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9 CONTRIBUTI REALISMO CINICO, ORIGINI E RIFLESSIONI DI MATTIA FILIPPO BALDASSARRA Background socio-politico-culturale La conoscenza dell’arte d’avanguardia cinese sottintende piena consape- volezza di due grandi momenti storici che hanno signicativamente in- uenzato la moderna attività artistica della Cina stimolando le riessioni intellettuali del tempo. Tali momenti storici fanno riferimento l’uno alla reazione positiva alla moderna cultura europea, che, tra l’altro, spinse un gran numero di artisti cinesi negli anni venti e trenta del ventesimo secolo a fare ritorno in patria per diffondere i nuovi linguaggi artistici occidenta- li; l’altro alla riscoperta della propria soggettività dopo il 1976, anno della ne della grande Rivoluzione culturale. Il movimento del 4 maggio 1919, rappresentò a ben vedere uno dei più acuti periodi di riessione politica, sociale e culturale cinese, che aprì la strada alle riessioni per una Cina moderna. Nato infatti come conse- guenza alla debole risposta del governo cinese al trattato di Versailles, si delineò certamente come un movimento politico, anti-imperialista e na- zionalista che retto dagli slogan “Mr. Democracy” e “Mr. Science” auspi- cava la salvezza nazionale in nome della democrazia e della scienza, ma fu

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CONTRIBUTI

REALISMO CINICO, ORIGINI E RIFLESSIONI

DI MATTIA FILIPPO BALDASSARRA

Background socio-politico-culturale

La conoscenza dell’arte d’avanguardia cinese sottintende piena consape-volezza di due grandi momenti storici che hanno signifi cativamente in-fl uenzato la moderna attività artistica della Cina stimolando le rifl essioni intellettuali del tempo. Tali momenti storici fanno riferimento l’uno alla reazione positiva alla moderna cultura europea, che, tra l’altro, spinse un gran numero di artisti cinesi negli anni venti e trenta del ventesimo secolo a fare ritorno in patria per diffondere i nuovi linguaggi artistici occidenta-li; l’altro alla riscoperta della propria soggettività dopo il 1976, anno della fi ne della grande Rivoluzione culturale.

Il movimento del 4 maggio 1919, rappresentò a ben vedere uno dei più acuti periodi di rifl essione politica, sociale e culturale cinese, che aprì la strada alle rifl essioni per una Cina moderna. Nato infatti come conse-guenza alla debole risposta del governo cinese al trattato di Versailles, si delineò certamente come un movimento politico, anti-imperialista e na-zionalista che retto dagli slogan “Mr. Democracy” e “Mr. Science” auspi-cava la salvezza nazionale in nome della democrazia e della scienza, ma fu

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sopratutto un movimento culturale, che sancì la linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo, tra la tradizione e la modernità. Concretizzatosi into-no alla metà degli anni dieci del novecento con il nome di “Nuova Cultu-ra”, tale movimento, ruotante attorno ai due principali centri culturali di Pechino e Shanghai, criticò il Confucianesimo colpevole di aver portato alla rovina la Cina ed il suo popolo, e aspirava ad un avvicinamento con la cultura occidentale. Fu però Mao Tse-tung a frenare l’ondata rivoluziona-ria iniziata con il Movimento del 4 maggio; il “Grande Timoniere” seppe infatti maneggiare abilmente la retorica socio-politica del movimento e piegarlo così ai suoi intenti. D’altronde anche una rivoluzione alla manie-ra di Mao, nata dal sogno di una totalizzante cultura proletaria , necessita-va di una radicale rottura con la tradizione.

La seconda ondata riformista invece, maturata in nome della libertà di pensiero, si delineò in seguito alla salita al potere, nel 1978, di Deng Xiaoping, difensore delle purghe operate nei confronti di artisti e intellet-tuali durante la Rivoluzione culturale e sostenitore dell’abolizione dell’ar-ticolo 45 della Costituzione che garantiva la libertà di espressione.

Come riconosciuto dal critico d’arte Huang Zhuan, l’arte contem-poranea cinese si fa strada in questo retroscena socio-politico e, in rife-rimento ai movimenti artistici maturati a partire dagli anni ottanta del novecento, si defi niscono in una dimensione “auto contraddittoria”. Se da una parte l’arte cinese degli anni ottanta e novanta “fondava la soggettività dell’uomo, al tempo stesso la decostruiva. Le sue attitudini sperimentali e modalità di pensiero anarchiche fecero sì che fosse costantemente perme-ata da un senso di crisi – in contrapposizione alla quale scaturirono poi le varie declinazioni del postmodernismo e le teorie sulla fi ne dell’arte – una crisi che la condusse all’antitesi delle sue origini idealistiche”14.

Tutto questo sarà fondamentale per la piena comprensione del Rea-lismo Cinico, il quale movimento ruota attorno ai problemi socio-politici defi nitisi a partire dalla nascita delle Repubblica Cinese con la rivoluzione del 1911 e mira ad un distacco ,ironico e graffi ante, dalla mentalità costi-tuitasi a partire dalla rivoluzione culturale del 1949 e sopravvissuta alla sua stessa fi ne nel 1976.

1 H. Zhuan, Politica e teologia nell’arte cinese contemporanea. Rifl essioni sull’opera di Wang Guang yi, Adriano Salani Editore s.u.r.l., Seggiano di Pioltello (Mi), 2013, pag.19.

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Soffermandoci a questo punto sulla volontà di comprendere più nel-lo specifi co il terreno artistico delle avanguardie cinesi, e limitando il più possibile il nostro campo di analisi al Realismo Cinico, bisogna inevitabil-mente parlare della “Nuova corrente artistica del 1985” e dalle rifl essioni che da essa sbocciarono per confl uire nella mostra che, nel febbraio del 1989, prese piede alla National Art Gallery di Pechino dal titolo sintetico quanto carico di rifl essioni “China/Avant-Garde”. Sarà infatti sulla base di queste esperienze e sui programmi politico-economici adottati di li a poco dalla Repubblica Popolare Cinese, che si svilupperà la natura polemica del Realismo Cinico agli inizi degli anni novanta, sondando i problemi della massifi cazione del pensiero e della globalizzazione, alla riscoperta di una nuova identità in una ben più ampia dimensione del soggettivo.

La “Nuova corrente artistica del 1985” (“85 New Wave Move-ment”) non fa riferimento ad una corrente unitaria bensì ad un insieme di esperienze artistiche maturate tra il 1985 e il 1989. Modellatasi in un paese povero, se non assolutamente privo, di musei, gallerie d’arte e istituzioni culturali come risultato della Rivoluzione Culturale che per quasi trent’an-ni aveva umiliato e azzittito qualsiasi libera forma d’arte, nonché escluso la Cina dal panorama artistico internazionale degli anni sessanta e settanta, esso si costituisce di uno sperimentalismo attinto dalla cultura occidenta-le, facendo proprie forme espressive prima di allora estranee alla cultura cinese. Dal Realismo Socialista si passò così a nuove forme di dadaismo, ad un approccio più concettuale dell’arte, ad una rivendicazione della cul-tura occidentale come momento di crescita negato e ora preteso. Il tutto in pochi anni, il che rende ancor di più la forza di intenti propria dell’arte contemporanea cinese e con il senno di poi, giustifi ca tutta una serie di scelte artistiche passate che si delinearono come fondamento psicologico alla cultura del post-moderno. Non è un caso allora lo slogan che, nel 1979, dominò la mostra “L’arte delle stelle” , poi censurata, allestita a Pe-chino da un gruppo di artisti non professionisti: “Kollowitz è la nostra bandiera, Picasso il nostro pioniere”.

E’ con la mostra del 1989 “China/Avant-Garde”, apice della “Nuo-va corrente artistica del 1985” però, che si sancisce uffi cialmente il passag-gio alla “Post New Era” e all’arte di avanguardia di cui le due principali tendenze furono, a detta del critico Li Xianting, il “Realismo Cinico” (wanshi xianshi zhuyi) e il “Political Pop” (zhengzhi bopu).

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L’intento della mostra secondo Gao Minglu, capo organizzativo della mostra, fu quello di presentare per la prima volta all’attenzione del grande pubblico una rassegna completa delle opere prodotte dalle nuove correnti artistiche cinesi, specialmente installazioni e performance. La pit-tura ad inchiostro fu in quell’occasione esposta al terzo piano della galleria d’arte nazionale di Pechino, dove però nessuno del pubblico giunse mai, almeno il giorno dell’inaugurazione. La mattina del 5 febbraio infatti la giovane artista Xiao Lu e l’artista Tang Song completarono le loro rispet-tive performance sparandovi un colpo di pistola e la mostra fu chiusa tem-poraneamente. Il 14 febbraio l’esposizione chiuse nuovamente in seguito all’arrivo di alcune lettere minatorie e il 17 dello stesso mese fu riaperta, ma solo in seguito al pagamento di una pesante multa.

Le umiliazioni continue subite dalla mostra “China/Avant-Garde” erano la testimonianza viva di un governo centrale che guardava ancora con viva ostilità la libertà di espressione del cittadino e che sognava il livellamento di massa. L’ormai celebre mostra del Febbraio del 1989 la si può dunque certamente considerare come il punto di partenza per lo svi-luppo di quelle correnti contemporanee cinesi che investirono sopratutto l’ultimo decennio del ventesimo secolo, anni quelli di grande creatività e sperimentazione, ma allo stesso tempo la si può certamente interpretare anche come il punto di arrivo, o meglio uno dei punti di arrivo, di una storia cinese schiacciata tra la forza totalitarista dell’oppressione socialista e le richieste più o meno marcate, sempre coraggiose, di una maggiore libertà di espressione. Fu proprio quest’ultimo punto, ovvero la richiesta di una maggiore libertà di espressione che con la mostra si presentò come una necessità vitale per le nuove generazioni cinesi a far si che si giungesse al punto di non ritorno.

Poco dopo il 15 aprile e la morte di Hu Yaobang, ex segretario del Partito che tre anni prima si era dimostrato più vicino alle richieste di studenti ed artisti e perciò caduto in disgrazia, una folla di studenti, artisti, scrittori, intellettuali scese in Piazza Tienanmen chiedendo maggiore liber-tà e democrazia, realizzando così un gigantesco happening. Gli studenti dell’Accademia Centrale di Scultura lavorarono giorno e notte per realiz-zare quella che, eretta la notte del 29 maggio e collocata tra il gigantesco ritratto di Mao e il Monumento agi Eroi del Popolo, fu il simbolo dell’oc-cupazione pacifi ca della più grande piazza pubblica del mondo: una statua

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in vetroresina rappresentante la Dea della Democrazia. Se si aggiunge poi la vaga somiglianza alla Statua della Libertà americana e i secchi di vernice che, lanciati sul ritratto del Grande Timoniere, sfi gurarono irrimediabil-mente il ritratto simbolo della nascita della Repubblica Popolare, si capisce bene come il Governo Centrale, ormai esasperato e incapace di rispon-dere alla massa se non con la violenza, fece intervenire i carri armati che spazzarono via i dimostranti e distrussero la statua simbolo della rivolta. Con il fallimento della rivolta studentesca si concluse una nuova pagina della storia contemporanea cinese e conseguentemente si aprì un nuovo capitolo, quest’ultimo caratterizzato da quell’ondata avanguardista “Post Tienanmen 1989” che in breve tempo fu conosciuta dal mondo intero.

Solo a questo punto si può uffi cialmente parlare di arte contempo-ranea cinese e, nello specifi co, di Realismo Cinico. “Apertura”, divenne la parola chiave nell’arte cinese degli anni novanta che anche in seguito all’allontanamento dal Paese di un gran numero di artisti a partire dalla fi ne degli anni ottanta, visse un ampliamento di orizzonti prima di allora sconosciuto.

Realismo Cinico

Agli inizi degli anni novanta in Cina, le rifl essioni sulla soggettività occupavano un posto di rilievo nelle esperienze artistiche più disparate. Crollate però le utopie degli anni ottanta, esse volgevano lo sguardo ai problemi della disgregazione della soggettività stessa, in un ottica deci-samente post moderna. L’esigenza di preservare la propria identità in una Cina improvvisamente aperta all’esterno, inondata dall’egemonia dell’arte contemporanea occidentale, divenne così tema caro alle giovani genera-zioni di artisti contemporanei che affi ancarono sempre alla volontà di sondare instancabilmente la dimensione del soggettivo ad un atteggia-mento freddo, scettico, fastidiosamente neutrale.

Il Realismo Cinico, sul quale ci soffermeremo principalmente nell’a-nalizzarne la produzione pittorica, fa certamente parte di queste esperien-ze e in esse, occupa una posizione di rilievo.

Fu Li Xianting, nel 1992, a parlare per la prima volta di Realismo Cinico in riferimento ad uno dei movimenti artistici sviluppatisi nell’era

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post-89. Ironico e tagliente, il movimento si delineò agli inizi degli anni novanta come una sorta di rivisitazione del realismo socialista dell’era di Mao Tse-tung, svelando dolorosamente la fragilità e il successivo falli-mento delle utopie politiche ed artistiche passate.

In un’intervista del luglio 2012, il critico d’arte Luo Fei distinse esemplarmente gli intenti dell’arte cinese propria degli anni ‘80 e quelli del Realismo Cinico e, in senso più generico, di tutta la produzione artistica degli anni novanta. La nuova corrente artistica del 1985 era infatti carat-terizzata da un senso di eroismo profondo che coraggiosamente aveva cercato di soddisfare la voglia di curare una società malata, di salvarla in nome della libertà di espressione. Nonostante il dolore dunque, la volontà di credere in un futuro migliore sembrava avere la meglio su un cinismo insidioso che prese il sopravvento negli anni novanta. Le esperienze arti-stiche del penultimo decennio del ventesimo secolo infatti, rinunciarono all’eroismo ostentato, all’ottimismo preteso, e si confrontarono invece con una società che, nei suoi vertici, non era ancora pronta ad accettare il cambiamento.

Il Realismo Cinico, guidato da artisti ormai rinomati quali Yue Minjun, Fang Lijun, Yang Shaobin e Liu Wei, esprimeva di fatto tutta la disapprovazione nei confronti delle fi gure politiche cinesi e delle vicende storiche che avevano caratterizzato la Cina del ventesimo secolo, prima tra tutte, il massacro di Piazza Tienanmen del 1989. Il tutto però velato da un umorismo asettico, che rende persino diffi cile far parlare di ironia essendo l’elemento di critica così ben celato da far pensarne l’assenza.

Se gli intenti di quest’arte sono chiari, più diffi cilmente comprensi-bili risultano essere i modi tramite i quali gli artisti protagonisti del Rea-lismo Cinico vi giungono. Per comprenderli, bisogna partire dal sondare il vero signifi cato dei termini “realismo” e “cinismo” che compongono la denominazione del movimento stesso perché, pur essendo presenti com-ponenti realiste e ciniche, allo stesso tempo risulterebbe errato parlare di realismo e di cinismo in termini assoluti.

Certamente può essere interessante rilevare come la componente re-alista pur esistendo nella morfologia delle immagini venga allo stesso tem-po negata perché fi ltrata da quell’atteggiamento di “cinica indifferenza” che veste le intenzioni dell’artista. Come è evidente nelle principali opere

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di due dei tre autori precedentemente citati, Fang Lijun e Yue Minjun, la cui produzione è principalmente legata alla pittura ad olio, la realtà non è vista per come essa sia ma per come la si avverte. I protagonisti delle tele sembrano fl uttuare nell’aria, e alcuni lo fanno davvero; i loro volti sono distorti, vuoi in una risata isterica o in un urlo disperato non importa, rasentano il grottesco; gli ambienti sono perfettamente trasparenti, i co-lori liquidi. Quest’ultimi però a volte prendono il sopravvento sulla realtà stessa, la trasfi gurano, ma tutto è pur sempre perfettamente riconoscibile. Fin quando non ci si chiede se si stia ancora parlando di realtà o di surre-alismo. E confrontandola con la nostra realtà siamo portati a chiederci se essa assomigli più ad un sogno, o ad un incubo.

Ed ecco che spunta la dimensione politica: nascosta, ma viva. L’arti-sta però non sembra, almeno in apparenza, prendere una posizione chiara. Non ironizza sulla politica e sui suoi rappresentanti, non descrive eventi storici né li denuncia. Allo stesso tempo però non li asseconda. Sembra quasi che ne sia indifferente. E l’orrore lascia spazio a cieli sereni, in cui le nuvole sembrano dolcemente muoversi nell’aria, a mari in tempesta che non vinceranno però sulle zattere in balia delle correnti. Il risultato però è tutt’altro che sereno; è inquietante, distaccato, cinico appunto. Di un cinismo che comunque non è sbandierato, ma certamente ancora travol-gente. La forza di questo movimento è proprio in questo: denunciare la realtà e rifl ettere sulla politica (passata e presente), omettendo la prima e nascondendo la seconda. Il tutto con delle immagini al limite dell’infantile che travalicano il cinico.

Seguendo questo asse di rifl essioni che muovono sull’analisi della produzione pittorica del Realismo Cinico, sembrerebbe quasi che la scelta della pittura ad olio come principale mezzo espressivo del gruppo (sep-pure video, installazioni, disegni e sculture sono comunque presenti), non sia affatto una scelta casuale. Essa, a mio avviso, sottintenderebbe una rifl essione più profonda nel rapporto tra il movimento del Realismo Cini-co con la critica socio-politica che nell’indifferenza ostentata è comunque presente, e nel legame dello stesso con la cultura occidentale con la quale la Cina moderna si è spesso confrontata.

La pittura ad olio infatti, in origine estranea alla tradizione asiatica, fu introdotta in Cina dai gesuiti europei, presenti nel paese sin dalla fi ne

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del sedicesimo secolo. Uno dei primi dipinti ad olio prodotti in Cina da artista cinese è infatti un ritratto di Matteo Ricci, studioso e missionario giunto a Macao nel 1582 per terminare i suoi giorni presso la corte di Pe-chino, realizzato dall’artista asiatico convertitosi al cristianesimo Emma-nuele Yu Wen-Hui (detto Pereira) nel 1610. Nel diciassettesimo secolo la pittura ad olio si diffuse velocemente a Pechino non solo grazie al gruppo di gesuiti che ruotavano attorno alla corte della capitale, ma anche grazie ad un gruppo di pittori laici tra i quali il bolognese Giovanni Gherardini (1628-1743) il quale affrescò la chiesa gesuitica della capitale cinese e di-pinse, con altri missionari-artisti, anche ritratti dell’imperatore Kangxi, molto apprezzati dal sovrano. Con la rivoluzione culturale poi, Mao Tse-tung impose, paradossalmente, la pittura ad olio come mezzo preferenzia-le nelle rappresentazioni proprie del Realismo socialista; d’altronde solo con essa si era in grado di realizzare la miglior resa, quasi fotografi ca, del realismo preteso dal partito.

Seppure può sembrare azzardato mi sembra doveroso, sulla base di queste rifl essioni, quanto meno supporre una scelta voluta dell’utilizzo della pittura ad olio per richiamare tanto un legame con la cultura occi-dentale che gli artisti della Cina moderna hanno sempre preteso (riappro-priandosi di immagini e racconti, come se si volesse costruire un passato artistico che gli è stato invece negato), così come la memoria del realismo socialista, quasi a voler testimoniare una rinascita artistica che, parados-salmente, avviene per mezzo di quegli strumenti che l’avevano congelata per tanto tempo.

Tre esempi di Realismo Cinico

Fang Lijun

A fool is someone still trusting after being taken in a hundred times. We’d rather be lost, bored, crisis-ridden misguided punks than be cheated. Don’t even consider trying the old methods on us, we’ll rid-dle your dogma with holes, then discard it in a rubbish heap2.

2 B. Davidson, Cynical Realist Fang Lijun: The Rogue of Contemporary Chinese Painting has Mellowed, in “Beijing Scene”, Volume 5, Issue I, Marzo 2000.

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Le parole di Fang Lijun presentate in un’articolo del 1992 fi rmato Li Xianting, lo stesso Li Xianting che per primo intuì la forza delle immagini del pittore studente al “Children’s Cultural Palace” di Pechino, sono la migliore spiegazione possibile dei lavori dell’artista considerato il princi-pale esponente del Realismo Cinico cinese; nascondono il disagio di una generazione ingannata, il cinismo di chi ha toccato il fondo e vi è rimasto attaccato, come una zecca, perché se si è presenti, si è vivi.

Nato nel 1963 nella provincia di Hebei, ad Handan, visse in prima persona il dramma della Rivoluzione Culturale. Provenendo da una fami-glia benestante venne costantemente umiliato nel principio secondo cui nessuno debba emergere sull’altro, in tutto. Ancora studente alla Central Academy of Fine Arts di Pechino partecipò nel 1989 alla celebre espo-sizione “China/Avant-Garde”, anche nota con il nome di “No U-Turn”, dove comparvero i suoi primi dipinti di uomini calvi, anzi di “un” uomo calvo come “Ciascun uomo”. Il massacro di piazza Tienanmen cristalliz-zò defi nitivamente la sua appartenenza a quello che poco più tardi sarà teorizzato come “Realismo Cinico”. A proposito dell’evento Fang Lijun disse:

I felt the same suspicions as when I was a kid. I felt doubts about the same things that had troubled me before. I was fascinated by those people who seemed to be just fooling around. To make sense of other people, I concentrated on myself. After all, i was just one of them. But whenever I felt I had made some sort of discovery, everything would just become a blur again. This is when I began my work3.

Uomini calvi, mari agitati, nuvole. Questi i principali temi protago-nisti della produzione artistica del pittore, che si muove in bilico tra la tra-dizione e la modernità; tipico è l’utilizzo di matrici in legno appositamente realizzate che, ricoperte di tempera, vengono poi impresse sulla tela come uno stampo, e poi successivamente dipinte.

Ciascuno degli elementi presenti nelle sue opere nasconde in sé un signifi cato di ampia portata, che gioca sui temi propri del Realismo Cini-co e ne aggiunge di altri. Come quello del ruolo del pittore nella società

3 B. Davidson, Cynical realist Fang..., Volume 5, Issue I.

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cinese degli anni novanta e di oggi. L’uomo calvo, in apparenza idiota e svampito, diventa invece protagonista delle tele. Perché in sé nasconde rifl essioni che lo scoraggiano, a volte lo fanno urlare, altre volte ridere per-ché non c’è nient’altro da fare. E’ l’artista, che racchiude in sé la la volontà di poter cambiare il mondo ma che invece dalla società è ridicolizzato, guardato con sospetto. E nella mancanza di un contatto con l’altro che sarebbe invece fondamentale per salvarsi, chiude gli occhi e congela il mondo attorno a se. È

Dal 1993, ecco che il tema dell’acqua riempie le tele che tra l’altro si arricchiscono di nuovi colori. Quest’ultimi, esprimono la varietà con cui si può guardare il mondo, le infi nite possibilità di salvezza, ma anche le infi nite possibilità di perdizione. I mari, gli oceani, i laghi o i fi umi che essi siano, sembrano sempre inghiottire chi vi è dentro. Non tranquil-lizzano lo spettatore ma lo portano a chiedersi se chi vi è immerso stia nuotando o annegando. I personaggi non entrano mai nell’acqua, semmai vi escono; ma anche dietro il profi lo di chi è sulla banchina, compaiono altri uomini, uguali, forse gli stessi, che nuotano nella stessa direzione. La corrente delle acque è un po come la società cinese di oggi. Non si ferma e non la si può fermare. E ci porta a chiedere dove porterà, se si fermerà. Ha affermato Fang Lijun “People don’t know, intellectually or materially, what they need to exist today. It’s like we’re living on a very fast train. My question is: Will mankind be able to break in time?”49.

Sulle nuvole invece, l’artista sembra riappropriarsi della sua stessa voce. Un’ utopia? Una possibilità di ottimismo in un cinismo asettico? Non si sa. Certamente però i personaggi che camminano su di esse sono più sereni, colorati, a volte vi sono dei neonati, altre volte libellule o insetti che volano in libertà. E dall’alto le foreste sembrano migliaia di larve, tutte uguali, che si calpestano a vicenda.

Tutto però è congelato, in attesa di qualcosa. Ma cosa?

Yue Minjun

Yue’s pieces are mocking himself and the community510.

4 B. Davidson, Cynical realist Fang..., Volume 5, Issue I.5 artspeakchina.org/mediawiki/Yue_Minjun

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E’ ancora una volta Li Xianting a parlare di un altro grande espo-nente dell’arte contemporanea cinese nonché, seppure è lo stesso Yue Minjun a rifi utare qualsiasi possibile categorizzazione formale, del Reali-smo Cinico tutto.

Nato nel 1962, differentemente da Fang Lijun, Yue Minjun ha vis-suto gran parte della sua vita da nomade, costretto a spostarsi con i suoi genitori di città in città alla ricerca di lavoro nelle raffi nerie statali e la-vorando lui stesso, prima di iniziare gli studi di pittura ad olio alla Habei Normal University nel 1983, come elettricista. Nel 1989, assistendo alla mostra “China/Avant Garde” di Pechino, evidentemente anche in questo caso crocevia fondamentale nel percorso di crescita professionale dell’ar-tista, rimase colpito da un autoritratto ridente del pittore Geng Jianyi. La risata presente nel lavoro di quest’ultimo dal nome “The Second Situta-tion” del 1987, non è la risposta naturale ad un evento gioioso: è forzata, grottesca, quasi inquietante. E’ isterica. E’ il simbolo di una società forza-ta ad una serenità che imposta diventa infelicità, vuoi dall’esasperazione della dottrina di Confucio, vuoi da anni di “rivoluzioni culturali” che non si limitano alla più nota. Quella risata congelata nel tempo, si impres-se nella memoria personale di Yue Minjun che da li in poi, lavorò, come tutt’oggi fa, sulla stessa, per cercare risposte e non smettere mai di farsi domande.

Gli autoritratti di Yue Minjun, inizialmente ritratti di amici e fami-liari poi vinti dai suoi stessi lineamenti, così come la scelta della pittura ad olio come principale mezzo espressivo e di una fi gurazione che si prende beffa del Realismo Socialista imposto dalla rivoluzione culturale, sono la sintesi di tutto quello che il movimento stesso del Realismo Cinico si fa portatore, ma è anche molto di più. Questo perché quelle facce ibernate in un sorriso al limite del pianto, si fanno portavoce di un dramma per-sonale, ma anche collettivo, che vince le barriere geografi che per imporsi, come maschere, sul volto di chi le richiede, di chi incapace di vivere, si nasconde in un cinismo profondo.

Ecco perché nulla più delle parole stesse dell’artista, possono spie-gare con acuta semplicità il senso delle tele di Yue Minjun.

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Per tutta la mia vita ho vissuto in un danwei, un gruppo di lavoro, con-trollato dallo Stato, prima con i miei genitori, quando ero bambino, nelle raffi nerie del Daqing nel Nord-Est della Cina, e poi nella provin-cia di Hubei quando furono trasferiti nel 1969, e infi ne a Pechino nel 1972. Dopo la scuola, nel 1980 mi spedirono a lavorare nella compag-nia petrolifera statale a Tianjin nel distretto di Haiyang, e fui trasferi-to alla raffi neria di Hebei nel 1983. Fu li che convinsi il mio capo a mandarmi a studiare arte all’università. Quando mi fui laureato tornai nel mio danwei a Hebei, per lavorare nel suo collegio associato di pre-parazione all’insegnamento. Sono sopravvissuto solo un anno prima di decidere di trasferirmi a Pechino. Il problema fu per me che queste imprese stavano operando uniformemente all’interno di una struttura estremamente ristretta, in gran parte rigida, e incapace di fare qualsiasi concessione ai singoli impiegati, perché tutti gli individui dovevano essere uguali. Ma certo che non lo erano: tutto dipendeva dal fatto di mantenere buoni rapporti all’interno di una complessa ragnatela di contatti interpersonali. Questo signifi cava che la pressione per il fatto di vivere in un potenziale campo minato, in cui tutti sembravano fare la cosa giusta e conformarsi, divorava l’esistenza individuale di molti singoli. In quel periodo in Cina tutti vivevano in questo modo. Ecco perché sorridere e ridere per mascherare i sentimenti di impotenza aveva tanta importanza per la mia generazione. Fino agli anni nov-anta la possibilità di un’alternativa era quasi inconcepibile: le persone erano incoraggiate a credere che fosse impossibile esistere al di fuori del sistema. Non c’era posto per l’ambizione individuale all’interno della macchina socialista. Per questo motivo la maggior parte delle persone non potevano concepire di fare un passo oltre i confi ni della struttura statale: men che meno di trasferirsi a Yuanmingyuan con l’intenzione di diventare un’artista indipendente. Eppure per qualche ragione questo era esattamente ciò che mi sentivo costretto a fare.”6

La produzione artistica di Yue Minjun non si limita però esclusi-vamente al tema, squisitamente proprio dell’arte contemporanea cinese “Post-89”, della frantumazione della soggettività (e della ricostruzione della stessa) e dell’annegamento delle utopie degli anni ottanta in un atteg-giamento così defi nito “cinico”, ma una parte consistente di essa si apre al

6 P. G. Marella, Cina. Rinascita..., pag.44.

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dialogo con l’occidente alla riscoperta di un esperienza storico-evolutiva, in Cina, inesistente.

Quella che per molti è stata superfi cialmente defi nita una copia di alcune delle più eccelse espressioni d’arte della cultura occidentale mo-derna, è invece una delle più sensibili forme di testimonianza dei forti cambiamenti vissuti dalla Cina contemporanea negli ultimi venticinque anni, chiamata a fare i conti con una sempre maggiore apertura all’ester-no. Il senso di tele come “The massacre at Chios” (1994), “Execution” (1995) , “Liberty leading the people” (1995), “Pope” (1997) e “Portrait of Federico da Montefeltro” (1997 ca.) , dipinti chiaramente ispirati a pietre miliari della cultura artistica europea quali “Massacro di Scio” (1823) e “La libertà guida il popolo” (1830) di Eugène Delacroix, “Il 3 maggio 1808: fucilazioni a La Moncloa” (1814) di Francisco Goya y Lucientes e “Esecuzione di Massimiliano I” (1867) di Edouard Manet, “Ritratto di Innocenzo X” (1650) di Diego Velàzquez, e “Ritratto di Federico da Mon-tefeltro” (1465-1572 ca) di Piero della Francesca, va ricercato nel vertigi-noso cambiamento che ha investito la Cina negli ultimi venticinque anni. Troppo spesso si parla però di “cambiamento della Cina” dimenticandosi forse che la Cina sia composta di individui, di una popolazione che ha dovuto modellarsi sulla scia delle decisioni prese da pochi e su equilibri mondiali giocati sul fi lo della globalizzazione e dei temi, soprattutto eco-nomici, ad esso interconnessi.

Ecco allora che parlare di “copia” delle esperienze occidentali risul-ta quantomeno riduttivo. Il parlare di copia ci priva inevitabilmente del-la possibilità di penetrare nel profondo uno degli aspetti più interessanti della pittura contemporanea cinese, e nello specifi co, della pittura di Yue Minjun, ovvero quello proprio di una generazione di artisti catapultati in un presente privo di passato. E’ invece proprio dalla costatazione di questa assenza che si genere quell’ansia di recuperare il tempo perduto, quella ne-cessità di vivere una storia artistica negata che porta gli artisti “post-89” a riappropriarsi delle più conosciute immagini occidentali costringendole a vestirsi di una società distante da quella a cui appartengono. Per di più gli artisti cinesi non sono affatto preoccupati di inserire in quella storia for-zatamente recuperata, le problematiche contemporanee che li stimolano

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nella loro personale rifl essione artistica. Ecco dunque che quelle “copie” diventano il più alto compendio di tutti quei temi che alimentano l’arte contemporanea cinese post-89 e in particolar modo il Realismo Cinico: il rapporto con l’occidente e il ruolo della Cina nello spettacolo della globa-lizzazione, la soggettività e la ricerca di un’autentica identità, la rinuncia agli ideali eroici, la tenacia dell’artista che, nonostante tutto, non smette di farsi domande e, nel caso della pittura di Yue Minjun, la scoperta delle risposte in una dolorosa rassegnazione.

“Execution” del 1995 è certamente il più celebre dipinto di Yue Minjun e rappresenta perfettamente tutto quanto fi n’ora detto sull’arte contemporanea cinese post-89 e sul Realismo Cinico, se non addirittura molto di più. Chiaramente ispirato alle “esecuzioni” di Francisco Goya y Lucientes e di Edouard Manet, rispettivamente quella del 3 maggio 1808 a La Moncloa e quella dell’uccisione di Massimiliano I, ha da subito at-tratto l’interesse della critica internazionale. Quest’ultima non ha esitato a leggere nell’opera un chiaro affronto al governo cinese da parte dell’artista e una graffi ante derisione delle decisioni socio-politiche scelte dal Parti-to nei decenni passati, culminate nello spietato massacro di piazza Tie-nanmen. E dalla visione dell’opera nulla potrebbe far pensare diversamen-te: quattro uomini seminudi stanno per essere fucilati da un plotone che volge le spalle allo spettatore fatta eccezione per uno di loro che, come i condannati, ride a crepapelle. Il tutto davanti alla cinta muraria verniciata di rosso che ricorda tanto quella di Piazza Tiananmen. Ma appunto quello che si percepisce non è altro che una sensazione, è la possibilità di trovarci in Cina, ma certamente non la certezza. Manca l’effi ge del “Grande Timo-niere”, mancano i fucili. E le divise dei militari? E perché nessuno sembra preoccuparsi della morte imminente, perché tutti ridono sfacciatamente? Persino il cielo è azzurro, limpido e liquido come non se ne vede mai a Pechino. La risposta a questi interrogativi ce la fornisce parzialmente Yue Minjun in persona nel momento in cui invita a non leggere nel dipinto la sola critica al massacro di Piazza Tiananmen e afferma:

“I want the audience not to think of one thing or one place or one event. The whole world is the background […] The red building is simply something that’s familiar to me as a Chinese artist. […] As

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I said, the viewer should not link this painting to Tiananmen. But Tiananmen is the catalyst for conceiving of this painting”7.

Dunque l’artista non nega la critica alla realtà in cui si trova a vivere, ma invita lo spettatore ad allargare la propria mente per partecipare ad un dramma maggiore, collettivo, di tutte quelle realtà, più o meno conosciute, in cui non esiste democrazia, né libertà di pensiero e di espressione. E’ il dramma della Cina socialista e a suo tempo “socialista-liberale”, è il dram-ma dell’Africa con le sue guerre incessanti, è il dramma della Crimea di oggi. Ma è anche il dramma di una società che scambia la globalizzazione con l’omologazione, la vita con gli interessi, il sentimento col capitale. E’ un’opera estremamente contemporanea ma allo stesso tempo eterna che, per quel che può, è in grado di riuscire a recuperare parte dell’evoluzione passata (mai avuta) che tanto fa dannare gli artisti cinesi. E così il volto, identico, che maschera i protagonisti della tela, diventa facilmente il volto di tutti. L’artista compie dunque un’operazione di decontestualizzazione che gli permette non solo di denunciare un male globale, ma di poter cri-ticare la realtà cinese senza lasciarlo troppo allo scoperto. Per di più quella risata congelata nel tempo uffi cializza il linguaggio artistico caratteristico dell’avanguardia cinese post-89, ovvero il Realismo Cinico.

L’opera però la si ricorda anche per un altro motivo. Comprata nel 1995 per soli $5,000 dal gallerista Manfred Schoeni per la sua Schoeni Gal-lery in Honk Kong, fu venduta al collezionista Trevor Simon per $250,000 Honk Kong dollars (US $32,200) che nell’ottobre del 2007 la mise in asta da Sotheby’s Londra registrando un incasso di ben $5,9 milioni.

Questo ci porterà inevitabilmente a trattare del tema del rapporto dell’arte contemporanea cinese (e in particolar modo del Realismo Cinico) con i mercati dell’arte cinesi ed internazionali.

7 M. Riddell, “Why is that man smiling? “Execution” by Yue Minjun”, in “China Debate. Society and Culture”, 20 luglio 2011.

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Yang Shaobin

Yang Shaobin è forse uno dei più interessanti artisti contemporanei cinesi. Inizialmente infl uenzato dal Realismo Cinico “più tradizionale”, quello proprio di Fang Lijun o di Yue Minjun, è stato in grado di model-lare il suo linguaggio sfi orando l’astrattismo ma lasciando intatta quella profondità di intenti che lo rende un “Realista Cinico” a tutti gli effetti. La sua produzione dunque pur mettendo in discussione la raffi gurazione fi gurativa, essenza del movimento post-89 teorizzato da Li Xianting, si veste di un cinismo violento che con forza ben descrive il dramma dell’ar-tista cinese di quegli anni. Con un’operazione di fredda analisi del potere politico e di dolorosa analisi autobiografi ca, esorcizza il dolore e sonda la realtà tramite il fi ltro della propria intimità. Quella di Yang Shaobin dun-que, è forse la produzione artistica che più di tutte sintetizza il rapporto tra l’arte cinese degli anni novanta, e ovviamente del Realismo Cinico di cui fa parte, e quella propria delle avanguardie occidentali, specialmente europee. La sua produzione è elitaria, raffi nata, dall’aspetto crudele, e ha portato lo stesso Yang Shaobin ad affermare:

Art is an integral part of society. Art is a mirror, which refl ects all aspects of people’s spiritual life in a society. Art should be a spiritual product of a living era. Most great artists are seen as changers of their culture or ahead of their time. Their views are avant-garde and will become those of the dominant elite in next generation8.

Nato nel 1963 nella provincia di Hebei, dopo essersi laureato all’ He-bei Polytechnical University nel 1983 ed essendo stato rifi utato alla Cen-tral Academy of Fine Arts di Pechino, si trasferisce nel 1995 nel villaggio di Song Zhuang, il celebre “East Village”, per vivere nella sua casa-studio. A Pechino vive e lavora tutt’oggi. Quale uno dei principali rappresentanti del Realismo Cinico, ha stretto sin dalla metà degli anni novanta solidi le-gami con altri celebri esponenti del movimento artistico in questione, tra i quali i sopra citati Fang Lijun e Yue Minjun; proprio con questi due artisti, Yang Shaobin venne invitato a partecipare alla celebre quarantottesima

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edizione della Biennale d’arte internazionale di Venezia, evento questo che certamente aiutò ad accrescerne la fama.

Quella di Yang Shaobin è una pittura che, almeno agli inizi, richia-ma Lucien Freud nella rappresentazione della carne e nella corposità della pennellata, certamente Arnulf Rainer nella trasfi gurazione delle immagi-ni, nella rappresentazione di personaggi che vengono dilaniati, e in questo si perde la carica ironica dell’artista austriaco, da segni “esterni” alla sem-plice rappresentazione del reale, ma sopratutto richiama Francis Bacon e ai protagonisti delle sue tele, soggetti crudelmente storpiati, contorti su sé stessi come se friggessero su una piastra bollente, quasi disumani.

Abbandonate le rappresentazioni “più realistiche” dei primi anni novanta, raffi guranti principalmente militari e forze dell’ordine in unifor-me nell’atto di combattere tra loro, di ferirsi, di mutilarsi, Yang Shaobin è più conosciuto per le sue immagini di un rosa stucchevole o da un blu splendido, profondo, spettrale come il blu dei fondali oceanici. Il rosso compare comunque nella maggior parte della produzione a ricordare allo spettatore che si sta parlando di un contesto preciso, quello cinese, quello della dittatura, quello in cui l’individualità non ha diritto di esistere. Così il singolo si scioglie sulla tela grazie ad una pennellata corposa e liquida, libera di spargersi a sua volontà sul piano; gli uomini sono deformi, in-tenti in smorfi e di dolore, sono disperati, si infl iggono del male a vicenda. Altri sembrano invece scomparire nel nulla, la consistenza che ricordava i corpi ritratti da Lucien Freud si trasforma in dissolvenza, i bambini sem-brano porcellane, altri scheletri. Addirittura c’è della matamorfosi: corna che compaiono sulle teste di alcuni uomini, uccelli che si fondono con i corpi, uomini dagli aspetti suini. E in ricordo delle proprie origini, quelle di una famiglia di lavoratori nelle miniere di carbone, la serie dei ritratti di minatori risulta essere una delle più toccanti in assoluto; dipinti come se si trattasse di una fotografi a a raggi infrarossi, l’inconsistenza della rappre-sentazione sembra richiamare la fragilità delle vite di questi individui, vite vissute nell’oscurità di una miniera, precarie come soldati al fronte.

Yang Shaobin è il pittore che se da un lato rompe con una raffi gu-razione pittorica realistica in senso stretto, esprime più profondamente

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e più drammaticamente il cinismo cinese. Quello che nasce dalla crisi dell’individualità, dagli occhi di chi ha visto troppo, dal pensiero di chi ha subito troppo, da chi ha perso qualsiasi ottimismo ma che, pazientemente, non smette di combattere.

Realismo Cinico, arte e mercato

All’inizio degli anni novanta la Cina visse un forte slittamento delle tematiche discusse nel campo dell’arte; non più solo rifl essioni fi losofi che e, conseguentemente, ontologiche rispetto alla produzione artistica, non più un approccio proveniente esclusivamente dal “dentro l’arte”. Ma si delineò invece un approccio “esterno”, che prendeva in considerazione il mercato, la valutazione economica dell’arte, la possibilità di introiti con la “sola” produzione artistica. Questo ovviamente portò all’idea di esposi-zioni e mostre organizzate non semplicemente per il gusto del “vedere”, non più fi ni a sé stesse ma invece aperte all’esterno, ricche di opere pronte per assere acquistate.

Nell’ottobre del 1990, agli artisti partecipanti alla mostra “Master of Chinese Oil Painting” tenutasi presso la Zhejiang Academy of Fine Arts, l’odierna China National Academy of Fine Arts, sponsorizzata dalla Chinese Artists’ Association e fi nanziata dalla Japanese Chiyoda Club, fu richiesto di seguire degli standard di produzione occidentali nelle di-mensioni delle tele, fu data la possibilità di sponsorizzazione del proprio lavoro nonché l’opportunità data ai migliori lavori di vincere un premio di rappresentanza e in denaro, vale a dire una medaglia d’oro, una d’argento e una di bronzo affi ancate rispettivamente a premi in denaro del valore di 10,000 RMB (Yuan), 5,000 RMB e 3,000 RMB. Il tutto per mostrare la sempre più forte vicinanza dell’arte cinese con il mercato dell’economia.

Eppure, se il tentativo di un avvicinamento a parametri valutativi economici tipicamente occidentali potrebbe far pensare ad un’apertura as-soluta della Cina verso una maggiore libertà di circolazione, anche di idee, bisogna essere molto cauti per non cadere nell’errore di chi, ad esempio, abbia scambiato la straordinaria apertura economica concessa da Deng Xiaoping negli anni ottanta con un’apertura anche socio-culturale, pur-troppo allora ancora fortemente osteggiata.

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Certo però non si può negare che il Paese iniziò, a partire dagli anni ottanta, a fare i conti con l’interesse crescente dei collezionisti d’arte occidentali, e ancor di più dopo gli eventi drammatici del 1989. In Cina si sviluppò così, fermo restando una diffi denza di fondo piuttosto evidente nei confronti delle nuove espressioni artistiche che perdura tutt’oggi, un atteggiamento ambivalente che si muoveva sul doppio fi lo di un’aperta ostilità e della tutela di un’arte ormai “datata”, quanto meno negli intenti, e della necessità invece di rispondere alle esigenze di mercato estere cer-tamente allettanti per un paese in piena crescita economica e con ampie prospettive di potenziamento.

A partire dagli inizi degli anni novanta, in particolar modo dall’au-tunno del 1991, il mondo dell’arte cinese ha iniziato a seguire appassiona-tamente i risultati dei lotti cinesi venduti dalle celebri case d’asta Sotheby’s e Christie’s presenti nel limitrofo porto di Hong Kong, con particolare attenzione rivolta nei confronti dei dipinti ad olio, da sempre punta di diamante della produzione artistica cinese.

Tra il settembre del 1991 e il mese di marzo del 1993, Sotheby’s e Christie’s – Hong Kong hanno vissuto un periodo di straordinario suc-cesso nella vendita delle produzioni ad olio prodotte nell’entroterra cinese, con artisti quali Ai Xuan, Chen Yifei, He Duoling, Luo Zhongli, Shao Fei, Wang Huaiqing, Wang Yidong e Wu Guanzhong. Proprio in quel periodo l’opera “Yeyan” di Chen Yifei fu battuta all’asta per un totale di HK$1,980,000.

I risultati di queste aste, raggiunti da due celebri case d’asta che per prime ebbero il coraggio di entrare nell’allora semi-sconosciuto mercato asiatico già negli anni settanta, spinsero la Cina a comprendere l’impor-tanza dell’arte nel sistema economico mondiale ma sopratutto la spinsero a capire come il successo della produzione artistica cinese fosse, all’epo-ca, in gran parte legato ai gusti occidentali (seppure le opere di artisti come Chen Yifei erano comunque molto lontane dalle grandi avanguardie artistiche del novecento). Per di più, la potenza cinese rischiava di farsi superare da due realtà con le quali da sempre era stata, e ancora oggi è, caratterizzata da non poche tensioni: Hong Kong e Taiwan. Quando infatti nel 1987 Taiwan vide alleggerirsi le restrizioni economiche che da

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circa quarant’anni la opprimevano, i compratori taiwanesi furono liberi di entrare nel mercato dell’arte internazionale tanto che, nel 1988, la vendi-ta delle produzioni ceramiche cinesi al mercato taiwanese crebbe di ben dieci volte, testimoniando l’interesse fortissimo di Taiwan verso il merca-to dell’arte seppure, anch’esso, ancora legato ad una produzione artistica datata e poco ricercata dai mercati esteri.

Conclusioni

Parlare di “Realismo Cinico” e di arte d’avanguardia cinese è molto più complesso di quello che si crede, per diverse ragioni. Innanzitutto perché costringe chi ne è interessato ad abbandonare i vecchi cliché sulla Cina in generale, non semplicemente sulla sua arte e la sua cultura. Richie-de di approfondire la storia passata al di là di quanto esposto, comunque molto poco, dai libri scolastici; necessita di sondare le realtà meno “stori-cizzate” dalla storiografi a esistente nonché di un’analisi sociologica che sia in grado di esporre il più compiutamente possibile una sviluppo sociale incredibilmente rapido, in cui il modo di pensare tra una generazione e l’altra è radicalmente cambiato e facilmente avvertibile; richiede inoltre una forte preparazione sulla politica cinese di ieri e di oggi.

Per quel che riguarda il Realismo Cinico, comprendere questo mo-vimento da un punto di vista storico-artistico richiede addirittura qual-cosa di ben più diffi cile da avere rispetto ad una formazione accademica solida, ovvero una giusta attitudine nel porvisi di fronte. Ancora oggi si dibatte su un’identità del movimento che risulta quasi essere stata imposta dallo sguardo dell’ “occidentale” senza aver lasciato spazio a chi di do-vere, ovvero agli artisti cinesi, un’ampia possibilità di espressione su tale tema. Da una parte il collezionista occidentale con la credenza di poter interpretare tutto secondo il proprio gusto e il proprio bagaglio forma-tivo, dall’altra l’artista cinese con il suo atteggiamento romanticamente nichilista, e anche con una certa presunzione di essere padre di un’arte che, concettualmente, non è alla portata di tutti, hanno di certo permesso che l’interpretazione dello “straniero” risultasse dominante, ma non per questo pienamente veritiera. L’invito che si vuole fare a chi si accinge a studiare quest’arte è quello di abbandonare la propria visione del mondo

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e della storia dell’arte, di rinunciare alle “tradizionali” categorizzazioni della storia dell’arte, formali e cronologiche, cercando di immergersi, da vergini, in una cultura differente.

In Cina il passato non è così passato, e il presente è il futuro. L’e-voluzione culturale che l’Europa ha vissuto da secoli, la Cina l’ha vissuta in cento anni, e anche meno; lo sguardo che si rivolge all’Occidente, non è di mera imitazione, è di curiosità. Per cui il Realismo Cinico non deve essere interpretato confrontandolo con il Realismo Europeo o Ameri-cano, sarebbe spietato e superfi ciale. Il Realismo Cinico ha una propria, sicura, identità che non merita di essere sminuita o interpretata secondo gli schemi del pensiero moderno europeo. Così come il Realismo Cinico non è banalmente una esclusiva critica alla dittatura, ma è molto di più: è lo sforzo di un élite culturale che fa il punto della situazione sulla propria storia passata, rifl ette sul presente e si interroga sul futuro. Sul futuro dei cinesi nella Cina passata, dei cinesi nel mondo contempora-neo, della Cina del grande fenomeno della globalizzazione. D’altronde negli ultimi anni la Cina non è stata la sola potenza a farsi strada sul panorama mondiale; cosa dire del Medio Oriente o del Sudamerica ad esempio? Quale sarà il destino ultimo della Cina in questo panorama culturalmente sempre più variegato? E sopratutto, come reagiranno gli artisti a questo cambiamenti?

Il Realismo Cinico ha dimostrato inoltre come nella Cina contem-poranea nessun aspetto della quotidianità possa essere analizzato singo-larmente. L’economia ad esempio, che per molti è un insulto se affi ancata all’arte, ne è invece parte integrale, che se ne voglia o meno. E questo sopratutto in un paese come la Cina che si è imposto sul panorama mon-diale facendo leva sull’economica, sulle sue potenzialità d’investimento, sulla sua forzata e sconvolgente apertura all’esterno. E non solo in termini di vendite e guadagni. L’economia ha giocato un ruolo di fondamentale importanza anche sulla defi nizione stilistica del movimento, ad esempio. Data la grande richiesta proveniente dai mercati occidentali, il Realismo Cinico ha dovuto modellarsi sui gusti europei e statunitensi in particolar modo, e ha posto altre domande: se sia giusto o meno vendersi, se sia dignitoso parlare di arte in un contesto economico, fi no a che punto giun-gere a compromessi di mercato. Ma questo ha portato anche a rifl essioni

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in merito a nuovi campi di investimento, di crescita, di rilievo sociale e culturale, di possibilità di rilevanza nazionale.

Studiare l’arte d’avanguardia cinese e in particolare il Realismo Ci-nico è un viaggio in una realtà spaventosamente ricca di stimoli, che invita a spingere i propri limiti al di la di se stessi. E’ un invito a nuotare contro-corrente per difendere le proprie idee come nelle tele di Fang Lijun, a non prendersi troppo sul serio, come ci invita a fare Yue Minjun, a ricordarsi che l’uomo è l’anima, come sembrano essere gli uomini di Yang Shaobin.

Il tutto anche a rischio di annegare, di ridere fi no al pianto, di sanguinare.

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