja Petrovna.”

“Come invecchiata?” rispose sbadatamente Tomskij. “Èmorta da sette anni.”

La signorina alzò la testa e fece un segno al giovane. Eglisi ricordò che nascondevano alla vecchia contessa la mor-te delle sue coetanee, e si morse le labbra. Ma la contessaprese la notizia, per lei nuova, con grande indifferenza.

“È morta!” disse. “E io non lo sapevo! Siamo state no-minate insieme damigelle d’onore, e quando ci presentam-mo alla sovrana...”

E la contessa raccontò per la centesima volta al nipoteil suo aneddoto.

“Be’, Paul,” disse poi, “adesso aiutami a alzarmi. Li-zan’ka, dov’è la mia tabacchiera?”

E la contessa con le sue domestiche andò dietro i para-venti a completare la sua toilette.

“Chi è che le vuole presentare?” chiese piano LizavetaIvanovna.

“Narumov. Lo conosce?”“No. È militare o civile?”“Militare.”“Del genio?”“No. Cavalleria. Ma perché pensava che fosse del genio?”La signorina si mise a ridere e non proferì verbo.“Paul!” gridò la contessa da dietro ai paraventi, “porta-

mi qualche nuovo romanzo, solo, per favore, non di quellidi adesso.”

“In che senso, grand’maman?”“Nel senso di un romanzo dove il protagonista non ab-

bia ammazzato né il padre né la madre e dove non ci sianomorti annegati. Ho una gran paura dei morti annegati.”

“Di romanzi così adesso non ce n’è. Non vuole piutto-sto dei russi?”

“Perché, ci son dei romanzi russi? Mandamene, babbi-no, mandamene, per favore.”

“Mi scusi, grand’maman, ho fretta... Scusi, LizavetaIvanovna! Chissà perché pensava che Narumov fosse delgenio?”

E Tomskij uscì dal camerino.Lizaveta Ivanovna restò sola; abbandonò il lavoro e si

mise a guardare dalla finestra. Presto da un lato della stra-

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da, dalla casa d’angolo, sbucò un giovane ufficiale. Il ros-sore coprì le guance di lei: si rimise al lavoro e piegò la te-sta sul canovaccio. In quel momento entrò la contessa, ve-stita di tutto punto.

“Ordina, Lizan’ka,” disse, “di attaccare la carrozza e an-diamo a passeggiare.”

Lizan’ka si alzò dal telaio e cominciò a raccogliere il suolavoro.

“Ma cosa c’è, madre mia, sei sorda?” gridò la contessa.“Ordina prima di attaccare la carrozza.”

“Subito!” rispose piano la signorina e corse in antica-mera.

Un servo entrò e diede alla contessa dei libri dal princi-pe Pavel Aleksandroviç.

“Bene! Ringraziare,” disse la contessa, “Lizan’ka, Li-zan’ka! Dove sei scappata?”

“A vestirmi.”“Fai in tempo, mammina. Siediti qui. Apri qua il primo

volume; leggi ad alta voce...”La signorina prese un libro e lesse alcune strofe.“Più forte!” disse la contessa. “Cos’hai, madre mia! Ti si

è addormentata la voce? Spostami il panchettino più vici-no... be’!”

Lizaveta Ivanovna lesse ancora due pagine. La contes-sa sbadigliò.

“Basta con questo libro,” disse, “che sciocchezza! Ri-spedisci al principe Pavel e ordina di ringraziare... E la car-rozza?”

“La carrozza è pronta,” disse Lizaveta Ivanovna gettan-do uno sguardo alla strada.

“Perché non sei vestita?” disse la contessa. “Bisogna sem-pre aspettarti! È una cosa, mammina, insopportabile.”

Liza corse nella sua camera. Non passarono due minu-ti, la contessa cominciò a chiamare a pieni polmoni. Tre do-mestiche corsero a una porta, un cameriere all’altra.

“Com’è che non si riesce a farvi venire?” disse loro lacontessa. “Dire a Lizaveta Ivanovna che l’aspetto.”

Lizaveta Ivanovna entrò in cappa e cappellino.“Finalmente, madre mia!” disse la contessa. “Che ele-

ganza! Perché poi? Chi devi incantare? E che tempo fa?Sembra che tiri il vento.”

“Affatto, ve’, no ve’, vostra eccellenza. È molto calmove’,” rispose il cameriere.

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“Parlate sempre a casaccio! Aprite il vasistas. Ecco co-sa c’è: il vento! E freddissimo! Staccare la carrozza! Lizan’ka,non andiamo: non c’era bisogno di agghindarsi.”

“Ecco la mia vita,” pensò Lizaveta Ivanovna.Effettivamente Lizaveta Ivanovna era una creatura mol-

to infelice. È amaro, il pane altrui, dice Dante, e pesanti so-no gli scalini degli altrui terrazzini, e chi deve conoscere l’a-marezza della dipendenza, se non la povera protetta di unavecchia nobile? La contessa ***, naturalmente, non avevaun animo cattivo; ma era educata a modo suo, come unadonna viziata dal mondo, tirchia e sprofondata in un fred-do egoismo, come del resto tutti i vecchi che hanno dato l’a-more che avevano al loro secolo e sono estranei al secolopresente. Ella partecipava a tutte le vanità del gran mondo,si trascinava a balli in cui sedeva in un angolo arrossata evestita alla moda antica, come un ornamento mostruosoe necessario della sala da ballo; a lei si avvicinavano con bre-vi inchini gli ospiti che erano appena arrivati, e poi più nes-suno se ne occupava. Da sé riceveva tutta la città, rispet-tando una stretta etichetta e non riconoscendo di faccia nes-suno. La sua innumerevole servitù, ingrassata e incanutitanel suo ingresso e nelle sue stanze della servitù, faceva quelche voleva, faceva a gara per derubare la vecchia morente.Lizaveta Ivanovna era la martire della casa. Versava il tè ericeveva rimproveri per l’eccessivo consumo di zucchero;leggeva romanzi ad alta voce ed era colpevole di tutti gli er-rori dell’autore; accompagnava la contessa nelle sue pas-seggiate ed era responsabile della stagione e della strada. Leera assegnato uno stipendio che non le veniva mai pagato;e intanto volevano che fosse vestita come tutte, cioè comemolto poche. In società recitava la parte più penosa. Tuttila conoscevano e nessuno la notava; ai balli ballava soloquando mancava il vis-à-vis, e le signore la prendevano sot-tobraccio ogni volta che dovevano andare al gabinetto a cor-reggere qualcosa nel loro abbigliamento. Era suscettibile,sentiva nella carne la sua condizione e si guardava intornoaspettando impaziente un liberatore; ma i giovanotti, cal-colatori, nella loro sventata vanagloria, non la degnavanodella loro attenzione, benché Lizaveta Ivanovna fosse cen-to volte più carina delle sfacciate e fredde ragazze da mari-to attorno alle quali ronzavano. Quante volte, lasciato unnoioso e sfarzoso salotto, era andata a piangere nella sua

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povera camera, dove c’erano dei paraventi ricoperti di car-ta da parati, un comò, uno specchietto e un letto dipinto edove una candela di sego bruciava in un candeliere di rame.

Una volta – questo succedeva due giorni dopo la sera de-scritta all’inizio di questo racconto e una settimana primadella scena sulla quale ci siamo fermati –, una volta Lizave-ta Ivanovna, seduta vicino alla finestra al telaio, per casogettò uno sguardo alla strada e vide un giovane geniere chestava in piedi immobile e che fissava gli occhi alla sua fine-stra. Abbassò la testa e si occupò ancora del lavoro; dopocinque minuti gettò un altro sguardo: il giovane ufficiale eranello stesso posto. Non avendo l’abitudine di civettare congli ufficiali di passaggio, smise di guardare la strada e cucìper circa due ore senza alzare la testa. Servirono il pranzo.Si alzò, cominciò a mettere in ordine il suo telaio e, gettan-do per caso uno sguardo alla strada, vide ancora l’ufficiale.Questo le sembrò abbastanza strano. Dopo pranzo si avvi-cinò alla finestra con un certo sentimento di inquietudine,ma l’ufficiale non c’era più, e si dimenticò di lui...

Due giorni dopo, uscendo con la contessa per montarein carrozza, lo vide ancora. Era in piedi allo stesso porto-ne; il volto nascosto dal colletto di castoro: i suoi occhi ne-ri brillavano da sotto il cappello. Lizaveta Ivanovna si spa-ventò senza sapere neanche lei di cosa, e sedette in carroz-za con un tremito inspiegabile.

Tornata a casa, corse alla finestra: l’ufficiale era nel po-sto di prima, gli occhi fissi su di lei; si allontanò, soffrendoper la curiosità e turbata da un sentimento per lei del tuttonuovo.

Da quella volta non passò giorno che il giovanotto, al-l’ora conosciuta, non si presentasse sotto le finestre dellaloro casa. Tra lui e lei si stabilirono relazioni non conven-zionali. Seduta al suo posto a lavorare, ella sentiva la suavicinanza: alzava la testa, lo guardava ogni giorno più a lun-go. Il giovanotto, sembrava, gliene era grato: egli vedeva conl’acuto sguardo della giovinezza come un veloce rossore co-prisse le sue pallide guance ogni volta che i loro sguardi siincontravano. Dopo una settimana gli sorrideva...

Quando Tomskij chiese il permesso di presentare allacontessa un suo amico, il cuore della povera fanciulla ven-ne a mancare. Non sapendo che Narumov non era genierema guardia a cavallo, si rammaricò che la domanda indi-

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screta avesse rivelato il suo segreto a quel superficiale diTomskij.

Germann era figlio di un tedesco russificato, che gli ave-va lasciato un piccolo capitale. Essendo fermamente con-vinto della necessità di consolidare la propria indipenden-za, Germann non toccava nemmeno gli interessi, viveva delsolo stipendio, non si permetteva il minimo capriccio. Tut-tavia era riservato e ambizioso, e i suoi compagni avevanoraramente l’occasione di ridere della sua eccessiva parsi-monia. Aveva grandi passioni e ardente immaginazione, mala fermezza l’aveva salvato dagli errori comuni alla gioventù.Così, per esempio, essendo un giocatore nell’anima, non ave-va mai preso in mano una carta, dal momento che pensavache la sua condizione non gli permettesse (come diceva) disacrificare il necessario nella speranza di acquisire il super-fluo, e intanto sedeva notti intere al tavolo da gioco e segui-va con un tremito febbrile le varie vicende delle carte.

L’aneddoto delle tre carte aveva colpito fortemente la suaimmaginazione e per una notte intera non gli era uscito dal-la testa. “Però, se,” pensava la sera del giorno dopo vagandoper Pietroburgo, “però, se la vecchia contessa mi rivelasse ilsuo segreto! O mi indicasse queste tre carte sicure. Perchénon tentare la propria felicità? Presentarsi a lei, entrare nel-le sue grazie, diventare forse il suo amante, ma per tutto que-sto serve del tempo, e lei ha ottant’anni, può morire tra unasettimana, tra due giorni! Sì, e l’aneddoto, poi? Ci si può cre-dere? No! Calcolo, temperanza e operosità, ecco le mie trecarte sicure, ecco quello che triplicherà, settuplicherà il miocapitale e mi darà la pace e l’indipendenza!”

Ragionando in questo modo si venne a trovare in unadelle strade principali di Pietrobrugo, di fronte a una casadall’architettura antica. La strada era ingombra di carroz-ze; le vetture rotolavano una dietro l’altra verso il portoneilluminato. Dalle vetture continuamente si stendeva ora unosnello piedino di una giovane beltà, ora uno stivalone rim-bombante, ora una calza a righe e una scarpa diplomatica.Le pellicce e i mantelli balenavano davanti al maestoso por-tiere. Germann si fermò.

“Di chi è questa casa?” chiese al poliziotto all’angolo.“Della contessa ***,” rispose il poliziotto.Germann sobbalzò. L’aneddoto straordinario si presentò

di nuovo alla sua immaginazione. Cominciò a camminare

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intorno alla casa, pensando alla padrona di casa e alla suacapacità miracolosa. Ritornò tardi nel suo umile cantuccio;a lungo non poté addormentarsi, e quando il sonno si im-padronì di lui, gli apparvero le carte, il tavolo verde, pile dibanconote e mucchi di cervonez.62 Puntava una carta dopol’altra, raddoppiava deciso la posta, vinceva continuamen-te e tirava verso di sé l’oro e metteva le banconote in tasca.Svegliatosi già tardi, sospirò per la perdita della sua fanta-stica ricchezza, andò ancora a vagare per la città e si trovòancora davanti a casa della contessa ***. Una forza miste-riosa sembrava lo attirasse verso di lei. Si fermò e si mise aguardare le finestre. A una vide una testolina dai capelli mo-ri piegata forse su un libro o su un lavoro. La testolina sialzò. Germann vide un visetto fresco e degli occhi neri. Que-sto momento decise la sua sorte.

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62 Monete d’oro da dieci rubli.

III

Vous m’écrivez, mon ange, deslettres de quatre pages plus viteque je ne puis les lire.63

Una corrispondenza

Lizaveta Ivanovna aveva fatto appena in tempo a to-gliersi la cappa e il cappello, che già la contessa la man-dava a chiamare e ordinava ancora di preparar la carroz-za. Uscirono per montare in carrozza. Nel momento in cuidue lacchè sollevavano la vecchia e la ficcavano nello spor-tello, Lizaveta Ivanovna vide il suo geniere vicino alla ruo-ta; le faceva segno con la mano; ella non poté riaversi dal-lo spavento, che il giovanotto era scomparso. Una letterale era rimasta in mano. La nascose in un guanto e per tut-ta la strada non sentì e non vide niente. La contessa ave-va l’abitudine di fare in carrozza continue domande: chiabbiamo incrociato? come si chiama questo ponte? cosac’è scritto in quell’insegna? Lizaveta Ivanovna quella vol-ta rispondeva a casaccio e a sproposito e fece arrabbiarela contessa.

“Che cosa t’è successo, madre mia! Ti sei pietrificata,forse? Non mi senti, o non mi capisci? Grazie a Dio io nonbalbetto e non sono ancora impazzita del tutto.”

Lizaveta Ivanovna non la ascoltava. Tornata a casa, cor-se nella propria camera, tirò fuori dal guanto la lettera: nonera sigillata. Lizaveta Ivanovna la lesse. La lettera contene-va una dichiarazione d’amore: era tenera, rispettosa e pre-sa parola per parola da un romanzo tedesco. Ma LizavetaIvanovna non sapeva il tedesco e ne fu molto contenta.

Però la piacevole lettera la inquietò straordinariamen-te. Per la prima volta entrava in segreti, intimi rapporti conun giovane uomo. L’audacia di lui la faceva inorridire. Si

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63 “Voi mi scrivete, angelo mio, delle lettere di quattro pagine più ve-locemente di quanto riesca a leggerle” (in francese nel testo).

rimproverava un comportamento imprudente e non sape-va cosa fare: smetterla di sedere alla finestra e con l’indif-ferenza far passare al giovane ufficiale la voglia di perse-cuzioni future? rimandargli la lettera? rispondergli confreddezza e decisione? Non aveva nessuno con cui consul-tarsi, non aveva né amiche né istitutrici. Lizaveta Ivanov-na decise di rispondere.

Si sedette alla scrivania, prese una penna, della carta e simise a pensare. Più di una volta iniziò la sua lettera e lastrappò: ora le espressioni le sembravano troppo accondi-scendenti, ora troppo brutali. Alla fine le riuscì di scrivere al-cune righe delle quali rimase contenta. “Sono convinta,” scris-se, “che lei ha delle intenzioni oneste e che non voleva of-fendermi con un gesto sconsiderato; ma la nostra conoscenzanon dovrebbe cominciare in questo modo. Le restituisco lasua lettera e spero che non avrò per l’innanzi ragioni di la-mentarmi di un’immeritata mancanza di rispetto.”

Il giorno dopo, vedendo Germann che arrivava, Lizave-ta Ivanovna si alzò dal telaio, entrò in sala, aprì il vasistase gettò la lettera in strada sperando nella destrezza del gio-vane ufficiale. Germann accorse, la raccolse ed entrò in pa-sticceria. Strappato il sigillo trovò la propria lettera e la ri-sposta di Lizaveta Ivanovna. Si aspettava proprio quello etornò a casa molto preso dal suo intrigo.

Tre giorni dopo una giovane mademoiselle dagli occhivispi portò a Lizaveta Ivanovna un bigliettino da una casadi mode. Lizaveta Ivanovna lo aprì con inquietudine, pre-vedendo richieste di denaro, quando d’un tratto riconobbela mano di Germann.

“Lei, anima mia, si è sbagliata,” disse, “questo bigliettonon è per me.”

“No, è proprio per lei!” rispose la ragazza coraggiosa,senza nascondere un sorriso furbo. “Favorisca leggere.”

Lizaveta Ivanovna scorse il biglietto. Germann chiede-va un incontro.

“Non è possibile!” disse Lizaveta Ivanovna spaventatadalla fretta della richiesta e dal modo utilizzato. “Questonon è scritto, probabilmente, per me.” E strappò la letterain pezzettini minuscoli.

“Se la lettera non è per lei, perché l’ha strappata?” dis-se la mademoiselle, “l’avrei restituita a chi l’ha mandata.”

“La prego, anima mia,” disse Lizaveta Ivanovna, arros-

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sendo alla sua osservazione, “di non portarmi più biglietti. Ea colui che l’ha mandata, dica che si dovrebbe vergognare...”

Ma Germann non la smise. Ogni giorno Lizaveta Iva-novna riceveva una sua lettera, ora in questo, ora in quelmodo. Già non erano più tradotte dal tedesco. Germann lescriveva ispirato dalla passione, e vi parlava la lingua a luipropria: lì si esprimevano sia l’inflessibilità dei suoi desi-deri che il disordine di una sfrenata immaginazione. Liza-veta Ivanovna già non pensava a rimandarle indietro: se neinebriava; cominciò a rispondere, e i suoi biglietti si face-vano di ora in ora più lunghi e più teneri. Alla fine gli gettòdalla finestra la seguente lettera:

“Oggi c’è un ballo dall’inviato di ***. La contessa ci an-drà. Ci fermeremo fino alle due di notte. Ecco un’occasio-ne di vedermi da sola. Appena la contessa uscirà, la sua ser-vitù, probabilmente, andrà via, nell’ingresso resterà il por-tiere, ma anche lui di solito se ne va nel suo stanzino. Ven-ga alle undici e mezza. Salga direttamente su per le scale.Se trova qualcuno in anticamera, chieda se la contessa è incasa. Le diranno di no, e pazienza. Dovrà tornare indietro.Ma, probabilmente, non incontrerà nessuno. Le domesti-che saranno in camera loro, tutte in una stanza. Dall’anti-camera prenda a sinistra, vada sempre dritto fino alla stan-za da letto della contessa. Nella stanza da letto dietro deiparaventi vedrà due piccole porte: quella a destra dà su ungabinetto nel quale la contessa non entra mai; quella a si-nistra su un corridoio, e lì c’è una stretta scala a chioccio-la: porta alla mia camera”.

Germann fremeva come una tigre, aspettando il mo-mento indicato. Alle dieci di sera era già davanti a casa del-la contessa. Il tempo era orribile, ululava il vento, cadeva ne-ve bagnata a grandi fiocchi, i lampioni illuminavano tenui,le strade erano quasi deserte. Di tanto in tanto si trascinavalì un Van’ka sulla sua magra rozza, cercando un viaggiato-re ritardatario. Germann stava col solo soprabito, non sen-tiva né il freddo né la neve. Finalmente prepararono la car-rozza della contessa. Germann vide come i lacchè portava-no in braccio la vecchia ingobbita, imbacuccata nella suapelliccia, e come dietro di lei, in un mantello leggero, con ilcapo adorno di fiori freschi balenava la sua protetta. Le por-tiere sbatterono. La carrozza si avviò pesantemente sulla ne-ve flaccida. Il portiere chiuse la porta. Le finestre si oscura-

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rono. Germann cominciò a girare intorno alla casa vuota:arrivò a un fanale, guardò l’ora; erano le undici e venti. Ri-mase sotto il fanale fissando gli occhi sulla lancetta dell’o-rologio e aspettando i minuti restanti. Alle undici e mezzain punto Germann mise piede sul terrazzino d’ingresso del-la contessa ed entrò per l’antiporta vivamente illuminata. Ilportiere non c’era. Germann corse su per le scale, aprì la por-ta dell’anticamera e vide un servo che dormiva sotto una lam-pada in un’antica poltrona imbrattata. Con passo leggero esicuro Germann lo oltrepassò. Il salone e il salotto erano bui.Una lampada li rischiarava appena dall’ingresso. Germannentrò nella stanza da letto. Davanti alla mensola piena di im-magini antiche bruciava una lampada d’oro. Poltrone sco-lorite in stoffa damascata e divani con cuscini di piume conla doratura staccata stavano in triste simmetria vicino a unaparete rivestita di tappezzeria cinese. Sulla parete c’eranodue ritratti, dipinti a Parigi da M.me Lebrun.64 Uno di essiraffigurava un uomo sui quarant’anni, rosso e grasso, in di-visa verde chiaro e con una decorazione; l’altro una bella gio-vane con un naso aquilino pettinata all’indietro sulle tempiee con una rosa tra i capelli incipriati. Da tutti i lati sporge-vano pastorelle di porcellana, orologi da tavolo opera del ce-lebre Leroy, scatolette, roulette, ventagli e diversi giochi persignore inventati alla fine del secolo scorso insieme al pal-lone di Mongolfier e al magnetismo di Mesmer. Germannpassò dietro ai paraventi. Dietro di loro c’era un piccolo let-to di ferro; a destra si trovava la porta che dava sul gabinet-to; a sinistra, l’altra, sul corridoio. Germann la aprì, vide lastretta scala a chiocciola che portava alla stanza della pove-ra protetta... Ma tornò indietro ed entrò nel gabinetto buio.

Il tempo passava lentamente. Tutto era tranquillo. In sa-lotto batterono le dodici; in tutte le stanze gli orologi unodopo l’altro suonarono le dodici: tutto tacque di nuovo. Ger-mann stava in piedi, appoggiato a una stufa fredda. Eratranquillo; il suo cuore batteva regolarmente, come a unapersona che si era decisa a qualcosa di pericoloso ma di ne-cessario. Gli orologi batterono l’una e le due del mattino,ed egli sentì il lontano rumore di una carrozza. Un’invo-lontaria agitazione si impadronì di lui.

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64 Elisabeth Vigée-Lebrun (1755-1842), pittrice e ritrattista francese,tra il 1796 e il 1800 lavorò alla corte di Pietroburgo.

La carrozza si avvicinò e si fermò. Sentì il rumore delpredellino che si abbassava. In casa cominciarono a muo-versi. Della gente correva, delle voci risuonarono e la casasi illuminò. Nella stanza da letto corsero tre vecchie came-riere e la contessa, mezza morta, entrò e si abbandonò suuna poltrona alla Voltaire. Germann guardava in una fes-sura: Lizaveta Ivanovna gli passò davanti. Germann sentì isuoi passi frettolosi sui gradini delle scale. Nel suo cuore sifece sentire qualcosa di simile a un rimorso di coscienza etacque di nuovo. Egli si fece di pietra.

La contessa cominciò a svestirsi davanti allo specchio.Staccarono la cuffia, abbellita da delle rose; tolsero la par-rucca incipriata dalla sua testa grigia, coi capelli tagliaticorti. Una pioggia di spilli si sparse intorno a lei. L’abitogiallo con ricami d’argento cadde ai suoi piedi gonfi. Ger-mann fu il testimone dei disgustosi segreti della sua toilet-te; alla fine la contessa rimase con una camicia e una cuf-fia da notte: in questo abbigliamento, più adatto alla suavecchiaia, sembrava meno orribile e brutta.

Come tutte le persone vecchie in generale, la contessasoffriva di insonnia. Svestitasi, si sedette alla finestra nellapoltrona alla Voltaire e congedò le cameriere. Portarono viale candele, la stanza fu illuminata di nuovo da una sola lam-pada. La contessa sedeva tutta gialla, muovendo le labbracascanti, scuotendo la testa a destra e a sinistra. Nei suoiocchi torbidi si manifestava un’assoluta mancanza di pen-siero; guardandoli si poteva pensare che il dondolio del-l’orribile vecchia avvenisse non per sua volontà, ma per unsegreto moto galvanico.

All’improvviso questo viso morto cambiò in modo indi-cibile. Le labbra avevano smesso di muoversi, gli occhi si era-no rianimati: davanti alla contessa c’era uno sconosciuto.

“Non abbia paura, per l’amor di Dio, non abbia paura!”disse egli con voce chiara e bassa. “Non ho intenzione dinuocerle; sono venuto a implorare una grazia.”

La vecchia lo guardava in silenzio e come se non lo sen-tisse. Germann immaginò che fosse sorda e, piegatosi finoal suo orecchio, le ripeté le stesse cose. La vecchia tacevacome prima.

“Lei può,” continuò Germann, “fare la felicità della miavita, e non le costerà niente; so che può indovinare tre car-te di fila...”

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Germann si fermò. La contessa, sembrava, capiva quel-lo che le chiedeva; sembrava che cercasse le parole per lasua risposta.

“Era uno scherzo,” disse alla fine, “le giuro! Era unoscherzo.”

“Non c’è niente da scherzare,” ribatté con stizza Ger-mann. “Si ricordi di Çaplickij, che lei aiutò a rifarsi.”

La contessa si confuse visibilmente. I suoi tratti espres-sero un forte movimento dell’anima, ma ella presto ricad-de nell’insensibilità precedente.

“Può,” continuò Germann, “darmi queste tre carte si-cure?”

La contessa taceva; Germann continuò:“Per chi vuole custodire il suo segreto? Per i nipoti? So-

no ricchi anche senza; non conoscono neppure il valore deisoldi. Uno scialacquatore le sue tre carte non l’aiuteranno.Chi non sa conservare l’eredità paterna, costui morirà co-munque in povertà, nonostante tutti gli sforzi del demonio.Io non sono uno scialacquatore; io conosco il valore dei sol-di. Le sue tre carte non mi corromperanno. Su!...”.

Si era fermato e con un tremito aspettava la sua rispo-sta. La contessa taceva; Germann si mise in ginocchio.

“Se qualche volta,” disse, “il suo cuore ha conosciuto ilsentimento dell’amore, se lei ricorda le sue estasi, se lei an-che una sola volta ha sorriso al pianto di un bimbo appenanato, se qualcosa di umano ha battuto una volta nel suo pet-to, allora prego i suoi sentimenti di sposa, amante, madre,per tutto quel che c’è di santo al mondo, non rifiuti la miasupplica! Mi sveli il suo segreto! A che le serve? Può darsiche sia legato a un orribile peccato, alla perdita eterna del-la beatitudine, a un contratto col diavolo... Pensi: lei è vec-chia, non ha molto da vivere, sono pronto a prendere il suopeccato sulla mia anima. Mi sveli solo il suo segreto. Pensiche la felicità di un uomo si trova nelle sue mani; che nonsolo io, ma anche i miei figli, i miei nipoti e pronipoti bene-diranno la sua memoria e la venereranno come cosa sacra...”

La vecchia non diceva neanche una parola.Germann si alzò.“Vecchia strega!” disse, stringendo i denti, “allora ti co-

stringerò a rispondere...”Con queste parole tolse dalla tasca una pistola. Alla vi-

sta della pistola la contessa per la seconda volta diede se-

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gno di forti sentimenti. Cominciò ad annuire e alzò il brac-cio come per ripararsi dallo sparo... Poi cadde supina... erimase immobile.

“La smetta di far la bambina,” disse Germann pren-dendole un braccio. “Le chiedo per l’ultima volta: vuole dar-mi le sue tre carte? Sì o no?”

La contessa non rispondeva. Germann vide che eramorta.

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IV

7 mai 18**Homme sans mœurs et sansReligion! 65

Una corrispondenza

Lizaveta Ivanovna sedeva nella sua stanza con ancorail suo abbigliamento da ballo, immersa in profonde rifles-sioni. Tornata a casa, si era affrettata a mandar via la ra-gazza assonnata che malvolentieri le proponeva i suoi ser-vizi, aveva detto che si sarebbe svestita da sola e con untremito era entrata nella sua stanza sperando di trovarciGermann e augurandosi di non trovarcelo. Fin dal primosguardo si era accertata della sua assenza e aveva ringra-ziato il destino per l’ostacolo che aveva impedito il loro in-contro. Si era seduta, senza svestirsi, e aveva cominciato aricordarsi tutte le circostanze che in così poco tempo l’a-vevano trascinata così lontano. Non erano passate tre set-timane dal momento in cui aveva visto per la prima voltaalla finestra quel giovane, e già c’era tra loro una corri-spondenza e lui era riuscito a ottenere da lei un incontronotturno! Conosceva il suo nome solo perché alcune dellesue lettere erano firmate; non aveva mai parlato con lui,non aveva sentito la sua voce, non aveva mai sentito par-lare di lui... fino a quella stessa sera. Che strana cosa! Quel-la stessa sera, al ballo, Tomskij, tenendo il broncio alla prin-cipessina Polìna *** che, diversamente dal solito, faceva lacivetta non con lui, voleva farla ingelosire mostrandosi in-differente: aveva chiamato Lizaveta Ivanovna e aveva bal-lato con lei una mazurca infinita. Per tutto il tempo avevascherzato sulla sua passione per un ufficiale del genio, ave-va assicurato che sapeva molto di più di quello che si po-teva supporre e qualcuno dei suoi scherzi era stato così ben

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65 “7 maggio 18**. Uomo senza morale e senza Religione!” (in fran-cese nel testo).

diretto che Lizaveta Ivanovna a momenti aveva pensato checonoscesse il suo segreto.

“Da chi l’ha saputo?” gli aveva chiesto ridendo.“Da un amico della persona a lei nota,” aveva risposto

Tomskij, “un uomo molto notevole!”“E chi sarebbe questo uomo notevole?”“Si chiama Germann.”Lizaveta Ivanovna non aveva risposto niente, ma le brac-

cia e le gambe le si erano ghiacciate.“Questo Germann,” aveva continuato Tomskij, “è un per-

sonaggio veramente romantico; ha il profilo di Napoleonee l’anima di Mefistofele. Penso che abbia sulla coscienzaper lo meno tre delitti. Com’è impallidita.”

“Mi fa male la testa... Cosa le ha detto Germann, o co-me si chiama...”

“Germann è molto scontento del suo amico: dice che alposto suo si sarebbe comportato in tutt’altro modo... Io cre-do perfino che Germann stesso abbia delle mire su di lei,per lo meno è tutt’altro che indifferente quando ascolta ledichiarazioni d’amore del suo amico.”

“E dove mi ha visto?”“In chiesa, forse, a passeggio! Chi lo sa! Forse, nella sua

camera, mentre lei dormiva: ne è capace...”Tre signore che si erano avvicinate loro con la doman-

da – oubli ou regret?66 – interruppero una discussione cheera diventata tormentosamente interessante per LizavetaIvanovna.

La dama scelta da Tomskij era la stessa principessina***. Ella era riuscita a spiegarsi con lui facendo un giro inpiù e girando una volta in più intorno alla sua sedia. Tom-skij, tornando al suo posto, già non pensava più né a Ger-mann né a Lizaveta Ivanovna. Ella voleva immancabilmenteriprendere la conversazione interrotta; ma la mazurca finì,e subito dopo la vecchia contessa se n’era andata.

Le parole di Tomskij non erano altro che delle chiac-chiere da mazurca, ma avevano colpito profondamente l’a-nimo della giovane sognatrice. Il ritratto disegnato da Tom-skij assomigliava all’immagine che se ne era fatta ella stes-sa e, grazie ai romanzi contemporanei, questo personag-gio ormai volgare spaventava e affascinava la sua imma-

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66 In francese nel testo.

ginazione. Ella sedeva, le braccia nude disposte a croce,la testa ancora adorna di fiori poggiata sul petto scoper-to... All’improvviso la porta si aprì e Germann entrò. Ellasobbalzò...

“Dov’era?” chiese spaventata con un sussurro.“Nella stanza da letto della vecchia contessa,” rispose

Germann, “vengo da lì. La contessa è morta.”“Dio mio!... Cosa dice?”“E sembra,” continuò Germann, “che io sia la causa del-

la sua morte.”Lizaveta Ivanovna lo guardò e le parole di Tomskij ri-

suonarono nel suo animo: quest’uomo ha per lo meno tre de-litti sull’anima! Germann sedette sul davanzale della fine-stra di fronte a lei e raccontò tutto.

Lizaveta Ivanovna l’ascoltò con orrore. Così, queste let-tere appassionate, queste richieste ardenti, questa insolen-te tenace persecuzione, tutto ciò non era amore! Soldi, ec-co cosa bramava il suo animo! Non era lei che poteva sod-disfare i suoi desideri e farlo felice! La povera protetta al-tro non era che la cieca aiutante di un delinquente, dell’as-sassino della sua vecchia benefattrice! Ella pianse amara-mente nel suo tardo straziante pentimento. Germann laguardava in silenzio: anche il suo cuore era tormentato, mané le lacrime della povera ragazza né il sorprendente in-canto del suo dolore toccarono la sua dura anima. Non sen-tiva rimorsi di coscienza al pensiero della vecchia morta.Una cosa lo faceva inorridire, l’irrevocabile perdita di un se-greto dal quale attendeva l’arricchimento.

“Lei è un mostro!” disse alla fine Lizaveta Ivanovna.“Non volevo la sua morte,” rispose Germann, “la mia pi-

stola non era carica.”Tacquero.Si fece mattino. Lizaveta Ivanovna spense la candela che

stava finendo: una pallida luce illuminò la sua stanza. Ellaasciugò gli occhi bagnati di pianto e li alzò su Germann: se-deva sul davanzale, con le braccia incrociate e minacciosa-mente cupo. In questa posizione ricordava sorprendente-mente il ritratto di Napoleone. Questa somiglianza colpìperfino Lizaveta Ivanovna.

“Come farà a uscire di casa?” disse alla fine Lizaveta Iva-novna. “Avevo pensato di portarla a una scala segreta, mabisogna passare per la stanza da letto, e ho paura.”

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“Mi dica come trovare questa scala segreta; andrò dasolo.”

Lizaveta Ivanovna si alzò, tirò fuori dal comò una chia-ve, la consegnò a Germann e gli diede dettagliate istruzio-ni. Germann strinse la sua fredda, inerte mano, baciò il suocapo chino e se ne andò.

Scese per la scala a chiocciola ed entrò ancora nella stan-za da letto della contessa. La vecchia morta sedeva pietrifi-cata; il suo volto esprimeva una grande quiete. Germann sifermò di fronte a lei, la guardò a lungo, come desiderandoassicurarsi dell’orribile verità; alla fine entrò nel gabinetto,tastò dietro la tappezzeria una porta e cominciò a scende-re per una scala buia, agitato da strani sentimenti. Per que-sta stessa scala, pensò, forse, sessant’anni prima, in quellastessa camera da letto, a quella stessa ora, in un caffettanoricamato, pettinato à l’oiseau royal,67 stringendosi al pettoil suo cappello a tre punte, entrava un giovane fortunato,da tempo ormai ridotto in cenere nella tomba, e il cuoredella sua vecchissima amante oggi ha smesso di battere.

Alla fine della scala Germann trovò una porta che aprìcon quella chiave e si trovò in un corridoio a due uscite chelo portò in strada.

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67 In francese nel testo.

V

Quella notte mi apparvela povera baronessa vonV***. Era tutta vestita di bianco emi disse: “Buongiorno,signor consigliere!”.SWEDENBORG

Tre giorni dopo la notte fatale, alle nove del mattino,Germann andò al monastero di ***, dove doveva essere ce-lebrata la funzione funebre per la salma della defunta con-tessa. Senza provare pentimento, non poteva, tuttavia, soffo-care del tutto la voce della coscienza che gli ripeteva: tu seil’assassino della vecchia! Avendo poca fede vera, aveva mol-ti pregiudizi. Credeva che la contessa morta potesse avereun’influenza nociva sulla sua vita, e aveva deciso di pre-sentarsi ai funerali per ottenere il suo perdono.

La chiesa era piena. Germann a stento poté infilarsi inmezzo a una folla di gente. La bara era su un ricco catafal-co sotto un baldacchino di velluto. La defunta vi giaceva conle mani incrociate sul petto in cuffia di pizzo e in abito bian-co di raso di seta. Intorno stavano i suoi domestici: i servi incaffettani neri con nastri stemmati sulla spalla e con le can-dele in mano; i parenti in lutto stretto: figli, nipoti e proni-poti. Non piangeva nessuno; le lacrime sarebbero state uneaffectation.68 La contessa era così vecchia che la sua mortenon aveva potuto sorprendere nessuno e i suoi parenti datempo la guardavano come una sopravvissuta. Un giovanevescovo pronunciò il discorso funebre. Con semplici e toc-canti espressioni rappresentò l’assunzione della giusta, i cuilunghi anni erano stati quieti, commovente preparazione auna fine cristiana. “L’angelo della morte l’ha trovata,” dissel’oratore, “che vegliava con buone intenzioni e in attesa del-l’innamorato di mezzanotte.” Il servizio si compì con tristedecoro. I parenti per primi andarono a dar l’addio alla sal-ma. Poi avanzarono gli innumerevoli ospiti venuti a inchi-

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68 In francese nel testo.

narsi a colei che da così tanto tempo partecipava ai loro va-ni divertimenti. Dopo di loro anche tutti i domestici. Alla fi-ne si avvicinò una vecchia dama di compagnia coetanea del-la defunta. Due giovinette la tenevano sottobraccio. Non ave-va la forza di inchinarsi fino a terra e, sola, versò qualche la-crima baciando la fredda mano della sua signora. Dopo dilei Germann decise di avvicinarsi alla bara. Si inchinò finoa terra e per qualche momento giacque sul freddo pavimentocosparso di rami d’abete. Alla fine si alzò, pallido come ladefunta stessa, salì i gradini del catafalco e si chinò... In quelmomento gli parve che la morta lo guardasse beffarda striz-zandogli l’occhio. Germann, tirandosi indietro in fretta, in-ciampò e stramazzò al suolo supino. Lo sollevarono. In quel-lo stesso momento portavano Lizaveta Ivanovna priva di sen-si sul terrazzino. Questo episodio turbò per qualche minu-to la solennità del tetro rito. Tra i presenti si sollevò un sor-do mormorio e un magro ciambellano, parente stretto del-la defunta, sussurrò all’orecchio di un inglese che era vici-no a lui che il giovane ufficiale era un figlio naturale di lei,al che l’inglese rispose freddo: “Oh?”.

Per tutto il giorno Germann fu straordinariamente tur-bato. Pranzando in una locanda isolata, contrariamente alsuo solito bevve moltissimo, nella speranza di spegnere l’a-gitazione mattutina. Ma il vino accese ancora di più la suaimmaginazione. Tornato a casa si gettò, senza svestirsi, sulletto e si addormentò profondamente.

Si svegliò che era già notte: la luna illuminava la suastanza. Guardò l’orologio: mancava un quarto alle tre. Ilsonno gli era passato; sedette sul letto e pensò al funeraledella vecchia contessa.

In quel momento qualcuno dalla strada lo guardò at-traverso la finestra, e subito si ritrasse. Germann non pre-stò al fatto nessuna attenzione. Dopo un istante sentì che siapriva la porta della stanza d’ingresso. Germann pensò cheil suo attendente, ubriaco come suo solito, fosse tornato dauna passeggiata notturna. Ma sentiva un passo sconosciu-to: qualcuno camminava strascicando appena i piedi. Laporta si aprì, entrò una donna con un abito bianco. Ger-mann la prese per la sua vecchia nutrice e si stupì che qual-cosa potesse averla portata lì a quell’ora. Ma la donna bian-ca, scivolando, si trovò d’un tratto di fronte a lui, e Germannriconobbe la contessa!

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“Sono venuta da te contro la mia volontà,” disse con vo-ce ferma, “ma mi è stato ordinato di adempiere alla tua pre-ghiera. Il tre, il sette e l’asso ti faranno vincere subito, maa patto che tu non giochi più di una carta al giorno e che intutta la vita poi non giochi più. Ti perdono la mia morte apatto che sposi la mia protetta Lizaveta Ivanovna...”

Con queste parole si voltò piano, arrivò alla porta e scom-parve, strascicando i piedi. Germann sentì sbattere l’anti-porta e vide che qualcuno lo guardava ancora dalla finestra.

A lungo Germann non poté riaversi. Andò nell’altra stan-za. Il suo attendente dormiva sul pavimento; Germann losvegliò a fatica. L’attendente come al solito era ubriaco: dalui non si poteva ottenere niente di sensato. L’antiporta erachiusa. Germann tornò in camera sua, accese la candela etrascrisse la sua visione.

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VI

– Atandé!69

– Come si permette di dirmi atandé?– Sua eccellenza, io ho detto atandé, ve’!

Due idee fisse non possono esistere contemporanea-mente in una natura morale così come due corpi non pos-sono nel mondo fisico occupare uno stesso spazio. Il tre, ilsette e l’asso soppiantarono presto nell’immaginazione diGermann la figura della vecchia morta. Il tre, il sette e l’as-so non uscivano dalla sua testa e sorgevano sulle sue lab-bra. Vedendo una ragazza giovane diceva: “Com’è slancia-ta! Un vero tre scarlatto”. Gli chiedevano: “Che ore sono?”,rispondeva: “Il sette meno cinque”. Tutti gli uomini panciutigli ricordavano l’asso. Il tre, il sette, l’asso lo perseguitava-no in sogno assumendo tutti gli aspetti possibili: il tre sboc-ciava davanti a lui in forma di rigogliosa grandiflora, il set-te era rappresentato da un portone gotico, l’asso da un enor-me ragno. Tutti i suoi pensieri si fondevano in uno: usare ilsegreto che gli era costato così caro. Cominciò a pensare alcongedo e ai viaggi. Voleva rubare il tesoro della fortuna in-cantata nelle libere case da gioco di Parigi. Un caso gli ri-sparmiò le preoccupazioni.

A Mosca si era costituita una società di ricchi giocato-ri, sotto la presidenza del celebre Çekalinskij, che aveva pas-sato tutto il secolo con le carte in mano, e a suo tempo ave-va accumulato milioni, vincendo cambiali e perdendo de-naro contante. La lunga esperienza gli era valsa la fiduciadei compagni, e una casa aperta, un grande cuoco, la be-nevolenza e l’allegria gli avevano conquistato il rispetto delpubblico. Venne a Pietroburgo. La gioventù accorreva dalui dimenticando i balli per le carte e preferendo le sedu-

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69 Termine che, tra i giocatori di carte, indicava che non era il mo-mento di puntare, dal francese Attendez.

zioni del faraone alle tentazioni della galanteria. Narumovportò con sé Germann.

Attraversarono una fila di sontuose stanze piene di ca-merieri cortesi. Alcuni generali e consiglieri segreti gio-cavano al whist; dei giovanotti sedevano, stravaccati suidivani di stoffa, mangiavano il gelato e fumavan la pipa.In salotto dietro un tavolo lungo, intorno al quale si affol-lavano una ventina di giocatori, sedeva il padrone di casae teneva banco. Era un uomo sui sessant’anni, d’aspettopiù che rispettabile, la testa coperta da una canizie d’ar-gento; il volto pieno e fresco esprimeva bontà d’animo; gliocchi brillavano, ravvivati da un eterno sorriso. Narumovgli presentò Germann. Çekalinskij gli strinse amichevol-mente la mano, lo pregò di non far cerimonie e continuòa tener banco.

La mano durò a lungo. Sul tavolo c’erano circa trentacarte.

Çekalinskij si fermava dopo ogni calata, per dare ai gio-catori il tempo di puntare, segnava le perdite, cortesementetendeva l’orecchio alle loro richieste, ancor più cortesementeraddrizzava un angolo di troppo, piegato da una mano di-stratta. Finalmente la mano finì. Çekalinskij mischiò le car-te e si preparò a tenere banco per un’altra.

“Permetta di puntare una carta,” disse Germann allun-gando una mano da dietro a un grasso signore che era lì chepuntava. Çekalinskij sorrise e si inchinò, muto, in segno didocile assenso. Narumov, ridendo, si congratulò con Ger-mann per l’interruzione di un lungo digiuno e gli augurò unbuon inizio.

“Via!” disse Germann scrivendo col gesso la posta sot-to la sua carta.

“Quanto, ve’?” chiese stringendo gli occhi il banchiere.“Scusi, non riesco a vedere.”

“Quarantasettemila,” rispose Germann.A questa parola tutte le teste si volsero istantaneamen-

te e tutti gli occhi si fissarono su Germann. “È impazzito,”pensò Narumov.

“Mi permetta di farle notare,” disse Çekalinskij con ilsuo immancabile sorriso, “che la sua puntata è forte: quinessuno ha mai puntato più di duecentosettantacinque ru-bli, come prima giocata.”

“Be’,” ribatté Germann, “accetta la mia carta oppure no?”

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Çekalinskij si inchinò intendendo lo stesso docile as-senso.

“Volevo solo farle sapere,” disse, “che essendo stato con-siderato degno della fiducia dei compagni, non posso tenerbanco altrimenti che in denaro contante. Da parte mia io,ci mancherebbe, credo che sia sufficiente la sua parola, maper l’ordine del gioco e dei conti la prego di mettere il de-naro sulla carta.”

Germann tolse di tasca un biglietto di banca e lo diedea Çekalinskij, il quale, dopo averlo esaminato velocemente,servì a Germann una carta.

Cominciò a tenere banco. A destra stava un nove, a si-nistra un tre.

“Vinco!” disse Germann mostrando la sua carta.Tra i giocatori si alzò un mormorio. Çekalinskij si acci-

gliò, ma il sorriso tornò subito sul suo volto.“Vuole incassare?” chiese a Germann.“Faccia la cortesia.”Çekalinskij tolse di tasca alcuni biglietti di banca e saldò

subito il conto. Germann prese i suoi soldi e lasciò il tavo-lo. Narumov non poteva riaversi. Germann bevve un bic-chiere di limonata e andò a casa.

La sera del giorno successivo comparve ancora da Çeka-linskij. Il padrone di casa teneva banco. Germann si avvi-cinò al tavolo: i giocatori gli fecero subito posto, Çekalin-skij gli si inchinò benevolmente.

Germann aspettò una nuova mano, puntò su una cartamettendoci su i suoi quarantasettemila e la vincita del gior-no precedente.

Çekalinskij cominciò a tener banco. Un fante cadde adestra, un sette a sinistra.

Germann scoprì un sette.Tutti fecero: “Ah!”. Çekalinskij era visibilmente turbato.

Contò novantaquattromila e li consegnò a Germann. Ger-mann li prese con sangue freddo e in quello stesso momentosi allontanò.

La sera successiva Germann apparve ancora al tavolo.Tutti lo aspettavano. I generali e i consiglieri segreti lascia-rono il loro whist per vedere un gioco così straordinario. Igiovani ufficiali saltarono su dai divani; tutti i camerieri siriunirono in salotto. Tutti si fecero attorno a Germann. Glialtri giocatori non puntavano sulle loro carte, aspettando

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con impazienza di vedere come andava a finire. Germannstava in piedi al tavolo, preparandosi a puntare da solo con-tro il pallido ma sempre sorridente Çekalinskij. Entrambiaprirono un nuovo mazzo di carte. Çekalinskij mescolò. Ger-mann prese una carta e puntò su di lei coprendola con unpacco di biglietti di banca. Il tutto era simile a un duello. Unprofondo silenzio regnava intorno.

Çekalinskij cominciò a tenere banco, le mani gli trema-vano. A destra cadde una donna, a sinistra un asso.

“L’asso vince!” gridò Germann e scoprì la sua carta.“La sua donna è battuta,” disse benevolmente Çekalinskij.Germann trasalì: effettivamente, al posto del suo asso

c’era una donna di picche. Non credeva ai suoi occhi, noncapiva come avesse potuto sbagliarsi a scegliere.

In quel momento gli sembrò che la donna di picche glistrizzasse l’occhio e sorridesse. Un’incredibile somiglianzalo colpì...

“La vecchia!” gridò terrorizzato.Çekalinskij tirò a sé i biglietti persi. Germann stava im-

mobile. Quando si allontanò dal tavolo, si alzò un forte mor-morio. “Ha giocato benissimo,” dicevano i giocatori. Çeka-linskij mischiò ancora le carte: il gioco continuò.

CONCLUSIONE

Germann è impazzito. Si trova all’ospedale Obuchov-skaja, al numero 17, non risponde a nessuna domanda eborbotta in modo incredibilmente veloce: “Tre, sette, asso!Tre sette, donna!”.

Lizaveta Ivanovna ha sposato un giovanotto molto cor-tese; è in servizio da qualche parte e ha un patrimonio ade-guato: è il figlio dell’ex amministratore della vecchia con-tessa. Da Lizaveta Ivanovna tengono una protetta povera.

Tomskij è stato promosso capitano di cavalleria e si èsposato con la principessina Polìna.

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La donna di picche è stato scritto nell’ottobre del 1833 a Bol-dino. Fu pubblicato nel 1834 in “Biblioteca per la lettura” (t. II, l.3). Prima della pubblicazione Pu√kin lo lesse al suo amico P.V.Na√çokin, che raccontò poi a Bartenev che l’episodio che dà il viaalla vicenda “non è inventato. La vecchia contessa è Natal’ja Pe-trovna Golicyna, che aveva veramente vissuto a Parigi nel mododescritto da Pu√kin. Suo nipote, Golicyn, aveva raccontato a Pu√kindi aver perso una volta alle carte e di essere andato dalla nonna achieder dei soldi. Di soldi non gliene aveva dati, ma gli aveva da-to tre carte, indicatele a Parigi da Saint-Germain. ‘Prova,’ avevadetto la nonna. Il nipote aveva puntato e si era rifatto. Il seguitodella novella è tutto inventato”. Per testimonianza di Pu√kin stes-so, la novella ebbe molto successo. “La mia Donna di picche è digran moda. I giocatori puntano sul tre, sul sette e sull’asso” scri-ve il 7 aprile del 1834 nel suo diario.

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KIRDˇALI

Racconto

KirdΩali era bulgaro d’origine. KirdΩali in turco signifi-ca paladino, ardito. Il suo vero nome non lo conosco.

KirdΩali con i suoi brigantaggi ha portato il terrore intutta la Moldavia. Per dare un’idea di com’era, racconteròuna delle sue imprese. Una volta di notte lui e l’arnaut70 Mi-chajlaki si gettarono in due su un villaggio bulgaro. Lo in-cendiarono dai due lati e cominciarono a passare da unacapanna all’altra. KirdΩali sgozzava, e Michajlaki prendevail bottino. Gridavano entrambi: “KirdΩali! KirdΩali!”. Tuttoil villaggio si diede alla fuga.

Quando Aleksandr Ypsilanti proclamò l’insurrezione ecominciò a raccogliere intorno a sé un esercito, KirdΩali gliportò alcuni dei suoi vecchi compagni. Il vero scopo del-l’Eteria lo capiva male, ma la guerra offriva l’occasione diarricchirsi a spese dei turchi, e forse anche dei moldavi, equesto gli sembrò evidente.

Aleksandr Ypsilanti in sé era coraggioso, ma non avevale caratteristiche necessarie al ruolo che aveva assunto co-sì appassionatamente e in modo così imprudente. Non eracapace di trattare con le persone che avrebbe dovuto gui-dare. Esse non avevano per lui né rispetto, né fiducia. Do-po l’infelice battaglia in cui morì il fiore della gioventù gre-ca, Iordaki Olimbioti gli consigliò di allontanarsi ed eglistesso ne prese il posto. Ypsilanti scappò al confine austriacoe da là gettò la sua maledizione su uomini che chiamò di-subbidienti, vigliacchi e mascalzoni. Questi vigliacchi e ma-scalzoni per la maggior parte morirono sulle mura del mo-

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70 Nome col quale i turchi chiamavano i soldati albanesi dell’esercitoturco.

nastero di Seku o sulle sponde del Prut, difendendosi di-speratamente contro un nemico dieci volte più forte.

KirdΩali era nel drappello di Georgij Kantakuzin, delquale si possono ripetere le stesse cose dette di Ypsilanti.Alla vigilia della battaglia di Skuljani, Kantakuzin chiese alcomando russo il permesso di entrare nel nostro campo diquarantena. Il drappello rimase senza comandante; maKirdΩali, Saf’janos, Kantagoni e gli altri non avevano nes-sun bisogno di un comandante.

La battaglia di Skuljani, sembra, non è stata descrittada nessuno in tutta la sua toccante verità. Immaginatevi set-tecento arnauti, albanesi, greci, bulgari e ogni tipo di mar-maglia senza nessuna idea dell’arte della guerra che retro-cede alla vista di quindicimila cavalieri turchi. Questo drap-pello si strinse alla riva del Prut e pose di fronte a sé duepiccoli cannoncini, trovati a Jassi nel cortile del gospodar’e dai quali si sparava, di solito, per le feste dell’onomasti-co. Ai turchi sarebbe piaciuto usare la mitraglia, ma nonosavano senza il permesso del comando russo; la mitragliasarebbe senz’altro arrivata sulla nostra riva. Il capo del cam-po di quarantena (ora già defunto), che serviva da qua-rant’anni nell’esercito, non aveva mai sentito in vita sua ilfischio delle pallottole, ma lì il Signore glielo fece sentire.Alcune di esse ronzarono intorno alle sue orecchie. Il vec-chietto si irritò sommamente e rimproverò aspramente perquesto il maggiore del reggimento di fanteria dei cacciato-ri che si trovava in quarantena. Il maggiore, non sapendocosa fare, corse al fiume oltre il quale cavalcavano i deli-basci e li minacciò col dito. I delibasci, visto ciò, fecero die-trofront e partirono al galoppo, e dietro di loro tutto il drap-pello turco. Il maggiore che aveva minacciato col dito sichiamava ChorΩevskij. Non so che fine abbia fatto.

Il giorno dopo, però, i turchi attaccarono gli eteristi.Non osando impiegare né la mitraglia né le palle di canno-ne, decisero, contrariamente al loro solito, di agire all’armabianca. La battaglia fu crudele. Si combatté a colpi di iata-gan.71 Dalla parte dei turchi furono notate delle lance chefino ad allora non avevano usato; queste lance erano russe:dei nekrasovcy72 combattevano tra le loro fila. Gli eteristi,

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71 Sciabola corta con lama a un solo taglio leggermente ricurva in pun-ta, diffusa in Europa orientale, in Asia minore e in alcune regioni africane.

72 Cosacchi antichi credenti che nel 1708 si erano rifugiati in Turchia

con il permesso del nostro sovrano, potevano passare dal-l’altra parte del Prut e rifugiarsi nel nostro campo di qua-rantena. Cominciarono a attraversare. Kantagoni e Saf’ja-nos rimasero per ultimi sulla riva turca. KirdΩali, ferito al-la vigilia, era giù nel campo di quarantena.

Saf’janos fu ucciso. Kantagoni, uomo molto grasso, fuferito da una lancia nel ventre. Con una mano alzò la spa-da, con l’altra piantò la lancia più profondamente dentro disé e in tal modo poté prendere con la spada il suo assassi-no, insieme al quale cadde.

Tutto era finito. I turchi rimasero vincitori. La Molda-via fu sgomberata. Seicento arnauti circa si sparsero per laBessarabia; non sapendo come sostentarsi, erano comun-que grati alla Russia per la sua protezione. Facevano unavita oziosa, ma non dissoluta. Li si poteva sempre vederenei caffè della semiturca Bessarabia con in bocca i lunghicannelli delle pipe, a sorseggiare fondi di caffè da piccoletazzine. Le loro giacche ricamate e le loro scarpe a puntacominciavano già a logorarsi, ma il loro zuccotto impen-nacchiato era sempre messo di sghembo, e gli iatagan e lepistole pendevano sempre dalle larghe cinture. Nessuno silamentò di loro. Non si poteva nemmeno pensare che que-sti pacifici poveracci fossero i celeberrimi klefti della Mol-davia, compagni del terribile KirdΩali, e che egli stesso sitrovasse tra loro.

Il pascià che comandava a Jassi lo venne a sapere e afondamento dei negoziati di pace chiese al comando russola consegna del brigante.

La polizia si mise a indagare. Vennero a sapere cheKirdΩali si trovava effettivamente a Ki√inëv. Lo presero a ca-sa di un monaco fuggito dal convento, di sera, mentre ce-nava al buio con sette compagni.

KirdΩali fu messo sotto scorta. Non si mise a negare laverità e confessò di essere KirdΩali. “Ma,” aggiunse, “dal mo-mento in cui ho attraversato il Prut non ho toccato un ca-pello di roba altrui, non ho offeso nemmeno l’ultimo zin-garo. Per i turchi, per i moldavi, per i valacchi io, natural-mente, sono un brigante, ma per i russi sono un ospite.Quando Saf’janos, dopo aver sparato tutti i colpi della sua

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dopo la disfatta nella rivolta condotta da Kondratij Bulavin. Il nome dinekrasovcy deriva da Ignat Nekras, uno degli atamani di Bulavin.

mitraglia, è venuto da noi nel campo di quarantena a to-gliere ai feriti come ultime cartucce i bottoni, i chiodi, lecatenine, le else degli iatagan, io gli ho dato venti be√lik esono rimasto senza soldi. Dio vede che io, KirdΩali, vivevodi elemosine! E allora perché adesso i russi mi consegnanoai miei nemici?” Dopo di che KirdΩali tacque e si mise tran-quillo ad aspettare la soluzione del proprio destino.

Non aspettò a lungo. Il comando, non obbligato a guar-dare i briganti dal loro romantico punto di vista e convin-to della giustezza della richiesta, ordinò di mandare KirdΩalia Jassi.

Un uomo di cuore e d’ingegno,73 a quell’epoca giovanefunzionario sconosciuto, che occupa oggi una posizione im-portante, mi descrisse vividamente la sua partenza.

Alle porte della fortezza c’era una karuca postale (forsevoi non sapete cos’è una karuca. È una bassa carretta di vi-mini, alla quale ancora poco tempo fa si attaccavano di so-lito sei o otto piccole rozze. Un moldavo coi baffi e un cap-pello di montone, seduto a cavallo di una di esse, gridava efaceva fischiare la sferza continuamente, e le sue piccolerozze correvano a un trotto abbastanza robusto. Se una diesse cominciava a impicciarsi, lui la staccava con orribilimaledizioni e l’abbandonava per strada, indifferente al suodestino. Sulla via del ritorno era certo di trovarla in quellostesso posto a pascolare tranquillamente nella verde step-pa. Non succedeva di rado che un viaggiatore, partito dauna stazione con otto cavalli, arrivasse a quella successivacon un paio. Così si faceva una quindicina di anni fa. Ades-so nella Bessarabia russificata hanno adottato le bardatu-re russe e la carrozza russa).

Questa karuca era alle porte della fortezza nel 1821, inuno degli ultimi giorni del mese di settembre. Le giudee,con le maniche abbassate e trascinando le ciabatte, gli ar-nauti nel loro abbigliamento lacero e pittoresco, le snellemoldave con in braccio bambini dagli occhi neri circonda-vano la karuca. Gli uomini conservavano il silenzio, le don-ne aspettavano con fervore. Le porte si aprirono e qualcheufficiale della polizia sbucò in strada; dietro di loro due sol-dati conducevano KirdΩali incatenato.

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73 Il funzionario della cancelleria del generale Nizov M.I. Leks, chePu√kin incontrò a Pietroburgo nel 1834.

Dimostrava una trentina d’anni. I tratti del suo viso oli-vastro erano regolari e severi. Era alto, le spalle larghe, e ingenerale in lui si esprimeva una straordinaria forza fisica.Un vistoso turbante messo di traverso gli copriva la testa,una larga cintura abbracciava la sua vita sottile; una divisada ussaro di grosso panno blu, una camicia dalle grandi pie-ghe che arrivavan fin sopra i ginocchi e delle belle scarpecostituivano il resto del suo abbigliamento. Il suo aspettoera fiero e tranquillo.

Uno dei funzionari, un vecchietto tutto rosso con unadivisa sbiadita sulla quale dondolavano tre bottoni, schiac-ciò con gli occhiali di stagno il bernoccolo purpureo cheaveva al posto del naso e, con intonazione nasale, comin-ciò a leggere in lingua moldava. Di tanto in tanto gettavauno sguardo altezzoso all’incatenato KirdΩali al quale, evi-dentemente, si riferiva il documento. KirdΩali lo ascoltavacon attenzione. Il funzionario finì la sua lettura, ripiegò ildocumento, gettò un grido terribile alla folla, ordinandoledi disperdersi, e comandò la partenza della karuca. AlloraKirdΩali gli si rivolse e gli disse qualche parola in linguamoldava; la sua voce tremò, il viso cambiò; scoppiò a pian-gere e cadde ai piedi del funzionario di polizia facendo ri-suonare le proprie catene. Il funzionario di polizia, spa-ventato, fece un salto all’indietro; i soldati volevano solle-vare KirdΩali, ma lui si alzò da solo, raccolse i propri cep-pi, salì sulla karuca e gridò: “Forza!”. Un gendarme gli si se-dette accanto, il moldavo fece schioccare la sferza e la ka-ruca si mosse.

“Cose le ha detto KirdΩali?” chiese il giovane funziona-rio al poliziotto.

“Lui, deve sapere, ve’, mi ha pregato,” rispose ridendo ilpoliziotto, “di occuparmi di sua moglie e del figlioletto, chevivono poco lontano da Kilia in un villaggio bulgaro, ha pau-ra che essi soffrano per causa sua. La gente è scema, ve’.”

Il racconto del giovane funzionario mi colpì molto. Midispiaceva per il povero KirdΩali. A lungo non seppi nientedel suo destino. Qualche anno dopo mi incontrai con il gio-vane funzionario. Discorremmo del passato.

“E che ne è del suo amico KirdΩali?” chiesi. “Non sa percaso cosa gli è successo?”

“Come non sapere,” rispose lui, e mi raccontò quello chesegue.

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KirdΩali, condotto a Jassi, fu presentato al pascià che locondannò al palo.

Il supplizio fu rimandato a una certa festa. Nel frattempolo misero in prigione.

Il prigioniero era custodito da sette turchi (uomini sem-plici e nell’animo altrettanto briganti quanto KirdΩali); lorispettavano e con l’avidità comune a tutto l’Oriente ascol-tavano i suoi racconti favolosi.

Tra le guardie e il prigioniero si creò una stretta rela-zione. Una volta KirdΩali disse loro: “Fratelli! La mia ora èvicina. Nessuno sfugge al suo destino. Presto vi dirò addio.Vorrei lasciarvi qualcosa in ricordo”.

I turchi aprirono le orecchie.“Fratelli,” continuò KirdΩali, “tre anni fa, mentre bri-

gantavo con il povero Michajlaki, sotterrammo nella step-pa poco lontano da Jassi un pentola piena di galbini. Evi-dentemente né a me né a lui era dato possedere questa pen-tola. Sia: prendetela e dividetevela amichevolmente.”

I turchi per poco non impazzirono. Cominciarono a di-scutere su come trovare il luogo segreto. Pensarono, pen-sarono e poi proposero che fosse KirdΩali stesso a guidarli.

Venne la notte. I turchi tolsero i ceppi dai piedi del pri-gioniero, gli legarono le mani con una corda e si diresserocon lui dalla città nella steppa.

KirdΩali li conduceva, tenendo la stessa direzione, da unkurgan74 all’altro. Camminarono a lungo. Alla fine KirdΩalisi fermò vicino a una grande pietra, contò venti passi ver-so mezzogiorno, batté il piede e disse: “Qui”.

I turchi si misero all’opera. Quattro sguainarono gli ia-tagan e cominciarono a vangare la terra. Tre rimasero diguardia. KirdΩali si sedette sulla pietra e si mise a guarda-re il loro lavoro.

“Be’, manca molto?” chiese. “Avete finito?”“No, non ancora,” rispondevano i turchi, e lavoravano

tanto che erano zuppi di sudore.KirdΩali cominciava a mostrare impazienza.“Che gente!” diceva. “Neanche la terra sanno zappare

come Dio comanda. Se ci avessi messo le mani io, la cosasarebbe finita in due minuti. Figlioli! slegatemi le mani, da-temi uno iatagan.”

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74 Antichi tumuli sepolcrali.

I turchi si fecero pensierosi e cominciarono a consi-gliarsi tra loro.

Be’ (pensarono), sleghiamogli le mani, diamogli uno ia-tagan. Che problema c’è. Lui è da solo, noi siamo in sette.E i turchi gli slegarono le mani e gli diedero uno iatagan.

Infine KirdΩali era libero e armato. Qualcosa doveva pursentire! Si mise a zappare agilmente, i guardiani lo aiuta-vano. A un tratto egli infisse lo iatagan in uno di essi e, la-sciando la spada d’acciaio nel suo petto, estrasse dalla suacintura due pistole.

Gli altri sei, vedendo KirdΩali armato di due pistole, fug-girono.

KirdΩali adesso briganta vicino a Jassi. Da poco ha scrit-to al gospodar’ chiedendogli cinquemila leoni e minaccian-do, in caso di mancato pagamento, di bruciare Jassi e di ar-rivare fino al gospodar’ in persona. Cinquemila leoni gli so-no stati consegnati.

Che tipo è KirdΩali?

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Scritto presumibilmente nel 1834, KirdΩali fu pubblicato in“Biblioteca per la lettura” del 1834 (t. VII, l. 12). Di KirdΩali Pu√kinvenne a sapere a Ki√inëv da un funzionario della cancelleria delgenerale Nizov, M.I. Leks. Nel 1828 pare che Pu√kin meditasse difare di KirdΩali il protagonista di un poema che poi non scrisse.Un nuovo incontro con Leks, a Pietroburgo, nel 1834, diede aPu√kin nuovi materiali per il suo racconto.

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LA FIGLIA DEL CAPITANO

Serba l’onore fin da giovane.Proverbio

Capitolo I

Il sergente della guardia

– Se fosse nella guardia domani sa-rebbe capitano.– Non ce n’è bisogno; che vada nell’e-sercito.– Ottimamente detto! Che lo soffo-chino.

Ma chi è suo padre?KNJAΩNIN75

Mio padre Andrej Petroviç Grinëv aveva servito in gio-ventù presso il conte Minich ed era andato a riposo comeprimo maggiore nell’anno 17.. Da quel momento aveva vis-suto nel suo villaggio di Simbirsk dove si era anche sposa-to con la fanciulla Avdot’ja Vasil’evna Ju., figlia di un pove-ro nobile del luogo. Eravamo nove figli. Tutti i miei fratellie le mie sorelle morirono nella prima infanzia.

La mia mammina era ancora incinta di me, che io erogià iscritto nel reggimento Semënovskij come sergente,bontà del maggiore della guardia principe V., nostro parentestretto. Se contro ogni aspettativa la mammina avesse par-torito una figlia, il babbino avrebbe denunciato dove si de-ve la morte dell’inesistente sergente e l’affare con questo sa-rebbe finito. Io venivo considerato in congedo fino al com-pimento degli studi. A quel tempo non venivamo educaticome si fa oggi. Dall’età di cinque anni fui messo nelle ma-ni del bracchiere Savel’iç, per sobria condotta promosso amio precettore. Sotto la sua sorveglianza a dodici anni ave-vo imparato l’alfabeto russo e potevo molto ragionevolmentegiudicare delle proprietà di un cane levriero. In quel perio-do il babbino ingaggiò per me un francese, monsieur Beau-pré, che avevano ordinato da Mosca insieme all’annualescorta di vino e di olio d’oliva. Il suo arrivo non piacque perniente a Savel’iç. “Grazie a Dio,” brontolava tra sé, “mi sem-bra che il bambino sia pulito, pettinato, nutrito. Che biso-gno c’era di spendere dei soldi in più per ingaggiare un mon-siù, come se non ne avessero, della gente loro!”

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75 Epigrafe tratta dalla commedia Il fanfarone (1786).

Beaupré nella sua patria era stato parrucchiere, poi sol-dato in Prussia, poi era venuto in Russia pour être outchi-tel,76 senza capire bene il significato di questa parola. Eraun brav’uomo, ma leggero e molto dissoluto. La sua prin-cipale debolezza era la passione per il bel sesso; non di ra-do per la sua tenerezza riceveva degli spintoni per i quali silamentava tutto il giorno. Oltretutto non era (come si espri-meva lui) nemico della bottiglia, vale a dire (esprimendosiin russo) beveva un po’ troppo. Ma siccome di vino ne da-van da noi solo a pranzo, e poi un bicchierino, e il precet-tore di solito lo saltavano, così il mio Beaupré molto prestosi abituò ai liquori russi e iniziò perfino a preferirli ai vinidella sua patria, in quanto senza paragone più salutari perlo stomaco. Ci intendemmo subito e, benché per contrattofosse tenuto a insegnarmi il francese, il tedesco e tutte le scien-ze, preferì imparare in fretta da me a parlare in qualche mo-do il russo e poi ciascuno di noi si mise a occuparsi dei suoiaffari. Vivevamo in perfetta armonia. Non avrei desideratoun altro mentore. Ma presto il destino ci separò, ed ecco inquale occasione.

Praçka Pala√ka, una ragazza grassa e butterata, e la vac-caia cieca Akul’ka si misero in qualche modo d’accordo agettarsi contemporaneamente ai piedi della mammina ac-cusandosi di colpevole debolezza e lamentandosi in lacri-me del monsiù che aveva lusingato la loro inesperienza. Al-la mammina gli scherzi di questo tipo non piacevano e sene lamentò col babbino. Le sue punizioni erano immedia-te. Fece chiamare subito quella canaglia del francese. Gliriferirono che il monsiù stava facendomi lezione. Il babbi-no venne nella mia stanza. In quel momento Beaupré dor-miva sul letto il sonno del giusto. Io ero impegnato in un la-voro. Bisogna sapere che per me era stata ordinata da Mo-sca una carta geografica. Stava appesa alla parete senza nes-sun utilizzo e da tempo mi seduceva con la larghezza e labontà della carta. Avevo deciso di farne un aquilone e, ap-profittando del sonno di Beaupré, mi ero messo al lavoro.Il babbino entrò nel preciso momento in cui attaccavo unacoda di tiglio al Capo di Buona Speranza. Visti i miei com-piti di geografia, il babbino mi afferrò per un orecchio, poi

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76 In francese nel testo. Outchitel è la traslitterazione francese del suo-no della parola russa uçitel’, maestro, precettore.

corse da Beaupré, lo svegliò molto bruscamente e comin-ciò a coprirlo di rimproveri. Beaupré, confuso, avrebbe vo-luto alzarsi e non poteva: l’infelice francese era ubriaco fra-dicio. La pagò una volta per tutte. Il babbino lo tirò giù dalletto per il bavero, lo spinse fuori dalla porta e quello stes-so giorno lo cacciò di casa con indescrivibile gioia di Sa-vel’iç. Con questo finì la mia educazione.

Vivevo da adolescente cacciando i piccioni e giocandoalla cavallina con i figli dei servi. Intanto avevo compiutosedici anni. Allora il mio destino cambiò.

Una volta, in autunno, la mammina cuoceva in salottola confettura di mele e io, leccandomi le labbra, guardavola schiuma bollente. Il babbino alla finestra leggeva il Ca-lendario di corte, un almanacco che gli mandavano. Que-sto libro aveva sempre su di lui una forte influenza; non lorileggeva mai senza una particolare partecipazione, e que-sta lettura gli provocava sempre un’eccezionale agitazionedella bile. La mammina, che conosceva a memoria tutti isuoi usi e costumi, si sforzava sempre di ficcare il libro in-felice il più lontano possibile, e in tal mondo il Calendariodi corte non gli capitava a tiro a volte per mesi interi. Tut-tavia, quando per caso lo trovava, succedeva che per ore in-tere non se lo facesse sfuggir dalle mani. Così, il babbinoleggeva il Calendario di corte, alzando di tanto in tanto lespalle e ripetendo a mezza voce: “Luogotenente generale!Nel mio reggimento era sergente! Cavaliere di entrambi gliordini russi! È forse molto che noi...”. Alla fine il babbinoscaraventò il calendario sul divano e si sprofondò in rifles-sioni che non promettevano niente di buono.

All’improvviso si rivolse alla mammina: “Avdot’ja Va-sil’evna, ma quanti anni ha Petru√ka?”.

“È entrato adesso nel diciassettesimo annetto,” rispo-se la mammina. “Petru√ka è nato nello stesso anno che haperso un occhio la zietta Nastas’ja Gerasimovna, e quandoancora...”

“Bene,” la interruppe il babbino, “è ora che faccia il ser-vizio militare. Basta correre dietro le ragazze e arrampi-carsi su per i colombai.”

Il pensiero di un’imminente separazione da me colpì tal-mente la mammina, che ella fece cadere il cucchiaio nelpentolino e delle lacrime corsero sul suo viso. Inversamen-te, era difficile descrivere il mio rapimento. Il pensiero del

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servizio militare si univa in me al pensiero della libertà, deipiaceri della vita pietroburghese. Mi immaginavo ufficialedella guardia, cosa che, a mio parere, era l’apice della feli-cità umana.

Al babbino non piaceva né cambiare le proprie decisio-ni, né rimandare la loro realizzazione. Il giorno della miapartenza fu fissato. Alla vigilia il babbino annunciò che in-tendeva darmi una lettera per il mio futuro superiore, e chie-se carta e penna.

“Non dimenticare, Andrej Petroviç,” disse la mammina,“di inchinarti anche da parte mia al principe B.; io, dico,spero che non priverà Petru√ka dei suoi favori.”

“Che sciocchezza!” rispose il babbino aggrottandosi.“Perché dovrei scrivere al principe B.?”

“Non hai detto che ti degni di scrivere al superiore diPetru√ka?”

“Be’, e allora?”“Allora il superiore di Petru√ka è il principe B. Petru√ka

è immatricolato nel reggimento Semënovskij.”“Immatricolato! E a me cosa interessa, che sia imma-

tricolato? Petru√ka non andrà a Pietroburgo. Cosa impare-rebbe, servendo a Pietroburgo? A scuotere la testa e a bi-ghellonare? No, se deve servire nell’esercito che stringa lacinghia, che fiuti la polvere, che sia un soldato, non un bel-limbusto. Immatricolato nella guardia! Dov’è il suo passa-porto? Da’ qua.”

La mammina trovò il mio passaporto, che conservavain un suo scrignetto insieme alla camicia con la quale erostato battezzato e lo allungò al babbino con mano treman-te. Il babbino lo lesse con attenzione, lo appoggiò davantia sé sopra al tavolo e cominciò la sua lettera.

La curiosità mi tormentava: dove mi avrebbero man-dato, se non a Pietroburgo? Non toglievo gli occhi dalla pen-na del babbino, che girava abbastanza lentamente. Final-mente finì, sigillò la lettera in un pacchetto col passaporto,si tolse gli occhiali e, chiamatomi, disse: “Eccoti una lette-ra per Andrej Karloviç P., mio vecchio compagno e amico.Andrai a Orenburg a servire sotto il suo comando”.

Così, tutti le mie brillanti speranze crollarono. Invecedell’allegra vita pietroburghese mi aspettava la noia in unaregione solitaria e lontana. Il servizio, al quale un minutoprima pensavo con tanto entusiasmo, mi sembrava una gra-

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ve disgrazia. Ma non c’era da discutere. Il giorno successi-vo al mattino venne portata vicino al terrazzino una car-rozza da viaggio: ci misero una valigia, una cassetta col ser-vizio da tè e degli involti con delle pagnotte e dei pasticci,ultimi segni del domestico privilegio. I miei genitori mi be-nedissero. Il babbino mi disse: “Addio, Pëtr. Servi con fe-deltà colui al quale presterai giuramento; ascolta i superio-ri; non correre dietro ai loro elogi; non farti avanti nel ser-vizio; non tirarti indietro dal servizio e ricorda il proverbio:serba il vestito da che è nuovo e l’onore fin da giovane”. Lamammina in lacrime mi ordinò di stare attento alla salute,e a Savel’iç di tener dietro al bambino. Mi misero un pel-licciotto di lepre e sopra una pelliccia di volpe. Mi sedettiin carrozza insieme a Savel’iç e mi misi in viaggio copertodi lacrime.

Quella stessa notte arrivai a Simbirsk, dove dovevo re-stare ventiquattr’ore per comprare il necessario, cosa di cuiera stato incaricato Savel’iç. Mi fermai in una locanda. Sa-vel’iç fin dal mattino andò per negozi. Per la noia di guar-dar dalla finestra un lurido vicolo, mi misi a girare per lestanze. Entrato nella sala da biliardo, vidi un signore altosui trentacinque anni, con lunghi baffi neri, in veste da ca-mera, con una stecca in mano e una pipa in bocca. Gioca-va con un segnapunti che quando vinceva beveva un bic-chierino di vodka e quando perdeva doveva infilarsi sotto ilbiliardo a quattro zampe. Mi misi a guardare il loro gioco.Più continuava, più le passeggiate a quattro zampe eranofrequenti, finché alla fine il segnapunti non rimase sotto ilbiliardo. Il signore pronunciò al suo indirizzo alcune fortiespressioni in forma di orazione funebre e mi propose digiocare una partita. Io rifiutai non essendo capace. Questogli sembrò, evidentemente, strano. Mi guardò come concompassione. Tuttavia ci mettemmo a chiacchierare. Sep-pi che si chiamava Ivan Ivanoviç Zurin, che era capitano dicavalleria del reggimento degli ussari *** e che si trovava aSimbirsk a ricevere le reclute, ed era alloggiato nella lo-canda. Zurin mi invitò a pranzare con lui e dividere quelche Dio aveva mandato, da soldati, e io accettai volentieri.Ci sedemmo a tavola. Zurin bevve molto e ne offrì anche ame, dicendo che bisognava abituarsi al servizio; mi raccontòdelle storielle armene per le quali io per poco non mi roto-lavo dal ridere, e ci alzammo da tavola che eravamo dei ve-

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ri amici. Poi si offrì di insegnarmi a giocare a biliardo. “Èuna cosa,” disse, “indispensabile per il fratello militare. Du-rante una campagna, per esempio, arrivi in un posto, di checosa vuoi occuparti? Non si posson mica sempre picchiarei giudei. Volente o nolente entri nella locanda e ti metti agiocare a biliardo; e per farlo bisogna saper giocare!” Io fuiproprio convinto e con grande applicazione mi misi a stu-diare. Zurin mi incoraggiava ad alta voce, si meravigliavadei miei veloci progressi e, dopo alcune lezioni, mi propo-se di giocare a soldi, pochi centesimi a volta, non per vin-cere, ma così, per non giocar gratis, il che, a sentir lui, erala più brutta delle abitudini. Fui d’accordo anche su que-sto, e Zurin ordinò di portare del punch e mi convinse a pro-varlo ripetendo che a militare mi sarei dovuto abituare; esenza punch cos’è mai il militare! Gli diedi ascolto. Nel frat-tempo il nostro gioco continuava. Quanto più spesso beve-vo dal mio bicchiere, tanto più diventavo coraggioso. Le miepalle cadevano continuamente giù dalla sponda; io mi scal-davo, sgridavo il segnapunti che contava Dio sa come, au-mentavo continuamente la posta; in breve: mi comportavocome un bambino che può far quello che vuole. Intanto iltempo era passato inavvertitamente. Zurin guardò l’orolo-gio, ripose la stecca e mi comunicò che avevo perso centorubli. Questo mi mise un po’ in imbarazzo. I miei soldi liaveva Savel’iç. Cominciai a scusarmi. Zurin mi interruppe:“Perdonami! Non pensarci nemmeno. Posso anche aspet-tare, ma intanto andiamo da Arinu√ka”.

Cosa volete? La giornata la finii nello stesso modo dis-soluto in cui l’avevo cominciata. Cenammo da Arinu√ka. Zu-rin continuamente mi versava da bere ripetendo che biso-gna abituarsi al servizio militare. Alzandomi da tavola, astento mi reggevo in piedi; a mezzanotte Zurin mi riportòalla locanda.

Savel’iç ci venne incontro sul terrazzino. Nel vedere glievidenti segni del mio zelo nel servizio militare disse: “Ah!”.“Cosa c’è, padrone, cosa ti è successo?” disse con tono di-spiaciuto, “dove ti sei ubriacato? Ahi, Signore, una cosa delgenere non l’ho mai vista nella mia vita.” “Taci, vecchio,” glirisposi balbettando, “tu, si vede, sei ubriaco, va’ a dormi-re... e mettimi a letto.”

Il giorno dopo mi svegliai con il mal di testa ricordan-do confusamente gli avvenimenti del giorno prima. Le mie

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riflessioni furono interrotte da Savel’iç che entrava da mecon una tazza di tè. “Presto, Pëtr Andreiç,” mi disse scuo-tendo la testa, “cominci presto a bisbocciare. E da chi haipreso? Sembra che né il tuo paparino né il tuo nonno sia-no mai stati ubriaconi; della mammina non ne parliam nean-che: dalla nascita, a parte il kvas, non si è mai permessa dibere niente. Ma di chi è qui la colpa? Del maledetto mon-siù. Non faceva altro che correre da Antip’evna: ‘Madàm, Ωevu pri, vodkiù’. Ecco qua Ωe vu pri! Niente da dire: ti ha in-segnato bene, il figlio di un cane. E bisognava proprio farvenire come precettore un infedele, come se il signore nonne avesse, tra i suoi.”

Ebbi vergogna. Mi voltai e gli dissi: “Va’ via, Savel’iç; ditè io non ne voglio”. Ma Savel’iç era difficile fermarlo quan-do, succedeva, si metteva a predicare. “Ecco, vedi adesso,Pëtr Andreiç, cosa succede a bisbocciare. E la testa vien pe-sante, e l’appetito passa. L’uomo bevitore non è buono a fa-re niente... Bevi magari della salamoia di cetrioli con il mie-le, ma il meglio sarebbe far passare tutto con mezzo bic-chier di liquore. Non vuoi?”

In quel momento entrò un ragazzo e mi diede un bi-glietto di I.I. Zurin. Lo spiegai e lessi le righe seguenti:

“Amabile Pëtr Andreeviç, mandami per favore con il mio ra-gazzo i cento rubli che hai perso ieri da me. Ho un estremobisogno di soldi.

Resto al tuo servizioIvan Zurin”

Non c’era niente da fare. Presi un’aria indifferente e, ri-volgendomi a Savel’iç, che dei soldi, e della biancheria, e de-gli affari miei aveva cura,77 e gli ordinai di dare al ragazzocento rubli. “Come? Perché?” chiese stupito Savel’iç. “Glie-li devo,” risposi con tutta la freddezza possibile. “Li devi?”ribatté Savel’iç, di momento in momento sempre più stu-pito, “ma quando mai, padrone, hai fatto in tempo a inde-bitarti? Quest’affare non è chiaro. Fa’ come vuoi, padrone,io i soldi non li do.”

Pensai che se in quel momento decisivo non avessi avu-

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77 In corsivo un verso della poesia Messaggio ai miei servi: a Çumilov,a Van’ka e a Petru√ka (1769), di D.I. Fonvizin.

to la meglio sul vecchio testardo, poi in seguito mi sarebbestato difficile liberarmi dalla sua tutela, e guardandolo condignità gli dissi: “Io sono il tuo signore, e tu sei il mio servo.I soldi sono miei. Io li ho persi perché è andata così. E a teconsiglio di non sdottorare e di fare quel che ti si ordina”.

Savel’iç fu talmente colpito dalle mie parole che giunsele mani e rimase di stucco. “Perché stai fermo!” gridai conrabbia. Savel’iç scoppiò a piangere. “Babbino Pëtr Andreiç,”disse con voce tremante, “non farmi morire di malinconia.Tu che sei la mia luce, ascolta me, un vecchio: scrivi a que-sto brigante che scherzavi, che da noi i soldi non cresconosugli alberi. Cento rubli! Dio misericordioso! Digli che i tuoigenitori risolutamente ti hanno ordinato di non giocare senon delle noci...” “Basta mentire,” lo interruppi, severo, “da’qua i soldi o ti scaccio in malo modo.”

Savel’iç mi guardò e con profondo dolore pagò il mio de-bito. Avevo pena del povero vecchio; ma volevo far quel chevolevo e dimostrare che non ero un bambino. I soldi furonoportati a Zurin. Savel’iç si affrettò a tirarmi fuori dalla lo-canda maledetta. Apparve con la notizia che i cavalli eranopronti. Con la coscienza sporca e con un inconfessato pen-timento lasciai Simbirsk, senza dire addio al mio maestro epensando che non ci saremmo mai più rivisti in futuro.

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Capitolo II

La guida

Paese mio, paesino,Paese sconosciuto!Perché non son venuto io da tePerché non mi ha portato il buonCavallo:Mi han portato, bravoGiovane,La foga, il vigoreGiovanileE i fumi della bettola.Antica canzone

Le mie riflessioni, per strada, non erano molto piacevo-li. La mia perdita, per i prezzi di allora, era non priva d’im-portanza. Non potevo non riconoscere, nella mia anima, cheil mio comportamento nella locanda di Simbirsk era statostupido, e mi sentivo in colpa di fronte a Savel’iç. Tutto ciòmi tormentava. Il vecchio sedeva cupo in serpa, dandomi lespalle, e taceva, solo di tanto in tanto faceva un rumorino.Volevo assolutamente far la pace con lui, ma non sapevo dadove cominciare. Alla fine gli dissi: “Be’, be’, Savel’iç! Basta,facciamo la pace, ho sbagliato: vedo io stesso, che ho sba-gliato. Ieri ne ho combinate un po’ e a torto ti ho offeso. Pro-metto d’ora in poi di comportarmi in modo più intelligentee di ascoltarti. Be’, non arrabbiarti; facciam la pace”.

“Eh, babbino Pëtr Andreiç!” rispose con un profondosospiro. “Sono arrabbiato con me stesso; io son colpevoledi tutto. Come mi è saltato in mente di lasciarti da solo nel-la locanda? Che fare? Il diavolo mi ha tentato: ho pensatodi andare a trovare la moglie del sacrestano, di vedermi conla comare. Proprio così: sai come comincia e non sai comefinisce. E adesso il male è fatto! Come oserò comparire da-vanti ai signori? Cosa diranno quando sapranno che il bam-bino beve e gioca.”

Per consolare il povero Savel’iç, gli diedi la parola cheda allora in poi senza il suo consenso non avrei dispostodi una sola copeca. Si calmò un po’, benché di tanto in tan-to borbottasse tra sé scuotendo la testa: “Cento rubli! Ro-ba da niente!”.

Mi avvicinavo al luogo della mia destinazione. Intorno

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a me si stendeva un triste deserto, interrotto da colline eburroni. Tutto era coperto di neve. Il sole tramontava. Lacarrozza correva lungo una strada stretta, o meglio lungoun sentiero tracciato dalle slitte dei contadini. D’un trattoil cocchiere si mise a guardare intorno e poi, toltosi il cap-pello, si girò verso di me e disse:

“Signore, non ordina di tornare indietro?”.“E perché?”“Il tempo è poco sicuro: il vento piano si alza; guarda

come ammucchia la neve.”“E che male c’è?”“E vedi là?” (Il cocchiere indicò un punto a oriente.)“Io non vedo niente, solo la steppa bianca e il cielo se-

reno.”“Là, là: quella nuvoletta.”Vidi effettivamente al limitar del cielo una nuvola che ave-

vo preso all’inizio per una collinetta lontana. Il cocchiere mispiegò che la nuvoletta annunciava una tempesta di neve.

Avevo sentito parlare delle tormente di quei luoghi e sa-pevo che interi convogli ne erano stati sepolti. Savel’iç, d’ac-cordo con il parere del cocchiere, consigliò di tornare in-dietro. Ma il vento non mi parve forte; speravo di arrivarein tempo alla stazione successiva e ordinai di accelerare.

Il cocchiere passò al galoppo, ma guardava continua-mente a oriente. I cavalli correvano affiatati. Il vento in-tanto diventava di momento in momento più forte. La nu-voletta si era trasformata in una nuvola bianca che si al-zava pesante, cresceva e pian piano occupava il cielo. Ca-deva una neve minuta, e d’un tratto venne giù a fiocchi. Ilvento cominciò a ululare; eravamo nella tormenta. In unattimo il cielo scuro si era cambiato in un mare di neve.Tutto scomparve. “Be’, signore,” gridò il cocchiere, “è unguaio: la tempesta!”

Guardai fuori dalla carrozza: tutto era buio e vorticava.Il vento soffiava con tale feroce espressività che sembravaanimato; la neve aveva coperto me e Savel’iç; i cavalli an-davano al passo, e presto si fermarono. “Perché non ti muo-vi?” chiesi al cocchiere con impazienza. “Muoversi dove?”rispose lui scendendo d’in serpa, “già adesso chissà dovesiamo andati a finire: non c’è più strada, e buio intorno.”Mi misi a sgridarlo. Savel’iç prese le sue parti. “Che biso-gno c’era di non dar retta,” disse con stizza, “se fossi tor-

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nato alla locanda avresti bevuto il tè, avresti dormito finoal mattino, la bufera si sarebbe calmata, noi saremmo an-dati avanti. Che fretta abbiamo? Andassimo a un matri-monio!” Savel’iç aveva ragione. Non c’era niente da fare. Laneve continuava a cadere. Vicino alla carrozza si alzava uncumulo. I cavalli stavano fermi, la testa china, di tanto intanto rabbrividivano. Il cocchiere girava intorno, per nonsaper cosa fare sbrogliava i finimenti. Savel’iç brontolava;io guardavo da tutte le parti, sperando di vedere almeno unsegno di vita o di strada, ma non potevo distinguere nien-te, a parte il torbido turbinare della tormenta. All’improv-viso vidi qualcosa di scuro. “Ehi, cocchiere!” gridai, “guar-da: cos’è quella cosa scura, là?” Il cocchiere si mise aguardare. “E chi lo sa, signore,” disse sedendosi al suo po-sto, “un carro non è un carro, un albero non è un albero,ma sembra che si muova. Dev’essere un lupo o un uomo.”

Ordinai di dirigerci verso l’oggetto sconosciuto, il qua-le subito si mise a muoversi verso di noi. Due minuti doporaggiungevamo un uomo.

“Ehi, buon uomo!” gli gridò il cocchiere. “Di’, sai forsedov’è la strada?”

“La strada è qua; cammino sul duro,” rispose il viag-giatore, “ma a che pro?”

“Ascolta, ometto,” gli dissi io, “conosci questa regione?Te la senti di portarci a un alloggio?”

“La regione la conosco,” disse il viaggiatore, “grazie aDio l’ho percorsa e ripercorsa in lungo e in largo. Ma vedi,che stagione: in un attimo perdi la strada. Meglio fermarsiqui e aspettare, forse la tempesta si calma e il cielo si ri-schiara: allora troviamo poi la strada con le stelle.”

Il suo sangue freddo mi rincuorò. Avevo già deciso, af-fidandomi alla volontà divina, di pernottare nella steppa,quando d’un tratto il viaggiatore si sedette agilmente in ser-pa e disse al cocchiere: “Be’, grazie a Dio, l’abitato non èlontano; volta a destra e andiamo”.

“E perché devo andare a destra?” chiese il cocchiere mal-contento. “Dove la vedi la strada? È facile, i cavalli non sontuoi, i finimenti non son tuoi, corri pure dove vuoi.” Mi sem-brò che il cocchiere avesse ragione. “Però,” dissi, “perchépensi che l’abitato non sia lontano?” “Perché il vento ha ti-rato da là,” rispose il viaggiatore, “e ho sentito che sapevadi fumo; significa che un paese è vicino.” La sua prontezza

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d’ingegno e la finezza di fiuto mi sbalordirono. Ordinai alcocchiere di andare. I cavalli si incamminarono pesante-mente nella neve alta. La carrozza si muoveva piano, orasalendo su un cumulo, ora piombando in un burrone e on-deggiando ora da una parte, ora dall’altra. Era qualcosa disimile alla navigazione di una nave in un mare in burrasca.Savel’iç gemeva e mi dava continuamente degli spintoni neifianchi. Tirai la stuoia, mi sprofondai nella pelliccia e miaddormentai, cullato dal canto della bufera e dal dondoliodel lento moto.

Feci un sogno che non ho mai potuto dimenticare, e nelquale vedo qualcosa di profetico, quando penso ad esso ead alcune strane circostanze della mia vita. Il lettore mi scu-serà; giacché, probabilmente, sa per esperienza com’è faci-le all’uomo abbandonarsi alla superstizione nonostante tut-to il disprezzo possibile per i pregiudizi.

Mi trovavo in quella situazione dei sensi e dello spiritoin cui la materia, cedendo il passo ai sogni, si mischia adessi nei vaghi spettri del primo sonno. Mi sembrava che latempesta infuriasse ancora e che noi vagassimo ancora inun deserto di neve... D’un tratto vidi il portone ed entrai dal-l’ingresso signorile della nostra villa. Il mio primo pensie-ro fu il timore che il babbino si arrabbiasse con me per l’in-volontario ritorno sotto il tetto paterno e lo stimasse un’in-tenzionale disubbidienza. Saltai giù agitato dalla carrozzae vidi la mammina che mi veniva incontro sul terrazzinocon un’aria di profondo dispiacere. “Piano,” mi disse, “ilbabbo è in fin di vita e vuole dirti addio.” Stravolto per lospavento, vado da lui in camera da letto. La stanza è illu-minata male: al capezzale c’è della gente col volto triste. Miavvicino piano al letto; la mammina alza la cortina e dice:“Andrej Petroviç, è arrivato Petru√ka; è tornato indietro, sa-puto della tua malattia; benedicilo”. Mi misi in ginocchio efissai gli occhi sul malato. Be’? Invece di mio padre vedoche a letto giace un contadino con una barba nera che miguarda contento. Io, imbarazzato, mi giro verso la mam-mina, le dico: “Cosa significa? Non è il babbino. Che sensoha che chieda la benedizione a un contadino?”. “È lo stes-so, Petru√ka,” mi risponde la mamma, “è il tuo padrino dinozze, baciagli la mano, basta che ti benedica.” Non ac-consentii. Allora il contadino saltò su dal letto, tirò fuoriuna scure da dietro alla schiena e cominciò a dare dei col-

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pi da tutte le parti. Volevo scappare... e non potevo; la stan-za si riempiva di corpi privi di vita; io incespicavo sui cor-pi e scivolavo nelle pozze di sangue... L’orribile contadinomi chiamava affettuosamente, dicendo: “Non aver paura,vieni a prendere la mia benedizione...”. L’orrore e l’imba-razzo si erano impadroniti di me... E in quel momento misvegliai; i cavalli erano fermi; Savel’iç mi tirava per un brac-cio dicendo: “Vieni giù, padrone, siamo arrivati”.

“Arrivati dove?” chiesi strofinandomi gli occhi.“In una locanda. Il signore ci ha aiutati, abbiamo sbat-

tuto dritto contro lo steccato. Vieni giù, padrone, presto,vieni a scaldarti.”

Uscii dalla carrozza. La tempesta continuava ancora,benché con meno forza. C’era così scuro, tanto valeva ca-varsi gli occhi. Il padrone di casa mi venne incontro sullaporta, tenendo una lanterna sotto una falda, e mi condus-se in una stanza stretta ma abbastanza pulita; una scheg-gia di betulla accesa la illuminava. Alla parete pendevanoun fucile e un alto berretto cosacco.

Il padrone di casa, della tribù dei cosacchi dello Jaìk,78

sembrava un contadino sui sessant’anni ancora fresco e vi-goroso. Savel’iç mi seguì con la cassetta per il tè, chiese delfuoco per preparare un tè che mai mi era sembrato così ne-cessario. Il padrone di casa andò a darsi da fare.

“Dov’è la guida?” chiesi a Savel’iç.“Sono qui, vostra signoria,” mi rispose una voce dal-

l’alto. Guardai il giaciglio sopra la stufa e vidi una barba ne-ra e due occhi scintillanti. “Be’, fratello, ha preso freddo?”“Come non prendere freddo con un misero caffettano? Ave-vo una pelliccia, ma, perché nascondere i peccati, l’ho im-pegnata ieri dal vinaio. Non mi sembrava molto freddo.” Inquel momento il padrone di casa entrò con il samovar bol-lente; offrii alla nostra guida una tazza di tè; il contadinoscese dalla stufa. Il suo aspetto esteriore mi sembrò note-vole: era sui quarant’anni, di statura media, magro e congrandi spalle. Nella sua barba nera si facevano vedere iso-lati peli grigi; i grandi occhi vivaci si muovevano in conti-nuazione. Il suo volto aveva un’espressione abbastanza pia-cevole, ma birbonesca. I capelli erano tagliati in tondo; ave-va un caffettano strappato e dei calzoni tartari. Gli allungai

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78 Vecchio nome del fiume Ural.

una tazza di tè; ne bevve un sorso e fece una smorfia. “Vo-stra signoria, mi faccia la bontà, ordini di portare un bic-chiere di vino; il tè non è la nostra bevanda cosacca.” Esau-dii volentieri il suo desiderio. Il padrone di casa tolse da unrecipiente di legno una bottiglia e un bicchiere, gli si avvi-cinò e, guardandolo in viso: “Eh, eh,” disse, “ancora dallenostre parti! Da dove ti ha portato il Signore?”. La mia gui-da strizzò l’occhio significativamente e rispose con un pro-verbio: “Son volato nell’orto, ho beccato la canapa; la non-na mi ha gettato un sassolino, vicino. Be’, e lei come va?”.

“Sì, come va!” rispose il padrone di casa, continuandouna conversazione allegorica. “A vespro bisognava suona-re, ma la moglie del prete non vuole; il prete è fuori, i dia-voli al camposanto.”

“Stai zitto, zio!” ribatté il mio vagabondo. “Se pioverà,ci saranno i funghetti. E se ci saranno i funghetti, ci saràanche il cestello. Ma adesso (e qui strizzò ancora l’occhio)ficca la scure dietro la schiena: ci sono i guardaboschi. Vo-stra signoria, alla sua salute.” E con queste parole prese ilbicchiere, si fece il segno della croce e bevve tutto d’un fia-to. Poi mi si inchinò e tornò sulla stufa.

Non potei capire niente, allora, di questo discorso traladri: ma poi indovinai che si parlava degli affari dell’eser-cito dello Jaìk, che in quel periodo si era appena rappacifi-cato dopo la rivolta dell’anno 1772. Savel’iç ascoltava conun’aria di grande malcontento. Guardava con sospetto orail padrone di casa, ora la guida. La locanda, o, come si di-ceva lì, l’umët, si trovava in disparte, nella steppa, lontanoda tutti i villaggi, e somigliava molto a un covo di briganti.Ma non c’era niente da fare. Non si poteva nemmeno pen-sare a continuare il cammino. L’irrequietezza di Savel’iç midivertiva molto. Tra l’altro mi ero disposto a pernottare emi ero steso su una panca. Savel’iç decise di sistemarsi sul-la stufa; il padrone di casa si stese sul pavimento. Presto tut-ta l’isba russava, e io dormivo come un morto.

Svegliatomi al mattino piuttosto tardi, vidi che la tor-menta si era calmata. Splendeva il sole. La neve giaceva co-me coltre accecante sulla steppa sconfinata. I cavalli eranoattaccati. Saldai il padrone di casa, che ci chiese una cifracosì contenuta che anche Savel’iç non si mise a discutere conlui e non cominciò a mercanteggiare come era solito, e i so-spetti del giorno precedente si cancellarono del tutto dalla

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sua testa. Chiamai la guida, lo ringraziai per l’aiuto presta-toci e ordinai a Savel’iç di dargli cinquanta copeche di man-cia. Savel’iç si accigliò. “Cinquanta copeche di mancia!” dis-se, “per che cosa? Per il fatto che ti sei degnato di portarlofino alla locanda? Come vuoi, signore: non ne abbiamo dicinquanta copeche di troppo. Dare a tutti la mancia, tra po-co tu stesso sarai ridotto alla fame.” Non potevo discuterecon Savel’iç. I soldi, come avevo promesso, si trovavano nel-la sua piena disponibilità. Mi dispiaceva, tuttavia, non po-ter ricompensare un uomo che mi aveva tolto se non da unguaio, per lo meno da una situazione molto spiacevole. “Be-ne,” dissi imperturbabile, “se non vuoi dargli cinquanta co-peche, allora tira fuori qualcuno dei miei vestiti. È vestitotroppo leggero. Dagli la mia pelliccia di lepre.”

“Perdonami, babbino Pëtr Andreiç!” disse Savel’iç. “Per-ché dargli la tua pelliccia di lepre? La berrà, il cane, allaprossima osteria.”

“Questo, vecchietto, non è già un problema tuo,” disseil mio vagabondo, “se la berrò o no. Vostra signoria mi con-ferisce la pelliccia con piena convinzione: la sua in ciò è lavolontà del padrone, e il tuo dovere di servo è di non di-scutere e di ubbidire.”

“Non hai timor di Dio, brigante!” gli rispose Savel’iç convoce stizzita. “Vedi che il bambino ancora non ragiona e seicontento di derubarlo grazie alla sua semplicità. Cosa te nefai di una pelliccetta signorile? Non la metterai neanche sul-le tue maledette spallucce.”

“Prego di non sdottorare,” dissi al mio servo precetto-re, “adesso da’ qua la pelliccia.”

“Signore benedetto!” disse con un gemito il mio Savel’iç.“Una pelliccia di lepre quasi nuova di zecca! E a chi, poi, aun ubriacone seminudo!”

Tuttavia la pelliccia di lepre comparve. L’ometto si mi-se subito a provarsela. Effettivamente la pelliccia, che an-che a me ormai stava stretta, era un po’ corta per lui. Tut-tavia in qualche modo fece e la indossò, rompendo le cuci-ture. Savel’iç per poco non si mise a ululare, sentendo i filiche scoppiettavano. Il vagabondo era straordinariamentecontento del mio regalo. Mi accompagnò fino alla carroz-za e disse con un piccolo inchino: “Grazie, vostra signoria!Il signore vi ricompensi per la vostra virtù. Non dimenti-cherò mai la vostra benevolenza”. Andò per la sua strada e

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io partii senza fare attenzione alla stizza di Savel’iç, e pre-sto dimenticai la tormenta del giorno precedente, la miaguida e la pelliccia di lepre.

Arrivato a Orenburg, mi presentai direttamente al gene-rale. Vidi un uomo alto, ma già ingobbito dalla vecchiaia. Isuoi lunghi capelli erano completamente bianchi. La vec-chia uniforme sbiadita ricordava le guerre dei tempi di An-na Ioannovna, e la sua conversazione rifletteva una forte pro-nuncia tedesca. Gli diedi la lettera del babbino. Al suo no-me mi gettò un rapido sguardo: “Tio mio!” disse. “È forse tamolto, che Andrej Petroviç afefa la tua età, e guarta atessoche giofanottone, ha! Ah, il tempo, il tempo”. Dissuggellò lalettera e si mise a leggerla a mezza voce, facendo le sue os-servazioni: “ ‘Mio buon signore Andrej Karloviç, spero chevostra eccellenza’... Ma che cerimonie sono? Non ha fergo-gna? Bene, la disciplina al primo posto, ma si scrive così aun vecchio camerata? ‘Vostra eccellenza non ha dimentica-to’ hmm... ‘e... quanto... il povero feldmaresciallo Min... co-me... E anche... Karolinka’... Eh, bruder! Così ricorda anco-ra le nostre vecchie birichinate. ‘E adesso gli affari... Le man-do il mio perdigiorno’... hmm... ‘far rigare tritto’... cosa è ri-gare tritto? Questo, credo, è modo di dire russo. Cosa èrigare tritto?” ripeté rivolgendosi a me.

“Significa,” gli risposi con l’aria più innocente possibi-le, “trattare con gentilezza, non troppo severamente, darepiù libertà, fare rigare dritto.”

“Hmm, capisco. ‘E non dargli libertà’ no, si vede rigaretritto non vuol dire quello... ‘Perciò... il suo passaporto’...Dov’è? Ah, ecco... ‘Immatricolato a Semënovskij’... Bene, be-ne: tutto sarà fatto... ‘Permetti di abbracciarti senza gradi aun vecchio compagno e un vecchio amico.’ Ah! alla fine hacapito! Eccetera eccetera... Be’, babbino,” disse dopo averletto la lettera e messo da parte il mio passaporto, “tuttosarà fatto: tu sarai un ufficiale trasferito al reggimento di***, e per non farti perdere tempo, domani stesso sarai al-la fortezza Belogorskiaja, dove sarai al comando del capi-tano Mironov, uomo buono e onesto. Là sarai veramente unmilitare, imparerai la disciplina. A Orenburg non hai nien-te da fare; le distrazioni sono nocive per un giovanotto. Eoggi fammi la grazia di pranzare con me.”

“Di bene in meglio,” pensai tra me e me, “a cosa mi èservito il fatto che nel ventre di mia madre ero già sergen-

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te della guardia? Dove mi ha condotto tutto ciò? Al reggi-mento di *** e a una sorda fortezza ai confini della steppachirghiso-caucasica!” Pranzai da Andrej Karloviç, in tre colsuo vecchio aiutante. Una severa economica tedesca re-gnava sulla sua tavola, e penso che la paura di vedere a vol-te un ospite di troppo al suo tavolo da scapolo fosse in par-te la ragione del mio rapido allontanamento in guarnigio-ne. Il giorno successivo dissi addio al generale e partii perla mia destinazione.

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Capitolo III

La fortezza

Viviam nella fortezza,Mangiamo pane e beviamo acqua;E quando i nemici ferociVengono a far merenda da noi,Diamo all’ospite la merendina,Mettiamo la palla dentro il cannone.Canzone soldatesca

Gente all’antica, babbino.L’adolescente

La fortezza di Belogorsk si trovava a una quarantina diverste da Orenburg. La strada seguiva la ripida riva delloJaìk. Il fiume non era ancora ghiacciato, e le sue onde plum-bee nereggiavano tristi sulle identiche rive coperte di nevebianca. Oltre ad esse si stendeva la steppa chirghisa. Erosprofondato in meditazioni, la maggior parte delle qualispiacevoli. La vita di guarnigione aveva poche attrattive, perme. Mi sforzavo di figurarmi il capitan Mironov, il mio fu-turo comandante, e me lo immaginavo come un severo vec-chio stizzoso, che non conosceva niente tranne il suo ser-vizio, pronto per ogni piccolezza a mettermi agli arresti apane e acqua. Nel frattempo cominciava a far notte. Anda-vamo abbastanza forte.

“È lontana la fortezza?” chiesi al mio cocchiere. “Non èlontana,” rispose, “ecco, si vede già.” Guardai da tutti i lati,aspettandomi di vedere dei bastioni minacciosi, delle torrie un vallo; ma non vidi niente tranne un piccolo villaggio cir-condato da uno steccato fatto di tronchi. Da una parte c’e-rano tre o quattro mucchi di covoni di fieno semicoperti dal-la neve; dall’altra un mulino storto con le pale di tiglio pi-gramente abbassate. “E dov’è la fortezza?” chiesi con stu-pore. “Eccola lì,” disse il cocchiere indicando il piccolo vil-laggio, e con queste parole vi entrammo. Alla porta vidi unvecchio cannone di ghisa; le strade erano strette e sbilenche;le isbe erano basse e per la maggior parte col tetto di paglia.Ordinai di andare dal comandante, e un momento dopo lacarrozza si fermava davanti a una casetta di legno, costrui-ta su un’altura vicino a una chiesa anch’essa di legno.

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Nessuno mi venne incontro. Entrai nell’ingresso e apriila porta dell’anticamera. Un vecchio invalido, seduto a untavolo, rammendava con una toppa blu il gomito di un’u-niforme verde. Gli ordinai di annunciarmi. “Entra, babbi-no,” rispose l’invalido, “sono in casa.” Entrai in una stanzapulita ammobiliata all’antica. In un angolo stava un arma-dio con le stoviglie; alla parete era appeso un diploma daufficiale dietro un vetro e dentro una cornice; vicino ad es-so si distinguevano dei quadretti di tiglio rappresentanti lapresa di Küstrin e Oçakov79 e anche la scelta della fidanza-ta e i funerali del gatto.80 Alla finestra sedeva una vecchiet-ta con una giubba imbottita e un fazzoletto in testa. Dipa-nava una matassa che teneva con le due mani un vecchiet-to orbo in divisa da ufficiale. “Cosa le serve, babbino?” chie-se continuando la sua attività. Risposi che ero venuto perservizio e mi ero presentato come mio dovere al signor ca-pitano, e con queste parole mi stavo per rivolgere al vec-chietto orbo, prendendolo per il comandante; ma la padro-na di casa interruppe il mio discorso imparato a memoria.“Ivan Kuzmiç non è in casa,” disse, “è andato in visita dapadre Gerasim; ma non fa niente, babbino, sono sua mo-glie. Ti prego di amarci e di rispettarci. Siedi, babbino.”Chiamò una ragazza e le ordinò di far venire il sottufficia-le. Il vecchietto col suo unico occhio mi guardava con cu-riosità. “Ho l’ardire di chiedere,” disse, “in che reggimentosi è degnato di servire?” Accontentai la sua curiosità. “E hol’ardire di chiedere,” continuò, “perché si è degnato di pas-sare dalla guardia alla guarnigione?” Risposi che tale era lavolontà dei superiori. “Immagino per un comportamentoinadatto a un ufficiale della guardia,” continuò l’infaticabi-le interrogatore. “Basta spacciar delle sciocchezze,” gli dis-se la moglie del capitano, “vedi che il giovanotto è stancodel viaggio; non ha tempo di occuparsi di te... (tieni le ma-ni più dritte...) E tu, babbino,” continuò rivolgendosi a me,“non rattristarti, che ti hanno sbattuto nel nostro buco diprovincia. Non sei il primo e non sarai l’ultimo. Ci si abi-

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79 Si tratta dell’assedio, da parte delle truppe russe, della fortezzaprussiana di Küstrin nel 1758 (durante la guerra dei sette anni), e dellapresa della fortezza turca di Oçakov, nel 1737 (nel corso della guerra rus-so-turca).

80 Iscrizione popolare russa che rappresentava le esequie di Pietro ilGrande in forma di funerali del gatto organizzati dai topi.

tua, si finisce per farsela piacere. ◊vabrin Aleksej Ivanyç or-mai son cinque anni che ce l’hanno trasferito per omicidio.Dio sa quale è il male che l’ha tentato; egli, devi sapere, eraandato in periferia con un tenente, e avevano preso con lo-ro la spada, e non si mettono a darsi a vicenda dei colpi? EAleksej Ivanyç accoppa il tenente, e di fronte a due testi-moni! Cosa vuoi fare? Al male non si comanda.”

In quel momento entrò il sottufficiale, un giovane e pre-stante cosacco. “Maksimyç!” gli disse la capitana, “condu-ci il signor ufficiale all’appartamento, uno pulito.” “Agli or-dini, Vasilisa Egorovna,” rispose il sottufficiale. “E se suasignoria lo si alloggiasse da Ivan PoleΩaev?” “Che scioc-chezza, Maksimyç!” disse la capitana, “da PoleΩaev stannogià stretti; è mio compare ed è uno che se lo ricorda, chesiamo suoi superiori. Conduci il signor ufficiale... com’è ilvostro nome e patronimico, babbino? Pëtr Andreiç? Con-duci Pëtr Andreiç da Semën Kuzov. Lui, truffatore, ha mol-lato il cavallo nel mio orto. Be’, come va, Maksimyç, tuttocome si deve?”

“Tutto, grazie a Dio, è tranquillo,” rispose il cosacco, “so-lo, il caporale Prochorov si è picchiato in bagno con Ustin’jaNegulina per un secchio d’acqua calda.”

“Ivan Ignat’iç!” disse la capitana al vecchietto orbo.“Guarda Prochorov e Ustin’ja, chi ha ragione, chi ha torto.E poi puniscili tutti e due. Be’, Maksimyç, va’ con Dio.Pëtr Andreiç, Maksimyç la condurrà al suo appartamento.”

Mi inchinai. Il sottufficiale mi portò a un’isba che si tro-vava sulla riva alta del fiume, al limite estremo della fortez-za. Metà dell’isba era occupata dalla famiglia di Semën Ku-zov, l’altra la assegnarono a me. Si componeva di una stan-za abbastanza linda divisa in due da un tramezzo. Savel’içsi mise a mettere in ordine, io mi misi a guardare dalla stret-ta finestra. Di fronte a me si stendeva triste la steppa. C’eraqualche piccola isba di traverso; sulla strada qualche galli-na. Una vecchia, che stava sul terrazzino col truogolo, chiamòi maiali, che le risposero con grugniti amichevoli. Ecco inche posto ero condannato a passare la mia gioventù! L’an-goscia mi prese; mi allontanai dalla finestra e andai a lettosenza cena, nonostante le prediche di Savel’iç che ripeteva,afflitto: “Signore benedetto! Non vuole mangiare niente! Co-sa dirà il padrone, se il bambino si ammala?”.

Il giorno dopo al mattino avevo appena cominciato a

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vestirmi che si aprì la porta ed entrò da me un giovane uf-ficiale non molto alto, con un viso olivastro ed eccezional-mente brutto, ma straordinariamente vivo. “Mi scusi,” midisse in francese, “se vengo a fare la sua conoscenza senzafar cerimonie. Ieri ho saputo del suo arrivo; la speranza divedere infine un volto umano si è impadronita così forte-mente di me che non ho resistito. Questa cosa la capiràquando avrà vissuto qui un po’ di tempo.” Indovinai che sitrattasse dell’ufficiale radiato dalla guardia per il duello. Fa-cemmo subito conoscenza. ◊vabrin era tutt’altro che stupi-do. La sua conversazione era mordace e divertente. Congrande allegria mi descrisse la famiglia del comandante, lasua cerchia e la regione dove mi aveva condotto il destino.Stavo ridendo di buon cuore, quando entrò da me quellostesso invalido che riparava l’uniforme nell’anticamera delcomandante, e a nome di Vasilisa Egorovna mi chiamò daloro a pranzare. ◊vabrin si offrì di venire con me.

Avvicinandoci alla casa del comandante, vedemmo nelpiazzale una ventina di vecchi invalidi con lunghe trecce ecappelli a tre punte. Erano schierati di fronte. Davanti sta-va il comandante, un vecchietto energico e alto, in berret-to da notte e veste da camera cinese. Vedendoci si avvicinòa noi, mi disse qualche parola gentile e si mise ancora a da-re ordini. Ci stavamo per fermare a guardare l’esercitazio-ne; ma ci pregò di andare da Vasilisa Egorovna, promet-tendo che sarebbe venuto subito dopo di noi. “Qui invece,”aggiunse, “non c’è niente da guardare.”

Vasilisa Egorovna ci ricevette semplicemente e concordialità, e con me si comportò come se mi avesse co-nosciuto da una vita. Un invalido e Pala√ka apparecchia-vano. “Com’è che il mio Ivan Kuzmiç oggi si esercita cosìtanto!” disse la moglie del comandante. “Pala√ka, chiamaa mangiare il padrone. Ma dov’è Ma√a?” A quel punto en-trò una ragazza sui diciott’anni, dal viso tondo, rossa, coicapelli rosso chiari, pettinati dritti dietro le orecchie, chesembrava bruciassero. Al primo sguardo non mi piacquemolto. La guardavo con pregiudizio: ◊vabrin mi aveva de-scritto Ma√a, la figlia del capitano, come una vera scioc-china. Mar’ja Ivanovna si sedette in un angolo e si mise acucire. Nel frattempo portaron gli √çi.81 Vasilisa Egorov-

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81 Minestra di cavoli.

na, non vedendo il marito, per la seconda volta mandò Pa-la√ka a chiamarlo. “Di’ al padrone: gli ospiti, sai, aspetta-no, gli √çi si raffreddano; grazie a Dio l’esercitazione nonscappa, fai in tempo a far dei giri.” Il capitano apparvepresto accompagnato dal vecchietto guercio. “Che roba è,babbino?” gli disse la moglie. “Da mangiare è un pezzoche l’han dato, far arrivare te, invece, non c’è verso.” “Ascol-ta, Vasilisa Egorovna,” rispose Ivan Kuzmiç, “ero impe-gnato nel servizio, istruivo i soldatini.” “Ih, basta,” ribattéla capitana, “son solo storie che istruisci i soldati: loro nonimparano il mestiere, e tu non ci capisci niente. Se stessia casa a pregar Dio, sarebbe meglio. Cari ospiti, abbiatela bontà di accomodarvi a tavola.”

Ci sedemmo a pranzare. Vasilisa Egorovna non tacevaun momento e mi tempestava di domande: chi erano i mieigenitori, se erano vivi, dove vivevano e in cosa consisteva illoro patrimonio. Sentito che il babbino aveva trecento ani-me: “Accidenti!” disse, “allora al mondo ci sono dei ricchi!Noi invece, babbino, l’unica anima che abbiamo è la servaPala√ka; e grazie a Dio, ci basta poco. C’è solo un guaio: Ma√a;è una ragazza da marito, ma che dote ha? Il pettine fitto, eil fascio di frasche, e le tre copeche (Dio mi perdoni) con cuisi va al bagno. Bene, se si trova un buon uomo: altrimentistai fra le ragazze eterna fidanzata”. Gettai uno sguardo aMar’ja Ivanovna, era arrossita tutta, e perfino delle lacrimeerano cadute nel suo piatto. Provai pena per lei, e mi affret-tai a cambiare discorso. “Ho sentito,” dissi abbastanza asproposito, “che i baschiri si preparano ad attaccare la vo-stra fortezza.” “Da chi, babbino, ti sei degnato di sentirlo?”chiese Ivan Kuzmiç. “Così mi hanno detto a Orenbung,” ri-sposi. “Sciocchezze!” disse il comandante. “Qui è da tantoche non si sente niente. I baschiri son gente spaventata, eanche i chirghisi hanno avuto una lezione. Probabilmentenon ci attaccheranno: e se ci attaccassero, gli darei una talpunizione, che se la ricorderebbero per dieci anni.” “E leinon ha paura,” continuai io rivolgendomi alla moglie del ca-pitano, “a restare in una fortezza esposta a tanti pericoli?”“Ci si fa l’abitudine, babbino mio,” rispose. “Vent’anni fa,quando dal reggimento ci hanno trasferiti qui, Dio sa se nontemevo questi maledetti cani! Come vedevo, succede, deicappelli pelosi, e come sentivo i loro strilli, credici o no, pa-dre mio, il cuore mi si fermava! E adesso mi son così abi-

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tuata che non mi muovo neanche quando vengono a dirciche questi scellerati corrono intorno alla fortezza.”

“Vasilisa Egorovna è una signora coraggiosissima,” notò◊vabrin con aria di importanza. “Ivan Kuzmiç lo può con-fermare.”

“Sì, ascolta,” disse Ivan Kuzmiç, “è una donna non diquelle timide.”

“E Mar’ja Ivanovna?” chiesi io. “È coraggiosa anche leicome voi?”

“Coraggiosa Mar’ja?” rispose sua madre. “No. Ma√a èuna fifona. Ancora adesso non può sentire lo sparo di unfucile: si mette subito a tremare. E quando due anni fa IvanKuzmiç ha pensato per il mio onomastico di sparare dal no-stro cannone, allora lei, la mia colombella, dalla paura perpoco non è partita quel giorno stesso. Da allora non spa-riamo più da quel maledetto cannone.”

Ci alzammo da tavola. Il capitano e la capitana anda-rono a dormire; io invece andai da ◊vabrin, con il quale pas-sai l’intera serata.

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Capitolo IV

Il duello

– Fai la grazia di mettertiin guardiatura.Vedrai come ti bucoLa figura.KNJAΩNIN82

Erano trascorse alcune settimane e la vita nella fortez-za di Belogorsk si era fatta per me non solo sopportabile,ma perfino piacevole. Nella casa del comandante ero trat-tato come uno di famiglia. Marito e moglie erano personerispettabilissime. Ivan Kuzmiç, divenuto ufficiale essendofiglio di un soldato, era un uomo ineducato e semplice, maonestissimo e buonissimo. La moglie lo comandava, cosache andava d’accordo con la sua noncuranza. Vasilisa Ego-rovna guardava agli affari militari come a suoi affari do-mestici, e dirigeva la fortezza con la stessa precisione conla quale dirigeva la propria casetta. Mar’ja Ivanovna smisepresto di aver soggezione di me. Ci conoscemmo. In lei tro-vai una ragazza prudente e sensibile. In modo graduale miaffezionai a quella buona famigliola, perfino a Ivan Ignat’iç,il tenente di guarnigione orbo, sul quale ◊vabrin si era in-ventato che fosse in rapporti inconfessabili con Vasilisa Ego-rovna, cosa che non aveva nemmeno l’ombra della verosi-miglianza, ma ◊vabrin di questo non si preoccupava.

Fui promosso ufficiale. Il servizio non mi pesava. Nellaprospera fortezza non c’erano né riviste, né addestramen-ti, né guardie. Il comandante, per un proprio desiderio, ad-destrava ogni tanto i suoi soldati; ma non aveva potuto an-cora ottenere che sapessero tutti qual era la destra e qualela sinistra, benché molti di essi, per non sbagliarsi in ciò,prima di ogni svolta si facessero il segno della croce. ◊va-brin aveva qualche libro francese. Mi misi a leggere, e in mesi svegliò la voglia di letteratura. La mattina leggevo, mi

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82 L’epigrafe è tratta dalla commedia di KnjaΩnin Gli strambi (1793).

esercitavo nelle traduzioni e a volte anche nella composi-zione di versi. Pranzavo quasi sempre dal comandante, do-ve di solito passavo il resto della giornata e dove di sera avolte arrivava padre Gerasim con la moglie Akulina Pamfi-lovna primo gazzettino di tutta la contrada. A.I. ◊vabrin,s’intende, lo vedevo tutti i giorni, ma col passar del tempola sua conversazione diventava per me meno piacevole. Isuoi continui scherzi sul conto della famiglia del coman-dante non mi piacevano per niente, soprattutto le bilioseosservazioni su Mar’ja Ivanovna. Altra compagnia nella for-tezza non ce n’era, e io non ne avrei voluta.

Nonostante le previsioni, i baschiri non si sollevarono.La calma regnava intorno alla nostra fortezza. Ma la pacefu interrotta da un improvviso dissidio intestino.

Ho già detto che mi dedicavo alla letteratura. Le mieprove, per quei tempi, erano considerevoli, e Aleksandr Pe-troviç Sumarokov,83 qualche anno più tardi, le lodò molto.Una volta mi riuscì di scrivere una canzonetta della qualefui contento. È noto che gli autori, a volte, fingendo di chie-dere consigli, cercano un ascoltatore benevolo. Così, dopoaver trascritto la mia canzonetta, la portai a ◊vabrin, chesolo in tutta la fortezza poteva apprezzare l’opera di un ver-sificatore. Dopo un breve preambolo tolsi di tasca il mioquadernetto e gli lessi i versi seguenti:

Il pensiero d’amor distruggendo,Vorrei la bella dimenticar,E, ahi, Ma√a fuggendo,Provo la libertà a riconquistar!

Ma quegli occhi che m’hanno incantato,Sono sempre davanti a me;Il mio spirito hanno turbato,La mia pace hanno preso con sé.

Le mie pene, avendole apprese,Abbi, Ma√a, pietà di me,Tutto solo in un crudele paese,E del tutto in balìa di te.

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83 A.P. Sumarokov (1718-1777) fu drammaturgo e direttore del teatrodi corte.

“Come ti sembra?” chiesi a ◊vabrin aspettandomi deglielogi come tributi che senz’altro mi spettassero. Ma, con miagrande stizza, ◊vabrin, che di solito era accondiscendente,annunziò risolutamente che la mia canzone era cattiva.

“Perché?” gli chiesi nascondendo la mia stizza.“Perché,” rispose, “questi versi sono degni del mio in-

segnante, Vasilij KirilyçTred’jakovskij,84 e mi ricordano mol-to i suoi stornelli d’amore.”

E qui mi prese il quaderno e cominciò a demolire spie-tatamente ogni verso e ogni parola deridendomi nel modopiù pungente. Io non ce la feci, gli strappai dalle mani ilquaderno e dissi che in vita mia non gli avrei più mostratole mie opere. ◊vabrin scoppiò a ridere anche di fronte a que-sta minaccia. “Vedremo,” disse, “se manterrai la parola: aun poeta serve un ascoltatore come a Ivan Kuzmiç la ca-raffina di vodka prima di pranzo. E chi è questa Ma√a allaquale dichiari la tua tenera passione e la tua pena d’amo-re? Non sarà Mar’ja Ivanovna, per caso?”

“Non è affar tuo,” risposi accigliandomi, “chi sia questaMa√a. Non ho bisogno né del tuo parere, né delle tue con-getture.”

“Ohò! Un poeta suscettibile e un amante discreto!” con-tinuò ◊vabrin facendomi sempre più irritare. “Ma ascoltaun consiglio da amico: se vuoi riuscire, consiglio di non li-mitarsi alle canzonette.”

“E questo, signore, cosa significa? Fa’ il favore di spie-garti.”

“Volentieri. Questo significa che se vuoi che Ma√a Mi-ronova venga con te al crepuscolo, invece di teneri versi re-galale un paio di orecchini.”

Mi ribollì il sangue.“E perché hai di lei questa opinione?” chiesi trattenen-

do a stento il mio sdegno.“Perché,” rispose lui con un sogghigno infernale, “co-

nosco per esperienza i suoi usi e costumi.”“Tu menti, canaglia!” gridai con rabbia. “Tu menti nel

modo più spudorato.”◊vabrin mutò in volto.“Questa non te la faccio passare,” disse stringendomi

un braccio. “Lei mi darà soddisfazione.”

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84 Di V.K. Tred’jakovksij (1703-1769) Pu√kin prese in giro la Telema-chiade (1766), rifacimento russo di Les aventures de Télémaque di Fénelon.

“Sia. Quando vuoi!” risposi rallegrandomi. In quel mo-mento ero pronto a sbranarlo.

Andai subito da Ivan Ignat’iç e lo trovai con l’ago in ma-no: per incarico della moglie del comandante infilava deifunghi per farli seccare durante l’inverno. “Ah, Pëtr Andreiç!”disse vedendomi, “ben trovato! Qual buon vento? Per chemotivo, ho l’ardire di chiedere?” Con poche parole gli spie-gai che avevo litigato con Aleksej Ivanyç e che pregavo lui,Ivan Ignat’iç, di essere il mio secondo. Ivan Ignat’iç miascoltò con attenzione, sgranando su di me il suo unico oc-chio. “Si degna di dire,” mi disse, “che vuole scannare Alek-sej Ivanyç e vorrebbe che io fossi testimone di ciò? È cosìforse? Ho l’ardire di chiedere?”

“Proprio così.”“Perdoni, Pëtr Andreiç! Cos’ha combinato! Ha bestem-

miato un po’ con Aleksej Ivanyç? È una bella disgrazia! Lebestemmie non si attaccano alla porta. Lui le ha bestem-miato dietro e lei lo sgrida; lui le dà sul muso, lei a lui suun orecchio, sull’altro, sul terzo – e passi; e noi poi vi rap-pacifichiamo. Mentre invece, le sembra una bella cosa scan-nare il proprio vicino, ho l’ardire di chiedere? E sarebbe for-se bene scannare lui, Dio sia con lui, Aleksej Ivanyç; io stes-so non sono un suo ammiratore. Ma, se la buca lui? Che ro-ba sarebbe? Chi resterebbe con un palmo di naso, ho l’ar-dire di chiedere?”

I ragionamenti del sensato tenente non mi scossero. Ri-masi col mio proposito. “Come vuole,” disse Ivan Ignat’iç,“faccia come crede. Ma perché esserne testimone? Perchémai? Della gente si picchia, cosa c’è di straordinario, ho l’ar-dire di chiedere? Grazie a Dio, son stato contro lo svedesee contro il turco: ho visto tutto.”

In qualche modo mi misi a spiegargli i doveri di un se-condo, ma Ivan Ignat’iç non mi capiva assolutamente. “Co-me vuole,” disse. “Se mi si deve immischiare in questo af-fare, allora forse vale la pena andare da Ivan Kuzmiç e ri-ferirgli per dovere d’ufficio che nella fortezza si premedi-ta un misfatto contrario all’interesse dello stato: non sa-rebbe auspicabile che il signor comandante prendesse lemisure sperate...”

Mi spaventai e mi misi a pregare Ivan Ignat’iç di nonraccontare niente al comandante: lo convinsi a stento; midiede la sua parola e decisi di fare a meno di lui.

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Passai la serata, come mio solito, dal comandante. Misforzai di sembrare allegro e indifferente, per non suscita-re sospetti ed evitare domande moleste; ma, confesso, nonebbi quel sangue freddo del quale si vantano quasi semprequelli che si sono trovati nella mia condizione. Quella seraero disposto alla dolcezza e alla tenerezza. Mar’ja Ivanov-na mi piaceva più del solito. Il pensiero che, forse, la vede-vo per l’ultima volta le dava ai miei occhi qualcosa di com-movente. ◊vabrin venne anche lui. Lo presi da parte e loinformai della mia conversazione con Ivan Ignat’iç. “Per-ché avere dei secondi?” mi disse seccamente. “Ce la cavia-mo senza di loro.” Ci accordammo di batterci dietro i muc-chi di covoni che si trovavano accanto alla fortezza e di es-ser lì il giorno successivo alle sette del mattino. Conversa-vamo all’apparenza in modo così amichevole che IvanIgnat’iç dalla gioia si lasciò scappare il segreto.

“Da un pezzo doveva andar così,” mi disse con aria sod-disfatta, “una cattiva pace è meglio di una buona lite, e senon è onorevole, è salutare.”

“Cosa cosa, Ivan Ignat’iç?” disse la moglie del coman-dante che in un angolo leggeva le carte. “Non ho sentito.”

Ivan Ignat’iç, notando in me segni di malcontento e ri-cordando la sua promessa, si confuse e non sapeva cosa ri-spondere. ◊vabrin gli venne in aiuto.

“Ivan Ignat’iç,” disse, “si rallegra della nostra rappacifi-cazione.”

“E con chi, babbino mio, avevi litigato?”“Stavamo per litigare abbastanza forte con Pëtr An-

dreiç.”“E per cosa?”“Per una vera inezia: per una canzonetta, Vasilisa Ego-

rovna.”“Han trovato per cosa litigare! Per una canzonetta! E

com’è successo?”“È successo così: Pëtr Andreiç ha composto poco tempo

fa una canzone e oggi me l’ha intonata, e io ho attaccato lamia preferita: Figlia del capitano, Non andare in giro a mez-zanotte... Ne è nato un dissenso. Pëtr Andreiç stava anche perarrabbiarsi: ma poi ha giudicato che ognuno è libero di can-tare quello che gli piace. Con questo è finita la cosa.”

La spudoratezza di ◊vabrin per poco non mi fece anda-re su tutte le furie; ma nessuno, eccetto me, aveva capito le

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sue volgari allusioni; per lo meno nessuno vi fece attenzio-ne. Dalle canzonette la conversazione si indirizzò sui poe-ti, e il comandante notò che son tutte persone dissolute chesi danno al bere, e mi consigliò amichevolmente di lasciarperdere la versificazione come affare contrario al servizioe che non conduce a niente di buono.

La presenza di ◊vabrin mi era insopportabile. Dissi pre-sto addio al comandante e alla sua famiglia; arrivato a ca-sa esaminai la mia spada, provai la sua punta e andai a dor-mire, ordinando a Savel’iç di svegliarmi alle sei.

Il giorno dopo, all’ora fissata, stavo già dietro ai mucchidi covoni aspettando il mio avversario. Presto apparve an-che lui. “Possono scovarci,” mi disse, “bisogna sbrigarsi.” Citogliemmo le uniformi, restammo con i soli giustacuori esnudammo le spade. In quel momento da dietro un mucchiodi covoni apparve d’un tratto Ivan Ignat’iç con cinque inva-lidi. Ci convocava dal comandante. Noi ubbidimmo con stiz-za; i soldati ci circondarono e ci dirigemmo verso la for-tezza dietro Ivan Ignat’iç, che ci guidava con solennità, cam-minando con un’incredibile aria di importanza.

Entrammo nella casa del comandante. Ivan Ignat’iç aprìla porta, annunziò solennemente: “Li ho portati!”. Ci ac-colse Vasilisa Egorovna. “Ah, babbini miei! Che roba è que-sta? Come? Cosa? Nella nostra fortezza introdurre l’omici-dio! Ivan Kuzmiç, adesso li arresti! Pëtr Andreiç! AleksejIvanyç! Date qui le vostre spade, date, date. Pala√ka, portaqueste spade nel ripostiglio. Pëtr Andreiç! Questo da te nonme lo sarei aspettata. Come fai a non avere vergogna? Pas-si Aleksej Ivanyç; lui per assassinio l’hanno radiato anchedalla guardia, lui non crede neanche nel Signore Iddio; matu? Vuoi seguire il suo esempio?”

Ivan Kuzmiçera perfettamente d’accordo con la sua con-sorte e disse: “Ascolta, Vasilisa Egorovna dice il vero. I duel-li sono formalmente vietati nel regolamento militare”. Nelfrattempo Pala√ka ci aveva preso le spade e le aveva porta-te nel ripostiglio. Non potei non scoppiare a ridere. ◊vabrinconservò il suo sussiego. “Con tutto il mio rispetto per lei,”disse imperturbato, “non posso non notare che lei si degnadi agitarsi, sottoponendoci al suo giudizio. Lasci la cosa aIvan Kuzmiç, è affar suo.” “Ah, babbino mio!” ribatté la mo-glie del comandante, “come se marito e moglie non fosse-ro lo stesso spirito e la stessa carne. Ivan Kuzmiç! Cosa sba-

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digli! Adesso mettili in prigione in posti diversi a pane e ac-qua per far loro passare i capricci; e che padre Gerasim in-fligga loro una penitenza, che chiedano perdono a Dio e chesi pentano di fronte agli uomini.”

Ivan Kuzmiç non sapeva che decisione prendere. Mar’jaIvanovna era straordinariamente pallida. A poco a poco latempesta si calmò; la moglie del comandante si tranquillizzòe ci costrinse a baciarci l’un l’altro. Pala√ka ci riportò le no-stre spade. Uscimmo dalla casa del comandante apparente-mente rappacificati. Ivan Ignat’iç ci accompagnava. “Comefa a non vergognarsi,” gli dissi con rabbia, “di averci de-nunciato al comandante dopo che mi aveva dato la sua pa-rola che non l’avrebbe fatto?” “Com’è vero Dio, a Ivan Kuz-miç non ho detto niente,” rispose. “Vasilisa Egorovna mi hacavato fuori tutto. È lei che ha disposto tutto a insaputa delcomandante. D’altra parte, grazie a Dio è finito tutto così.”E con queste parole si diresse a casa, e io e ◊vabrin restam-mo da soli. “La nostra faccenda non può finire così,” gli dis-si. “Naturale,” rispose ◊vabrin, “lei mi risponderà col san-gue della sua insolenza; ma probabilmente si metteranno asorvegliarci. Per qualche giorno dovremo far finta. Arrive-derci!” E ci lasciammo come se non fosse successo niente.

Tornando dal comandante, come mio solito sedetti vi-cino a Mar’ja Ivanovna. Ivan Kuzmiç non era a casa; Vasi-lisa Egorovna era impegnata con l’economia domestica.Parlavamo a bassa voce. Mar’ja Ivanovna con tenerezza mirimproverava per la preoccupazione cagionata a tutti dal-la mia lite con ◊vabrin. “Mi si è gelato il sangue,” disse,“quando ci dissero che avevate intenzione di battervi a duel-lo. Come sono strani gli uomini! Per una parola, che pro-babilmente una settimana dopo dimenticherebbero, sonopronti a scannarsi e a rovinare non solo la vita, ma anchela coscienza e la felicità di coloro che... Ma io sono sicurache non è stato lei a cominciare la lite. Probabilmente lacolpa è di Aleksej Ivanyç.”

“E come mai pensa così, Mar’ja Ivanovna?”“Mah... è così beffardo. A me non piace, Aleksej Ivanyç.

Mi ripugna; ma, strano, non vorrei mai non piacergli. Sa-rebbe una cosa che mi inquieterebbe molto.”

“E cosa pensa, Mar’ja Ivanovna? Di piacergli oppure no?”Mar’ja Ivanovna fece per parlare e arrossì.“Mi sembra...” disse, “penso di piacergli.”

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“Perché lo pensa?”“Perché mi ha chiesta in sposa.”“Chiesta in sposa? L’ha chiesta in sposa? Quando?”“L’anno scorso. Due mesi prima del suo arrivo.”“E lei non ha acconsentito.”“Come può vedere. Aleksej Ivanyç, naturalmente, è un

uomo intelligente, e di buona famiglia, e ha un patrimonio;ma quando penso che avrei dovuto baciarlo sotto la coro-na davanti a tutti... Mai e poi mai! Per niente al mondo!”

Le parole di Mar’ja Ivanovna mi aprirono gli occhi e mispiegarono molte cose. Capii l’ostinata maldicenza con laquale ◊vabrin la perseguitava. Probabilmente aveva notatola nostra reciproca inclinazione e aveva provato a disto-glierci l’uno dall’altra. Le parole che avevano causato la no-stra lite mi sembrarono ancora più disgustose, quando, in-vece di una beffa volgare e oscena, vidi in esse una calun-nia premeditata. Il desiderio di punire l’insolente pettego-lo si fece in me ancora più forte e con impazienza mi misiad aspettare il momento adatto.

Non aspettai a lungo. Il giorno successivo, mentre la-voravo a un’elegia e mordevo la penna in attesa della rima,◊vabrin bussò alla mia finestra. Posai la penna, presi la spa-da e gli uscii incontro. “Perché rimandare?” mi disse ◊va-brin, “non ci sorvegliano. Scendiamo al fiume. Là nessunoci disturberà.” Ci incamminammo in silenzio. Scesi per unripido sentiero, ci fermammo proprio al fiume e snudam-mo le spade. ◊vabrin era più abile di me, ma io ero più for-te e più coraggioso e monsieur Beaupré, essendo stato untempo soldato, mi aveva dato qualche lezione di scherma,e usai anche quelle. ◊vabrin non si aspettava di trovare inme un avversario così pericoloso. A lungo non potemmo fa-re l’uno all’altro nessun danno; alla fine, notando che ◊va-brin si indeboliva, cominciai ad attaccarlo intensamente elo feci quasi entrare nel fiume. D’un tratto sentii il mio no-me pronunciato ad alta voce. Mi voltai e vidi Savel’iç checorreva verso di me sul sentiero di montagna... In quellostesso momento sentii un forte dolore al petto, sotto la spal-la destra. Caddi e persi i sensi.

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Capitolo V

L’amore

Ah, tu, ragazza, bella ragazza!Non ti sposar, ragazza, giovane;Chiedi, ragazza, al padre,Alla madre,Al padre, alla madre, alla tua razza;Accumula, ragazza, della testa,Della testa e della dote.Canzone popolare

Se meglio di me troverai,lo dimenticherai.Se peggio di me troverai,lo ricorderai.Lo stesso

Tornato in me, per un po’ di tempo non potei ricorda-re e non capii quello che mi era successo. Giacevo su unletto, in una stanza sconosciuta, e sentivo una gran debo-lezza. Di fronte a me stava Savel’iç con una candela in ma-no. Qualcuno con cautela svolgeva le bende che mi strin-gevano il petto e la spalla. Pian piano i miei pensieri sischiarirono. Ricordai il mio duello e indovinai di esser ri-masto ferito. In quel momento la porta cigolò. “Come va?Come sta?” disse una voce che mi fece palpitare. “Semprenelle stesse condizioni,” rispose Savel’iç con un sospiro,“sempre senza conoscenza e ormai è il quinto giorno.”Avrei voluto voltarmi ma non potevo. “Dove sono? Chi c’è?”dissi con sforzo. Mar’ja Ivanovna si avvicinò al mio lettoe si chinò su di me. “Allora? Come si sente?” disse. “Gra-zie a Dio,” risposi con un filo di voce, “è lei, Mar’ja Iva-novna? Mi dica...” Non fui in condizioni di proseguire etacqui. Savel’iç disse: “Ah!”. La gioia gli si dipinse in vol-to. “Si è riavuto, si è riavuto,” ripeteva. “Grazie, Signore!Be’, babbino Pëtr Andreiç, mi hai fatto paura! Ti sembraniente? Cinque giorni!” Mar’ja Ivanovna interruppe il suodiscorso. “Non parlare molto con lui, Savel’iç,” disse, “èancora debole.” Uscì e socchiuse piano la porta. I pensie-ri mi si agitarono. Così, ero nella casa del comandante,Mar’ja Ivanovna era venuta da me. Volevo fare qualche do-manda a Savel’iç, ma il vecchio scrollò la testa e si tappò

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le orecchie. Con stizza chiusi gli occhi e presto attraver-sai il confine del sonno.

Svegliatomi, chiamai Savel’iç e al suo posto vidi di fron-te a me Mar’ja Ivanovna; la sua voce angelica mi salutava.Non posso esprimere la dolcezza delle sensazioni che si im-padronirono di me in quel momento. Afferrai la sua manoe me la accostai, bagnandola di lacrime di riconoscenza.Ma√a non la ritrasse... e presto le sue labbra toccavano lamia guancia, e io sentivo il loro caldo e fresco bacio. Un fuo-co corse dentro di me. “Dolce, cara Mar’ja Ivanovna,” le dis-si, “sii mia moglie, fa’ la mia felicità.” Lei si riprese. “Per l’a-mor di Dio si calmi,” disse ritraendo la mano. “È ancora inpericolo: la ferita si può riaprire. Abbia cura di sé almenoper me.” Con queste parole uscì, lasciandomi nell’estasi del-l’entusiasmo. La felicità mi benediceva. Sarebbe stata mia!Mi amava! Questo pensiero riempiva tutta la mia esistenza.

Da quel momento cominciai via via a migliorare. Micurò il barbiere di reggimento, dal momento che nella for-tezza un altro medico non c’era e, per fortuna, non sdot-torò. La gioventù e la natura accelerarono la mia guarigio-ne. Tutta la famiglia del comandante mi assistette. Mar’jaIvanovna non si allontanò da me. S’intende che al primo ca-so utile ripresi la spiegazione interrotta, e Mar’ja Ivanovnami ascoltò con più pazienza. Senza nessuna leziosaggi-ne, mi confessò l’inclinazione del suo cuore e disse che isuoi genitori, naturalmente, sarebbero stati contenti dellasua felicità. “Ma pensaci per bene,” aggiunse, “da parte deituoi genitori non ci saranno ostacoli?”

Mi feci pensieroso. Della tenerezza della mammina nondubitavo, ma, conoscendo le abitudini e il modo di pensa-re del babbo, sentivo che il mio amore non lo avrebbe toc-cato troppo e che egli l’avrebbe guardato come il ghiribiz-zo di un giovanotto. Confessai candidamente la cosa a Mar’jaIvanovna e decisi, tuttavia, di scrivere al babbino nel modopiù eloquente possibile, chiedendo la benedizione paterna.Mostrai la lettera a Mar’ja Ivanovna, che la trovò talmenteconvincente e commovente che non dubitava del suo suc-cesso e si abbandonò ai sensi del suo tenero cuore con tut-ta la fiducia della sua giovinezza e del suo amore.

Con ◊vabrin mi rappacificai nei primi giorni della miaconvalescenza. Ivan Kuzmiç, rimproverandomi per il duel-lo mi aveva detto: “Eh, Pëtr Andreiç, dovrei metterti agli ar-

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resti, ma tu anche senza sei già castigato. Aleksej Ivanyç in-vece è nel magazzino del pane sotto sorveglianza, e la suaspada la tiene sotto chiave Vasilisa Egorovna. Che rifletta esi penta”. Io ero troppo felice, per conservare nel cuore unsentimento malevolo. Mi misi a intercedere per ◊vabrin e ilbuon comandante, con l’assenso della consorte, decise di li-berarlo. ◊vabrin venne da me: espresse una gran dispiacereper quello che era successo tra noi; confessò di essere col-pevole in tutto e mi pregò di dimenticare il passato. Non es-sendo di natura vendicativa, gli perdonai sinceramente il no-stro litigio e la ferita che mi aveva causato. Nella sua calun-nia vidi il dispetto dell’amor proprio offeso e dell’amore re-spinto e con generosità scusavo il mio infelice avversario.

Presto mi ristabilii e potei spostarmi nel mio apparta-mento. Aspettavo con impazienza la risposta alla lettera cheavevo mandato, non osando sperare e sforzandomi di soffo-care i tristi presentimenti. Con Vasilisa Egorovna e con suomarito non mi ero ancora spiegato; ma la mia proposta nonavrebbe dovuto sorprenderli. Né io né Mar’ja Ivanovna cisforzavamo di nascondere loro i nostri sentimenti, e prestofummo convinti del loro consenso.

Alla fine, un mattino Savel’iç entrò da me tenendo unalettera in mano. La afferrai con un tremito. L’indirizzo erascritto dalla mano dal babbino. Questo mi preparò a qual-cosa di importante, dal momento che di solito le lettere mele scriveva mammina, e lui alla fine aggiungeva qualche ri-ga. A lungo non aprii la busta e rilessi la solenne iscrizione:“A mio figlio, Pëtr Andreeviç Grinëv, nel governatorato diOrenburg, nella fortezza di Belogorsk”. Mi sforzavo di in-dovinare dalla grafia la disposizione di spirito con la qualela lettera era stata scritta: alla fine mi decisi ad aprirla e dal-le prime righe vidi che l’intera faccenda era andata al dia-volo. Il contenuto della lettera era il seguente:

“Figlio mio Pëtr, la tua lettera, con la quale ci chiedi labenedizione paterna e l’accordo al matrimonio con Mar’jaIvanovna figlia di Mironov, l’abbiamo ricevuta il 15 di que-sto mese, e non solo non ho intenzione di darti né la bene-dizione né l’accordo, ma mi preparo a raggiungerti e a dar-ti una lezione per le tue birichinate come si fa con i ragaz-zini, nonostante il tuo grado di ufficiale; dal momento chehai dimostrato che di portar la spada ancora non sei degno,

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spada che ti è stata data per difendere la patria, e non perdei duelli con dei monelli come te. Scriverò subito a AndrejKarloviçpregandolo di trasferirti dalla fortezza di Belogorskda qualche altra parte dove i capricci ti passeranno. La tuamammina, saputo del tuo duello e del fatto che sei ferito,dal dolore è stata male e ancora adesso è a letto. Che ne saràdi te? Prego Dio che tu ti ravveda, benché non osi sperarenella sua grande grazia,

Tuo padre A.G.”

La lettura di questa lettera mi suscitò diversi sentimenti.Le espressioni crudeli che il babbo non lesinava mi offeseroprofondamente. Il disprezzo con il quale accennava a Mar’jaIvanovna mi sembrava tanto indecente quanto ingiusto.

Il pensiero del mio trasferimento dalla fortezza di Belo-gorsk mi terrorizzava; ma più di tutto mi addolorava la no-tizia della malattia di mia madre. Ero indignato con Savel’iç,non dubitando che la notizia del mio duello fosse stata co-nosciuta dai miei genitori per tramite suo. Dopo aver pas-seggiato avanti e indietro per la mia piccola stanza mi fer-mai di fronte a lui e dissi, guardandolo minacciosamente:“Evidentemente non ti bastava che io, grazie a te, fossi feri-to e per un mese intero con un piede nella tomba: tu vuoifar morire anche mia madre”. Savel’iç fu colpito come da unfulmine. “Perdonami, signore,” disse quasi piangendo, “co-s’è che ti degni di dire? Io la causa della tua ferita? Dio ve-de che correvo a ripararti con il mio petto dalla spada diAleksej Ivanyç! La maledetta vecchiaia ci si è messa di mez-zo. E poi cosa ho fatto alla tua mammina?” “Che cosa haifatto?” risposi. “Chi ti ha chiesto di scrivere delle delazionisu di me? Forse mi sei stato dato come spia?” “Io? Ho scrit-to delle delazioni su di te?” rispose Savel’iç con le lacrimeagli occhi. “Signore benedetto! Allora fa’ la cortesia di leg-gere quello che mi scrive il padrone: vedrai, che delazioniho fatto su di te.” Qui tolse di tasca una lettera e lessi quel-lo che segue:

“Vergognati, vecchio cane, che, nonostante le mie severeistruzioni, non mi hai riferito di mio figlio Pëtr Andreeviç eche degli estranei debbano informarmi delle sue monellerie.È così che fai il tuo dovere e la volontà del tuo padrone? Io ate, vecchio cane, ti mando a pascolare i porci per aver na-

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scosto la verità e per la tua indulgenza con il giovanotto. Alricevimento della presente ti ordino di scrivermi subito qualè adesso la sua salute della quale mi scrivono che sta miglio-rando, in che posto di preciso è ferito e se lo curano bene”.

Era evidente che Savel’iç non aveva colpe nei miei con-fronti e che l’avevo offeso a torto con i miei rimproveri e so-spetti. Gli chiesi perdono, ma il vecchio era inconsolabile.“Ecco per cosa ho vissuto così a lungo,” ripeteva, “ecco lericompense che mi sono guadagnato dai miei padroni. Esono un vecchio cane, e vado a pascolare i maiali, e sonoperfino la causa della tua ferita. No, babbino Pëtr Andreiç,non sono io, quel maledetto monsiù ha la colpa di tutto: tiha insegnato a far cozzare gli spiedi di ferro e a pestare ipiedi: come se a farli cozzare e a battere i piedi ci si potes-se difendere da un uomo cattivo! Bisognava far venire ilmonsiù e buttar via dei soldi!”

Ma chi è che si era preso la briga di avvisare mio padredel mio comportamento? Il generale? Ma lui non sembravache si preoccupasse tanto di me; e Ivan Kuzmiç non avevaconsiderato necessario fare rapporto sul mio duello. Mi per-si in supposizioni. I miei sospetti si fermarono su ◊vabrin.Egli solo aveva interesse a una denuncia la cui conseguenzapoteva essere il mio allontanamento della fortezza e il di-stacco dalla famiglia del comandante. Andai ad avvisare ditutto Mar’ja Ivanovna. Mi venne incontro sul terrazzino. “Co-sa le è successo?” disse vedendomi. “Com’è pallido.” “È tut-to finito!” risposi io e le diedi la lettera del babbo. Impallidìa sua volta. Dopo averla letta, mi restituì la lettera con manotremante e disse con voce tremante: “Si vede che non ho for-tuna... i suoi genitori non mi vogliono nella loro famiglia. Siafatta in tutto la volontà di Dio. Dio sa meglio di noi, ciò di cuiabbiamo bisogno. Non c’è niente da fare, Pëtr Andreiç; sia fe-lice almeno lei...”. “Questo non può essere!” gridai afferran-dole un braccio, “tu mi ami; io sono pronto a tutto. Andia-mo, gettiamoci ai piedi dei tuoi genitori; sono persone sem-plici, non arroganti duri di cuore... Ci benediranno; ci spo-seremo... e là, col tempo, sono sicuro, imploreremo mio pa-dre; la mamma sarà con noi, lei mi perdonerà...” “No, PëtrAndreiç,” rispose Ma√a, “non ti sposerò senza la benedizionedei tuoi genitori. Senza la loro benedizione non sarai felice.Sottomettiamoci alla volontà di Dio. Se troverai una pro-

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messa sposa, se amerai un’altra, che Dio sia con te, Pëtr An-dreiç; e io per voi...” Qui scoppiò a piangere e se ne andò; vo-levo seguirla nella stanza, ma sentivo che non sarei stato ingrado di dominarmi, e tornai a casa.

Sedevo immerso in profonda meditazione quando Sa-vel’iç interruppe le mie riflessioni. “Ecco, signore,” dissedandomi un foglio di carta pieno di scritte, “guarda se so-no una spia del mio padrone e se cerco di mettere il figliocontro il padre.” Presi dalle sue mani la carta: era la rispo-sta di Savel’iç alla lettera che aveva ricevuto. Eccola parolaper parola:

“Signore Andrej Petroviç,padre nostro benevolo!

Ho ricevuto la vostra benevola scrittura nella quale videgnate di adirarvi con me, schiavo vostro, che mi devo ver-gognare di non aver eseguito gli ordini padronali; ma io,che non sono un vecchio cane, ma un vostro servo fedele,gli ordini padronali li seguo e vi ho sempre servito con di-ligenza e ho vissuto fino ad avere i capelli grigi. E sulla fe-rita di Pëtr Andreiç non vi ho scritto niente per non spa-ventare inutilmente e ho sentito che la padrona, la madrevostra Avdot’ja Vasil’evna si è così spaventata che si è mes-sa a letto, e per la sua salute pregherò Dio. E Pëtr Andreiçè stato ferito sotto la spalla destra, nel petto proprio sottol’ossicino, per una profondità di un ver√ok e mezzo, e gia-ceva in casa del comandante, dove l’avevamo portato dalfiume, e l’ha curato il barbiere di qui Stepan Paramonov; eadesso Pëtr Andreiç, grazie a Dio, è sano, e su di lui, a par-te del buono, non c’è niente da scrivere. I comandanti, hosentito, son contenti di lui; e da Vasilisa Egorovna è comeun figlio suo. E che a lui è successa una cosa del genere,non c’è da rimproverarlo di essere ardito; anche il cavalloha quattro zampe, e inciampa. E vi degnate di scrivere, chemi mandate a pascolare i maiali, e questo è il vostro volerepadronale. Ad esso mi inchino servizievole.

Il vostro fedele lacchèArchip Savel’ev”

Non potei non sorridere qualche volta, leggendo la let-tera del buon vecchio. Di rispondere al babbino non ero incondizioni: ma per calmare la mammina la lettera di Sa-vel’iç mi sembrò sufficiente.

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Da quel momento la mia posizione cambiò. Mar’ja Iva-novna con me quasi non parlava e si sforzava in ogni mo-do di evitarmi. La casa del comandante mi divenne odiosa.Pian piano mi abituai a stare da solo a casa mia. VasilisaEgorovna all’inizio mi rimproverava; ma, vedendo la miatestardaggine, mi lasciò in pace. Con Ivan Kuzmiç mi ve-devo solo quando lo richiedeva il servizio. Con ◊vabrin miincrociavo di rado e malvolentieri, tanto più che notavo inlui una segreta ostilità nei miei confronti, cosa che mi con-fermava nei miei sospetti. La mia vita mi si era fatta in-sopportabile. Caddi in una cupa malinconia, nutrita dallasolitudine e dall’ozio. Il mio amore bruciava in solitudine eora dopo ora diveniva per me più penoso. Persi il desideriodi leggere e di comporre. Il mio spirito venne meno. Avevopaura di impazzire o di darmi alla sregolatezza. Avvenimentiimprevisti, che hanno avuto una forte influenza su tutta lamia vita, diedero all’improvviso alla mia anima un forte ebenefico scossone.

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Capitolo VI

L’insurrezione di Pugaçëv

Voi, giovani ragazzi,ascoltatequel che noi, vecchi vecchietti,diremo.Canzone

Prima di cominciare la descrizione degli strani fatti deiquali sono stato testimone, devo dire alcune parole sullacondizione in cui si trovava il governatorato di Orenburgalla fine dell’anno 1773.

Questo enorme e ricco governatorato era abitato da unaquantità di popoli semiselvaggi, che avevano riconosciutoda poco il dominio dei sovrani russi. Le loro continue som-mosse, la desuetudine alle leggi e alla vita civile, la legge-rezza e la crudeltà richiedevano da parte del governo unacontinua sorveglianza per trattenerli nell’ubbidienza. For-tezze furono costruite in luoghi considerati adatti, e popo-late per la maggior parte da cosacchi, antichi abitatori del-le rive dello Jaìk. Ma i cosacchi dello Jaìk, che avrebberodovuto sorvegliare la tranquillità e la sicurezza di questa re-gione, da qualche tempo erano essi stessi per il governo sud-diti irrequieti e pericolosi. Nel 1772 ci fu una rivolta nellaloro principale cittadina. Ragione di essa erano state le se-vere misure prese dal generale maggiore Traubenberg perriportare la dovuta ubbidienza nell’esercito. La conseguen-za fu la barbara uccisione di Traubenberg, un arbitrariocambiamento nell’amministrazione e, infine, la repressio-ne della rivolta con la mitraglia e con punizioni crudeli.

Questo succedeva qualche tempo prima del mio arrivonella fortezza di Belogorsk. Tutto era ormai tranquillo, osembrava tale; i superiori avevano dato credito troppo fa-cilmente all’immaginario pentimento degli scaltri rivoltosi,che in segreto serbavano rancore e aspettavano l’occasioneadatta per la ripresa dei disordini.

Torno al mio racconto.Una volta di sera (era l’inizio d’ottobre dell’anno 1773)

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ero in casa da solo, ascoltavo l’ululato del vento autunnalee guardavo alla finestra le nuvole che passavan di corsa ac-canto alla luna. Mi vennero a chiamare a nome del coman-dante. Andai subito. Dal comandante trovai ◊vabrin, IvanIgnat’iç e il sottufficiale dei cosacchi. Nella stanza non c’e-rano né Vasilisa Egorovna né Mar’ja Ivanovna. Il coman-dante mi salutò con aria preoccupata. Chiuse la porta, fecesedere tutti tranne il sottotenente che stava in piedi vicinoalla porta, tolse di tasca un foglio e ci disse: “Signori uffi-ciali: c’è una novità importante! Ascoltate quel che scrive ilgenerale”. Qui si mise gli occhiali e lesse ciò che segue:

“Al Signor comandante della fortezza di BelogorskCapitano Mironov.Segreto.

La informo che un evaso, il cosacco del Don e scisma-tico Emel’jan Pugaçëv, commettendo l’imperdonabile inso-lenza di arrogare a sé il nome del defunto imperatore Pie-tro III, ha raccolto una banda di criminali, ha provocato unarivolta nei villaggi dello Jaìk e ha già preso e devastato al-cune fortezze, producendo ovunque saccheggi e assassini.Pertanto, al ricevimento della presente, lei vorrà, signor Ca-pitano, prendere le misure necessarie per respingere il sud-detto criminale e millantatore, se possibile con la comple-ta distruzione dello stesso, se si rivolgerà contro la fortez-za affidata alla sua tutela”.

“Prendere le misure necessarie!” disse il comandante,togliendosi gli occhiali e ripiegando il foglio. “Senti qua, fa-cile a dirsi. Quel criminale, si vede, è forte; e noi abbiamoin tutto centotrenta uomini, senza contare i cosacchi, suiquali c’è poco da fare affidamento, non suoni come rim-provero a te, Maksimyç.” (Il sottufficiale scoppiò a ridere.)“Però c’è poco da fare, signori ufficiali! Siate coscienziosi,mettete sentinelle e ronde notturne; in caso di attacco sbar-rate la porta e portate fuori i soldati. Tu, Maksimyç, tieni abada i tuoi cosacchi. Ispezionare il cannone e pulirlo perbenino. Ma soprattutto, tenete tutto segreto, che nella for-tezza nessuno lo sappia prima del tempo.”

Date queste istruzioni, Ivan Kuzmiç ci mise in libertà.Uscendo con ◊vabrin parlammo di quello che avevamo sen-tito. “Cosa pensi, come finirà?” “Lo sa Dio,” rispose, “ve-

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dremo. Per il momento non c’è niente d’importante. Se percaso...” Qui si mise a pensare e senza badarci cominciò afischiettare un’aria francese.

Nonostante tutte le nostre precauzioni, la notizia del-l’apparizione di Pugaçëv si diffuse per la fortezza. Ivan Kuz-miç, benché stimasse molto la sua consorte, per niente almondo le avrebbe rivelato il segreto rimessogli per servizio.Ricevuta la lettera dal generale, in modo piuttosto abile ave-va mandato via Vasilisa Egorovna dicendole che padre Ge-rasim aveva ricevuto da Orenburg alcune notizie curioseche conservava in gran segreto. Vasilisa Egorovna volle im-mediatamente andare a far visita alla moglie del pope e, suconsiglio di Ivan Kuzmiç, prese con sé anche Ma√a, per nonannoiarsi, da sola.

Ivan Kuzmiç, rimasto pieno padrone, ci fece subitochiamare, e Pala√ka la chiuse in dispensa, perché non po-tesse sentirci.

Vasilisa Egorovna tornò a casa senza essere riuscita acavare niente dalla moglie del pope e venne a sapere chedurante la sua assenza da Ivan Kuzmiç c’era stata una riu-nione e che Pala√ka era stata chiusa sotto chiave. Indovinòdi essere stata raggirata dal marito e cominciò a interro-garlo. Ma Ivan Kuzmiç si era preparato all’attacco. Non siconfuse affatto e rispose gagliardamente alla sua sposa cu-riosa: “Hai forse sentito, mammina, che le nostre donnehanno pensato di tenere accesa la stufa con la paglia; e sic-come da questo posson venir fuori delle disgrazie, ho datol’ordine rigoroso in futuro che con la paglia le donne la stu-fa non la tengano accesa, ma di tenerla accesa con le ster-pi e la ramaglia”. “E perché dovevi chiudere a chiave Pa-la√ka?” chiese la moglie del comandante, “perché la poveraragazza era chiusa in dispensa, finché non siamo tornate?”Ivan Kuzmiç non era pronto a una domanda del genere; siimbrogliò e borbottò qualcosa di molto disordinato. Vasili-sa Egorovna vide la slealtà del marito; ma, sapendo che nonne avrebbe cavato nulla, interruppe le sue domande e di-resse la conversazione sui cetrioli in salamoia che AkulinaPamfilovna preparava in modo assolutamente rimarchevo-le. Per tutta la notte Vasilisa Egorovna non poté dormire ein nessun modo poté indovinare che cosa c’era nella testadi suo marito e cos’era che lei non poteva sapere.

Ma il giorno dopo, tornando dalla messa, vide Ivan

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Ignat’iç che toglieva dalla bocca del cannone degli stracci,dei sassolini, delle schegge, dei dadi e ogni tipo di spazza-tura gettatavi dai ragazzini. “Che cosa significherebberoquesti preparativi di guerra?” pensò la moglie del coman-dante. “Non è che aspettano un attacco dei chirghisi? Mapossibile che Ivan Kuzmiç mi avrebbe nascosto una scioc-chezza del genere?” Chiamò Ivan Ignat’iç decisa seriamen-te a carpirgli il segreto che faceva soffrire la sua curiositàfemminile.

Vasilisa Egorovna gli fece alcune osservazioni che ri-guardavano l’economia domestica, come un giudice che co-mincia l’indagine con delle domande insignificanti per farabbassare la cautela al convenuto. Poi, dopo aver taciutoper qualche minuto, sospirò profondamente e disse, scuo-tendo la testa: “Signore benedetto! Vedi che novità! Che co-sa ne verrà fuori?”.

“Eh, mammina!” rispose Ivan Ignat’yç. “Dio è miseri-cordioso: di soldati ne abbiamo abbastanza, di polvere mol-ta, il cannone l’ho pulito. Forse respingeremo Pugaçëv. Seil Signore non vuole, non ci mangia il maiale.”

“Ma che uomo è questo Pugaçëv?” chiese la moglie delcomandante.

Qui Ivan Ignat’iç si accorse di aver parlato troppo, e simorse la lingua. Ma era già tardi. Vasilisa Egorovna lo co-strinse a confessare tutto, dandogli la sua parola che nonl’avrebbe raccontato a nessuno.

Vasilisa Egorovna mantenne la sua promessa e non dis-se una parola a nessuno tranne che alla moglie del pope, esolo perché la sua mucca era andata ancora nella steppae avrebbe potuto essere presa dai criminali.

Poco tempo dopo parlavano tutti di Pugaçëv. Le voci era-no varie. Il comandante mandò il sottufficiale con il com-pito di indagare per bene nei villaggi e nelle fortezze vici-ne. Il sottufficiale tornò dopo due giorni e riferì che nellasteppa a sessanta verste dalla fortezza aveva visto una quan-tità di fuochi e aveva sentito dai baschiri che si stava muo-vendo una forza ignota. Tuttavia non poté dire niente di po-sitivo, perché aveva avuto paura di andare oltre.

Nella fortezza tra i cosacchi divenne evidente un’ecce-zionale agitazione; per tutte le strade si univano in gruppi,parlavano a bassa voce tra loro e si separavano vedendo undragone o un soldato della guarnigione. Furono mandate

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da loro delle spie. Julaj, calmucco battezzato, fece al co-mandante un rapporto importante. La testimonianza delsottufficiale, secondo le parole di Julaj, era falsa: al suo ri-torno il furbo cosacco aveva riferito ai suoi compagni cheera stato dai rivoltosi, si era presentato al loro stesso capoche lo aveva ammesso alla sua presenza e aveva conversa-to a lungo con lui. Il comandante fece arrestare subito il sot-tufficiale e nominò Julaj al suo posto. Questa novità fu pre-sa dai cosacchi con aperto malcontento. Mormoravano ru-morosamente e Ivan Ignat’iç, esecutore degli ordini del co-mandante, sentì con le sue orecchie che essi dicevano: “Ades-so ti diamo il tuo, topo di guarnigione”. Il comandante pen-sava di interrogare quello stesso giorno il suo prigioniero:ma il sottufficiale era scappato di prigione, probabilmentecon l’aiuto di quelli che la pensavano come lui.

La nuova circostanza aumentò l’inquietudine del co-mandante. Fu preso un baschiro con dei fogli sediziosi. Inquesta occasione il comandante pensò di radunare ancora isuoi ufficiali e perciò avrebbe voluto ancora allontanare Va-silisa Egorovna con un pretesto plausibile. Ma siccome IvanKuzmiç era uomo schiettissimo e veridico, non trovò altromodo tranne quello che già una volta aveva utilizzato.

“Senti, Vasilisa Egorovna,” le disse mettendosi a tossi-re, “padre Gerasim ha ricevuto, dicono, dalla città...” “Ba-sta mentire, Ivan Kuzmiç,” lo interruppe la moglie del co-mandante, “tu, si vede, vuoi indire una riunione e senza dime parlare di Emel’jan Pugaçëv; ma non ci casco.” Ivan Kuz-miç sgranò gli occhi. “Be’, mammina,” disse, “se sai già tut-to, allora, forse, resta; parleremo anche in tua presenza.”“Be’, be’, babbo mio,” rispose, “non è da te fare il furbo;manda a chiamare gli ufficiali.”

Ci riunimmo ancora. Ivan Kuzmiç in presenza della mo-glie ci lesse il proclama di Pugaçëv scritto da un cosacco se-mianalfabeta. Il brigante annunciava la sua intenzione di as-saltare immediatamente la nostra fortezza; invitava i cosac-chi e i soldati nella sua banda ed esortava i superiori a nonopporsi, minacciando tormenti in caso contrario. Il procla-ma era scritto con espressioni volgari ma forti e doveva pro-durre un’impressione pericolosa su delle menti semplici.

“Che truffatore!” esclamò la moglie del comandante.“Che cosa si permette di proporci! Andargli incontro e get-tar le bandiere ai suoi piedi! Ah, figlio di un cane. Non sa

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forse che noi serviamo da quarant’anni e che, grazie a Dio,ne abbiam viste di tutti i colori? Possibile che esistano deisuperiori che darebbero ascolto al brigante?”

“Non mi sembra che esistano,” rispose Ivan Kuzmiç.“Ma ho sentito che il criminale si è già impadronito di di-verse fortezze.”

“Si vede che effettivamente è forte,” notò ◊vabrin.“E noi adesso conosceremo la sua forza vera,” disse il

comandante. “Vasilisa Egorovna, dammi la chiave del gra-naio. Ivan Ignat’iç, porta il baschiro e ordina a Julaj di por-tar qui la frusta.”

“Aspetta, Ivan Kuzmiç,” disse la moglie del comandan-te alzandosi dal suo posto, “fammi portare Ma√a da qual-che parte lontano da casa; se sente un grido, si terrorizza.E anch’io, a dir la verità, non sono appassionata di sevizie.Divertitevi.”

La tortura nell’antichità era così radicata negli usi deiprocedimenti giudiziari che il benefico decreto che l’ha abo-lita è stato a lungo privo di applicazione. Si pensava che laconfessione personale del delinquente fosse indispensabileper il suo pieno smascheramento, pensiero non solo infon-dato, ma anche del tutto contrario al buon senso giuridico;giacché, se la negazione dell’imputato non si riconosce co-me prova della sua innocenza, ancora meno la sua confes-sione deve essere prova della sua colpevolezza. Anche ades-so mi capita di ascoltare vecchi giudici che si lamentanodell’eliminazione della barbarica usanza. Ai nostri tempinessuno dubitava della necessità della tortura, né i giudici,né gli imputati. Così, l’ordine del comandante non stupì enon preoccupò nessuno di noi. Ivan Ignat’iç andò a pren-dere il baschiro che sedeva nel granaio tenuto sotto chiavedalla moglie del comandante, e dopo qualche minuto il pri-gioniero fu portato in anticamera.

Il baschiro superò con fatica la soglia (era in ceppi) e,toltosi il suo alto cappello, si fermò vicino alla porta. Gligettai uno sguardo e fremetti. Non dimenticherò mai que-st’uomo. Sembrava sui sessant’anni. Non aveva né naso néorecchie. La sua testa era rasa; invece della barba spicca-vano alcuni peli grigi; era di bassa statura, magrissimo e in-gobbito; ma i suoi stretti occhi brillavano come fuochi.“Ehè,” disse il comandante, riconoscendo, dai suoi terribi-li tratti uno dei ribelli puniti nel 1741, “tu, si vede, vecchio

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lupo, sei stato nelle nostre tagliole. Tu, si vede, non ti ribel-li per la prima volta, se no la tua zucca non te l’avrebberopiallata così liscia. Vieni più vicino; di’, chi ti ha mandato?”

Il vecchio baschiro taceva e guardava il comandante conaria di perfetta idiozia. “Perché taci?” continuò Ivan Kuz-miç. “Forse non capisci un’acca in russo? Julaj, chiediglinella vostra lingua chi l’ha mandato alla nostra fortezza.”

Julaj ripeté in tartaro la domanda di Ivan Kuzmiç. Mail baschiro lo guardava con quella stessa espressione e nonrispondeva una parola.

“Jak√i,”85 disse il comandante, “ti metterai a parlare. Ra-gazzi, toglietegli quel caffettano a strisce e trapuntategli laschiena. E mi raccomando, Julaj, come si deve.”

Due invalidi cominciarono a spogliare il baschiro. Il vi-so dell’infelice si atteggiò a irrequietezza. Si guardò intor-no da tutte le parti come un animaletto catturato da deibambini. Quando uno degli invalidi gli prese le braccia e,posandosele intorno al collo, si alzò il vecchio sulle spallee Julaj prese la frusta e la sollevò, allora il baschiro si misea gemere piano, implorante e, scuotendo il capo, aprì unabocca nella quale al posto della lingua si muoveva un pic-colo troncone.

Quando penso che ciò successe nel mio secolo, io chesono arrivato fino al mite regno dell’imperatore Alessandronon posso non stupirmi dei rapidi progressi dell’istruzionee della diffusione dei principi dell’umanitarismo. Giova-notto! se i miei appunti capiteranno tra le tue mani, ricor-da che i migliori e i più stabili cambiamenti sono quelli chevengono dal miglioramento dei costumi, senza nessunaspinta violenta.

Tutti furono colpiti. “Be’,” disse il comandante, “è evi-dente che da lui non caveremo parola. Julaj, riporta il ba-schiro nel granaio. E noi, signori, parliamo ancora un po’.”

Ci mettemmo a ragionare della nostra situazione, quan-do all’improvviso Vasilisa Egorovna entrò nella stanza an-sando e con un aspetto straordinariamente allarmato.

“Cosa ti è successo?” chiese il comandante stupito.“Babbini, un guaio!” rispose Vasilisa Egorovna. “NiΩneo-

zero è stata presa stamattina. L’aiuto di padre Gerasim ètornato adesso da là. Ha visto come li han presi. Il coman-

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85 Bene (tartaro).

dante e tutti gli ufficiali li hanno impiccati. Tutti i soldatisono prigionieri. Da un momento all’altro i malfattori sa-ranno qui.”

La notizia inaspettata mi colpì fortemente. Conoscevoil comandante della fortezza di NiΩneozero, un giovane tran-quillo e modesto: due mesi prima era arrivato da Orenburgcon la sua giovane moglie e si era fermato da Ivan Kuzmiç.NiΩneozero era distante dalla nostra fortezza sulle venti-cinque verste. Di momento in momento dovevamo aspet-tarci l’attacco di Pugaçëv. La sorte di Mar’ja Ivanovna mi sipresentò vivamente e subito mi mancò il cuore.

“Ascolti, Ivan Kuzmiç!” dissi al comandante. “Il nostrodovere è difendere la fortezza fino al nostro ultimo respiro;su questo non c’è niente da dire. Ma bisogna pensare allasicurezza delle donne. Le mandi a Orenburg, se la strada èancora libera, o in una fortezza lontana e più sicura, dovei malfattori non potrebbero raggiungerle.”

Ivan Kuzmiç si voltò verso la moglie e le disse:“Senti, mammina, effettivamente, perché non mandar-

vi via, intanto che sistemiamo i ribelli?”.“Ih, che sciocchezze!” disse la moglie del comandante.

“Quale sarebbe la fortezza dove non arrivano le pallottole?In che cosa Belogorsk non sarebbe sicura? Grazie a Dio,l’anno ventidue l’abbiam passato qui. Abbiamo visto i ba-schiri e i chirghisi: forse anche a Pugaçëv resistiamo.”

“Be’, mammina,” ribatté Ivan Kuzmiç, “stai pure, pre-go, se hai fiducia nella nostra fortezza. Ma con Ma√a comefacciamo? Bene se resistiamo o aspettiamo i soccorsi; mase i malfattori prendono la fortezza?”

“Be’, allora...” qui Vasilisa Egorovna si mise a balbetta-re e tacque con aria di eccezionale agitazione.

“No, Vasilisa Egorovna,” continuò il comandante, no-tando che le sue parole avevano avuto effetto forse per laprima volta nella sua vita, “Ma√a non è adatta a restare qui.Mandiamola a Orenburg dalla sua madrina: là di truppe edi cannoni ce ne sono abbastanza, e le mura sono di pie-tra. E io consiglierei anche a te di andar là; anche se seivecchia, pensa cosa ti succederebbe se prendessero d’as-salto la fortezza.”

“Bene,” disse la moglie del comandante, “facciamo co-sì, mandiamo Ma√a. Io invece, non pensarci nemmeno: nonvado. Non c’è motivo, in vecchiaia, di separarmi da te e cer-

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care una tomba solitaria da un’altra parte. Vivere insieme,morire anche insieme.”

“Ecco fatto,” disse il comandante. “Be’, non c’è da aspet-tare. Va’ a preparare Ma√a per il viaggio. Domani alla pri-ma luce la facciamo partire; e le diamo anche una scorta,anche se di uomini in più non ne abbiamo. Ma dov’è Ma√a?”

“Da Akulina Pamfilovna,” rispose la moglie del coman-dante. “È stata male quando ha saputo della presa di NiΩneo-zero; ho paura che si ammali. Signore benedetto, cosa do-vevam vedere.”

Vasilisa Egorovna andò a darsi da fare per la partenzadella figlia. La conversazione dal comandante continuò; maio non intervenni più e non sentivo niente. Mar’ja Ivanov-na apparve a cena pallida e in lacrime. Cenammo in silen-zio e ci alzammo da tavola prima del solito; dopo aver sa-lutato tutta la famiglia, ci dirigemmo a casa. Ma io dimen-ticai apposta la mia spada e tornai a prenderla; presentivoche avei trovato Mar’ja Ivanovna da sola. Effettivamente,mi venne incontro sulla porta e mi consegnò la spada. “Ad-dio, Pëtr Andreiç!” mi disse in lacrime. “Mi mandano a Oren-burg. Stia bene e sia felice; può darsi che il signore ci con-durrà a rivederci; se non sarà così...” Qui scoppiò in sin-ghiozzi. La abbracciai. “Addio, angelo mio,” dissi, “addio,mia cara, mia adorata! Sia quel che sia, di me, credi che l’ul-timo mio pensiero e l’ultima mia preghiera saranno per te!”Ma√a singhiozzava stringendosi al mio petto. La baciai conardore e uscii in fretta dalla stanza.

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Capitolo VII

L’assalto

Testa mia, testolina,Testa servizievole!Ha servito la mia testolinaTrenta anni e tre precisi.Ah, non ha guadagnato la testolinaNé vantaggi per sé né gioia,Non una buona parola per séNé un alto rango per sé;Ha guadagnato la testolinaDue alte colonnine,Una barretta di acero,E anche un lacciolo di seta.

Canzone popolare

Quella notte non dormii e non mi spogliai. Avevo in-tenzione di recarmi all’alba alle porte della fortezza dallequali Mar’ja Ivanovna sarebbe dovuta uscire, e là dirle ad-dio per l’ultima volta. Sentivo in me un grande cambia-mento: l’agitazione della mia anima mi era molto meno pe-nosa della malinconia nella quale ancora poco tempo pri-ma ero sprofondato. Alla tristezza della separazione si uni-vano in me anche confuse ma dolci speranze e l’impazien-te attesa dei pericoli e il sentimento di una nobile ambizio-ne. La notte passò inavvertitamente. Volevo già uscire di ca-sa quando la mia porta si aprì e si presentò da me un ca-porale con la notizia che i nostri cosacchi di notte avevanolasciato la fortezza prendendo con sé a forza Julaj e che in-torno alla fortezza si aggiravano degli sconosciuti. Il pen-siero che Mar’ja Ivanovna non avrebbe fatto in tempo a usci-re mi terrorizzava; diedi velocemente al caporale alcuneistruzioni e mi precipitai dal comandante.

Si faceva ormai giorno. Volavo per strada, quando sen-tii che mi chiamavano. Mi fermai. “Dove va?” disse IvanIgnat’iç, raggiungendomi. “Ivan Kuzmiç è sul bastione e miha mandato a cercarla. È arrivato Pugaç.” “Se n’è andataMar’ja Ivanovna?” chiesi con un tremito al cuore. “Non hafatto in tempo,” rispose Ivan Ignat’iç, “la strada per Oren-burg è interrotta; la fortezza è accerchiata. Andiamo male,Pëtr Andreiç!”

Andammo sul bastione, un’altura naturale fortificata

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con delle travi di legno. Là si ammassavano già tutti gli abi-tanti della fortezza. La guarnigione era in armi. Il cannonel’avevano trasferito lì il giorno prima. Il comandante anda-va avanti e indietro di fronte al suo esiguo schieramento.La vicinanza del pericolo aveva animato il vecchio militaredi uno straordinario vigore. Nella steppa, a poca distanzadalla fortezza, si aggirava una ventina di uomini a cavallo.Sembravano dei cosacchi, ma tra di loro si trovavano an-che dei baschiri, che si potevano facilmente riconoscere daicappelli di lince e dalle faretre. Il comandante faceva il gi-ro del suo esercito dicendo ai soldati: “Be’, bambini, difen-diamo oggi la mammina imperatrice e dimostriamo a tut-to il mondo che siamo gente brava e onorata!”. I soldati ma-nifestarono ad alta voce il loro zelo. ◊vabrin stava accantoa me e guardava fisso i nemici. Gli uomini che si aggirava-no per la steppa, notando dei movimenti nella fortezza, siriunirono in gruppo e si misero a parlare tra loro. Il co-mandante ordinò a Ivan Ignat’iç di dirigere il cannone sulloro gruppo e accostò egli stesso la miccia. La palla fischiòe volò sopra di loro senza fare nessun danno. I cavalieri, di-sperdendosi, sparirono al galoppo e la steppa si vuotò.

Allora apparve sul bastione Vasilisa Egorovna e con leiMa√a, che non aveva voluto separarsi da lei. “Be’,” disse lamoglie del comandante, “come va la battaglia? Dove sarebbeil nemico?” “Il nemico è vicino,” rispose Ivan Kuzmiç. “SeDio vuole, tutto andrà bene. Be’, Ma√a, hai paura?” “No,babbo,” rispose Mar’ja Ivanovna, “a casa da sola è peggio.”Allora gettò uno sguardo su di me e con uno sforzo sorrise.Involontariamente strinsi l’elsa della mia spada, ricordan-do che il giorno prima l’avevo ricevuta dalle sue mani, co-me a difendere la mia amata. Il mio cuore ardeva. Mi im-maginavo di essere il suo cavaliere. Bramavo di dimostra-re che ero degno della sua fiducia, e con impazienza mi mi-si ad aspettare il momento decisivo.

Intanto, da un’altura che si trovava a mezza versta dal-la fortezza, erano sbucate nuove masse a cavallo, e prestola steppa fu popolata da una folla di uomini armati di lan-ce e di archi. Tra di loro su un cavallo bianco c’era un uo-mo con un caffettano rosso e in mano la spada sguainata:era Pugaçëv in persona. Si fermò: lo circondarono, e, eraevidente, per ordine suo quattro uomini si allontanarono ea tutta velocità galopparono fino alla fortezza. Ricono-

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scemmo in loro i nostri traditori. Uno di essi teneva soprail cappello un foglio di carta; un altro teneva sulla lancia latesta di Julaj, che, con uno scrollone, ci gettò attraverso lapalizzata. La testa del povero calmucco cadde ai piedi delcomandante. I traditori gridarono: “Non sparate; uscite in-contro al sovrano. Il sovrano è qui!”.

“Adesso ve lo do io!” gridò Ivan Kuzmiç. “Ragazzi, fuo-co!” I nostri soldati spararono una salva. Il cosacco che ave-va la lettera barcollò e cadde da cavallo; gli altri galoppa-rono indietro. Gettai uno sguardo a Mar’ja Ivanovna. Col-pita dalla vista della testa insanguinata di Julaj, stordita dal-la salva, sembrava senza sensi. Il comandante chiamò uncaporale e gli ordinò di prendere il foglio dalla mano del co-sacco ucciso. Il caporale uscì nel campo e ritornò condu-cendo per le briglie il cavallo dell’ucciso. Consegnò la lette-ra al comandante. Ivan Kuzmiç la lesse tra sé e poi la fecea pezzi. Nel frattempo i rivoltosi si preparavano evidente-mente all’azione. Presto le pallottole cominciarono a fi-schiare intorno alle nostre orecchie, e alcune frecce si infi-larono intorno a noi per terra e sulle travi di legno. “Vasili-sa Egorovna!” disse il comandante, “questa non è una fac-cenda da donne; porta via Ma√a; vedi: la ragazza è più mor-ta che viva.”

Vasilisa Egorovna, resa docile dalle pallottole, gettò unosguardo alla steppa, nella quale c’era un grande movimen-to; poi si voltò verso il marito e gli disse: “Ivan Kuzmiç, lavita e la morte dipendono dalla volontà di Dio: benediciMa√a. Ma√a, avvicinati a tuo padre”.

Ma√a, pallida e tremante, si avvicinò a Ivan Kuzmiç, simise in ginocchio e gli si inchinò fino a terra. Il vecchio co-mandante le fece tre volte il segno della croce; poi la fecealzare e, baciandola, le disse con voce mutata: “Be’, Ma√a,sii felice. Prega Dio: non ti abbandonerà. Se troverai un uo-mo buono, che Dio vi dia amore e accordo. Vivete come ab-biamo vissuto io e Vasilisa Egorovna. Be’, addio Ma√a. Va-silisa Egorovna, portala via, presto” (Ma√a gli si gettò al col-lo e scoppiò in singhiozzi). “Baciamoci anche noi,” disse,scoppiando a piangere, la moglie del comandante. “Addio,mio Ivan Kuzmiç. Perdonami, se qualche volta ti ho fattoarrabbiare.” “Addio, addio mammina!” disse il comandan-te, abbracciando la sua vecchia. “Be’, basta! Andate, anda-te a casa; e se fai in tempo, metti a Ma√a il sarafan.” La mo-

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glie del comandante si allontanò con la figlia. Seguii con losguardo Mar’ja Ivanovna. Lei si girò a guardare e mi feceun segno con la testa. A questo punto Ivan Kuzmiç si voltòverso di noi e tutta la sua attenzione si fissò sui nemici. I ri-voltosi si strinsero intorno al loro capo e d’un tratto co-minciarono a scendere da cavallo. “Adesso tenetevi forte,”disse il comandante, “ci sarà l’assalto...” In quel momentosi sentirono un orribile strillo e delle grida; i rivoltosi cor-revano a piedi verso la fortezza. Il nostro cannone era cari-cato a mitraglia. Il comandante li fece arrivare alla più bre-ve distanza possibile e all’improvviso sparò ancora. La mi-traglia colpì al centro esatto della folla. I rivoltosi si spo-starono da entrambi i lati e indietreggiarono. Il loro caporimase da solo in testa... Agitò la spada e sembrava che cer-casse di persuaderli con calore. Le strilla e le grida, che perun momento avevano taciuto, subito ricominciarono. “Be’,ragazzi,” disse il comandante, “adesso apri la porta e battiil tamburo! Ragazzi, avanti, alla sortita, con me!”

Il comandante, Ivan Ignat’iç e io in un attimo eravamooltre il bastione della fortezza; ma la guarnigione intimori-ta non si era mossa. “Cosa state fermi, bambini?” gridò IvanKuzmiç, “se c’è da morire moriamo: siamo soldati!” In quelmomento i rivoltosi erano arrivati fino a noi e irrupperonella fortezza. Il tamburo tacque; la guarnigione gettò i fu-cili; mi spinsero a terra, ma mi rialzai ed entrai con i rivol-tosi nella fortezza. Il comandante, ferito alla testa, era inpiedi tra un mucchio di delinquenti che gli chiedevano lechiavi. Io stavo per gettarmi in suo aiuto; alcuni cosacchirobusti mi presero e mi legarono con delle cinture, dicen-do: “Adesso vi danno quel che vi meritate, disubbidienti alsovrano!”. Ci trascinarono per le strade; gli abitanti usciva-no dalle case con il pane e il sale. Echeggiò il suono dellecampane. All’improvviso nella folla gridarono che il sovra-no aspettava in piazza i prigionieri e riceveva il giuramen-to. La folla si riversò in piazza; spinsero là anche noi.

Pugaçëv sedeva in poltrona sul terrazzino d’ingresso del-la casa del comandante. Aveva un rosso caffettano cosaccocon i galloni cuciti. Un alto cappello di zibellino con nappedorate era calcato sui suoi occhi scintillanti. Il suo viso misembrò conosciuto. I capi cosacchi lo circondavano. PadreGerasim, pallido e tremante, stava sul terrazzino con unacroce in mano e sembrava che lo supplicasse in silenzio per

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le vittime imminenti. Sulla piazza alzarono in fretta unaforca. Quando ci avvicinammo, i baschiri dispersero la fol-la e ci presentarono a Pugaçëv. Il suono delle campane tac-que; si fece un profondo silenzio. “Qual è il comandante?”chiese l’impostore. Il nostro sottufficiale uscì dalla folla eindicò Ivan Kuzmiç. Pugaçëv guardò minacciosamente ilvecchio e gli chiese: “Come hai osato opporti a me, il tuosovrano?”. Il comandante, sfinito dalla ferita, raccolse le ul-time forze e rispose con voce ferma: “Tu a me non mi seisovrano, tu sei un ladro e un impostore, hai capito?”. Pu-gaçëv si accigliò cupamente e sventolò un fazzoletto bian-co. Alcuni cosacchi afferrarono il vecchio capitano e lo tra-sportarono fino alla forca. Sulla traversa stava a cavallo ilbaschiro che avevamo interrogato alla vigilia. Teneva in ma-no la corda e un istante dopo vidi il povero Ivan Kuzmiç ap-peso all’aria. Allora fu portato da Pugaçëv Ivan Ignat’iç. “Pre-sta giuramento,” gli disse Pugaçëv, “al sovrano Pëtr Feodo-roviç!” “Tu a noi non sei sovrano,” rispose Ivan Ignat’iç, ri-petendo le parole del suo capitano, “tu, zietto, sei un ladroe un impostore!” Pugaçëv scosse ancora il fazzoletto e ilbuon tenente si librò in aria accanto al suo vecchio capo.

La fila era arrivata a me. Guardai coraggiosamente Pu-gaçëv preparandomi a ripetere la risposta dei miei genero-si compagni. Allora, con mio indescrivibile stupore, vidi trai capi dei rivoltosi ◊vabrin, coi capelli tagliati in tondo e uncaffettano cosacco. Si avvicinò a Pugaçëv e gli disse nell’o-recchio alcune parole. “Appenderlo!” disse Pugaçëv senzaguardarmi. Mi gettarono al collo un cappio. Cominciai a re-citare tra me una preghiera, recando a Dio un sincero pen-timento di tutti i miei peccati e pregandolo per la salvezzadi tutti coloro che erano vicini al mio cuore. Mi trascina-rono sotto la forca. “Non aver paura, non aver paura,” miripetevano i miei carnefici, desiderando forse davvero far-mi coraggio. All’improvviso sentii un grido: “Fermi, male-detti, aspettate!”. I boia si fermarono. Guardai: Savel’iç gia-ceva ai piedi di Pugaçëv. “Padre mio!” diceva il povero ser-vo, “cosa ti viene dalla morte di un signorino? Lascialo li-bero; ti daranno un riscatto; e come esempio e per far pau-ra ordina di appendere piuttosto me che son vecchio!” Pu-gaçëv fece un segno e mi slegarono e liberarono subito. “Ilnostro babbino ti risparmia,” mi dissero. In quel momentonon posso dire che mi rallegrai della mia salvezza, non dirò

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tuttavia che me ne dispiacqui. I miei sentimenti erano trop-po confusi. Mi portarono ancora dall’impostore e mi mise-ro davanti a lui in ginocchio. Pugaçëv mi tese la sua manofitta di vene. “Bacia la mano, bacia la mano!” si diceva in-torno a me. Ma io avrei preferito la pena più atroce a que-sta vile umiliazione. “Babbino Pëtr Andreiç!” sussurrò Sa-vel’iç che stava dietro di me e mi spingeva, “non ostinarti!Cosa ti costa? Sputaci su e bacia il malf... (bah!) baciagli lamano.” Non mi muovevo. Pugaçëv abbassò la mano dicen-do con un sogghigno: “Sua signoria, si vede, è inebetito perla gioia. Alzatelo!”. Mi alzarono e mi lasciarono libero. Mimisi a guardare il seguito dell’orribile commedia.

Gli abitanti cominciarono a prestare giuramento. Si av-vicinavano uno dopo l’altro, baciando il crocifisso e poi in-chinandosi all’impostore. I soldati della guarnigione eranolì anche loro. Il sarto della compagnia, armato delle sue for-bici arrotondate, tagliava loro le trecce. Essi, scuotendose-ne i resti, si avvicinavano alla mano di Pugaçëv che comu-nicava loro il perdono e li prendeva nella sua banda. Tuttociò durò circa tre ore. Alla fine Pugaçëv si alzò dalla pol-trona e se ne andò dal terrazzino in compagnia dei suoi ca-pi. Gli portarono il cavallo bianco, adornato di ricche bar-dature. Due cosacchi lo presero sottobraccio e lo misero asedere sulla sella. Egli comunicò a padre Gerasim che avreb-be pranzato da lui. In quel momento si sentì un grido fem-minile. Alcuni briganti trascinavano sul terrazzino VasilisaEgorovna, scarmigliata e completamente nuda. Uno di es-si aveva fatto già in tempo a indossare il suo corpetto. Altriportavano dei materassi di piume, dei bauli, tazze da tè,biancheria e ogni ciarpame. “Babbini miei!” gridava la po-vera vecchia, “lasciatemi andare in pace. Padri miei, porta-temi da Ivan Kuzmiç.” All’improvviso guardò la forca e ri-conobbe suo marito. “Scellerati!” gridò con frenesia, “checosa gli avete fatto? Luce mia, Ivan Kuzmiç, valorosa te-stolina di soldato! Non ti hanno toccato né le baionette prus-siane, né i proiettili turchi; non in una battaglia leale hai sa-crificato la vita, ma ti ha fatto sparire un ergastolano eva-so!” “Fermare la vecchia strega!” disse Pugaçëv. Allora ungiovane cosacco la colpì con la spada sulla testa e lei caddemorta sui gradini del terrazzino. Pugaçëv se ne andò; la fol-la si gettò dietro di lui.

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Capitolo VIII

L’ospite non invitato

L’ospite non invitato è peggio del tar-taro.Proverbio

La piazza si era vuotata. Io stavo sempre nello stessoposto e non potevo mettere ordine nei pensieri confusi daimpressioni tanto orribili.

Il fatto di non conoscere il destino di Mar’ja Ivanovnapiù di tutto mi faceva soffrire. Dov’era? Cosa le era succes-so? Aveva fatto in tempo a nascondersi? Era sicuro il suorifugio? Colmo di pensieri inquietanti entrai nella casa delcomandante... Era deserta; le sedie, i tavoli, i bauli eranofracassati; le stoviglie rotte; tutto saccheggiato. Corsi su perla piccola scala che portava alla camera e per la prima vol-ta in vita mia entrai nella stanza di Mar’ja Ivanovna. Vidi ilsuo letto, rivoltato dai banditi; l’armadio era stato sfonda-to e saccheggiato; il lume bruciava ancora davanti a una ve-trinetta di icone svuotata. Era rimasto intatto anche unospecchietto appeso al muro... Dove era la padrona di que-sta umile cella da ragazza? Un pensiero orribile mi balenònel cervello: la immaginai nelle mani dei banditi... Mi sistrinse il cuore... Amaramente, amaramente piansi e pro-nunciai ad alta voce il nome della mia amata... In quel mo-mento sentii un rumore leggero e da dietro l’armadio ap-parve Pala√ka, pallida e tremante.

“Ah, Pëtr Andreiç!” disse unendo le mani, “che giorna-ta! Che paura!”

“E Mar’ja Ivanovna?” chiesi impaziente, “dov’è Mar’jaIvanovna?”

“La signorina è viva,” rispose Pala√ka, “si è nascosta daAkulina Pamfilovna.”

“Dalla moglie del pope!” gridai con orrore. “Dio mio! Làc’è Pugaçëv!”

Mi gettai fuori dalla stanza, in un attimo mi trovai per

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strada e mi misi a correre precipitosamente a casa del sa-cerdote, senza vedere né sentire niente. Da là echeggiava-no grida, risa e canzoni... Pugaçëv festeggiava con i suoicompagni. Pala√ka corse là anche lei dietro di me. La man-dai di nascosto a chiamare Akulina Pamfilovna. Un minu-to dopo la moglie del pope mi venne incontro nell’antipor-ta con una bottiglia vuota in mano.

“Per l’amor di Dio, dov’è Mar’ja Ivanovna?” chiesi conun’agitazione che non si può dire.

“Riposa, la mia colombella, nel mio letto, là dietro il tra-mezzo,” rispose la moglie del pope. “Be’, Pëtr Andreiç, perpoco non è successo un guaio, ma, grazie a Dio, tutto è an-dato bene; i malfattori si erano appena seduti a tavola chelei, la mia poverina, riprende i sensi e si mette a gemere. Misi è gelato il sangue. Lui ha sentito. ‘Chi è che si lamenta,vecchia?’ Mi inchino al ladro: ‘Mia nipote, sire: si è amma-lata, sta a letto, è già la seconda settimana’. ‘E è giovane tuanipote?’ ‘È giovane, sire.’ ‘Mostramela un po’, vecchia,tua nipote.’ Mi si strinse il cuore, ma non c’era niente da fa-re. ‘Prego sire; solo, la ragazza non può alzarsi e venire dal-la tua grazia.’ ‘Non fa niente, vecchia, vado io e guardo.’ Ecosì il maledetto è andato fino al tramezzo; cosa pensi! hascostato la tendina, ha guardato con i suoi occhi di spar-viero, e niente. Dio ci ha salvati! E, credici o no, io e il miobabbino eravamo già pronti a una morte da martiri.

“Per fortuna lei, la mia colombella, non l’ha riconosciuto.Signore benedetto, che bella festa! Niente da dire. PoveroIvan Kuzmiç! Chi l’avrebbe detto! E Vasilisa Egorovna, poi?E Ivan Ignat’iç, poi? E lui perché? E com’è che a lei l’han-no risparmiata? E ◊vabrin, Aleksej Ivanyç, che tipo. Si è to-sato in tondo e adesso è da noi che festeggia con loro! È sta-to svelto, niente da dire. E quando ho detto della nipote ma-lata, allora lui, credici o no, mi ha guardato in un modo, co-me se mi attraversasse con un coltello; però non mi ha tra-dita, va ringraziato almeno per questo.” In quel momentoecheggiarono le grida ubriache degli ospiti e la voce di pa-dre Gerasim. Gli ospiti chiedevano vino, il padrone di casachiamava la sua sposa. La moglie del pope si scosse. “Vadaa casa, Pëtr Andreiç,” disse, “adesso non è tempo per lei;quei malfattori fan bisboccia. È un guaio, se cade loro inmano quando sono ubriachi. Addio, Pëtr Andreiç. Sarà quelche sarà; forse Dio non ci abbandonerà.”

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La moglie del pope se ne andò. Un po’ più tranquillo, miincamminai verso il mio appartamento. Passando per la piaz-za vidi alcuni baschiri che si affollavano intorno alla forca esfilavano gli stivali agli impiccati; a fatica trattenni lo slan-cio di indignazione, sentendo l’inutilità dell’intervento. Per lafortezza correvano i banditi, saccheggiando le case degli uf-ficiali. Ovunque echeggiavano grida di rivoltosi ubriachi. Ar-rivai a casa. Savel’iç mi venne incontro sulla soglia. “Graziea Dio!” disse vedendomi. “Pensavo che i malfattori ti avesse-ro preso ancora. Be’, babbino Pëtr Andreiç, ci credi? hannorubato tutto, i truffatori: i vestiti, la biancheria, le cose, le sto-viglie, non hanno lasciato niente. Che roba! Grazie a Dio tihan lasciato vivo! E l’hai riconosciuto, signore, l’ataman?”

“No, non l’ho riconosciuto: chi è?”“Come, babbino? Hai dimenticato quell’ubriacone che

ti ha carpito la pelliccia nel cortile della trattoria? Una pel-liccetta di lepre nuova nuova; ma lui, bestia, subito l’hastrappata, mettendosela.”

Ero sbalordito. Effettivamente la somiglianza tra Pu-gaçëv e la mia guida era strabiliante. Mi convinsi chePugaçëv e lui erano la stessa persona, e capii allora la ra-gione della grazia concessami. Non potei non meravigliar-mi dello strano concatenamento delle circostanze: una pel-liccia da fanciullo regalata a un vagabondo mi aveva salva-to dalla forca, e un ubriacone che girovagava per le locan-de assaltava le fortezze e metteva in agitazione il governo.

“Non vorresti mangiare?” chiese Savel’iç, immutato nel-le sue abitudini. “A casa non c’è niente; vado a cercare e tipreparo qualcosa.”

Rimasto solo, mi sprofondai nelle meditazioni. Cosa do-vevo fare? Rimanere nella fortezza sotto il potere dei mal-fattori o seguire la loro banda non era cosa decente per unufficiale. Il dovere richiedeva che io fossi là dove il mio ser-vizio avrebbe ancora potuto essere utile alla patria, nelle pre-senti difficili circostanze. Ma l’amore consigliava fortemen-te di restare vicino a Mar’ja Ivanovna e di essere il suo di-fensore e protettore. Benché prevedessi anche un rapido ecerto cambiamento delle circostanze, tuttavia non potevo nontremare figurandomi la pericolosità della sua situazione.

Le mie meditazioni furono interrotte dall’arrivo di uno deicosacchi che correva con l’avviso che “il grande sovrano ti vuo-le da sé”. “E dove?” chiesi io, preparandomi a ubbidire.

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“A casa del comandante,” rispose il cosacco. “Dopo pran-zo il babbino nostro ha fatto il bagno e adesso si riposa. Ma,sua eccellenza, da tutto si vede che persona illustre è: a pran-zo si è permesso di mangiare due porcellini arrosto, e il ba-gno lo fa tanto caldo che anche Taras Kuroçkin non ha re-sistito, ha dato le frasche a Fomka Bikbaev e a stento si èripreso nell’acqua fredda. Niente da dire: tutte azioni cosìsolenni. E nel bagno, ho sentito, ha fatto vedere i segni suoiimperiali sopra al petto: da una parte l’aquila a due teste,grande come una moneta da cinque copeche, e dall’altra luiin persona.”

Non considerai necessario contestare le opinioni del co-sacco e con lui mi diressi verso la casa del comandante, fi-gurandomi in anticipo l’incontro con Pugaçëv e sforzando-mi di prevedere come sarebbe finito. Il lettore può facil-mente immaginare che non ero per niente sereno.

Cominciava a far scuro, quando arrivai a casa del co-mandante. La forca con le sue vittime nereggiava spaven-tosa. Il corpo della povera moglie del comandante giacevaancora sotto il terrazzino sul quale due cosacchi stavano diguardia. Il cosacco che mi conduceva andò ad annunciar-mi e, tornato subito indietro, mi portò nella stanza dove ilgiorno prima ci eravamo detti addio così teneramente conMar’ja Ivanovna.

Un quadro straordinario mi si presentò: al tavolo, co-perto da una tovaglia e fisso di bottiglie e di bicchieri, se-devano Pugaçëv e una decina di capi cosacchi con cappellie camicie colorate, accalorati dal vino, con le facce rosse egli occhi scintillanti. Tra di loro non c’erano né ◊vabrin néil nostro sottufficiale, reclute traditrici. “Ah, sua eccellen-za!” disse Pugaçëv vedendomi. “Ben trovato; le si renda ono-re e le si faccia posto, prego.” Gli interlocutori si strinsero.Io sedetti in silenzio al limitare del tavolo. Il mio vicino, ungiovane cosacco slanciato e bello, mi riempì un bicchieredi semplice vino, che non toccai. Con curiosità mi misi aosservare la riunione. Pugaçëv sedeva a capotavola, appog-giato al tavolo e con la barba nera stretta nel largo pugno.I tratti del suo viso, regolari e abbastanza piacevoli, non ave-vano niente di feroce. Si rivolgeva spesso a un uomo sui cin-quant’anni, chiamandolo ora conte, ora Timofeiç, e a voltedicendogli zietto. Tutti si comportavano l’uno con l’altro co-me compagni e non mostravano nessuna particolare prefe-

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renza per il proprio capo. La conversazione si sviluppavasull’assalto mattutino, sul successo della rivolta e sulle azio-ni future. Ciascuno mentiva, diceva il proprio parere e con-traddiceva liberamente Pugaçëv. E in quello stesso stranoconsiglio di guerra si decise di marciare su Orenburg: mo-vimento audace, e che per poco non fu coronato da un di-sastroso successo. La marcia fu fissata per il giorno suc-cessivo. “Be’, fratellini,” disse Pugaçëv, “intoniamo prima didormire la mia canzone preferita. Çumakov! Comincia!” Ilmio vicino intonò con voce sottile una malinconica canzo-ne da bardotto.86 E tutti risposero in coro:

Non far rumore, madre verde boschiva,Non impedire al mio bel pensiero di pensare.Che domani il mio bel pensiero viene interrogatoA un terribile giudizio, dello stesso zar.Comincerà il sovrano zar a interrogare:Dimmi, ragazzo figlio di contadini,Come e con chi hai rubato, con chi hai fatto il bandito,Ce n’erano molti insieme a te di tuoi compagni?Ti dirò, mio zar, speranza dell’ortodossia,Tutta la verità io ti dirò, tutta la realtà,Che i compagni miei erano quattro.E il primo mio compagno era la notte nera,E il secondo mio compagno un coltello di acciaio

damaschino,E come terzo compagno, il mio buon cavallo,E il quarto mio compagno un arco teso,Che gli emissari miei eran le frecce arroventate.Che dirà, la speranza dell’ortodossia, lo zar:Evviva te, ragazzo figlio di contadini,Che sei stato capace di rubare, e capace di rispondere!E io per questo, ragazzo, ti regaloTra i campi un gran palazzo altoChe son due pali con una traversa.

Non si può raccontare l’effetto che produsse su di mequesta semplice canzone popolare sulla forca cantata dagente destinata alla forca. I loro volti terribili, le voci ar-

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86 Addetto al traino delle imbarcazioni lungo i fiumi per mezzo di unafune passata intorno al petto.

moniose, l’espressione malinconica che davano a parolegià di per sé espressive, tutto mi emozionò col suo poeticoorrore.

Gli ospiti bevvero ancora un bicchiere, si alzarono e sa-lutarono Pugaçëv. Io avrei voluto seguirli, ma Pugaçëv midisse: “Siedi; ti voglio parlare”. Restammo a tu per tu.

Il nostro reciproco silenzio durò qualche minuto. Pu-gaçëv mi guardava fisso, di tanto in tanto socchiudendo l’oc-chio sinistro con una sorprendente espressione di furberiae canzonatura. Alla fine scoppiò a ridere, e con un’allegriatalmente sincera, che anch’io, guardandolo, cominciai a ri-dere senza sapere io stesso di cosa.

“Be’, vostra eccellenza?” mi disse. “Hai avuto paura, con-fessa, quando i miei bravi ti han messo la corda al collo?Spero che tu abbia visto tutte le stelle del firmamento... Esaresti dondolato dalla traversa, se non fosse stato per il tuoservo. Ho riconosciuto subito il vecchio brontolone. Be’,avresti mai pensato, vostra eccellenza, che l’uomo che ti ave-va portato alla locanda era il grande sovrano in persona?”(Qui prese un aspetto importante e misterioso.) “Tu di fron-te a me hai molte colpe,” continuò, “ma io ti ho graziato perla tua virtù, per il fatto che mi hai reso un servizio quandoavevo necessità di nascondermi dai miei nemici. Ma vedraidell’altro! Ti farò ben altri doni, quando riceverò il mio re-gno! Prometti di servirmi con zelo?”

La domanda del truffatore e la sua audacia mi sembra-rono tanto divertenti, che non potei non scoppiare a ridere.

“Perché ridi?” mi chiese accigliandosi. “O non credi chesono il grande sovrano? Rispondi bene.”

Mi confusi: di riconoscere quel vagabondo come so-vrano, non ero in grado; mi sarebbe sembrato il segno diuna imperdonabile pochezza d’animo. Dirgli in faccia cheera un imbroglione significava votarsi al martirio; e ciò acui ero pronto sotto la forca di fronte a tutto il popolo e nelprimo ardore dello sdegno adesso mi sembrava una inuti-le presunzione. Tentennavo. Pugaçëv aspettava cupo la miarisposta. Alla fine (ancora oggi con compiacimento ricor-do quel momento) il senso del dovere ebbe la meglio in mesulla debolezza umana. Risposi a Pugaçëv: “Ascolta: ti diròtutta la verità. Giudica tu: posso riconoscere in te il sovra-no? Sei un uomo intelligente, vedresti tu per primo che fac-cio il furbo”.

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“Chi sono allora, a tuo parere?”“Dio ti conosce; ma, chiunque tu sia, giochi un gioco pe-

ricoloso.”Pugaçëv mi gettò un rapido sguardo. “Così tu non cre-

di,” disse, “che io sia il sovrano Pëtr Fëdoroviç? Be’, va be-ne. Forse che la fortuna non aiuta gli audaci? Forse che nel-l’antichità Gri√ka Otrep’ev87 non ha regnato? Pensa di mequello che vuoi, ma da me non andar via. Che t’importa delresto? A tutti i preti si dice Padre. Servimi con lealtà e be-ne, e io ti farò feldmaresciallo e principe. Cosa ne dici?”

“No,” risposi con fermezza, “io sono nobile di nascita;ho giurato fedeltà alla sovrana imperatrice: servirti io nonposso. Se davvero desideri il mio bene, lasciami andare aOrenburg.”

Pugaçëv rifletté. “Ma se ti lascio andare,” disse, “mi pro-metti almeno di non combattere contro di me?”

“Come posso promettertelo?” risposi. “Lo sai anche tu,non è la mia volontà: ordinano di andar contro di te, io va-do, non c’è niente da fare. Tu stesso adesso sei un capo; tustesso chiedi obbedienza ai tuoi. Che cosa farei se mi rifiu-tassi al servizio quando del mio servizio ci fosse bisogno?La mia testa è in tuo potere; lasciami andare: grazie; casti-gami: Dio ti giudicherà; ti ho detto la verità.”

La mia sincerità colpì Pugaçëv. “È così,” mi disse dan-domi un colpo sulla spalla, “se dev’essere un castigo, sia uncastigo, se dev’essere una grazia, sia una grazia. Va’ dovecredi e fa’ quello che vuoi. Domani vieni a salutarmi, e ades-so va’ a dormire, anch’io casco dal sonno.”

Lasciai Pugaçëv e uscii per strada. La notte era tran-quilla e gelida. La luna e le stelle brillavano chiare, illumi-nando la piazza e la forca. Nella fortezza tutto era tranquilloe scuro. Solo nell’osteria brillava il fuoco e si diffondevanole grida degli sfaccendati ritardatari. Guardai la casa del sa-cerdote. Le imposte e la porta erano chiuse. Sembrava chetutto in essa fosse tranquillo.

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87 Grigorij Otrep’ev pare fosse un monaco legato alla famiglia dei Ro-manov. Fuggito in Polonia dopo la morte del principe Demetrio (forse as-sassinato per ordine del reggente Boris Godunov nel 1591), Otrep’ev cercòdi farsi passare per Demetrio e, d’accordo con Sigismondo re di Polonia,nel 1604 mosse verso Mosca. Incoronato zar il 20 luglio 1605, fu rove-sciato e ucciso il 17 maggio 1606. Dopo di lui comparvero almeno altridue falsi Demetri.

Arrivai nel mio appartamento e trovai Savel’iç in penaper la mia assenza.

La notizia della mia libertà lo rallegrò indicibilmente.“Gloria a te, signore!” disse facendosi il segno della croce.“Appena fa chiaro lasciamo la fortezza e andiamo il più lon-tano possibile. Ti ho preparato qualcosa: mangia, babbino,e dormi fino al mattino, come un re.”

Seguii il suo consiglio e, dopo aver mangiato con gran-de appetito, mi addormentai sulla nuda terra, stanco spiri-tualmente e fisicamente.

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Capitolo IX

La separazione

Dolce è stato incontrarsiPer me, bellissima, con te,Triste, triste è lasciarsi,Come abbandonare l’anima.CHERASKOV88

Al mattino presto mi svegliò il tamburo. Andai al luogodell’adunata. Là, già si schierava il popolo di Pugaçëv, vici-no alla forca, dove ancora pendevano le vittime del giornoprima. I cosacchi erano a cavallo, i soldati col fucile. Le ban-diere sventolavano. Alcuni cannoni, tra i quali riconobbi ilnostro, erano posti su degli affusti da marcia. Tutti gli abi-tanti si trovavano là in attesa dell’impostore. Sul terrazzi-no della casa del comandante un cosacco teneva per le bri-glie un bellissimo cavallo bianco di razza chirghisa. Cercaicon gli occhi il corpo della moglie del comandante. Era sta-to spostato un po’ da una parte e coperto da una stuoia ditiglio. Alla fine Pugaçëv uscì dall’antiporta. La folla si tolseil cappello. Pugaçëv si fermò sul terrazzino e salutò tutti.Uno dei capi cosacchi gli diede un sacchetto con delle mo-nete di rame, ed egli cominciò a lanciarne a manciate. Lafolla con delle grida si gettò a raccoglierle, e la cosa si fecenon senza traumi fisici. Pugaçëv era attorniato dai suoi prin-cipali complici. Tra loro c’era anche ◊vabrin. I nostri sguar-di si incontrarono; nel mio egli poté leggere il disprezzo, esi voltò con un’espressione di sincera cattiveria e di fintacanzonatura. Pugaçëv, vedendomi tra la folla, mi fece un se-gno con la testa e mi chiamo a sé. “Ascolta,” mi disse, “vat-tene adesso a Orenburg e annuncia da parte mia al gover-natore e a tutti i generali che mi aspettino da loro tra unasettimana. Consiglia loro di accogliermi con amore filialee ubbidienza; altrimenti non sfuggiranno a una terribile pu-nizione. Buon viaggio, vostra eccellenza!” Poi si rivolse al-

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88 Versi tratti dalla poesia Il distacco di Michail Matveeviç Cheraskov(1733-1807).

la folla e disse, indicando ◊vabrin: “Eccovi, bambini, il nuo-vo comandante: ubbiditegli in tutto, e lui mi risponderà divoi e della fortezza”. Ascoltai con orrore quelle parole: ◊va-brin era fatto comandante della fortezza; Mar’ja Ivanovnarestava in suo potere. Dio mio, cosa sarebbe stato di lei! Pu-gaçëv scese dal terrazzino. Gli portarono il cavallo. Salì agil-mente in sella senza aspettare i cosacchi che avrebbero vo-luto aiutarlo.

In quel momento dalla folla del popolo uscì il mio Sa-vel’iç, si avvicinò a Pugaçëv e gli diede un foglio di carta.Non avrei saputo dire cosa ne sarebbe potuto venir fuori.“Che cos’è?” chiese Pugaçëv con aria d’importanza. “Leggi,degnati di guardare,” rispose Savel’iç. Pugaçëv prese il fo-glio e lo osservò a lungo espressivamente. “Perché scrivi co-sì difficile?” disse infine. “I nostri occhi chiari non possonodecifrare niente. Dov’è il mio ober-segretario?”

Un ragazzino in divisa da caporale corse agilmente fi-no a Pugaçëv. “Leggi a alta voce,” gli disse l’impostore dan-dogli il foglio. Io ero straordinariamente curioso di saperecosa si era messo in testa di scrivere a Pugaçëv il mio pre-cettore. L’ober-segretario ad alta voce si mise a sillabarequanto segue:

“Due vesti da camera, di calicò e di seta a strisce, seirubli”.

“Cosa significa?” chiese Pugaçëv accigliandosi.“Ordina di continuare a leggere,” rispose tranquilla-

mente Savel’iç.L’ober-segretario continuò.“Una uniforme di fine panno verde sette rubli.Braghe bianche di panno cinque rubli.Dodici camicie di tela d’Olanda con polsini dieci rubli.Teiera con stoviglie da tè due rubli e cinquanta cope-

che...”“Che balle sono?” interruppe Pugaçëv. “Cosa mi inte-

ressa delle teiere e delle braghe coi polsini?”Savel’iç sbuffò e si mise a spiegare.“Questo, babbino, degnati di vedere, è il registro dei be-

ni signorili, rubati dai malfattori...”“Quali malfattori?” chiese minaccioso Pugaçëv.“Chiedo scusa, ho detto male,” rispose Savel’iç. “Mal-

fattori non sono malfattori, ma i tuoi ragazzi hanno fruga-to dappertutto e hanno rubato tutto. Non ti arrabbiare: an-

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che il cavallo ha quattro zampe, e inciampa. Ordina di leg-gere fino alla fine.”

“Leggi fino alla fine,” disse Pugaçëv. Il segretario conti-nuò.

“Una coperta di indiana, un’altra di taffettà in cotonequattro rubli.

Una pelliccia di volpe, foderata di rovescio scarlatto,quaranta rubli.

Ancora un pellicciotto di lepre, conferito alla tua grazianel cortile di una locanda, quindici rubli.”

“Cos’altro è questo!” gridò Pugaçëv mandando un’oc-chiata di fuoco.

Confesso di essermi spaventato per il mio povero pre-cettore. Avrebbe voluto diffondersi ancora in spiegazioni,ma Pugaçëv lo interruppe: “Come hai osato molestarmi conqueste sciocchezze?” gridò strappando il foglio dalle manidel segretario e gettandolo in faccia a Savel’iç. “Stupido vec-chio! Li hanno rubati, e che male c’è? Tu devi invece, vec-chio brontolone, pregare eternamente Dio per me e per imiei ragazzi per il fatto che tu e il tuo padrone lì non pen-zolate qui insieme a chi mi ha disubbidito... Un pellicciot-to di lepre! Te lo do io il pellicciotto di lepre! Lo sai o no cheio ordino di scorticarti vivo per farlo con la tua pelle, unpellicciotto?”

“Come vuoi,” rispose Savel’iç, “ma io non sono un uo-mo libero e dei beni padronali devo rispondere.”

Pugaçëv era, evidentemente, disposto alla magnani-mità. Si voltò e se ne andò senza più dire una parola. ◊va-brin e i capi cosacchi lo seguirono. La banda uscì dallafortezza in ordine. Il popolo andò a salutare Pugaçëv. Iorimasi nella piazza da solo con Savel’iç. Il mio precettoreteneva in mano il suo registro e lo guardava con aria digran rincrescimento.

Vedendo il mio buon accordo con Pugaçëv, aveva pen-sato di usarlo a suo vantaggio; ma il suo saggio propositonon gli era riuscito. Mi stavo per mettere a sgridarlo per ilsuo zelo inopportuno ma non potei trattenere il riso. “Ridi,signore,” rispose Savel’iç, “ridi; ma quando dovremo rifor-nirci di tutto di nuovo, allora vedremo se ci sarà da ridere.”

Mi affrettai alla casa del prete per vedere Mar’ja Iva-novna. La moglie del pope mi accolse con una notizia tri-ste. Di notte a Mar’ja Ivanovna era venuta una forte febbre.

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Giaceva senza conoscenza e delirava. La moglie del popemi condusse nella sua camera. Mi avvicinai piano al suo let-to. Il cambiamento nel suo volto mi colpì. La malata nonmi riconobbe. Stetti a lungo di fronte a lei, senza sentire népadre Gerasim né la sua buona moglie i quali, sembra, miconsolavano. Cupi pensieri mi agitavano. Le condizioni del-la povera, indifesa orfana, abbandonata in mezzo ai crude-li rivoltosi, la mia personale impotenza, mi terrorizzavano.◊vabrin, ◊vabrin più di ogni cosa tormentava la mia im-maginazione. Investito del potere dall’impostore, dirigen-do la fortezza nella quale sarebbe rimasta l’infelice ragaz-za, incolpevole oggetto del suo odio, poteva risolversi a tut-to. Cosa potevo fare? Come aiutarla? Come liberarla dallemani del malfattore? Restava un mezzo: decisi di andaresubito a Orenburg per affrettare la liberazione della fortez-za di Belogorsk e se possibile per parteciparvi. Salutai il pre-te e Akulina Pamfilovna, raccomandandole con calore quel-la che già consideravo mia moglie. Presi la mano della po-vera ragazza e la baciai inondandola di lacrime. “Addio,”mi disse la moglie del pope accompagnandomi, “addio,Pëtr Andreiç. Forse ci vedremo in momenti migliori. Nonci dimentichi e ci scriva spesso. Povera Mar’ja Ivanovna; aparte lei, non ha adesso né consolazione né protettori.”

Uscito sulla piazza, mi fermai per un momento a guar-dare la forca, mi inchinai, uscii dalla fortezza e mi incam-minai per la strada di Orenburg accompagnato da Savel’içche non si staccava da me.

Camminavo occupato dalle mie riflessioni, quando im-provvisamente sentii dietro di me il calpestio di un cavallo.Mi voltai a guardare e vidi: dalla fortezza galoppava un co-sacco che teneva per le briglie un cavallo baschiro e che dalontano mi faceva dei segni. Mi fermai e riconobbi prestoil nostro sottufficiale. Egli, avvicinatosi, scese da cavallo edisse, dandomi le briglie dell’altro. “Sua eccellenza! Il pa-dre nostro vi fa dono del cavallo e della pelliccia dalle suespalle.” (Alla sella era attaccata una pelliccia di pecora.) “Eancora,” aggiunse, impappinandosi, il sottufficiale, “vi fadono... di cinquanta copeche... ma le ho perse per strada:scusate magnanimamente.” Savel’iç lo guardò storto e bron-tolò: “Le ha perse per strada! E cos’è che ti tintinna in grem-bo? Disonesto!”. “Cos’è che mi tintinna in grembo?” replicòil sottufficiale senza confondersi per niente. “Che Dio sia

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con te, vecchietto! È la briglia che tintinna, non cinquantacopeche.” “Va bene,” dissi io interrompendo la discussione.“Ringrazia da parte mia quello che ti ha mandato; e le cin-quanta copeche che hai perso sforzati di raccattarle nel viag-gio di ritorno e tienile come mancia.” “Molto riconoscente,sua eccellenza,” rispose voltando il suo cavallo, “pregheròeternamente Dio per lei.” Con queste parole galoppò indie-tro tenendo una mano in seno e un minuto dopo era scom-parso alla vista.

Indossai la pelliccia e montai in sella facendo sedere die-tro di me Savel’iç. “Ecco vedi, signore,” disse il vecchio, “chenon per niente ho dato la supplica al truffatore: il ladro haavuto vergogna, benché una rozza chirghisa lunga e magrae una pelliccia di pecora non valgano la metà di quello cheloro, truffatori, ci hanno rubato e di quello che tu stesso tisei degnato di donargli; ma va bene lo stesso, da chi non pa-ga si accetta anche il centesimo.”

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Capitolo X

L’assedio della città

Avendo occupato i prati e le montagne,Dall’alto, come aquila, gettavaSopra la città gli sguardi.Oltre l’accampamento aveva ordinatodi costruireUna piazzola per cannoni.E, nascosti in essa i fulmini, la nottedi portarlaDavanti alla città.CHERASKOV89

Avvicinandoci a Orenburg, vedemmo una folla di erga-stolani con le teste rase, i volti mutilati dalle pinze del boia.Lavoravano a delle fortificazioni sotto il controllo degli in-validi della guarnigione. Alcuni trasportavano su dei car-retti la spazzatura che riempiva il fossato; altri con delle pa-le scavavano la terra; nel bastione dei muratori portavanoi mattoni e riparavano le mura della città. Alla porta le sen-tinelle ci fermarono e chiesero i nostri passaporti. Come ilsergente sentì che venivo dalla fortezza di Belogorsk, micondusse direttamente a casa del generale.

Lo trovai in giardino. Stava esaminando i meli, sfron-dati dal respiro dell’autunno, e con l’aiuto di un vecchio giar-diniere li avvolgeva in tiepida paglia. Il suo volto esprime-va tranquillità, salute e bontà d’animo. Si rallegrò di ve-dermi e cominciò a far domande sugli orribili avvenimen-ti dei quali ero stato testimone. Gli dissi tutto. Il vecchio miascoltava con attenzione e intanto tagliava i rami secchi.“Povero Mironov!” disse quando finii il mio triste raccon-to. “Che peccato. Era un buon ufficiale. E madame Miro-nov era un brava signora, e che maestria nel salare i fun-ghi! E che ne è di Ma√a, la figlia del capitano?” Risposi cheera rimasta nella fortezza affidata alla moglie del pope. “Ahi,ahi, ahi!” notò il generale. “Questo è male, molto male. Sul-la disciplina dei banditi non bisogna far conto in alcun mo-do. Che ne sarà di quella povera ragazza?” Risposi che lafortezza di Belogorsk non era lontana e che, probabilmen-

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89 Epigrafe tratta dal poema di M.M. Cheraskov, Russiade (1779).

te, sua eccellenza non avrebbe tardato a mandare l’eserci-to per la liberazione dei suoi poveri abitanti. Il generale don-dolò la testa con aria di sfiducia. “Vedremo, vedremo,” dis-se. “Di questo avremo tempo di parlare ancora. Ti prego divenire a prendere una tazza di tè: oggi ci sarà il consigliodi guerra, da me. Potrai darci delle notizie affidabili su quelfarabutto di Pugaçëv e sul suo esercito. Adesso intanto va’a riposarti.”

Andai nell’appartamento che mi era stato assegnato, do-ve Savel’iç già sfaccendava, e dove mi misi ad aspettare conimpazienza il momento stabilito. Il lettore può facilmenteimmaginare che non mancai di comparire al consiglio chedoveva avere tanta influenza sul mio destino. All’ora stabi-lita ero già dal generale.

Trovai da lui uno dei funzionari cittadini, mi sembra diricordare il direttore delle dogane, un vecchietto grasso erosso con un caffettano di broccato. Si mise a interrogarmisulla sorte di Ivan Kuzmiç, che chiamava compare, e mi in-terrompeva spesso con ulteriori domande e osservazioniedificanti che se non rivelavano in lui l’uomo competentenell’arte militare, per lo meno manifestavano prontezza d’in-gegno e innata intelligenza. Intanto si erano raccolti anchegli altri invitati. Fra di loro, a parte il generale stesso, nonc’era nessun militare. Quando tutti si sedettero e a ciascu-no fu servita una tazza di tè, il generale espose molto chia-ramente e dettagliatamente ciò di cui si trattava. “Adesso,signori,” continuò, “è necessario decidere come agire con-tro i rivoltosi: offensivamente o difensivamente? Ognuno diquesti due modi ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. L’a-ziona offensiva presenta più opportunità per un più rapidosterminio del nemico; l’azione difensiva è più sicura e me-no pericolosa... Così cominciamo a raccogliere i voti se-condo l’ordine stabilito, cioè cominciando dal grado piùbasso. Signor portinsegna,” continuò rivolgendosi a me, “vo-glia spiegarci la sua opinione.”

Mi alzai e, in poche parole, dopo aver descritto Pugaçëve la sua banda, dissi affermativamente che l’impostore nonera in condizioni di resistere contro un esercito regolare.

La mia opinione fu presa dai funzionari con manifestamalevolenza. Vedevano in essa l’avventatezza e l’insolenzadel giovane. Si alzò un mormorio e sentii distintamente laparola “succhialatte”, pronunciata da qualcuno a mezza vo-

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ce. Il generale si volse verso di me e disse con un sorriso:“Signor portinsegna! I primi pareri ai consigli di guerra so-no di solito favorevoli ai movimenti offensivi; questo è nel-l’ordine delle cose. Adesso continuiamo pure la raccolta deivoti. Signor consigliere di collegio, ci dica la sua opinione”.

Il vecchietto con il caffettano di broccato finì di bere infretta la sua terza tazza, significativamente corretta col rum,e rispose al generale: “Io penso, vostra eccellenza, che nonsi debba agire né offensivamente, né difensivamente”.

“Come, signor consigliere di collegio?” ribatté il gene-rale stupito. “Di altre possibilità la tattica non ne prevede:azione difensiva o offensiva...”

“Sua eccellenza, si muova in modo corruttivo.”“Eh, eh, eh, la sua opinione è molto saggia. I movimenti

corruttivi sono ammessi dalla tattica, e useremo il suo con-siglio. Si possono promettere per la testa del farabutto... set-tanta rubli o perfino cento... da una somma segreta...”

“E allora,” lo interruppe il direttore delle dogane, “io so-no un tamburo chirghiso e non un consigliere di collegio sequesti ladri non ci consegneranno il loro ataman legato ma-ni e piedi.”

“Ci penseremo e ne parleremo ancora,” rispose il gene-rale. “Però è necessario in ogni caso prendere anche dellemisure militari. Signori, date le vostre opinioni secondo l’or-dine prestabilito.”

Tutti i pareri risultarono contrari al mio. Tutti i funzio-nari parlarono della scarsa affidabilità delle truppe, del-l’incertezza di un esito favorevole, della prudenza e così via.Tutti sostennero che era più sensato rimanere al riparo daicannoni dietro un solido muro di pietra che sperimentareall’aria aperta la fortuna delle armi. Alla fine il generale,sentiti tutti i pareri, scosse la cenere dalla pipa e pronunciòil seguente discorso:

“Signori miei! Io vi devo annunziare che da parte miasono assolutamente d’accordo con il parere del signor por-tinsegna, dal momento che questo parere è fondato su tut-te le regole di una tattica assennata, che preferisce quasisempre i movimenti offensivi a quelli difensivi”.

Qui si fermò e si mise a riempire la pipa. Il mio amorproprio trionfava. Guardai fieramente i funzionari che par-lavano sottovoce tra di loro con aria di malcontento e di in-quietudine.

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“Ma, signori miei,” continuò, e fece uscire, insieme aun profondo sospiro, un fitto getto di fumo da tabacco,“non oso prendere su di me una così grande responsabi-lità quando si parla della sicurezza della provincia affida-tami da sua altezza imperiale, la mia graziosissima so-vrana. Così, sono d’accordo con la maggioranza dei votiche ha deciso che è più prudente e più sicuro aspettare en-tro la città l’assedio e gli attacchi dell’artiglieria delle for-ze nemiche e (se si dimostrasse possibile) contrattaccarecon delle sortite.”

I funzionari, a loro volta, mi guardarono in modo can-zonatorio. Il consiglio si sciolse. Non potevo non rammari-carmi per la debolezza del venerando militare che, contra-riamente alle sue convinzioni, aveva deciso di seguire i pa-reri di persone incompetenti e inesperte.

Qualche giorno dopo quel famoso consiglio venimmo asapere che Pugaçëv, fedele alla sua promessa, si avvicinavaa Orenburg. Vidi le truppe dei rivoltosi dall’alto delle muracittadine. Mi sembrava che il loro numero si fosse decupli-cato dal momento dell’ultimo attacco del quale ero stato te-stimone. Con loro avevano anche l’artiglieria presa da Pu-gaçëv nelle piccole fortezze che aveva già conquistato. Ri-cordando la decisione del consiglio, previdi una lunga se-gregazione tra le mura di Orenburg e per poco non piansiper la stizza.

Non mi metterò a descrivere l’assedio di Orenburg, cheappartiene alla storia, e non ai ricordi famigliari. Dirò soloche questo assedio, per l’imprudenza delle autorità locali,fu disastroso per gli abitanti, che patirono la fame e ognipossibile calamità. Ci si può facilmente immaginare comela vita a Orenburg fosse assolutamente insopportabile. Tut-ti aspettavano con angoscia la soluzione del proprio desti-no; tutti si lamentavano per il carovita, che era in effetti or-ribile. Gli abitanti si erano abituati alle palle di cannone chevolavano nei loro cortili; perfino gli assalti di Pugaçëv nonrichiamavano più la curiosità degli abitanti. Io morivo dinoia. Il tempo passava. Di lettere dalla fortezza di Belo-gorsk non ne ricevevo. Tutte le strade erano interrotte. Laseparazione da Mar’ja Ivanovna mi divenne insopportabi-le. L’incertezza sul suo destino mi tormentava. L’unico miosvago consisteva nel cavalcare. Per grazia di Pugaçëv avevoun buon cavallo con il quale dividevo lo scarso cibo e sul

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quale ogni giorno uscivo dalla città a spararmi con i caval-lerizzi di Pugaçëv. In queste sparatorie la superiorità era disolito dalla parte dei malfattori, che mangiavano, beveva-no e avevano buoni cavalli. La magra cavalleria cittadinanon poteva avere la meglio. A volte usciva sul campo anchela nostra affamata fanteria: la profondità della neve le im-pediva di agire correttamente contro dei cavalieri sparpa-gliati. L’artiglieria invano tuonava dall’alto dei bastioni, men-tre sul campo si impantanava e non si muoveva a causa del-la spossatezza dei cavalli. Questo era l’aspetto delle nostreazioni militari! Ed ecco quel che i funzionari di Orenburgchiamavano sicurezza e buonsenso!

Una volta che eravamo riusciti a disperdere e a scac-ciare una turba abbastanza folta dal campo, piombai su uncosacco staccatosi dai suoi compagni; ero già pronto a col-pirlo con la mia sciabola turca, quando d’un tratto si tolseil cappello e gridò:

“Buongiorno, Pëtr Andreiç! Come le vanno le cose?”.Lo guardai e riconobbi il nostro sottufficiale. Me ne ral-

legrai in un modo indescrivibile.“Buongiorno, Maksimyç,” gli dissi, “è da molto che man-

chi da Belogorsk?”“Da poco, babbino Pëtr Andreiç; sono tornato solo ieri.

Ho una lettera per lei.”“Dov’è?” esclamai, divampando addirittura.“Ce l’ho qua,” rispose Maksimyç mettendo una mano in

seno. “Ho promesso a Pala√ka di fargliela avere in qualchemodo.” E allora mi diede una carta piegata e subito si al-lontanò al galoppo. La spiegai e lessi con un tremito le ri-ghe seguenti:

“Dio ha voluto privarmi all’improvviso del padre e del-la madre: non ho sulla terra né parenti, né protettori. Ri-corro a lei sapendo che lei mi ha sempre augurato il benee che è pronto ad aiutare ogni essere umano. Prego Dio chequesta lettera arrivi in qualche modo fino a lei! Maksimyçha promesso di fargliela avere. Pala√ka ha sentito anche daMaksimyç che lui la vede spesso da lontano nelle sortite eche lei non ha cura di sé e non pensa a coloro che per leipregano Dio con le lacrime agli occhi. Sono stata a lungomalata; ma quando sono guarita Aleksej Ivanoviç, che co-manda da noi al posto del povero babbino, costrinse padre

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Gerasim a darmi a lui terrorizzandolo con Pugaçëv. Io vi-vo nella nostra casa sotto sorveglianza. Aleksej Ivanoviç micostringe a sposarlo. Dice di avermi salvato la vita perchéha protetto l’inganno di Akulina Pamfilovna, che aveva det-to ai malfattori che ero sua nipote. Ma per me sarebbe sta-to meglio morire, che diventar moglie di un uomo comeAleksej Ivanoviç. Mi tratta molto brutalmente e mi minac-cia, se non mi ricredo e non sono d’accordo, che mi por-terà nell’accampamento del malfattore e con me succederàquello che è successo a Lizaveta Charlova.90 Ho pregatoAleksej Ivanoviç di lasciarmi riflettere. Si è detto d’accor-do ad aspettare ancora tre giorni; ma se entro tre giorninon lo sposo, allora non avrà nessuna pietà. Babbino PëtrAndreiç, solo lei è il mio protettore: mi aiuti, povera chesono. Chieda al generale e a tutti i comandanti di mandarcipresto il soccorso e venga lei stesso, se può. Resto la suafedele e povera schiava

Mar’ja Mironova”

Dopo aver letto questa lettera, quasi impazzii. Mi lan-ciai verso la città spronando senza misericordia il mio po-vero cavallo. Per strada ne inventai di tutti i colori per sal-vare la povera ragazza e non potei trovare niente. Arrivatoin città, mi diressi direttamente dal generale e corsi da luiprecipitosamente.

Il generale andava avanti e indietro per la stanza fu-mando la sua pipa di sepiolite. Vedendomi, si fermò. Pro-babilmente il mio aspetto lo colpì; si informò premurosa-mente sui motivi del mio arrivo frettoloso.

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90 Della Charlova Pu√kin parla nel secondo capitolo del frammentostorico incompiuto Storia della rivolta di Pugaçëv: “Alla fine i ribelli fe-cero irruzione fra le rovine fumanti. I capi furono arrestati. A Bilov fu ta-gliata la testa. A Elagin, uomo obeso, strapparono la pelle; gli assassinigli tolsero il grasso col quale unsero le loro ferite. Fecero poi a pezzi suamoglie. La loro figlia, rimasta alla vigilia vedova di Charlov, fu condottadavanti al vincitore che dirigeva l’esecuzione dei suoi genitori. Pugaçëvfu colpito dalla sua bellezza e prese l’infelice come concubina, grazian-do lei e il suo fratellino di sette anni” (Pu√kin, A., Opere in prosa, cit., vol.II, p. 44). “La Charlova fu poi fucilata insieme col fratellino dai compa-gni di Pugaçëv, gelosi del potere che ella aveva acquistato su di lui” (Pu√kin,A., La figlia del capitano, Torino 1972, p. 104, n. 1).

“Sua eccellenza,” gli dissi, “ricorro a lei come a un pa-dre. Per l’amor di Dio, non rifiuti la mia supplica: si trattadella felicità di tutta la mia vita.”

“E che cos’è, babbino?” chiese il vecchio stupito. “Cosaposso fare per te? Parla.”

“Sua eccellenza, mi ordini di prendere una compagniadi soldati e una cinquantina di cosacchi e mi mandi a libe-rare la fortezza di Belogorsk.”

Il generale mi guardò fisso, supponendo, probabilmen-te, che fossi impazzito (cosa nella quale quasi non si sba-gliava).

“Cosa? Liberare la fortezza di Belogorsk?” disse alla fine.“Le garantisco il successo,” risposi con ardore, “mi fac-

cia solo andare.”“No, giovanotto,” disse dondolando la testa. “A una co-

sì grande distanza sarebbe facile per il nemico interrom-pere le sue comunicazioni con il punto strategico princi-pale e ottenere su di lei una completa vittoria. La comuni-cazione interrotta...”

Mi spaventai, vedendolo sedotto dai ragionamenti mi-litari e mi affrettai a interromperlo.

“La figlia del capitano Mironov,” gli dissi, “mi scrive unalettera: chiede aiuto; ◊vabrin la costringe a sposarlo.”

“Davvero? Oh, quello ◊vabrin è un grandissimo Schelm,91

e se mi capita tra le mani lo faccio giudicare in ventiquat-tr’ore e lo fuciliamo sul parapetto della fortezza! Ma per ilmomento bisogna portare pazienza...”

“Portare pazienza!” esclamai fuori di me. “E nel frat-tempo lui si sposa con Mar’ja Ivanovna!”

“Oh!” ribatté il generale. “Questo non è un gran ma-le: è meglio per lei per ora essere moglie di ◊vabrin: ades-so lui può darle un appoggio; e quando lo fucileremo, al-lora, Dio ci aiuti, le si troveranno anche dei fidanzati. Lebelle vedovelle non rimangono zitelle; cioè, volevo direche una vedovella trova più facilmente marito di una ra-gazza.”

“Preferisco morire,” dissi furibondo, “piuttosto che ce-derla a ◊vabrin.”

“Be’, be’, be’, be’!” disse il vecchio. “Adesso capisco; tu,si vede, sei innamorato di Mar’ja Ivanovna. Oh, allora è

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91 Briccone (tedesco).

un’altra cosa. Ma non posso lo stesso darti una compagniadi soldati e cinquanta cosacchi. Questa spedizione non sa-rebbe prudente; non posso prenderla sotto la mia respon-sabilità.”

Chinai la testa; la disperazione mi pervase. All’improv-viso un’idea mi balenò in mente: in cosa consistesse, il let-tore lo vedrà nel prossimo capitolo, come dicono i vecchiromanzieri.

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Capitolo XI

Il borgo dei rivoltosi

In quel momento il leone era sazio,benché d’indoleFosse crudele.“Perché ti sei degnatodi presentarti nel mio covo?”Chiese carezzevolmente.A. SUMAROKOV92

Lasciai il generale e mi diressi in fretta al mio apparta-mento. Savel’iç mi venne incontro con le sue solite esortazio-ni. “Bel divertimento, signore, fartela con dei banditi ubria-chi! È forse un affare da signori? Non è una bella cosa: chis-sà cosa può venirne fuori. E pazienza se combattessi il turcoo lo svedese, invece è un peccato perfino dire chi combatti.”

Interruppi il suo discorso con una domanda: quanti sol-di avevo in tutto? “Ti basteranno,” rispose con aria soddi-sfatta. “Per quanto quei truffatori abbiano frugato, son riu-scito a nasconderli.” E con queste parole tolse di tasca unlungo borsellino fatto a maglia pieno di monete d’argento.“Be’, Savel’iç,” gli dissi, “dammene adesso la metà: e il re-sto prendilo tu. Io vado alla fortezza di Belogorsk.”

“Babbino Pëtr Andreiç!” disse il buon servo con voce tre-mante. “Abbi timor di Dio; come fai a metterti in viaggio inquesto momento, che non c’è nessuna strada libera dai ban-diti! Abbi pietà almeno dei tuoi genitori, se non hai pietà dite stesso. Dove vuoi andare? Perché? Aspetta un pochino:arriveranno i rinforzi, acciufferanno i truffatori; allora po-trai andare dove vuoi per il vasto mondo.”

Ma il mio proposito era fermo.“È tardi per discutere,” risposi al vecchio. “Devo anda-

re, non posso non andare. Non affliggerti, Savel’iç: Dio è mi-sericordioso; forse ci vedremo ancora! Guarda di non averscrupoli e di non lesinare. Compra quello che ti serve, an-che se costa il triplo del normale. Questi soldi te li regalo.Se fra tre giorni non son tornato...”

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92 L’epigrafe, opera di Pu√kin, è un’imitazione dello stile di AleksandrPetroviç Sumarokov.

“Cosa dici, signore?” mi interruppe Savel’iç. “Come seio ti lasciassi andar da solo. Questo non chiederlo neancheper scherzo. Se tu hai deciso di andare, magari a piedi ven-go con te, non ti abbandono. Come se restassi senza di teseduto sulle mura dei bastioni! Son forse impazzito? Sia co-me vuoi, padrone, ma io non mi allontano da te.”

Sapevo che con Savel’iç non c’era da discutere e gli per-misi di prepararsi per il viaggio. Dopo mezz’ora sedevo sulmio buon cavallo, e Savel’iç su una rozza magra e zoppache gli aveva regalato uno degli abitanti della città non aven-do più mezzi per nutrirla. Arrivammo alle porte della città;le sentinelle ci fecero passare; lasciavamo Orenburg.

Cominciava a imbrunire. La mia strada passava vicinoal borgo di Berdà, rifugio di Pugaçëv. La strada principaleera colma di neve; ma in tutta la steppa si vedevano le trac-ce dei cavalli, rinnovate ogni giorno. Andavo a un trotto so-stenuto. Savel’iç riusciva appena a seguirmi da lontano e migridava continuamente: “Più piano, padrone, per l’amor diDio, più piano. La mia rozza maledetta non ce la fa col tuodiavolo dalle gambe lunghe. Dove corri? Capirei se andas-si a una festa, ma così sotto la scure, guarda un po’. PëtrAndreiç! Non ti rovinare! Signore benedetto, il signorino siva a rovinare!”.

Presto brillarono i fuochi di Berdà. Ci avvicinavamo aiburroni, difese naturali del borgo. Savel’iç non mi si stacca-va e non interrompeva le sue lamentose preghiere. Speravodi accerchiare il borgo senza problemi, quando d’un trattovidi nell’oscurità proprio davanti a me forse cinque conta-dini armati di mazza; erano l’avanguardia delle sentinelledel rifugio di Pugaçëv. Ci chiamarono. Non conoscendo laparola d’ordine, volevo aggirarli in silenzio. Ma mi accer-chiarono subito, e uno di essi afferrò il mio cavallo per le re-dini. Afferrai la sciabola e colpii il contadino in testa; il cap-pello lo salvò, tuttavia barcollò e lasciò andare le redini. Glialtri si confusero e si allontanarono; approfittando di que-sto momento, spronai il cavallo e partii al galoppo.

L’oscurità della notte imminente poteva salvarmi da ognipericolo quando all’improvviso, guardandomi indietro, vidiche Savel’iç non c’era. Il povero vecchio sul suo cavallo zop-po non era potuto scappar dai banditi. Cosa dovevo fare?Dopo averlo aspettato alcuni minuti ed essermi convinto cheera stato catturato, voltai il cavallo e partii in suo aiuto.

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Avvicinandomi a un burrone, sentii da lontano rumori,grida e la voce del mio Savel’iç. Accelerai e presto mi trovaidi nuovo tra i contadini di sentinella che mi avevano fer-mato qualche minuto prima. Savel’iç si trovava tra di loro.Avevano tirato giù il vecchio dalla sua rozza e si prepara-vano a legarlo. La mia presenza li rallegrò. Con delle gridasi gettarono su di me e in un attimo mi tirarono giù dal ca-vallo. Uno di essi, il capo, dall’aspetto, ci annunziò che ades-so ci avrebbe portato dal sovrano. “E il nostro babbino,” ag-giunse, “vorrà ordinare che vi si appenda subito o che siaspetti la luce del sole.” Non mi opposi, Savel’iç seguì il mioesempio e le sentinelle ci portarono via con solennità.

Attraversammo il burrone ed entrammo nel borgo. Intutte le isbe c’erano luci. Rumori e grida echeggiavano ovun-que. Per strada incontrai una quantità di persone, ma nes-suno nell’oscurità riconobbe in me un ufficiale di Orenburg.Ci portarono direttamente a un’isba che stava nell’angolodi un incrocio. Alle porte c’erano alcune botti di vino e duecannoni. “Ecco il palazzo,” disse uno dei contadini, “ades-so facciamo rapporto.” Entrò nell’isba. Gettai uno sguardoa Savel’iç; il vecchio si faceva il segno della croce, dicendotra sé una preghiera. Aspettai a lungo; alla fine il contadi-no tornò e mi disse: “Muoviti: il nostro babbino ha ordina-to di far entrar l’ufficiale”.

Entrai nell’isba, o nel palazzo, come lo chiamavano icontadini. Era illuminata da due candele di sego e le pare-ti erano ricoperte di carta dorata; però le panche, il tavolo,il lavandino appeso a una cordicella, l’asciugamano a unchiodo, il forcone in un angolo e il grande poggiatoio dellastufa pieno di vasi, tutto era come in un’isba normale. Pu-gaçëv sedeva sotto le immagini con un caffettano rosso, unalto cappello e teneva le mani sui fianchi atteggiandosi apersona importante. Intorno a lui stavano alcuni dei suoiprincipali compagni, con un’aria di simulata adulazione. Sivedeva che la notizia dell’arrivo di un ufficiale da Orenburgaveva risvegliato nei rivoltosi una grande curiosità e che sierano preparati a incontrarmi solennemente. Pugaçëv miriconobbe al primo sguardo. La sua finta importanza sparìd’un tratto. “Ah, vostra eccellenza!” disse animatamente.“Come andiamo? Qual buon vento ti porta?” Risposi cheandavo per un affare e che i suoi uomini mi avevano fer-mato. “E per che affare?” mi chiese. Non sapevo cosa ri-

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spondere. Pugaçëv, supponendo che non volessi parlare difronte a testimoni, si rivolse ai suoi compagni e ordinò lo-ro di uscire. Tutti ubbidirono tranne due che non si mos-sero dal loro posto. “Parla tranquillamente di fronte a lo-ro,” mi disse Pugaçëv, “a loro non nascondo niente.” Gettaiuno sguardo di traverso agli amici dell’impostore. Uno diessi, un gracile vecchietto gobbo con una barba grigia nonaveva in sé niente di particolare, a parte i nastri azzurri so-pra le spalle del caffettano grigio. Ma non dimenticherò maiil suo compagno. Era alto di statura, corpulento e con lespalle larghe, e mi sembrò sui cinquant’anni. La fitta bar-ba rossa, i grigi occhi scintillanti, il naso senza narici e unamacchia rossastra sulla fronte e sulle guance davano al suogrande viso butterato un’espressione inspiegabile. Aveva unacamicia rossa, un caffettano chirghiso e dei calzoni da co-sacco. Il primo (come seppi poi dopo) era il caporale di-sertore Beloborodov; il secondo Afanasij Sokolov (sopran-nominato Chiacchiera), criminale deportato, tre volte eva-so dalle miniere siberiane. Nonostante i sentimenti che miagitavano straordinariamente, la società nella quale mi erocosì involontariamente trovato eccitava fortemente la miaimmaginazione. Ma Pugaçëv mi riportò alla realtà con lasua domanda: “Di’, per che affare hai lasciato Orenburg?”.

Una strana idea mi venne in mente; mi sembrava che laprovvidenza che mi conduceva per la seconda volta da Pu-gaçëv mi desse l’opportunità di realizzare i miei propositi.Decisi di approfittarne, e, senza aver avuto il tempo di riflet-tere sulla mia decisione, risposi alla domanda di Pugaçëv:

“Andavo alla fortezza di Belogorsk a salvare un’orfanache viene offesa”.

Gli occhi di Pugaçëv scintillarono. “Chi dei miei uomi-ni osa offendere un’orfana?” gridò. “Avesse una fronte disette spanne, non sfuggirà alla mia condanna. Di’, chi è ilcolpevole?”

“◊vabrin è il colpevole,” risposi. “Tiene prigioniera la ra-gazza che hai visto, malata, dalla moglie del pope, e vuolesposarla con la forza.”

“Gli insegno io a ◊vabrin,” rispose. “Saprà come trattochi fa di testa propria e offende il popolo. Lo faccio im-piccare.”

“Permetti che dica una parola,” disse Chiacchiera convoce roca. “Tu ti sei affrettato a nominare ◊vabrin coman-

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dante della fortezza, e adesso ti affretti a impiccarlo. Haigià offeso i cosacchi, mettendo un nobile a loro capo; nonspaventare anche i nobili, punendoli alla prima calunnia.”

“Non hanno da dispiacersi né da lamentarsi!” disse il vec-chietto con i nastri blu. “Giustiziare ◊vabrin non è un guaio;e non sarebbe male interrogare come si deve anche il signorufficiale; perché si è degnato di lamentarsi? Se non ti rico-nosce come sovrano, allora non c’è nemmeno da cercar giu-stizia da te, e se ti riconosce perché fino a oggi stava a Oren-burg con i tuoi avversari? Perché non ordini di portarlo alcomando e di accendere un fuocherello: mi sembra che suagrazia l’hanno mandato i comandanti di Orenburg.”

La logica del vecchio malfattore mi sembrò abbastanzaconvincente. Il gelo mi corse per il corpo al pensiero delle ma-ni nelle quali mi trovavo. Pugaçëv notò il mio imbarazzo. “Eh,vostra eccellenza?” mi disse strizzando l’occhio. “Il mio feld-maresciallo, sembra, ha detto una cosa. Cosa ne pensi?”

Lo scherzo di Pugaçëv mi restituì vigore. Risposi tran-quillamente che mi trovavo in suo potere e che lui era libe-ro di agire con me come gli pareva.

“Bene,” disse Pugaçëv. “Adesso dicci in che condizioniè la vostra città.”

“Grazie a Dio,” risposi, “va tutto ottimamente.”“Ottimamente?” ripeté Pugaçëv. “Ma se la gente muore

di fame!”L’impostore diceva la verità; ma io per debito di giura-

mento mi misi a convincerlo che questi erano voci infon-date e che a Orenburg c’erano scorte sufficienti di tutto.

“Vedi,” ne approfittò il vecchietto, “che te la fa sotto ilnaso? Tutti i fuggitivi testimoniano concordemente che aOrenburg c’è la fame e la moria, che là mangiano i morti, equando va bene; sua grazia, invece, assicura che c’è l’ab-bondanza. Se vuoi impiccare ◊vabrin, allora alla stessa for-ca attacca anche questo bel giovane, perché nessuno se laprenda a male.”

Le parole del maledetto vecchio sembrarono suscitaredei dubbi in Pugaçëv. Per fortuna, Chiacchiera si mise a con-traddire il suo compagno.

“Basta, Naumyç,” gli disse. “Tu saresti sempre a stroz-zare, a sgozzare. Che bogatyr93 sei? A guardarti, reggi l’ani-

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93 Eroe dell’epos russo dotato di forza eccezionale; maciste, ercole, fusto.

ma con i denti. Sei con un piede nella fossa, e vuoi am-mazzarne ancora. Non hai forse abbastanza sangue sullacoscienza?”

“E tu che damerino sei?” ribatté Beloborodov. “Da do-ve t’è venuta la compassione?”

“Sicuramente,” rispose Chiacchiera, “ho i miei peccatianch’io, e questa mano,” (e qui strinse il suo pugno ossutoe, rimboccando la manica, scoprì un braccio peloso) “que-sta mano è colpevole di aver versato sangue cristiano. Ma ioho distrutto i nemici, non gli ospiti; a un pubblico incrocio,o in un bosco buio, non a casa, seduti sulla stufa; con la maz-za ferrata e con la scure, e non con calunnie da donne.”

Il vecchio si voltò e brontolò le parole: “Narici strap-pate!”...

“Che cosa bisbigli, vecchio brontolone?” gridò Chiac-chiera. “Te le do io le narici strappate: aspetta, verrà ancheil tuo tempo; se Dio vuole, annuserai anche tu le pinze... Eintanto sta’ attento che non ti strappi la barbetta.”

“Signori enarali!” esclamò con solennità Pugaçëv. “Ba-sta litigare. Non sarebbe un guaio se tutti i cani di Oren-burg scuotessero le gambe sotto la stessa traversa: il guaioè se i nostri cani si azzannano fra loro. Su, fate la pace.”

Chiacchiera e Beloborodov non dissero una parola e siguardarono l’un l’altro con aria cupa. Vidi che era necessa-rio cambiare un discorso che poteva finire per me in modomolto svantaggioso e, rivolgendomi a Pugaçëv, gli dissi conaria allegra: “Ah, mi ero scordato di ringraziarti per il ca-vallo e la pelliccia. Senza di te non sarei arrivato in città esarei gelato per strada”.

Il trucco mi riuscì. Pugaçëv si rallegrò. “Son belli i de-biti, quando vengono pagati,” disse ammiccando e striz-zando l’occhio. “Dimmi adesso, che t’importa di quella ra-gazza che ◊vabrin offende? Non è la passione del cuore diquesto bel ragazzo? Eh?”

“È la mia fidanzata,” dissi a Pugaçëv vedendo il favore-vole cambiamento del tempo e non trovando necessario na-scondere la verità.

“La tua fidanzata!” gridò Pugaçëv. “Perché non l’hai det-to prima? Adesso ti sposiamo e festeggiamo il tuo matri-monio!” Poi, rivolgendosi a Beloborodov: “Ascolta, feldma-resciallo! Io e vostra signoria siamo vecchi amici; sediamocie ceniamo; al mattino si è più saggi che alla sera. Domanivedremo cosa fare di lui”.

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Sarei stato felice di rifiutare l’onore offertomi, ma nonc’era niente da fare. Due giovani cosacche, figlie del padro-ne dell’isba, coprirono il tavolo con una tovaglia bianca, por-tarono il pane, la zuppa di pesce e alcune bottiglie di vinoe di birra e io per la seconda volta mi trovai alla stessa men-sa di Pugaçëv e dei suoi orribili compagni.

L’orgia della quale fui involontario testimone durò finoa tarda notte. Alla fine l’ubriachezza cominciò a vincere gliinterlocutori. Pugaçëv si era assopito seduto al suo posto; isuoi compagni si alzarono e mi fecero segno di lasciarlo.Uscii con loro. Per ordine di Chiacchiera, le sentinelle micondussero nell’isba del comando dove trovai anche Savel’içe dove mi lasciarono con lui sotto chiave. Il mio precettoreera così stupefatto alla vista di tutto quello che era succes-so, che non mi fece nessuna domanda. Si stese nell’oscuritàe a lungo sospirò e si lamentò: alla fine si mise a russare,mentre io mi abbandonavo a riflessioni che per tutta la not-te non mi lasciarono assopire nemmeno un minuto.

Al mattino mi vennero a chiamare a nome di Pugaçëv.Andai da lui. All’ingresso stava una carrozza con attaccatauna trojka di cavalli tartari. La folla si ammassava nella stra-da. Nell’antiporta incontrai Pugaçëv; era vestito da viaggio,in pelliccia e con un cappello chirghiso. Gli interlocutori delgiorno prima lo circondavano, e avevano preso un aspettoadulatorio che contraddiceva fortemente tutto ciò di cui erostato testimone alla vigilia. Pugaçëv mi salutò allegramen-te e mi ordinò di sedere con lui in carrozza.

Ci sedemmo. “Alla fortezza di Belogorsk!” disse Pugaçëval tartaro dalle larghe spalle che in piedi guidava la trojka.Il cuore mi batteva forte. I cavalli cominciarono a muover-si, la campanella cominciò a tintinnare, la carrozza si mi-se a volare...

“Ferma! Ferma!” echeggiò una voce a me fin troppo no-ta, e vidi Savel’iç che ci correva dietro. Pugaçëv ordinò difermare. “Babbino Pëtr Andreiç,” gridò il precettore, “nonabbandonarmi già vecchio in mezzo a questi truff...” “Ah,vecchio brontolone!” gli disse Pugaçëv. “Chi non muore sirivede. Be’, siedi in serpa.”

“Grazie, sire, grazie, padre mio!” disse Savel’iç seden-dosi. “Che il Signore ti dia cento anni di salute per aver ospi-tato e tranquillizzato me, un vecchio. Pregherò sempre Dioper te, e del pellicciotto di lepre non ne parliamo neanche.”

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Questo pellicciotto di lepre alla fine avrebbe potuto fararrabbiare sul serio Pugaçëv. Per fortuna l’impostore o nonaveva sentito, o aveva trascurato l’allusione inopportuna. Icavalli partirono al galoppo; la folla per strada si fermava esi inchinava fino a terra. Pugaçëv scuoteva il capo da tuttie due i lati. In un minuto eravamo usciti dal borgo e corre-vamo per la strada piana.

È facile immaginarsi quel che pensavo in quel momen-to. Qualche ora più tardi avrei dovuto rivedere colei che cre-devo per me già perduta. Mi figuravo ogni attimo del no-stro ricongiungimento... Pensavo anche all’uomo nelle ma-ni del quale si trovava il mio destino e che per una stranacombinazione delle circostanze era misteriosamente lega-to a me. Mi ricordai della sconsiderata crudeltà, delle san-guinose abitudini di colui che si offriva come liberatore delmio amore! Pugaçëv non sapeva che era la figlia del capi-tano Mironov; l’incattivito ◊vabrin poteva rivelargli tutto;Pugaçëv avrebbe potuto conoscere la verità anche in un al-tro modo... Allora cosa sarebbe successo a Mar’ja Ivanov-na? Dei brividi mi corsero per il corpo, e i capelli mi si driz-zarono sulla testa...

All’improvviso Pugaçëv interruppe le mie riflessioni, ri-volgendosi a me con la domanda:

“Come mai, vostra eccellenza, ti sei degnato di farti pen-sieroso?”.

“Come non essere pensieroso?” gli risposi. “Sono un uf-ficiale e un nobile; ancora ieri mi battevo contro di te, e og-gi viaggio con te nella stessa carrozza, e la felicità della miavita dipende da te.”

“Be’,” chiese Pugaçëv, “non ti va bene?”Gli risposi che essendo stato già una volta graziato da

lui, speravo non solo nella sua misericordia, ma anche nelsuo aiuto.

“E fai bene, lo sa Dio che fai bene!” rispose l’impostore.“Tu hai visto che i miei ragazzi ti guardavan di traverso; eil vecchio anche oggi insisteva sul fatto che sei una spiae che bisogna torturarti e impiccarti; ma io non ero d’ac-cordo,” aggiunse abbassando la voce perché Savel’iç e il tar-taro non potessero sentirlo, “ricordando il tuo bicchiere divino e la pelliccia di lepre. Vedi che non sono ancora cosìassetato di sangue come i tuoi fratelli dicono io sia.”

Mi venne in mente la presa della fortezza di Belogorsk;

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ma non considerai necessario contraddirlo, e non risposiaffatto.

“Cosa dicono di me a Orenburg?” chiese Pugaçëv dopoaver taciuto per un po’.

“Mah, dicono che ridurti alla ragione è difficilino. Nien-te da dire: ti sei fatto conoscere.”

Il volto dell’impostore si atteggiò ad amor proprio sod-disfatto.

“Sì,” disse con aria allegra, “combatto come si deve. San-no da voi a Orenburg della battaglia di Juzeeva? Quarantaenarali uccisi, quattro armate prese prigioniere. Cosa pen-si: il re di Prussia94 può vedersela con me?”

La presunzione del malfattore mi parve divertente.“Tu cosa pensi?” gli chiesi. “Lo domeresti, Federico?”“Fëdor Fëdoroviç? E come no. I vostri enarali li ho ben

domati: e loro a lui l’han picchiato. Fino ad ora le mie ar-mi son state fortunate. Dammi tempo, ci sarà dell’altro,quando marcerò su Mosca.”

“Ti proponi di marciare su Mosca?”L’impostore rifletté un po’ e disse a mezza voce:“Lo sa Dio. La mia strada è stretta. Di libertà ne ho po-

ca. I miei ragazzi fan di testa propria. Son ladro. Devo te-ner le orecchie aperte; al primo insuccesso, redimeranno ilproprio collo con la mia testa”.

“Be’, be’,” dissi a Pugaçëv, “non è meglio staccarti da lo-ro tu stesso, in anticipo, e rivolgerti alla clemenza della so-vrana?”

Pugaçëv rise amaramente.“No,” rispose, “è tardi per pentirsi. Per me non ci sarà

perdono. Continuerò come ho cominciato. Chi lo sa? For-se mi riuscirà. Gri√ka Otrep’ev ha pur regnato su Mosca.”

“Ma sai come è finito? L’hanno buttato da una finestra,fatto a pezzi, bruciato, han caricato con la sua cenere uncannone e hanno sparato.”

“Ascolta,” disse Pugaçëv con una certa selvaggia ispira-zione, “ti racconterò una favola che da bambino mi ha rac-contato una vecchia calmucca. Una volta un’aquila ha chie-sto al corvo: di’, uccello, corvo, perché vivi nel chiaro mon-do tu trecento anni, e io in tutto di anni trenta e tre? Per-ché, babbino, le rispose il corvo, tu bevi sangue vivo, e io

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94 Federico II (1712-1786).

mangio cadaveri. L’aquila pensò: proviamo un po’ anche noia mangiar così. Bene. Volavano l’aquila e il corvo. Ecco chevedono un cavallo morto, scendono e si posano. Il corvo co-mincia a beccare e a lodare il cibo. L’aquila beccò una vol-ta, beccò un’altra, scosse le ali e disse al corvo: no, fratellocorvo; perché trecento anni nutrirsi di carogne? meglio unavolta bere sangue vivo, e poi come Dio vuole. Come ti sem-bra la fiaba calmucca?”

“È bizzarra,” gli risposi. “Ma vivere di uccisioni e di bri-gantaggi significa per me mangiar cadaveri.”

Pugaçëv mi guardò con stupore e non rispose niente.Entrambi tacevamo, ciascuno sprofondato nei propri pen-sieri. Il tartaro tirava per le lunghe una canzone malinco-nica; Savel’iç, sonnecchiando, dondolava in serpa. La car-rozza volava sul piano cammino invernale... D’un tratto vi-di un piccolo villaggio sulla ripida riva dello Jaìk con la pa-lizzata e il campanile e un quarto d’ora dopo entravamo nel-la fortezza di Belogorsk.

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Capitolo XII

L’orfana

Come i nostri i meli,Non han cima, néPollone;Come le nostre le principesse,Non han padre né hanno madre.Non le ha fatte nessuno.Non le ha benedette nessuno.Canzone nuziale

La carrozza si avvicinò al terrazzino d’ingresso della ca-sa del comandante. La gente riconobbe il campanello di Pu-gaçëv e a frotte corse verso di noi. ◊vabrin venne incontroall’impostore sul terrazzino. Era vestito da cosacco e si erafatto crescere la barba. Il traditore aiutò Pugaçëv a scende-re dalla carrozza, manifestando con espressioni vili la suagioia e il suo zelo. Vedendomi, si confuse; ma subito si cor-resse, mi tese la mano dicendo: “Anche tu sei dei nostri?Era ora!”. Gli girai le spalle e non risposi niente.

Il mio cuore cominciò a far male quando ci trovammonella stanza da tempo conosciuta, dove era affisso ancoraalla parete il diploma del povero comandante, come tristeepitaffio del tempo passato. Pugaçëv sedette sullo stesso di-vano sul quale, succedeva, Ivan Kuzmiç sonnecchiava, cul-lato dal brontolio della sua consorte. Lo stesso ◊vabrin gliservì la vodka. Pugaçëv bevve un bicchierino e gli disse, in-dicandomi: “Offrine anche a sua eccellenza”. ◊vabrin mi siavvicinò con il suo vassoio. Ma io per la seconda volta gligirai le spalle. Sembrava non fosse neanche lui. Con la suaabituale prontezza d’ingegno aveva capito che Pugaçëv nonera contento di lui. Ne aveva paura, e a me guardava condiffidenza. Pugaçëv si informò sulle condizioni della for-tezza, sulle voci a proposito dell’esercito nemico eccetera,e d’un tratto gli chiese inaspettatamente:

“Di’, fratellino, che ragazza tieni da te agli arresti? Fam-mela vedere”.

◊vabrin diventò pallido come un morto.“Signore,” disse con voce tremante, “signore, non è agli

arresti... è malata... giace nella sua stanza.”“Portami da lei,” disse l’impostore alzandosi dal suo po-

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sto. Rifiutarsi era impossibile. ◊vabrin condusse Pugaçëvalla stanza di Mar’ja Ivanovna. Io li seguivo.

◊vabrin si fermò sulla scala.“Signore!” disse, “lei ha il potere di chiedermi quello che

desidera; ma non ordini a un estraneo di entrare nella stan-za della mia sposa.”

Ribollii.“Così sei sposato!” dissi a ◊vabrin pronto a sbranarlo.“Piano,” disse Pugaçëv interrompendomi. “Questo è af-

far mio. E tu,” continuò rivolgendosi a ◊vabrin, “non fareil furbo e non far l’asino; tua moglie o non tua moglie, por-to da lei chi voglio. Vostra eccellenza, vieni con me.”

Alla porta della stanza ◊vabrin di nuovo si fermò e dis-se con voce rotta:

“Signore, la avverto che ha il delirium tremens e che datre giorni vaneggia senza sosta”.

“Apri!” disse Pugaçëv.◊vabrin si mise a cercare nelle tasche e disse che non

aveva preso la chiave con sé. Pugaçëv diede un calcio allaporta; la serratura saltò; la porta si aprì e noi entrammo.

Guardai e mi si gelò il sangue. Per terra, con un vestitostracciato da contadina stava Mar’ja Ivanovna, pallida, ma-gra, con i capelli arruffati. Di fronte a lei c’era una broccad’acqua coperta da una fetta di pane. Vedendomi, sobbalzòe si mise a gridare. Cosa mi successe in quel momento: nonricordo.

Pugaçëv guardò ◊vabrin e disse con un sogghigno amaro:“Bell’ospedale, hai”. Poi, avvicinatosi a Mar’ja Ivanov-

na: “Dimmi, colombella, perché tuo marito ti punisce? Incosa hai mancato verso di lui?”.

“Mio marito!” ripeté lei. “Non è mio marito. Non saròmai sua moglie. Ho deciso piuttosto di morire, e morirò, senon mi liberano.”

Pugaçëv gettò su ◊vabrin uno sguardo minaccioso.“E tu hai osato ingannarmi!” gli disse. “Sai, farabutto,

cosa ti meriti?”◊vabrin cadde in ginocchio... In quel momento il di-

sprezzo soffocò in me i sentimenti dell’odio e dell’ira. Conribrezzo guardavo un nobile che si rotolava ai piedi di unevaso cosacco. Pugaçëv si ammorbidì.

“Ti grazio per questa volta,” disse a ◊vabrin, “ma sappiche alla prima colpa ti verrà ricordata anche questa.”

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Poi si rivolse a Mar’ja Ivanovna e le disse, carezzevol-mente:

“Esci, bella ragazza; ti dono la libertà. Io sono il so-vrano”.

Mar’ja Ivanovna gli gettò un rapido sguardo e indovinòche di fronte a lei stava l’assassino dei suoi genitori. Si co-prì il volto con entrambe le mani e cadde priva di sensi. Migettai su di lei; ma in quell’istante molto coraggiosamentepenetrò nella stanza la mia vecchia conoscente Pala√ka ecominciò a prendersi cura della sua signorina. Pugaçëv uscìdalla camera e noi tre scendemmo in salotto.

“Be’, vostra eccellenza?” disse, ridendo, Pugaçëv. “Ab-biamo dato una mano a una bella ragazza! Cosa ne pensi,chiamiamo il pope e lo obblighiamo a sposare la nipote? Iosarò un testimone, ◊vabrin l’altro; gozzovigliamo, beviamoe la porta poi chiudiamo.”

Quello che temevo successe: ◊vabrin, sentendo la pro-posta di Pugaçëv, perse la testa.

“Signore!” gridò frenetico, “io ho colpa, io le ho mentito;ma anche Grinëv la imbroglia. Questa ragazza non è la ni-pote del nostro pope: è la figlia di Ivan Mironov, che è statogiustiziato al momento della conquista di questa fortezza.”

Pugaçëv puntò su di me i suoi occhi di fuoco.“Cos’altro è questo?” mi chiese perplesso.“◊vabrin ti ha detto la verità,” risposi con fermezza.“Tu questo non me l’avevi detto,” disse Pugaçëv, il cui

volto si stava facendo scuro.“Giudica tu stesso,” gli risposi, “se avrei potuto dichia-

rare davanti ai tuoi uomini che la figlia di Mironov era vi-va. L’avrebbero straziata essi stessi. Niente l’avrebbe potu-ta salvare.”

“Anche questo è vero,” disse, ridendo, Pugaçëv. “I mieiubriaconi non avrebbero risparmiato la povera ragazza. Hafatto bene la comare, la moglie del prete, a imbrogliarli.”

“Ascolta,” continuai, vedendo la sua buona disposizio-ne. “Come chiamarti non lo so e non lo voglio sapere... MaDio sa che sarei contento di pagare con la mia vita quelloche hai fatto per me. Solo non chiedere ciò che va contro ilmio onore e la mia coscienza cristiana. Tu sei il mio bene-fattore. Finisci come hai cominciato: lasciami andare conla povera orfana, dove Dio ci vorrà portare. E noi, dovun-que tu sia e qualsiasi cosa ti succeda, ogni giorno preghe-remo Dio per la salvezza della tua anima di peccatore.”

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Sembra che la severa anima di Pugaçëv fosse toccata.“Sia come vuoi tu. Se dev’essere un castigo, sia un castigo,se dev’essere una grazia, sia una grazia: questi sono i mieicostumi. Prendi la tua bella: portala dove vuoi, e Dio vi diaamore e consiglio!”

Qui si voltò verso ◊vabrin e ordinò di darmi un lascia-passare per tutti i posti di blocco e le fortezze che dipende-vano da lui. ◊vabrin, completamente abbattuto, rimase distucco. Pugaçëv andò a ispezionare la fortezza. ◊vabrin loaccompagnò; io invece rimasi con la scusa dei preparativiper la partenza.

Corsi in camera. Le porte erano chiuse. Bussai. “Chi è?”chiese Pala√ka. Dissi il mio nome. La cara vocetta di Mar’jaIvanovna risuonò da dietro la porta. “Aspetti, Pëtr Andreiç.Mi vesto. Vada da Akulina Pamfilovna. Tra poco sarò là.”

Ubbidii e andai a casa di padre Gerasim. E lui e sua mo-glie mi corsero incontro. Savel’iç li aveva già avvertiti. “Buon-giorno, Pëtr Andreiç,” disse la moglie del pope. “Dio ha vo-luto che ci vedessimo ancora. Come va? Noi tutti i giorniabbiamo pregato per lei. E Mar’ja Ivanovna lì è stata mol-to male, senza di lei, la mia colombella! Ma dica, padre mio,com’è che si è accordato con Pugaçëv? Com’è che non havoluto farla fuori? Be’, grazie al malfattore almeno di que-sto.” “Basta, vecchia,” la interruppe padre Gerasim, “nonspiattellare tutto quello che sai. Non c’è saggezza in moltoparlare. Babbino Pëtr Andreiç! Entri, faccia la grazia. Datanto, da tanto non ci vediamo.”

La moglie del pope si mise a offrirmi quello che c’era incasa. E nel frattempo parlava senza sosta. Mi raccontò inche modo ◊vabrin li avesse costretti a consegnargli Mar’jaIvanovna: come Mar’ja Ivanovna piangesse e non volesse la-sciarli; come Mar’ja Ivanovna avesse con lei rapporti fre-quenti attraverso Pala√ka (ragazza in gamba, che faceva quelche voleva anche del sottufficiale); come ella avesse consi-gliato a Mar’ja Ivanovna di scrivermi una lettera e così via.Io, a mia volta, raccontai in breve la mia storia. Il pope e lamoglie del pope si fecero il segno della croce sentendo chePugaçëv era al corrente del loro inganno. “Che Dio ci pro-tegga!” disse Akulina Pamfilovna. “Che Dio scacci la nuvo-la. Ah, Aleksej Ivanoviç; non c’è niente da dire: è un bel fur-bacchione!” In quel momento si aprì la porta e Mar’ja Iva-novna entrò con un sorriso sul pallido viso. Aveva abban-

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donato il suo abito da contadina ed era vestita come primain modo semplice e grazioso.

Le presi la mano e a lungo non potei proferire parola.Tacevamo entrambi per la pienezza del cuore. I nostri ospi-ti si accorsero che avevamo altro da pensare che a loro e cilasciarono. Restammo soli. Tutto era dimenticato. Parlava-mo e non ci stancavamo di parlare. Mar’ja Ivanovna mi rac-contava tutto quello che le era successo a partire dalla pre-sa della fortezza; mi descriveva tutto l’orrore della sua con-dizione, tutte le prove a cui l’aveva sottoposta il disgustoso◊vabrin. Ricordammo anche i precedenti momenti felici...Piangemmo entrambi... Alla fine mi misi a spiegarle le mieintenzioni. Lasciarla nella fortezza dominata da Pugaçëv ediretta da ◊vabrin non era possibile. Non si poteva nem-meno pensare a Orenburg, che stava patendo tutte le cala-mità di un assedio. Lei non aveva al mondo nemmeno unparente. Le proposi di andare al villaggio dai miei genitori.All’inizio titubò: la nota ostilità di mio padre la spaventava.La calmai. Sapevo che mio padre avrebbe considerato unafortuna e si sarebbe fatto un dovere di accogliere la figlia diun emerito militare morto per la patria. “Cara Mar’ja Iva-novna!” dissi alla fine, “io ti considero mia moglie. Circo-stanze stupefacenti ci hanno unito in modo indissolubile;niente al mondo ci può separare.” Mar’ja Ivanovna miascoltò semplicemente, senza finta timidezza, senza stra-vaganti pretesti. Sentiva che il suo destino era unito al mio.Ma ripeté che non sarebbe stata mia moglie senza il con-senso dei miei genitori. Non la contraddissi. Ci baciammoappassionatamente, sinceramente, e in questo modo tuttotra di noi fu deciso.

Un’ora dopo il sottufficiale mi portò il lasciapassare fir-mato con le zampe di gallina di Pugaçëv e mi chiamò da luida parte sua. Lo trovai pronto a mettersi in viaggio. Nonposso descrivere quel che provai, lasciando questo uomoorribile, questo tiranno, questo scellerato per tutti tranneche per me solo. Perché non dire la verità? In quel momentouna forte simpatia mi attirava verso di lui. Ardentementedesideravo strapparlo al gruppo dei malfattori che guidavae salvare la sua testa, finché si era in tempo. ◊vabrin e lagente che si affollava intorno a lui mi impedirono di diretutto ciò che riempiva il mio cuore.

Ci lasciammo amichevolmente. Pugaçëv, vedendo nella

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folla Akulina Pamfilovna, la minacciò con un dito e am-miccò significativamente; poi sedette in carrozza, ordinò diandare a Berdà e quando i cavalli si mossero, ancora unavolta si sporse dalla carrozza e mi gridò: “Addio, vostra ec-cellenza! Forse ci rivedremo da qualche parte”. Ci rive-demmo davvero, ma in che circostanze!

Pugaçëv se ne andò. A lungo guardai la nuda steppa perla quale correva la sua trojka. La folla si disperse. ◊vabrin sieclissò. Ritornai a casa del prete. Tutto era pronto per la no-stra partenza; non volevo indugiare oltre. Tutti i nostri benifurono messi sul vecchio carro del comandante. Il posti-glione in un attimo attaccò i cavalli. Mar’ja Ivanovna andòa dire addio alle tombe dei suoi genitori, sepolti dietro lachiesa. Volevo accompagnarla, ma mi pregò di lasciarla so-la. Dopo qualche minuto tornò piangendo in silenzio som-messe lacrime. Il carro era pronto. Padre Gerasim e la mo-glie uscirono sul terrazzino. Sedemmo in tre sulla carrozza:Mar’ja Ivanovna, Pala√ka e io. Savel’iç si arrampicò in ser-pa. “Addio, Mar’ja Ivanovna, colombella mia, addio. AddioPëtr Andreiç, nostro falchetto chiaro, addio!” disse la buonamoglie del pope. “Buon viaggio, e che Dio vi benedica tuttie due!” Partimmo. Alla finestrella della casa del comandan-te vidi in piedi ◊vabrin. Il suo viso esprimeva un cupo ran-core. Non volevo trionfare su un nemico umiliato e diressilo sguardo in un’altra direzione. Alla fine uscimmo dalle por-te della fortezza e lasciammo per sempre la fortezza di Be-logorsk.

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Capitolo XIII

L’arresto

Non s’adiri, sire:il mio dover m’imponedi mandarla,ora, in prigione.– Faccia, son pronto;ma voglio sperareche mi permetterà,prima, di spiegare.KNJAΩNIN95

Riunito così improvvisamente con la cara ragazza per laquale solo il giorno prima ero così preoccupato, non crede-vo ai miei occhi e immaginavo che tutto quello che mi stavasuccedendo fosse semplicemente un sogno. Mar’ja Ivanov-na guardava pensosa ora me ora la strada e sembrava nonfosse ancora riuscita a riaversi e a tornare in sé. Tacevamo.I nostri cuori erano troppo affaticati. In modo inavvertibiledue ore dopo ci venimmo a trovare nella fortezza più vicina,anch’essa soggetta a Pugaçëv. Lì cambiammo i cavalli. Per lavelocità con la quale li attaccarono, per la premura servizie-vole del cosacco barbuto messo come comandante da Pu-gaçëv, vidi che, grazie alla loquacità del postiglione che ciaveva portati, mi prendevano per un favorito di corte.

Proseguimmo oltre. Cominciava a imbrunire. Ci avvi-cinammo a una cittadella dove, stando al comandante bar-buto, si trovava un forte distaccamento che marciava perunirsi all’impostore. Fummo fermati da delle sentinelle. Al-la domanda: “Chi va là?”, il postiglione rispose a voce alta:“Il compare dell’imperatore con la sua padroncina”. D’untratto una folla di ussari ci accerchiò con orribili bestem-mie. “Vieni giù, compare del diavolo!” mi disse un mare-sciallo baffuto. “Adesso te lo facciam noi il bagno, e anchealla tua padroncina.”

Scesi dalla carrozza e chiesi che mi portassero dal lorocomandante. Vedendo un ufficiale, i soldati smisero di be-stemmiare. Il maresciallo mi portò dal maggiore. Savel’iç

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95 L’epigrafe, opera di Pu√kin, è un’imitazione dello stile di Jakov Bo-risoviç KnjaΩnin.

non si staccava da me e diceva tra sé: “Te lo do io il com-pare del sovrano! Dalla padella nella brace... Signore bene-detto! Quand’è che finirà questa cosa?”. La carrozza ci se-guiva al passo.

Cinque minuti dopo arrivavamo a una casetta vivida-mente illuminata. Il maresciallo mi lasciò sotto sorveglian-za e andò a fare rapporto. Tornò subito avvisandomi chesua eccellenza illustrissima non aveva tempo di ricevermie che aveva ordinato di condurmi in carcere e la padronci-na di condurla da lui.

“Cosa significa?” gridai fuori di me. “È forse impazzito?”“Non posso saperlo, sua eccellenza,” rispose il mare-

sciallo. “Solo, sua eccellenza illustrissima ha ordinato di por-tare sua eccellenza in carcere, e sua eccellenza ha ordinatodi portarla da sua eccellenza illustrissima, sua eccellenza.”

Mi gettai sul terrazzino. Le sentinelle non avevano pen-sato di tenermi stretto, e io entrai di corsa nella stanza do-ve sei ufficiali dei cosacchi giocavano a faraone. Il maggio-re teneva banco. Quale fu il mio stupore, quando, guarda-tolo, riconobbi Ivan Ivanoviç Zurin, che una volta mi ave-va vinto al gioco nella trattoria di Simbirsk!

“È possibile?” esclamai. “Ivan Ivanyç! Sei tu?”“Be’, be’, be’, Pëtr Andreiç! Come va? Da dove vieni? Sa-

lute, fratello. Non vuoi fare una puntatina?”“Ti ringrazio. Ordina piuttosto che mi diano un appar-

tamento.”“Ma che appartamento? Resta da me.”“Non posso: non sono solo.”“Be’, fa’ venire qua anche il tuo compagno.”“Non sono con un compagno. Sono con... una signora.”“Con una signora? E dove l’hai agganciata? Eh, fratel-

lo!” (Dopo queste parole Zurin fischiò in modo così espres-sivo, che tutti scoppiarono a ridere, mentre io mi confusicompletamente.)

“Be’,” continuò Zurin, “va bene. Ti darò un apparta-mento. Ma è un peccato... Avremmo festeggiato all’antica...Eh, caro mio! Ma perché non portano qua la comare di Pu-gaçëv? O si è incaponita? Dirle, perché non abbia paura: ilsignore è magnifico; non ti farà nessun male, e darle unabella botta.”

“Ma cosa dici?” dissi a Zurin. “Che comare di Pugaçëv?È la figlia del povero capitano Mironov. L’ho tratta dalla pri-gionia e l’accompagno al villaggio paterno, dove la lascerò.”

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“Come! Allora sei tu quello su cui mi hanno fatto rap-porto. Scusa! Che cosa significa?”

“Dopo ti racconto tutto. Ma adesso, per l’amor di Dio,tranquillizza una povera ragazza che i tuoi ussari hannospaventato.”

Zurin diede subito disposizioni. Uscì egli stesso in stra-da a scusarsi con Mar’ja Ivanovna per l’involontario malin-teso e ordinò al maresciallo di condurla al migliore appar-tamento della città. Io rimasi a dormire da lui.

Cenammo e, quando restammo a tu per tu, gli raccon-tai le mie avventure. Zurin mi ascoltava con grande atten-zione. Quando finii, dondolò la testa e disse: “Tutto questoè bene, fratello; una sola cosa non è bene: che diavolo tispinge a sposarti? Io, onesto ufficiale, non ti voglio imbro-gliare: credimi, il matrimonio è un ghiribizzo. Pensaci, co-me puoi occuparti di una moglie e star dietro a dei figli?Sputaci sopra! Da’ retta a me, liberati della figlia del capi-tano. La strada per Simbirsk l’ho pulita io ed è sicura. Man-dala domani da sola dai tuoi genitori; e tu resta ai miei or-dini. Di tornare a Orenburg non hai motivo. Cadresti an-cora nelle mani del rivoltosi, e poi chissà se te ne liberiancora. Così il capriccio amoroso se ne andrà da solo e tut-to andrà bene”.

Sebbene non fossi completamente d’accordo con lui,sentivo tuttavia che il mio debito di lealtà richiedeva la miapresenza nell’esercito dell’imperatrice. Decisi di seguire ilconsiglio di Zurin: mandare Mar’ja Ivanovna al villaggio erimanere ai suoi ordini.

Savel’iç si presentò per spogliarmi: gli comunicai che ilgiorno successivo avrebbe dovuto esser pronto a riprende-re la strada con Mar’ja Ivanovna. Si stava per impuntare:“Come, signore? Come posso lasciarti? Chi è che si occu-perà di te? Cosa diranno i tuoi genitori?”.

Conoscendo la testardaggine del mio precettore, mi pro-posi di persuaderlo con la sincerità e le carezze. “Amico mioArchip Savel’iç,” gli dissi, “non opporti, sii il mio benefat-tore; di servi qui non avrò bisogno, ma non sarò tranquillose Mar’ja Ivanovna si metterà in strada senza di te. Serven-do lei, servi anche me, perché io ho fermamente deciso, ap-pena le circostanze lo permetteranno, di sposarla.”

Qui Savel’içgiunse le mani in segno di indescrivibile stu-pore.

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“Sposarla!” ripeté. “Il bambino vuol sposarsi. Ma cosadirà il babbino, e la mammina cosa penserà?”

“Acconsentiranno, probabilmente acconsentiranno,” ri-sposi, “quando conosceranno Mar’ja Ivanovna. Spero an-che in te. Il babbino e la mammina ti credono: tu interce-derai per noi, non è vero?”

Il vecchio era colpito. “Oh, babbino mio Pëtr Andreiç!”rispose, “un po’ presto hai pensato di sposarti, anche seMar’ja Ivanovna è una così buona padroncina che sarebbeun peccato perder l’occasione! Sia come vuoi tu! L’accom-pagnerò, quell’angelo del Signore, e riferirò umilmente aituoi genitori che una fidanzata del genere non ha nemme-no bisogno di dote.”

Ringraziai Savel’iç e andai a dormire nella stessa stan-za di Zurin. Infervorato e agitato mi misi a chiacchierare.Zurin all’inizio parlava con me volentieri; ma pian piano lesue parole si fecero più rare e slegate; alla fine, invece diuna riposta a una domanda, si mise a russare e a fischiare.Tacqui e presto seguii il suo esempio.

Il giorno dopo al mattino andai da Mar’ja Ivanovna. Leriferii le mie intenzioni. Ella le riconobbe sensate e fu su-bito d’accordo con me.

Il reparto di Zurin doveva lasciare la città quello stessogiorno. Non c’era da indugiare. Dissi addio allora a Mar’jaIvanovna, affidandola a Savel’iç e dandole una lettera per imiei genitori. Mar’ja Ivanovna si mise a piangere. “Addio,Pëtr Andreiç!” disse a bassa voce. “Se ci rivedremo oppureno, solo Dio lo sa; ma non la dimenticherò mai; fino allatomba tu resterai il solo nel mio cuore.” Non potei rispon-dere niente. Della gente ci circondava. Non volevo in loropresenza abbandonarmi ai sentimenti che mi turbavano.Alla fine partì. Tornai da Zurin triste e taciturno. Egli vole-va rallegrarmi; io pensai di distrarmi: passammo la gior-nata rumorosamente e tumultuosamente, e la sera ci met-temmo in marcia.

Era la fine di febbraio. L’inverno, che aveva ostacolatole operazioni militari, stava passando, e i nostri generali sipreparavano a un’azione comune. Pugaçëv era ancora sot-to Orenburg. Nel frattempo intorno a lui i reparti si riuni-vano e da tutti i lati si avvicinavano al covo dei malfattori.I villaggi ribelli, in vista delle nostre armate, tornavano al-l’ubbidienza; le bande dei briganti fuggivano dovunque danoi e tutto faceva presagire una fine rapida e favorevole.

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Presto il principe Golicyn, sotto la fortezza di Tati√çev,sconfisse Pugaçëv, disperse le sue armate, liberò Orenburge, sembrava, portò alla rivolta l’ultimo e decisivo colpo. Zu-rin era in quel momento distaccato contro una banda di ba-schiri rivoltosi che si dispersero prima che li vedessimo. Laprimavera ci fermò in un villaggio tartaro. I torrenti strari-parono e le strade divennero non percorribili. Ci conso-lammo nella nostra inattività con il pensiero che presto sa-rebbe finita quella noiosa e insignificante guerra contro bri-ganti e selvaggi.

Ma Pugaçëv non era stato catturato. Comparve negli sta-bilimenti siberiani, raccolse là nuove bande e ricominciò acommettere misfatti. Voci dei suoi successi si diffusero an-cora. Venimmo a sapere del saccheggio delle fortezze sibe-riane. Presto la notizia della presa di Kazan’ e della marciadell’impostore su Mosca allarmò i comandanti delle trup-pe, che sonnecchiavano spensieratamente confidando nel-l’impotenza del disprezzato ribelle. Zurin ricevette l’ordinedi attraversare il Volga.

Non descriverò la nostra marcia e la fine della guerra.Dirò brevemente che il disastro era giunto all’estremo. At-traversammo villaggi saccheggiati dai rivoltosi e volenti onolenti togliemmo ai poveri abitanti quello che erano riu-sciti a mettere in salvo. L’amministrazione era interrotta do-vunque: i possidenti si nascondevano nei boschi. Le bandedi briganti commettevano misfatti dovunque: i comandan-ti dei singoli reparti punivano e graziavano autocratica-mente; le condizioni di quell’enorme regione in cui infu-riava l’incendio erano orribili... Dio non ci dia da vedere larivolta russa, insensata e spietata.

Pugaçëv fuggiva, seguito da Ivan Ivanoviç Michel’son.Venimmo presto a sapere della sua completa disfatta. Allafine Zurin ricevette la notizia della cattura dell’impostore enel contempo anche l’ordine di fermarsi. La guerra era fi-nita. Finalmente potevo andare dai miei genitori. L’idea diabbracciarli, di rivedere Mar’ja Ivanovna, della quale nonavevo nessuna notizia, mi animava di entusiasmo. Saltavocome un bambino. Zurin rideva e diceva, alzando le spalle:“No, tu vai a finir male! Sposarsi: ti rovini senza motivo!”.

Ma intanto una strana sensazione avvelenava la miagioia: il pensiero del malfattore scellerato macchiato dalsangue di tante vittime innocenti e della punizione che l’a-

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spettava mi agitava senza che io lo volessi. “Emelja, Emelja,”pensavo con stizza, “perché non hai trovato una baionettao non sei finito sotto la mitraglia? Non avresti potuto pen-sare niente di meglio.” Che volete farci? Il pensiero di luiera inseparabile in me dal ricordo della grazia che mi ave-va concesso in uno dei momenti più orribili della sua vita,e del salvataggio della mia fidanzata dalle mani del disgu-stoso ◊vabrin.

Zurin mi diede una licenza. Entro qualche giorno avreidovuto di nuovo trovarmi tra i miei famigliari, vedere an-cora Mar’ja Ivanovna... D’un tratto, un’inattesa tempesta micolpì.

Il giorno fissato per la partenza, proprio nel momentoin cui mi preparavo a mettermi in viaggio, Zurin entrò nel-la mia isba tenendo in mano una carta con un’aria ecce-zionalmente preoccupata. Qualcosa mi punse il cuore. Mispaventai senza sapere io stesso di cosa. Congedò il mio at-tendente e annunciò che c’era una faccenda che mi riguar-dava. “Che cosa?” chiesi inquieto. “Una piccola seccatura,”rispose porgendomi la carta. “Leggi quello che ho appenaricevuto.” Cominciai a leggere: era un ordine segreto a tut-ti i singoli comandanti di arrestarmi, dovunque mi trovas-si e di mandarmi sotto scorta a Kazan’ alla commissione in-quirente istituita per l’affare Pugaçëv.

Per poco la carta non mi cadde dalle mani. “Non c’èniente da fare!” disse Zurin. “Il mio dovere è di eseguire l’or-dine. Verosimilmente, le voci dei tuoi pacifici viaggi con Pu-gaçëv sono arrivate in qualche modo al governo. Spero chel’affare non avrà nessuna conseguenza e che tu ti discolpe-rai di fronte alla commissione. Non scoraggiarti e parti.” Lamia coscienza era pulita; non temevo il giudizio; ma il pen-siero di rimandare il momento del dolce incontro forse perqualche altro mese mi terrorizzava. La carrozza era pron-ta. Zurin mi salutò amichevolmente. Mi misero sulla car-rozza. Con me sedettero due ussari con le sciabole sguai-nate e partii sulla strada maestra.

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Capitolo XIV

Il processo

Le voci del mondoSon come le onde del mare.Proverbio

Ero convinto che la mia unica colpa fosse la mia nonautorizzata assenza da Orenburg. Avrei potuto discolparmifacilmente: le sortite non solo non eran proibite, ma veni-vano anche incoraggiate con tutti i mezzi. Potevo essere ac-cusato di foga eccessiva, e non di disubbidienza. Ma i mieilegami amichevoli con Pugaçëv potevano essere provati dauna quantità di testimoni e dovevano sembrare per lo me-no molto sospetti. Per tutto il viaggio avevo pensato agli in-terrogatori che mi aspettavano, avevo ponderato le mie ri-sposte e avevo deciso di dichiarare di fronte ai giudici la pu-ra verità, ritenendo questo modo di giustificarmi il più sem-plice e nello stesso tempo il più sicuro.

Arrivai in una Kazan’ devastata e distrutta. Per strada,invece delle case, c’erano dei mucchi di carbone e stavanoin piedi dei muri coperti di fuliggine senza tetti e finestre.Queste erano le tracce che aveva lasciato Pugaçëv. Mi con-dussero alla fortezza, rimasta intatta in mezzo alla città bru-ciata. Gli ussari mi consegnarono a un ufficiale della guar-dia. Egli ordinò di chiamare il fabbro. Mi misero una cate-na ai piedi e la chiusero saldamente. Poi mi portarono inprigione e mi lasciarono solo in uno stretto e buio bugigat-tolo con le sole nude pareti e con una finestrella coperta dauna rete metallica.

Un inizio del genere non mi faceva presagire niente dibuono. Tuttavia non persi né il vigore né la speranza. Ri-corsi alla consolazione di tutti i sofferenti e, dopo aver as-saporato per la prima volta la dolcezza della preghiera cheesce da un cuore puro, anche se tormentato, mi addormentaitranquillamente, senza preoccuparmi di quel che sarebbestato di me.

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Il giorno dopo il guardiano della prigione mi svegliò conl’annuncio che la commissione mi mandava a chiamare.Due soldati mi portarono attraverso un cortile nella casadel comandante, si fermarono nell’antiporta e mi fecero en-trare da solo nelle stanze interne.

Entrai in una sala abbastanza spaziosa. A un tavolo co-perto di fogli sedevano due uomini: un generale anziano,dall’aspetto severo e freddo, e un giovane capitano dellaguardia su ventott’anni, di aspetto molto gradevole, sveltoe disinvolto nei modi. Alla finestra dietro un tavolo consi-derevole sedeva un segretario con una penna dietro l’orec-chio, piegato su una carta, pronto a trascrivere la mia de-posizione. Cominciò l’interrogatorio. Mi chiesero il mio no-me e il mio titolo. Il generale si informò se non fossi il fi-glio di Andrej Petroviç Grinëv. E alla mia risposta ribatté se-vero: “Peccato che un uomo così rispettabile abbia un figliocosì indegno!”. Risposi tranquillo che quali che fossero lecolpe che mi venivano attribuite, io speravo di dissiparlecon una sincera spiegazione della verità. La mia sicurezzanon gli piacque. “Tu, fratello, sei sottile,” disse acciglian-dosi, “ma ne abbiamo visti anche di peggio.”

Allora il giovanotto mi chiese: per che ragione e in chemomento ero entrato al servizio di Pugaçëv e con che inca-richi ero stato da lui utilizzato.

Risposi con sdegno che io, come ufficiale e nobile, nonero mai stato al servizio di Pugaçëv e non potevo avere dalui nessun incarico.

“Come mai allora,” ribatté il mio inquisitore, “un solonobile e un solo ufficiale viene graziato dall’impostore men-tre tutti i suoi compagni sono uccisi in modo scellerato? Co-me mai quello stesso ufficiale e nobile banchetta amiche-volmente con i ribelli, riceve dal principale malfattore deiregali, una giubba, un cavallo e cinquanta copeche di de-naro? Da dove viene fuori questa strana amicizia e su cosaè fondata, se non sul tradimento o per lo meno su una di-sgustosa e criminale pusillanimità?”

Fui profondamente offeso dall’ufficiale della guardia einiziai con ardore a discolparmi. Raccontai come era ini-ziata la mia conoscenza con Pugaçëv nella steppa, durantela bufera; come durante la presa della fortezza di Belo-gorsk mi riconobbe e mi graziò. Dissi che la pelliccia e il ca-vallo, era vero, non avevo avuto vergogna ad accettarli dal-

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l’impostore; ma che la fortezza di Belogorsk l’avevo difesacontro i malfattori fino allo stremo. Alla fine mi riferii an-che al mio generale, che aveva potuto essere testimone delmio zelo al tempo del disastroso assedio di Orenburg.

Il vecchio severo prese dal tavolo una lettera aperta e simise a leggerla a voce alta.

“Alla richiesta di sua eccellenza a riguardo del portin-segna Grinëv, che sarebbe stato coinvolto nei presenti di-sordini e implicato in rapporti con il malfattore non per-messi dal servizio e contrari ai doveri di servizio, ho l’ono-re di riferire: detto portinsegna Grinëv si è trovato in servi-zio a Orenburg dall’inizio dell’ottobre dello scorso anno 1773fino al 24 febbraio di quest’anno, data alla quale si è as-sentato dalla città e da quel momento non è più comparsoal mio comando. E ho sentito dire dai defezionisti che erastato da Pugaçëv nel borgo e che con lui era andato alla for-tezza di Belogorsk nella quale prima era di servizio: per quelche riguarda il suo comportamento, posso...” Qui interrup-pe la sua lettura e mi disse severamente: “Che cosa diraiadesso in tua discolpa?”.

Io avrei voluto continuare come avevo cominciato e spie-gare il mio legame con Mar’ja Ivanovna così sinceramentecome tutto il resto. Ma sentii d’un tratto un irresistibile ri-brezzo. Mi venne in mente che se la nominavo, allora lacommissione avrebbe chiesto la sua testimonianza; e il pen-siero di mischiare il suo nome con le disgustose calunniedei malfattori e di portare lei stessa a un confronto con lo-ro, questo pensiero orribile mi colpì talmente che mi fer-mai e mi confusi.

I miei giudici che avevano cominciato, sembrava, adascoltare le mie risposte con una certa benevolenza, rico-minciarono a essere prevenuti contro di me vedendo la miaconfusione. L’ufficiale della guardia chiese che mi mettes-sero a confronto con il delatore principale. Il generale or-dinò di chiamare il malfattore di ieri. Mi girai con anima-zione verso la porta, aspettando l’apparizione del mio ac-cusatore. Dopo qualche momento tintinnarono delle cate-ne, la porta si aprì ed entrò ◊vabrin. Mi stupii del suo cam-biamento. Era orribilmente magro e pallido. I suoi capelli,poco tempo prima neri come il carbone, erano diventaticompletamente bianchi; la lunga barba era arruffata. Ri-peté le accuse con la sua debole ma ferma voce. Secondo le

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sue parole, io ero stato mandato da Pugaçëv a Orenburg co-me spia; quotidianamente facevo delle sortite per degli scon-tri a fuoco, al fine di trasmettere informazioni scritte su tut-to ciò che si faceva in città; infine ero passato apertamenteall’impostore, viaggiavo con lui di fortezza in fortezza e cer-cando in tutti i modi di rovinare i miei compagni-tradito-ri per prendere il loro posto e godere delle ricompense di-stribuite dal malfattore. Lo ascoltai in silenzio e fui con-tento di una cosa: il nome di Mar’ja Ivanovna non era sta-to pronunciato dal disgustoso malfattore, fosse perché ilsuo amor proprio soffriva al pensiero di colei che l’avevarespinto con disprezzo, fosse perché nel suo cuore covavauna scintilla di quel sentimento che costringeva anche mea tacere, fosse come fosse il nome della figlia del coman-dante di Belogorsk non fu pronunciato davanti alla com-missione. Mi confermai ancora di più nella mia intenzio-ne e quando i giudici mi chiesero con cosa potevo smenti-re la testimonianza di ◊vabrin, risposi che confermavo lamia prima dichiarazione e non potevo dire nient’altro amia discolpa. Il generale ordinò di portarci via. Uscimmoinsieme. Guardai tranquillamente ◊vabrin, ma non gli dis-si parola. Sogghignò di un sogghigno rabbioso e, alzandole sue catene, mi superò e affrettò i suoi passi. Mi condus-sero ancora in prigione e da allora non mi chiamarono piùper interrogarmi.

Non fui testimone di ciò di cui devo ancora informa-re il lettore: ma ne ho sentito così spesso raccontare che iparticolari più insignificanti sono impressi nella mia me-moria e che ho l’impressione di essere stato un testimoneinvisibile.

Mar’ja Ivanovna era stata accolta dai miei genitori conquella sincera cordialità che distingueva la gente del seco-lo scorso. Essi vedevano una grazia divina nel fatto di averavuto la possibilità di ospitare e accogliere premurosamenteuna povera orfana. Presto si legarono a lei sinceramenteperché non si poteva conoscerla e non amarla. Il mio amo-re già non sembrava più al babbino un vuoto ghiribizzo; ela mammina voleva solo che il suo Petru√ka si sposasse conla cara figlia del capitano.

La voce del mio arresto colpì tutta la mia famiglia. Mar’jaIvanovna raccontò così semplicemente ai miei genitori lamia strana conoscenza con Pugaçëv, che questa non solo non

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li inquietava, ma li faceva spesso ridere di buon cuore. Il bab-bino non voleva credere che io potessi essere coinvolto inquella disgustosa rivolta il cui scopo era il rovesciamento deltrono e lo sterminio della nobiltà. Interrogò severamente Sa-vel’iç. Il precettore non nascose che il padrone era stato ospi-te di Emel’ki Pugaçëv e che davvero il malfattore l’aveva trat-tato bene; ma giurò che non aveva mai sentito parlare di nes-sun tradimento. I vecchi si tranquillizzarono e si misero adaspettare con impazienza notizie favorevoli. Mar’ja Ivanov-na era molto allarmata, ma taceva, dal momento che era mo-desta e prudente in sommo grado.

Passarono alcune settimane... D’un tratto il babbino ri-cevette da Pietroburgo una lettera dal nostro parente il prin-cipe B***. Il principe gli scriveva di me. Dopo un pream-bolo consueto, lo avvisava che i sospetti sul conto del miointervento nei disegni dei rivoltosi, sfortunatamente, si era-no dimostrati troppo fondati, che una punizione esempla-re mi sarebbe dovuta toccare ma che la sovrana, per ri-guardo ai servigi e alla veneranda età di mio padre, avevadeciso di graziare il figlio delinquente e, evitandogli un ca-stigo vergognoso, aveva ordinato di inviarlo soltanto in unalontana regione della Siberia in esilio perpetuo.

Questo colpo inaspettato per poco non uccise mio pa-dre. Perse la sua solita forza e la sua pena (di solito muta)si sfogò in amare lamentazioni. “Come!” ripeteva fuori disé. “Mio figlio è intervenuto nei disegni di Pugaçëv! Dio delbene, anche questo dovevo vedere! La sovrana gli evita il ca-stigo! E per questo dovrei sentirmi meglio? Non è il casti-go orribile: un mio avo è morto sul patibolo difendendo ciòche considerava sacro per la sua coscienza; mio padre è sta-to perseguitato con Volynskij96 e Chru√çëv. Ma che un no-bile tradisse il proprio giuramento, si unisse ai banditi, agliassassini, ai servi fuggitivi! Disonore e vergogna per la no-stra stirpe!” Spaventata dalla sua disperazione la mammi-na non osava piangere in sua presenza e si sforzava di re-stituirgli forza, parlando della falsità delle voci, dell’incer-tezza del giudizio umano. Mio padre era inconsolabile.

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96 A.P. Volynskij era un ministro dell’imperatrice Anna Ivanovna checon il suo amico A.F. Chru√çëv aveva cercato di opporsi al potere del fa-vorito Ernst Johann von Biron, il quale nel 1740 li fece condannare a mor-te tutti e due.

Mar’ja Ivanovna soffriva più di tutti. Essendo convintache avrei potuto discolparmi, se solo avessi voluto, aveva in-dovinato la verità e si considerava colpevole della mia di-sgrazia. Nascondeva a tutti le sue lacrime e il suo dolore e nelfrattempo instancabilmente pensava ai mezzi per salvarmi.

Una sera il babbino era seduto sul divano e rileggeva lepagine del Calendario di corte; ma i suoi pensieri erano lon-tani, e la lettura non produceva su di lui l’effetto abituale.Fischiettava una vecchia marcia. La mammina in silenzioera intenta a una maglia di lana, e delle lacrime di tanto intanto cadevano sul suo lavoro. D’un tratto Mar’ja Ivanovna,che sedeva anche lei lì col suo lavoro, annunciò che le ne-cessità la obbligavano a recarsi a Pietroburgo, e pregava didarle i mezzi per mettersi in viaggio. La mammina si di-spiacque molto. “Cosa devi andare a fare a Pietroburgo?”disse. “Forse, Mar’ja Ivanovna, ci vuoi lasciare?” Mar’ja Iva-novna rispose che tutto il suo destino futuro dipendeva daquesto viaggio, che ella andava a cercare protezione e aiu-to da gente potente come figlia di un uomo vittima dellapropria fedeltà.

Mio padre chinò il capo: ogni parola che gli ricordassel’immaginario delitto del figlio gli risultava penosa e gli sem-brava un pungente rimprovero. “Va’, mammina!” disse conun sospiro. “Noi non vogliamo mettere intralci alla tua feli-cità. Che il Signore ti dia come fidanzato un buon uomo,non un traditore disonorato.” Si alzò e uscì dalla stanza.

Mar’ja Ivanovna, rimasta da sola con la mammina, lespiegò in parte le sue intenzioni. La mammina l’abbracciòin lacrime e pregò Dio per il buon esito del piano concepi-to. Mar’ja Ivanovna si equipaggiò e dopo qualche giorno simise in strada con la fedele Pala√ka e il fedele Savel’iç il qua-le, separato a forza da me, si consolava almeno con il pen-siero che serviva la mia promessa sposa.

Mar’ja Ivanovna arrivò felicemente a Sofija, e, saputonel piazzale di posta che la corte si trovava a Carskoe Selo,decise di fermarsi lì. Le diedero un angolino dietro un tra-mezzo. La moglie del direttore della stazione si mise subi-to a chiacchierare con lei e dichiarò che era nipote del fuo-chista di corte e la introdusse in tutti i segreti della vita dicorte. Raccontò a che ora di solito la sovrana si svegliava,prendeva il caffè, passeggiava; che dignitari si trovavano inquel momento con lei, che cosa si era degnata di dire il gior-

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no precedente a tavola, chi riceveva la sera, in una parolala conversazione di Anna Vlas’evna valeva diverse pagine dimemorie storiche e sarebbe stata preziosa per i posteri.Mar’ja Ivanovna l’ascoltò con attenzione. Andarono al par-co. Anna Vlas’evna raccontava la storia di ogni viale e diogni ponticello e, dopo aver passeggiato a dovere, tornaro-no alla stazione molto contente l’una dell’altra.

Il giorno dopo, al mattino presto, Mar’ja Ivanovna si sve-gliò, si vestì, e andò di nascosto in giardino. Il mattino erabellissimo, il sole illuminava le cime dei tigli già ingiallitidal fresco alito dell’autunno. Il grande lago brillava immo-bile. I cigni, svegliatisi, nuotavano gravi sotto gli arbusti chedavano ombra alla riva. Mar’ja Ivanovna camminava vici-no al bellissimo prato dove da poco era stato sistemato unmonumento in onore delle recenti vittorie del conte PëtrAleksandroviç Rumjancev. D’un tratto una cagnetta di raz-za inglese si mise ad abbaiare e le corse incontro. Mar’jaIvanovna si spaventò e si fermò. In quello stesso momentosi sentì una piacevole voce femminile: “Non abbia paura,non morde”. E Mar’ja Ivanovna vide una signora seduta sul-la panchina di fronte al monumento. Mar’ja Ivanovna se-dette all’altro estremo della panchina. La signora la guar-dava fissa; mentre Mar’ja Ivanovna, dal canto suo, gettandoalcuni sguardi di traverso riuscì a osservarla dalla testa aipiedi. Aveva un abito bianco da mattina, una cuffietta da not-te e un corpetto d’ovatta. Le sembrò sui quarant’anni. Il suoviso, pieno e rosso, esprimeva importanza e tranquillità, men-tre gli occhi azzurri e il lieve sorriso avevano una grazia in-dicibile. La signora per prima interruppe il silenzio.

“Lei, forse, non è di qui?”“Proprio; sono arrivata solo ieri dalla provincia.”“È arrivata con i suoi parenti?”“Nient’affatto. Sono arrivata da sola.”“Da sola! Ma è ancora così giovane!”“Non ho né padre né madre.”“Lei è qui, certo, per qualche ragione.”“Proprio. Sono venuta per dare una supplica alla so-

vrana.”“Lei è un’orfana: probabilmente si lamenta di un’ingiu-

stizia e un’offesa?”“Nient’affatto. Sono venuta a chiedere grazia, e non giu-

stizia.”

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“Permette che le chieda chi è?”“Sono la figlia del capitano Mironov.”“Il capitano Mironov! Quello che era comandante di una

delle nostre fortezze di Orenburg?”“Proprio.”La signora sembrava colpita. “Mi scusi,” disse con voce

ancor più gentile, “se mi immischio nei suoi affari; ma iocapito a corte; mi spieghi in cosa consiste la sua supplica e,forse, mi riuscirà di aiutarla.”

Mar’ja Ivanovna si alzò e la ringraziò rispettosamente.Tutto nella signora sconosciuta conquistava il cuore e su-scitava fiducia. Mar’ja Ivanovna tolse di tasca una carta pie-gata e la diede alla sua sconosciuta protettrice, che si misea leggerla tra sé.

All’inizio leggeva con aria attenta e benevola; ma d’untratto il suo viso cambiò, e Mar’ja Ivanovna, che seguiva congli occhi tutti i suoi movimenti, si spaventò per l’espressio-ne severa di quel viso un momento prima tanto piacevole etranquillo.

“Intercede per Grinëv?” disse la signora con aria fred-da. “L’imperatrice non lo può perdonare. Si è unito all’im-postore non per ignoranza o credulità, ma come un immo-rale e dannoso mascalzone.”

“Ah, non è vero!” esclamò Mar’ja Ivanovna.“Come non è vero?” ribatté la dama, arrossendo tutta.“Non è vero, Dio mio, non è vero! So bene quel che di-

co. Per me sola ha sopportato tutto quello che gli è succes-so. E se non si è discolpato di fronte al tribunale, è stato so-lo perché non voleva coinvolgere me.” E raccontò con ar-dore tutto ciò che il mio lettore già sa.

La signora l’ascoltò con attenzione. “Dove si è ferma-ta?” le chiese poi; e sentendo che era da Anna Vlas’evna ag-giunse con un sorriso: “Ah! conosco. Addio, non racconti anessuno del nostro incontro. Spero che non aspetterà a lun-go la risposta alla sua lettera”.

Con queste parole si alzò ed entrò in un viale coperto,e Mar’ja Ivanovna tornò da Anna Vlas’evna colma di una fe-lice speranza.

La padrona di casa la rimproverò per la passeggiata au-tunnale di così buon mattino, dannosa, a sentir lei, per lasalute di una giovane donna. Portò il samovar e bevendouna tazza di tè stava per cominciare i suoi interminabili rac-

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conti sulla corte quando d’un tratto una carrozza di cortesi fermò davanti al terrazzino d’ingresso e un valletto di ca-mera entrò con l’avviso che la sovrana si degnava di invita-re da sé la giovane Mironova.

Anna Vlas’evna si meravigliò e cominciò ad agitarsi. “Ah,Signore!” gridò. “La sovrana la richiede a corte. Come ha sa-puto di lei? Ma lei, mammina, come fa a presentarsi all’im-peratrice? Lei, forse, non sa neanche camminare come fannoa corte... Non è forse bene che la accompagni? In ogni modola posso mettere in guardia su qualcosa. E come fa a andarecon un vestito da viaggio? Non sarebbe bene mandare dallalevatrice per la sua veste gialla?” Il valletto di camera annun-ciò che la sovrana desiderava che Mar’ja Ivanovna andasse dasola e così come si trovava. Non c’era niente da fare: Mar’jaIvanovna sedette in carrozza e andò a palazzo accompagna-ta dai consigli e dalle benedizioni di Anna Vlas’evna.

Mar’ja Ivanovna presentiva la soluzione del nostro de-stino: il suo cuore batteva forte e le veniva a mancare. Do-po qualche minuto la carrozza si fermò a palazzo. Mar’jaIvanovna con un tremito si incamminò su per la scala. Leporte si spalancavano di fronte a lei. Ella attraversò una lun-ga serie di sontuose camere vuote; il valletto di camera in-dicava la strada. Alla fine, arrivato a una porta chiusa, di-chiarò che l’avrebbe annunciata subito e la lasciò sola.

Il pensiero di vedere l’imperatrice a tu per tu la intimi-diva così tanto che si reggeva a fatica sulle gambe. Un atti-mo dopo si aprirono le porte ed ella entrò nel camerino del-la sovrana.

L’imperatrice stava vestendosi. Alcuni cortigiani la cir-condavano e rispettosamente fecero spazio a Mar’ja Iva-novna. La sovrana le si rivolse cordialmente e Mar’jaIvanovna riconobbe in lei la signora con la quale si era spie-gata così apertamente pochi minuti prima. La sovrana lachiamò e le disse con un sorriso: “Sono contenta di potermantenere la promessa e soddisfare la sua supplica. Il suoaffare è finito. Mi sono convinta dell’innocenza del suo fi-danzato. Ecco la lettera che lei stessa si prenderà la brigadi portare al suo futuro suocero”.

Mar’ja Ivanovna prese la lettera con mano tremante e,scoppiata a piangere, cadde ai piedi dell’imperatrice che lafece alzare e la baciò. La sovrana si mise a parlare con lei.“So che non siete ricchi,” disse, “ma io sono in debito con

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la figlia del capitano Mironov. Non si preoccupi del futuro.Mi occuperò io di costituire la sua sostanza.”

Dopo aver mostrato tutto il suo affetto alla povera or-fana, la sovrana la congedò. Mar’ja Ivanovna se ne andò conla stessa carrozza di corte. Anna Vlas’evna, che aspettavaimpaziente il suo ritorno, la subissò di domande alle qualiMar’ja Ivanovna rispose in qualche modo. Anna Vlas’evna,benché non fosse contenta della sua scarsa memoria, la at-tribuì alla sua timidezza di provinciale e la scusò magna-nimamente. Quello stesso giorno Mar’ja Ivanovna, senzaaver avuto la curiosità di dare un’occhiata a Pietroburgo,tornò indietro al villaggio...

Qui si interrompono le memorie di Pëtr Andreiç Grinëv.Da tradizioni famigliari si sa che fu liberato dal carcere al-la fine dell’anno 1774 per ordine dell’imperatrice, che pre-senziò al supplizio di Pugaçëv, il quale lo riconobbe tra lafolla e gli fece segno con la testa che un minuto dopo, mor-ta e insanguinata, veniva mostrata al popolo. Subito dopoPëtr Andreiç sposò Mar’ja Ivanovna. I loro discendenti vi-vono nell’agiatezza nel governatorato di Simbirsk. A trentaverste da *** si trova un villaggio che appartiene a dieci pro-prietari. In una delle dépendance padronali è esposta unalettera autografa di Caterina II sotto vetro e in cornice. È in-dirizzata al padre di Pëtr Andreiç e contiene la grazia persuo figlio e lodi all’intelligenza e al cuore della figlia del ca-pitano Mironov. Il manoscritto di Pëtr Andreiç Grinëv ci èstato consegnato da uno dei suoi nipoti che aveva saputoche ci occupiamo di un’opera che riguarda il periodo de-scritto da suo nonno. Decidemmo, con l’autorizzazione deiparenti, di pubblicarlo per conto suo, dopo aver trovato perogni capitolo un’epigrafe adatta ed esserci presi la libertàdi cambiare qualche nome proprio.

19 ottobre 1836L’editore

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I primi appunti sulla Figlia del capitano risalgono alla fine delgennaio del 1833. Il protagonista del romanzo doveva essere inorigine Michail Aleksandroviç ◊vanviç, ufficiale di un reggimentodi granatieri passato a Pugaçëv e poi deportato in Siberia.

Il piano definitivo del romanzo risale all’autunno del 1834. Ilromanzo fu terminato nell’autunno del 1836. Presentandolo allacensura, il 25 ottobre del 1836, Pu√kin scriveva: “Il romanzo è fon-dato sulla leggenda, che devo aver sentito da qualche parte, cheuno degli ufficiali che aveva tradito il suo dovere ed era passatonelle bande di Pugaçëv era stato graziato dall’imperatrice graziealla supplica del di lui anziano padre che si era gettato ai di lei pie-di. Il romanzo, come avrete la bontà di vedere, è finito lontano dal-la realtà storica”.

Il primo novembre del 1836, Pu√kin lesse il suo romanzo a unaserata del principe Vjazemskij.

La figlia del capitano fu pubblicata sul “Contemporaneo” (1836,t. IV). Rimase inedito fino al 1880 un capitolo sulla rivolta dei con-tadini nel villaggio di Grinëv che Pu√kin chiamava “capitolo omes-so”. In qualche edizione del romanzo questo capitolo viene inte-grato all’interno del capitolo XIII.

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