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UNIVERSITÀ DEGLI STUDÎ SUOR ORSOLA BENINCASA CENTRO MEDITERRANEO PRECLASSICO STUDI E RICERCHE III.

Quaderni del Centro Mediterraneo Preclassico - Studi e Ricerche III (1) N. Bolatti Guzzo - S. Festuccia - M. Marazzi edd. Naples 2013

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Contributions about the archaeology and epigraphic of the aegean-anatolian and near eastern area in preclassical time

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDÎ SUOR ORSOLA BENINCASA

CENTRO MEDITERRANEO PRECLASSICO

STUDI E RICERCHE

III.

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QUADERNI DELLA RICERCA SCIENTIFICA

Serie Beni culturali 20

Comitato di redazione

Gennaro Carillo, Giovanni Coppola, Piero Craveri, Edoardo D’Angelo, Pierluigi Leone de Castris,

Emma Giammattei, Massimiliano Marazzi

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I volumi della collana sono distribuiti da HERDER 00186 Roma piazza Montecitorio, 120 tel. +39 06.6794628 / 6795304 fax +39 06.6784751 www.herder.it [email protected] ISBN 978-88-960-55-342

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDÎ SUOR ORSOLA BENINCASA

CENTRO MEDITERRANEO PRECLASSICO

studi e ricerche

III

studi vari di egeistica, anatolistica e del mondo mediterraneo

a cura di Natalia Bolatti-Guzzo,

Silvia Festuccia, Massimiliano Marazzi

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impaginazione Natalia Bolatti-Guzzo progetto grafico Sergio Prozzillo tutti i diritti sono riservati Suor Orsola Benincasa nell’Università il 2012 Napoli via Suor Orsola, 10

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indice 9 natalia bolatti-guzzo – massimiliano marazzi

Il System und Ausbau del geroglifico anatolico di Günter Neumann

15 günter neumann

sistema e struttura del geroglifico hittita

MONDO ANATOLICO E VICINO ORIENTE

53 paola dardano

il vento, i piedi e i calzari: i messaggeri degli dei nei miti ittiti e nei poemi omerici

89 silvia festuccia

the bronze age moulds from the levant: typology and materials

111 rita francia

la struttura ‘poetica’ degli exempla ittiti nel “canto della liberazione”

145 federico giusfredi

note di lessico e di cultura “scribale” ittita e luvia 173 clelia mora – matteo vigo

attività femminili a Ḫattuša: la testimonianza dei testi di inventario e degli archivi di cretulae

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225 alfredo rizza grammatology and digital technologies. different applications of the concept of ‘character’ in unicode and other non-technical problems about ancient scripts

MONDO EGEO

255 carmine afeltra

la pittura minoica d’epoca neopalaziale: aspetti iconografici, contestualizzazione architettonica e interconnessioni nel Mediterraneo orientale

291 serena di tonto

settlement patterns in the Mesara plain during the neolithic period

317 arianna rizio

evidence of destruction from the Peloponnese during the late helladic period

MEDITERRANEO: TUTELA E CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI

337 stefano bartone

il problema del golfo della Sirte e del patrimonio archeologico sommerso, i crimini contro i beni culturali e l’azione UNESCO

345 valeria li vigni l’opera dei pupi siciliani: patrimonio immateriale orale dell’umanità

367 claudio mocchegiani carpano archeologia in acqua: dalla conoscenza alla tutela

383 sebastiano tusa aspetti etico-giuridici nella ricerca archeologica subacquea

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399 viola vascello l’appartenenza allo stato dei beni archeologici e la notifica di culturalità

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natalia bolatti-guzzo – massimiliano marazzi

Il System und Ausbau del geroglifico anatolico di Günter Neumann

Il System und Ausbau fu presentato da G. Neumann nella seduta del 10 Febbraio del 1989 dell’Accademia delle Scienze di Göttingen e pubblicato nelle Nachrichten della Philologisch-Historische Klasse Nr. 4 del 1992 (per i tipi di Vandenhoeck & Ruprecht di Göttingen).

Nel portare in traduzione italiana il testo, gli scriventi hanno cercato di rendere il pensiero dello studioso nella maniera più fedele possibile, operando solo in pochissimi casi (note a piè di pagina, brevi aggiunte caratterizzate dalla sigla ndr, imprescindibili cambiamenti nella punteggiatura derivanti dalla diversità della sintassi tedesca) piccoli aggiustamenti.

La citazione dei singoli segni geroglifici è data, secondo le convenzioni correnti, con il numero del segnario ufficiale, basato sull’opera di Laroche 1960 (e gli aggiornamenti in Marazzi (ed.) 1998, e Hawkins 2000), preceduto da “L”.

La bibliografia fornita da G. Neumann a chiusura del contributo non si riferiva originariamente alle sole opere citate nel testo, ma era intesa a fornire al lettore un quadro di riferimento delle opere ritenute più importanti per lo studio del geroglifico anatolico. Tenuto conto del mutato panorama scientifico e di quanto illustrato in questa breve introduzione, si è scelto di riportare in un’unica bibliografia generale quanto citato dallo studioso nel proprio testo e i riferimenti indicati nell’introduzione (all’interno dei quali si potranno trovare tutte le informazioni relative alla storia degli studi e alle diverse e più recenti tematiche).

Infine, gli scriventi sono grati alla Famiglia Neumann e all’Accademia delle Scienze di Göttingen per il permesso accordato a questa pubblicazione, e al collega H. Nowicki,

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introduzione

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dell’Università di Würzburg, per la collaborazione in questa iniziativa.

Brevi note introduttive

Günter Neumann ha rappresentato nella storia più recente degli studi di anatolistica una delle personalità più complesse e complete, capace di coniugare la conoscenza della linguistica comparativa indoeuropea, suo principale settore di studio e di ricerca, con un’esperienza di carattere filologico ed epigrafico abbracciante l’intero panorama delle varietà linguistiche del gruppo anatolico, tanto quelle del I, quanto quelle del II millennio a.C.

A questa sua ampia e pratica conoscenza si associava una vera e propria passione per il complesso campo della storia e dei meccanismi delle manifestazioni scrittorie, da quelle più antiche e lontane del mondo asiatico, egiziano e amerindiano, fino alle più recenti, caratterizzanti specifiche culture “moderne” del continente nord-americano e africano (ne fanno fede due fra le sue ultimissime pubblicazioni, dedicate rispettivamente ai sistemi scrittorî egei – Neumann 1998 – e alla storia delle scritture in generale – Neumann 2002).

Proprio questo intrecciarsi di competenze linguistiche e scrittorie ha fatto sì che G. Neumann rappresentasse uno dei punti di riferimento più significativi nel processo di “ridecifrazione”, innescatosi fra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70, di una delle scritture più suggestive della storia dell’Anatolia preclassica, quella del cd. geroglifico anatolico. Si tratta, sotto il profilo delle “storie delle scritture”, di una manifestazione che presenta caratteri molto particolari (cf. quanto di recente illustrato in Marazzi 1992 e 2010; Bolatti-Guzzo 2004, Mora 1991): - nasce, come creazione autonoma, in un ambiente già “letterato”,

quindi come secondo strumento di notazione grafica; - proprio in virtù di questa sua convivenza con una scrittura quale

quella cuneiforme, ampiamente usata in tutti gli ambiti della vita economica, sociale e culturale in genere di un grande stato territoriale del Vicino Oriente antico quale quello hittita, va a occupare, nel corso del tempo, specifici spazi della comunicazione scritta;

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- in virtù del suo patrimonio segnico caratterizzato da una forte valenza iconica, è in grado di mettere in atto procedure di comunicazione del tutto originali; queste risultano strettamente connesse sia con l’organizzazione spaziale sulle superfici dei supporti, sia con un apparato di varianti grafiche degli elementi del proprio segnario il cui utilizzo risulta fortemente condizionato da scelte compositive legate a una comunicazione al tempo visiva e linguistica (cf. in generale, su tali problematiche Marazzi 2013, con i riff. Krämer 2003, 2006 e 2010);

- inoltre, non diversamente dalle manifestazioni scrittorie rilevabili nella tradizione egiziana (per la quale si rinvia all’originale contributo di Assmann 2002), l’iconicità dei suoi elementi costitutivi è in grado di mediare, attraverso un complesso gioco di rinvii metaforici, all’“enciclopedia” dell’ambiente multi-culturale e plurilinguistico all’interno del quale nasce e si sviluppa (cf. Marazzi 1993, 2009, con i riff. a Eco 1997 e 2007).

A monte degli studi più specifici e recenti sulle strategie

comunicative del geroglifico anatolico si pone, come sopra accennato, un pionieristico lavoro finalizzato essenzialmente a una ridefinizione del patrimonio segnico di questa scrittura, che ha visto in Günter Neumann, insieme a J.D. Hawkins e A. Morpurgo Davies, i principali artefici.

Infatti, dopo le opere seminali di P. Meriggi ed E. Laroche che fra gli anni ’50 e ’60 hanno costituito un imprescindibile punto di partenza (si vedano essenzialmente Meriggi 1962 e 1966-1975, Laroche 1960), il lavoro di rianalisi condotto da questi tre studiosi ha innescato un incredibile sviluppo in questo settore di studio (cf. il primo e fondamentale saggio Hawkins-Morpurgo Davies-Neumann 1973, seguito dalla conferenza ufficiale tenutasi a Pisa nel 1975, nell’ambito del “Seminario sulle scritture dell’Anatolia antica”, pubblicata in Morpurgo Davies-Hawkins 1978; successivamente, nell’ambito della Tavola Rotonda “Il geroglifico anatolico: sviluppi della ricerca a venti anni dalla sua ‘ridecifrazione’”, tenutasi a Napoli-Procida nel 1995 – cf. Marazzi (ed.) 1998 – venivano definitivamente stabilite le convenzioni di traslitterazione per l’edizione dei testi e le modalità di nominazione e numerazione dell’intero nuovo segnario, sulla base della griglia stabilita da E. Laroche nel 1960).

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introduzione

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Tale sviluppo ha portato, fra la fine degli anni ’90 e i primi anni di questo secolo all’edizione parziale delle iscrizioni monumentali della fine del XIII secolo (Hawkins 1995), alla pubblicazione dei primi due volumi del Corpus of Hieroglyphic Luvian Inscriptions (cf. Hawkins 2000 e Çambel (ed.) 1999) e delle maggiori collezioni epigrafiche su glittica provenienti dall’area della “città alta” di Hattusa (cf. Herbordt (ed.) 2005, Dinçol-Dinçol 2008, Herbordt-Bawanypeck-Hawkins 2011), insieme al varo, presso lo Hethitologie Portal dell’Accademia delle Scienze di Mainz (cf. www.hethiter.net) del progetto del corpus delle iscrizioni geroglifiche su sigillo del II mill. a.C. (cf. Marazzi-Mora-Müller 2009 e Marazzi (ed.) 2009).

In questo susseguirsi di nuove ricerche e di progressi il System und Ausbau der hethitischen Hieroglyphenschrift, che qui presentiamo in traduzione, si pone come anello di congiunzione fra quel processo di revisione e ridecifrazione che aveva caratterizzato, con le sue letture innovative di molti sillabogrammi del segnario geroglifico, gli sviluppi scientifici degli anni ’70, e il successivo momento di riflessione sui meccanismi e le strategie di comunicazione (parallelo, tra l’altro, alla rinnovata edizione di corpora e collezioni) che caratterizza la ricerca odierna (alle opere già ricordate, si aggiungano, a esempio, il recente volume collectaneo curato da C. Melchert, The Luwians (2003), il lavoro di Yakubovich 2010, la raccolta di Payne 2012; inoltre, dopo Marazzi 1990, le nuove concise grammatiche di Plöchl 2003 e Payne 20102).

Visto sotto questo punto di vista, il saggio di G. Neumann rappresenta il primo tentativo di coniugare una piana e tradizionale illustrazione del sistema scrittorio geroglifico, con un’analisi delle forme comunicative messe in atto attraverso i suoi elementi costitutivi; il tutto sempre calato in un quadro più ampio, che potremmo definire di “fenomenologia dello strumento scrittorio” (di qui i numerosi richiami, sia nel testo che nelle note, alle scritture lineari egee, geroglifica egiziana, cuneiforme e mesoamericane). Particolare attenzione merita, in tal senso, ad esempio, l’incardinamento del funzionamento del sistema logogrammatico nelle tre tipologie di connexio: iconica, tropica e homphonica; così anche la puntualizzazione del suo uso di carattere più squisitamente “testuale” nel passaggio dal sigillo alle iscrizioni celebrative e religiose su ampie superfici monumentali sul finire del XIII secolo, un cambiamento che, legando tale sistema a un codice linguistico ben

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definito, quello luvio, ne determinerà lo sviluppo quale sistema scrittorio fonetico, a base sillabografica, esclusivo nell’ambito delle diverse formazioni politiche nelle quali il regno hittita appare frammentarsi a cavallo fra il II e il I millennio a.C.

A tale proposito va anche messo in evidenza come allo studioso fossero ben chiari due punti essenziali che caratterizzano questo sistema scrittorio, non sempre presenti financo nella letteratura più recente, l’uno strettamente interconnesso con l’altro. Si tratta, da un lato della sua definizione “linguistica”, dall’altro dell’apparente sviluppo che esso mostra nel tempo verso un’accentuata funzionalità di tipo marcatamente fonetico.

Sul primo, alla lunga querelle, già dagli anni ’40 dello scorso secolo, che vide affermarsi la prevalente convinzione che questa scrittura altro non esprimesse se non la stessa lingua hittita testimoniata dai documenti cuneiformi (si rinvia in proposito all’ampia discussione in Friedrich (ed.) 1969), da cui la corrente definizione “geroglifico hittita”, si oppose, a cominciare dalle nuove letture di una serie di sillabogrammi individuate da G. Neumann, A. Morpurgo Davies e J.D. Hawkins nel corso dei primi anni ’70 , la (ancora oggi maggioritaria nominazione) di “luvio geroglifico”. Questa derivava dal fatto che i “testi”, ormai “leggibili” attraverso le nuove attribuzioni fonetiche, di età neo-hittita mostravano chiaramente come tale sistema scrittorio fosse, a quest’epoca, funzionale alla notazione di una varietà luvia molto vicina (se non eguale) a quella testimoniata dai documenti cuneiformi del II mill. a.C.

Le cose, però, stanno di fatto un po’ diversamente. Come lo stesso Neumann puntualizza con grande lucidità nello scritto che qui presentiamo, il sistema geroglifico nasce e si afferma (quale che ne sia l’ambiente geolinguistico in cui si forma) nel corso del II millennio quale scrittura funzionale a una comunicazione essenzialmente visiva e plurilingue. Che ai suoi utilizzatori fossero ben chiari i principi informatori di un sistema scrittorio di tipo sillabico fonetico, appare evidente dal fatto che non solo nel suo ambiente di utilizzo era correntemente utilizzato il cuneiforme, ma anche dall’esistenza stessa, fin dalle sue prime manifestazioni su sigillo, di segni con funzione sillabografica utilizzati a complementazione fonetica degli idogrammi nel momento in cui occorreva disambiguare una qualsivoglia indicazione (onomastica,

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amministrativa, toponimica o teonimica che fosse). L’utilizzo di segni fortemente iconici, organizzati in composizioni iconografiche, “comprensibili” (o meglio, immediatamente percepibili) a prescindere dall’appartenenza linguistica (o, vieppiù, dal grado di competenza “letteraria”) da parte dei possibili contemporanei fruitori, è quindi una scelta strategica strettamente legata alle finalità di comunicazione di chi di tali iscrizioni era committente (in questo senso si vedano già le acute osservazioni in Morpurgo Davies 1986). Il geroglifico, che noi definiremmo in virtù di ciò “anatolico”, nasce essenzialmente come strumento di controllo amministrativo e propaganda politica al tempo stesso. La scelta di rapportarsi a uno specifico codice linguistico e, di conseguenza, di potenziare il proprio apparato sillabografico (e logogrammatico) è strettamente collegata a un cambiamento di funzione di tale scrittura, che sempre più diviene strumento per la redazione di veri e propri testi complessi e lunghi, arrivando a “invadere” il campo di utilizzo della scrittura cuneiforme, fino, dopo la disgregazione del regno hittita, a soppiantarla interamente; un cambiamento che non a caso coincide con un altro cambiamento, questo però di carattere sociolinguistico: la sempre maggiore affermazione della varietà luvia quale lingua di comunicazione corrente e generalizzata nei territori dell’impero immediatamente prima e successivamente al suo collasso (cf. in proposito quanto discusso in Mora 1999, Bolatti Guzzo-Marazzi 2004, Marazzi 2006, Rieken 2006). Non siamo quindi di fronte a un’evoluzione qualitativa del sistema (da una comunicazione “primitiva” e linguisticamente imprecisa, verso una notazione glottica più raffinata, quindi “superiore”, come una certa tendenza evoluzionistica nello studio delle scritture, purtroppo ancora oggi attuale, vorrebbe far credere), ma a un cambiamento funzionale che prevede un diverso rapporto e una diversa rilevanza nei confronti della resa glottica di uno specifico codice linguistico.

E tale distinzione fra potenzialità insite nella struttura notazionale e scelte di sistema in rapporto a mutate condizioni comunicative e sociolinguistiche, con tutte le conseguenze in termini di strategie (orto)grafiche emerge in forma chiara e inequivocabile dalla trattazione di G. Neumann, che in tal senso si pone nella migliore tradizione dell’antropologia della scrittura di tipo “harrisiano” (cf. per tutti Harris 1995 e 1996).

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sistema e struttura del geroglifico hittita

Come arrivarono i popoli a far uso della scrittura? I più appresero quest’arte dai propri vicini, come è il caso dei Germani: essi prima entrarono in contatto e impararono la scrittura dall’area nord-italiana, e da questa esperienza dettero poi vita al cosiddetto “alfabeto runico”; qualche secolo dopo fecero proprio direttamente l’alfabeto latino.

Anche i Greci hanno appreso la scrittura per ben due volte nel corso della loro storia dai propri vicini: prima, nell’età del Bronzo, derivarono una scrittura sillabica dal sistema scrittorio in uso nella Creta minoica. Questa trovò applicazione soprattutto nell’ambito delle strutture “palaziali”, dove fu usata essenzialmente per meri fini di carattere economico-organizzativo; con il collasso delle strutture palaziali micenee, all’inizio dei cd. “secoli bui” (attorno al 1200 a.C.) la loro conoscenza dello strumento scrittorio e la sua applicazione subì un brusco processo involutivo. Dal momento che, fino a oggi (fatta salva l’isola di Cipro, dove forse la scrittura rimase in uso, subendo un ulteriore processo di sviluppo), non abbiamo tracce della continuazione dell’uso di questo tipo di scrittura in Grecia, dobbiamo desumere che fosse completamente abbandonata.

È solo a cominciare dall’epoca compresa fra il IX e l’VIII secolo a.C. che i Greci derivarono l’alfabeto dall’ambiente fenicio.

Questo stesso fenomeno di derivazione della scrittura da ambienti geograficamente vicini può essere rilevato anche per altri popoli del Vicino Oriente e dell’Europa.

Solo in poche culture si assiste alla creazione autonoma di un sistema scrittorio: questo vale, per fare qualche esempio fra i più importanti, per la scrittura egiziana, per quella sumerica, per l’elamica e quella cinese, così pure per la scrittura

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degli Olmeki nell’America centrale, dai quali poi derivarono la propria scrittura i Maya.

In questo fenomeno di originale creazione rientra anche il cd. “geroglifico hittita” nell’antica Anatolia. Per Hittiti si intende un popolo parlante una lingua indoeuropea occupante nel II mill. a.C., insieme ai gruppi imparentati dei Luvî e dei Palaici, buona parte del territorio anatolico. Essi occupavano originariamente la parte centrale della regione, mentre i Luvi erano dislocati nelle aree meridionali e sud-occidentali e i Palaici in quelle nord-occidentali.

Di questa scrittura detta “geroglifica” sono giunte fino a noi numerose testimonianze. Tradizionalmente essa è definita “hittita”, dal momento che era pienamente in uso nell’ambito del regno hittita. Vi sono tuttavia indizi che sia stata all’origine creata per esprimere la lingua luvia1.

Dopo la sua scomparsa è rimasta a lungo dimenticata fino a che le spedizioni archeologiche europee non ne riportarono alla luce le prime testimonianze sul finire del XIX secolo. D’altra parte, la sua decifrazione è stata raggiunta soltanto gradualmente, nel corso del XX secolo, grazie allo sforzo congiunto di più studiosi di diverse nazionalità2.

L’Anatolia hittita, rientrando nella sfera di influenza culturale mesopotamica, entrò in possesso e fece uso, come sistema scrittorio corrente, della scrittura cuneiforme. È quindi lecito porsi la domanda di quali necessità portarono alla nascita di un secondo sistema scrittorio. Dal momento che le fonti tacciono a tal proposito, possiamo soltanto fare delle ipotesi al riguardo3.

Il nuovo sistema geroglifico anatolico4 presenta il vantaggio che molti dei suoi segni si caratterizzano per una forte valenza naturalistica, tanto da poter significare per via diretta attraverso la propria iconicità al “lettore” contempo-raneo, a prescindere dalla competenza linguistica di quest’ultimo5. Sotto quest’aspetto si differenzia radicalmente dalla scrittura cuneiforme con i suoi segni astratti, composti di

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tratti lineari e cunei, la cui lettura è possibile solo per chi ne abbia appreso i valori e ne conosca la lingua attraverso di questi espressa; d’altra parte, anche il formato delle tavolette d’argilla sulle quali si scriveva in cuneiforme ne indica l’uso per un unico specifico “lettore”.

Nella creazione dei geroglifici anatolici appare insita la necessità di permetterne un utilizzo a diversi livelli in un ambiente culturale caratterizzato da una forte pluralità linguistica, sì da rendere comprensibile almeno una parte dei segni in maniera diretta a chiunque e non solo a una ristretta cerchia di letterati. Sia l’iscrizione monumentale di Nişantaş6, all’interno dell’area della capitale Hattusa, sia quella su rilievo rupestre di Karabel7, al margine di un’importante via di comunicazione, sia quella di Izgin (XI sec. a.C.?), o la più tarda iscrizione che accompagna il rilievo di Ivriz, rappresentano testimonianze accessibili a chiunque. Esse si rivolgono, al pari di giganteschi manifesti, al passante, in un modo certamente estraneo all’uso della scrittura cuneiforme in Anatolia. A Nişantaş si può riconoscere che Suppiluliama II, l’ultimo re hittita di epoca imperiale, si “rappresenta” con tutti gli attributi della sua titolatura; e anche nel caso delle altre ricordate iscrizioni, dobbiamo immaginare che si trattasse di committenze di Signori i quali facevano attraverso di esse rappresentazione di sé. Inoltre, l’uso del geroglifico in tali casi può essere stato sostenuto anche dal fatto che si trattava di una manifestazione della “propria” scrittura, al pari di ciò che avviene nella valle del Nilo, i cui abitanti devono aver sentito le iscrizioni geroglifiche come qualcosa di specificamente “egiziano”.

Le più antiche testimonianze di questa scrittura sono rappresentate dalle iscrizioni su sigillo (e quindi dalle impronte di questi sulle cretule). In esse i segni, organizzati sulla superficie in forma artistica, servivano a indicare e celebrare essenzialmente il nome e titolo del Signore che ne era possessore8. Su di essi, oltre a nomi e titoli di re (REX), principi e pricipesse (REX FILIUS, REX

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FILIA), compaiono i segni PRAECO (“araldo”), AURIGA (“conduttore di carro”), PINCERNA (“coppiere”), SCRIBA (“scriba”, articolato, tra l’altro, secondo 3 diverse classi), MAGNUS DOMUS INFANS, che corrisponde al logogramma cuneiforme DUMU.É.GAL, da tradurre come “paggio di palazzo”. Tutti questi sono titoli di personale di alto rango; inoltre è attestato anche il segno L.372, SACERDOS (“sacerdote”). L’uso del sigillo con iscrizione geroglifica, quindi, comprende anche l’ambiente di corte (per ciascuno di tali titoli è attestato un unico specifico segno e questi appartengono certamente al nucleo più antico del sistema scrittorio). Sugli stessi sigilli compaiono, accanto alle iscrizioni geroglifiche, spesso anche quelle in caratteri cuneiformi: insomma, si ha l’impressione che la scrittura geroglifica sia stata ritenuta un mezzo adatto per mostrare e diffondere il potere del dinasta e della sua corte.

Passiamo, ora, ad analizzare il sistema di questa scrittura geroglifica anatolica.

Coloro che la svilupparono hanno assegnato ai singoli segni 3 diverse fuzioni: quella di esprimere parole, sillabe, e quella di individuare specifiche categorie semantiche; quindi logogrammi, sillabogrammi e determinativi. L’uso di logo-grammi e sillabogrammi è proprio di tutti i sistemi scrittorî di tipo primario9, rispondendo a necessità contingenti; i determi-nativi, invece, e cioè l’uso di segni dedicati all’individuazione di ambiti semantici, non è egualmente diffuso. Nelle scritture lineari cretesi, a esempio, sono assenti. Va tuttavia subito messo in evidenza il fatto che molti segni possono comparire con due di tali funzioni.

Nel creare i segni con queste 3 funzioni, i suoi artefici si sono certamente orientati secondo il modello della scrittura cuneiforme.

Partendo, dunque, dai segni indicanti un’intera parola, quelli che gli studiosi definiscono come “ideogrammi” o “logogrammi”, appare opportuno chiarire in primis il significato

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di queste due definizioni, dal momento che le loro rispettive funzioni sono diverse. La prima indica che un segno media, attraverso il tracciato della propria immagine, un concetto; quindi, la funzione in questo caso non è limitata al riferimento a una sola e specifica parola. L’ambito semantico può essere abbastanza vasto: così uno specifico segno geroglifico (L.45) può significare sia “bambino, erede”, sia, più specifi-camente”figlio”; un altro (L.90) può indicare non solo “piede”, ma anche l’attività del “camminare, marciare”. Ciò significa che un segno corrisponde a due o più parole. In molti altri casi la relazione fra segno e parola è unitaria, siamo pertanto di fronte a un logogramma10: la parola “re”, a esempio, viene espressa da un unico specifico segno, come è il caso della scrittura cuneiforme, ma con la differenza che il segno in questione presenta una sua iconicità, rappresentando un copricapo regio, allo stesso modo in cui noi oggi usiamo la rappresentazione di una corona per simboleggiare il potere regio. E ancora, il sistema geroglifico usa un segno specifico rappresentante una tavoletta per indicare il titolo tupala- “scriba”11.

Il secondo punto da chiarire è: quali possibilità sono date di esprimere un concetto o una parola per mezzo di un logo-gramma/ideogramma?12 In effetti soltanto 3:

1. Il segno può rappresentare direttamente l’oggetto che intende significare (designatum); così un uccello può essere indicato attraverso un segno che rappresenta (semplificato e stilizzato) un volatile seduto o in volo; in questo caso si parla di connexio iconica13.

2. Il segno rappresenta un oggetto, ma ciò che intende significare è qualcosa concettualmente associabile a esso. Questo è il caso rappresentato dal copricapo a punta che indica la parola “re”. In questo caso si parla di connexio tropica, dal greco τρόπος, un antico termine che nella Retorica serva a indicare una nominazione (in tutte le sue forme) non-propria. A

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questa categoria appartengono tutti quei segni che (alquanto imprecisamente) sono definiti simbolici. Recentemente E. Laroche ha proposto che il segno geroglifico per “divinità” abbia originariamente rappresentato due occhi14. Forse questo significato deriva dal fatto che si riteneva che un dio fosse capace di vedere tutto; sarebbe quindi – usando una metonimia – una caratterizzazione di ciò che si vuole indicare attraverso una delle sue più importanti capacità. E così anche si tratta di una connexio tropica nel caso in cui, volendo indicare un animale, si usa il segno rappresentante la sua sola testa (pars pro toto), allo stesso modo in cui nella lingua la figura retorica della sineddoche viene attribuita ai tropoi (va notato che nel caso del segno scrittorio della testa per l’intero animale, questo può essere visto come una sorta di abbreviazione grafica, quindi un segno che trae la propria ragion d’essere da un’originaria connexio iconica).

3. Il suono espresso dalla parola iconicamente rappresentata dal segno è identica (omofona), o quasi identica, con la parola che si intende significare. Le due parole hanno, naturalmente, significati diversi. Ciò corrisponde esattamente – secondo il principio dei giochi a rebus15 – alla possibilità, in ambiente linguistico tedesco, di esprimere l’aggettivo “arm” (“povero”) per mezzo del segno di un braccio (che in tedesco suona egualmente /arm/, scritto però con la maiuscola “Arm”), oppure, in ambiente linguistico inglese, di esprimere la parola per “zia” (ingl. scritto “aunt”, ma pronunziato /a:nt/), per mezzo di un segno raffigurante una formica (che in inglese si scrive “ant”, e si pronunzia /ænt/, quindi molto similmente alla parola per “zia”). In questo caso si parla di connexio homophonica [* ndr: un corrispondente gioco a rebus in italiano sarebbe l’uso di un segno raffigurante l’immagine stilizzata di un “grande viso tondo” per esprimere l’animale “visone”]. L’uso di un tale processo prevede che il valore meramente rappresentativo del segno (quindi, ciò che esso raffigura) non abbia alcunché a che

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fare con il contesto, per il quale risulta rilevante il solo valore fonetico.

Oltre a queste tre possibilità di espressione (quantomeno nel caso di segni singoli) non ve ne possono essere altre; i criteri della scelta operata di volta in volta al loro interno da coloro che idearono il sistema scrittorio, rimangono tuttavia arbitrari. In molti casi riusciamo a comprendere il “motivo” espresso dal segno, cioè il suo referente oggettuale e ciò che con esso si intendeva esprimere. Ad esempio, risulta certo che la rappresentazione di un viso con la lingua fuori in avanti (L.22), voleva significare l’atto del parlare.

(L.22)

Ancora, in un segno lineare interrotto (L.212) si può riconoscere un corso d’acqua che scorre attraverso il territorio.

(L.212)

In molti altri casi la forma del segno non è d’aiuto, almeno per noi, per capire la ragione della sua scelta per indicare una parola o esprimere un certo concetto. Perché, a esempio, il triangolo ���� (L.370) assume il significato di “buono” o il valore sostantivo di “salute, salvezza”? Egualmente per noi inspiegabile è il perché il segno L.368 assuma, invece, il valore di “cattivo” “male”.

(L.368)

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Rimangono, quindi, molti problemi di comprensione ancora aperti, che forse solo nel prosieguo degli studi potranno essere chiariti.

Spesso avviene che due segni (due logogrammi) si trovino a essere congiunti in un’unica composizione grafica; in questo caso si è di fronte a legature. A esempio, il segno indicante schematicamente “montagna” si congiunge nella sua parte superiore al segno per “divinità”, al fine di indicare che tale montagna ha significato divino, una rappresentazione, questa, ampiamente attestata nella letteratura hittita cuneiforme.

Il secondo tipo di segni, i cd. determinativi, servono, come già detto, a determinare l’ambito semantico, cioè il raggruppamento significativo, cui una parola appartiene. Così, davanti a ogni nome di divinità è ripetuto sempre lo stesso segno affinché attraverso di esso il lettore sia avvertito che la parola che segue è appunto un nome divino. Un altro apposito segno precede invece ogni parola indicante animale, o un altro ancora i nomi propri di persona, e così via.

Non sempre e necessariamente tale determinativo deve precedere la parola cui si riferisce; come avviene anche nella scrittura cuneiforme, a esempio per i nomi di luogo o quelli indicanti territorio, esso può essere collocato anche immediata-mente dopo. Ai determinativi, dunque, spetta questa specifica funzione; diversamente rispetto ai logogrammi/ideogrammi (e anche ai sillabogrammi), essi non posseggono un equivalente fonetico.

La terza categoria di segni è rappresentata dai sillabogrammi. Essi si differenziano completamente dai

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logogrammi: infatti, mentre questi ultimi indicano al lettore la tematica trattata dal testo attraverso la propria forma grafica, aiutandolo al contempo a riconoscere la parola che si intende esprimere, ai sillabogrammi è attribuito mero valore fonetico. Si potrebbe pensare che essi siano stati creati in un secondo momento all’interno del sistema, e cioè che prima siano stati definiti i logogrammi (e i determinativi); ma anche se si accettasse una tale distinsione in fasi, questa non è per noi, oggi, individuabile: i sillabogrammi, così come ci appaiono, hanno già sempre una valenza fonica.

La creazione dei sillabogrammi appare essere avvenuta al di fuori del modello offerto dalla scrittura cuneiforme. In quest’ultima, infatti, domina una notevole pluralità di segni, indotta certamente dalle stratificazioni avvenute nel corso del suo lungo utilizzo, che gli scribi non hanno mai sottoposto a un reale processo di semplificazione. Da dove derivava questo stato di complessità della scrittura cuneiforme? Innanzitutto alcuni segni possedevano diverse valenze fonetiche che dovevano essere memorizzate dai suoi utilizzatori, in modo tale da poter scegliere quale si adattasse nei diversi contesti a esprimere la giusta parola. Inoltre i valori sillabici erano diversificati nella loro tipologia: vi erano non soltanto sequenze del tipo consonante+vocale (come ba, li o mu), ma anche del tipo vocale+consonante (come ab, il o um), o addirittura consonante+vocale+consonante (come hur, ram o pit). Questa mancanza di uniformità (gli studiosi la definiscono polifonia) è stata evitata nella creazione del segnario geroglifico anatolico: qui, infatti, ogni segno ha un unico valore sillabico; il sistema è quindi monofonico (ma si vedano più avanti alcune limitazioni al riguardo). Per quanto attiene, poi, alla tipologia sillabica, quasi tutti i segni appaiono essere del tipo a sillaba aperta, come la, pi, tu etc.; si notano solo poche eccezioni al riguardo: si tratta di segni che indicano doppia consonante come k(a)ra/i (L.315), t(a)ra/i (L.389), hàra/i (L.290), pára/i (L.13), tala/i

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(L.367), tana (L.429) etc. (dove la trascrizione di singoli segni con una sola consonante – del tipo s- etc. – è oggi desueta).

Un’altra categoria di legature è rappresentata da quella di un logogramma/ideogramma+sillabogramma. In questo caso il sillabogramma ha la funzione di indicare la parola che con il logogramma si intendeva esprimere16. Un esempio in proposito è dato dal segno che a una freccia rivolta verso l’alto (L.70) associa un tratto (in basso a sinistra) con il valore sillabico ra/i: in tal modo si segnala che la parola espressa contiene una r, suggerendo così che la lettura debba essere sarri “verso l’alto”.

Tali “complementi fonetici” sono particolarmente necessari per il disambiguamento degli ideogrammi, pur comparendo anche in unione con i logogrammi.

Le più antiche testimonianze di questa scrittura geroglifica – risalenti ca. al XV sec. a.C. (cf. Mora 1991) – sono attestate su sigillo. La nostra attenzione si rivolge qui però in primis a un’altra tipologia di iscrizioni decisamente più recente. Nei pressi di Hattusa, attorno alla seconda metà del XIII sec. a.C., uno degli ultimi re hittiti, Tuthalija IV, conferì un nuovo assetto a un grande santuario rupestre. Il suo nome in turco è oggi Yazılıkaya, “rocce iscritte”. Il nome datogli dagli Hittiti non è certo (I. Singer ha proposto che fosse il NA4huwaši ŠA dU URUhatti)17. Sulle pareti di un grande vano a cielo aperto delimitato dalle rocce si svolge una lunga composizione a rilievo rappresentante due processioni di divinità: sulla sinistra sono collocate le divinità maschili, sulla destra quelle femminili18. Accanto a ognuna delle figure rappresentate è collocato il nome in geroglifico. Sebbene gli agenti atmosferici abbiano, nel corso dei millenni, arrecato molteplici danni, gli

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studiosi sono riusciti mano a mano a individuare molti dei nomi e a darne una spiegazione. Ecco alcuni esempi:

Questa iscrizione è da leggere dall’alto verso il basso: il segno superiore rappresenta il determinativo per “divinità”, seguito, immediatamente al di sotto, da un sole fortemente stilizzato con i raggi in forma di linee orizzontali che ci riporta a quel dio che le fonti cuneiformi indicano come “divinità del sole del cielo”; e di fatto, l’ultimo segno in basso sta a significare appunto “cielo”19. Il secondo e il terzo segno sono dei logogrammi e il rapporto genitivale esistente fra “dio del sole” e “cielo” non è espresso per mezzo di un segno, bensì dal solo nesso spaziale, in un modo abbastanza semplice di testualità.

Questa seconda iscrizione rappresenta due animali immaginari: piedi e testa bovini si adattano a un corpo di fattezze umane; i due uomini-toro poggiano sulla terra, o meglio sul segno geroglifico che indica “terra”. Ciò induce a pensare che la forma rotonda da essi sostenuta rappresenti il segno geroglifico, quindi il logogramma, per indicare “cielo”. Attraverso quale processo si sia arrivati a questo significato può essere spiegato con la seguente ipotesi: noi conosciamo un contenitore che in hittita, e probabilmente anche in luvio, aveva il nome di tapis(a)na-; in luvio, però, la parola per “cielo”

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suona tappaš(š)a, quindi molto simile a quella usata per indicare tale vaso. Così si è probabilmente usato il segno raffigurante questo vaso per scrivere (foneticamente) “cielo” in luvio, secondo l’esempio già ricordato della connexio homophonica. Ciò avrebbe portato allo strano risultato che l’immagine rappresentata dal segno non apparirebbe – come è testimoniato in numerose culture – come la calotta del cielo che si sovrappone alla terra, bensì come una semiluna rivolta verso l’alto. Nella composizione, quindi, si unirebbero elementi scrittorî e iconografici in un insieme per noi apparentemente illogico.

Quest’altra iscrizione identifica il dio “cervo”. Il segno collocato al di sotto del detetrminativo per “divinità” rassomi-glia a una E latina, in effetti però rappresenta una metà di corna di cervo, identificando, come pars pro toto, l’intero animale. In effetti il segno da solo (sempre in unione con il determinativo per divinità) sarebbe stato sufficiente a identificare il nome del dio cervo; sulla sinistra, però, si aggiunge un terzo segno, avente il valore sillabico ti. Esso serve a determinare l’ultima sillaba del nome divino DEUS CERVUS-ti, che doveva suonare K(u)runti- o Runti-20. Con l’aggiunta di un tale segno, che nel caso specifico può apparire ridondante, ma che certamente serve d’aiuto per la definizione dell’effettiva lettura, siamo di fronte agli inizi di una scrittura fonetica21.

Nel caso di altri nomi divini a Yazılıkaya tali notazioni scrittorie sillabico-fonetiche appaiono, però, già pienamente sviluppate. Ciò era certamente necessario, dal momento che le divinità ivi rappresentate erano per lo più di origine straniera; esse avevano nomi hurriti che agli Hittiti potevano risultare oscuri, non lasciandosi collegare a vocaboli noti.

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Così, il nome del dio Astabi appare scritto con un notevole impiego di sillabogrammi: al di sotto del determinativo per “divinità” troviamo la sequenza á-sa-tá-pi. In un altro caso troviamo addirittura un’intero gruppo di parole hurrite, articolate su due colonne, notato sillabograficamente: sei sillabogrammi restituiscono la caratterizzazione ti-su-pi-hu-pi-ti (Tešubbi hupiti “vitello del dio Tesup”), preceduti dal determinativo per divinità e la testa di un vitello.

Che questa scrittura sia stata usata per scrivere parole hurrite rimane tuttavia un caso particolare; si verifica nel santuario di Yazılıkaya perché qui si intendeva celebrare divinità appartenenti alla cerchia hurrita. Nella maggioranza dei testi redatti in geroglifico già nel corso del II millennio si ha a che fare, invece, con composizioni in lingua luvia, anche se, soprattutto in conseguenza delle politiche matrimoniali e dell’influenza esercitata dalla cultura hurrita, ricorrono spesso nomi di principesse e di signori della corte regia riferentisi a tale lingua.

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Ad esempio, sia su un sigillo che nel rilievo di Fıraktın ricorre il nome della regina Puduhepa, espresso in forma completamente sillabografica attraverso quattro segni (pu-tu-ha-pa) sovrastati da quello per “Regina”, composto a sua volta dai due segni MAGNUS e FEMINA.

Certamente deve essere stata la notazione dei nomi propri, come quelli di re e notabili, ma anche nomi di città e regioni, ad aver stimolato lo sviluppo di un sillabario. Infatti, sui sigilli regi era uso indicare il regno di un sovrano.

Anche se questo tipo di notazione sillabografica tende mano a mano sempre più ad affermarsi, dominano inizialmente forme abbreviate o soluzioni di carattere misto: così, ad esem-pio, il nome regio di Tuthaliya viene espresso semplicemente da tu (secondo la terminologia dei nostri scrittori latini medievali si potrebbe parlare qui di Suspension), ma preceduto da quello, già visto sopra, di “montagna divina”, a indicare che si tratta del nome tuthaliya (già usato per identificare una specifica montagna) in questo caso, come indicato dal determinativo di “gran re” che precede, assunto da questo specifico monarca. Inoltre, dal momento che spesso i nomi sono composti di due elementi, si assiste al tentativo di esprimerli per mezzo di due segni22; soprattutto sui sigilli più antichi si ha, in questo caso, un ampio uso di ideo- e logogrammi, con la conseguenza per noi oggi di non riuscire spesso a comprenderne il nesso. Un tipico esempio in tal senso è rappresentato da uno dei sigilli più

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antichi attribuito al re Isputahsu, che governava nell’Anatolia sud-orientale nella terra di Arzawa. Dal momento che in un testo hittita cuneiforme viene ricordato come partner di un trattato del famoso re hittita Telepinu, il suo regno viene datato attorno al 1500 a.C. Questa data rappresenta il momento a cominciare dal quale la scrittura geroglifica diviene per noi una effettiva realtà storica. L’iscrizione sul suo sigillo rimane tuttavia per noi di difficile interpretazione23.

Segni geroglifici sul sigillo di Isputahsu

Tenuto conto degli spazi limitati offerti dal campo del

sigillo, era uso ordinare i segni componenti il nome verticalmente, dall’alto verso il basso. Un tale tipo di sequenza continua, d’altra parte, a essere mantenuta anche sulla maggior parte delle iscrizioni su pietra, in modo che a una colonna corrisponda per lo più un intero lessema.

Meglio stanno le cose per quanto concerne le nostre conoscenze riguardo allo sviluppo di questa scrittura verso la composizione di veri e propri testi. Un primo passo da parte dei suoi estensori era stato, infatti, quello di usare segni rappresentanti cose del mondo circostante. Se, ad esempio, bisognava scrivere di torri, si utilizzava in funzione di logogramma un segno che la rappresentasse.

In un passaggio alla riga 5 dell’iscrizione di Karahöyük-Elbistan si incontrano tre segni relativi a edifici. Il re, che fece redigere questa iscrizione, raccontava qui, infatti, delle opere di difesa messe in atto attorno alla sua capitale. Attraverso tali

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segni si possono individuare tre tipi diversi di torri e corpi di guardia.

Quest’uso di rappresentare direttamente oggetti concreti ci permette oggi di conoscere molti aspetti della cultura materiale degli Hittiti, non sempre rilevabili attraverso gli scavi archeologici; un esempio è fornito dal mondo animale dell’antica Anatolia (compresi gli esseri immaginari), oppure i diversi tipi di contenitori in uso:

ANIMALI

FORME DI CONTENITORI

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Dal momento, però, che con i soli ideo- e logogrammi non si sarebbe andati molto avanti nella composizione di un testo complesso, ben presto gli scribi si trovarono di fronte alla necessità di sviluppare un vero e proprio sistema sillabografico. A tal fine misero in atto un processo estremamente semplice, che ritroviamo anche in numerosi altri sistemi scrittorî dell’antichità e di epoche più recenti24.

Esaminiamo tale processo sulla base della tabella contenente la Lista dei segni spiegabili con il principio dell’acrofonia che diamo qui di seguito. Cominciamo con il nr. 15; esso rappresenta un contenitore, e sia la campitura del disegno, che la forma dei manici indicano che si doveva trattare di un vaso intrecciato, quindi non in argilla, bensì una sorta di cesto. Ma “cesto” in hittita si dice pattar; all’origine il segno fungeva certamente da logogramma, successivamente, però esso fu utilizzato per esprimerne soltanto la prima sillaba pa, compiendo quindi un salto in avanti nella strutturazione del sistema scrittorio (si è visto, alle pagine pre-cedenti, che lo stesso segno viene utilizzato, ad esempio, per scrivere sillabograficamernte il nome della regina Puduhepa). Allo stesso modo è spiegabile la derivazione di tutti gli altri valori sillabici attribuiti ai segni contenuti nella nostra Lista. Per tutti vale il principio secondo il quale è la prima sillaba della pa-rola da loro logograficamente individuata a dare il valore sil-labico al segno. Tale principio è indicato nel linguaggio scien-tifico come “principio dell’acrofonia” (lett. “suono iniziale”). È chiaro che quando la moderna ricerca collega un segno scrittorio con una specifica parola per giungere alla individuazione del valore sillabico desunto in base al principio dell’acrofonia, ci si muove sempre nel campo delle ipotesi. Nella nostra Lista si sono scelte quelle proposte di spiegazione, fatte da diversi studiosi, che sono sembrate essere le più plausibili (cf. in dettaglio le note alla tabella qui di seguito).

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Lista dei segni spiegabili con il principio dell’acrofonia

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Note alla Tabella: - Nrr. 1-3: la posizione della mano indica l’attività; per tale ragione è

molto probabile che i rispettivi segni indichino una forma verbale. - Nr. 4: il segno rappresenta una lingua; nella sua parte destra sono

accennati i tre muscoli con i quali si lega all’osso. - Nr. 5: il segno è composto di tre trattini verticali che indicano il

numero 3 (valore fonetico prob. /tri /); esso contiene come complemento fonetico, in forma ridondante, un quarto tratto trasversale (definito “coda” – in tedesco “Dorn”, inglese “tang” – nella letteratura scientifica) con il valore fonetico ra/i.

- Nr. 7: questo segno è composto di 9 elementi verticali, all’origine diversamente organizzabili; solo il loro numero è rilevante.

- Nr. 18: si tratta di un contenitore con due manici, di forma appuntita verso il basso, quindi una sorta di pithos; il suo valore sillabico hú è probabilmente derivato dal nome di contenitore huppar (sul quale cf. Singer 1983, p. 163, n. 36).

- Nel caso del Nr. 11 l’atteso valore fonetico iniziale *k(a)ra derivato dal sostantivo di riferimento non sembra attestato; il suo valore sillabico è infatti sempre ru. È probabile che la parola luvia per “palco di corna” abbia subito una variazione fonetica per quanto attiene alla sua parte iniziale.

Certamente, con il progredire degli studi si arriverà a spiegare anche altri valori sillabici ottenuti per acrofonia. Di recente, ad esempio, J. Puhvel, nel suo Hittite Etymological Dictionary, vol. 1, 1984, p. 128, s.v. arammi- (forse “falco, rapace”) ha proposto di vedere nel segno L.133/134 un uccello rapace, rappresentato nella sua parte inferiore con fattezze umane, da collegare appunto con questo nome, e quindi con valenza fonetica ara/i-.

Per quanto riguarda il valore fonetico dei sillabogrammi, appare oggi chiaro come inizialmentre si sia determinato con precisione il solo valore consonantico, lasciando quello vocalico ancora oscillante almeno per quanto attiene alle vocali a e i: così un segno poteva avere sia il valore za, sia zi etc. (in tal senso si può dire che non si fosse ancora raggiunta una piena monofonia). In totale si assiste alla creazione di un numero di segni sillabici superiore allo stretto necessario; una tale “ridondanza” è rilevabile anche nel geroglifico egiziano e nel cuneiforme hittita, così come anche in numerosi altri sistemi scrittorî inventati in tempi moderni (come la scrittura Bamum in

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Africa). È facile calcolare il numero di segni strettamente necessario; il sistema geroglifico era essenzialmente costruito su un sistema di 3 vocali: a, i, u. Dal momento però che noi sappiamo, sulla base delle testimonianze cuneiformi, come sia il Luvio che il Hurrita avessero anche la vocale e, appare probabile che per notarla si siano usate le vicine vocali a e i25. Ciò è rilevabile, a esempio, nella scrittura per il nome della dea Hepat, che nelle testimonianze geroglifiche compare prima come ha-pa nel nome composito Pu-tu-ha-pa, e, più tardi come hi-pa-tu. Il che significa che la scrittura geroglifica non arriva in questo caso a esprimere pienamente il patrimonio fonetico della lingua cui si riferisce.

Per quanto concerne le consonanti, invece, non esiste una differenza fra b e p, d e t, g e k, cioè non è notata la differenza fra sorde e sonore. In definitiva le consonanti da differenziare erano b/p, g/k, d/t, h, y, l, m, n, r, s, w, z, in connessione, naturalmente, con le tre vocali a, i, u: in totale 3 x 13 = 39 segni sillabici, sufficienti per rispondere alle esigenze richieste. I segni effettivamente attestati sono tuttavia circa il doppio: così per sa e ta ci sono almento 5 segni differenti, mentre per altre sillabe si arriva anche a 426.

Verisimilmente, si è continuato, durante i secoli di uso di questa scrittura, a creare nuovi segni sillabici , dei quali alcuni sono rimasti semplicemente come varianti particolari di specifici ambiti regionali, altri rappresentano originali creazioni in voga in deter-minati periodi. Questa ricchezza di segni conferisce ai monumenti redatti in questa scrittura certamente un aspetto di originale varianza, caratterizzandoli come superfici di segni estremamente

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suggestivi; di fatto però si dimostra ben poco economica (quanti segni potesse effettivamente tenere a mente il normale lettore/redattore è difficile da valutare).

Degli oltre 450 segni raccolti nell’opera, ancora oggi fondamentale, di E. Laroche, Les Hiéroglyphes Hittites (Paris 1960), fanno parte non solo anche logogrammi/ideogrammi e determinativi, ma anche specifiche varianti locali certamente non sempre e ubiquitariamente in uso allo stesso tempo (J.D. Hawkins mi ha di recente comunicato che il totale dei segni da lui computato non supera le 300 unità). Forse, uno scriba esperto poteva far uso di una paletta di segni variabile fra 150 e 200 unità (un numero certamente di non semplice acquisizione da parte di un giovane aspirante scriba) 27.

Un ulteriore passo in avanti seguì poi nello sviluppo del sistema. Mentre inizialmente i logogrammi e gli ideogrammi rap-presentavano, come detto, l’elemento dominante, successivamente si cominciò ad accompagnarli con segni sillabici; d’altra parte, nella scrittura di nomi stranieri si era già optato spesso per una grafia interamente sillabica. Ciò che i redattori dei documenti geroglifici, però, avevano in questa prima fase quasi comple-tamente trascurato, era stata la caratterizzazione morfosintattica delle parole notate: la determinazione dei casi per i sostantivi e le desinenze della coniugazione per i verbi, elementi questi essenziali per l’analisi e la comprensione grammaticale dei testi.

Questa situazione, però, cominciò con il tempo a cambiare, come esemplificato dal seguente schema:

1) ANIMAL BOS

2) ANIMAL BOS-sa

3) ANIMAL BOS-wa-sa

4) ANIMAL BOS wa-wa-sa

5) wa-wa-sa

Esso mostra un ideale sviluppo in 5 fasi. La parola per “bue” wawasa28, appare inizialmente (fase 1) scritta per mezzo di un logogramma (BOS, la testa di bue) preceduto dal

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determinativo per indicare la categoria “animale”; in una seconda fase, al logogramma BOS si aggiunge il sillabogramma sa a indicare la -s del nominativo singolare; nella terza allo stesso logogramma si aggiunge la parte finale -wa- del sostantivo corrispondente, fino ad arrivare a scrivere successivamente (quarta fase) il sostantivo in questione in forma interamente sillabografica (wa-wa-sa). A questo punto la parola appare notata due volte: in forma ancora logogrammatica e in quella completamente fonetica; è solo arrivati a questa fase che si poté rinunciare alla notazione del logogramma preceduto dal determinativo, lasciando soltanto la notazione fonetica.

Lo schema in questione è, naturalmente, meramente ideale; di fatto grafie meramente fonetiche alternano, nelle fasi più avanzate, con grafie del tipo qui definite di terza e quarta fase.

Occorre qui fare ancora due osservazioni. La notazione che abbiamo visto propria della terza fase poteva portare all’equivoca interpretazione del segno BOS come sillabogram-ma per wa, e, di conseguenza, all’utilizzazione in altri contesti di tale segno non già come logogramma (BOS), bensì come sillabogramma (wa), dando di conseguenza origine a un nuovo segno silabografico. La grafia della quarta fase (BOS wa-wa-sa), con la sua doppia grafia, logografica e fonetica, dello stesso sostantivo, risulta una tipica grafia pleonastica29.

Questo sempre maggiore affermarsi delle notazioni fonetiche ha un buon parallelo nella storia dello sviluppo della scrittura maya, nell’America Centrale. Un Signore di Palenque, che aveva il nome Pacal (cioè “scudo”), fa scrivere tale nome con una grafia oscillante fra:30

SCUTUM

SCUTUM-la

SCUTUM-ca-la

SCUTUM pa-ca-la

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Nella scrittura geroglifica anatolica si è arrivati, durante il corso del I millennio, anche ad altre precisazioni per quanto riguarda alcuni valori vocalici. Infatti, per quanto concerne il segno , che inizialmente valeva sia per zi che per za, a cominciare da un certo momento viene differenziato in due segni attraverso l’aggiunta di 2 trattini orizzontali posti in

basso: . Al primo ( ) rimane il solo valore zi, al secondo

( ) viene attribuito l’esclusivo valore za. Una simile differenziazione viene operata anche per l’originario segno con la valenza variabile na/ni; in altri casi però la doppia valenza vocalica permane, il che indica che il processo di disambiguamento vocalico non fu completamente e coerentemente portato a termine.

È evidente come un maggiore raffinamento della notazione fonetica porti a una più precisa aderenza alla lingua cui la scrittura si lega. Così, attraverso i testi geroglifici del I millennio a.C. si evidenzia una varietà luvia molto vicina a quella testimoniata nel II dai documenti in scrittura cuneiforme. Per il II millennio a.C., invece, la forma scrittoria geroglifica non permette di affermare con sicurezza che la lingua espressa sia sempre quella luvia. Da circa una ventina d’anni conosciamo però alcuni graffiti in geroglifico apposti su pithoi, della metà dell’VIII sec. a.C., riferibili a parole urartee (l’urarteo è una lingua non indoeuropea parlata a quell’epoca nella regione del lago Van, strettamente imparentata con il hurrita). Tali graffiti indicano come la scrittura geroglifica, anche nel I millennio, non fosse limitata a notare soltanto la lingua luvia31.

Quale che sia il valore che si può attribuire alla testimonianza urartea, resta il fatto che, con una scrittura quale quella geroglifica a un tale stadio di sviluppo, risultava possibile notare qualsiasi lingua che avesse un sistema fonologico simile e per il cui sviluppo culturale fosse sufficiente il patrimonio ideo- e logogrammatico già acquisito.

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Anche le forme dei segni tendono a mutare nel tempo. Mostriamo qui di seguito i cambiamenti di alcuni segni geroglifici verso una grafia più semplice e corsiva. In questo caso essi tendono a perdere di forza iconica e ad assumere caratteristiche astratte. Questo specifico processo prende il nome di “perdita di motivazione”, nel senso di perdita dei tratti iconici caratterizzanti.

Questo cambiamento è inizialmente stimolato dalla superficie piana stessa del supporto scrittorio e dall’uso di un pennello o di uno stilo come strumento di scrittura; nel corso del tempo, tuttavia, questa grafia corsiva si afferma anche nelle iscrizioni monumentali su pietra.

Si osservano però anche complesse tendenze opposte: in tempi recenti una spedizione francese ha eseguito scavi nell’antico centro di Emar (oggi Meskene, a est di Aleppo). Qui sono stati portati alla luce ca. un centinaio di sigilli e cretule iscritti in geroglifico hittita databili fra il XIV e il XIII sec. a.C., i cui segni, però, si differenziano, in alcuni casi, da quelli correnti32. La loro lettura non presenta, tuttavia, particolari problemi dal momento che spesso il nome è notato anche con caratteri cuneiformi. Anche su questi sigilli i segni appaiono spesso in forma semplificata e astratta; tuttavia è attestato anche il fenomeno opposto: alcuni segni sono tracciati in maniera più ricca, dando origine talvolta a forme del tutto nuove che spesso non hanno più un diretto legame con l’originaria rappre-

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sentazione iconica. Si potrebbe in questo caso parlare – analogamente con quanto avviene nei mutamenti linguistici – di un fenomeno di motivazione secondaria.

L’esempio del segno pi (L.66) può ben illustrare questi due fenomeni. All’origine esso è rappresentato da una mano con avambraccio protesa in avanti; la sua valenza sillabica deriva, per abbreviazione acrofonica dal verbo piya- “dare”.

(da Laroche 1983)

Le varianti più recenti che si ritrovano in Meskene-Emar non permettono più di identificare la forma della mano: da un lato esse mostrano forme corsive molto astratte, dall’altro però anche forme con sviluppi iconici nuovi e particolari (un fenomeno che ricorre anche nell’iscrizione di Topada).

Il sistema scrittorio nella sua fase più matura fa uso, inoltre, di altri dispositivi grafici per facilitare la lettura: indicatori di inizio parola e un marcatore di logogrammi che assume l’aspetto di uno zoccolo su cui il grafema si appoggia.

In conclusione, nei ca. 800 anni di sviluppo del cd. “geroglifico hittita” si assiste a tutta una serie di cambiamenti in connessione con i quali cambiano le finalità stesse del sistma scrittorio. Inizialmente esso doveva servire, attraverso un patrimonio segnico fortemente caratterizzato sotto il profilo iconico, quale strumento utilizzabile in un ambiente plurilingue.

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Questa capacità comunicativa immediata viene successivamente a essere limitata da tre fattori: 1) l’uso della cd. connexio homophonica; 2) il processo di “demotivazione” iconica dei segni; 3) la sempre maggiore rilevanza della componente sillabografica. Tale processo non appare, certamente, essere arrivato a completo compimento: i logogrammi/ideogrammi continuano a essere utilizzati pur nella tendenza generalizzata verso un sistema essenzialmente fonetico che vede una sempre maggiore incidenza del patrimonio sillabografico.

Il sistema cade in disuso attorno al 700 a.C., sostituito dalla variante aramaica del sistema alfabetico di tipo semitico, rappresentante di una tipologia scrittoria ancora in uso fino a oggi: scomparsa di logogrammi e determinativi e notazione scrittoria esclusivamente fonetica (inizialmente attraverso segni con valenza esclusivamente consonantica). Certo, sotto il profilo pratico, questo nuovo tipo di scrittura appare decisamente migliore; con esso si perde però interamente quella comunicatività immediata conferita al segno scrittorio dalla sua significatività iconica.

1 Ciò appare sostenuto dal fatto che, ad esempio, il segno per il pronome dimostrativo “questo” mantiene il valore consonantico z-, e quindi corrisponde al suono del pronome dimostrativo luvio (za-), e non a quello del pronome hittita (ka-). Un secondo argomento, già messo in evidenza da J.D. Hawkins (1986, p. 374), va qui ricordato anche se in forma modificata: N. Oettinger (in MSS 34, 1976, p. 101s.) ha postulato come esito di i.e. *gwou- “bue”, una forma *guwau- per l’hittita, *uwau- per il luvio (con scomparsa della tectale media). Da tale forma deriverebbe, per abbreviazione acrofonica, il proprio valore fonetico il segno geroglifico L. 105, iconicamente rappresentante appunto una testa di bue. Questa proposta risale a T.H. Bossert (OrNS 23, 1954, p. 140), il quale però non riconduceva su

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questa base il geroglifico alla lingua luvia. H.G. Gueterbock (in OLZ 1956, p. 518) così rispondeva al problema della lingua per la quale il sistema geroglifico era stato creato: “dai Luvii, per la lingua luvia, in territorio luvio”. Questa affermazione mantiene la propria verisimiglianza; solo l’espressione “per la lingua luvia” risulta a mio parere restrittiva, dal momento che bisognerà pensare a un sistema scrittorio ideato per l’uso in diversi ambienti linguistici; quale luogo della sua nascita si potrà pensare piuttosto a un centro urbano che abbia al contempo svolto funzione di luogo di incontro commerciale (un centro portuale?) e avuto una rilevanza politica. Per lo più si pensa alla Cilicia quale area geografica nella quale il geroglifico abbia avuto le sue origini (anche se J.D. Hawkins, 1986, pensa alla terra di Arzawa, collocata nell’Anatolia occidentale). In ogni caso ancora non chiaro rimane il quando tale scrittura sia giunta fino a Hattusa.

2 Sulla storia della sua decifrazione fino al 1939 cf. J. Friedrich, fino al 1970 M. Pope; successivamente Hawkins-Morpurgo Davies-Neumann 1973. Le nuove proposte di lettura contenute in quest’ultimo contributo sono oggi ormai generalmente accettate dal mondo scientifico, grazie anche alla conferma venuta da successivi nuovi ritrovamenti epigrafici (si veda, ad es., la pubblicazione di E. Laroche, in D. Beyer (ed.), Meskéné-Emar. Dix ans de travaux 1972-1982, Paris 1982, p. 57, di un sigillo bilingue digrafo, sul quale il nome di persona maschile Am-za-hi in caratteri cuneiformi, corrisponde al geroglifico Ma-L.376-hi, sul quale si veda anche Morpurgo Davies-Hawkins 1978, p. 796; inoltre D. Sürenhagen pubblicava nel 1986 un sigillo regio da Karkemish, sul quale l’iscrizione cuneiforme contenente il nome maschile mku-zi-te-šup, corrisponde a REX-ku-L.376-L.199-pa in quella geroglifica.

3 L’impulso alla creazione di una nuova scrittura nelle antiche culture può avere diverse ragioni. In Mesopotamia i più antichi documenti sono di carattere economico-amministrativo; a essi seguono nel tempo testi di carattere scientifico e iscrizioni regie. Solo successivamente compaiono testi di carattere privato e composizioni poetiche (cf. M. Lambert, La naissance de la bureaucratie, Revue Historique 84, 1960, pp. 1ss.). Per l’antica Cina I Ching afferma che la scrittura sarebbe stata inventata “quale mezzo per dirigere la classe degli amministratori statali e per controllare il popolo” (cf. Book of Changes, R. Wilhelm-C. F. Baynes edd., London 1950, I 360); ciò corrisponderebbe alla situazione mesopotamica. Tuttavia, U. Unger

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(in Frühe Schriftzeugnisse der Menschheit, Göttingen 1969, p. 27) afferma che per la Cina i ritrovamenti archeologici confermano che l’uso primario della scrittura è da mettere in relazione alle pratiche oracolari. In Egitto, al pari della Mesopotamia, la scrittura appare ai suoi inizi aver corrisposto a necessità di carattere giuridico-amministrativo (cf. W. Schenkel, Wozu die Ägypter eine Schrift brauchten, in A. Assmann-J. Assmann-C. Hardmeier (edd.), Schrift und Gedächtnis. Beiträge zur Archäologie der literarischen Kommunikation, München 1983, pp. 43ss., in part. p. 60s.). Le stesse argomentazioni si ritrovano anche in Kaplony 1966, p. 67. Rispetto a tutte queste manifestazioni scrittorie il geroglifico hittita assume una posizione particolare in ragione della sua posizione di “seconda scrittura” in ambiente anatolico.

4 In accordo con quanto descritto da A. Schmitt (1938) riguardo alle moderne creazioni di nuove scritture a opera di una singola persona (o un gruppo ristretto di persone), anche per il geroglifico hittita si dovrà pensare allo stesso processo.

5 All’atto della creazione dei diversi glifi gli inventori non si sono serviti, a mio avviso, di una scrittura già esistente come modello, né delle scritture egeo-cretesi, né di quella geroglifica egiziana. Le similitudini che caratterizzano alcuni segni vanno spiegate, a mio parere, quali paralleli sorti spontaneamente. Che le scritture cretesi abbiano potuto svolgere funzione di stimolo o di modello, va escluso per due ragioni: la scrittura Lineare A, al pari di quella B, aveva un sistema di 5 segni per le vocali (di contro a quella geroglifica che ne ha 3), e non si vede per quale ragione, se veramente la seconda sia derivata dalla prima, i creatori del geroglifico non avrebbero approfittato di questa opportunità; infatti per il geroglifico sarebbero state necessarie almeno 4 serie vocaliche. Inoltre le scritture cretesi non conoscono l’uso del determinativo. I maestri di scrittura del I millennio dell’Anatolia sud-orientale, dovevano, invece, a mio avviso, aver precisa cognizione della scrittura sillabica in uso a Cipro, stimandone gli indubbi vantaggi espressivi.

6 Cf. Laroche 1969-70, e Steinherr 1972. 7 H.G. Gueterbock, in Boğazköy 5, 1975, pp. 51ss., ha

convincentemente dimostrato che tale rilievo marcava un confine di stato.

8 Gli ideogrammi/logogrammi sono indicati con nominazioni latine. Per quanto riguarda le titolature cf. da ultimo H.G. Gueterbock,

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in R.M. Böhmer-H.G. Gueterbock, Glyptik aus dem Stadtgebiet von Bogazköy, Berlin 1987, pp. 61ss.

9 Solo un sistema che abbia la possibilità di esprimersi foneticamente, può essere definito come sistema scrittorio pienamente sviluppato.

10 L’espressione è in opposizione a sillabogramma, che esprime solo una parte della catena fonica di una parola.

11 Corrispondentemente, a livello linguistico, la funzione di “scriba”, *tuppala-, deriva da tuppi- “tavoletta scrittoria”.

12 Su queste possibilità si è riflettuto anche in antico; una testimonianza è offerta, a esempio, da Clemente di Alessandria (II sec.) nelle sue Στρωµατε‹j, Libro 5, cap. IV. Della sua terminologia manteniamo qui soltanto τροπική, gli altri (κυριολογική e συµβολική) ci sembrano oggi poco appropriati. Un antico decifratore del geroglifico egiziano, il danese Georg Zoëga, nella sua opera De origine et usu obeliscorum, Roma 1797, ha poi usato il termine phonetica.

13 Dal greco ε„κών “immagine”. Il filosofo e semiologo americano Ch.S. Peirce ha per primo introdotto questa espressione nella terminologia scientifica.

14 Cf. E. Laroche in Beiträge zur Altertumskunde Kleinasiens, Fs für Kurt Bittel, Mainz 1983, pp. 310ss.; si veda però già J.D. Hawkins in Kadmos 19, 1980, p. 141.

15 In effetti la definizione di “scrittura a rebus” è scientificamente inesatta dal momento che non si tratta di una scrittura “per mezzo di cose” (rebus, ablativo strumentale), bensì per mezzo della rappresentazione di un oggetto che in una lingua ben precisa rinvia alla pronuncia di qualcosa.

16 I.J. Gelb (1963) li definisce “indicatori fonetici” (phonetic indicators).

17 Cf. Türk Tarih Kongresi Ankara 1981, Kongreye sulunan Gildiriler, I. Cilt, Ankara 1986, pp. 245ss.

18 Cf. L’imponente pubblicazione, curata da K. Bittel, Das hethitische Felsheiligtum Yazılıkaya, Berlin 1975.

19 Il significato di “luna”, che potrebbe desumersi dalla forma del segno, non si attaglia per due ragioni: una divinità “della luna e del sole” non esiste in Anatolia; inoltre il segno per luna presenta la forma

.

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20 Questo nome di divinità probabilmente non è hurrita, bensì luvio-hittita; forse si collega con lat. cervus, greco κέραος.

21 Come nel caso del dio cervo, tali complementi fonetici possono aggiungersi ai logogrammi, senza per altro inficiarne l’autonomia; in altri casi essi possono entrare in legatura con il logogramma che accompagnano.

22 Come se si volesse oggi esprimere, ad esempio, il nome Teodoro (derivante dal greco e composto dei due elementi “dio” e “dono”) per mezzo di due glifi indicanti rispettivamente “divinità” e “offerta”; lo stesso ragionamento varrebbe anche nel caso di Wolfgang (composto dell’elemento Wolf “lupo” e Gang “passo, incedere”).

23 Si veda a tal proposito il recente saggio di O. Carruba in AION Sez.Ling. 7, 1985, pp. 18ss.

24 Ad esempio nelle antiche scritture cretesi, come illustrato da G. Neumann in Glotta 36, 1957, pp. 156ss. [*ndr: e successivamente lo stesso G. Neumann in Atti e Mem. II Congr. Int. Micenologia, Roma-Napoli 1991, E. De Miro-L. Godart-A. Sacconi edd., Roma 1996, pp. 91ss.]. Anche nella creazione di moderne scritture si assiste all’uso del principio dell’acrofonia, come è il caso della scrittura Bamum del re Njoyas.

25 Il che significa che nelle nostre traslitterazioni di questa scrittura dobbiamo esimerci dall’usare questa vocale.

26 Nella traslitterazione questi segni vengono espressi per mezzo di diacritici, e cioè con accento acuto e grave per il secondo e il terzo segno, e con una numerazione in pedice per i susseguenti: cf. sa, sá, sa, sa4, sa5, sa6. Non può essere esclusa la possibilità che attraverso tali segni venissero espresse effettive differenze fonologiche che a noi sfuggono.

27 Per quanto concerne il nostro stato delle conoscenze, occorre ricordare che, seppure per i segni di più ampio utilizzo si conoscono significato e valore fonetico, per molti altri, di uso più raro, permangono ancora molti dubbi.

28 Su tale lessema e il suo possibile rapporto con il protoluvio *uwau- cf. N. Oettinger in MSS 34, 1976, p. 102.

29 Tali notazioni pleonastiche, che compaiono in diversi sistemi scrittorî, sono state studiate da W. Nahm in Kadmos 9, 1970, pp. 1ss.

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30 Si veda a tal proposito V.R. Bricker, A Grammar of Mayan Hieroglyphs, New Orleans 1986, p. 5, fig. 4. (*ndr: sul fenomeno vedi ora M. Marazzi 2013, § 4.5.).

31 Forse però qui si può dar ragione allo studioso J.J. Klein (AnSt 24, 1974, p. 93) che definisce questo caso come “an isolated and short-lived phenomenon”.

32 *ndr: si veda ora la pubblicazione completa curata da D. Beyer, Emar IV. Les sceaux, Fribourg 2001.

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MONDO ANATOLICO E VICINO ORIENTE

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paola dardano

il vento, i piedi e i calzari i messaggeri degli dei nei miti ittiti e nei poemi omerici

1. La lingua dell’epica greca è nata in un ambiente influenzato da molteplici fattori, tra i quali un ruolo non secondario spetta alla cultura anatolica1. I paralleli tra l’epica greca e la letteratura ittita non sono solo numerosi, ma testimoniano anche l’intensità degli scambi tra le due tradizioni. Sin dagli inizi degli studi di orientalistica — e di anatolistica in particolare — l’attenzione degli specialisti si è rivolta soprattutto ai miti ittiti di origine hurrita, primo tra tutti il ciclo di Kumarbi. Le somiglianze con i temi e con i topoi omerici sono apparse sin da allora significative2. È stato così possibile distinguere nella lingua poetica greca, accanto a moduli propriamente indoeuropei, individuati grazie a corrispondenze con altre tradizioni (in primo luogo quella indiana, ma anche quella germanica oppure quella celtica)3, uno strato che testimonia la sopravvivenza e la continuazione di motivi propri delle civiltà del Vicino Oriente. Si tratta di formule, di metafore, o semplicemente di topoi letterari le cui somiglianze sono tanto significative, da non poter essere attribuite a una mera coincidenza. Insomma, una volta esclusa l’eventualità di corrispondenze banali oppure di comuni eredità indoeuropee, non resta che interpretare tali paralleli come il risultato di fenomeni di contatto4. Occorre dire che varie sono le loro tipologie: a volte la corrispondenza è anche etimologica, a

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volte, invece, la corrispondenza si riscontra solo sul piano dei contenuti5.

In questa occasione vorrei analizzare un motivo che ricorre nei poemi omerici e nella mitologia ittita di origine hurrita. Si tratta del topos del messaggero, il quale, inviato da una divinità di rango superiore, al momento di partire per la missione affidatagli, indossa calzari dai poteri speciali, tali da imprimere a chi li indossa la velocità del vento6. Dal momento che il collegamento tra i piedi o i calzari di un araldo divino e il vento ricorre anche nei miti anatolici, esaminerò in un primo momento le occorrenze di questo motivo nei poemi omerici (2.), per poi passare all’analisi dei testi ittiti (3.). In tal modo sarà possibile sia affrontare alcuni problemi semantici ed etimologici relativi alla documentazione ittita (4.), sia indagare l’origine di questo motivo (5.).

2.1. Su ordine di Zeus, Hermes si appresta a condurre al campo dei Greci Priamo che chiede la restituzione del corpo del figlio Ettore. La preparazione del messaggero degli dei è descritta nei particolari: egli indossa dapprima i calzari preziosi che, insieme ai soffi del vento, lo condurranno sulla terra e sul mare, poi afferra il caduceo: Il. XXIV 339-345 •Wj œfat', oÙd' ¢p…qhse di£ktoroj 'ArgeifÒnthj. aÙt…k' œpeiq' ØpÕ possˆn ™d»sato kal¦ pšdila ¢mbrÒsia crÚseia, t£ min fšron ºm)n ™f' Øgr¾n ºd' ™p' ¢pe…rona ga‹an ¤ma pnoiÍj ¢nšmoio· e†leto d) ·£bdon, tÍ t' ¢ndrîn Ômmata qšlgei ïn ™qšlei, toÝj d' aâte kaˆ Øpnèontaj ™ge…rei· t¾n met¦ cersˆn œcwn pšteto kratÝj 'ArgeifÒnthj. “Disse così, e non disobbedì l’Accompagnatore, l’Uccisore di Argo. Si legò subito ai piedi i bei sandali d’oro, immortali, che lo portavano al di sopra del mare e della terra sconfinata insieme ai soffi del vento; poi prese la verga, con la quale incanta gli occhi degli uomini, di

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chiunque egli vuole, ma anche sveglia chi dorme: volò via tenendola in mano il potente Uccisore di Argo”.

Le stesse espressioni ritornano nell’Odissea allorché Zeus invia Hermes alla ninfa Calipso per comunicarle le decisioni degli dei, al fine di permettere il ritorno di Odisseo a Itaca: Od. V 43-49 •Wj œfat', oÙd' ¢p…qhse di£ktoroj 'ArgeifÒnthj. aÙt…k' œpeiq' ØpÕ possˆn ™d»sato kal¦ pšdila, ¢mbrÒsia crÚseia, t£ min fšron ºm)n ™f' Øgr¾n ºd' ™p' ¢pe…rona ga‹an ¤ma pnoiÍj ¢nšmoio. e†leto d) ·£bdon, tÍ t' ¢ndrîn Ômmata qšlgei, ïn ™qšlei, toÝj d' aâte kaˆ Øpnèontaj ™ge…rei· t¾n met¦ cersˆn œcwn pšteto kratÝj 'ArgeifÒnthj. “Disse così: non fu sordo il messaggero Argheifonte. Subito sotto i piedi legò i sandali belli, ambrosii, d’oro, che lo portavano sul mare e sulla terra infinita, insieme ai soffi del vento. E prese la verga con cui gli occhi degli uomini affascina, di quelli che vuole, e può svegliare chi dorme. Questa tenendo in mano, volò il potente Argheifonte”.

Hermes è l’araldo per eccellenza7. Il suo equipaggiamen-to è costituito non solo da sandali (pšdila) d’oro e d’ambrosia, capaci di eguagliare la velocità del vento, ma anche dal ·£bdoj, che nell’Inno a Hermes, Apollo descrive così: “lo splendido caduceo della prosperità e della ricchezza, d’oro, trimembre, che ti proteggerà, rendendoti immune, e che rende efficaci tutte le norme delle parole e delle azioni giuste: norme che io affermo di aver appreso dalla voce di Zeus” (vv. 528-532).

In circostanze particolari, tali sandali portentosi sono

calzati da Atena. Il medesimo formulario ricorre, infatti, nell’Odissea, quando la dea si prepara a raggiungere il figlio di Ulisse a Itaca. Dopo averli calzati, Atena afferra la lancia:

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Od. I 96-101 •Wj e„poàs' ØpÕ possˆn ™d»sato kal¦ pšdila, ¢mbrÒsia crÚseia, t£ min fšron ºm)n ™f' Øgr¾n ºd' ™p' ¢pe…rona ga‹an ¤ma pnoiÍj ¢nšmoio. e†leto d' ¥lkimon œgcoj, ¢kacmšnon Ñxš� calkù, briqÝ mšga stibarÒn, tù d£mnhsi st…caj ¢ndrîn ¹rèwn, to‹s…n te kotšssetai Ñbrimop£trh. “Detto così, sotto i piedi legò i sandali belli, ambrosii, d’oro, che la portavano sul mare e sulla terra infinita, insieme col soffio del vento. E prese l’asta gagliarda, puntuta d’acuto bronzo, robusta, grande, pesante, con cui ella atterra le schiere dei forti, se con essi s’adira, la figlia del Padre possente”.

Nell’Eneide Mercurio è il veloce messaggero degli dei, che con la sua verga muove i venti, dissolve le nubi sfrecciando in mezzo a loro e in tal modo percorre a incredibile velocità i mari e le terre emerse. Comandato da Giove, Mercurio si reca da Enea che soggiorna nella reggia di Didone: Virgilio, Eneide IV 238-246 Dixerat. Ille patris magni parere parabat imperio: et primum pedibus talaria nectit aurea, quae sublimem alis sive aequora supra seu terram rapido pariter cum flamine portant. Tum virgam capit; hac animas ille evocat Orco pallentis, alias sub Tartara tristia mittit, dat somnos adimitque et lumina morte resignat. Illa fretus agit ventos et turbida tranat nubila. “Disse. Ed egli attendeva ad assolvere il comando del grande padre. E in primo luogo ai piedi si allaccia i talari d'oro, che in cielo con l’ali, sopra la distesa dei mari e sulla terra lo portano pari ai rapidi soffi; prende poi la verga: con essa pallide ombre richiama dall’Orco e altre invia al Tartaro triste, i sonni concede e toglie, e da morte dissuggella gli occhi. Per essa sicuro, aggredisce i venti e gli oscuri nembi passa”.

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Nella tradizione letteraria latina questi calzari prodigiosi (talaria da talus, -i ‘astragalo’) sono usati non solo da Mercurio, ma anche da Minerva (Cic., De natura deorum III, 23) e da Perseo (Ov., Metamorfosi IV, 665-666). Insomma i talari che permettono di muoversi veloci come i soffi del vento sono attribuiti, in prima istanza, al dio messaggero per eccellenza, Mercurio; possono però essere calzati anche da altre divinità che hanno la funzione di intermediari tra il mondo divino e il mondo umano.

2.2. Nell’Iliade il ruolo di messaggero degli dei non è affidato solo a Hermes, ma anche alla dea Iride. Costei è la personificazione dell’arcobaleno che, come un ponte, simbolizza il collegamento tra il cielo e la terra, tra gli dei e gli uomini. Iride è raffigurata alata e coperta da un velo leggero che, sotto i raggi del sole, assume i colori dell’arcobaleno8. Al pari di Hermes, ha il compito di portare i messaggi degli dei: in tale ufficio è inviata perfino nelle profondità marine e nell’oltretomba. A seconda delle circostanze, Iride assume un aspetto ora umano, ora divino9.

Nell’Iliade attributi di Iride sono (pÒdaj) çkša ‘veloce’ (Il. XVIII 202), crusÒpteroj ‘dalle ali dorate’ (Il. VIII 398; XI 185; v. anche Inno a Demetra 314) e ¢ellÒpoj ‘che ha i piedi (veloci) come la tempesta’ (v. infra 2.3.), ma il suo epiteto per eccellenza è pod»nemoj ‘che ha i piedi come il vento, che ha il vento nei piedi’10. Questo composto possessivo appare di solito nella formula pod»nemoj çkša ’Irij, che generalmente ricorre nella parte finale del verso, dopo la cesura del terzo trocheo: Il. II 786-787 Trwsˆn d' ¥ggeloj Ãlqe pod»nemoj çkša ’Irij p¦r DiÕj a„giÒcoio sÝn ¢ggel…V ¢legeinÍ· “Messaggera venne ai Troiani Iride veloce, che ha nei piedi il vento, da parte di Zeus portatore dell’egida, con la notizia terribile”.

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Il. V 367-369 a�ya d' œpeiq' †konto qeîn ›doj a„pÝn ”Olumpon· œnq' †ppouj œsthse pod»nemoj çkša ’Irij lÚsas' ™x Ñcšwn, par¦ d' ¢mbrÒsion b£len e�dar· “Subito poi raggiunsero la sede degli dei, l’Olimpo scosceso; qui fermò i cavalli Iride veloce, che ha nei piedi il vento, li sciolse dal carro e a loro gettò foraggio immortale”. Il. XI 195-196 •Wj œfat', oÙd' ¢p…qhse pod»nemoj çkša ’Irij, bÁ d) kat' 'Ida…wn Ñršwn e„j ”Ilion ƒr»n. “Disse così; non disobbedì la rapida Iride, che ha nei piedi il vento, ma scese dai monti dell’Ida verso la sacra Ilio”. Il. XVIII 165-168 ka… nÚ ken e‡russšn te kaˆ ¥speton ½rato kàdoj, e„ m¾ Phle�wni pod»nemoj çkša ’Irij ¥ggeloj Ãlqe qšous' ¢p' 'OlÚmpou qwr»ssesqai krÚbda DiÕj ¥llwn te qeîn· prÕ g¦r Âkš min “Hrh. “E sarebbe riuscito a tirarlo, guadagnandosi gloria infinita, se Iride veloce, che ha nei piedi il vento, non fosse venuta messaggera dall’Olimpo ad Achille, perché scendesse in campo, non vista da Zeus né dagli altri dei: Hera l’aveva mandata”. Il. XVIII 181-184 T¾n d' ºme…bet' œpeita pod£rkhj d‹oj 'AcilleÚj· ’Iri qe¦ t…j g£r se qeîn ™moˆ ¥ggelon Âke; TÕn d' aâte prosšeipe pod»nemoj çkša ’Irij· “Hrh me prošhke DiÕj kudr¾ par£koitij· “Le rispondeva allora Achille divino dal piede veloce: ‘Dea Iride, chi mai degli dei ti mandò messaggera?’. Gli diceva a sua volta Iride veloce che ha nei piedi il vento: ‘Mi ha mandato Hera, la sposa gloriosa di Zeus …’”11.

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2.3. L’altro epiteto di Iride messaggera è, come abbiamo detto, ¢ellÒpoj ‘che ha i piedi (veloci) come la tempesta’, un composto possessivo che appare di solito in strutture formulari12. Si vedano a tale proposito i seguenti passi: Il. VIII 409-410 •Wj œfat', ðrto d) ’Irij ¢ellÒpoj ¢ggelšousa, bÁ d' ™x 'Ida…wn Ñršwn ™j makrÕn ”Olumpon. “Così disse; rapida come tempesta, Iride partì a dare l’annuncio, e s’avventò dai monti dell’Ida sull’alta vetta dell’Olimpo”. Il. XXIV 77-83 •Wj œfat', ðrto d) ’Irij ¢ellÒpoj ¢ggelšousa, messhgÝj d) S£mou te kaˆ ”Imbrou paipalošsshj œnqore me…lani pÒntJ· ™peston£chse d) l…mnh. ¹ d) molubda…nV „kšlh ™j bussÕn Ôrousen, ¼ te kat' ¢graÚloio boÕj kšraj ™mbebau‹a œrcetai çmhstÍsin ™p' „cqÚsi kÁra fšrousa. eáre d' ™nˆ spÁ� glafurù Qštin, “Così disse; rapida come tempesta, Iride partì a dare l’annuncio, e a mezza strada fra Samo e Imbro scoscesa si tuffò in alto mare: ribollì lo specchio dell’acqua. Calò verso il fondo, simile a piombo che versato nel corno di un bue da pascolo scende fra i pesci voraci, portando loro la morte. Trovò Teti in un antro profondo … ”. Il. XXIV 159-160 •Wj œfat', ðrto d) ’Irij ¢ellÒpoj ¢ggelšousa. �xen d' ™j Pri£moio, k…cen d' ™nop»n te gÒon te “Così disse, e rapida come tempesta, Iride partì a dare l’annuncio. Giunse alla casa di Priamo, vi trovò gemito e pianto”.

Interpretato in modo corretto sia dagli scoliasti13 sia da Esichio14, il composto ¢ellÒpoj non è un attributo esclusivo di Iride. Nell’Inno ad Afrodite è riferito ai cavalli donati da Zeus a Troo come consolazione per il rapimento del figlio Ganimede:

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Inno ad Afrodite 215-217 aÙt¦r ™peˆ d¾ ZhnÕj Ó g' œkluen ¢ggeli£wn oÙkšt' œpeita gÒaske, geg»qei d) fršnaj œndon, ghqÒsunoj d' †ppoisin ¢ellopÒdessin Ñce‹to. “Quando poi egli ebbe udito il messaggio di Zeus smise di piangere, e si rallegrò nel suo animo: e lieto si lasciava portare dai cavalli rapidi come la tempesta”.

Anche Pindaro usa ¢ellÒpoj in riferimento ai cavalli (Nemea 1, 6) oppure, impropriamente, ai carri (d…frouj ... ¢ellÒpodaj Pitica 4, 18). Euripide, invece, se ne serve come epiteto di Artemide e Atena (Helena 1314).

2.4. Appartengono al medesimo ambito semantico, ma sono di certo stilisticamente meno espressivi, gli aggettivi çkÚpouj ‘dai piedi veloci’, riferito soprattutto ai cavalli15, e podèkhj, attributo invece sia di persone (Achille in primo luogo, ma anche Dolone e Atalanta), sia di animali (specialmente cavalli da tiro). Occorre ricordare anche i composti ¢rg…pouj ‘dai piedi veloci’ riferito a cani16, pod£rkhj epiteto di Achille17, çkupšthj riferito ai cavalli (Il. VIII 42; XIII 24) e ancora le espressioni con l’accusativo alla greca pÒdaj çkÚj / tacÚj / a„Òloj. Tutte queste forme e costrutti sono meno interessanti ai fini della presente ricerca, perché associano alla nozione di velocità l’organo destinato per eccellenza al movimento senza tuttavia fare menzione del ‘vento’ oppure della ‘tempesta’ come termine di paragone18.

3.1. L’accostamento tra la velocità dei piedi (oppure di particolari calzari) e il vento è un’immagine ben documentata nei testi ittiti. Qui la metafora non è espressa da un composto come in greco, ma dalla formula INA GÌRMEŠ-za KUŠE.SIRḪI.A-uš lilianduš IMMEŠ-uš šarkue- ‘calzare sui (propri) piedi come

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calzari i venti veloci’. Nel Canto di Ullikummi ricorre varie volte in una ben precisa circostanza: una divinità di rango inferiore viene inviata come messaggero da una di rango superiore. Nel brano che segue Tašmišu obbedisce con solerzia ai comandi del Dio della Tempesta:

KUB 33.106++ II 1-4 (CTH 345.I.3.1.A) 1 [ma-a-a]n D[Tàš-]mi-šu-uš ŠA DU ud-da-a-ar i[š-ta-ma-aš-ta] 2 [n]a-aš ša-ra-a ḫu-u-da-ak a-ra-a-iš ŠU-za GIŠGIDRU-an [da-a-aš] 3 [I-]NA GÌRMEŠ-ŠÚ-ma-za KUŠE.SIRḪI.A-uš li-li-a-an-du[-uš

IMMEŠ-uš] 4 ┌šar┐-ku-it na-aš-kán pár-ga-u-a-aš a-ú-ri-a-aš ša-ra-a pa-i[t ] “[Appe]na [Taš]mišu ebbe u[dito] le parole del Dio della Tempesta, si alzò prontamente. In una mano [prese] il bastone, sui piedi indossò come calzari [i venti] veloc[i] e salì su un’alta torre”.

Occorre dire che il passo non è stato interpretato in maniera univoca. Per alcuni l’aggettivo lili anduš (acc. pl.) si riferisce ai venti, per altri invece ai calzari del dio. La prima proposta è stata accolta da vari studiosi, come H. G. Güterbock (1952, pp. 20-21): “When Tašmišu the Storm-God’s words heard, he promptly rose. Into (his) hand a staff he took, upon his feet as shoes the swift winds he put. And to a high tower he went up …”; V. Haas (2006, pp. 167-168): “[Al]s [Tas]misu die Worte des Tarhun h[örte], da erhob er sich sogleich, [nahm] mit der Hand den Stab, zog an seine Füße die Schuhe als eilig[e Winde] und ging hinauf zu den hohen Turmwarten”; J. Puhvel (HED L 83): “on his feet as shoes the swift winds he put”; F. Pecchioli Daddi – A. M. Polvani (1990, p. 159): “[Quan]do Tašmišu u[dì] le parole del dio della tempesta, si alzò subito e [prese] nella sua mano il bastone, mise ai piedi i veloci [venti] come scarpe e salì sulle alte torri”; J. V. García Trabazo (2002, pp. 228-229): “se calzó en los pies como zapatos los veloce[s vientos]”; E. Rieken et al. (ed.) 2009: [A]n seine Füße aber zog er Schuhe, die eilende[n Winde]”.

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Al contrario, secondo altri studiosi l’aggettivo andrebbe riferito ai calzari; si osservi come in questo caso lili ant- è tradotto non come ‘veloce’, ma come ‘alato’; così CHD P 231b: “(Tašmišu) put on his feet [the winds] as winged shoes”; H. A. Hoffner (1998, p. 62): “When Tašmišu heard Teššub’s words, he quickly arose, [took] a staff in hand, put the winds on his feet – like winged shoes, and went up on the high watchtowers (of his castle)”. Invece nel HEG S 909 J. Tischler non integra IMMEŠ-uš alla fine del rigo 3: “als Tasmisu die Worte des Wettergottes hörte, erhob er sich rasch. In (seine) Hand nahm er einen Stock, an seine Füße zog er sich die geflügelten Schuhe (= die Winde) an, und er stieg auf einen hohen Turm”.

3.2. I problemi di interpretazione sono due: i) lili ant- è riferito ai calzari oppure ai venti?; ii) il suo significato è ‘alato’ oppure ‘veloce’? Una soluzione è offerta dall’esame delle attestazioni della formula e, soprattutto, delle sue modificazioni. Nel brano che segue appare la medesima espressione, con l’unica differenza che qui è compresa nel discorso diretto, infatti Kumarbi si sta rivolgendo al dio Impaluri: KUB 17.7 + 33.93 + 33.95 + 33.96 + 36.7a + 36.7b III 37´-44´ (CTH 345.I.1.A) 37´ DKu-mar-bi-iš A-NA DIm-p[a]-l[u-r]i me-mi-iš-ki-u-a-an da-a-iš 38´ DIm-pa-lu-ri INIM MEŠ-ar[-ta] ku-e! me-mi-iš-ki-mi 39´ nu-mu ud-da-na-aš GEŠTU-an p[a-ra-a] la-ga-a-an ḫar-ak ŠU-za 40´ GIŠGIDRU-an da-a I[-N]A [GÌRMEŠ-K]A!-ma-za KUŠE.SIRḪI.A-uš

li-li- a-an-du-uš 41´ IMMEŠ-uš šar-ku[-i nu] DIr-ši-ir-ra-aš GAM-an i-it 42´ nu ki-i da-aš-ša[-u-a] INIM MEŠ-ar DIr-ši-ra-aš pí-ra-an me-mi 43´ ú-a-at-tén ḫal-z[e-eš-]ša-i-a-aš-ma-aš DKu-mar-bi-iš

DINGIRMEŠ-aš ad-da-aš 44´ DINGIRMEŠ-aš pár-na … “Kumarbi iniziò a parlare a Impaluri: ‘O Impaluri! Le parole che io ti dico, a me, alle (mie) parole rivolgi l’orecchio! Prendi con la mano il

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bastone, indossa sui tuoi piedi come calzari i venti veloci, va giù dagli dei Irširra e pronuncia queste parole forti davanti agli dei Irširra: ‘Venite! Kumarbi, il padre degli dei, vi chiama alla casa degli dei!’”19.

Impaluri obbedisce agli ordini di Kumarbi. Poi, in una sezione narrativa e non più dialogica del testo, si ripete il medesimo formulario, ma in una versione ridotta: sono menzionati i calzari, tuttavia il paragone con i venti è omesso. Questa circostanza mi sembra particolarmente significativa perché potrebbe essere un indizio del fatto che lili ant- è riferito ai venti e non ai calzari indossati da Impaluri: KUB 33.102 (+) 33.104 + 36.9 III 4´-8´ (CTH 345.I.1.C) 4´ [ nu GIM-an] ┌D┐Im-pa-lu-ri-i[š] 5´ [ud-da-a-ar iš-ta-ma-aš-t]a? ŠU-za GIŠGIDRU-an [da-a-aš] 6´ [I-NA GÌRMEŠ-ŠU KUŠE.SIRḪI.A-u]š šar-ku-it 7´ [na-aš-kán(?) pa-ra-a(?) i-a-a]t-ta-at DIm-pa-lu-ri-iš 8´ [na-aš-kán DIr-ši-ir -]ra-aš an-da a-ar-aš

“[Appena] Impaluri [ebbe udito le parole, prese] con la mano il bastone, indossò [sui suoi piedi i calzari. Si mise in cam]mino, Impaluri, e giunse dagli dei Irširra”20.

3.3. Talvolta la formula non appare in un dialogo in riferimento a una missione assegnata a un messaggero, ma nel corso della narrazione degli eventi. Quando all’inizio del racconto, nella parte proemiale, il dio Kumarbi si prepara all’azione e lascia la città di Urkiš, indossa come calzari i venti: KUB 17.7 + 33.93 + 33.95 + 33.96 + 36.7a + 36.7b I 11-14 (CTH 345.I.1.A) 11 ma-a-an-za DKu-mar-bi-iš ḫ[a-at-ta-tar ZI-ni pí-an da-a-aš] 12 na-aš-kán GIŠŠÚ.A-az ša-ra-a [(ḫu-u-da-ak a-ra-iš)] 13 ŠU-za GIŠGIDRU-an da-a-aš I[-NA GÌRMEŠ-ŠU-ma-za

KUŠE.SIRḪI.A-uš] 14 li-li- a-an-du-uš IMM[EŠ-uš (šar-ku-it)] 15 na-aš-kán URUÚr-ki-ša[(-az URU-za ar-ḫa i-a-an-ni-iš)]

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“Appena Kumarbi ebbe r[iflettuto nella sua mente, (subito si alzò)] dal trono, prese con la mano il bastone, [(indossò) ai suoi piedi come calzari] i venti veloci e [(uscì dalla città di)] Urkiš”21.

Un testo parallelo presenta in questo punto la versione ridotta della formula. Anche qui il paragone con i venti è omesso: KUB 33.98 + KUB 36.8 Ro I 10-12 (CTH 345.I.1.B) 10 … ma-a-an-za DKu[-ma]r-bi-iš ZI-ni p[í]-an GALGA-tar ME-aš 10a na-a[š-k]án UGU ḫu-u-da-ak a-ra-iš 11 GAM-an KUŠE.SIRḪI.A-uš šar-ku-it n[a-a]š-kán URUÚr-ki-ša-az 12 URU-za ar-ḫa i-a-an-n[i-i ]š … “Appena Kumarbi ebbe riflettuto nella sua mente, si alzò prontamente, indossò i calzari e uscì dalla città di Urkiš”.

3.4. Nel brano che segue Kumarbi si rivolge al suo visir Mukišanu per inviarlo come messo. La formula appare nella versione ridotta e manca il riferimento ai venti: KUB 33.102 (+) 33.104 + 36.9 II 30-36 (CTH 345.I.1.C) 30 … nu DKu-mar-bi-iš [ ] 31 A-NA [(DMu-ki-ša-)]nu LÚSUKKAL-ŠU me-mi-iš-ki-u-a-an d[a-a-iš] 32 DM[u-ki-ša-nu LÚSUKK]AL- A me-mi-an-da ku-in me-ma-a[(ḫ-ḫi)]

33 n[(u-mu G)EŠTU-an pa-ra-a] e-ep ŠU-za GIŠGIDRU-an da-a 34 [I-NA GÌRMEŠ-KA-ma-za KUŠ] ┌E┐.SIR!ḪI.A-uš šar-ku-i nu i-i[t] 35 [ ] nu-kán AḪI.A-na-aš an-d[a … ] 36 [nu-kán? ke-e ud-da-a-]ar AḪI.A-aš pé-ra-an [me-mi ] “e Kumarbi [iniziò] a parlare a [(Mukiša)]nu, il suo visir: ‘O M[ukišanu, mio vi]sir! La parola che io ti dico, presta[(mi l’o)recchio]: prendi il bastone nella mano, indossa i calzari [ai tuoi piedi] e va! […] Nelle acque [ ] [e pronuncia queste parol]e davanti alle acque!’”22.

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3.5. Il medesimo motivo ricorre in un testo mitologico estremamente frammentario, nel quale una divinità, in seguito ai comandi che le sono stati impartiti, si accinge all’azione: KUB 36.24 II 5-7 (CTH 349.2.1.A) 5 ke-e ud-da-a-a]r iš-ta-ma-aš-ta na-aš-kán ša-ra-a ḫu-u-d[a-ak

a-r]a-iš 6 I-NA GÌRMEŠ-ŠU-za] KUŠ?

└E.SIR!ḪI.A-uš li┘-[l]i-a-an-du-uš IM ḪI.A-uš

[šar-ku-i]t 7 ]x te-eš-ḫa-aš du-un-tar-r[i-a-aš-ḫ]a-aš “… udì [queste parol]e e subi[to si al]zò, [ sui suoi piedi indoss]ò come calzari i venti veloci [ ] il sogno (e) la visione [oniri]ca [”

3.6. Se fino ad ora si sono analizzate le espressioni INA GÌRMEŠ-za KUŠE.SIRḪI.A-uš lilianduš IMMEŠ-uš šarkue- ‘calzare sui (propri) piedi come calzari i venti veloci’ come forma canonica della formula e (INA GÌRMEŠ-za) KUŠE.SIRḪI.A-uš šarkue- come variante, per così dire ridotta, occorre ora esaminare alcuni passi problematici che, per quanto lacunosi, sembrano documentare un’espressione analoga. Il brano seguente presenta una serie di incertezze, in primo luogo la lettura delle tracce all’inizio del rigo 32´: KUB 33.106++ I 30´-32´ (CTH 345.I.3.1.A) 30´ [D]Ḫé-bád-du-uš A-NA DTa-ki-t[i EGIR-pa me-]mi-iš-ki-u-an

da-a-iš ud-da-a[-a]r-m[u] 31´ [iš-]ta-ma-aš ŠU-za GIŠ[GIDR]U-[a]n [d]a?-a? I[-N]A GÌRMEŠ-KA-ma-za

KUŠE.SIRḪI.A-uš li-li[-]a-a[n-du-uš] 32´ [o] xMEŠ-uš š[a]r?-[ku-i …. ]x i-it …..

“Ḫebat inziò a parlare a Takit[i: ‘A]scolta le mie parole! Prendi con la mano il [bastone], ai (tuoi) piedi come calzari i ve[loci ] ...-i indos[sa], va [verso/ a … ]!”.

I segni all’inizio del rigo 32´ non sembrano corrispondere a IMMEŠ ‘venti’23: seppure con qualche incertezza, H. G. Güter-

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bock (1952, pp. 20-21) suggerisce l’integrazione di IMMEŠ alla fine del rigo precedente (r. 31´): “indossa sui piedi come calzari [i venti] ve[loci e i …]”. Lo spazio sulla tavoletta potrebbe permettere di accogliere la proposta (cf. anche l’integrazione di 6 segni alla fine del rigo 33´ in Güterbock ibid.), ma rimane il problema della lettura dei segni all’inizio del rigo 32´. Dal momento che nella fotografia, sulla frattura è visibile un cuneo verticale preceduto da due teste di cuneo, si potrebbe proporre [ŠUR.]ANMEŠ-uš (HZL Nr. 42: ‘Regen des Himmels’)24 e pertanto si avrebbero due complementi oggetto in asindeto ‘i venti veloci (e) le piogge’, entrambi dipendenti dal verbo šarkue-. L’endiadi formata da ḫeu- ‘pioggia’ e da ḫuant- ‘vento’ è ben documentata e appare anche nel mito di Ullikummi (KUB 36.12 III 10´-11´)25. In breve, questo passo potrebbe presentare una variante della formula consueta.

3.7. Seppure con qualche alterazione, il medesimo motivo appare in un testo mitologico sempre di origine hurrita, il quale tuttavia non appartiene al ciclo di Kumarbi, il “Mito del dio del sole, della mucca e del pescatore” (CTH 363). Si narra di come il Dio del Sole si fosse invaghito di una mucca e dalla loro relazione sia venuta al mondo una creatura. Il dio assiste alla sua nascita. Poi, una volta ritornato in cielo, si accorge dei pericoli che minacciano la vita del bambino; si rivolge allora a una divinità, il cui nome non è ben conservato, invitandola a intervenire con prontezza: nel frattempo uccelli rapaci e serpenti si sono avvicinati pericolosamente al neonato. L’emergenza è superata quando un’aquila con i suoi artigli porta in salvo il piccolo: KUB 24.7 III 64-66 (CTH 363) 64 DUTU-uš A-NA DŠa[- me-mi-iš-ki-u-]a-an da-a-iš 65 ŠU-za GIŠGIDRU-an da-a DUMU-a[n-na da-a 26 l]i-li- a-

an-za 66 IMMEŠ šar-ku I-ŠU šar-r[i

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“Il Dio del Sole iniziò [a parl]are a Ša[- …]: ‘Prendi il bastone nella mano, [prendi] il bambino […, v]eloce calza (ai piedi) i venti, in una sola volta compi [la traversata!]27’”.

Alcune traduzioni del brano non rendono DUMU al rigo

65 (sull’autografia e sulla foto il segno è visibile prima della frattura) e soprattutto riferiscono lili anza (nominativo singolare) a IMMEŠ (plurale, probabilmente un accusativo retto da šarkue-): “The Sun God spoke to Sa[ ]: ‘Take a staff in hand, put the winds on [your feet as] winged [shoes]. Make the trip in one stage’” (Hoffner 1998, p. 86); “Der Sonnengott begann zu dem Gott Sch[… zu sprec]hen: ‘Nimm das Szepter in die Hand, ziehe an [deine Füße (anstelle) von Schuhen] schnelle Winde (und) ver[reise] schnell (wörtlich ‘auf einmal’)!’” (Ünal 1994, p. 854); “Nimm den Stab mit der Hand, ziehe an [deine Füße] die eiligen Winde als Schuhe an” (Haas 2006, p. 202)28. Non mi sembra corretto ricostruire in questo passo la formula nella sua versione canonica, come appare nelle traduzioni qui riportate. A mio avviso lili anza è un nominativo singolare riferito al messaggero inviato dal Dio del Sole; pertanto qui abbiamo un’altra variante della formula in questione.

4.1. Alla fine di questa rassegna mi sembra che si imponga una conclusione: l’aggettivo lili ant- è riferito ai venti, non ai calzari29. L’analisi dei testi ha mostrato l’esistenza di una variante “ridotta” della formula; il paragone con i venti è omesso e la locuzione “indossare i calzari” costituisce la versione, per così dire, abbreviata della formula impiegata per descrivere un messaggero pronto all’azione:

• INA GÌRMEŠ-za KUŠE.SIRḪI.A-uš lilianduš IMMEŠ-uš šarkue- ‘indossare sui propri piedi come calzari i venti veloci’

• (INA GÌRMEŠ-za) KUŠE.SIRḪI.A-uš šarkue- ‘indossare (sui propri piedi) i calzari’

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Talora, però, l’atto di indossare i calzari assume un valore differente. In un Mito del dio scomparso, il dio Anzili indossa i calzari in modo non corretto, il destro sul piede sinistro, il sinistro sul piede destro: KUB 33.67 I 26´-28´ (CTH 333.A) 26´ DAn-zi-li-iš-za ša-a-it D[Zu-uk-ki-iš-za ša-a-it(?)] 27´ GÙB-la-an-za KUŠE.SIR ZAG-na-a[z šar-ku-ut-ta ZAG-na-an-za-ma

KUŠE.SIR] 28´ GÙB-la-az šar-ku-ut-ta … “Anzili si infuriò, [Zukki si infuriò. Indossò] il calzare sinistro sul piede destro, indossò [il calzare destro] sul piede sinistro”.

Questa immagine riflette un motivo del tutto diverso: rappresenta uno stato di agitazione e confusione, conseguenza dell’ira della divinità, che ha prodotto una serie di sconvolgimenti non solo tra gli uomini, ma anche tra gli dei30.

4.2. Veniamo ora al significato di lili ant-: ‘veloce’ oppure ‘alato’, come suggerito da alcuni studiosi. Secondo la proposta formulata nel CHD L-N 61b-62a e ripresa da R. Stefanini il significato originario sarebbe ‘alato’; formalmente, si tratterebbe di un participio del verbo finora non documentato * lili ai-31.

In primo luogo esaminiamo la documentazione. L’agget-tivo è riferito ad animali, per esempio, un’aquila oppure un’ape. Le attestazioni ricorrono nei miti del dio scomparso, quando tali animali sono inviati alla ricerca di una divinità: DUTU-uš (24´) ḫa-a-ra-na-anMUŠEN le-e-li-a-an-da-an IŠ-PUR “Il dio del sole inviò l’aquila veloce” (KUB 17.10 I 23´s.); NIM.LÀL li-li- a-an-da[-an pé-i-e-et] “inviò l’ape veloce (alla ricerca del dio della tempesta)” (KUB 33.33: 8). Pur essendo dotati di ali, la caratteristica principale di questi animali consiste nella rapidità: devono svolgere velocemente la missione affidatagli.

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L’aggettivo lili ant- è usato anche in riferimento alla dea Ištar. Sebbene nell’iconografia questa divinità sia raffigurata come dotata di ali32, il testo che segue mette in rilievo la sua pronta reazione all’azione: KUB 41.8 II 8´-11´ (CTH 446.C) 8´ DIŠTAR-iš li-li-a-an-za na-aš-ta URUNi-nu-az 9´ SUR14.DÙ.AMUŠEN IGI-an-da pa-a-it ZAG-na-az a-a-tar ME-aš 10´ GÙB-la-az-ma ud-da-a-ar ME-aš ZAG-na-za a-a-tar 11´ pa-ap-pár-aš-ki-iz-zi GÙB-la-za-ma ud-da-a-ar me-mi-eš-ki-iz-zi “Ištar (era) veloce. Da Ninive andò incontro al falco. Nella (mano) destra prese l’acqua, nella sinistra le parole. Sul lato destro spruzzava acqua, sul sinistro pronunciava le parole …”33.

Nel Testo di Ḫedammu la forma lili ant- è riferita a uttar ‘parola; fatto, motivo’. Alcuni studiosi hanno suggerito un confronto con l’espressione omerica œpea pterÒenta ‘parole alate’34. L’esame del brano rivela però l’inadeguatezza della proposta, dal momento che qui uttar lilian significa solo ‘motivo urgente’ e non può quindi essere un parallelo della famosa formula omerica: KUB 12.65 + KBo 26.71 Vo III 6´-7´ (CTH 348.I.28.A) 6´ e-ḫu ḫal-zi-iš-ša-i-a-at-ta DINGIRMEŠ-aš at-ta-aš DKu-mar-bi-iš

ud-da-ni-ma-a-at-ta [ ] 7´ ku-e-da-ni ḫal-zi-iš-ša-i nu-a ut-tar li-li-a-an nu-a ḫu-u-da-ak

e-ḫu “Vieni! Ti chiama il padre degli dei, Kumarbi. Il motivo per il quale ti chiama è un motivo urgente! Vieni rapidamente!”.

Infine l’aggettivo appare in due inni di tradizione mesopotamica. Nell’Inno trilingue a Iškur-Adad KUB 4.5 III 11s. (CTH 314.2.A) è riferito al dio della Tempesta: EN-aš li-li-a-an-za d[am-me-da ku-iš (?)] (12) me-ek-ki me-mi-iš-kat-t[a?] “Tu, signore veloce, [che] hai promes[so] molta a[bbon-

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danza]”35. Invece nell’inno KBo 3.21 II 15ss. (CTH 313), una traduzione ittita di un testo accadico andato perduto, un’arma del dio, una rete (itt. ekt-) è definita lili ant-: li-li- a-an-za-ma-aš-ša-an (16) ik-za-te-eš KUR-e kat-ta ḫu-u-up-pa-an ḫar-zi (§ - 17) ik-ta-aš-ma-ad-du-uš-ša-an ir-ḫa-az Ú-┌UL┐ na-aḫ-ša-ri-a-a-an-za (18) ar-ḫa Ú-UL ú-iz-zi Ú-UL pít-tu-li-an-ta-an-ma (19) an-da a-ar-pí-iš-ki-ši “La tua rete veloce tiene sottoposto il paese. Anche chi non ha alcun timore, non sfugge all’accerchiamento della tua rete. Tu domini anche chi non è spaventato”36.

Tiriamo le somme: non ci sono indizi sicuri per attribuire a lili ant- il significato ‘alato’. Se una qualche incertezza rimane quando è epiteto di creature dotate di ali (un’ape, un’aquila, la dea Ištar), il confronto con le altre attestazioni (in riferimento al Dio della Tempesta, alla sua rete, a un nome astratto come uttar) permette di escludere questa interpretazione. Invece il significato ‘veloce, rapido; urgente’ si adatta a tutti i contesti, non solo in riferimento a creature dotate di ali, ma anche a armi, nomi astratti, divinità (Ištar, il Dio della Tempesta) oppure a fenomeni naturali (il vento).

4.3. Se poi si procede all’esame del verbo lili aḫḫ-, mi sembra si possa escludere ogni allusione alla nozione di volare, in quanto il suo significato è ‘affrettarsi’. Un primo gruppo di attestazioni è costituito dall’endiadi formata dai verbi nuntarnu- e lili aḫḫ- “sbrigarsi (e) affrettarsi”. Si tratta di un espediente retorico frequente nel mito di Ullikummi: KBo 26.61(+) KUB 33.102 III 20´-24´ (CTH 345.I.1.C) 20´ ku-u-un[-a-za DUMU-an(?) da-(a)]t-tén nu-a-ra-an {šu}-up-

pé-e[(š-šar)] 21´ i-a-at[-té(n nu-a-ra-an G)]E6-i KI-pí pé-e-ta-at[(-t)én] 22´ nu-un-tar-nu-u[(t-tén-a li-l)]i-a-aḫ-tén [ ] 23´ nu-a-ra-an-k[(án A-NA)] ┌D┐Ú-pé-el-lu-ri [ ] 24´ ZAG-ni UZUZAG.U[(DU-ni GIŠŠ)]U.I ti-a-at-té[n ]

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“[Pren]dete questo [bambino] e trattatelo come un do[(no)]. Portat[elo] alla nera terra. Sbrigate[(vi! Af)]frettatevi! Ponetelo sulla spal[(la)] destra di Upelluri come una lancia”37.

Un secondo gruppo di attestazioni è offerto dal costrutto formato dall’infinito lili aḫḫuanzi accompagnato da un verbo, di solito all’imperativo, come ḫatrai- ‘scrivere’, (appa) nai- ‘inviare (indietro)’, arnu- ‘portare’, unnai- ‘condurre’, uate- ‘portare’. In tale costruzione, che ricorre di frequente nelle lettere di Maşat, l’infinito è ormai del tutto grammaticalizzato: nu-[m]u (8) li-li- a-aḫ-ḫu-u-an-z[i] (9) ḫa-at-ra-a-i “scrivimi (al riguardo) rapidamente” (HBM 4 Ro 7ss.), (5) ma-aḫ-ḫ [a-a]n-ša-ma-aš (6) ka-a-aš tup-pí-an-za (7) an-da ú-e-mi-iz-zi (8) nu MA-ḪAR DUTUŠI (9) li-li- a-aḫ-ḫu-u-an-zi (10) u-un-ni-iš-tén “Non appena questa lettera vi raggiunge, andate rapidamente da Sua Maestà” (HBM 16 Vo 5ss.)38. In breve, l’esame delle attestazioni del verbo lili aḫḫ-, corradicale di lili ant-, mostra come ogni allusione al “volo” oppure alle “ali” sia improbabile.

4.4. Sul piano morfologico sono possibili due spiegazioni per lili ant-:

1) lili- ant-, vale a dire una formazione denominale con il suffisso *-ent-39; in questo caso il fattitivo lili aḫḫ- deriverebbe da un errore di segmentazione lili a-nt- (così HEG L-M 59; Oettinger 1988, p. 285).

2) lili a-nt-, vale a dire una formazione in *-o- *lili a-, ampliata con il suffisso -nt-, a partire dalla quale si sarebbe creato il fattitivo lili aḫḫ- (come, per esempio, arāa- ‘libero’ > araaḫḫ- ‘rendere libero, esentare’)40. D’altra parte, neppure l’analisi etimologica è sicura. Fino ad ora sono state avanzate varie proposte, tutte ugualmente incerte:

i) Secondo A. Juret (1940-41, p. 15), seguito da J. Tischler (HEG L-M 59), occorre partire da un confronto con

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ant. ind. lelā�yati (da paragonare eventualmente con got. reiran ‘tremare’, reirō ‘tremore; terremoto’)41. In tutte queste forme la reduplicazione avrebbe valore espressivo. Se però lelā�yati deriva dalla radice *h3reH- (come suggerito in LIV2 305-306: ‘wallen, wirbeln’), allora il confronto con la forma ittita è inevitabilmente destinato a cadere.

ii) Secondo J. Puhvel (HED L 85) si tratterebbe di una formazione reduplicata leli- da *eli- analizzato come un derivato in *-li - della radice *h1e- (LIV2 232-233: ‘gehen’), ovvero *e-li - ‘a going’.

iii) H. Kronasser (1966: 121-122) assegna invece lili- al gruppo delle formazioni espressive di origine fonosimbolica (parla infatti di “expressive Urschöpfung”), con la redupli-cazione atta a rendere sul piano formale un movimento veloce42.

4.5. Ritornando alla formula INA GÌRMEŠ-za KUŠE.SIRḪI.A-uš lilianduš IMMEŠ-uš šarkue- ‘indossare sui (propri) piedi come calzari i venti veloci’, il vento è convenzionalmente associato alla nozione di movimento veloce: il suo nome in ittito, ḫuant- — come anche l’antico indiano vā�ta-, il latino ventus, il gotico winds, il tocario A want (alla serie appartiene anche ¢»th, ma con il significato di ‘soffio’) — deriva dalla radice *h2eh1- (v. LIV2 287: ‘wehen’, cf. gr. ¥hsi)43. Quanto invece ai nomi dei venti in ittito, le forme IMtar-aš-me-ni (KUB 29.11 II 16) e ŠA-A-RU ú-du-me-ni (KUB 8.34 III 12´) sembrerebbero fare riferimento alla direzione del vento, se si interpretano le forme suddette come composti, con il significato, rispettivamente, di ‘secca il viso’ e di ‘bagna il viso’44.

Un rituale attribuito alla maga Ambazzi sembra offrire

un’allusione alla velocità del vento. Anche se il passo è corrotto, appare probabile un accenno alla prontezza e alla rapidità, insieme al coraggio e all’abilità nel tiro con l’arco:

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KBo 10.37 Ro II 30´-33´ (CTH 429.1.A) 30´ na-aš šal-le-e-eš-du pár-ku-e-eš-d[u nu-uš-ši ] 31´ ḫu-u-a-an-da-aš pé-eš-kat-tén nu-uš-š[i ḫ]a-aš-ta-l[i]-a[-tar] 32´ pé-eš-tén nu-uš-ši iš-ḫu-na-u-a-a[r] ši-a-u-a-ar 33´ pé-eš-tén nu-uš-ši šu-uḫ-mi-li-in ge-e-nu pé-eš-tén

“E costui deve crescere e diventare alto! Date[gli la velocità] del vento! Dategli il coraggio! Dategli un avambraccio (potente, ovvero) la capacità di tirare con l’arco! Dategli un ginocchio saldo!”45.

In un altro rituale il turbinio del vento, capace di portare la paglia fino al mare, è evocato al fine di allontanare il male. Anche in questo caso il tratto distintivo del vento è la velocità: KBo 10.45 Ro II 52-54 (CTH 446.B) 52 iz-za-an GIM-an IM-an-za pít-te-nu-zi na-a[t-ká]n an-da a-ru-ni 53 pé-e-da-i ke-el-la pár-na-aš ḪUL-lu e[-eš-ḫar QA-TAM-MA ] 54 pít-te-nu-ud-du na-at-kán └an┘-da a-└ru┘ [-ni] pé-da-a-┌ú┐ [ ] “Come il vento spinge via la paglia e la porta fino al mare, [così] spinga via il sa[ngue] cattivo di questa casa e lo porti fino al mare”46.

5.1. Prima di formulare una proposta riguardo all’origine del binomio “velocità” e “vento”, presente nei miti ittiti e nei poemi omerici, mi sembra opportuno rivolgere l’attenzione al mondo vedico, alla ricerca di possibili paralleli. L’abbinamento tra la velocità e il vento appare in numerosi composti, i quali però non sono mai associati ai piedi o ai calzari indossati da un messaggero. Per esempio, la forma vā�ta-ran�has ‘Schnelligkeit des Windes habend, windschnell’ (Grassmann 1873, p. 1258) è riferita a un carro oppure ai cavalli. Il composto vā�ta-jūta ‘vom Winde beeilt; windschnell’ (Grassmann 1873, p. 1258) è riferito a cavalli, ai raggi di Agni, ai cavalli di Agni oppure ad Agni stesso. Non si ha mai un’allusione ai piedi o, eventualmente, ai calzari.

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5.2. Le coincidenze sul piano dei contenuti tra i testi ittiti

e quelli omerici sono evidenti: il vento come referente tipico della velocità è associato ai piedi o ai calzari indossati da un messaggero. Sul piano formale abbiamo vocaboli che non sono imparentati nell’etimologia: da una parte l’ittito INA GÌRMEŠ-za KUŠE.SIRḪI.A-uš lilianduš IMMEŠ-uš šarkue- “indossare sui (propri) piedi come calzari i venti veloci”, dall’altra, i composti del greco pod»nemoj ‘che ha i piedi come il vento’, ¢ellÒpoj ‘che ha i piedi come la tempesta’, oltre all’espressione kal¦ pšdila, ¢mbrÒsia crÚseia, t£ min fšron ºm)n ™f' Øgr¾n ºd' ™p' ¢pe…rona ga‹an ¤ma pnoiÍj ¢nšmoio “i sandali belli, ambrosii, d’oro, che lo / la (scil. Hermes / Iride) portavano sul mare e sulla terra infinita, insieme coi soffi del vento”.

Se tali forti similitudini non fanno riferimento a concetti universali, né derivano da una comune eredità indoeuropea, non resta che attribuirle a fenomeni di prestito. L’associazione dei piedi o dei calzari non con la velocità (questa è l’immagine banale), ma con il vento o con la tempesta (quali simboli della velocità) costituisce l’elemento distintivo del topos qui analizzato. Sia nella tradizione ittita che in quella omerica, tale motivo non è riferito a una divinità specifica, ma rientra in un formulario, variamente modulato, atto a esprimere l’attitudine, la disponibilità all’azione e, in particolare, la solerzia di un messaggero divino. Abbiamo quindi un motivo di origine vicino-orientale, il quale, passando dal mondo anatolico al mondo omerico, ha subito inevitabili adattamenti sul piano formale: l’ittito sceglie la locuzione “indossare sui (propri) piedi come calzari i venti veloci”; il greco, accanto ai composti pod»nemoj e ¢ellÒpoj, privilegia un’espressione stilisticamente elaborata come “i bei sandali d’ambrosia e d’oro che lo / la portavano … insieme coi soffi del vento”. In ogni modo l’associazione metaforica tra i piedi (o i calzari) e il vento trova una corrispondenza evidente nelle due tradizioni.

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1 Il presente saggio rientra nel progetto di ricerca

“Anatolischer Wortschatz und Phraseologie: Sammlung, Interpretation und Untersuchung ihrer Grundlage” finanziato dalla Fondazione Alexander von Humboldt.

2 Il tema aveva suscitato un notevole interesse già nelle primissime fasi degli studi di ittitologia. Accanto al grande entusiasmo non mancarono, però, alcune ingenuità sia da parte degli orientalisti che dei grecisti. Per una panoramica sugli studi pionieristici degli anni Venti e Trenta dello scorso secolo si può fare riferimento a Forrer 1924a, id. 1924b, id. 1930, id. 1931, id. 1936, Poisson 1925, Sayce 1925. Non da meno furono gli entusiasmi da parte dei grecisti, basti ricordare Porzig 1930; Kretschmer 1924; id. 1930. Una posizione più equilibrata appare invece in Friedrich 1930. Tra i lavori più recenti si vedano Schuol 2002; Högemann 2003; Rollinger 2004. Utili sintesi relative a questo indirizzo di studi sono offerte da Burkert 1991; Haas 2006, pp. 126-129; Collins – Bachvarova – Rutherford (eds.) 2008; Matthäus – Oettinger – Schröder (Hrsg.) 2011.

3 Motivi di tradizione indoeuropea presenti nell’epica greca sono stati abbondantemente studiati; mi limito a rinviare a Durante 1962; Schmitt 1967; Dunkel 1993; Waktins 1995; García Ramón 2005.

4 Rimangono questioni molto dibattute, e in buona parte oscure, la dinamica e le modalità della trasmissione; si veda in proposito West 1997, pp. 586-630; Watkins 2001; Hajnal 2005; id. 2010.

5 Sugli elementi comuni alla tradizione anatolica e all’epica greca si faccia riferimento a Gusmani 1968; Puhvel 1983, id. 1988, id. 1991, id. 1992, id. 1993; Oettinger 1989-90; Haas 2007. Una ricchissima raccolta di dati appare in West 1997.

6 A questo motivo hanno già accennato West 1997, pp. 190-193 e Oettinger 1998, p. 542.

7 Cf. Od. I 37-42, 84-87; V 29; Esiodo, Le opere e i giorni 80, 85. Sul dio Hermes si veda, oltre a Burkert 1977: 243-247 e Baudy 1998, soprattutto Roscher 1878.

8 Sulla sua genealogia v. Esiodo, Teogonia 265-267, 780-781. 9 Iride opera al servizio di Zeus, ma soprattutto di Hera (tanto

da essere quasi considerata un’ancella di questa dea); inoltre in Il.

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XXIII 198-199 si reca come messaggera dai venti Zefiro e Borea, invocati da Achille al fine di rinvigorire il fuoco della pira di Patroclo. Su Iride v. Wilamowitz-Moellendorff 1959, vol. I, pp. 258-259.

10 LfgE III 1306-1307: ‘wind-footed, with feet as swift as the wind’.

11 La formula ricorre anche in Il. XV 168; XV 200; XVIII 196; XXIV 95; Inno ad Apollo 107; cf. inoltre Il. V 353.

12 Si veda LfgE I 176: ‘mit Sturmwindfüßen, d.h. mit windschnellen Füßen’; su questo composto si veda inoltre Schindler 1986, pp. 396-398.

13 tacÚpouj par¦ t¦j ¢šllaj, Ó ™stin ¢nšmouj (Scholia, Il. VIII 409).

14 ¢ellÒpoj ’Irij· ¹ tacÚpouj. ¢f' oá kaˆ pod»nemoj. 15 Si veda Il. II 383, V 296, V 733, VIII 129, VIII 124, VIII

315, X 535, X 568, XII 51, XVI 368, XXIII 304, XXIII 504; Od. XVIII 263, XXIII 246; Inno ad Atena 14; Lo scudo di Eracle 96, 97, 470; Esiodo, Le opere e i giorni 816; Inno ad Apollo 265, 271.

16 ¢rg…podaj kÚnaj (Il. XXIV 211). 17 Il. I 121, passim; in Bacchilide, 18.30 è però un epiteto di

Hermes, definito come p. ¥ggeloj DiÒj. 18 Sul binomio venti -velocità, in riferimento ai cavalli di

Reso si dice che ‘eguagliano i venti nella corsa’ (qe…ein d' ¢nšmoisin Ðmo‹oi Il. X 437). Invece sulla velocità dei venti v. Il. XIV 17, XV 620; Od. VI 20.

19 Si vedano Güterbock 1951, pp. 154-155; Haas 2006, p. 162; Pecchioli Daddi – Polvani 1990, p. 153.

20 Si vedano Güterbock 1951, pp. 154-155; Haas 2006, p. 162; Pecchioli Daddi – Polvani 1990, p. 153. Sia quest’ultimo passo, sia il precedente alludono al piano di Kumarbi finalizzato a nascondere il piccolo Ullikummi nell’oltretomba affidandolo agli Irširra, per sottrarlo agli altri dei che potrebbero fargli del male. Gli Irširra sollevano il bambino, si dice letteralmente, al pari dei venti: (6´) nu GIM-an DIr-ši-ir-r [u-uš IN]IM ┌MEŠ-ar iš-ta-ma-aš-šir┐ (7´) nu-kán A-NA DKu-mar-b[i DUMU-an] gi-nu-a-az ar-ḫa da-a-er D┌Ir-ši-ir┐[-ru-uš] (8´) DUMU-an kar-pé-er nu-u[š-ma-ša-an-k]án UZUGAB-i an-da TÚG-an GIM-an (9´) ta-ma-aš-ši-ir na-┌an IM┐M[EŠ

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GIM-a]n (?) kar-pé-er na-an-kán A-NA DEl-le-el (10´) gi-nu-a-aš ḫa-la-a-er nu D[El-]la-al-lu-uš IGIḪI.A-a kar-ap-ta (11´) nu-za DUMU-an ša-ku-iš-ke-ez-z[i] …. “Quando gli Irširra udirono (queste) parole, presero [il bambino] dalle ginocchia di Kumarbi. Gli Iršir[ra] sollevarono il bambino e [lo] premettero sul [loro] petto come una veste. Poi lo sollevarono [com]e i venti e lo dondolarono sulle ginocchia di Enlil. Enlil sollevò gli occhi e vide (pres.) il bambino …” (KUB 17.7 + 33.93 + 33.95 + 33.96 + 36.7a + 36.7b IV 6´-11´ – CTH 345.I.1.A). Il segno IM è parzialmente conservato in KUB 36.7b Vo IV 1´; nella foto le tracce sono chiare. Seguono poi, sulla frattura, i resti di un cuneo verticale, che probabilmente appartengono al segno MEŠ.

21 Si vedano Güterbock 1951, p. 147; Pecchioli Daddi – Polvani 1990, p. 151; Haas 2006, p. 156.

22 Si vedano Güterbock 1951, pp. 150-151; Haas 2006, pp. 160-161; Pecchioli Daddi – Polvani 1990, p. 152.

23 Invece in E. Rieken et al. (ed.), hethiter.net/: CTH 345.I. (2009 sqq.) si legge I]MMEŠ-uš

24 Meno verosimile appare invece la lettura BÚN; v. HZL Nr. 144 ‘Gewitter, Donner’.

25 Per altre attestazioni di questa endiadi v. HED H 301-302. 26 Nella lacuna si possono integrare circa 8 segni. 27 Per l’espressione I-anki oppure I-ŠU šarra- v. CHD Š

238a-b: “to cross (a section of territory) all at once”. 28 Così anche HEG S 909: “put the winds on [your feet as]

winged [shoes]”. Nel CHD L-N 62a si integra [KUŠE.SIRḪI.A] li-li- a-an-za (66) IMMEŠ šarku, ma il brano non è tradotto e, curiosamente, la forma li-li- a-an-za non è riportata alla p. 61b, all’inizio della voce, nella lista delle forme attestate. Invece in HED L 83 si interpreta correttamente “swiftly put on the winds as shoes!”.

29 La proposta è confermata indirettamente dall’ordine dei costituenti della frase: gli aggettivi attributivi, di solito, precedono il nome-testa: si veda Hoffner – Melchert 2008, p. 271 (§ 17.3-17.4).

30 Una vena probabilmente ironica è invece presente nel Testo di Appu (CTH 360.1.A), quando si racconta che Appu non riusciva ad avere figli perché si coricava nel letto, indossando i calzari: na-aš-za pár-na-aš-ša (25) [i-]a-an-ni-iš p[a-a-i]t-┌aš-ša┐-an

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(26) [GIŠ]NÁ-aš šar-ku-[(a-a)]n-za še-eš-k[(i-)]it “Andò a casa e si mise a letto a dormire indossando i calzari” (KUB 24.8 I 24-26).

31 Così Stefanini 1983, p. 150: “This adjective might even be the surviving participle of an ancient verb *lili ai-, ‘to fly’, morphologically readjusted to lili aḫḫ- in the derived sense of ‘to go quickly, hasten’”.

32 Così per esempio nei rilievi di Yazılıkaya. Sull’iconografia di Ištar si veda Wegner 1981, pp. 36-43.

33 Si veda Otten 1961, pp. 124-125. 34 Si veda CHD L-N 62a. 35 Si veda Schwemer 2001, pp. 193, 194, nota 1324; CHD L-

N 256a. 36 Si veda Archi 1983, pp. 13, 25. 37 Per altri esempi dell’endiadi costituita da nuntarnu- e

lili aḫḫ- v. CHD L-N 61a. 38 Si veda Hoffner 2010, p. 133. In na-an MA-ḪAR DUTUŠI

(11) li-li- a-aḫ-ḫu-u-an-kán (12) ú-a-te-ed-du “Che lo porti rapidamente al cospetto di Sua Maestà” (HBM 13 Ro 10ss.) l’hapax li-li- a-aḫ-ḫu-u-an è da analizzare come un participio al nom.-acc. neutro con valore avverbiale. Si noti come la particella locale -kan non occupa la posizione di Wackernagel.

39 L’esistenza di una forma lili - (aggettivo in -i- ?) è tutt’altro che sicura; v. HEG L-M 58-59.

40 Invece H. Berman analizza lili ant- come un derivato in -ant-, forse un participio, dal tema di lili aḫḫ-; v. Berman 1972, p. 140.

41 Per lelā�yati si vedano KEWA III 112 ‘bewegt sich hin und her, bebt, zittert’; cf. inoltre EWAi II 480 (s.v. lelā�ya) e Narten 1981.

42 Nell’EDHIL 524-525 non si avanza alcuna proposta etimologica, tuttavia si suggerisce la lemmatizzazione come leliant- sulla base di un’attestazione che presenta la grafia le-e-li-a-an-da-an (OH/MS).

43 Si vedano Kronasser 1969; HED H 428-429. 44 Così secondo Oettinger 1995, pp. 46-47. 45 Si veda Christiansen 2006, pp. 194-195, 240-241. 46 Si veda Otten 1961, pp. 124-127.

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silvia festuccia

the bronze age moulds from the levant typology and materials

Introduction

This paper1 reports unpublished objects regarding some moulds discovered at Ebla (Syria). Eight items are studied and are assigned to a chronological period that covers Middle Bronze I and Middle Bronze II. During this research several difficulties became evident, such as the relationship between the shape of the casting and the final form of the object2 and its material context (very often found in secondary stratum pits or archaeological deposits)3 or reworked for a secondary use4.

It is not always possible to match each item with its mould due to the fragmentary state of conservation of nearly all the moulds. Furthermore, moulds are often reused and consequently found in a secondary context, as occurs at Ebla. It is difficult to date the moulds, especially those used to make tools because tool shapes remain the same over a long period of time and cannot be used as a diagnostic element in terms of period of production and period of use. Only few diagnostic and well investigated weapons and tools constitute exceptions, such as are the duckbill5 and the fenestrated axes6, both of which are assigned to the early II millennium.

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The aim of this paper is to attempt to reconstruct the function of these items using contemporary Levantine archaeological documentation as a basis for comparison. In addition, whenever and wherever possible, the information regarding the context of the find can help present a preliminary typology of the moulds used to cast different kinds of objects, like weapons, ornaments and tools, at Ebla and in the Levant during the Bronze Age.

Furthermore, the results of the investigations carried out on the compositional features of seven samples of clay moulds from Ebla are reported herein. Minero-petrographic and chemical analyses were carried out in an attempt to define the provenance of materials and to obtain additional information on the technology of mould production.

Typology

Moulds for casting bronze tools can be used in three main ways that do not necessarily correspond with different stages of technological development. They may be considered as follows:

- rough moulds which consist of a carved lithic slab used only for small and flat items; - monovalve moulds, open mould which consist of a single block into which a matrix for an object has been cut. Such moulds, also called “univalve moulds”, generally had a matching flat (uncarved) cover or “valve” to reduce gassing; - two-part bivalve moulds where both members are carved, generally as mirror images, to provide contour to the casting7. Until now at Ebla there is direct evidence only of bivalve

moulds and open moulds to which specific typologies of objects can be associated. The first are mainly obtained from basaltic rock, while the others are in clay and limestone.

Three main categories (weapons, ornaments and tools)

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and different typologies obtained from these moulds can be distinguished:

Weapons:

- TM.98.Z.270 (mould a, fig. 1): arrowhead basaltic rock bivalve mould. Square fragment (6.7 x 4.4x 2.8 cm) presenting the matrix for an arrowhead with a biconvex section without ribs, with minute drainage channels on the right side. Alongside it is the matrix for another arrowhead. Between the two arrowheads there is a hole to fasten another matrix on top. The archaeological context dates it to Middle Bronze II. This typology represented by this bronze arrowhead has been found at Ebla8, Tell el-Dab’a9 (Type 7) and only one example comes from Hama10, they all refer to Middle Bronze I and II contexts11.

- TM.93.PN.222 (mould b, fig. 2): axe mould found in a Middle Bronze secondary context. Besides the two published examples of moulds in basaltic rock in entirely preserved burial for the production of fenestrated12, and collar axes13, one small basaltic rock bivalve mould almost perfectly preserved (5.8 x 4.6x 2.6 cm), for duckbill axes (probably of votive use) has been found. This mould has two round hollows for the fastenings at the edges and a channel to pour the metal; it is dated to Middle Bronze I-II. A bigger steatite bivalve mould (11 x 6.6 x 3.5 cm) of the same typology has been found at Kültepe Kanish II. Miniature fenestrated axes have been found at Ugarit14, Baghouz15, Mari16 dated to Middle Bronze I-II.

- TM.99.DD.787: partially conserved square knife monovalve mould used on three faces. On the major one there is a matrix for a knife, on the opposite side there is a matrix for a tool; one of the shorter sides (the one with burnt traces) seems unused, while the other shows an initial working process and deep circular hole. The mould is made of fine sandstone and

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measures 7.8 x 2.2 x 0.5 cm; the archaeological context dates it to Middle Bronze II. The knife has a semicircular section for the handle and a rectangular section for the blade. This kind of small knife seems to resemble the knife typology (Type G) called “couteaux hittites” by Deshayes17 having a characteristic blade that is wider at the middles and tapers to both ends.

- TM.83.G.217: fragmentary mould of a smaller knife, similar in shape to the previous, has been found at Ebla and dated back to Middle Bronze II. The characteristic of this knife typology is a wide blade tapers to its point: it is similar to the Alishar knife n. 1209 (dated Middle Bronze I-II)18 where the convex side is sharp. This type with serrated inner edge was still in use until the Roman Byzantine period19.

Ornaments

- TM.98.Z.598 (mould c, fig 3) ring and earrings squarish basaltic rock bivalve mould in (6.5 x 5.5 x 1.5 cm) with a hole on one side for closing the mould, a pouring channel and other gas exit channels. On one side there is an evident circular cavity in the shape of a ring and two sphere-shaped passing holes for earrings, dated to Middle Bronze II. This ornament typology is a very common type and can be found in many sites of the Levant: one chlorite bivalve mould (4,8 x 2,6 x 1,5) at Ras Shamra, the archaeological context dated to Middle Bronze I-II 20; a basaltic rock bivalve mould (15 x 9 x 4 cm) at Kültepe in Middle Bronze II context21; a basaltic rock bivalve mould at Beth Shan22; two bivalve moulds at Megiddo, one in steatite (7 x 9 cm)23 and another in serpentine (10 x 6 cm)24.

Tools

- TM.94.PNW.791 (mould d, fig. 4) the moulds coming from Ebla and included in these categories were used for the production of flat pointed tools. This fragmentary monovalve

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mould in limestone shows the outlines of two utensils, one with a horizontal end and square section (7,8 x 4,9 x 2 cm), the other with a pointed end and cylindrical section. The archaeological context dates it to Middle Bronze I-II. This casting shape can be compared with: a basaltic rock open mould (8,25 x 5,8 cm) from Kültepe25, a clay monovalve mould (14 x 12 x 11,8 cm) from Tell Taynat26, a basaltic rock monovalve mould (5 x 8,6 x 4 cm) from Tell Afis dated to Late Bronze II27; three chlorite monovalve moulds (32,6 x 9,7 x5 cm; 19,3 x 8,4 x 7,5 cm; 22,5 x 8,8 x 6,9 cm) from Arslantepe in Early Bronze III context28.

- TM.92.G.753 (mould e, Sample II, figs 5 and 10): flat point type kaolinite rectangular open mould (4.1x5.2x1.8 cm) broken on three sides, with bar incision of cylindrical section and rounded end, probably used for making scalpels. The archaeological context dates it to Middle Bronze or Late Bronze Age.

- TM.94.PNW.444 (mould f, fig. 6): the flat point tool limestone monovalve mould (10.5 x 4.9 x 4.7) type is very similar to the previous one; piece broken on one side, irregular rectangle in shape. Element engraved as a bar, quadrangular in shape, dated to Middle Bronze II. One very similar basaltic rock monovalve mould (9x15 cm) has been found at Megiddo29. Another mould very similar to the previously described one comes from Alishar (d 294), and is made of sandstone and seems to be part of a tool mould30.

- TM.78.G.954 (mould g, fig 7): flat point type open limestone square mould (9.7 x 11.2 x 4 cm) worked on two sides: one with engraving of two parallel bars with quadrangular section with pointed tip, the other with a deep round groove with central hole. It is dated to Middle Bronze I-II. For comparisons see: limestone monovalve mould (10x4.5

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cm) from Tille Höyük31; a basaltic rock open mould (8 x 14) from Megiddo32.

- TM.94.PN.35 (mould h: Sample V, figs. 8 and 13): monovalve rounded pyrophyllite mould fragmentary on all sides (6.2 x 6.1 x 2.3). Extremely corroded matrix in which two rectangular outlines can been observed.

- TM.82.G.77: monovalve pyrophyllite mould piece in the shape of a parallelepiped broken on one of the long sides (6 x 4.1 x 2.7). Centrally passing holes on the long and short sides, engraving on the long side.

Materials33

Different types of materials were used to make the matrices. Steatite provides an ideal medium for carving moulds in which metals may be cast: it is resistant to heat shock, easy to carve, and in general acts like clay in that the stone actually hardens when heated. Sandstone is also used to a lesser extent34. Steatite and chlorite appear more commonly used elsewhere in antiquity, a factor probably reflecting cultural preferences and not availability. Wood, and clay could be used but each has major limitations which indicate that these materials were used rarely. A chemico-physical study has been conducted on some fragments of moulds coming from Ebla in order to classify them. The study aimed at identifying the material the find is made of, its chemical composition in qualitative terms. In addition, it attempted assess its mineral characteristics35.

Sample preparation

The material to be analyzed was selected and all the chosen samples were taken from the clay moulds in order to study their composition and their changes during use. The seven samples were in their original form, irregular in shape and of

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considerable solidity, except for the Sample VI and VII which were incoherent. The samples underwent mineralogical examination using an optical microscope and this rapidly revealed the different mineralogic phases present. Furthermore, the observation detected some fossil species belonging to the micro-plankton group (Globigerine sp, Globorotalie sp).

Qualitative and quantitative chemical analysis was performed using X-ray micro-analysis technique. EPMA (Electron Probe for Micro-Analysis) equipped with WDS (Wavelength Dispersive Energy) and EDS (Energy Dispersive Energy) detectors was used. Emission of X-rays from the solid is the consequence of interaction with the electron beam. Spectral analysis of the X-rays coming from the solid provides data for evaluating both the qualitative and quantitative chemical composition of the sample. Secondary ions mass spectrometry (SIMS) was used to perform chemical analysis of Sample VII, (TM.86.P.58, fig. 15) which, compared to the other specimens, was incoherent and characterised by an apparent metallic state. The SIMS used ions (so-called primary ions that are typically Ar+) to bombard the solid sample in order to extract ionized atoms or group of atoms (so-called secondary ions) from its surface. Then the secondary ions are accelerated by an electric field and collected by an analyzer that is able to separate them on the basis of their charge/mass ratio. The elements present in the sample and their relative concentrations are estimated on the basis of mass value and corresponding peak intensity. Further characterization of the samples was achieved by X-ray diffraction analysis (XRD) that is one of the most valuable experimental methods for detecting the structure and phase composition of a crystalline solid compound. This method is based on the interference phenomena occurring when a beam of X-rays is diffracted by crystalline solid. Diffraction is governed by Bragg’s law and the diffraction pattern of each compound is characterised by a sequence of diffraction peaks

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whose position and intensity are typical and, like a fingerprint, identify exactly the substance investigated.

Results

Optical microscope results allowed main classification of the minerals present and detected the geological domain. All the mineral stages belong to clays and the presence of plankton micro-foraminifers fossil skeletons (Globigerine sp, Globorotalie sp) revealed that the clays had come from deep seabeds. The seven samples are reported in Table 1.

All the samples are mostly of clay nature, especially

Sample I (fig 1) is made of kaolinite type rock with a fine-grained base paste, homogeneous range. Macro crystals of different mineralogical phases are not present and the matrix is completely clayey. Like Sample I, Sample II (fig 2) has a kaolinite type matrix. Sample III (fig 3) is like a clay rock made from a base paste similar to the previous samples. Sample IV (fig 4) and V (fig 5) are made up of microcrystalline pyrophyllitic clay. Sample VI (fig 6) presents an external ring that is darker in colour than the lighter core. This difference in tone can be attributed to diffusion migration of metal ions toward the central area, no doubt caused by an increase in temperature. Sample VI is made of clay rock. The dating of these samples (see Table 1) is inferred from archaeological contexts. Initial general examination of the diffractograms reveal some similarities, probably due to the fact that they belong to the same group of materials. This observation agrees with the microanalysis results that revealed all seven samples presented a predominant clay composition.

Sample I, II and III are characterised by very similar diffraction spectra. In particular, the diffractograms of samples II and III are almost perfectly overlayable, and very similar to

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Sample I. The latter not only has the same reflections as the others, but also has added peaks of minor intensity. The diffractograms of Sample IV and V have some analogies with the previous ones, but appear a lot more similar with reference to overlaying and relative intensity of reflections. Particularly, the diffraction peaks appear weaker than those in Samples I, II, III, hence showing a minor grade of crystallinity. These results suggest that Samples IV and V may be made of the same material. The diffractogram of Sample IV reveals a series of reflections like those of all the previous samples. However, comparing the intensity shows that it has an intermediate level of crystallinity between Samples I-III and that of Samples IV-V. In any case, despite the different peaks of intensity, Sample VI seems to have a particular correspondence with Sample III. Sample VII (fig 7) is the only incoherent one presenting an apparently metal composition, and this finding was confirmed by optical microscope observation.

Conclusion

Clays are the most widespread inorganic colloids in nature. They are found in sediments and soils and generally have a tetrahedron (T) and octahedron (O) layered structure, like phyllosylicate ones. They are found in small particles, often in multicoloured compact masses, from which they can easily be reduced without an apparent crystalline habit. Clays are subdivided as follows depending on the strata forming the packets:

T-O clays, also called canditi, whose white colour is results of the lack of Fe (II), the most important being kaolinite;

T-O-T clays are three layered clays; two tetrahedron layers and one of octahedron, the most important being illites and montmorillonites;

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T-O-T-O clays have four layers; chlorites are in this group.

Their structural composition makes them very plastic and this property is enhanced by their water content that is about 23%. This makes them easy to work and allows them to be made into vessels and other every day items. Another characteristic of clay is that it can be fired at temperatures of 1000-1500 °C and becomes very resistant.

Also the texture of clays plays a crucial role; clays made by combining natural, more or less refined, clays mixed with other components give different characteristics, such as hardness, colour, porosity, plasticity, firing point, etc..

The analysis performed on the first group of samples indicates that the clay used was deliberately taken from clay deposits associated with granites, granites pegmatite, trachytes, andesite and also with metal veins. The most commonly used clay is kaoline, that is almost totally formed of the kaolinite mineral, Al2 (OH)4 Si2 O5. The analyzed clay is practically without iron and other metal impurities, and hence colourless and particularly valuable. So the fireclays, like those used to make the moulds of Ebla, contain minerals with a base of aluminium hydroxide and are characterised by an extremely elevated thermal resistance, so they are the best for moulds, melting pots and oven lining. XRD analysis revealed some documented similarities in samples coming from different archaeological contexts; the Eblaites could have used the same quarries, still not identified, in different historical periods.

We can still make some considerations on the casting techniques used at Ebla in this period and on the relationship between mould and artefact types. The monovalve moulds used to make certain types of objects of common use, such as flat tools, are usually engraved on many sides, when obtained from basaltic rock, whilst they are only engraved on one side when

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made with less resistant material, such as clay, or more resistant materials, such kaolinite. On the contrary, bivalve moulds are solely used for valuable objects, like jewels and weapons, and are always made from basaltic rock. The few casting shapes for ornaments can be traced back to only two typologies used to produce jewels, whereas there are at least three typologies of fusion shapes for weapons, in addition to the small votive axe of which no bronze examples, until now, have been found. Bivalve moulds can be also recognized for their accurate workmanship which shows a different level of production specialisation, strictly connected to the types of items for which they were used. It is no coincidence that a higher percentage of open moulds compared with the few more elaborate bivalve moulds has been found at Ebla. In reality, the former were frequently used, while the latter were probably used in highly specialized ateliers.

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1 I am grateful to Prof. P. Matthiae for his kind permission to

study the moulds from Ebla kept respectively at the Archaeological Museums of Aleppo, Damascus and Idlib in Syria. This paper is the review of an unpublished article presented for the International Congress on the Archaeology of the Ancient Near East, Copenhagen 2000.

2 Items made from the same mould may differ because of differences in finishing, and therefore it is often difficult to link an artefact to the mould it was cast in (Becker 1987, p. 180).

3 Festuccia 1998, pp. 421-426. 4 Elliot 1991, p. 50. 5 Calmeyer 1969, pp. 44-46; Matthiae 1980, pp. 53-62, fig

12; Type 1 Philip 1989, pp. 49-51, fig. 6; Miron 1992, pp. 57-71, pl. 15.

6 Matthiae 1980, pp. 53-62, fig.11a-b; Type 3 Philip 1989, pp. 53-55, fig 7; Miron 1992, pp. 51-71 pl 15-16.

7 More complex techniques are the lost wax and the sand-mould casting that creates an item made first of wax that is then substituted with metal.

8 Rossoni n.d. 9 Philip 1995, fig 3:1 10 Philip 1989, p. 94 11 Philip 1989, p. 94, fig 24, n. 281. 12 Matthiae 1980; Matthiae 1985, p. 234, n 112; Matthiae

1987, p. 147; Baffi 1988, p. 3; Philip 1989, pp. 49-59, figs. 6-7; Rossoni 1995, p. 439, n. 309.

13 Baffi Guardata 1988a, p. 3. 14 From the surface of the upper-town, Philip 1989 p. 55, pl.

1a. 15 From Tomb Z: Philip 1989:55, 299-301; Haerink,-Overlaet

1985: 384-416; Philip 1988. 16 In the Palace of Zimri-Lim, from Room 69, Philip 1989 p.

55, pl. 1a. 17 Deshayes 1960: 78. 18 Von der Hosten 1937: 289/e 1500 19 Von der Hosten, 1937: 263, fig 289, c. 1209.

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20 Mould found at south of Temple aux Rhytons, room 57.

Elliot 1991: 50-51. 21 Özgüç 1955: 78 pl 19:7. 22 Rowe 1940, pls LIIIA:8. 23 Lamon 1939, pl 105:5. 24 Loud 1948, pl 269: 6-7. 25 Özgüç 1986: 47 pl 91b. 26 Braidwood 1960: 450, fig 350, pl 49:5. 27 Mazzoni 1998: 201-209. 28 Palmieri 1973, fig 45:4-5-7. 29 Loud 1948, pl 269:5. 30 von der Hosten 1937: 235, fig 263, d 294. 31 Summers 1993: 54, fig 69-1. 32 Lamon 1939, pl 105-1. 33 Analysis on the materials have been conducted by Dr.

G.Fierro (Centro di Studio del CNR “SACSO” c/o Dipartimento di Chimica – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Dr. G. Gerbasi (Dipartimento di Scienze della Terra – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Dr. M. Palmisano (Istituto di Medicina Sperimentale del CNR, Area della Ricerca di Roma – Tor Vergata).

34 The thermal shock to the mould produced by casting makes sandstone less desirable than steatite. Tylecote 1962: 118.

35 Festuccia 2005: 74.

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mondo anatolico e vicino oriente

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rita francia

la struttura ‘poetica’ degli exempla ittiti nel “canto della liberazione” *

Per fare un Prato occorrono un Trifoglio ed un’Ape – un Trifoglio ed un’Ape –

ed il Sogno –

il Sogno basterà se le Api son poche.

(E. Dickinson) Il “Canto della liberazione” (itt. parā tarnumar) è il noto

testo bilingue ittito-hurrico i cui frammenti sono venuti alla luce a Boğazköy, antica Ḫattuša, nelle campagne di scavo degli anni 1983-1985 tra le rovine dei templi 15 e 161. Il tema centrale del testo, identificato dagli scribi stessi come ‘SÌR’ “canto”2, è la liberazione degli schiavi della città di Ebla voluta dal dio Teššup, ma la richiesta non viene esaudita dai maggiorenti della città e il dio, per punizione, la distrugge. Accanto a questo tema, nella ‘seconda tavoletta’ (KBo 32.12 e KBo 32.14) sono riportate sette narrazioni inquadrabili nel genere favolistico. Queste ‘favole’ non hanno apparentemente nulla a che vedere con il tema centrale dell’epos: sono testi molto particolari, costituiti da un exemplum i cui protagonisti sono animali o oggetti umanizzati, parlanti, di cui si evidenziano i difetti, probabilmente perché il lettore ne tragga insegnamento. All’ exemplum segue una morale che traspone nel mondo reale quanto esposto con linguaggio metaforico nell’exemplum. La tipologia e il contenuto delle narrazioni, del tutto diversi dal tema centrale dell’opera, fanno sì che non tutti gli studiosi concordino nell’inserirle nel “Canto”. A ragione di ciò si è ipotizzato che esistano più serie di tavolette relative all’epos in

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questione e che KBo 32.12 e KBo 32.14 facciano parte di una serie diversa dalla principale (KBo 32.11).

La struttura stessa di queste ‘favole’, con un exemplum caratterizzato da animali o oggetti umanizzati, la morale finale, induce a pensare alle favole di Esopo, ed infatti N. Oettinger in un suo studio ha classificato queste narrazioni come appartenti al genere didascalico, ben documentato nel Vicino Oriente Antico e in Egitto3.

Lo studio della versione hurrica ha rivelato una redazione del testo estremamente accurata, il ricorso a stilemi ricercati, l’uso di un linguaggio con notevoli scarti dalla norma, uno stile che è stato definito proprio del genere poetico4. I commentatori del testo hanno osservato che la traduzione ittita, seppur accurata, non è tuttavia sempre all’altezza del testo hurrico: il fatto stesso di essere un testo in traduzione è di per sé una limitazione alla vis poetica, si aggiunga che vi lavorarono più scribi, non tutti madrelingua hurrica e con una padronanza linguistica tale da cogliere le finezze del testo da tradurre in ittita5.

Nello studio che proponiamo di seguito analizzeremo i primi sei dei sette exempla di queste favole, tralasciando l’ultimo perché eccessivamente lacunoso, al fine di verificare se e in quale modo nella versione ittita gli scribi hanno rielaborato la complessa struttura poetica del testo originale, ricca di figure retoriche del significante e del significato. L’indagine mirerà a verificare se anche nella versione ittita è individuabile l’adozione di uno stile che possa essere riconosciuto come fuori dall’ordinario, ricco di figure stilistiche, retoriche, sia fonetiche che dell’ordine (assonanze, consonanze, rime, scelta e posizione delle singole parole nella frase), con una costruzione della frase fuori dalla norma, tale da conferire al testo un andamento elaborato, cadenzato e ritmato proprio delle composizioni poetiche6. In conclusione, è nostro obiettivo verificare se gli exempla in lingua ittita siano stati elaborati con un uso sapiente

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della lingua, diversa da quella ordinaria comunemente usata nella prosa, arricchita con figure atte a ravvivarla per renderla più espressiva e che, nel contempo, conferiscono al testo vigore e musicalità.

Nell’analizzare gli exempla secondo i parametri su indicati (struttura del significante e del significato, posizione e scelta delle parole, struttura della frase), abbiamo osservato che tutti, sebbene in misura diversa, si scostano dalla norma e ciò è particolarmente evidente nella formulazione dei discorsi diretti. La lingua ittita per la sua stessa struttura non si presta ad una facile analisi metrico-stilistica: si incontrano frasi per lo più molto brevi, la cui struttura classica è Soggetto – Oggetto – Verbo, in apertura vi è solitamente una congiunzione seguita dalle particelle enclitiche di inizio frase7, a ciò si aggiunga la difficoltà di individuare la posizione dell’accento e la quantità vocalica8. Tenendo conto di ciò, esamineremo gli exempla considerando le singole frasi, e non come esse ricorrono nella riga della tavoletta; scioglieremo i sumerogrammi e gli accadogrammi, là dove lo riterremo necessario ed è noto il corrispondente vocabolo ittita, quindi ne considereremo i risultati.

Gli exempla presentano una struttura ben precisa: tranne il primo, i restanti sono introdotti da una formula standardizzata, che serve nel contempo anche a concludere il precedente, e che si ripete come un refrain per tutta l’esposizione degli episodi:

(A) arḫa dālešten apāt uttar (B) nu=šmaš tamai uttar memiškimi (C) ḫatreššar ištamaškitten (D) ḫattātar=ma=šmaš memiškimi

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“lasciate perdere quella storia! Vi racconterò un’altra storia: ascoltate pure il messaggio, è un insegnamento che vi voglio raccontare (Lett.: vi racconterò la saggezza)”.

La formula introduttiva e, nel contempo, conclusiva degli

exempla presenta delle particolarità stilistiche degne di nota: le frasi (B) e (D) sono tra loro legate dall’epifora memiškimi con cui entrambi i versi si chiudono. Un complesso stilema è elaborato tra le frasi per ripetuti chiasmi e l’alterazione del normale ordine basico Soggetto – Oggetto – Verbo9: in (A) e (B) si individua un chiasmo tra i verbi arḫa dālešten e memiškimi e il sintagma dell’Oggetto Agg. – uttar, con, in aggiunta, il ricorso alla figura dell’anastrofe in (A) tra il Verbo in prima posizione e l’Oggetto (uttar) in ultima:

(A) arḫa dālešten apāt uttar (V.) (O.)

(B) tamai uttar memiškimi (O.) (V.)

Un chiasmo analogo è individuabile tra (A) e (C): l’Oggetto di etrambe è un nome astratto, uttar in (A) e ḫatreššar in (C), il primo dislocato a destra, alla fine della frase, l’altro (ḫatreššar) collocato normalmente prima del Verbo; in entrambe le frasi il Verbo è all’imperativo di seconda plurale, dunque le sillabe finali sono tra loro corrispondenti. I verbi e i nomi astratti sono disposti in modo chiastico:

(A) arḫa dālešten apāt uttar (V.) (O.)

(C) ḫatreššar ištamaškitten (O.) (V.)

Le rimanenti frasi, (B) e (D), presentano a loro volta

caratteristiche simili a queste ora rilevate: stessa forma verbale

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(epifora); nome astratto come Oggetto, in (B) posto subito prima del Verbo, preceduto dal complemento indiretto enclitico, suffisso alla congiunzione di inizio frase (nu=šmaš), in (D) in prima posizione, con la congiunzione di inizio frase e il complemento indiretto enclitici suffissi (ḫattātar=ma=šmaš). Anche tra queste due frasi è ravvisabile un chiasmo:

(B) nu=šmaš - uttar (C.I.) (O.)

(D) ḫattātar =ma =šmaš (O.) (C.I.)

Nelle quattro frasi che compongono il refrain oltre a vedersi questa corrispondenza a frasi alterne, si riscontra anche la volontà di stabilire un legame tra frasi contigue, (A) - (B) e (C) - (D): nelle prime due l’elemento unificatore è il termine uttar, in entrambi i casi preceduto da un aggettivo, le restanti due sono accomunate dalla paronomasia ḫatreššar e ḫattātar, ambedue inizianti con la sillaba ḫat e terminanti con ar, neutri astratti e collocati nella medesima posizione di inizio frase.

Segue poi l’insegnamento morale preceduto da una formula sempre uguale: ŪL x nu antuwaḫḫaš apaš LÚ-aš “Non è un x, è un uomo! Quello è un uomo ...” , con una breve narrazione dell’episodio che si vuole rimarcare.

Le sei ‘favole’, prese a due a due, presentano delle affinità di struttura o di contenuto: la prima e la seconda hanno come protagonista un capriolo ingrato; la terza è strutturalmente comparabile con la sesta, con cui condivide le medesime formule, analogamente anche la quarta e la quinta sono tra loro affini per costruzione e contenuto.

Esamineremo di seguito i sei exempla meglio preservati, evidenziandone la struttura intrinseca, cioè le parti introduttive alla vicenda (introduzione), i discorsi diretti e le formule che li aprono (formula di apertura), nonché quegli espedienti stilistici

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che di volta in volta riscontreremo, tali da poter indurre a parlare di testo ‘fuori dalla norma’.

Primo exemplum

L’ exemplum della prima “favola” (Vs. II 1-16) narra di una montagna che scaccia un capriolo, dopo che esso vi ha a lungo pascolato; l’animale va allora su un’altra montagna e maledice la prima, augurandole di essere vittima del fuoco e delle maledizioni del dio della tempesta. La montagna, offesa, si chiede il perché di tanta collera da parte del capriolo che pure ha nutrito e si vendica maledicendolo a sua volta, augurandogli di essere vittima di cacciatori e di uccellatori che, dopo averlo preso, se ne divideranno le spoglie10:

(introduzione) (A) (1) aliyan[an]=z(a) apēl tuegga[z=šet] (2) ḪUR.SAG-aš awan

arḫa šuwet (B) nu=šan (3) aliyaš parā tamedani ḪUR.SAG-i pa[it] (C) (4) na=aš warkešta (D) (5) na=aš šūllēt

(formula di apertura)

(E) nu āppa ḪUR.SAG=an ḫurzakiwan daiš

(discorso diretto)

(introduzione)

(L) (9) ḪUR.SAG-aš=a maḫḫan ištamašta (M) (10) nu=ši=kán kardi-ši 11 anda ištarkiat

(formula di apertura)

(N) (11) nu ḪUR.SAG-aš aliyanan āppa ḫuwarzašta

(F) (6) wešiyaḫḫari kuedani ḪUR.SAG-i (G) mān=an (7) paḫḫuenanz(a) arḫa warnuzi (H) dTarḫunnaš=man=an (8) walḫzi (I) paḫḫuenanz(a)=man=an arḫa warnuzi

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(discorso diretto)

(O) (12) aliyanan kuin warganun (P) (13) kinun=a=mu āppa ḫurzakizi (Q) peššiyandu=ya=an (14) aliyanan LÚ.MEŠ�ĀIDU-TIM (R) dāndu=ma=an (15) LÚ.MEŠMUŠEN.DÙTIM (S) UZUšakniyan LÚ.MEŠ�ĀIDU-TIM dandu (T) (16) KUŠ=ma LÚ.MEŠMUŠEN.DÙTIM dandu

“(1-2) Una montagna scacciò dal [suo] proprio corpo un

caprio[lo]12 e (3) il capriolo si dires[se su] un’altra montagna. (4) Egli divenne grasso e pieno di rancore, (5) e (così) cominciò a maledire la montagna: (6-8) ‘possa il fuoco bruciare completamente la montagna su cui ho pascolato13, possa il dio della tempesta colpirla, e il fuoco bruciarla completamente!’. (9) Come la montagna udì (queste parole), (10) provò risentimento verso di lui nel suo cuore, (11) e la montagna maledì il capriolo: “(12-13) (per quale motivo) il capriolo, che io ho ingrassato, ora mi manda maledizioni? Possano i cacciatori scacciarlo (lett. gettino), (14) il capriolo! Possano prenderlo (15) gli uccellatori! Possano i cacciatori prendere la sua grassa carne (lett. grasso) (16) e gli uccellatori prendere il suo vello!”.

Il testo continua con la morale, introdotta dalla formula

già menzionata precedentemente, che spiega e attualizza il racconto allegorico.

Dal punto di vista strutturale, le frasi da (A) a (D) costituiscono un’introduzione, alla favola, che esplicita le premesse (l’allontanamento del cervo da parte della montagna su cui era solito pascolare) e ci cala in medias res; segue poi la formula di apertura (E) del discorso diretto (F-I), quindi una nuova introduzione (L-M), con la funzione di spiegare quanto poi verrà detto nel successivo discorso diretto (O-T), annunciato da una formula di apertura (N). Il discorso pronunciato dal capriolo (F-I), è aperto dall’espressione āppa ḫurzakiuwan daiš “cominciò a maledire”, costruzione perifrastica con il supino

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della forma in -ške- del verbo ḫurt-/ḫuwart- “maledire” (*ḫurt=šk=i=wan) e il verbo dai-14. La clausola x-y-škiuwan daiš “cominciò a x-y” è stata individuata da O. Carruba, in uno studio sulla poesia antolica, come “una clausola dattilica” per introdurre ampi periodi15.

Nella prima introduzione (A-D) il periodare procede suddiviso a coppie: le prime due frasi più lunghe e le ultime due vistosamente più brevi. In (A) si fa ricorso alla figura dell’anastrofe: la costruzione Oggetto – Soggetto – Verbo è inversa rispetto a quella comunemente usata in ittita, con il Soggetto in prima posizione, seguito dall’Oggetto; altra anastrofe è in (F) con il Verbo al primo posto nella frase; (C) e (D) sono versi isocoli; (A) e (D) sono omoteleuti terminando con la sillaba finale -et (šuwet – šūllēt), inoltre i due verbi šuwet e šūllēt vanno a generare una paronomasia, essendo molto simili tra loro per sonorità. In (A) l’anastrofe con l’anticipazione dell’Oggetto può essere dovuta alla volontà di rispettare la costruzione hurrica, che pone infatti il corrispondente termine nāli in prima posizione, ma è pur vero che lo scriba ittita nel tradurre e nel comporre il testo era consapevole di costruire una frase non conforme alla norma, forse proprio in ossequio al modello a cui riconosceva rilevanza letteraria. La ricerca di uno stile non comune è ravvisabile nel prosieguo del testo, infatti nella maledizione pronunciata dal capriolo è interessante notare una serie di particolarità stilistiche che non riteniamo casuali. In (A) e (B) si individua il poliptoto aliyanan – aliyaš; nella formula di apertura (E) si osserva l’iperbato āppa ḪUR.SAG=an ḫurzakiwan daiš, con la separazione del preverbo āppa dal verbo ḫurzakiwan daiš per l’interposizione dell’Oggetto ḪUR.SAG=an. Il discorso si apre con una frase secondaria relativa (F) a cui seguono tre principali (G), (H), (I), di cui (G) ed (I) sono strettamente legati tra loro per l’omoteleuto arḫa warnuzi e il chiasmo tra la congiunzione

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ottativa + l’Oggetto e il Soggetto. Relativamente all’aspetto fonico, in (G), (H), (I) vi è un omoteleuto, terminando tutte con la sillaba -zi (warnuzi – walðzi – warnuzi) e frequenti sono le assonanze per l’iterazione della sillaba ‘an’ (mān=an, paḫḫuenanz(a), =man=an, paḫḫuenanz(a)=man=an) e dei suoni nasali ‘n’ ed ‘m’ (mān, paḫḫuenanz(a), warnuzi, dTarḫunnaš, paḫḫuenanz(a), warnuzi), l’iterazione del suono ‘-arḫ-’ costituisce un ulteriore elemento di coesione ritmica tra loro, ricorrendo in arḫa, in ultima posizione subito prima del verbo, in (G) e (I), e in dTarḫunnaš in prima posizione in apertura di frase in (H). I chiasmi ravvisabili in questi versi sono nella disposizione dei lessemi in (G) e (H) in apertura di frase: congiunzione ottativa + pronome enclitico – Soggetto, in (G), e Soggetto – congiunzione enclitica ottativa + pronome enclitico, in (H):

(G) mān=an - paḫḫuenanz(a) (cong.ott.+O.) (S.)

(H) dTarḫunnaš - -man=an (S.) (cong.ott.+O.)

e ancora tra (G) e (I), per la disposizione incrociata della congiunzione ottativa + Oggetto enclitico e del Soggetto:

(G) mān=an - paḫḫuenanz(a) (cong.ott.+O.) (S.)

(I) paḫḫuenanz(a) - =man=an (S.) (cong.ott.+O.)

A seguire vi è l’introduzione al monologo della montagna

(L-M) e la formula introduttiva del discorso diretto (N). Le parole nelle frasi sono disposte secondo un ordine crescente e (L) ed (N) sono omoteleuti (ištamašta – ḫurwanzašta); in (M) c’e il ricorso all’allitterazione dei suoni consonantici ‘š’ e ‘k’ (nu=ši= kán, kardi-ši, ištarkiat).

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Nel discorso della montagna (O-T) le prime due frasi (O-P) restano alquanto indipendenti stilisticamente dalle restanti (Q-R-S-T), che sono invece a due a due in corrispondenza reciproca. In (O) e (P) è da notare la paronomasia kuin – kuinun. I rimanenti quattro versi son isocoli a due a due (Q-R e S-T); l’anastrofe si riscontra in tutti questi versi: in (Q) ed (R) per il Verbo (peššiyandu e dāndu) al primo posto, seguito dall’Oggetto, aliyanan in (Q) anticipato dal pronome enclitico =an16, e =an in (R), e in ultima posizione il Soggetto (LÚ.MEŠ�ĀIDU-TIM e LÚ.MEŠMUŠEN.DÙTIM); in (S) e (T) per l’anticipazione dell’Oggetto (UZUšakniyan e KUŠ), al primo posto, seguito dal Soggetto (LÚ.MEŠ�ĀIDU-TIM e LÚ.MEŠMUŠEN.DÙTIM) e infine il Verbo dandu in entrambe le frasi17 a generare un’epifora. La costruzione di queste quattro proposizioni (Q-R-S-T) va a formare un chiasmo a coppie di frasi, (Q)-(R) ed (S)-(T), tra i Verbi e i Complementi Diretti (Soggetto – Oggetto):

(Q) peššiyandu - LÚ.MEŠ�ĀIDU-TIM (V.) (S.)

(R) dandu - LÚ.MEŠMUŠEN.DÙTIM (V.) (S.)

(S) UZUšakniyan - dandu (O.) (V.)

(T) KUŠ - dandu (O.) (V.)

Le forme verbali di (Q) ed (R), peššiyandu – dāndu, danno luogo ad una rima interna; in (Q) è ravvisabile anche l’allitterazione nella ripetizione del suono ‘an’ (peššiyandu=ya=an aliyanan), e ancora si osserva l’iterazione a frasi alterne del suono ‘iyan’: aliyanan in (O), peššiyandu e aliyanan in (Q), UZUšakniyan in (S). Un chiasmo è individuabile

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tra (O) e (Q) per la posizione incrociata dell’Oggetto e del Verbo di frase:

(O) aliyanan - warganun (O.) (V.)

(P) peššiyandu - aliyanan (V.) (O.)

Secondo exemplum

Il protagonista dell’exemplum della seconda favola (Vs. II 26-30) è un capriolo ingordo e avido che non si accontenta di pascolare sul prato al di qua di un fiume, ma vuole raggiungere anche il prato sull’altra sponda del corso d’acqua. Quando giungerà alla meta agognata però non troverà nulla, restando così a bocca asciutta. In questo exemplum mancano le parti in discorso diretto.

(A) (26) aliyanaš n=ašta ḫapan tapuša kuieš (27) wešeš (B) nu apūš wešiyattari (C) (28) kēzziya=ká[n] kuieš wešeš (D) nu=šan apēdaš=a (29) š[ākuwa] zikkizi (E) na=aš=šan tapušaš wešiyaš (30) ārš natta (F) ki=ma wemit natta

“(26-27) un capriolo pascolava i pascoli che (erano) da questa

parte del fiume, (28-29) ma gettò18 gli occhi anche sui quei pascoli che (erano) da quell’altra parte (del fiume). (29-30) Sui pascoli della (altra) sponda (lett. parte) non giunse, ma neppure trovò (più) questi”.

Anche in questo incipit, come in quello del precedente

exemplum, l’ordine basico della frase ittita è sconvolto19 da un’anastrofe, perché lo scriba ha applicato con consapevolezza ad inizio frase in (A) un ordine delle parole inverso e distorto, con un notevole scarto dalla norma: al primo posto nella frase vi

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è il Soggetto (aliyanaš) seguito dalla congiunzione con la particella locale enclitica suffissa (n=ašta), rispetto all’atteso n=ašta – Soggetto20. A nostro avviso un simile scarto dalla norma difficilmente può essere dovuto al caso: lo scriba traduttore ha stravolto intenzionalmente in modo significativo l’ordine basico della frase ittita per riprodurre in traduzione un testo che fosse significativamente diverso dalla normale prosa, poiché caratteristiche analoghe doveva cogliere nel testo hurrico. In tutto l’exemplum si nota il ripetersi del suono ‘š’ , inoltre in (C) vi è l’allitterazione kēzziya=ká[n] kuieš con l’iterazione di ‘k’; in (E) ed (F) con un’anastrofe nella posizione della negazione natta che segue le rispettive forme verbali (ārš, wemit), in posizione rilevante21 e nel contempo origina un’epifora tra le due frasi; si individua ancora la stretta relazione semantica tra i termini wešeš “i pascoli” (A) e wešiyattari “pascolava” (B), formati sulla stessa radice, la paronomasia (A) tapuša – (B) apūš; tra (A) e (C) vi è l’epifora kuieš wešeš; i sintagmi ḫapan tapuša (A) e tapušaš wešiyaš (E)22 formano un chiasmo per l’inversione della costruzione di tapuša- – Nome:

(A) ḫapan tapuša

(E) tapušaš wešiyaš

Terzo exemplum

Il protagonista del terzo exemplum (Vs. II 42- 60) è un fabbro che ha forgiato un vaso di rame, lo ha cesellato e arricchito di decorazioni, perché ne ricevesse massima fama, ma il vaso, irriconoscente, maledice il suo artefice e questi, a sua volta, rivolge al vaso altrettante maledizioni augurandogli di essere distrutto dal dio della tempesta e, privato delle decorazioni, di finire in un canale23.

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(introduzione)

(A) (42) tešummin LÚSIMUG walliyanni lāḫuš (B) (43) lāḫuš=an (C) tiššāit (D) na=an šuppišduwarit (44) daiš (E) na=an gulašta (F) nu=uš=ši/e=šta maišti (45) anda lālukkišnut

(formula di apertura) (G) (45) lāḫuš=ma=an kuiš (H) (46) na=an āppa marlānza URUDU-aš ḫurzakiwan dai[š]

(discorso diretto)

(I) (47) mān=wa=mu lāḫuš kuiš (L) man=wa=ši=kán kiššaraš (48) arḫa duwarnattari (M) kunnaš=man=wa=ši=kán (49) iškunawuš arḫa wišūriyattari

(introduzione) (O) (50) maḫḫan LÚSIMUG ištamašta (P) (51) nu=ši/e=šta kardi-ši anda ištarkiat

(formula di apertura) (Q) (52) nu=za LÚSIMUG kardi-ši péran memiškuwan daiš

(discorso diretto)

(R) (53) kuwat-wa URUDU-an kuin lāḫun (S) nu=wa=mu āppa (54) ḫūrzakizi

(formula di apertura)

(T) nu tešummiya LÚSIMUG (55) ḫūwartāin tet

(discorso diretto)

(U) walḫdu=ya=an (56) dTarḫunnaš tešummin (V) nu=ši šuppišduwariuš (57) arḫa šakkuried<du> (X) tešummiš=kán (58) anda amiyari maušdu (Y) (59) šuppišduwarīēš=ma=kán anda (60) ḫapi muwāntaru

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“ (42) Un fabbro fuse un vaso (lett. bicchiere24) per sua propria

lode. (43-44) Lo fuse, (lo) rese perfetto25, e lo guarnì di splendide decorazioni26, lo cesellò e gliele (: le decorazioni) fece brillare in tutto il loro splendore. (45-46) Ma lo stolto rame cominciò a maledire colui che lo aveva fuso: ‘Ah come vorrei che la mano di chi mi ha fuso (48) si rompesse completamente! (49) Ah come vorrei che il tendine del suo braccio destro fosse tagliato!’ (50) Come il fabbro sentì, (51) si offese nel suo cuore, (52) e il fabbro cominciò a meditare nel suo cuore27: (53-54) ‘Perché il rame continua a maledire me, che l’ho fuso?’ E il fabbro (55) proferì una maledizione contro il vaso: (56) ‘Che il dio della tempesta lo colpisca, il vaso: che le decorazioni gli (57) strappi via, che il vaso (58) cada in un canale, (59) che le decorazioni cadano nel fiume!’”

In questo exemplum sono individuabili una parte introduttiva (A-F), una prima formula di apertura del discorso diretto (G-H), un discorso diretto (I-M) con le invettive del vaso contro il suo artefice; segue una seconda parte introduttiva (O-P), una formula di apertura del discorso diretto (Q), quindi il discorso diretto con gli interrogativi del fabbro circa il comportamento del vaso (R-S); un’altra formula di apertura del discorso diretto (T) e le maledizioni del fabbro contro il vaso ingrato (U-Y). In tutto l’exemplum predomina la figura del climax ascendente.

In (A) la costruzione con l’accusativo tešummin al primo posto nella frase e il soggetto al secondo segue l’ordine del testo hurrico28, che veniva evidentemente sentito fuori dalla norma e come tale mantenuto in traduzione. Tra (A) e (B) è da notare la figura dell’anadiplosi, essendo lāḫuš in ultima posizione in (A) e in prima in (B); questo termine è implicato nel chiasmo con l’Oggetto (tešummin) in prima posizione in (A) e il pronome enclitico in caso accusativo =an in (B):

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(A) tešummin - lāḫuš (O.) (V.)

(B) lāḫuš - =an (V.) (O.)

Tra le frasi (A) e (C) è stabilito uno stretto legame

semantico grazie all’uso del nome tešummi- (A) e del verbo tiššāi- (C), formati sulla stessa radice29.

Degna di nota è la costruzione asindetica tra (A), (B) e (C). I due verbi lāḫuš (A) e tiššāit (C) sono disposti intorno al pronome enclitico in caso accusativo =an (B), grammaticalmente oggetto diretto di lāḫuš, ma stilisticamente posto tra i due verbi perché lo fosse implicitamente anche di tiššāit, contravvenendo alle comuni regole grammaticali che avebbero voluto la ripetizione esplicita dell’Oggetto. L’impressione è che lo scriba abbia costruito un periodo dalla sintassi complessa, nel quale un unico pronome enclitico in caso accusativo risultasse essere l’oggetto di due frasi, costituite unicamente dal verbo e asidenticamente legate tra loro. La traduzione ittita di questi tre versi è conforme stilisticamente al testo hurrico, che presenta per l’appunto una costruzione asindetica, kāzi taballiš ḫel=ō=wa tav=ašt=ō=m tav=ašt=ō=m muš= ō l= ō =m30. Pur consapevoli del fatto che questi versi ricalchino lo stile dell’originale hurrita, non si può però fare a meno di notare che (A), (B) e (C) vanno a costituire una ‘formula climatica’ (a-a-b): (A) e (B) terminano con lo stesso verbo, (C) ha tiššāit che semanticamente, nel contesto specifico, ne rappresenta una variante più elevata e marcata31. Un climax ascendente a livello semantico si riscontra anche tra (D), (E), (F). In (D) ed in (E) si nota l’anafora per la ripetizione di na=an in posizione inziale. In tutta l’introduzione (A-G) vi è l’iterazione del suono ‘š’, allitterante in (F) (nu=uš=ši/e=šta maišti (45) anda lālukkišnut), talora ulteriormente marcato dalla ripetizione di intere sillabe (=šta maišti); in (M) si riscontra la

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ripetizione di ‘š’ e di ‘n’ (kunnaš=man=wa=ši=kán (49) iškunawuš arḫa wišūriyattari); in (P) l’iterazione del suono ‘š’ alternato a quello dentale ‘d/t’ (nu=ši/e=šta kardi-ši anda ištarkiat), analogamente in (V) (nu=ši šuppišduwariuš (57) arḫa šakkuried<du>). Le righe (G), (H), (I), sono omoteleuti terminando con la sillaba -iš, inoltre tra (G) e (I) è da notare l’anadiplosi, essendo cosituiti dalle stesse parole (cong.+ enclitici , lāḫuš, kuiš) ma messe in modo tale che, con l’uso della congiunzione enclitica in (G) e tonica in (I), faccia sì che lāḫuš kuiš in (I) sia in posizione finale; tra (I) ed (L) vi è l’anafora per la ripetizione di mā/an=wa=pron. enclitico dat. sing.; tra (L) ed (M) vi è l’epifora arḫa X-attari; tra (V) e (X) vi è l’omoteleuto, terminando con la desinenza verbale -du. Nei versi (I)-(L)-(M) vi è un climax ascendente di ordine semantico: dapprima il vaso si augura che al fabbro venga tagliata solo la mano, ma subito dopo anche il tendine del braccio destro, in modo tale da non poter muovere più l’intero braccio.

In (H) vi è la formula di apertura del discorso diretto āppa ḫurzakiwan dai[š], sulla cui struttura abbiamo già parlato e in cui si nota l’iperbato āppa marlānza URUDU-aš ḫurzakiwan dai[š], nella posizione del Soggetto (marlānza URUDU-aš) dopo il preverbo āppa; si noti la metonimia marlānza URUDU-aš con la menzione della materia per l’oggetto. In (I), (L), (M) troviamo tre frasi ottative, simmetriche nella costruzione, introdotte dalla congiunzione mān-/(-)man- con la particella del discorso diretto -wa- e un pronome enclitico, -mu in (I) e -ši in (L) ed (M). A seguire vi è l’introduzione del discorso diretto successivo tenuto dal fabbro (O-P), quindi la formula di apertura memiškuwan daiš. In (R) una certa ritmicità è data dalla consonanza URUDU-an kuin lāḫun, con uguale consonante ma diversa vocale nella sillaba finale. Strutturalmente i versi (T) – (Y) si presentano molto complessi: in (T), per anastrofe, al primo posto vi è il Complemento Indiretto in caso dativo (tešummiya), quindi il

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Soggetto (LÚSIMUG), poi l’Oggetto ed infine il Verbo (tet); in (U), sempre ricorrendo all’anastrofe, il Verbo (walḫdu) è al primo posto, seguito dal Soggetto (dTarḫunnaš) e dall’Oggetto (tešummin), anticipato dal pronome enclitico =an; la disposizione dei costituenti in (V) è analoga a quella di (T), senza il Soggetto, peraltro del tutto regolare per il tipo di frase, con il dativo enclitico (=ši) al primo posto, seguito dall’Oggetto (šuppišduwariuš) e il Verbo (arḫa šakkuried<du>) alla fine della frase, nella forma dell’imperativo di terza persona singolare, analogamente a walḫdu di (T). L’interessante costruzione di queste tre frasi è schematizzabile nel modo seguente:

(T) tešummiya LÚSIMUG ḫūwartāin tet

(C.I.) (S.) (O.) (V.)

(U) walḫdu=ya=an dTarḫunnaš tešummin (V.) [(O.)] (S.) (O.)

(V) =ši šuppišduwariuš arḫa šakkuried<du> (C.I.) (O.) (V.)

La disposizione dei costituenti forma una complessa

struttura chiastica: tešummiya – tešummin e le forme verbali delle rispettive frasi tet – walḫdu tra (T) e (U), e ancora le forme verbali walḫdu – arḫa šakkuried<du> e l’Oggetto tešummin – šuppišduwariuš tra (U) e (V). Queste tre frasi sono costruite in modo ‘circolare’: (T) e (V), con analoga struttura, orbitano intorno a (U), con il verbo vistosamente in anastrofe, che si configura come fattore di coesione, per la presenza di tešummi- (Ogg.) e del Soggetto, attestati in (T) ma non in (V), e del verbo all’imperativo di terza persona singolare, attestato in (V) ma non in (T). Tra (U) e (X) vi è il chiasmo Verbo – tešummin : tešummin – Verbo:

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(U) walḫdu tešummin

(X) tešummiš maušdu

I versi (X) e (Y) sono isocoli presentando una costruzione

sintatticamente simile: Soggetto+particelle enclitiche – sintagma posposizionale32 (anda- dat.loc.) – verbo all’imperativo. Dal punto di vista semantico nei versi (U)-(Y) si ravvisa un crescendo di intensità, quindi un climax ascendente.

Quarto exemplum

I due exempla che seguono presentano caratteristiche anologhe: raccontano la medesima vicenda mutando solo il protagonista, un cane nel quarto exemplum (Rs. III 9-12), un animale non ben individuato, il gilusiš33, nel quinto (Rs. III 28-29). L’animale protagonista ruba una focaccia da un forno, la intinge nell’olio per poi divorarla tranquillo:

(A) (9) NINDAkugullan UR.GI7-aš UDUN-ni-ya péran arḫa

pittenut (B) (10) pāra=an=kán ḫuittiyat UDUN-ni-ya-az (C) na=an=kán šakni (11) anda šūniyat (D) šakni=ya=an=kán anda (12) šūniyat (E) na=aš=za ešat (F) na=an adānna daiš “(9) Un cane davanti ad un forno corse via portandosi34 una

focaccia kugulla : (10) fuori dal forno la tirò e la (12) intinse nell’olio, nell’olio la (11) intinse. Egli si sedette e cominciò a mangiarla”.

Quinto exemplum

(A1) (28) [g]ilusiš=kán NINDAkugullan UDUN-ni-ya-az pāra šallannai

(B1) pāra=an=kán UDUN-ya-az ḫuittiyat

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(C1) [na=an=k]án anda šakni šūniyat (D1) šakni=ya=an=kán anda šūniyat (E1) (29) na=aš=za ešat (F1) na=an adānna daiš

“(28) Un gilusiš (“gatto”?) una focaccia kugulla da un forno

strappò via: fuori dal forno la tirò e la intinse nell’olio, nell’olio la intinse. Egli si sedette e cominciò a mangiarla”.

Oltre al contenuto, anche dal punto di vista strutturale, ad

eccezione della prima riga, i due episodi presentano caratteristiche analoghe: in (A) si riscontra un’anastrofe, con l’anteposizione dell’Oggetto (NINDAkugullan) al Soggetto (UR.GI7-aš), mentre in (A1) è seguito il normale ordine basico Soggetto – Oggetto; nella seconda frase (B) mostra l’anastrofe per l’anticipazione del verbo (pāra ḫuittiyat), mentre in (B1) vi è un iperbato, con l’interposizione del Complemento Indiretto (UDUN-ya-az) tra il Preverbo (pāra) e il Verbo (ḫuittiyat). Tra (A) e (A1) varia anche la formulazione dell’azione: in (A) il cane “davanti ad un forno”, espresso con dat.loc. - peran, “fece andare via (con sé)” la focaccia, mentre in (A1) il gilusiš la focaccia “da un forno strappò via”, espresso con ablativo - pāra verbo. La costruzione di (A) fa sì che si formi un chiasmo con (B) tra il complemento indiretto e il verbo35:

(A) UDUN-ni-ya peran arḫa pittenut (C.I.) (V.)

(B) pāra(=an=kán) ḫuittiyat UDUN-ni-ya-az

(V.) (C.I.)

Segue poi la descrizione del pasto: l’animale intinge la focaccia nell’olio e la divora. In entrambi gli episodi questa descrizione è riportata con modalità analoghe, con la ripetizione enfatica della enunciazione dell’azione in (C), (D) e (C1) e (D1), con la figura dell’epifora in entrambe le coppie di righe,

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(C-D anda šūniyat; C1-D1 šūniyat); in (C1) e (D1) vi è un chiasmo tra il preverbo anda e il Complemento Indiretto šakni “nell’olio”, con iperbato poiché anda è separato dal verbo, mentre in (D1) lo segue ed è vicino al Verbo:

(C1) anda šakni šūniyat (preverbo) (C.I.) (V.) (D1) šakni-ya-an-kán anda šūniyat (C.I.) (preverbo) (V.)

Anche in (C) e (D) i sintagmi corrispondenti sono

costruiti in modo chiastico:

(C) na=an=kán šakni (D) šakni=ya=an=kán

Nel quarto exemplum (E) è legata alle righe precedenti

dall’omoteleuto (-at); nel quinto un analogo omoteleuto lega (B1) ed (E1) a (C1) e (D1).

Sesto exemplum

Nel sesto exemplum (Rs. III 41-47) si narra di un carpentiere che ha costruito una magnifica torre molto salda nelle fondamenta, profondissime, e svettante fino a toccare il cielo, augurandosi di ottenere così grande fama. Ma la torre, ingrata, comincia a maledirlo. Il suo artefice, arrabbiato, medita sul perché di tanta acredine da parte della sua creatura, e la maledice a sua volta, augurandole di essere annientata dal dio della tempesta e di finire in un fiume.

(introduzione)

(A) (41) [LÚNAGAR] AN.ZA.GÀR walliy[a]nni wētet (B) (42) nu=ši=kán ḫut[a]nuš kattanta táknāš dUTU-i katt[a a]rnut

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(C) [...-]ulludd[u]š?=ma šarā nepíši manninkuwaḫḫaš

(formula di apertura)

(D) wetet=ma=an kuiš (E) na=an marl[ānza] (43) [kuzza] āppa ḫūrzakiuan daiš

(discorso diretto)

(introduzione)

(I) ištamašta LÚNAGAR (L) nu=ši=kán kardi=ši anda i[dāl]auešta

(formula di apertura)

(M) (45) [nu=za LÚNAGAR] kardi=ši péran memiškizi

(discorso diretto)

(N) kuwat wētenun kuin kuttan (O) nu=mu < āppa >36 ḫūrzakizi

(formula di apertura)

(P) nu LÚNAGAR (46) [ANA AN.ZA.GÀR] ḫūrtain tet

(discorso diretto)

(Q) walḫdu=ya=an dTarḫunnaš AN.ZA.GÀR (R) nu=ši šāmanuš šer ḫuinuddu (S) (47) [ -]ar-ši-ka kattanta amiyari maušdu (T) SIG4=ma=kán kattanta ḫapi maušdu

“(41) [Un carpentiere] costruì una torre per la propria gloria, per essa fece arrivare gli scavi fin giù, fino alla dea sole della terra. (42) I merli37 fece svettare fino al cielo. Ma lo stolto (43) muro

(F) wetet=wa=mu kuiš (G) man=wa=ši=kán kiššaraš arḫa duwarn[att]ari (H) (44) [kunnaš=m]an=ši=kán išḫunāuš arḫa wišūriyattari

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cominciò a maledire colui che l’aveva costruito: ‘Ah come vorrei che la mano di chi mi ha costruito si rompesse completamente! (44) Ah come vorrei che il tendine del suo braccio destro fosse spezzato!’ Il fabbro sentì e si arrabbiò nel suo cuore (45) e il fabbro cominciò a meditare nel suo cuore38: ‘Perché la costruzione (lett. parete) che ho edificato continua a maledirmi?” E il fabbro (46) proferì una maledizione contro la costruzione (lett. parete): ‘Che il dio della tempesta la colpisca, la costruzione (lett. parete):, che faccia andare le sue fondamenta all’insù, (47) che [ ] cada in un canale, che l’intera opera cada nel fiume!’”

Questo exemplum è molto simile al terzo: tranne la situazione di partenza e i soggetti interessati, le maledizioni, le formule, sono del tutto analoghe39. La struttura è complessa, presentando parti introduttive, discorsive, introdotte da formule di apertura. La prima di queste formule, in (E), allude al discorso vero e proprio pronunciato dalla torre ingrata, ed è introdotto da āppa ḫūrzakiuwan daiš, la seconda, in (M), introduce il pensiero del carpentiere che si interroga su quale errore possa aver commesso, ed è espressa da kardi-ši peran memiškizi, seguono poi le maledizioni pronunciate dal carpentiere contro la torre, introdotte da ḫūrtain tet, in modo del tutto analogo al terzo exemplum, righe (H), (P), (T).

Nelle righe (B) e (C) è ripetuta la figura dell’iperbole “(B) per essa fece arrivare gli scavi fin giù, fino alla dea sole della terra, (C) i merli fece svettare fino al cielo”, in riferimento all’altezza della torre e alle profondità delle sue fondamenta, generando nel contempo un merismo (kattanta táknāš – šarā nepíši).

Le frasi (D) ed (F) sono isocoli, e (D), (E) ed (F) sono legati tra loro dall’omoteleuto terminando con -iš (kuiš – daiš – kuiš), e se la parola in lacuna in (E) fosse kuzza, come proposto dall’edizione di riferimento in base alla riga 45, vi è una sineddoche, con la menzione della parte (muro) per il tutto (l’intera torre); seguono ancora (G) ed (H) con l’epifora arḫa

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duwarn[att]ari – arḫa wišūriyattari; in (F) - (H) è ravvisabile un climax semantico, del tutto simile a quello incontrato nel terzo exemplum (I) - (M); nelle righe (R), (S), (T) vi è un omoteleuto, terminando tutte con la desinenza dell’imperativo di terza singolare -du (ḫuinuddu – maušdu – maušdu). In (D), (F), (I), (N) e (Q) vi è l’anastrofe: nelle prime due frasi il verbo wetet è al primo posto nella frase e il soggetto kuiš alla fine; in (I) il verbo ištamašta precede il Soggetto, in (N) precede l’oggetto, in (Q) il verbo walḫdu all’imperativo precede il Soggetto e l’Oggetto, anticipato dal pronome enclitico =an. In alcune frasi vi è la ricerca di suoni allitteranti: in (B) sono iterati i suoni ‘n’, ‘ k’, ‘ t’ (nu=ši=kán ḫut[a]nuš kattanta táknāš dUTU-i katt[a a]rnut); in (C) ‘š’ e ‘n’ ([...-]ulludd[u]š?=ma šarā nepíši manninkuwaḫḫaš), in (E) il suono ‘z’ (na=an marl[ānza] [kuzza] āppa ḫūrzakiwan daiš), in (H) ‘n’, ‘ š’ ([kunnaš=m]an=ši=kán išḫunāuš arḫa wišūriyattari), in (N) ‘ku’ ed ‘n’ (kuwat wētenun kuin kuttan), inoltre in questo verso è da notare la paronomasia kuwat – kuttan. Un chiasmo è visibile tra le frasi (Q) ed (R) per la posizione del Verbo e dell’Oggetto:

(Q) walðdu(=ya=an) - AN.ZA.GÀR (V.) (O.)

(R) šāmanuš - šer ḫuinuddu (O.) (V.)

I versi (S) e (T) sono isocoli: avverbio di luogo - dativo

locativo - verbo (kattanta - dat.loc. - maušdu), e probabilmente inoltre tra (Q) e (T) vi è un climax semantico, simile a quello dei versi (U) – (Y) del terzo exemplum.

L’esame dei sei exempla presentati ha evidenziato la

presenza di numerose figure retoriche del significante e del significato, non ascrivibili a nostro avviso a criteri fortuiti né

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unicamente al calco del testo hurrico originale. Certamente gli scribi dovettero apprezzare lo stile poetico del testo originale, ma è fuori dubbio che fecero di tutto per far sì che la versione ittita non gli fosse inferiore. Essi di adoperarono a prestare molta attenzione alla forma del testo e ad operare precise scelte lessicali e stilistiche per conferirvi musicalità e ritmo che, nel contempo, provano che esso è frutto di un’accurata costruzione compositiva anche nella traduzione ittita.

Il testo tradotto dunque dovette essere inteso come un’elevata opera letteraria in lingua ittita, certamente in considerazione della pregio del testo hurrico di partenza, ma non solo, poiché la complessità dell’elaborazione formale che abbiamo evidenziato ci fanno ritenere che esso non fosse sentito solo come un mera traduzione.

* Ringrazio il Prof. Alfonso Archi per aver letto il testo. Per

le abbreviazioni utilizzate si rimanda al Chicago Hittite Dictionary. Il presente contributo approfondisce ed amplia alcuni argomenti accennati in Francia 2010.

1 Il testo è stato edito da E. Neu (Neu 1996). Un visione globale delle principali problematiche inerenti il testo è in de Martino 2000.

2 Sebbene questa sia la classificazione data dagli scribi ittiti, la sua attribuzione ad un genere già noto è alquanto problematica, così come quella stessa di “canto”, per queste problematiche de Martino 2000, p. 298 nota 14, con bibliografia precedente.

3 Oettinger 1992; si veda anche l’introduzione di A. La Penna a Esopo, Favole in Benedetti 1996, pp. I-X.

4 Neu 1996, p.7 nota 14; de Martino 2000, p. 319 note 132-138, con bibliografia precedente; de Martino 1999, in particolare pp. 11-12, 17; riferimenti ad alcune figure retoriche presenti nell’epos sono stati esposti da Haas – Wegner 2007, pp. 347-354, con bibliografia.

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5 Sugli aspetti sintattici del testo ittita rispetto all’originale

hurrita, de Martino 1999, pp. 7-18, in particolare pp. 11-12 e 17. 6 Un lavoro di questo tipo è stato da noi condotto su alcune

sezioni del rituale di Iriya (Francia 2004). In riferimento al nostro studio, si vedano le osservazioni di Melchert 2007.

7 Secondo la definizione di Carruba 1995, p. 571: “la frase consueta è rapida e obbligata”, con rapida lo studioso si riferisce alla brevità della frase ittita, costituita solo dagli elementi essenziali; con obbligata Carruba rimanda al fatto che la frase è compresa, solitamente, tra la congiunzione di inizio frase e il verbo alla fine.

8 Studi in merito sono stati condotti da Carruba 1981; Hart 1980; Kimball 1983. Sul metro, McNeill 1963; Durnford 1971; Carruba 1995; Carruba 1998; Eichner 1993; Melchert 1998; Melchert 2007; Kloekhorst. A causa delle difficoltà che un’indagine metrica comporta, sulla cui natura, per altro, non c’è ancora affinità di intenti, riteniamo opportuno condurre il lavoro a livello sintattico e sulle parole che compongono la frase, tralasciando, almeno per il momento, riflessioni di natura propriamente metrica.

9 L’alterazione del normale ordine basico, con particolare riferimento alla dislocazione a destra nei testi in traduzione è stata studiata da Sideltsev 2010. Lo studioso arriva alla conclusione che nei testi in traduzione, come quello in questione, l’anticipazione del verbo è favorita (stimulated) dalla versione originale in lingua straniera, mentre la dislocazione a destra di due termini è causata (caused) dall’influenza della lingua straniera, alla cui versione infatti la traduzione ittita corrisponde perfettamente (p. 225). Resta il fatto, tuttavia, che evidentemente per il ‘poeta’ ittita queste costruzioni, fuori dalla norma, dovevano essere avvertite come estremamente ricercate stilisticamente, tanto da essere ricalcate pedissequamente nella traduzione. Nella trattazione Sideltsev fa riferimento a quasi tutte le attestazioni di queste tipologie di costruzione nella Bilingue, pertanto la citiamo qui una volta per tutte.

10 Diamo di seguito il testo, ripartito per frasi, indicando con i numeri in piccolo tra parentesi le righe della tavoletta e con le lettere le singole frasi.

11 Proponiamo in linea del tutto teorica questa lettura per ŠÀ-ŠU anche in base alla successiva occorrenza, Vs. II 52 ŠÀ-ŠU peran,

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che letto kardi-ši peran ricorda il passo nella leggenda di Zalpa: Otten 1973, Vs. I 13 nu-uz-za DUMU.┌NITA┐MEŠ kar-ti-┌iš┐-mi (14) pé-ra-an me-e-mi-ir “e i fanciulli parlarono davanti al loro cuore (meditarono)”; si veda anche Justus 1983, in particolare nota 35; Archi 1995; CHD, P, p. 305; Francia 2002, p. 70.

12 Il significato del termine aliya- è stato oggetto di analisi da parte di alcuni studiosi, le ultime proposte restringono il campo alla famiglia dei cervidi: è da intendersi “red deer” secondo Collins 2003, mentre secondo Neu 1996, p. 116, p. 132 e nota 70, è un “capriolo”. Precedentemente il termine è stato analizzato da Otten – de Martino 1984, p. 301; in CHD, L-N, p. 223 aliyan è tradotto “pecora”; Oettinger 1980 ritiene aliyan un tipo di uccello, associandolo al termine alliya (aliya)- “Orakelvogel”, di questo stesso parere è anche Singer 1983, p. 94; rimandiamo inoltre a Francia 2004, pp. 400-401.

13 Abbiamo inteso rendere la frase relativa ittita “la montagna su cui ho pascolato, possa il fuoco bruciarla completamente” liberamente, svincolandoci dalla costruzione ittita. Il testo usa in realtà il presente wešiyaḫḫari “pascolo”, ma in traduzione ci sembra più appropriato il perfetto, poiché riteniamo si riferisca al pascolo sulla prima montagna, quella che lo ha scacciato; si veda anche Neu 1996, p. 75 con bibliografia precedente.

14 Neu 1996, p. 104; per la costruzione perifrastica con il supino e il verbo dai- si veda Francia 2006, p. 73; per i verbi con il suffisso -ške-, Francia 2006, pp. 77-78, con bibliografia precedente; in particolare sull’argomento Cambi 2002 e 2007.

15 Carruba 1995, p. 571. 16 Il pronome enclitico =an anticipa l’oggetto aliyanan, Neu

1996, pp. 114 e 157; Melchert 1998, p. 484 nota 1; questa costruzione (double-cliting construction) nei testi in traduzione è stata studiata di recente da Sidetselv 2010.

17 La ripetizione della forma verbale dandu è ritenuta indice dell’andamento prosastico della narrazione da de Martino 1997, p. 76 nota 9.

18 Le due forme verbali wešiyattari e zikkizi sono al presente che abbiamo considerato ‘storico’ alla luce delle forme al perfetto āraš e wemit.

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la struttura ‘poetica’ degli exempla ittiti

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19 Neu 1996, p. 128; in generale sull’uso delle congiunzioni

nella bilingue si veda de Martino 1997, con bibliografia precedente. 20 La congiunzione seguita dagli enclitici suffissi è, di norma,

sempre ad apertura della frase, seguita poi dal Soggetto, si veda Francia 2006, p. 118 con bibliografia precedente.

21 Neu 1996, p. 130. 22 Neu 1996, p. 129. 23 La figura del fabbro e il motivo dell’ingratitudine, presente

in diversi paradigmi di leggende, sono stati oggetto di studio da patre di Haas 2009.

24 Tischler, HEG III/10, pp. 342-343. 25 Per il significato di tiššai- nella Bilingue “(etwas) in die

richtige Form Bringen”, Neu 1996, p. 146 nota 100. 26 Per la traduzione di questo termine si veda Neu 1996, p.

148; Oettinger 1992, p. 9 traduce “Verzierungen”; Hoffner 1998, p. 179s., “attachments”; precedentemente Neu 1970, pp. 67-69; Singer 1983, pp. 95-96.

27 Si veda nota 11. 28 Neu 1996, p. 143. 29 Neu 1996, p. 146 con bibliografia. Tischler, HEG, III/10,

pp. 377-379. Sugli aspetti sintattici del testo ittita rispetto all’originale hurrita, de Martino 1999.

30 Neu 1996, pp. 143-144; de Martino 1997, p. 79 con bibliografia.

31 Watkins 2010. 32 A rigor di termini i sintagmi in oggetto (anda amiyari e

anda ḫapi) sono preposizionali: anda in entrambi i casi precede il nome in dat.loc. a cui è riferito.

33 Neu 1996, pp. 178, 180. A mio avviso, ma su basi del tutto empiriche, potrebbe trattarsi di un gatto, animale domestico come il cane, citato nell’exemplum precedente e, tradizionalmente, ad esso contrapposto per comportamenti e abitudini.

34 La scelta di questa traduzione per il verbo arḫa pittenut è in Neu 1996, p. 166.

35 Diversamente Neu 1996, p. 168, de Martino 1999, p. 12, con bibliografia precedente. Non concordiamo circa l’assenza del chiasmo tra queste frasi nella traduzione ittita: la struttura chiastica

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non è formata dale medesime parole, come nella versione hurrica, ma lo scriba ittita ha cercato di conferire al testo una costruzione sintattica tale da formare chiasmo, pur maldestramente, o forse volontariamente, alternando verbi diversi. Nel passo dell’exemplum successivo, analogo a questo, Rs. 28 frasi (A) e (B), non è invece individuabile alcun chiasmo: in questo caso lo scriba non ha cercato in alcun modo di richiamare la struttura della versione hurrica, Rs. 23, dove invece il chiasmo c’è. Altro chiasmo non riproposto dallo scriba nel quarto exemplum è quello delle righe Rs. 10-12, frasi (C) e (D), che invece è ben chiaro nella versione hurrica, Rs. IV 11-12, si veda Neu 1996, p. 169, de Martino 1997, p. 79 con bibliografia, ma, sorprendentemente, a mio avviso, riproduce il chiasmo nelle analoghe frasi del quinto exemplum, Rs. III 28, frasi (C1) e (D1).

36 È questa l’unica occorrenza del verbo ḫurt-/ḫuwart- negli exempla senza il preverbo āppa. Ne proponiamo l’integrazione in base alle altre occorrenze e, particolarmente, secondo il terzo exemplum, Vs. II 53, con il quale il sesto exemplum presenta numerose affinità di costruzione.

37 Rimandiamo per la discussione a Neu 1996, p. 188. 38 Si veda nota 11. 39 Neu 1996, p. 191 ss.

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federico giusfredi

note di lessico e di cultura “scribale” ittita e luvia∗

1. Introduzione

La documentazione scritta della civiltà degli Ittiti, che in epoca imperiale era ormai certamente divenuta bigrafa e almeno in parte bilingue, contiene informazioni di grande interesse riguardanti il lessico dell’attività scribale, afferenti tanto all’ambiente cuneiforme quanto a quello geroglifico. Senza pretese di esaustività, date l’ampiezza della questione da un punto di vista storico e la vastità della letteratura scientifica dedicata al problema, si tenterà in questo contributo di esaminare alcuni aspetti del lessico scribale ittita e luvio, dedicando attenzione alla fase del passaggio dall’età del Bronzo a quella del Ferro e osservando come tale passaggio sia stato caratterizzato, a livello del lessico scribale, da una coesistenza di tratti culturali conservativi e di innovazione linguistica e lessicale.

2. L’età del Bronzo

Per quanto riguarda la documentazione cuneiforme dell’età del Bronzo rinvenuta a Boğazköy, essa appare redatta in diverse lingue: ittita, akkadico, luvio, palaico, hurrico, hattico e naturalmente sumerico (sette delle otto “Sprachen der Boghazköi-Inschriften” di E. Forrer (1919); l’ottava, il cosid-detto *indo-ario, è attestato solo in forma di prestiti attraverso il

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hurrico). Dubbi e discussioni permangono in merito alla formazione scolastica dei professionisti della scrittura, al funzionamento dell’ufficio scribale1 e persino all’origine e alla reale funzione dei depositi di tavolette cuneiformi e di sigilli rinvenuti a Boğazköy2. Rimane tuttavia certo che l’origine della pratica scribale in ambiente ittita cuneiforme sia da ricercarsi nel contatto con culture limitrofe che già avevano sviluppato tradizioni di scrittura secolari se non millenarie.

L’origine “forestiera” della pratica scribale del cunei-forme è riflessa dall’ambivalenza del lessico dedicato. Se i verbi per "scrivere", ḫatrai- (con l’iterativo ḫatresk-) e guls- (più propriamente “(di)segnare, incidere”), sono di chiara origine indoeuropea, il sostantivo per indicare la "tavoletta" d’argilla, tuppi (n.), si sviluppa attraverso passaggi intermedi dal sumerico dub3. Permangono alcune incertezze sulla lettura del sumerogramma DUB.SAR, impiegato per indicare il mestiere dello “scriba”, ma qualora esso debba essere identificato con lo hapax legomenon tup(p)ala- (c.), la derivazione dal prestito sumerico tuppi risulterebbe assai probabile.

2.1 Il verbo ḫatrai-, “comunicare, scrivere”

Il verbo ḫatrai-, “scrivere”, occorre, all’imperativo dell’iterativo ḫatresk-, in uno dei due testi il cui rinvenimento diede origine allo studio della filologia anatolica. Si tratta della lettera VBoT 2 (EA 32), dove lo scriba luvio di Arzawa prega, in clausola, il suo collega egiziano di rispondergli sempre in lingua ittita (VBoT 2 25’: nu nesumnili ḫatreski) invece che in lingua akkadica, com’era consuetudine nella corrispondenza internazionale. È dunque evidente che il termine, almeno in Arzawa e agli occhi di uno scriba che, probabilmente, era un parlante luvio, veniva percepito come termine tecnico dell'attività scribale. L'etimologia del verbo, del quale restano numerose attestazioni (per le quali si veda HW2 s.v.), è certamente indoeuropea, e la derivazione non pone particolari

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note di lessico e di cultura “scribale” ittita e luvia

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problemi. Tanto J. Tischler (HEG I, s.v.) quanto J. Puhvel (HED 3, s.v.), A. Kloekhorst (2008, p. 335) e gli autori dello Hethitisches Wörterbuch (HW2 III, s.v., in particolare p. 523s.) lo interpretano come un denominativo da *ḫatra-, derivante a sua volta dall’indoeuropeo *h2ét-ro-, un sostantivo che doveva avere un significato, astratto o concreto, legato alla “perforazione” o all’“incisione” (per la radice *h2ét-, “perforare, incidere” si veda LIV2: 274).4

2.2 Il verbo guls-, “(di)segnare, incidere”

Anche il verbo ittita guls-, con il corrispettivo luvio gulz-, “(di)segnare, incidere”, è attestato nell’accezione di “iscrivere” una tavoletta5. Una mappatura del campo semantico di guls- è resa assai difficile dall’assenza di un’etimologia univoca: diversamente da ḫatrai-, l’accezione scribale non sembra rappresentare il significato principale, né quello originario. Il più recente studio su questo verbo è stato condotto da Kloekhorst (2008, p. 492s.), che per ragioni di fonetica storica cautamente si discosta dall’etimologia *gwel- (“pungere”) voluta da O. Carruba (1966, p. 36) e accettata da Puhvel (HED 3, pp. 239ss.) e si allinea all’ipotesi proposta da N. Oettinger (1979, p. 204) e ripresa poi da F. Starke (1990, p. 464) e da H.C. Melchert (1994, p. 150) di una derivazione da kwéls-, “tracciare solchi”. L’argomentazione principale a favore della seconda ipotesi, come correttamente osservato da Kloekhorst (2008, l.c.), è quella originariamente avanzata da Starke (1990, l.c.; si veda anche Melchert 1994, p. 253s.), ovvero che l’indoeuropeo *gw-° dovrebbe produrre in luvio u-° e non gu-°. Tuttavia, l’osservazione di Puhvel (HED 3, p. 244), che tale legge fonetica potrebbe non riguardare il grado zero *gwl-° (da cui in assenza di vocale potrebbe derivare *gul-°), rimane teoricamente plausibile, sebbene non esistano casi paralleli a supporto.

Indipendentemente dal problema dell’etimologia, rimane

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del tutto evidente che il verbo guls- venisse impiegato come termine tecnico scribale6. Preme inoltre in questa sede osservare come diverse volte esso descriva l’atto specifico di scrivere su tavolette di legno (ad esempio in KUB 15, 34 iv 56’, IBoT 1, 31:3’; IBoT 2, 102 Rs. 4’s.; si veda Puhvel, l.c.).

2.3 Il sostantivo tuppi, “tavoletta d’argilla”

Il sostantivo ittita usato per indicare la “tavoletta d’argilla”, supporto scrittorio per eccellenza nella cultura ittita come anche nelle altre culture preclassiche della Siria e della Mesopotamia, è tuppi (n.). Tale vocabolo deriva in prima istanza dal sumerico dub, ma il passaggio all’ittita è certamente mediato da altre lingue. L’akkadico adattava a sua volta il vocabolo sumerico alla propria fonetica producendo t/ṭuppum. Assumendo una derivazione diretta dall’akkadico non sarebbe possibile stabilire per quale motivo l’ittita imponga al sostantivo in questione un tema neutro in -i (animabile poi per mezzo di un suffisso -ant-). Si è dunque proposto di ricostruire una fase di passaggio attraverso un assolutivo hurrico tuppə (così H. Kronasser, EHS 40, p. 244; J. Tischler, HEG III, s.v.).

2.4 kurta- e gulzattar, “tavoletta di legno”

Una seconda tipologia di documenti scribali di area anatolica è costituita dalle “tavolette di legno” cerate, la cui esistenza, a lungo ipotizzata7, riceve oggi indiretta conferma dal rinvenimento di un esemplare che si trovava a bordo del relitto di Uluburun8: sebbene non comprovatamente ittita, il carico della nave deve essere indubbiamente interpretato come un prodotto della cultura anatolica del tardo Bronzo. Nella documentazione scritta, i termini cuneiformi che sembrano poter essere impiegati per indicare la tavoletta di legno sono spesso celati sotto al sumerogramma GIŠ.ḪUR o all’akkadogramma (puramente logografico) GIŠLE-U5, probabil-

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note di lessico e di cultura “scribale” ittita e luvia

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mente non del tutto identici e solo parzialmente sovrapponibili9. In alcuni casi, GIŠ.ḪUR occorre però come determinativo per due vocaboli scritti sillabicamente e di origine certamente indo-europea: il sostantivo kurta- (c.?), la cui origine potrebbe essere tanto luvia quanto ittita, e il termine luvio gulzattar (n.).

Sul significato di kurta- non vi è completo accordo. All’interpretazione di G. Beckman (1983, p. 161s.), seguita poi da Starke (1990, p. 457s.) e da Kloekhorst (2008, p. 495s.), che vede nel vocabolo il nome di un tipo di supporto scribale ligneo, si oppone l’argomentazione di Puhvel (HED 3, 277), secondo la quale kurta- indicherebbe piuttosto un contenitore da cui le tavolette di legno venivano prelevate. Questa obiezione si basa fondamentalmente su una differente analisi del passo KUB 38, 19+ Vs. 4’s. Così il passo karuiliyaz=at=kan GIŠ.ḪURkurta[z(a) ] / arḫa gulzassanza, che Beckman (l.c.) traduce “from the ancient wooden tablet it is […] written up”, e che Puhvel preferisce tradurre “from an old wooden tablet from the g. it [is] recopied”. Il rifiuto di considerare GIŠ.ḪUR un determinativo nella sequenza GIŠ.ḪUR kurtaz sarebbe a parere di chi scrive motivata solo nel caso in cui il testo recitasse GIŠ.ḪUR GIŠkurtaz, laddove tutte le altre occorrenze del sostantivo sono determinate dal segno GIŠ. Mancando il consueto deter-minativo, pare ragionevole accettare l’analisi del passo proposta da Beckman e la conseguente ipotesi che la traduzione di kurta- sia proprio “tavoletta di legno”. Relativamente all’etimologia, l’origine indoeuropea (affermata da Starke, l.c.) e la derivazione da *kwr-to- (radice per “tagliare” con suffisso di appartenenza -*to-), riproposta da Kloekhorst (l.c.) sembrano inattaccabili.

L’altro termine impiegato in relazione al supporto scrittorio ligneo è il sostantivo gulzattar, certamente da analizzarsi come sostantivo verbale eteroclito da gulz- (si veda sopra al punto 2.2). In quanto sostantivo verbale, è più probabile che esso indicasse in origine l’atto della scrittura (o di un determinato tipo di scrittura), e in seguito per un passaggio

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da astratto a concreto, il testo inciso su legno, ma non l’oggetto fisico della tavoletta10. Il sostantivo gulzattar occorre sinora in una decina di testi (attestazioni in Melchert 1993, s.v.), sempre di ambito religioso, e in tutti i casi il termine sembra indicare un testo che viene consultato per verificare o stabilire una procedura: mi pare dunque ragionevole ipotizzare che il vocabolo fosse associato non già al tipo di supporto, ma piuttosto ad alcune tipologie testuali “di consultazione”, che incidentalmente venivano iscritte, frequentemente e in tutti i casi noti, su legno.

2.5 Il sostantivo *tup(p)ala-, “scriba”

Se le attestazioni di tuppi sono abbastanza numerose, di tup(p)ala- (c.?), “scriba?”, sopravvive invece una sola occorrenza (tupalān kuēl SAG.DU-i x[ “…sul capo del quale tupala [” nel KBo. 3, 38 Ro. 25’; si veda Tischler, HEG III, p. 444). Il contesto è estremamente poco chiaro, tanto che J. Tischler (l.c.) mette in dubbio la possibilità che veramente il vocabolo significhi “scriba”, anche se in seguito lo stesso studioso recupera l’equazione tup(p)ala- = “Schreiber” nel suo Handwörterbuch (HHw., p. 203). L’equazione in questione, e la conseguente analisi di tup(p)ala- come nomen actoris derivato da tuppi, venne originariamente proposta da E. Laroche (1957), che si basava sull’ipotizzata lettura tup(p)ala- della grafia geroglifica SCRIBA-la. È però un dato di fatto che la complementazione -la, che di norma riflette un morfema produttivo denominale -(a)l(l)a/i-, è insufficiente per suffragare qualsivoglia ipotesi in merito alla lettura della prima parte del vocabolo, che potrebbe essere *tup(p)a-, come potrebbe non esserlo. La vocale -a- di *tuppa- si opporrebbe infatti inspiegabilmente al tema in -i- presentato da tuppi. Non sono al momento note leggi fonetiche o morfologiche capaci di spiegare un passaggio da tuppI a tup(p)Ala. Una diversa analisi etimologica potrebbe far derivare tup(p)ala- dal verbo luvio

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ricostruito *dupa-, “battere, colpire” (per il verbo di veda Melchert 1993, pp. 234-235), base per l’iterativo dupi-/dupai-. In ogni caso, le designazioni sumerografiche dello scriba in scrittura cuneiforme, ovvero DUB.SAR, “scriba (su argilla)”, e DUB.SAR.GIŠ, “scriba su legno”, suggeriscono una differenziazione di ruoli in base alla tipologia di supporto (e forse di scrittura?) impiegato, ma non offrono indizi utili alla ricostruzione lessicale perché non presentano tendenzialmente complementazione fonetica.

2.6 Il geroglifico SCRIBA(-la) nel II millennio

In ambito geroglifico, soffermandoci per il momento ancora sul secondo millennio, l’ideogramma SCRIBA è attestato, oltre che singolarmente, in diverse combinazioni di segni. Oltre ad essere presente in composti quali BONUS.SCRIBA11, MAGNUS.SCRIBA12, EXERCITUS.SCRIBA e ASINUS2A.DOMINUS.SCRIBA13, il segno SCRIBA appare in molti casi accompagnato da numerali “2”, “3” o “4” 14. Herbordt (l.c.) propone di interpretare questi diversi Begriffe come indicatori di differenza di rango: scriba di prima, seconda, terza o quarta categoria15: ciò sembra essere confermato da alcuni casi di personaggi la cui titolatura, in diverse sigillature, occorre con numerali differenti, ad indicare avanzamenti di carriera16. Di fatto, la distribuzione dei ranghi risulta piuttosto interessante: gli scribi “senza numerale” sono di gran lunga la maggioranza, quelli di secondo rango si collocano, per frequenza di occorrenze nei sigilli, al secondo posto, poi vengono quelli di terzo, per arrivare infine alle 5 occorrenze della titolatura “SCRIBA 4”. Naturalmente, è difficile supporre che gli scribi di primo livello fossero più numerosi di quelli di qualifica inferiore, per cui occorre pensare che la numerazione fosse ascendente, e non discendente. D’altro canto, l’argomento può essere facilmente ribaltato affermando che le sigillature di Nişantepe, in quanto documenti di “alto livello” legati alla corte e alla vita politica e all’amministrazione

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centrale, erano necessariamente opera di scribi altamente qualificati. La seconda distinzione osservata da Herbordt (l.c.), tra occorrenze del logogramma SCRIBA con complemento -la-, più frequenti nei sigilli dei “Grandi” (ad esempio di coloro che portavano anche titoli come MAGNUS.VIR o MAGNUS.PASTOR), e occorrenze senza alcun complemento fonetico, meno frequenti nei sigilli di tali personaggi, mi pare possa difficilmente essere indicativa di differenti posizioni professionali. Tale distri-buzione dipende con ogni probabilità da una pura coincidenza all’interno del campione di sigilli rinvenuti.

Per quanto concerne il termine anatolico celato dietro all’ideogramma SCRIBA, si è già accennato alla tradizionale lettura *tupala-, dovuta principalmente all’identificazione con il cuneiforme tup(p)ala-. Di fatto, il complemento fonetico -la- non è particolarmente utile a sostenere una simile iden-tificazione, giacché qualsiasi sostantivo costruito con un morfema nominale -a(l)la- rimane un possibile candidato.

3. Il passaggio all’età del Ferro

Con il passaggio al primo millennio e all’età del Ferro, la civiltà ittita, divenuta bigrafa negli ultimi due secoli della storia imperiale, “scompare”, o meglio si palesa come intrinsecamente luvia e si libera di un sistema linguistico, quello ittita, che era con ogni probabilità ormai divenuto meramente archivistico e relegato alla composizione di documentazione ufficiale, e della scrittura ad esso connessa. È di fondamentale importanza osservare come l’applicazione del cuneiforme alla lingua luvia sia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, un fatto puramente ittita, ovvero come non vi sia traccia di uso della scrittura cuneiforme applicata a lingue indo-europee di ceppo anatolico diverse dall’ittita fuori dalla corte di Hattusa e dalle sue appendici amministrative, militari e culturali geografi-camente decentrate.

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A partire dall’undicesimo secolo a.C. non si rinviene più alcuna traccia di documentazione anatolica in scrittura cuneiforme, ed anzi, gli stati neo-ittiti che sorgeranno di lì a poco si dimostreranno straordinariamente impermeabili alla penetrazione del cuneiforme neo-assiro, che riuscirà invece a fare ampiamente breccia nei sistemi amministrativi dei coevi stati aramaici17. A tale proposito è di estrema importanza notare che le argomentazioni che potrebbero far supporre una sopravvivenza della lingua e della cultura hittita nell’età del Ferro non siano per nulla conclusive e non implichino in alcun modo una protratta fruibilità delle fonti cuneiformi. Il rebus scribale SPHINX = awita, “venne” (KARKEMIŠ A4B, CHLI II.1 §2), basato sulla lettura “ittita” awiti, “sfinge (vel sim.)” (Singer apud Hawkins, CHLI, p. 8118), dell’ideogramma in questione, suggerisce semplicemente che il valore del segno SPHINX in luvio geroglifico era identico o simile al vocabolo ittita. Un prestito o piuttosto un Kulturwort che entra nell’uso del luvio e sopravvie nel primo millennio rimane la spiegazione più economica per questo genere di fenomeni; lo stesso discorso vale per titolature come (FEMINA.PURUS.INFRA)taniti, “ierodula” (TELL AHMAR 1, CHLI III.6 §24): il vocabolo è identico al cuneiforme daniti, ma la sua sopravvivenza non implica in alcun modo che la documentazione cuneiforme fosse ancora letta nell’età del Ferro.

Con la caduta di Hatti, dunque (e che Hattusa sia stata distrutta o abbandonata fa in questo caso poca differenza19), dobbiamo immaginare lo smantellamento, con ogni probabilità graduale, di un sistema burocratico che era stato capace di gestire (o di tentare di gestire) una amministrazione di scala e portata inter-regionale. La lingua luvia, che sopravvive, verrà registrata, nel periodo che va dal secolo undicesimo all’ottavo a.C., in scrittura esclusivamente geroglifica, su supporto di basalto o roccia (in più del 90% dei casi) o anche, più raramente, su piombo20, su ostraka21 o su sigillo.

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4. Lessico scribale di primo millennio

Per quanto riguarda il lessico dell’attività “scribale” propriamente intesa, ovvero i nomi dei supporti, le titolature professionali e i verbi impiegati per descrivere l’atto della scrittura, si registrano nell’età del Ferro numerosi lemmi. Naturalmente alla scomparsa della documentazione cuneiforme corrisponde la scomparsa di vocaboli che, nei secoli precedenti, indicavano le tavolette, tanto d’argilla quanto di legno: al loro posto compaiono tre nuovi termini, tasa-, tanisa- e wani(t)-, apparentemente sinonimi e tutti indicanti la stele geroglifica. Il sostantivo per “scriba”, SCRIBA-la-, cui si è già accennato in precedenza, sopravvive senza mutazioni di grafia allo iato culturale dell’Età oscura, ma viene affiancato dal sostantivo kwananala- (c.), che pure sembra indicare un tipo di scriba. Il verbo guls- (con il luvio gulz-) scompare, e anche il verbo ḫatrai- non viene più utilizzato, ma da analoga o identica radice derivano il verbo hazi-, “iscrivere(?)” e il sostantivo hatura/i-, “testo, lettera, scrittura”, più volte attestato nei testi su metallo, ma apparentemente riferito alla composizione più che al supporto. Il termine tecnico dell’attività scrittoria sembra ora essere rappresentato dal verbo pupala/i-, “scrivere”.

4.1 I supporti scrittori: i sostantivi tasa, tanisa, wani(t)-

Oltre al generico ideogramma STELE, sono noti allo stato dell’arte tre sostantivi scritti sillabicamente che venivano impiegati per indicare la stele geroglifica: tasa- (c.), connesso forse al lidio taśẽ (propriamente “colonna, pilastro”, si veda R. Gusmani 1964, s.v.), tanisa- (c.), la cui etimologia rimane oscura e wani(t)- (n.), connesso al luvio cuneiforme NA4wanni- (che sembra indicare, nell’età del Bronzo, la pietra di confine; sui sostantivi di orgine aggettivale uwaniya- e uwaniti- nonché sul verbo uwanitayi-, attestato solo al participio in KUB 35, 70

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ii 15’ si vedano Starke 1990, p. 187s. e Melchert, 1993, p. 255s.). La probabile connessione di wani(t-) con il lidio vãna-, “tomba” (si veda Gusmani 1964, s.v.) porta a supporre che i testi geroglifici che vengono definiti wani(t)- siano iscrizioni funerarie22. Tuttavia se tale classificazione sembra funzionare nel caso della stele di TiLSEVET (CHLI II.43), pare evidente che in altri casi, come ad esempio RESTAN e QALAT EL MUDIQ

(CHLI IX.4 e IX.5) il termine appare ad indicare steli votive, che nulla avevano a che vedere con una sepoltura (si veda Aro 2003, p. 317). Quanto a tasa- e tanisa- (cui va aggiunto il possibile composto (FINES)hariya(-)tasa, “cippo di confine?”, hapax in CEKKE, CHLI II.27, §15), i due vocaboli sembrano intercambiabili, ed entrambi limitati a iscrizioni su pietra: non esiste alcuna traccia del nome con cui ci riferiva a iscrizioni su metallo o su ostraka.

4.2 Il sostantivo SCRIBA(-la) nel I millennio

All’interno del corpus geroglifico di primo millennio le occorrenze del segno SCRIBA dotato di complemento fonetico -la- sono tre: BOYBEYPINARI 1 (CHLI VI.1 §11), KARKEMIŠ A26e (CHLI II.68) e KULULU 3 (CHLI X.22 §1)23. Come puro logogramma esso compare invece in KARABURUN (CHLI X.18 §14) e in KULULU 8 (CHLI X.34). Come sopra accennato (al punto 2.6), non c’è ragione di ritenere che esista una distinzione linguistica o funzionale fra le grafie con complemento fonetico e quelle che invece ne sono prive. Si consideri anche il fatto che entrambe le titolature foneticamente note, *tup(p)ala- (assumendo che la forma sia corretta, si veda sopra al punto 2.5) e kwananala- (discusso sotto al punto 4.3) terminano in -la-, motivo per cui è impossibile tentare distinzioni sulla base della grafia, sillabica o logo-sillabica, dei vocaboli. Venendo alla funzione, in alcuni casi il titolo SCRIBA(-la) al di fuori di un contesto che effettivamente descriva l’attività svolta dal personaggio (ad

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esempio in KARKEMIŠ A6, CHLI II.22 §26 o nella “firma” brachilogica dell’iscrizione di KARABURUN, CHLI X.18 §14). Quando invece esso occorre in un contesto relativo gesto della scrittura, è di estremo interesse esaminare quali sono i verbi che esprimono l’attività scribale. Si è menzionato, in precedenza, il verbo pupala/i- (vedi sotto al punto 4.6). Il suo significato era certamente “scrivere”, ma nelle sue due attestazioni esso è impiegato in senso “traslato”, per così dire implicitamente causativo. Nella lettera A di ASSUR è il mercante REL-patiwaris a dover scrivere una lettera, anche se probabilmente non l’avrebbe scritta di persona, ma avrebbe affidato il compito ad un professionista, e nel testo di CEKKE non vi è modo di sapere se DOMINUS-tiwaras, il suddito (SERVUS) del sovrano Sasturas, sia in prima persona lo scriba che ha iscritto la stele o semplicemente il funzionario o sacerdote che ne ha ordinato l’esecuzione. I verbi che veramente appaiono aventi come soggetto un personaggio titolato SCRIBA(-la) sono sostanzialmente due. Il primo, completamente leggibile, è *273-pi- (KULULU 8; CHLI X.34), che Hawkins (CHLI, p. 502) ricollega al luvio dupi-/dupai-, “battere, colpire”: se tale identificazione fosse corretta, avrebbe senso supporre che il significato del verbo fosse precisamente ricollegabile all’atto di iscrivere segni geroglifici su pietra. Il secondo, invece, è conservato nell’iscrizione di BOYBEYPINARI 1 (CHLI VI.1 §11) e in quella di TOPADA (CHLI X.12 §39), ed è sempre espresso attraverso il doppio logogramma SCALPRUM+CAPERE: un’identità con *tupi- non può essere esclusa, ma nemmeno affermata senza forti margini di dubbio.

4.3 Il sostantivo kwananala-, un tipo di scriba

Il secondo titolo scribale noto dalle iscrizioni luvie di età del Ferro è kwananala- (c.), un termine attestato solo nelle iscrizioni BOYBEYPINARI 1 (CHLI VI.1 §11) e I VRiZ frammento 1 (CHLI X.50). Più precisamente, i due personaggi nominati in

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BOYBEYPINARI 1, i quali avrebbero entrambi iscritto la stele, portano l’uno il titolo SCRIBA(-la) e l’altro il titolo kwananala-. Curiosamente, il kwananala- Asatarhunzas è detto essere “progenie di Suppiluliuma” (CHLI VI.1 §11: PURUS.FONS.MI-sa DOMUS-ni(-)NEPOS-mi-i(-ni?)-sa), il che potrebbe far supporre un’origine nobiliare. Naturalmente, il riferimento deve essere al sovrano Suppiluliuma di Commagene, Ušpilulme nelle fonti assire24; sarebbe secondo me supposizione sensazionalistica e troppo ardita pensare ad un legame dei re di Kummuh con i Grandi Re che regnavano a Hatti fino a quattro secoli prima. Da un punto di vista formale, la parola kwananala- non permette un’analisi etimologica sicura25.

4.4 Il sostantivo hatura-, “scrittura, lettera, atto di scrivere”

Il termine hatura- (c.), sostantivo evidentemente connesso a ḫatrai-, occorre più volte nelle cosiddette lettere di ASSUR. Se la connessione etimologica parrebbe chiara al di là di ogni ragionevole dubbio, rimane più complicato stabilire quale sia la storia morfologica del vocabolo. I contesti lasciano pochi dubbi: si tratta di un sostantivo flesso normalmente al dativo-locativo e all’accusativo, ma almeno in un caso anche al nominativo singolare comune (Melchert, 1988, p. 30), e il suo significato è “scrittura, lettera, atto di scrivere”. Melchert (l.c.) ne spiega l’origine come “hypostasized genitive”, ovvero una forma di genitivo senza reggenza che si muta a sua volta in sostantivo. Sulla base di una simile ricostruzione, dovremmo postulare un nominativo non eteroclito difficilmente derivabile direttamente da un verbo ḫatrai-, il cui sostantivo verbale, se regolare, sarebbe *ḫatrauwar. Di conseguenza, Melchert (l.c.) esclude una diretta derivazione di hatura- da ḫatrai- e propone di ricostruire un sostantivo originario *ḫatur-, che deriverebbe direttamente dal già menzionato radicale indo-europeo *h2ét-. Semanticamente, hatura- sembra potersi tradurre con l’astratto

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“scrittura” o con il più concreto “lettera”. Esso occorre esclusivamente in testi su piombo (LETTERE DI ASSUR; CHLI: XI A §3, §5; B §3, C §2, §4; D §4, §§5-6; E §§3-9; F+G §3, §§9-11) di natura epistolare. Si potrebbe supporre una sua specificità semantica legata al tipo di supporto su cui sempre appare o piuttosto al tipo di comunicazione – per l’appunto epistolare – cui sempre si riferisce, ma questa ipotesi è destinata a restare, almeno per il momento, meramente speculativa.

4.5 Il verbo hazi-, “iscrivere (una stele)”

Attestato unicamente nella stele di CEKKE (CHLI II.27 §15), il verbo geroglifico hazi occorre al gerundio hazimina, riferito a cippi di confine: a=wa/i (FINES)hariya(-)tasa hazimina, “e cippi di confine debbono essere iscritti?”. La traduzione “iscrivere” è dovuta all’identificazione (Hawkins, CHLI, p. 149s.) con il verbo ittita cuneiforme ḫazziya, “perforare”26, derivato dallo stesso radicale *h2ét- da cui si sviluppano il verbo cuneiforme ḫatrai- e il sostantivo geroglifico hatura. Naturalmente, il verbo rimane uno hapax legomenon, come pure uno hapax è il soggetto (si veda sopra al punto 4.1), in diatesi passiva, cui esso è concordato. Che quindi il sintagma (FINES)hariya(-)tasa hazimina rappresenti realmente l’iscrizione di cippi di confine è ipotesi che non può al momento essere verificata con certezza.

4.6 Il verbo pupala/i-, “scrivere”

Il verbo pupala/i- è decisamente connesso tanto al luvio cuneiforme puwa-, “battere, colpire”, quanto ai verbi lici pu-, puwe- (Melchert 2004, p. 53s.) e al reduplicato ppuwe- (Melchert 2004, p. 54.), il significato dei quali è necessariamente “scrivere”, com’è evidente dalla corrispondenza col greco gr£fw (più precisamente la forma ppuweti, “hanno scritto” corrisponde a ™ggšgraptai, “era stato

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scritto”) nella trilingue di Xanthos (N320: 22-25)27. L’intera famiglia di vocaboli non può che derivare da un radicale a grado zero *ph2u- con aggiunta di un suffisso -ye/o-. Il suffisso era probabilmente originariamente tonico, ma l’accento deve essere necessariamente retrocesso sulla radice28 generando la forma lenita di terza persona /puwadi/ (pu-wa-at-ti; cui corrispondono forme con lenizione anche in licio: pude, pudẽ).

Il verbo pupala/i- del luvio geroglifico, come il già citato *tupi-, avrebbe dunque un’origine semantica legata all’atto di percuotere la pietra per iscrivere segni geroglifici. Esso appare, come si è già accennato, in due soli testi: la stele di CEKKE (CHLI II.27 §3), di ottavo secolo e d’ambiente karkemisita, e la lettera A di ASSUR (CHLI XI.1 §5), di tardo ottavo secolo e di ambiente tabalita. Nel primo testo, il verbo descrive l’atto di comporre o far comporre la stele stessa, e si riferisce quindi palesemente all’atto di iscrivere segni geroglifici su supporto lapideo. Nel secondo, invece, il verbo, con determinativo LOQUI, descrive l’atto (mancato) di scrivere o far scrivere una lettera su piombo in risposta ad altre missive inviate in precedenza29. È dunque possibile ipotizzare con un certo margine di sicurezza che il significato di pupala/i-, nonostante l’etimologia connessa al “battere, colpire” e a differenza di hatura-, che occorre solo in testi su piombo, coprisse nell’ottavo secolo un’area semantica di “scrittura” piuttosto ampia, che abbracciava sia l’azione dello scriba su metallo che quella dello scriba su pietra.

5. Conclusione

Per concludere è opportuno osservare che, da un punto di vista diacronico, è possibile tracciare uno schizzo di “storia semantica” del lessico scribale nel passaggio dall’età del Bronzo all’età del Ferro. Il vocabolo geroglifico per “scriba”, con la fine dalla civiltà ittita di secondo millennio e la nascita di quella neo-ittita di primo continua ad essere indicato con il

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medesimo logogramma geroglifico, SCRIBA(-la), la cui complementazione si conserva identica. Questo lascia supporre che sotto lo stesso segno continui a celarsi la medesima parola, forse proprio *tup(p)ala-. Non sussistono peraltro indizi chiari che facciano supporre che il termine impiegato per lo scriba geroglifico su pietra differisse in maniera sostanziale da quello impiegato per lo scriba cuneiforme. Tuttavia, l’impossibilità di distinguere foneticamente le letture dei sumerogrammi DUB.SAR e DUB.SAR.GIŠ impedisce di raggiungere una conclusione definitiva in merito alla questione. La grafia geroglifica SCRIBA(-la) viene nel primo millennio affiancata da un’oscura grafia sillabica, quella di kwananala-, che non ha precedenti in cuneiforme. Analogamente, la parziale sopravvivenza del lemma ittita ḫatrai-, che, pur scomparendo assieme alla scrittura cuneiforme, ha una non troppo remota parentela genetica con il sostantivo luvio hatura/i-, e quella del verbo ittita ḫazziya-, imparentato o identificabile con il geroglifico hazi-, si oppongono al termine nuovo, il verbo pupala/i- (nuovo rispetto all’ittita, ma imparentato con verbi lici che hanno la stessa origine e lo stesso significato), che indica la scrittura nella sua forma più generale, designando sia la composizione di lettere in piombo che l’iscrizione di steli in pietra. In sintesi, come molti altri aspetti della documentazione, quali le titolature reali, l’onomastica dei monarchi, o ancora le designazioni professionali, nel passaggio dal secondo al primo millennio a.C. anche il lessico dello scriba ittita e luvio sembra mostrare tracce di una coesistenza, o per meglio dire un’alternanza, di forme d’innovazione culturale e di tratti conservativi.

∗ Del contenuto del presente contributo è interamente responsabile l’autore; mi preme tuttavia ringraziare la prof.ssa C. Mora per i suoi preziosi suggerimenti.

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1 Per una panoramica generale si rimanda a van den Hout

2009, pp. 273ss. 2 Già H. Otten (apud Papritz 1959, si veda van den Hout

2005, p. 2776) mise in dubbio l’assunto che i depositi di tavolette di Ḫattusa fossero realmente gli archivi dell’impero ittita (si veda anche sotto al punto 3.). Similmente si discute oggi se il deposito di sigillature di Nişantepe rappresenti quanto resta di un archivio di tavolette (forse lignee, secondo Herbordt 2005, pp. 36ss.) o semplicemente un ambiente in cui venivano conservate le sigillature usate.

3 Il sostantivo sumerico dub, “tavoletta”, occorre in contesto ittita come ideogramma singolo, ma anche in composti lessicali basati sul nominativo sumerico (come DUB.SAR, “scriba”) o sul genitivo, come É.DUB.BA, “casa della tavoletta”. Per un elenco dei composti attestati si vedano Tischler, HHw., p. 244 e van den Hout 2009, p. 273s.

4 Simile origine ha il verbo ḫazziya-, per cui si veda sotto al punto 4.5.

5 Va però ricordata l’ipotesi di E. von Schuler (1957), nel commento al rigo KUB 13, 2 i 10, dove si ipotizza per il segno GUL un’interpretazione logografica, GUL-š-° e non gulš-; si veda anche la risposta critica di A. Goetze (1959, p. 69) nella recensione al volume di von Schuler.

6 Per le occorrenze si veda Puhvel, HED 3, pp. 239ss. Sulla semantica generale del verbo e sui contesti di impiego rimando a Marazzi 1994. Si confronti anche Francia 2002, p. 98, sulla forma andan guls-.

7 Si veda, innanzitutto, la discussione di Bossert (1958). Nella voce “Holztafel” in RlA (Hunger 1975) l’esistenza delle tavolette di legno ittite è data per probabile in ragione dell’esistenza del triplo logogramma DUB.SAR.GIŠ, mentre l’uso di tavolette lignee in ambito assiro è accertato dal rinvenimento dei frammenti di Nimrud. Oggi l’elenco degli indizi a favore dell’esistenza di testi scritti su legno a Hatti si è fatto più lungo, tanto in ragione di nuove acquisizioni lessicali (che saranno discusse qui di seguito) quanto per il ritrovamento di una tavoletta a dittico sul relitto di Uluburun. Sull’attività scribale su legno a Hatti si vedano più recentemente

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Marazzi 1994 (con una più dettagliata storia degli studi); id. 2000, in particolare p. 80s.

8 Il relitto di una nave di tardo XIV secolo a.C. fu rinvenuto nel 1984 a Uluburun. Sul rinvenimento della tavoletta lignea a dittico si veda Payton 1991; Warnok - Pendleton 1991; Marazzi 2000, pp. 80-815. Inoltre è opportuno menzionare una testimonianza “indiretta” di primo millennio, consistente nella possibile rappresentazione di una tavoletta lignea nel rilievo Maraş D/4, che accompagna l’iscrizione MARAŞ 9 (CHLI: IV.11).

9 Sulla designazione GIŠ.ḪUR, sul suo significato e sul suo impiego, si rimanda alla discussione in Marazzi 1994, p.p 142ss., 153. Su GIŠLE-U5, si confronti Marazzi, l.c., pp. 133ss., 140ss. Lo studioso ha dimostrato l’esistenza di una distinzione funzionale e semantica tra le due designazioni, la seconda delle quali si avvicinerebbe maggiormente agli ambiti di impiego del vocabolo sillabicamente scritto gulzattar.

10 Così Marazzi 1994, pp. 142ss., 153, fornisce un significato originariamente astratto; implicitamente anche le traduzione proposte da Starke 1990, p. 464 e Melchert 1993, s.v. vanno in questa direzione.

11 Forse non un vero composto: si vedano in proposito Boehmer - Güterbock 1987, pp. 43ss.; Hawkins 2003, p. 167; Bolatti Guzzo 2004, p. 233; Gordin 2010, p. 16225.

12 Evidentemente una carica “dirigenziale”, Herbordt 2005, p. 98s.

13 Su questi composti si vedano van den Hout 2009, p. 274 e Herbordt 2005, p. 98s.

14 L’ultima attestazione di “SCRIBA 2” occorre nella Silver Bowl di Ankara, da datarsi probabilmente a un periodo di poco più tardo della fine del regno di Suppiluliuma II (Mora 2007; Simon 2009; Giusfredi [2010] in stampa).

15 Difficile, se non impossibile, giudicare il significato del segno SCRIBA sormontato da un “talloncino” (cfr. Herbordt, l.c.; van den Hout 2009, p. 275).

16 Si veda Herbordt, l.c., con rimandi alla bibliografia precedente.

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note di lessico e di cultura “scribale” ittita e luvia

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17 Sugli stati aramaici dell’età del Ferro si rimanda a H.S.

Sader (1987). Emblematico dell’apertura di tali stati all’uso del cuneiforme è ad esempio l’impiego dell’akkadico da parte del re Kapara di Guzana (Sader 1987, pp. 11ss.). Occorre precisare, per completezza, che la penetrazione dell’akkadico negli stati aramaici è accompagnata da una “forza uguale e contraria”, laddove la lingua aramaica si diffonderà al contempo nei territori dell’impero, sino a diventare nuova lingua franca, un ruolo che continuerà a ricoprire in età achemenide e oltre.

18 Sullo awiti, animale mitologico simile al leone, si vedano Puhvel, HED 1/2, p. 246 e lo studio iconografico di J. Hazenbos (2002) sui rilievi di Imamkulu.

19 Va tuttavia osservato che l’ipotesi di un abbandono della capitale (Seeher 2001), oggi sempre più convincente, imporrebbe di rimeditare l’intero approccio che si è finora tenuto nei confronti del corpus ittita cuneiforme, rendendo nuovamente attuale la proposta di H. Otten (apud Papritz 1959, si veda van den Hout 2005, p. 2776) secondo cui le collezioni di testi rinvenuti a Boğazköy non sarebbero gli archivi completi dell’impero ittita. Per una recente discussione del problema si rimanda a van den Hout 2005.

20 I testi su piombo in geroglifico sono le cosiddette strisce di KULULU , le lettere di ASSUR e la lettera recentemente rinvenuta a KiRŞEHiR (Hawkins 1987; id., CHLI, pp. 503-513; Hawkins - Akdoğan 2009, pp. 1-11). Se risulta abbastanza comprensibile la funzione della striscia di piombo nel caso si lettere e documenti viaggianti, che venivano arrotolati durante il trasporto, è tuttora poco chiaro per quale motivo tale supporto venisse usato per archivi amministrativi come quello cui dovevano appartenere le strisce di KULULU . Con ogni probabilità, il vantaggio offerto dal piombo, che ha temperatura di fusione piuttosto bassa (327,46 °C), è la facile riciclabilità.

21 I cosiddetti frammenti di pithoi di ALTINTEPE sono cocci di ceramica su cui erano incise unità di misura urartee traslitterate però in geroglifico anatolico; si veda Hawkins, CHLI, p. 588 con letteratura precedente; sulle misure urartee in questione si veda anche Payne (M.) 2005, pp. 8-33.

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22 Sulle iscrizioni funerarie in luvio geroglifico si rimanda a

Hawkins 1980. 23 Va inoltre segnalata l’unica occorrenza (KARATEPE 4;

CHLI I.4 §2) di un sostantivo astratto SCRIBA-la-li-ia , una forma plurale dal probabile significato “sequenza di segni, testo (vel sim.)”. Esso potrebbe secondo Hawkins (CHLI, p. 70) rappresentare una formazione secondaria derivata dalla titolatura SCRIBA-la.

24 Nominato nell’anno 805 a.C. nella stele di Pazarcık dal re Adad-Nirari III (il testo è edito da V. Donbaz 1990, pp. 5-24).

25 Il verbo REL-za-, attestato in IVRIZ 1 (CHLI X.43 §4), KARATEPE 4 (CHLI I.4 §2), KARABURUN (CHLI X.18 §11), TOPADA

(X.12 §39), con l’apparente significato di “incidere, battere la pietra”, è un possibile candidato (I. Yakubovich, com. pers.; si confronti su tale verbo Payne (A.) 2010, pp. 183-186). Una connessione con il luvio cuneiforme kwannanni- “sopracciglio” (per il significato di questo vocabolo si vedano Meriggi 1957, p. 223 e Melchert 1993, p. 115) pare dal punto di vista semantico estremamente improbabile.

26 Il verbo ittita ḫazziya- non appartiene propriamente al lessico dedicato all’attività scribale, ma in alcuni casi l’oggetto “perforato” (e quindi “inciso, iscritto”) risulta essere una tavoletta (per le occorrenze si rimanda allo HW2 III: 540). Significativo citare il passo del KBo. 4, 10 Vo 22, già menzionato da Marazzi 1994, p. 140, dove l’oggetto del verbo è una tavoletta di ferro (AN.BAR-as tuppi ḫazzianun).

27 Si veda F. Giusfredi ([2010] in stampa) per una più approfondita analisi etimologica e semantica del verbo luvio pupala/i e dei verbi lici ad esso connessi.

28 Si consideri, in luvio geroglifico, il caso analogo del verbo izi(a)-, “fare”, anch’esso derivato da una radice a grado zero *híg- che porta però l’accento tonico in alcune forme (Rieken 2007, p. 273); casi analoghi sono noti in vedico, e l’esempio migliore resta la forma verbale transitiva mŕṣyate, “egli dimentica” (Kulikov 1997; cfr. anche LIV 2, p. 440s.). Per un’analisi approfondita della famiglia di vocaboli luvi derivati dal radicale ph2u- si veda Giusfredi ([2010] in stampa).

29 La proposta di Hawkins (2000, p. 538) di assegnare a pupala/i- il significato di “rispondere” a causa della presenza di

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determinativo LOQUI si adatta certamente bene al contesto della lettera A di ASSUR, ma è inaccettabile alla luce dell’occorrenza della stele di CEKKE, dove il significato “rispondere” è evidentemente errato (si veda Giusfredi [2010] in stampa, con rimandi alla letteratura precedente).

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clelia mora – matteo vigo

attività femminili a Ḫattuša la testimonianza dei testi di inventario

e degli archivi di cretulae*

Premessa

Nei testi ittiti di inventario1 e sulle impronte dei sigilli di principi, alti dignitari e funzionari ritrovate nel deposito di Nişantepe2 (Ḫattuša, città alta), il numero di nomi femminili attestati è superiore, in misura abbastanza significativa, al numero di nomi femminili presenti nei testi ittiti di carattere amministrativo risalenti all’epoca imperiale3. La percentuale di nomi femminili è di circa il 14 % nei testi di inventario, di circa il 4 % sui sigilli di Nişantepe4. Anche in considerazione di un possibile collegamento tra le due tipologie di documenti5, ci è sembrato utile approfondire l’argomento.

1. Nomi femminili nei testi di inventario

Clelia Mora ha messo in rilievo la scarsa fortuna di cui godono i cosiddetti “testi d’inventario” nella letteratura ittitologica6. Ciò è sicuramente dovuto, come osservato dalla studiosa, al fatto che essi si presentano, ad una prima lettura, come dei semplici e piuttosto aridi elenchi di oggetti, beni, nomi di funzionari e luoghi addetti alla gestione di tali beni.

La loro forma schematica crea apparentemente serie difficoltà alla loro comprensione e conseguente utilizzo.

Tuttavia i cosiddetti testi d’inventario costituiscono la

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base testuale per lo studio di precisi aspetti dell’ammi-nistrazione ittita che riguardano il complesso processo d’acqui-sizione, eventuale re-distribuzione e tesaurizzazione dei beni, e non possono pertanto essere ignorati.

Laroche ha creato una prima catalogazione di questa tipologia di documenti inserendoli tra i cosiddetti “Textes administratifs et techniques”7; dividendoli quindi in gruppi di testi sulla base degli oggetti o dei beni che elencano.

Successivamente Silvin Košak ha iniziato lo studio degli inventari riproponendo proprio la catalogazione dei testi fatta a suo tempo da Laroche (CTH 241-250)8, quindi analizzando i documenti in base ai loro contenuti, poiché ciò che era importante per l’autore consisteva nella possibilità di interpretare molti termini ittiti ancora sconosciuti che si riferivano evidentemente ai beni elencati nei diversi testi d’inventario. Ne è nato così un prodotto di sicuro valore scientifico e di grande utilità, che, consistendo sostanzialmente in un elenco aggiornato di realia, ci ha permesso, come sostiene l’autore: «a presentation of the evidence of everyday objects used by the Hittites, a discussion of doubtful words and their meanings and a index of these words.»9.

Qualche anno più tardi la studiosa ceca Jana Siegelová, realizzando diversi contributi scientifici sulla metallurgia nell’Anatolia del II millennio a.C.10, ha ripreso l’esame dei testi d’inventario, aumentandone al contempo il corpus, grazie alla scoperta di nuovi frammenti e allo studio di molti duplicati e joins, con lo scopo di comprendere però, attraverso l’esame dei singoli testi, la struttura dell’amministrazione ittita, il ruolo delle diverse istituzioni e dei funzionari coinvolti nelle procedure di re-distribuzione e tesaurizzazione dei beni11.

La divisione dei documenti in diverse categorie, operata da Siegelová, secondo una cernita dei testi innanzitutto in base al loro profilo formale12, mette in luce la funzionalità dei documenti13. È da questa divisione in categorie che, analizzando

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attività femminili a Ḫattuša

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le attestazioni dei nomi femminili presenti nei testi d’inventario (2214 su circa 160 personaggi citati)15, emergono dati interes-santi in merito alla funzione delle donne all’interno dell’ammi-nistrazione centrale ittita.

Qui di seguito si riportano le attestazioni dei nomi di donne (anche quelli parzialmente frammentari o catalettici), con esplicito riferimento ai documenti, alle forme delle attestazioni e al confronto con l’elenco delle attestazioni di ogni nome secondo Laroche16.

Nome Riferimento all’attestazione

Forme dell’attestazione

Numero di NH

(Laroche 1966)

Anni

KUB XLII 66, Vo. 8’; KUB XLII 102, 6’’

Fan-ni-i-

Fa]n-ni-i (dat.)

69

(cf. Trémouille, Onomastikon:

KuSa I/1 24, 3)

Apaddā

KUB XLII 59, Vo. 18’

Fa-pád-da-a(-)

(si vedano KBo XVI 34, Ro. 8; KBo XVIII 10, Ro. 4’)

Apatti(ti ?) KBo XVIII 199, Vo. 4’ Fa-pát-ti-ị[(-) 104

Arumura KBo XVI 83+KBo XXIII 26, col. III 10

Fa-ru-mu-ra 155

Ašpunawiya IBoT I 31, Ro. 9 Faš-pu-na-wi5-ya 177

Elwattaru KUB XLII 65, Ro. 4 Fel-wa-at-ta-r[u-uš (nom.)

---

Ḫenti

KUB XLII 51, Ro.? 1

Fḫé-en-t[i

363 (cf. Trémouille,

Onomastikon: KBo XXXII 201, bordo superiore 1; KUB LX 112, Vo. 5)

Ḫepat-IR KUB XLII 49, Ro. 9 Fḫé-pát-IR ---

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mondo anatolico e vicino oriente

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Ḫištayara KUB XLII 65, Ro. 5 Fḫi-iš-ta-ya-ra-aš (nom.) 37617

Ḫurma KBo XVIII 199, Ro. 5 Fḫur-ma (si veda KBo XXII 1, Ro.? 8)18

Yarawiya IBoT I 31, Ro. 21 Fya-ra-wi5-aš (nom.?) 432

Kik(k)i ? KBo XVIII 199, Vo. 3 Fki-ki-i[š 569.2 (cf. Trémouille,

Onomastikon: KUB LX 64, Vo. 1)

Kuwari KUB XLII 65, Ro. 3 Fku-wa-a-ri-iš ---

Malli[(-) KBo XVIII 199, Vo. 5 Fma-al-li[(-) 726

Parminza KBo XVIII 199, Ro. x+1 Fpár-mi-in-z[a ---

Pipi(-) KBo XVIII 199, Ro. 4 Fpí-pí-[(-) ---

Talya-x[ KUB XL 95, Vo. III 11 Ftal-ya-x[ 1223

Tawanti KUB XLII 65, Ro. 2 Fta-wa-an-t[i-]i⌈š⌉ (nom.) ---

Ura-x[ KBo XVIII 199, Ro. 3 Fú-ra-x[ 1431?

Wašti KUB XLII 84, Ro. 10 Fwa-aš-ti-iš (nom.) ---

Wattiya KUB XL 96+Bo 1016, col. dx. 28

Fwa-at-ti-ya-a[š (nom.)

---

Zapaten[- KBo XVIII 199, Ro. 2 Fza-pa-ti-e[n- ---

MUNUS.LUGAL (la regina)

KBo XVIII 179, Ro. II 7; KUB XLII 75, Ro. 11; IBoT I 31, Ro. 11, 13; KBo XVIII 180, Ro. 3; KUB XLII 66,

Vo. 4, 6; KBo XVIII 153(+)153a, Vo. 15; KUB XLII 48, margine inferiore;

KBo IX 91, bordo sx. 1; KUB XLII 51, Ro.? 6; KUB XLII 106, Ro.? 1, 3; KUB XLII 16, col. V 6; KBo

XVIII 175, col. VI 1; KUB XLII 38, Ro. 15

(Si riportano solo le attestazioni frammentarie):

KUB XLII 66, Vo. 4: MUNUS.LU[GAL;

KBo XVIII 175, col. VI 1: MUNUS.LU[GAL(?)]

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Dall’analisi dei documenti in esame emerge che 12 donne19 su 22 vengono citate nei cosiddetti testi d’inventario in relazione ad operazioni economico-amministrative dei beni presumibilmente legate alla fase produttiva. L’attestazione di questi personaggi si inserisce in una serie di documenti che testimoniano il probabile affidamento di materie grezze per la lavorazione20 a manovalanza specializzata femminile.

1a. Assegnazione di materiale grezzo a personaggi femminili?

Le tavolette frammentarie21 che riportano i nomi di queste donne presentano una struttura rigidamente schematica. Il Recto e il Verso di KBo XVIII 199 (+) KBo II 22 si compongono infatti di due colonne marcatamente divise da una colonna risparmiata che, come asserisce giustamente Siegelová, non deve essere interpretata come un cosiddetto Kolumnen-trenner (i.e. divisore di due testi contenutisticamente slegati, riportati in una delle facce di una stessa tavoletta), ma come semplice strumento grafico di organizzazione mentale del testo che presenta di fatto, in entrambe le colonne incise, elementi logicamente relazionabili tra loro, ma necessariamente separati22. In effetti nella colonna di sinistra si trova l’indicazione della parcella di tessuto23 seguita dal termine gaši-; nella colonna di destra il nome della donna.

Questa struttura fa pensare a documenti schematici, redatti per motivi pratici in forma di elenco, ed evidentemente sussidiari alle reali operazioni amministrative; sembra cioè possano essere copie d’archiviazione “provvisoria” (i.e. non permanente)24, e pertanto compilati nel momento del probabile affidamento di materiale grezzo per la lavorazione specializzata. Tale perlomeno sembra essere il caso di KUB XLII 65, che si presenta di fatto come una Sammeltafel, che riporta sul Verso della tavoletta il probabile inizio vacante di IBoT I 31 (Recto 1-4) e nel suo Recto, anch’esso estremamente frammentario, un elenco strutturalmente uguale a KBo XVIII 199 e KBo II 22,

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anche se privo della colonna risparmiata di divisione tra bene e probabile destinatario dello stesso.

La distanza tematica tra Recto e Verso di KUB XLII 65 lascia supporre che i dati forniti negli stessi siano da riferirsi a momenti diversi del processo di amministrazione dei beni: il Recto, infatti, elenca quantità di stoffe grezze presumibilmente date in affidamento per la lavorazione25; il Verso riporta forse l’elenco di beni di lusso, doni o tributi, spesso già provvisoria-mente registrati26 e conservati in qualche magazzino, probabil-mente in attesa di una destinazione finale27; così la registrazione delle operazioni appare temporalmente sequenziale.

La non ufficialità del documento28 sembra essere suggeri-ta anche dall’analisi prosopografica dei personaggi: dei 12 personaggi citati in due dei tre documenti frammentari (KBo XVIII 199; KUB XLII 65), la metà29 non compare in nessun altro documento della cancelleria ittita e i rimanenti sei nomi identificano personaggi che quasi certamente non hanno nulla a che fare con gli omonimi attestati nei documenti segnalati da Laroche30 ed aggiornati nella tabella sopra riportata31.

Per capire meglio il ruolo svolto da questi personaggi femminili, è necessario cercare di definire la natura dei docu-menti frammentari presi in esame.

Già Siegelová, nella sua ri-edizione dei testi, aveva mo-strato, a differenza di Košak32, alcune perplessità, evidente-mente motivate dalla natura così schematica e frammentaria dei frustuli33.

Ad una prima analisi, la continua menzione di sicli di lana (Wollposten?) bianca (BABBAR)34 lascia supporre che i testi facciano in qualche modo riferimento a materiale grezzo, e di conseguenza forse ad una prima fase di lavorazione dello stesso35.

Tuttavia la soluzione interpretativa passa attraverso la definizione del termine gaši-, che nei testi in esame compare nei nessi SÍG + ga-ši36; SÍG BABBAR + ga-ši37; SÍG BABBAR +

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ga-ši-iš38. In questo contesto è fondamentale ricordare che in almeno un caso compare il nesso SÍG BABBAR + a-ša-ra39.

A tal proposito Siegelová ha osservato che i termini gaši- e ašara- non possono indicare colori, poiché compaiono espressamente legati al termine BABBAR (bianco) e pertanto la distinzione che intercorre tra i termini non deve riferirsi ad una differenziazione cromatica40.

Il termine ašara-, seguendo la logica delle sue attestazioni41, definisce la qualità di lana (SÍG) da lavorare (ḫu(i)ttiya- “tirare”, ḫamank- “annodare”, tuḫs- “tagliare”)42. Il tessuto (SÍG)ašara- viene anche utilizzato in diversi rituali per allontanare/isolare gli elementi patogeni dal paziente43.

Più complessa rimane l’interpretazione del termine gaši-. L’analisi delle attestazioni di gaši-, già operata da

Siegelová, appare esaustiva. L’analoga forma kāši-, attestata al nominativo singolare (ka-a-ši-iš) nel cosiddetto rituale di Pupuwanni44 insieme al colore rosso (nom. sing. mi-ti-iš)45 e probabilmente indicante una tonalità del colore bianco (ḫarki-)46, non ci aiuta nell’interpretazione del termine, anche perché in una lettera frammentaria si ritrova ancora il termine gaši-47, in questo caso all’accusativo singolare (ga-ši-in), però provvisto di segno di glossa, all’interno di una espressione piuttosto enigmatica48. Ancora una volta il termine chiave delle liste qui discusse si trova nel documento appena citato accanto ad un termine indicante probabilmente un colore (qui il blu)49; tuttavia la presenza del segno di glossa anche dinanzi ad antari- impone cautela.

Inoltre, il fatto che il termine gaši- sia attestato in KBo XVIII 199+KBo II 22 sempre nella forma gaši- e in KUB XLII 65, Ro. sempre nella forma gašiš, complica ulteriormente ogni tentativo interpretativo, mancando poi nella maggior parte delle attestazioni50 la quantità esatta di sicli (perché in rasura), che ci aiuterebbe ad interpretare almeno le ricorrenti forme gaši- come sostantivi neutri collettivi (nominativi plurali)51.

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È probabile, tuttavia, che il termine in questione non sia da tradurre “razione” così come proposto da Košak52 sulla base del confronto con il verbo ittita kašiške-53.

Sebbene dunque l’interpretazione del termine chiave gaši- rimanga problematica, è tuttavia possibile pensare che i documenti frammentari presi in esame elenchino personale palatino (specializzato), femminile, al quale vengono assegnate forse materie grezze per la lavorazione54, o altrimenti un elenco di destinatarie di materiale tessile, a titolo di assegnazione personale55.

Nel primo caso saremmo quindi verosimilmente dinanzi ad un primo passaggio del coinvolgimento di personale femminile nelle attività economico-amministrative del Palazzo.

1b. Affidamento personale di partite di lana colorata ad

un personaggio femminile

Una tale Ann(i?) viene citata in due differenti documenti inclusi nei cosiddetti testi d’inventario.

Entrambi i documenti in esame (KUB XLII 66 e KUB XLII 102) sono stati catalogati da Siegelová nella categoria degli Inventurprotokolle56, cioè gli inventari di quei beni che erano già conservati presso magazzini palatini, centri ed istituzioni templari.

All’interno di questa categoria Siegelová distingue due tipi di protocolli: quelli redatti in occasione di ispezioni sistematiche e abituali da parte di funzionari che ne avevano la specifica responsabilità, e quelli invece compilati per motivi contingenti quali furti o smarrimento di beni. Secondo Siegelová i due gruppi si differenziano dal punto di vista formale perché nel primo caso si tratta di grosse tavolette a tre colonne; nel secondo invece di tavolette ad una o massimo due colonne57.

In KUB XLII 66, che rientra nella tradizionale catalo-gazione degli inventari di tessuti e stoffe (CTH 243), vengono

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indicate diverse partite di lana colorata (blu, ve[rde?]58, rossa), non registrate su una tavola di legno59. Poco oltre, in contesto frammentario60, si fa riferimento al quantitativo totale (peso?)61 delle partite di lana, registrato sotto la supervisione della regina, attraverso apposizione di sigillatura62. La regina viene citata ancora, come parte attiva del controllo della merce, in contesto lacunoso, in relazione a una città il cui nome è purtroppo in lacuna63. Poco dopo si dice che queste partite di lana grezza64 sono state portate via da Ann(i?)65. Dal contesto frammentario non si riesce a capire quale sia la destinazione finale di queste partite di lana, sebbene nelle righe seguenti si faccia riferimento a ingenti quantitativi di lana probabilmente bobinata (viz. “rocchettata”)66 su filatoi ad anelli67.

Il testo, oltre a contenere preziose, ancorché sparute informazioni circa l’industria tessile ittita, fornisce alcuni importanti dati circa il coinvolgimento di donne nelle attività (economico)-amministrative di Ḫattuša.

La tavoletta, compilata su una sola colonna, può essere interpretata come un riassuntivo delle varie operazioni che coinvolgono le donne genericamente legate all’attività tessile. I divisori di riga ci orientano in questo senso.

Il documento è da intendersi completo, cioè riporta tutte le operazioni che lo scriba, probabilmente accompagnato dalla regina in un controllo autoptico, ha registrato durante l’iter di registrazione, lavorazione ed immagazzinamento di beni della corona:

1) Un certo quantitativo di lana non è stato registrato sulla tavola di legno provvisoria che doveva accompa-gnare la merce depositata in qualche magazzino, a guisa di “etichetta” apposta su/accanto ai contenitori68. Questo è il dato più significativo che la cancelleria ittita ha ritenuto di dover registrare, ed è anche il motivo ultimo della redazione della tavoletta stessa69.

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2) Il quantitativo totale (stimato) della merce è stato sigillato dalla regina. 3) La regina ha forse supervisionato l’arrivo della merce da un thesauròs provinciale togliendo la ricevuta (lalami-) compilata da un amministratore locale (LÚ AGRIG) e apponendovi ai contenitori controllati la propria sigillatura70. 4) Tutte queste(!) partite di lana grezza(?) sono state affidate ad Ann(i?). 5) Le partite di lana (successivamente) bobinata, forse proprio quelle precedentemente grezze date in affidamento (lit. portate via) ad/(da) Ann(i?), sono conservate in alcuni magazzini. Tali magazzini sono probabilmente da identificare con alcuni vani del Tempio I di Ḫattuša71.

Nell’analogo Inventurprotokoll KUB XLII 102 una Anni

riceve in affidamento verosimilmente delle partite di lana colorata72. Nella parte sinistra (in rasura) della tavoletta dovevano essere elencati altri personaggi, affidatari di materiale tessile da lavorare. Nelle ultime righe di ciò che rimane della tavoletta vengono citate dieci mine di lana bobinata contenente ancora delle impurità73. Siamo quindi forse dinanzi alla fase appena precedente alla follatura della lana74.

1c. Doni da parte di personale femminile alla regina

Vi sono poi donne che si occupano dell’amministrazione dei beni che afferiscono a Ḫattuša, ma le cui mansioni non sono definibili con certezza.

È il caso di Ašpunawiya, la quale compare in IBoT I 3175, un testo d’inventario che riassume le operazioni presumi-

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bilmente effettuate all’interno di quei magazzini poco sopra citati. Oltre a offrirci preziose informazioni circa i beni di lusso veicolati nel Vicino Oriente antico, sia in forma di tributo, che come dono, questa tavoletta d’argilla descrive come venivano controllati i contenitori di varia foggia, confrontandoli evidentemente con gli elenchi ordinati di beni (GIŠ.ḪURḪI.A) e le ricevute (lalameš) di trasporto apposte ai contenitori76.

Il Ro. 13-15 recita: «Il quantitativo di tessuti è riportato sul GIŠ. ḪUR. Così la regina (dice): “Quando (lo) deporrò nella casa del sigillo, allora (essi) lo riporteranno su di una tavoletta (d’argilla)”». È probabile che l’inciso, introdotto dallo scriba con il discorso diretto, faccia effettivamente riferimento a ciò che la regina sta dicendo nel momento in cui lo scrivente l’accompagna nel controllo della merce e che quindi la tavoletta d’argilla a cui si fa riferimento non sia quella a noi pervenuta, ma una tavoletta “finale” (i.e. un vero e proprio inventario), di cui ci sono pervenute in realtà pochissime copie che riportano nel colofone l’indicazione precisa dell’appartenenza a questa tipologia di documenti77.

La menzione di beni depositati nella “casa del sigillo” (ÉNA4KIŠIB), che potremmo genericamente interpretare come un “tesoro”78, cioè presumibilmente nella loro sede finale79, lascia supporre che il dono (SUM)80 consistente in una gonna blu (TÚGkaluppa-)81 e in un copricapo, generalmente fissato con un diadema (TÚGlupanni-)82, non sia destinato ad Ašpunawiya, ma al contrario, donato dalla stessa donna alla regina. Indipendentemente da come si interpreta il passo è chiaro che la donna alla quale si fa riferimento è un personaggio quantomeno importante.

Similmente si può dire di Yarawiya, citata nel medesimo documento (Ro. 21) come probabile donatrice di un piccolo contenitore rosso che custodisce al suo interno un completo83 (di vesti).

Anche il coinvolgimento di Ḫepat-IR nell’amministra-

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zione dei beni della corona non è chiaro. Il nome di questa donna compare in un piccolo testo di una sola colonna84, all’interno del quale vengono menzionati diversi abiti, perlopiù tendenzialmente maschili85. Sebbene Siegelová abbia inserito questo documento nella categoria dei Persönliche Zuweisun-gen86, non è da escludere che il testo elenchi beni donati da diverse donne, così come già visto per IBoT I 3187.

1d. Affidamento di vestiario di culto a personale femminile

È sicuramente più chiara la funzione di una tale Ḫenti, attestata in contesto estremamente frammentario88, all’interno di una tavoletta in cui vengono citati, salvo omonimie, personaggi di spicco della corte di Ḫattušili III, come (il principe) Ewri-Šarruma89; il (principe) Nerikkaili90; un erede al trono91, dietro cui si può forse vedere il nome del futuro re Tudḫaliya (IV); la regina92, forse Puduḫepa, la moglie di Ḫattušili III93.

Non ci è dato di sapere chi sia realmente questa Ḫenti, ma possiamo sostenere con ragionevole certezza che sia da differenziare dall’omonima donna citata negli altri testi riportati in tabella94. Anche questo testo è stato inserito da Siegelová nella categoria Persönliche Zuweisungen95, tuttavia in ragione degli indumenti cerimoniali elencati possiamo cautamente proporre si tratti di un inventario di oggetti di culto, da indossare durante particolari funzioni liturgiche.

La tavoletta KUB XLII 59, è composta di un’unica colonna con omogenei divisori di riga all’interno dei quali vengono descritti set di abiti, vesti e accessori per singole persone forse utilizzabili per scopi cerimoniali96. Siegelová ha infatti inserito il testo nella categoria di testi che descrivono l’assegnazione di oggetti per utilizzo personale (Zuweisungen für den persönlichen Gebrauch)97. Che si tratti di un vero e proprio inventario di vestiario assegnato ad personam nel corso di cerimonie cultuali, ci viene suggerito dalla presenza di

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determinativi femminili (in rasura) alla fine di quasi tutte le righe de Recto.

L’unico nome conservato è quello di una certa Apaddā98.

Non appare casuale che un omonimo personaggio venga citato in una lettera, inviata da un funzionario provinciale a Ḫattuša, attraverso la quale si invita a prelevare con urgenza la figlia di Apaddā99 dalla città di Aššuḫa, colpita dalla peste. Data la richiesta particolare si può immaginare che l’Appaddā citata nella lettera frammentaria sia un personaggio altolocato, legato alla corte di Ḫattuša. Non si può quindi escludere del tutto che si tratti dell’omonima donna citata nel testo d’inventario in questione.

1e. Personale femminile incaricato della tesaurizzazione

di beni della corona?

Alcune categorie di beni, come sappiamo proprio dai testi d’inventario, venivano re-distribuiti alla comunità che provvedeva a mantenere a regime la macchina economica dello “Stato ittita”. Siegelová ha raccolto tutti i testi che a suo parere avevano a che fare con procedure re-distributive sotto la nomenclatura di Ausgaben.

La scelta della studiosa ceca, come analiticamente dimostrato dalla stessa100, si basa sul fatto che questi testi, pur rientrando nella generale categoria di Laroche dei “metalli, utensili ed armi” (CTH 242), presentano delle caratteristiche peculiari che ne accomunano alcuni e differenziano altri101.

L’aspetto formale è poco utile, trattandosi spesso di tavolette troppo frammentarie per ricostruirne le dimensioni, a parte rare eccezioni, per le quali comunque si è profilato un panorama eterogeneo: tavolette a due colonne, ma anche tavolette a una colonna. Di quei testi che sembrano avere le stesse caratteristiche si riportano quasi sempre in successione l’indicazione del materiale, di una comunità locale, nome di un funzionario di rilievo della corte ittita e il verbo ĪDE.

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Nell’affrontare lo studio dei documenti, Košak ha espresso le sue perplessità in merito alla loro contestualiz-zazione nel sistema amministrativo102. Qualche anno prima, tuttavia, lo studioso aveva tentativamente proposto in un lavoro congiunto con Kempinski103 di pensare a tali documenti come memoranda di beni consegnati da diversi gruppi di persone o comunità locali e collegiali alle autorità palatine, mettendo in dubbio la possibilità che si trattasse di beni in re-distribuzione104.

Nella sua pubblicazione dei testi Siegelová parla invece appunto di “Bereich der Redistribution”105. In effetti i testi in questione presentano difficoltà interpretative, ma nello stesso tempo ci forniscono utili indizi. Innanzitutto non viene mai indicato il destinatario o il mittente dei beni, né attraverso l’uso di una preposizione, né attraverso un verbo. La lista di comunità elencate nella maggior parte dei documenti in esame trova confronto con quelle di zone gestite da amministratori provinciali (LÚ.MEŠ AGRIG)106. La forma verbale accadica ĪDE, letteralmente “(egli) sa”, la cui interpretazione può essere un elemento decisivo nella comprensione dei testi, significa probabilmente, in questi contesti “egli ha controllato/ne è testimone”107 o anche “ha sigillato”108.

Ciò dà a intendere che il funzionario citato prima di tale espressione è garante della re-distribuzione o della ricezione dei beni citati. Un dato sembra certo: i beni, sebbene siano in stretta relazione con le comunità indicate nei testi, difficilmente possono essere materiali re-distribuiti a collettività di persone, poiché la quantità citata è scarsa, diremmo quasi da assegnazione personale. Anche gli oggetti stessi, seppur in prevalenza metalli in forma grezza o forgiati in armi e altri utensili, presentano in taluni casi caratteristiche che ne fanno degli oggetti estremamente rari, sia nelle attestazioni scritte, sia dal punto di vista archeologico109.

In ultima analisi non mancano casi in cui si esplicita che

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un oggetto o un gruppo di oggetti sono stati materialmente consegnati da comunità ad una singola persona110.

Il dato più importante che emerge dallo spoglio dei testi è la presenza dei più alti funzionari o personalità della corte ittita nel processo di controllo dei beni111.

Proprio in uno di questi documenti, in contesto fram-mentario, viene citata una certa Arumura, “Grande vecchia”112 del sacrificio (i.e. esorcista), nella stessa colonna in cui vengono citati personaggi appartenenti alle più alte sfere della corte ittita della seconda metà del XIII secolo a.C., tali Piḫa-Tarḫunta113, Šipaziti114, Karakura115, Tarḫuntapiya116, Alalimi117. Lo stesso personaggio compare verosimilmente in qualità di esorcista tra le donne che si occupano di interpretare un sogno della regina118. Ancor più importante è la menzione di un omonimo personaggio tra i beneficiari delle concessioni di terre e beni dati da Tudḫaliya IV ai discendenti della figlia di Šaḫurunuwa, Tarḫuntamanawa119.

Come emerso da una ricerca di Mascheroni120, lo studio prosopografico dei personaggi citati negli Ausgaben non solo ci permette di datare il testo in un lasso di tempo compreso tra la fine del regno di Ḫattušili III e il regno del suo successore Tudḫaliya IV121, ma sottolinea la presenza degli stessi attori anche nei processi per malversazione del periodo122.

Mascheroni ha già fatto notare come il controllo dei beni da parte di alti funzionari dell’amministrazione ittita dovrebbe scongiurare l’insorgere di forme di peculato123.

Tra le donne che compaiono nei cosiddetti Ausgaben vi è una Talya(-x?)124, la quale forse si occupa della supervisione nelle fasi di acquisizione di metalli grezzi, come il rame, in forma di tributo, e di armi, inviati dalla comunità della città di Māša e dalla comunità parwala, sotto la supervisione di personaggi di spicco della corte di Ḫattušili III, quali Zuzu(li?)125, Piḫa-Tarḫunta e Taki-Šarruma126.

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Non deve essere meno importante Wattiya, citata in un altro Ausgabe accanto ai nomi di personaggi molto influenti della fase finale dell’Impero ittita come il grande “Capo degli scribi” Walwaziti127, Tuttu, il “responsabile del deposito/magazzino” (EN É ABŪSSI)128 e il principe Eḫli-Šarruma129, tutti garanti del controllo (ĪDE) di beni, verosimilmente in entrata.

Il personaggio femminile sicuramente più importante attestato nei cosiddetti inventari è Wašti130. Questo nome ricorre in una tavoletta di controllo che Siegelová ha giustamente inserito nella categoria degli Inventurprotokolle131. In essa vengono elencati beni di lusso, oggetti molto preziosi. Ogni elenco completo viene marcato da un divisore di riga e si chiude con l’indicazione “NP ha preso” (NP dāš). Cosa realmente significhi questa espressione non ci è dato di definirlo con certezza. Tuttavia la presenza di un altro personaggio di spicco dell’Impero ittita durante l’ultima fase del XIII secolo a.C., tale Talmi-Teššub(?)132, vicerè di Karkemiš, il fatto che si tratti di un Inventurprotokoll di verifica di beni smarriti o sottratti, stilato appunto su una tavola di una sola colonna per lato, che in esso si fa menzione, in almeno un caso, di beni depositati nella “casa del sigillo”133, ma anche di altri parzialmente sottratti134, di alcune vesti portate a Ugarit135 e di altre a Ḫattuša136, ci lascia supporre che anche Wašti abbia fisicamente sottratto beni della corona, che sono stati puntualmente annotati in una di quelle tavolette di controllo amministrativo che siamo soliti definire, impropriamente, inventari.

Per la presenza del nome Wašti sul sigillo cilindrico A 57 proveniente da Emar, insieme a quello del principe Piḫa-

Tarḫunta, sovente citato come garante delle operazioni ammi-nistrative descritte negli Ausgaben, si rimanda ai §§ 2b-3.

Il nome della donna più importante all’interno della corte ittita, la regina (MUNUS.LUGAL), compare in diversi testi d’inventario, con un ruolo centrale nell’amministrazione dei beni della corona.

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La regina viene citata insieme al re (LUGAL) all’interno di un documento in cui vengono (ri-)controllati137 diversi tessuti preziosi, tesaurizzati forse al momento dell’intronizzazione della coppia regale138.

La regina compare nuovamente come destinataria139 di gioielli e pietre preziose in un altro documento che Siegelová ha catalogato tra gli Inventurprotokolle140.

La moglie del sovrano sembra essere la responsabile diretta, nonché il super-visore di tutte le operazioni di immagazzinamento dei beni della corona, come abbiamo visto attraverso gli esempi precedenti relativi alle altre donne coinvolte nelle attività di palazzo (IBoT I 31, Ro. 11, 13; KUB XLII 66, Vo. 4’, 6’; KUB XLII 51, Ro.?6).

In KBo XVIII 180, Ro. 3 viene addirittura riportato il discorso diretto della regina la quale, seppur in contesto fram-mentario, sembra ordinare che nessuno mai apra i contenitori registrati in questo inventario141.

Nel margine inferiore di una tavoletta frammentaria viene specificatamente indicato che ingenti quantità di lana, in forma di dono, sono destinate al Palazzo della Regina142. Siegelová ha infatti catalogato questo documento nella categoria dei doni (IGI.DU8A) “in entrata”143.

A parte l’evidente differenza di quantità tra tributi (MANDATTU) e doni, rilevabile dal confronto tra i testi d’inventario, dai quali emerge in sostanza che i tributi sono molto più cospicui, Siegelová, diversamente da Košak144, fa notare una più interessante differenzazione nell’utilizzo dei beni incamerati all’interno delle strutture amministrative: mentre i tributi sembrano essere destinati alla re-distribuzione, i doni vengono invece assegnati a centri di culto e conservati come fondo di riserva a cui attingere in momenti particolari o in occasione della celebrazioni di feste145. Va suggerito in proposito, come ricorda de Martino146, che nei documenti ittiti è attestata una ÉIGI.DU8.A (“casa del dono”), ma esistono inoltre

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svariate tavolette in cui si fa menzione di offerte presentate in occasione di feste dai LÚMEŠ IGI.DU8.A

147. Nella spalla sinistra di una tavoletta composta di un’unica

colonna viene annotato che alcuni beni (forse partite di lino), in forma di tributo, vengono consegnati dalla regina presumibil-mente ad alcuni funzionari di stanza a Nerik, in occasione di una particolare festività148.

All’interno di un testo d’inventario che Siegelová ha inserito nella categoria dei Textilien aus persönlichen Besitz149 si fa riferimento a tessuti pregiati, come le tovaglie di lino del tavolo della regina150, dati in affidamento ai nocchieri della regina151. Gli stessi funzionari compaiono anche nel Gerichtsprotokoll KUB XIII 35+ insieme agli scudieri d’oro e agli imputanti del processo per malversazione (Ukkura, Ura-Tarḫunta), tutti costretti a giurare dinanzi al tempio della dea Lelwani prima dell’inizio del processo152.

In uno complesso quanto articolato testo di inventario viene menzionata la regina in un passo di difficile interpretazione.

Una prima parte del testo (KBo XVIII 153, Ro. 1-23) riporta l’operazione di controllo di materiale da prelevare da un magazzino, probabilmente confrontando ciò che è racchiuso nei contenitori/sacchi con le ricevute poste accanto o all’interno dei contenitori stessi. Di questa operazione sono responsabili, tra i diversi funzionari, Pallā e Zuzul(l)i. La seconda parte del documento153 annota l’affidamento154 ad alcuni alti dignitari di corte (Kaššu, Eḫli-Kušuḫ, Walwaziti, Pupuli) di quantità di argento da trasformare in oggetti cultuali, probabilmente alla presenza della regina e di un sacerdote155.

Košak ha fatto notare alcune anomalie nel processo di transazione del materiale dal magazzino alle mani dei funzionari156.

In effetti alla fine del testo si dice che tre mine d’argento vengono prese separatamente e il Capo degli scribi (Walwaziti) e Pupuli le “ottengono in affidamento”157.

Anche se restano ancora oscuri i meccanismi di tesauriz-

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zazione dei beni della corona durante l’ultima fase del XIII secolo a.C. e il coinvolgimento dei più importanti dignitari di corte in essi, comprese diverse donne, la costante presenza della regina in ogni singolo passaggio delle attività di raccolta, immagazzinamento, censimento e tesaurizzazione di beni, certificata dall’apposizione del proprio sigillo soprattutto sui contenitori, e forse anche sulle tavolette lignee provvisorie158, ci dice molto sull’importanza del ruolo delle donne nelle attività amministrative in Ḫattuša159.

2. Nomi femminili nell’archivio di cretulae di Nişantepe

Nell’archivio di cretulae di Nişantepe, oltre ai nomi delle regine, spesso accostati sullo stesso sigillo ai nomi del re160, sono documentati numerosi nomi femminili161. Questi nomi appartengono a 12 (o 13?162) persone e sono distribuiti su circa 25 sigilli e una cinquantina di impronte su altrettante cretulae. Dai titoli presenti accanto ai nomi si ricava l’indicazione che almeno 7 dei 12 nomi appartengono a persone altolocate, collegate alla famiglia reale: a 2 nomi è infatti accostato il titolo REX.FEMINA, indicante probabilmente, come sottolinea Herbordt163, una «Nebenfrau des Königs»; 5 nomi sono accompagnati dal titolo REX.FILIA, titolo attribuito alle principesse. Il terzo e ultimo titolo che si trova su questi sigilli è il semplice determinativo164 FEMINA (sempre associato a BONUS2, tranne in un caso), indicante appunto il genere della persona intestataria del sigillo. Anche per i personaggi recanti i 6 nomi accompagnati da questo titolo, tuttavia, è lecito ipotizzare una posizione piuttosto elevata nell’ambito della società ittita, per diversi motivi: prima di tutto il fatto stesso di possedere un sigillo; in secondo luogo la presenza di nomi di persone note da altre fonti come appartenenti alle famiglie più prestigiose: si veda, ad esempio, il caso di Tarḫuntamana(wa), intestataria del sigillo 414, probabilmente da identificare con la figlia di Šaḫurunuwa165; in un caso, inoltre, il “titolo” FEMINA

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sembra associato al titolo SCRIBA: si tratterebbe del primo esempio attestato su sigillo166.

Nella tabella seguente si riportano i dati essenziali relativi ai nomi femminili di Nişantepe e ai loro sigilli, rimandando all’edizione di Herbordt (e ai Commentaries di J.D. Hawkins) per ulteriori dettagli.

Nome Titolo Sigilli167 Tipologia dei sigilli Note

Ḫatiya

REX.FEMINA

116-118 (una cret. per sigillo)

sigilli a impronta circolare

Muwati/Muwatti

REX.FEMINA

260-268 (28 cret. in totale; il n. 264 è ri-prodotto

su 10 cretulae)

sigilli a impronta circolare

tranne il n. 267, a

cilindro (v. Herbordt)

Per le dimensioni molto ridotte, l’impronta di 267 potrebbe appartenere ad un sigillo ad anello di forma anomala. Cf. NH 838

Ašmuḫepa

REX.FILIA

11 (una cret.)

sigillo a impronta circolare

(Ku-AVIS-pi-tá-na)

Kupapitana?

REX.FILIA

165 (su 2

cret.)

sigillo a impronta circolare

Cf. Boehmer – Güterbock 1987, Nr. 178 per un possibile confronto (Ku-AVIS, BONUS2.FEMINA)

Tiwatawizi (SOL-wa/i-zi/a)

REX.FILIA

464 (una cret.)

sigillo a impronta circolare

DOMINA.OCULUS ?

REX.FILIA

631 (una cret.)

sigillo a impronta circolare

Il nome femminile è associato ad un nome maschile (MAGNUS.TONITRUS): cf. Mora 1987, VIa 3.5 per un interessante parallelo (nomi sulle due facce di un sigillo)

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2a Osservazioni e commento: le persone

Come già anticipato, i titoli, il confronto con altre attestazioni, la tipologia dei sigilli, indicano che la maggior parte di queste persone appartenevano alla famiglia reale o al suo entourage ed erano attive nella seconda metà del XIII secolo a.C. Nel caso di Muwatti REX.FILIA si è parlato della possibilità che si tratti della figlia del re Šuppiluliuma I (cf. NH 838)168, ma, come sottolinea la stessa Herbordt169, la tipologia dei sigilli, sicuramente tardi, non supporta questa identifi-cazione e questa datazione.

Muwati/Muwatti

REX.FILIA

269 (una

cret.), 270 (5 cret.)

269: sigillo a impronta circolare;

270: sigillo ad anello

cf. NH 838; cf. anche Herbordt 2005, 161 (Nr. 271), sigillo ad anello a nome Muwatti(?), ma senza titolo

Ḫwiya

BONUS2.FEMINA

132 (una cret.)

sigillo a impronta circolare

Lara

BONUS2.SCRIBA

FEMINA?

203 (una cret.)

sigillo a impronta circolare

Maniya

FEMINA

231 (una cret.)

sigillo a impronta circolare

Cf. NH 745

Tarḫuntamana(wa?)

BONUS2.FEMINA

414 (2 cret.)

sigillo a impronta circolare

Cf. NH 1259

Wa/i-šu-á

BONUS2.FEMINA

517 (una cret.)

sigillo a impronta circolare

Wiyani (VITIS-ni)

BONUS2.FEMINA

519 (una cret.)

520 (una cret.)

sigilli a impronta circolare

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Iniziamo dunque da Muwatti un tentativo di analisi prosopografica di alcuni nomi. Muwatti è il personaggio più interessante tra i due con il titolo REX.FEMINA170. Non è possibile accertare, in base ai dati disponibili, se Muwatti con il titolo REX.FEMINA è la stessa persona che in altri sigilli ha il titolo REX.FILIA171. Il rango elevato di Muwatti REX.FEMINA è sottolineato, a nostro parere, anche dalla presenza dell’aquila bicipite172 su quattro sigilli (263, 265, 266, 268); si vedano poi i sigilli 267 e 270, a cilindro(?) il primo, ad anello il secondo, che presentano scene di culto confrontabili con scene rappresentate su sigilli di area siriana di tardo XIII secolo a.C.173. Sul sigillo 267 è rappresentata anche la dea Šaušga, di cui si riporta il nome in geroglifici anatolici. Le analogie con i sigilli di area nord-siriana che accomunano i due sigilli potrebbero rappresentare un indizio a favore dell’identità delle “signore” a cui i sigilli sono intestati174. Sorge quindi il dubbio che ci possa essere un legame tra i due titoli, ma per ora si tratta di un problema di difficile soluzione.

Un altro nome interessante presente su questi sigilli, come già sottolineato, è Tarḫuntamana(wa?), da identificare quasi certamente con la figlia di Šaḫurunuwa, personaggio di alto livello imparentato con la famiglia reale175. Questa identificazione potrebbe rappresentare ulteriore conferma del fatto che il titolo (BONUS2)FEMINA era utilizzato da persone di una certa importanza.

A proposito del sigillo di Kubaba-pitana (o Kupapitana?) occorre osservare che sigilli con il nome della dea sono attestati, in genere, a partire dall’epoca post-ittita176, ma al contempo sarebbe difficile proporre una lettura diversa per questo nome.

Infine, un cenno al nome che compare sul sigillo 631, accompagnato dal titolo REX.FILIA. Come già ricordato sia da Herbordt che da Hawkins177, sono molte le analogie con un sigillo da collezione privata178 sul quale un nome femminile è abbinato a quello, sulla faccia opposta del sigillo, del principe

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MAGNUS.TONITRUS-tá. Per questo nome maschile si possono confrontare diversi sigilli a Nişantepe (nn. 625-630, in cinque casi su sei con titolo SCRIBA).

2b Sigilli e cretulae

La maggior parte delle cretulae che abbiamo elencato (una cinquantina in totale, come si è detto) sono state utilizzate come supporto per i sigilli di Muwatti, che evidentemente svolgeva un ruolo importante nelle attività connesse con l’archivio di Nişantepe (si veda la tabella alle pagine precedenti). Nessuna delle cretulae con nomi femminili reca sigillature multiple: non si trovano cioè sui supporti di questi sigilli le impronte di altri sigilli179. Questo dato potrebbe indicare che l’intervento femminile nelle procedure di sigillatura avveniva soltanto nell’ultima fase delle procedure, quando cioè il controllo spettava ad un unico supervisore? Si tratterebbe di un’ipotesi molto interessante, ma per ora non disponiamo di elementi sufficienti per la sua verifica180. Si è già sottolineata l’importanza di due sigilli, ad anello e a cilindro(?), intestati a Muwatti; per quanto riguarda la forma dei sigilli originali utilizzati invece per le impronte circolari, si possono solo avanzare ipotesi, anche in relazione alle informazioni sulla convessità o meno (cioè se l’impronta è più o meno concava). Probabilmente si trattava, nella maggior parte dei casi, di sigilli del tipo biconvesso.

Un’ultima osservazione, infine, su un personaggio e su un sigillo non attestati a Nişantepe, ma che potrebbero in una certa misura essere collegati alla ricerca in corso. Si tratta del sigillo a cilindro A 75 di Emar181, che reca i nomi del principe Piḫa-Tarḫunta e di Wašti, BONUS2.FEMINA. L’interesse di questo documento nasce dal fatto che un principe Piḫa-Tarḫunta è attestato anche a Nişantepe (sigillo 307)182, mentre una “signora” Wašti è citata in un testo di inventario183, come

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proprietaria(?)184 di gioielli e stoffe pregiate. La combinazione dei due nomi sul sigillo da Emar propone un ulteriore elemento di contatto tra le due tipologie di documenti per cui si rimanda al paragrafo successivo.

3. Osservazioni conclusive

Le due tabelle presentate nei paragrafi precedenti rendono immediatamente evidente la differenza di ruolo e di status tra le persone citate nei due complessi documentari: persone il cui ruolo è indicato per lo più soltanto con il determinativo femminile nel caso degli inventari, persone di rango elevato o comunque dotate di un preciso ruolo nella società, come indica probabilmente il semplice titolo BONUS2.FEMINA, nel caso dei sigilli. Va aggiunto che anche il possesso del sigillo era certamente un indicatore di status elevato, o in ogni caso di buona posizione economica. Tuttavia, riteniamo che non sia pura coincidenza il fatto che sia presente in entrambi i repertori un numero rilevante di nomi femminili. Abbiamo già sottolineato in studi precedenti la possibilità di un collegamento tra i due tipi di attività documentati dalle fonti qui esaminate185.

La maggior parte dei cosiddetti “testi d’inventario”, per esempio, non sembrano essere documenti amministrativi in senso stretto; non sono cioè testi ricapitolativi di elenchi provvisori, ma piuttosto documenti di controllo dell’attività amministrativa in generale, perché non riportano solo le liste dei beni incamerati, descrivono invece ogni singola attività: chi, come e quando si occupa dell’amministrazione.

In ragione della loro funzione i testi d’inventario sono stati spesso accostati ai protocolli giudiziari. I primi registrano la corretta amministrazione dei beni dello “Stato”, i secondi provano invece la scorretta attività di alcuni funzionari addetti a queste mansioni186. Le testimonianze sfragistiche degli archivi

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di cretulae della città alta di Ḫattuša ci forniscono poi maggiori informazioni sullo status sociale di questi amministratori.

I dati qui raccolti e commentati potrebbero essere letti in modo conforme: se si interpretano infatti i testi di inventario (o almeno una parte di essi) come descrizione e registrazione di procedure di controllo delle varie fasi di acquisizione e assegnazione di beni, e gli archivi di cretulae come testimonianza dei controlli effettuati sugli stessi beni187, anche le due categorie di donne coinvolte trovano una spiegazione e ci forniscono inoltre un panorama sociale piramidale piuttosto omogeneo: produttrici dirette di beni, come le tessitrici; collaboratrici più o meno legate alla corte di Ḫatti che aiutano la regina e gli altri amministratori o che ricevono prodotti tradizionalmente lavorati da donne; persone di alto grado (o per filiazione o per matrimonio) che gestiscono/collaborano alla gestione dei beni dello stato (o della famiglia?).

Dall’analisi delle attestazioni di nomi femminili all’interno dei testi d’inventario emerge che la maggior parte delle donne ricoprono cariche di livello intermedio all’interno della corte ittita, poiché, a parte coloro che presumibilmente sono legate alla fase produttiva, ritroviamo donne come Ašpunawiya, Yarawiya e Ḫepat-IR che donano direttamente beni di lusso alla regina; altre come Ḫenti e Apaddā alle quali vengono assegnati forse set di abiti da utilizzare durante cerimonie cultuali; altre ancora come Arumura e Talya(-x?) che affiancano personaggi maschili di assoluto prestigio nel controllo (sigillatura?) di beni incamerati dalla corona e forse dati proprio in affidamento provvisorio agli stessi con la connivenza della regina. Questo almeno sembra essere il caso di Wašti, non a caso l’unica donna citata nei testi d’inventario di cui si conserva un’impronta di sigillo, sebbene di provenienza provinciale.

La posizione delle donne nell’attività di amministrazione dello “Stato ittita” appare quindi non solo distribuita su più

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livelli (produzione, registrazione, immagazzinamento di beni), ma anche assolutamente attiva. È infatti la regina che sovraintende ad ogni operazione e sono quasi sempre le donne ad essere costantemente citate nei vari testi d’inventario, siano essi semplici elenchi di materiale grezzo assegnato per la lavorazione, o documenti che descrivono la tesaurizzazione di prodotti finiti.

Non è da escludere, inoltre, che la categoria degli Ausgaben rifletta una prassi consolidata durante le ultime fasi del XIII secolo a.C., cioè in un periodo di forte crisi interna (ed esterna) all’Impero di Ḫatti, che permette a molti funzionari, anche donne, legati alla sempre più allargata famiglia reale, di accumulare ricchezze.

La conferma di questa operazione di legittimazione del potere attraverso la concessione di beni, ma anche di terre, come nel caso di Tarḫuntamanawa e Arumura, potrebbe essere suggerita da una diversa interpretazione delle sigillature ritrovate negli archivi di cretulae di Ḫattuša.

Non si può tuttavia dimenticare che la gestione dell’οἶκος nella sua complessità, cioè anche nella tutela dei beni della casa (scil. del tesoro), è una prerogativa del mondo femminile in tutte le culture antiche188, così come viene “dipinto” anche nel mondo omerico189.

* Clelia Mora, Università degli Studi di Pavia, Dipartimento di Studi umanistici; Matteo Vigo, Rotary Ambassadorial Scholar at the Oriental Institute, Chicago (C.M. è autrice del § 2 (e 2a-b); M.V. è autore del § 1 (e 1a-e); il § 3 è stato redatto in collaborazione).

1 Si vedano i principali studi di Košak 1982 e Siegelová 1986. 2 Herbordt 2005. 3 Cf. Mora 2012. Si fa qui evidentemente riferimento alle

attestazioni di personaggi femminili come parte attiva (destinazione di

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beni o amministrazione degli stessi) all’interno dei documenti amministrativi più rilevanti per l’epoca imperiale ittita. Si vedano in proposito anche le attestazioni di personaggi femminili nei testi di donazione di epoca precedente (Landschenkungsurkunden = LSU) pubblicati da Riemschneider (1958, in particolare pp. 379-380).

4 Cf. Herbordt 2005, pp. 104-105, Tab. 15 e Abb. 47; p. 92. La percentuale è calcolata da Herbordt in base al numero delle impronte con sigilli recanti nomi femminili, ma anche il calcolo in base ai nomi femminili rispetto a quelli maschili documentati nel deposito fornisce un risultato analogo; di poco inferiore la percentuale dei sigilli rispetto al totale dei sigilli di Nişantepe.

5 Cf. Mora 2007, passim; Vigo 2010a, pp. 144-146; 273-274; 282 ss. Per approfondimenti si rimanda al § 3.

6 Cf. Mora 2007, p. 535. 7 CTH, pp. 31 ss. (Chapitre II). 8 Košak 1982. 9 Košak 1982, p. 3. 10 In particolare Siegelová 1984. Siegelová in seguito a

questo lavoro preliminare ha successivamente affrontato altri studi sulla metallurgia dell’Anatolia durante il Bronzo Recente, sicuramente incentivati dalle scoperte che l’autrice ha fatto nell’elaborazione della sua ricerca sui testi d’inventario ittiti. Cf. pertanto Siegelová 1993; Eadem 1994; 2001; 2005.

11 Cf. Siegelová 1986, pp. 11-12. 12 Per formale s’intende qui de facto la forma delle tavolette.

Secondo la studiosa il processo iniziale di registrazione dei beni era, per esempio, riportato su tavolette ad una sola colonna, evidenziando così il carattere assolutamente temporaneo e preliminare dei documenti; diversamente i testi che elencavano le liste definitive di beni venivano compilati su tavolette schematicamente divise in tre colonne per lato, dimostrandone il loro carattere, per così dire, “ufficiale”.

13 Siegelová 1986, pp. 1-10. 14 Da questo conteggio viene naturalmente esclusa l’anonima

regina (o regine, nel caso non si tratti della stessa persona) attestata in numerosi inventari. Non sono stati conteggiati nemmeno i nomi

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femminili (i.e. che presentano il determinativo femminile) troppo frammentari per essere inclusi nel presente studio. Si veda l’elenco delle attestazioni in Siegelová 1986, pp. 709: (Fam[-); 710 (Fan[-); 715 (Fmu-x[); 716 (Fna-aḫ[-); 717 (Fša[-). Di conseguenza, se tali attestazioni venissero prese in considerazione, la percentuale indicata all’inizio del presente contributo aumenterebbe.

15 È difficile stabilire il numero esatto dei personaggi coinvolti nelle operazioni amministrative e quindi citati nei cosiddetti testi d’inventario, poiché spesso i documenti, dato il loro stato estremamente frammentario, presentano unicamente il determinativo (maschile o femminile) del personaggio citato, seguito da qualche sillaba del nome. Soprattutto dal contesto, quindi, siamo cautamente autorizzati a sostenere che i primi segni corrispondenti ai determinativi maschile (LÚ) e femminile (MUNUS) siano da interpretare come tali e non come semplici sillabe iniziali di parola.

16 Laroche 1966. 17 Tutte le forme riportate in NH sono differenti: Ḫaštayar;

Ḫaštayariš; Ḫaštayari. 18 Ḫurmel!, in relazione a tessuti. 19 Apattiti(?), Elwattaru, Ḫištayara, Ḫurma, Kikki(?), Kuwari,

Malli (?), Parminza, Pipi(-)(?), Tawanti, Ura(-x)(?), Zapaten([-)(?). 20 Così secondo Siegelová 1986, pp. 310 ss. (Zuweisungen

von Rohstoffen: categoria 7.5). 21 KBo XVIII 199 (+) KBo II 22; KUB XLII 65, Ro.!. 22 Siegelová 1986, p. 310: «Der Strich kann in diesem Falle

nicht in Sinne eines Kolumnentrenners verstanden werden: Die beiden Spalten gehören zueinander und bilden ein einziges Ganzes; der Strich dient nur der besseren Organisation des Tafelbildes». Cfr. recentemente Waal 2010, 89.

23 L’unità di misura, spesso in rasura, è il siclo (GÍN). 24 Si tenga infatti sempre presente il luogo di ritrovamento di

KBo XVIII 199 e di KBo II 22: Büyükkale, Edificio E, Archivgebäude. Sulla funzione dell’Edificio E di Ḫattuša si veda soprattutto Alaura 1998; Eadem 2001, 2004 passim, con amplia bibliografia precedente.

25 KUB XLII 65, Ro. 1’-6’.

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26 KUB XLII 65, Vo. x+1-2’: x+1’ ḪI(?)]A IŠ-TU GIŠ. Ḫ[UR 2’

[…g]ul-aš-ša-an; Cf. IBoT I 31, Ro. 3: GADAḪI.A an-da IŠ-TU GIŠ. ḪUR gul-la-aš-ša-an.

27 Si vedano, a tal proposito, il frequente riferimento al fatto che i beni elencati (tutti prodotti finiti) non sono ancora stati “inventariati” (IBoT I 31, Vo. 11, 18, 24: nawi ḫatiuitān) e in particolare l’annotazione che, allorché la regina deporrà il materiale nella casa del sigillo (i.e. verrà per così dire tesaurizzato), allora verrà compilata una tavoletta d’argilla (i.e. finale). Cf. IBoT I 31, Ro. 13-15. Si veda ultra il commento relativo ai passi in cui viene citata la regina stessa.

28 Per documento non ufficiale si intende qui un documento che non può considerarsi redatto per essere definitivamente conservato, come controprova del movimento dei beni della corona, siano essi in entrata o uscita. Per approfondimenti sulla probabile funzione di tutte le tavolette ritrovate a Ḫattuša che siamo soliti definire testi d’inventario si veda, da ultimo, Vigo 2010a, in particolare pp. 105; 139 ss.; 280 ss. Più in generale, sul concetto di archiviazione dei testi ittiti, sulla classificazione del sapere e sulla funzione delle strutture addette ai processi di archiviazione, si veda soprattutto van den Hout 2002; 2005; 2006; 2008, tutti con cospicua bibliografia precedente.

29 Elwattaru, Kuwari, Parminza, Pipi(-)?, Tawanti, Zapaten([-). 30 Tra questi, Ḫištayara, è già un personaggio dell’Antico

Regno (contemporanea di Ḫattušili I); cf., per esempio, Güterbock 1938, 134; una Mal(l)i viene citata in un contesto frammentario all’interno di una Landschenkungsurkunde (LSU 1, Ro. 31) datata al regno di Arnuwanda I. Cf. Riemschneider 1956, 346; Kiki (nella forma priva del determinativo di genere) è nome già attestato nei testi assiri di Kültepe (TC 105, 13). È forse verosimile pensare che la Kiki citata nel testo d’inventario in questione sia da identificare con l’omonimo personaggio riportato in un “inventario” di personale femminile (KBo X 10, col. III 13) proveniente da diversi villaggi della provincia di Tawiniya, o con la Kikki (FKi-ik-ki) citata in un frustulo databile al XIII secolo a.C. (KUB LX 64, Vo 1). Diverso è il caso di Apatti(ti?), nome finora citato nella forma maschile, solo nel noto documento giuridico che descrive il processo per malversazione a

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carico di Ura-Tarḫunta e il padre di questi, Ukkura, (KUB XIII 35+), all’interno del quale occorre effettivamente un tale Apattiti (col. III 40, MA-pát-ti-ti-iš) tra i numerosi personaggi di corte chiamati a testimoniare.

31 Così già Siegelová 1986, p. 311: «…Die Frauennamen (als solche) sind keineswegs behilflich. Die meisten kommen hier zum erstenmal vor; aber auch diejenigen, die bereits bekannt sind, wie Malli oder Ḫištayara, können nicht mit den übrigen Vorkommen verknüpft werden».

32 Cf., infatti, come vedremo più avanti, l’interpretazione finale di Košak (1982, p. 158).

33 Siegelová 1986, p. 311: «…Beide Aufzeichnungen sind sehr fragmentarisch und bieten kaum Anhaltspunkte für eine Entscheidung, was für ein Vorgang hier verbucht wurde: Eine Materialsausgabe an oder eine Lieferung seitens der genannten Frauen?».

34 Ad esclusione di KBo II 22, 5’-6’. 35 Cf. Siegelová 1986, p. 311: «…Dieser Umstand dürfte

darauf hinweisen, dass die Verarbeitung des Materials vielleicht nicht sehr weit fortgeschritten ist und man sich ziemlich nahe dem Rohstoff befinden mag».

36 KBo II 22, 5’-6’. 37 KBo XVIII 199, Ro. 1’-5’; Vo. 1’?, 3’-6’, 7’?; KBo II 22,

1’-4’, 7’-8’, 9’ ?. 38 KUB XLII 65, Ro. 1’-4’?. 39 KBo XVIII 199, Vo. 2’. 40 Cf. Siegelová 1986, p. 312: «Da sie beide ausdrücklich mit

weisser Wolle verbunden sind, muss es wohl bedeuten, dass sie nicht (oder wenigstens nicht primär) eine Farbe bezeichnen, dass der Unterschied zwischen ihnen auch nicht in der Farbe liegt».

41 Cf. HW2 A, p. 384; HEG A, p. 79; HED A, pp. 206-207. 42 Contra, per esempio, HED A, pp. 206-207: “white, bright”

(BABBAR). 43 Cf. Haas 2003, pp. 671-673. 44 KUB VII 2, col. I 23 e IBoT II 115+, 6. Cf. Bawanypeck

2005, pp. 276-277; 284-285.

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45 Si veda la stringa più completa: KUB VII 2, col. I 23: [ka]-

a-ši-iš mi-di-iš-ša te-pu. 46 Così secondo, per esempio, HED K, p. 119. 47 Cf. però anche CLL, p. 102. 48 KBo II 11, Ro. 7-8: «E così prendo la strada per l’Egitto:

(l’) :antari- (nel testo al nominativo) desidera (il) :gaši- (nel testo all’accusativo)». Si rimanda a HED H, p. 120 per le diverse interpretazioni del passo.

49 Cf. antara-/antari- in HW2 A, p. 108. Si veda anche Siegelová 1986, p. 315, con la nota 12.

50 Ad esclusione di almeno otto casi in cui è indicata la quantità di sicli seguita dal termine gaši-.

51 Cf. Hoffner – Melchert 2008, pp. 69, nota 21; 71-72 (§ 3.20) per i sostantivi di genere neutro in cui l’idea di collettivo già implicita, viene espressa attraverso l’inusuale desinenza in -i nelle forme di nominativo e accusativo plurale.

52 Košak 1982, p. 158. 53 Le stesse perplessità erano già state espresse da Siegelová

(1986, p. 315). Cf. l’interpretazione del verbo in Laroche 1960a, p. 84 (“se servir, vivre sur”) e l’associazione con il termine gaši- già in Idem 1959, p. 54.

54 Si specifica “forse” perché non è da escludere che il termine BABBAR indichi sicli di lana grezza (cf., per esempio, Waetzoldt 2010, p. 200) di differente qualità/taglio(?)(BABBAR gaši-/BABBAR ašara-) o, in quanto naturale, chiara (viz. bianca); secondo Puhvel apud HED K, p. 119, appunto BABBAR gaši-/BABBAR ašara-.

55 Questa interpretazione è possibile, per esempio, nel caso in cui consideriamo il termine gaši- come “razione”, “rifornimento” vel. sim.

56 Siegelová 1986, pp. 90-95. 57 Siegelová 1986, pp. 29-31. 58 KUB XLII 66, Vo. x+1. Si veda la proposta d’integrazione

di Siegelová (1986, p. 92, nota 1). 59 KUB XLII 66, Vo. 2’: GIŠ.ḪUR-ma-kán an-da Ú-UL

[gul-aš-ša-an/ḫa-an-da-a-an?]. 60 KUB XLII 66, Vo. 4’. 61 NA4

ḪI.A. Cf. le considerazioni di Siegelová (1986, p. 90).

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mondo anatolico e vicino oriente

204

62 KUB XLII 66, Vo. 4’: IŠ-TU NA4KIŠIB MUNUS.LU[GAL. 63 KUB XLII 66, Vo. 6’. 64 Per l’accadogramma MUKKU si rimanda alla discussione

di Siegelová (1986, pp. 90-91), con bibliografia precedente là citata. Cf. però recentemente, ad esempio CAD M II, p. 188; CDA2, p. 216.

65 KUB XLII 66, Vo. 8’: A-NA Fan-ni-i-kán ar-ḫa d[a-a?. Per arḫa + kan si rimanda a Hoffner – Melchert 2008, p. 369 (§ 28.65).

66 KUB XLII 66, Vo. 10’: 3 ME 40 SÍGpít-t[u-la-aš?. 67 Per il termine SÍGpittula- si rimanda a CHD P, p. 365. 68 Cf. le riflessioni di Mora 2007, pp. 538-540. 69 Si rimanda infatti alle valide considerazioni di Siegelová,

riportate supra in merito alla funzione di quei documenti che la studiosa ha definito Inventurprotokolle.

70 Cf. la descrizione delle varie fasi di tesaurizzazione dei beni prospettata da Vigo 2010a, pp. 100-114.

71 Tale proposta è sostenibile da un punto di vista semantico se si segue la lettura di Güterbock (1974, pp. 305-306). Per il significato del termine (É.GAL) karupaḫi- si rimanda a Laroche 1960b, pp. 198-199; Singer 1983, p. 110, nt. 66. Cf. HEG K, pp. 528-529; HED K, pp. 115-116. Riguardo a questo edificio si veda anche quanto già sostenuto da Siegelová (1986, p. 397).

72 KUB XLII 102, 6’’-7’’. 73 KUB XLII 102, 10’’: SÍGpittulaš QADU :mariḫ[ši]. Per il

termine (SÍG)mariḫši- si rimanda, in generale a CHD M, pp. 186-187. 74 Non vi sono però nomi propri (soprattutto femminili)

attestati nei documenti ittiti in cui si fa menzione di follatori (LÚ.MEŠ TÚG). Cf. Pecchioli Daddi 1982, pp. 49-50. Anche se la tintura è tradizionalmente considerata un’operazione complementare da eseguirsi a seguito della roccatura, alcuni tessuti grezzi colorati avevano una pigmentazione naturale. Per queste tematiche si rimanda, in generale, a Völling 2008, pp. 151-154.

75 IBoT I 31, Ro. 9. 76 Cf., per esempio, IBoT I 31, Ro. 3, 13. Per la funzione

delle tavolette di legno presso l’amministrazione ittita, si rimanda, in generale, ai capitali lavori di Marazzi 1994; Idem 2000.

77 Così secondo le proposte interpretative di Vigo 2010a, pp. 105, 110-111, 147.

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attività femminili a Ḫattuša

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78 Cf. in particolare Vigo 2010a, p. 146, con bibliografia

precedente nelle note. 79 Per questa ipotesi già Mora 2007, pp. 546-548; Vigo

2010a, p. 145. 80 Il sumerogramma compare senza alcuna complemen-

tazione fonetica, ma si pensa possa rendere l’ittita *piyatar. 81 Per questo termine si rimanda, da ultimo, a Vigo 2010b, p.

304, nota 131. 82 Per l’interpretazione del termine lupan(n)i- si veda ora

Vigo 2010b, pp. 303-314. 83 Per il termine TÚGkinantaya- si veda già Siegelová 1986, p.

83, nota 13. 84 KUB XLII 49, Ro. 9. 85 Si vedano, ad esempio le ghette ((TÚG)GADA.DAM (MEŠ))

menzionate in Recto 4 o la camicia hurrita (TÚGGÚ ḪURRI) in Recto 10. Cf. Goetze 1955, pp. 52-54; 60.

86 Siegelová 1986, pp. 347-349. 87 Cf. Siegelová 1986, p. 347: «Allerdings ist die

Formulierung mittels akkad. ŠA diesmal nicht eindeutig und macht eine Interpretation als Zuweisung an die betreffende Frau als auch eine Lieferung seitens der Frau möglich».

88 KUB XLII 51, Vo. x+1. 89 KUB XLII 51, Vo. 5’: MEN.LUGAL-ma. Per la

prosopografia del personaggio si rimanda a van den Hout 1995, pp. 136-137. Cf., da ultimo, Vigo 2010a, pp. 271-272.

90 KUB XLII 51, Vo. 5’: Mne-ri-ik[a-i-li . Per questo personaggio si rimanda sempre a van den Hout 1995, pp. 96-104.

91 KUB XLII 51, Ro. 2’: L]Ú tu-ḫu-kán-t]i. 92 KUB XLII 51, Ro. 6’: MUNUS.LUGAL. 93 Per alcune di queste ipotesi si rimanda già a Siegelová

1986, pp. 344-345; cf. ora Vigo 2010b, p. 306. 94 Cf. già Vigo 2010b, pp. 304-306. 95 Siegelová 1986, pp. 344-345. 96 Cf., per esempio, Košak 1982, p. 134: «A list of garments

with accessories, on the reverse also various garments and cloths for ritual purposes».

97 Siegelová 1986, pp. 336-343.

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98 KUB XLII 59, Vo. 18’. 99 KBo XVIII 10, Ro. 4’: DUMU.MUNUS-ma FA-pád-da-aš.

Si concorda con Hagenbuchner (1989, p. 206) nel considerare Apaddā come madre dell’anonima figlia che soggiorna nella città di Aššuḫa. Diversamente Güterbock apud KUB XVIII, iv (Nr. 10) propone cautamente: «Schein davon zu handeln, dass eine »Tochter« (Prinzessin?)…»; così poi anche Burde 1974, p. 6. Si veda però Hoffner – Melchert 2008, p. 254 (§ 16.54): «Principally, it is the presence of a Sumerogramm (or Akkadogramm) in the construction which causes the reversal of the sequence [i.e. dell’ordine delle parole in una frase genitivale]».

100 Siegelová 1986, pp. 283-291. 101 In questo senso una prima differenziazione era già stata

proposta da Kempinski – Košak 1977, p. 88. 102 Con riferimento, ad esempio, ad uno dei testi più

significativi del gruppo (CTH 242.8 = KBo XVI 83+KBo XXIII 26) Košak (1982, p. 89) dichiara: «The tablet is a memorandum recording the goods coming into or going out of the treasury for various purposes».

103 Kempinski – Košak 1977. 104 Kempinski – Košak 1977, p. 92. 105 Siegelová 1986, p. 257. 106 Cf. Siegelová 1986, pp. 260-261; Singer 1984, pp. 101-

114, 121-124, con la nota 31. 107 Kempinski – Košak 1977, p. 88. Cf. recentemente Mora

2007, p. 540. 108 Per questa ipotesi si veda Mora 2007, pp. 540 ss.; van den

Hout 2007, p. 118; Mora 2010a. 109 Cf. Kempinski – Košak 1977, pp. 90-91. 110 Si riportano qui gli esempi di KUB XL 95, col. II 5-6: 5’1

GUN URUDU 3 BI-[IB-R]U NA4NUNUZ ½ BÁN NA4NU[NUZ] 6’LÚMEŠpar-wa-la-aš LUGAL SUM-ir : «un talento di rame e tre rhyta (di) grani (contenenti) ½ BÁN di grani(;) la comunità parwala ha dato al re»; Ibidem 2-4: 2’3 URU[DU] 3’[x GIŠŠU]KUR 2 URUDUdu-pí-ya-li-iš x GIŠBAN 1 ME GIKAK.Ú[TAG.GA] 4’A-NA Mpí-ḫa-A.A: «tre barre di rame, x lance, due giavellotti, cinque archi, 100 frecce (sono state

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attività femminili a Ḫattuša

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date?) a Piḫamuwa». Per i LÚMEŠparwalaš si veda Pecchioli Daddi 1982, p. 115; Siegelová 1986, p. 266, nt. 1; CHD P, pp. 200-201.

111 Cf. Siegelová 1986, p. 286: «Wie bereits erwähnt, nehmen die Aufsichtspersonen oft die höchsten Posten in der Hierarchie des hethitischen Staates ein». Si vedano le osservazioni di van den Hout (1995, p. 141) in merito alla presenza di alcuni funzionari già presenti tra i testimoni della cosiddetta “tavola d bronzo” e del trattato di Ulmi-Teššop. Cf. analogamente già Kempinski – Košak 1977, p. 91; Mascheroni 1979, p. 368.

112 KBo XVI 83+, col. III 10: F]a-ru-mu-ra GAL MUNUSŠU.GI SISKUR.

113 Per il quale si veda ultra. 114 Si veda la prosopografia del personaggio in van den Hout

1995, pp. 235-237. 115 Si veda la prosopografia del personaggio in van den Hout

1995, pp. 109-110. 116 Cf. sempre van den Hout 1995, pp. 211-214. 117 Cf. van den Hout 1995, pp. 138-141. 118 KUB XV 5, col. I 11. Cf. de Roos 2007, p. 80. 119 KUB XXVI 43+, Ro. 51. Cf. Imparati 1974, p. 31. 120 Mascheroni 1979. 121 Cf. in proposito anche Kempinski – Košak 1977, p. 91;

Siegelová 1986, pp. 287-291. 122 Mascheroni 1979, pp. 365 ss. Cf. van den Hout 1995, pp.

141-142. Così già Kempinski – Košak 1977, p. 91 e ancor prima Carruba 1970, p. 84.

123 Mascheroni 1979, p. 364. 124 KUB XL 95, Vo. III 11. 125 Per l’elenco delle attestazioni di questo personaggio si

veda, da ultimo, Vigo 2010a, p. 279. Da notare il fatto che Zuzuli è uno di quei personaggi della corte ittita, il cui nome compare anche su diverse bullae accanto al titolo REX.FILIUS.

126 Si veda la prosopografia del personaggio in van den Hout 1995, pp. 132-135.

127 Per la prosopografia di questo personaggio si veda, da ultimo, Vigo 2010a, pp. 261-267, con ampia bibliografia precedente nelle note.

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128 Per questo titolo si veda, da ultimo, Vigo 2010a, p. 267,

nota 917. Per la prosopografia del personaggio: van den Hout 1995, pp. 169-172; Mora 2006, pp. 140-141.

129 Per la prosopografia di questo personaggio si veda van den Hout 1995, pp. 124-126.

130 KUB XLII 84, Ro 10. 131 Siegelová 1986, pp. 124-129. 132 Il secondo elemento del nome è integrato in linea con le

considerazioni fatte da Siegelová (1986, p. 125). 133 KUB XLII 84, Vo. 19. 134 Cf. KUB XLII 84, Vo. 20-22: «Tutti questi (beni)

Talmi[Teššop li ha presi]. Così parla TÚL-pa-x-x, figlio di […]: “Sono rimasti due contenitori”».

135 KUB XLII 84, Vo. 23-24. 136 KUB XLII 84, Vo. 26-27. 137 KBo XVIII 179, Ro. II 9: «Un grosso contenitore sigillato.

Una tavoletta di legno (GIŠ.ḪUR). Manca il parzakiš». Per parzaki- = bulla cf. CHD P, p. 202. Recentemente Mora 2007, p. 539.

138 KBo XVIII 179, Ro. II 7. Per l’ipotesi di beni donati in occasione di una intronizzazione, si veda, da ultimo, Vigo 2010b, p. 303, con bibliografia precedente alla nota 126.

139 Per la formula ŠA ŠU MUNUS.LUGAL si veda Siegelová 1986, p. 364, nota 2.

140 KUB XLII 75, Ro. 11. Cf. Siegelová 1986, pp. 63 ss. 141 Cf. Siegelová 1986, pp. 88-89. 142 KUB XLII 48, margine inferiore: É.GAL MUNUS.LUGAL. 143 Siegelová 1986, pp. 242 ss. 144 Košak 1982, pp. 8 ss. 145 Siegelová 1986, pp. 207-212; 246-255. 146 de Martino 1987, p. 315. 147 Cf. ittita LÚḫi/enkuwa-. Si rimanda, in generale, a

Pecchioli Daddi 1982, pp. 564-565. 148 KBo IX 91, bordo sinistro 1-3. Cf. Siegelová 1986, pp.

329-335. 149 Siegelová 1986, pp. 379 ss. 150 KUB XLII 106, Ro.? x+1: GADA]MEŠ GIŠBANŠUR

MUNUS.LUGAL.

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151 Per il termine LÚšalašḫa/i si rimanda a CHD Š I, pp. 89-90. 152 KUB XIII 35+, col. I 6-8. 153 KBo XVIII 153, Vo. 1-20 = KUB XXVI 66, col. II 1-10;

col. III 1-16. 154 Per le formule: ŠU + NP e ANA + NP “nelle mani di +

NP” o “in temporaneo affidamento a + NP” si rimanda a van den Hout 1995, pp. 222-223, con bibliografia precedente.

155 KUB XXVI 66, col. III 10: na-at MUNUS.LUGAL kar-u-ú ša-ra-a da-a-aš; col. III 11: A-NA MUNUS ḫar-na-wa-aš Mlu-ul-lu-uš LÚpa-ti-liš pi-e-da-aš.

156 Košak 1982, 68, p. 71. 157 KBo XVIII 153, Vo. 18-19 = KUB XXVI 66, col. III 14-

15: na-aš-ta nam-ma ḫa-an-di-i 3 MA.NA KÙ.BABBAR da-a-ir na-at a-aš-ga-za GAL DUB.SARMEŠ Mpu-pu-li-ša ḫar-kán-zi. Lo stesso verbo (ḫar(k)-) con il significato di “ottenere in affidamento; ottenere in gestione” (cfr. HEG A-K, 173-175; HED H, 145-157), si ritrova anche nel protocollo giudiziario KUB XIII 35+ (col. I 11-13): Ú-NU-UT LUGAL-wa ku-it ku-it ḫar-ku-un nu-wa A-NA Ú-NU-UT LUGAL :ḫar-pa-na-al-la Ú-UL ku-wa-pí-ik-ki i-ya-an-ni-ya-nu-un nu-wa-za Ú-UL ku-it-ki da-aḫ-ḫu-un; «“Riguardo a qualsiasi bene del re che io ho ottenuto in affidamento, io con i beni del re mi sono comportato onestamente; non ho mai preso niente per me stesso.”». Cf. Siegelová 1986, p. 107, nota 19; Košak (1982, p. 69) rende infatti il passo del testo d’inventario in questione: «Furthermore, 3 minas of silver were taken separately and the chief scribe (i.e. Walwaziti) and Pupuli held them outside (i.e. separate from the general account)». L’uso di questo verbo, che peraltro differisce dai verbi usati per esprimere il prelievo di beni dal tesoro da parte degli altri funzionari, potrebbe avere un significato preciso.

158 Per queste problematiche, si rimanda soprattutto alla messa a punto di Mora 2007, in particolare pp. 547-548.

159 Per ulteriori approfondimenti si rimanda al § 3. 160 I sigilli con nomi di regine, sole o accostate al nome del re,

rappresentano circa 1/5 dei sigilli reali ritrovati sulle cretulae di Nişantepe (cf. Herbordt – Bawanypeck – Hawkins 2011, Tab. 7, pp. 15 ss.).

161 Per questa documentazione cf. Herbordt 2005, pp. 104-105.

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162 Cf. sotto, a proposito del nome Muwatti, che ricorre

accostato a due titoli diversi. 163 Herbordt 2005, p. 104. 164 Cf. Herbordt 2005, p. 104. 165 Cf. Herbordt 2005, p. 104, con la nota 837.

Tarḫuntamana(wa) è intestataria del sigillo 414. 166 Cf. Herbordt 2005, p. 149; ma si veda più sotto per alcuni

problemi di lettura. 167 Numero secondo il catalogo di Herbordt 2005, e numero

di cretulae su cui sono impressi. 168 Hawkins apud Herbordt 2005, p. 266. 169 Herbordt 2005, commento ai sigilli 269 e 270. 170 Lo stesso titolo ricorre inoltre, sempre accanto al nome

Muwatti, sul sigillo SBo II (Güterbock 1940), Nr. 88. 171 Cf. anche Hawkins apud Herbordt 2005, p. 265 s. 172 Cf. Giorgieri – Mora 1996, p. 76; Beyer 2001, pp. 386-

391; Collins 2002, pp. 316-319. 173 Cf. Herbordt 2005, commento a 267. Si vedano inoltre

alcuni sigilli delle classi A e B in Beyer 2001. 174 Sul sigillo 270 sono rappresentati due personaggi seduti

affrontati, con elementi di difficile identificazione nello spazio tra loro. Secondo Hawkins (apud Herbordt 2005, p. 266), potrebbe trattarsi di segni geroglifici.

175 Cf. Herbordt 2005, p. 188 e Hawkins apud Herbordt 2005, p. 173, con bibliografia precedente. Ibidem, p. 82 per Šaḫurunuwa. Per la prosopografia del personaggio, su tutti, van den Hout 1995, pp. 151-154. Cf. Imparati 1974, in particolare pp. 16-17. Si veda anche Hawkins apud Herbordt 2005, p. 269.

176 Cf. Mora apud Marazzi 1990. 177 Herbordt 2005, rispettivamente pp. 225 e 285. 178 Mora 1987, VI a, 3.5. 179 Le sigillature multiple non sono frequenti, ma sono

comunque rappresentate in modo significativo a Nişantepe. Cf. Mora 2010b.

180 Lo studio potrebbe essere esteso ad altri archivi di cretulae, in particolare ovviamente al cosiddetto Depotfund di Büyükkale.

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181 Si veda Beyer 2001, pp. 92-93. 182 Cf. Vigo 2010a, pp. 246, nota 785; 277. 183 KUB XLII 84, Ro. 10. 184 Si vedano la presentazione del personaggio nel § 1 e le

considerazioni suppletive nel § 3. 185 Mora 2007, passim; Eadem 2010b; Vigo 2010a, pp. 145-146. 186 Per queste ipotesi si rimanda a Vigo 2010a, pp. 280 ss. 187 Sull’ipotesi che almeno in alcuni casi si tratti di

acquisizione di beni per uso personale da parte dei dignitari di grado più elevato si veda Mora 2006; Giorgieri – Mora, in stampa.

188 Si veda, per esempio, Zagarell et al. 1986, p. 417: «Females might hold high positions in the temple hierarchy. Particularly at Ur, they seem to have been the major administrators, and certainly the queen’s palace was administered by her at Ebla […] Under certain conditions they appear to have had extremely high status, at least ritually higher that men’s…»; D’Altroy – Earle 1985, p. 190: «The responsibilities of the aqllakuna (chosen women) included textile manufacturing […] They performed such varied tasks as palace and temple service, tilling of the Inka’s private lands, herding, and administration».

189 Cf. Mossé 1984, p. 50: «C’est la maîtresse de maison, enfin, qui garde la clé du trésor où son entassées les provisions alimentaires, les réserves de métal et les belles étoffes offertes au maître – ou à la maîtresse – par les hôtes de passage, mais encore les fruits de multiples razzias».

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alfredo rizza

grammatology and digital technologies different applications of the concept of

‘character’ in Unicode and other non-technical problems about ancient scripts∗

Ἔστι µὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθηµάτων σύµβολα, καὶ τὰ

γραφόµενα τῶν ἐν τῇ φονῇ. καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράµµατα πᾶσι τὰ αὐτὰ, οὐδὲ

φωναὶ αἱ αὐταί

(Arist. de int. 16a)

..., eine Tasse mehr! (G. Neumann, de civ. gramm., o.p.)

1. The concept of ‘character’ in the encoding of ancient scripts

1.1 Definition of character in Unicode1

The definition of ‘character’ in the online ‘Glossary of Unicode Terms’2 reads:

«Character. (1) The smallest component of written language that has semantic value; refers to the abstract meaning and/or shape, rather than a specific shape (see also glyph), though in code tables some form of visual representation is essential for the reader’s understanding. (2) Synonym for abstract character. (3) The basic unit of encoding for the Unicode character encoding. (4) The English name for the ideographic written elements of Chinese origin.»

(3) is, so to say, a rather ‘tricky’ definition (whatever is a character in Unicode, is a character in Unicode), but it is nonetheless necessary as otherwise the definition would cause inconsistencies in the application of the concept. In particular we are interested here in (1), where the character is defined with

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respect to a ‘written language’,3 and we come directly to the point: are Hittite Cuneiform and, e.g., Sumerian Cuneiform two different written languages, or just one? If two, we should have two independent code charts each; if not, one is enough.

1.2. The application of the concept in the encoding of

ancient scripts

Obviously, Hittite Cuneiform is an independent written language that applies a notational logosyllabographic cuneiform system adapting it in shapes and orthographical rules to its own aims. Sumerian as well makes use of a notational logosyllabographic cuneiform system that in the Sumerian tradition4 is embodied through rules and shapes that differentiate greatly from the ones of Hittite. So Latin and Greek are two written languages that adapted a notational alphabetic system developing single traditions in shapes and orthographic rules. We can say more: Latin and Ancient Greek are today represented as written language by a tradition that produced normalized notational systems for all the geo-chronological variants of the two languages. This tradition does not exist for the cuneiform written languages.

What is evident in the encoding of cuneiform, on the one hand, and other ancient scripts, on the other side, is that cuneiform is treated as a notational system firmly independent of the various cultures that made use of it. The alphabets, instead, are more often treated historically.

2. The different application of the concept ‘character’

2.1. Alphabets

2.1.1. Old Semitic The historic alphabets are normally considered as

independent written languages, and this is grounded on their historical developments, geo-chronological variants, scholarly traditions and political-cultural reasons. That is to say, the

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grammatology and digital technologies

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definition of character for alphabets is, as a norm, compliant with point (1) in the definition reported above (§1). For the encoding of the characters of an ancient alphabetic script, one needs to go through a watchful paleographic analysis and a careful evaluation of the distinctive functions of the signs in the documents, but to define the boundaries that make a certain script worthy of being independently listed in Unicode, we normally resort to our scholarly tradition in assigning to the different historical cultures their own recognizable historical products.

Many alphabetical scripts share a common origin for the notational unit ‘a’, but for each ancient script each unit is a different character and so perfectly understandable within a system that specifically wants to avoid any code point-sharing (cf. T1). Unicode solved the problem still present in preceding standards such as ISO-8859-x, where a number of present-day and ancient scripts had to share a 256 code points table.5 Still, some of the fonts used in this article encode a certain script into two different ranges. Let us take for example the fonts provided by Yoram Gnat for Ancient Semitic Scripts used in T1.6

«The basic Canaanite alphabet consisted of 22 signs representing consonants (in some languages like Ugarit up to 27 signs). The names of the signs are/were very similar to the still used names of Hebrew letters.

All the fonts contain the glyphs in the Hebrew Unicode code range (0590-05FF). Starting with Unicode standard 5.2, the Phoenician, Imperial Aramaic and Samaritan languages have their own designated code ranges. Therefore, the relevant fonts have the glyphs encoded in their respective Unicode designated ranges as well.

Fonts 1,2,3,4,5,6,7 and 9 contain the glyphs in the Phoenician Unicode range (10900-1091F).»7

Some of the glyphs designed to represent Aramaic or other Semitic scripts were simply assigned the code point of the Hebrew characters. When the single script was given the Unicode codification, they were also mapped to the respective

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ranges. The author of the font explicitly speaks of a Canaanite alphabet that is treated as a notational system within a number of written languages that can thus share the same code-points. This is also what occurred with Cuneiform. But if we want to be able to recognize and unequivocally encode not only notational systems in abstract, but also historical written languages, then we have to introduce specific ranges for all the alphabets of Ancient Palestine, which are, indeed, very similar.

(T1): encoding of common origin8 notational unit ‘a’

original script derived scripts / written languages examples of glyphs code-points

Imperial Aramaic letter aleph � � � 10840

Phoenician letter alf 10900 א

Samaritan letter alaf 0800 ࠀ

Hebrew letter alef

א א אא

א א א א

אא א

05D0

Inscriptional Pahlavi

letter aleph 10B60

Inscriptional

Parthian letter aleph 10B40

Avestan letter A 10B00

Lydian letter A � 10920

Lycian letter A � 10280

‘Original’ aleph

א

Carian letter A � 102A0

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grammatology and digital technologies

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2.1.2 Old Italic Let us now briefly comment the encoding of Old Italic.

The code range for Old Italic was previously denominated Etruscan. The label ‘Old Italic’ includes languages of different genetic origin that, in part or in all their surviving corpus, made use of an alphabet mediated by the Etruscans. The picture of the spread of alphabetical notations in Old Italy may be much more complex. The interesting points here, which are not easy to understand in the present Unicode encoding, are (1) why the Old Semitic alphabets each receive a code range while the Old Italic ones share the same; (2) why only the alphabets of Etruscan origin and not also the Italiote Greek one (used, e.g., for Oscan) were included. The Old Italic writing systems, as a matter of fact, have at least three different origins: Etruscan, southern Italian Greek and Roman.9 Only a specific scholarly tradition can justify, in my opinion, the selection made. Little 2011 explains to the UTC10 why the scripts of Old Northern Italy can be unified with the Old Italic block. I cite here the treatment of the shapes of the unit ‘a’:

«Within northern Italic, Α (Ven, Rh, Lep, Lig), Ϝ (Rh, Lep, Gal, Lig), and Α (Ven, Rh, Lep) are the most common forms [...]. The widespread northern Italic use of Α and Ϝ (itself not elsewhere attested, though clearly related to the former) suggests the possibility that northern Italic constitutes a script distinct from Old Italic, but all forms retain the same general phonetic value and are clearly derived from a common model.»11

It is very interesting to note that the reduction to one single character is grounded on: (a) identical glottic function («same general phonetic value») and (b) common notational origin (i.e. from within a set of shapes that can be subsumed to a single class). Is this not also the case for Old Semitic scripts? To me, it is evident that the application of the concept of ‘character’ is dynamic and, at least, is conditioned by notational evidence, glottic function, and, very importantly, socio-cultural

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premises. Nothing bad in all this. Only worth keeping it in mind.

2.2 Cuneiform

Cuneiform is subsumed under a unique generic ‘script’ (or written language?) detached from its historical developments, geo-chronological variants and socio-cultural peculiarities.12

This picture correspond to the ‘script-based’ solution proposed as a possible encoding method in Bunz 2000. Bunz attempts to classify different ancient scripts in view of their encoding into Unicode. In Bunz 2000 the ancient scripts are grouped together according to specific criteria. There are ancient scripts that are highly significant in present day social and religious communities (Bunz 2000 category A). To be part of this category a script should also have been «properly analyzed so that a paleographic database can be established which allows for a quasi-standardization of functional script units».13

(T2): encoding(s) of common origin notational unit ‘LI’

original script derived scripts/written languages

examples of glyphs code point(s)

Palaeo Babylonian �, �

Neo Assyrian �

Hittite �, �

Hurrian (Mittanni)

Elamite

121F7

The typical case is exemplified with Avestan:

«Avestan is a yet unencoded script of this category. This is a

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phonetic alphabet created by the Zoroastrians, presumably about 400 B.C., on the basis of the so-called Pahlavi book script, in order to render precisely the pronunciation of the sacred texts as realized in ritual performance. Like this, Avestan is the first known instance of a narrow phonetic transcription. In encoding, unification with Pahlavi is not recommended, since the majority of the characters are specific modifications or new shapes added to the original set.»14

A number of very interesting assertions in the quotation deserve a proper comment. Let us here only briefly remark that Avestan is considered an independent script because (a) it is created with a specific aim, (b) it changes the shapes of the original set. Nothing about the language is mentioned. We will come back to these points later on.

Bunz 2000 category B comprises scripts that are «in the first place an object of scientific research» and are subdivided into two sets: B1, i.e. scripts encodable from the scientific point of view;15 B2, i.e. scripts not yet encodable from the scientific point of view.16 Then comes cuneiform. Bunz 2000 category C1 defines historic «scripts which are dealt with almost exclusively in the academic world [...] All scripts of this category are unencodable by definition, i.e. any attempt to derive abstract characters will necessarily fail, since the repertoires do not support it.» Or, maybe better explained:

«According to the Unicode design principles, one would establish a unified encoding for cuneiform. But the attempt to draw up an abstract encoding even for one single language dependent writing system is useless, because in the course of its long history no standardization has ever been made. What has come down to us from the extensive text production of the Ancient Near East, are exclusively manuscripts in the very sense of hand-writings, showing up features of date, writing school, office, but also the particular features of the scribe’s personal manner of handling the pencil. Deriving standard shapes from more than a sixscore of ductus of different scriptoria as well as of individual and often abbreviated graphic shapes, would mean to introduce something intrinsically alien to cuneiform writing [...]. There is a sharp contrast to the situation with Old Persian

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cuneiform [...].»17

This quotation also demands a long commentary, in many aspects. Let us touch on some of them. Old Persian has «a high degree of regularity and balance in the script [...], the opportunity never occurred for a cursive writing to be derived from the geometrically balanced wedge lengths and positions [...].»18 The question here is the following: what does the process of deriving standard shapes have to do with the collection of a character repertoire if the character is an abstraction from the specific shape variants? Together with the application of the concept of character, another problem is here at work, i.e. the sense of the creation of specific fonts that would never be able to give the minimal information required for scholarly use. The problem concerns more the glyph here, not the character in itself. A good transcription, from a linguistic aspect, is far more illustrative than the original document itself. But it is the original alone that can offer information about its being part of a certain scribal tradition with ductus peculiarities and so on. The point can be made even more clearly: creating fonts, Unicode or not, regardless, for the study of the cuneiform texts, be this philological, epigraphical or linguistic, is not only useless, but also misleading. In my opinion the same is true for educational aims. Cuneiform would be better understood by making clay tablets and printing the signs on them. Reducing the cuneiform script from a 3-D Schrifträger to a 2-D one, like paper or a normal word processor page, is something that has been already done in antiquity.19

Another point of interest in the quotation is that according to Unicode principles, cuneiform should be encoded as a unified system. We saw that the principles involved in the decision of what is an independent “Unicode script” are multiple and can be contradictory if one does not pay enough attention to the history of the script as well as to the history of the pertinent scholarly tradition.

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In Bunz 2000 we find also a road-map of possible strategies for the encoding of Cuneiform (p. 25). One possibility is script-based. The other is language-based. Both can be subdivided into three different approaches.

(T3): Bunz 2000 category C1 encoding methods20

encoding methods

(a) script based: (b) language specific:

- minimal element to be composed by a rendering engine

1. minimalistic - representation by Latin characters with mark-up

- unified syllabary, i.e. precomposed syllabic characters

2. intermediate - syllabaries

- unified paleographic database

3. maximalistic - paleographic database

1.b coincides with a transcription using formatting or mark-up means to describe the nature of the signs and the language used. 2.a is more or less what is now available in the Unicode standard. To add paleographic and/or language information we can design individual fonts, with all the caveats already expressed. This is why I consider the encoding of Cuneiform to resemble more the encoding of the alphabets in the standard ISO 8859-x rather than ISO 10646-UCS-x.

Within ISO-8859-x we had to change fonts for every alphabetical script traditions. In the same way we have to change fonts for every cuneiform script traditions, but the original idea of Unicode was specifically to avoid the code-sharing of 8859-x.

2.3 A first overview We can sum up differences and similarities in the

methods of the two standards.

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(T4)

8859-x alphabets share a 256 code points table

10646-x (a) some alphabets do not share any code point (b) some alphabets share a coding range (mainly historic scripts)

10646-x cuneiform shares a 1152 code points range21

The distinction ‘script-based’ vs. ‘language-based’, if

taken loosely, can be applied also to the historic alphabets we mentioned in the preceding sections. Old Italic would be ‘script-based’, while Old Semitic would be ‘language-based’. As a matter of fact, however, Old Semitic has a double possibility. The code range of Hebrew has already been used to map glyphs that correspond to Phoenician, Aramaic etc.22 This is also interesting also because the Hebrew script has a tradition as a mean of transliteration for Old Semitic scripts.23 We try to organize the different solutions taken in the following table.

(T5)

script based mapping of pertinent glyphs (may require mark-up and specific software to recognize the language and the paleographic level automatically)

Old Italic

language based

notational units correspond to the character repertoire of a specific written language

Carian Lydian Lycian

double according to different requirements one written language is or is not represented by an independent character repertoire

Old Semitic

3. On the function of the encoding

The encoding of cuneiform is not really meaningless. Perhaps we first have to remember that all this is conditioned by

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conceptual/cultural precomprehensions and aims that are per force different from the ones that led to the historical formation of the single cuneiform scripts. The observations in Bunz 2000, however, are still in largely valid, because the essence of the discipline is epigraphical and the document as a whole is (or should be) the center of the research. It would be a very long procedure to represent the co-occurrence of Hittite and Mittannian graphs in some Hittite documents such as KBo 1.224 or the letters sent from the Hattusa court to Assyria (e.g. KBo 1.14) and in general the so-called ‘mixed Mittanni-Middle Assyrian’ script with specific fonts. However, to distinguish within the Hittite documents which texts have a Syrian25, Mittannian script, Middle Assyrian, or Hittite script and what relation we can find among scripts and languages are also of great importance for essays dedicated to the general public. If the aim is to publish online cuneiform documents in electronic text format (‘plain txt’-based) able to show such differences, a separate encoding for written language would be more practical, but still a long and almost useless job.

Nonetheless it is my firm opinion that an abstract coded character set can be meaningful, if we only look outside of the realm of printing, be it digital, paper based, online, traditional... Such an unequivocal, universal, standardized encoding becomes useful and practical for the research agenda once it is linked to the pertinent single instances in an electronic corpus where the single instances of the script are 3D vector-based reproductions. This would be a matter of mark-up within 3D objects, mapping the single signs to their unique digital ID.26 A database of unique IDs for notational units that set aside the different contextual values can be useful for a computational-based and/or -oriented research. Some of the possible applications include: (a) searching for clusters of signs without specifying all the possible values of a unit; (b) automated databases of mapped notational units and contextual values for comparative

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aims among different cuneiform written languages; (c) probability algorithms for text restoration; (d) parsing engines for the the evaluation of false input; (e) statistical and computational analysis such as rank/frequency distributions and many other more complex applications.

I hope I could give some explanations here for the scientific need of good electronic corpora. But to go back to the problem of the definition of ‘character’, it should be evident that in this section the concept shifted from the linkage to a «smallest component of written language that has semantic value» to a pure (aggregational?) abstraction of shapes and functions. In so doing we get closer to the ‘real’ meaning of ‘character’ in Unicode and we can also try to comment briefly upon the relationship of this meaning to the problem of defining independent scripts.

4. Towards a conceptual solution

4.1. Unicode characters between technology and ideology

In both BMP and SMP of UCS we find at least two different ways of defining scripts. Modern written languages are normally grouped so that multiple written languages fall together into a single script, e.g., Latin, or Cyrillic. Ancient written languages are sometimes treated in the same way, sometimes one single written language corresponds to one script, in the sense that it receives a dedicated code range. Ancient written languages, so to say, sometimes present problems in the definition of their corresponding independent scripts. One reason for this is very simple. Written languages that came to us through a normalized tradition (relatively old or recent) are somehow naturally admitted into the rules of a system that is, in principle, still a typographic one. So Latin or Ancient Greek do not really represent a problem as long as the major and more requested documents27 have an established typographic tradition. We do not have a normalized ‘academic’

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cuneiform script and it would be non-sense to develop one.28 So after having tried to uncover some of the reasons that

led to the discussion in defining independent code ranges, it may be the time to address again the problem of what is a ‘character’ and what is a ‘script’.

The “real” definition of character in Unicode is the definition of ‘abstract character’ and can be found in ch. 3 of the current Unicode Standard:

«Abstract character: A unit of information used for the organization, control, or representation of textual data.»

In the light of this definition, a problem like whether the

Aramaic and the Phoenician letter aleph should be distinct characters or not is, technically, always solved. Ideologically, probably never.

The ideological problem lies not in what is a character, but in what deserves to be a character. Are Umbrian and Venetic distinct scripts? Probably yes, but do they deserve distinct code ranges? To answer this question one must follow precise recommendations for the encoding, consult specialists and keep in mind, as limpid as possible, the aims of the encoding not only in technical processes, but also in social, cultural, scientific and sometimes even religious and political contexts.

Another important recognition of Bunz 2000 is that the encoding of a dead script is always revisable.29 “Not a standard”, in the terms of Bunz 2000, a “scientific revisable standard” in the terms of this paper.

4.2. The definition of independent scripts

We are left now with the problem of the definition of distinct scripts. A question that somehow receives a new input from the consequences of the Unicode encoding process.

A first point is that the character is not the grapheme. This is quite evident, but do ‘character’ and ‘grapheme’ both

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pertain to the script level? Should the ‘character’ unproble-matically pertain to the script level we would not have had any occasion to write this paper. In fact, if the real problem is to designate what deserves to be a character, and consequently, what is an independent script, we have to try to understand better what could ‘script’ mean. The difference between the grapheme and the character is that the grapheme is a scientific problem, the character is not. In the light of the definition quoted above (§4.1) the character presents no gnoseological problem. It is more a question of organizing the material to be encoded in order to be useful for present and, possibly, future goals. The scientific aspect concerns what is an independent script, or more generally, what is an independent writing system. While the grapheme has, even if not exclusively, precise glottic aspects, the character does not. While the grapheme turns, so to say, potential values into actual ones, the character only subsumes distinct visual shapes into a class.

The grapheme has analyzable applications in the different layers of a graphically-encoded message. It may be necessary to explain how ‘grapheme’ is intended to be used here. With ‘grapheme’ I only mean a predicative function. ‘X is a grapheme’ means thus nothing more than ‘X is a graphic mean with a distinctive function in all pertinent levels’. So ‹p› and ‹t› in pin and tin are ‘graphemes’. But the letter ‘p’ and ‘t’ alone are not. The letter distinction works also at a lower level where ‘grapheme’ is not a pertinent concept.

(T6) Layers of a written language message

30

communicative 4. pragmatic

3. labeling

2. phonemic graphemic{

glottic {

1. phonic

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1. Any graphic sign (or character?)31 is a set of articulatory instructions32. 2. The signs are brought together to build syllables and through syllables (potentially) all the morphs of a language.33 This is the first level of graphematic pertinence. The graph(em)ic strings recode phonemic strings.34 3. Strings of signs play a distinguishing role at a higher lexical or grammatical level. Most typically, here, determinatives disambiguate graphemic strings and as a consequence the morphs or their content. A banal example: Italian ‘anno’ vs.

‘hanno’;35 Sumerian ��, ��, uzuti, gišti.36

4. The selection of signs at this level, that is here labeled ‘pragmatic’, aims at producing certain reactions, at organizing the information, at establishing social statuses and many others. Clear examples can be found in the Anatolian Hieroglyphic system where a strong iconic variant can be used for a personal name; or the selection of variants within a document can be justified on iconic grounds with reading directions independent of the linguistic one and so on.37

At this level the socio-cultural context becomes decisive

and the graphemic function is to be understood only within this broader context. With ancient documents we can sometimes perfectly understand that a sign is ‘graphemic’ in this sense, but we can hardly reconstruct exactly how. One example can be represented by the sign selection for the royal names in the Hittite empire written in Anatolian hieroglyphs.38

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(T7) Iconic links among the last Hittite kings

(from Herbordt – Bawanypeck - Hawkins 2011)

The figure shows a seal impression of Tuthalija IV and

one of Arnuwanda III. In the middle field we see a deified mountain. Both Tuthalija and Arnuwanda are, besides anthroponyms, oronyms.39 In the seal 97.1 the name of Tuthalija is written with the logogram MONS₂, disambiguated by the TU sign beneath.40 In the seal of Arnuwanda (138.2) the name is syllabically written.41 MONS₂, in both istances, surely plays also non glottic roles. A symbol of continuity with the predecessor in Arnuwanda’s seal is almost certain.42 More interesting, but, more difficult to confirm, is that with Tuthalija IV, for the first time, a royal name is written with a sign visually depicting a god and this may be of interest for the hypothesis of an ongoing process of deification of the kings.43

Finally we can now briefly add something about the

definition of independent scripts. Some interesting premises and insights in this problem can be found in Prosdocimi 1990,44 where the question of writing within the teaching/learning process is addressed. Writing has two essential features, conventionality and totality. A writing is ‘total’, in a first meaning, because it tends to express all that is expressed in a language. In a second meaning, as a system, a writing cannot

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admit deficiencies, otherwise the system collapses. That is to say that the system can be non-optimal, but it is always total. It is a matter of dynamic relationship between economy and redundancy.45 As long as a writing is conventional, it has to be learned and taught. Among the dynamics of teaching/learning we have to place the problem of the transmission of a system and to evaluate wheter the script is adapted in such a way that it can be termed ‘new’ or ‘independent’.46 The foundations of a writing system are placed in its proper rules of usage. If we take for example the Old Italic scripts, we noticed that they are generally treated as independent of their Greek origin. The Etruscan mediation plays a significant role. The rules given in teaching for using an alphabet for the sake of expressing a language (e.g. Etruscan) separate this script from its origin.47 Now, the teaching process is to be understood in a cultural dimension, so that the rules of usage can refer to many levels, depending on how and to what degree writing is important in a specific cultural environment.48 These thoughts are also valid, more or less, for defining at once the boundaries of the cuneiform applications (cuneiform written languages) and their common ‘meta-rules’ (cuneiform notational system). Prosdocimi 1990, p. 160:

«Nell’alfabeto umbro ci sono due grafi caratterizzanti, e ciò è la sphragis di umbricità; ma l’alfabeto, anzi gli alfabeti umbri seguono pari pari le evoluzioni dei contigui alfabeti etruschi, così da dover pensare a comuni scuole scrittorie, fondamentalmente etrusche, con regole suppletive per notare l’umbro: si ritorna al concetto centrale di scrittura come ‘scuola’ di scrittura.»

This system may be tentatively schematized separating the

concepts ‘notational system’, ‘script’ and ‘written language’. A notational system gathers meta-rules from which different applications can be derived. A script may be such an appli-cation, making a notational system able to express a language conventionally and totally. In this sense I would tend to speak of

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one cuneiform ‘notational system’, but different cuneiform scripts that embody different languages as written languages.

This, I think, can also explain some ambivalence in the definition of scripts in the Unicode encoding. Different scripts are closer, while others are more remote applications of an original notational system. In the story of the different applications new notational systems may arise from older ones. Especially when shapes and rules simultaneously convey definitions of socio-cultural identity.

In the light of what is proposed here, English and Italian, for example, may be considered different scripts. English ‘home’ and Italian ‘chele’ show an astonishing diversity of rules.49 The different articulatory instruction of ‘h’ is the least interesting. Much more important is the usage of the final ‘e’ that in English marks the preceding ‘o’ as long, thus attesting a determinative that operates backwards and crosses other notational units. This makes clear that the rules of the two systems may have developed from a common origin, but currently show a great gap.

I conclude with a graphic representation of the concept of ‘script’ as the interface level between notational system50 and language in the formation of a written language.

NOTATIONAL SYSTEM

(META -RULES) Shapes potential values

↓↓↓↓

LANGUAGE →→→→

(RULES)

SCRIPT (INTERFACE LEVEL )

Shapes Values

⇒⇒⇒⇒ WRITTEN LANGUAGE

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5. The ‘Unicode’ opportunity

This paper tried to describe some interesting ambiguities in the encoding of Unicode and took the occasion to offer a simple model for the relationship of concepts such as ‘notational system’, ‘script’ and ‘written language’. There are also at least two practical results.

1. Unicode strongly reveals much of the typical alphabetocentrical prejudices,51 but it gives an unrivaled opportunity for scholars to regain the use of the traditional scripts, provided that there is a consensus on a normalized script.

2. The process of the assignment of unique code points can be understood as a collection of unique IDs for computational research.

∗ A. The fonts used in the table T1 and T2 are taken from: 1. “Ancient Semitic Scripts”, culmus.sourceforge.net/ancient/index.html

2. zhmono.sourceforge.net/ (zhmono.otf);

3. www.alanwood.net/unicode/fonts-middle-eastern.html#zavesta (zavesta.ttf);

4. Unicode Fonts for Ancient Scripts, users.teilar.gr/~g1951d/ (aegean.ttf);

5. Unicode Cuneiform Fonts, Sylvie Vanséveren, www.hethport.uni-wuerzburg.de/cuneifont/ ;

6. Cuneiform fonts for TeX/LaTeX/PDFLaTeX Karel Piska, www-hep2.fzu.cz/~piska/cuneiform.html.

B. Scans in T2 are taken from: 1. Archaic cuneiform, Labat 1948;

2. Hurrian, Dietrich/Mayer 2010;

3. Elamite, Steve 1992.

1 I wish to thank the editors of this volume for granting me

the occasion of remembering Günter Neumann. O. Carruba ‘sent’ me to Würzburg in 2002 when I could spend some days with G. Neumann

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discussing about Sidetic, Carian, Luvian and other micrasiatic languages and scripts. Once I reached his home, he was waiting for me at the door and as he saw that, unexpectedly, my friend A. Intilia was also approaching, he did not greet us. He turned inwards and smiling said to his wife: «eine Tasse mehr». Many thanks to G. Müller, C. Mora, P. Cotticelli, O. Carruba. Charles Steitler was so nice to help me with English. I hope this paper will not disappoint them too much.

2 www.unicode.org/glossary/ [25mar2012]. 3 Written language: a simplified functional metalanguage.

This definition is taken from M. Barbera’s online Introduzione alla linguistica generale, www.bmanuel.org/corling/corling_idx.html, cap. 1.6.

4 Which is actually a rather complicated issue. The Sumerian written language of the Sumerians (III mill. B.C.) may actually be considered as independent from the Sumerian written language of the Assyrians and the Babylonians (I mill. B.C.). This problem cannot be treated here.

5 The advantage of ISO-8859-x was to give for each written language a standard coded character set.

6 Ancient Semitic Scripts. culmus.sourceforge.net/ancient/ index.html.

7 I am citing from the ‘readme.txt’ file included in the font package [3/2012].

8 Intermediate passages and mediation are not relevant here. 9 For all: Wallace 2007, p. 6. 10 Unicode Technical Committee. 11 Little 2011, p. 6. I am not sure I reproduced exactly the

same glyphs used in the original document, but this is not so important. The font used for the glyphs is D. J. Perry’s Cardo 1.04 (scholarfonts.net).

12 Cf., however, at least Everson - Feuerherm - Tinney 2004 and consult the website of the Initiative for Cuneiform Encoding. www.jhu.edu/digitalhammurabi/ice/ice.html.

13 Bunz 2000, p. 12. 14 Bunz 2000, p. 14. 15 E.g. Old Persian, Bunz 2000, pp. 17-18.

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16 E.g. Egyptian Hieroglyphs, Bunz 2000, pp. 20-21. 17 Bunz 2000, p. 24. 18 Bunz 2000, p. 18. 19 Not for word processors. 20 Bunz 2000, p. 25. 21 Cuneiform: 1024 code points (range: 12000-123FF) +

Cuneiform numbers and punctuation: 128 code points (range 12400-1247F).

22 Cf. supra §2.1. 23 Contrast Friedrich 1932, pp. 109-110 and Gusmani 1964,

p. 250 (Aramaic-Lydian inscription). We cannot treat here the complex and fascinating history of such a change in the transliteration methods.

24 Treaty with Šattiwaza of Mittanni, Akkadian version. 25 Klinger 2003. 26 This link needs not to be direct. The signs of a document

can be at first described for their content as ‘interpreted graphic units’, i.e. with their value in the document, and then, through concordances, being retrievable as ‘un-intepreted graphic unit’, i.e. avoiding a pre-selection of a contextual value. On interpreted vs. uninterpreted graphic units, with consequences for the computational research, see, e.g. Giusfredi - Rizza 2011.

27 Epigraphical documents, on the other hand, arise the same questions as Old Italic, Old Semitic, cuneiform, etc.

28 In this sense see already Bunz 2000. Another question is, however, as said above, the definition of a standard of unique IDs.

29 Bunz 2000, p. 7. 30 Only a simplified model is here described. Cf., for more

complex models, e.g., Robertson 2004 and the recent overview Marazzi, forth. The background from which this notes come is mainly in the line of Gelb 1963, DeFrancis 1988, Prosdocimi 1990, Daniels - Brigth 1996.

31 Or ‘gram’, alfabetogram, syllabogram, logogram. 32 Including the instruction: «do not articulate». Correspond

to the γράµµατα in Aristotle’s de interpretatione, 16a. Only a very quick reference to a grammatology of Aristotle can here be made, but it has a significant role within a project on the metalanguage of

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linguistics to which the author is linked (PRIN, Unit of the Univ. of Verona).

33 Prosdocimi 1990, pp. 170-187. 34 Aristotle’s τὰ γραφόµενα as symbols of τὰ ἐν τῇ φωνῇ,

i.e. the content of a string of φωναὶ, the symbols of the παθήµατα ἐν τῇ ψυχῇ. It may be worth remembering that some scripts tend to aggregate allophonic variations, some tend to keep them distinct.

35 ‘year’ vs. ‘they have’. ‘h’ has no phonetic realization (articulatory instruction: do not articulate).

36 ‘rib’, ‘arrow’. 37 For all: Marazzi 2010, with previous references. 38 For a reconstruction of the development of the iconology

of royal names in Hieroglyphic Anatolian in the last phase of the Hittite empire: Bolatti Guzzo 2004.

39 Cf. del Monte - Tischler 1978, p. 39, 446; del Monte 1992, p. 12.

40 SOL2 MONS2-tu MAGNUS.REX IUDEX-la. 41 SOL2 AVIS3-nú-tá MAGNUS.REX IUDEX-la. 42 For the problems Tuthalija IV had in assuring his own

descendant line, cf. Giorgieri - Mora 1996. The brother and successor of Arnuwanda III, Suppiluliuma II seems to use MONS2 in (at least one of) his seals. Marazzi 1991, fig. 26. Non vidi Herbordt 2006.

43 For a discussion about this hypothesis, cf. Giorgieri - Mora 1996, pp. 77-79, with relevant references.

44 Grounded on preceding papers. 45 Prosdocimi 1990, pp. 157-158. 46 Prosdocimi 1990, p. 158: «Di solito si focalizza la

trasmissione in un punto o punti cruciali, e cioè quando un alfabeto che nota una lingua viene impiegato con adeguamenti per notare un’altra lingua; vi è correlata la questione di quando, se e come si possa o si debba parlare di alfabeto nuovo (autonomo o simili)».

47 Prosdocimi 1990, p. 159: «Come in ogni scrittura, nell’alfabeto è fondamentale il concetto di regola d’uso, spesso sottovalutata in rapporto agli aspetti formali: un alfabeto di VII a.C. è etrusco e non greco non tanto per le forme ma per le regole d’uso che sono date nell’insegnarlo per l’uso etrusco.»

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grammatology and digital technologies

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48 Prosdocimi 1990, p. 159: «Le regole d’uso possono

attingere vari livelli e avere meccaniche di trasmissione diverse a seconda della posizione qualitativa e quantitativa della scrittura nella società: la frequenza di lettura e di scrittura può separare o annullare l’oralità della scrittura [...]». On the relation among readers/writers (production/response) cf. etiam Houston 2008.

49 Italian ‘h’ conveys here the instruction: select in ‘c’ the articulation [k] instead of [ʈʃ].

50 A notational system needs not to be restricted to recoding processes starting from (spoken) language. For a brief overview of some notational systems for non linguistic messages cf. Hill Boon 2004.

51 Cf. Perri 2009.

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MONDO EGEO

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carmine afeltra

la pittura minoica d’epoca neopalaziale aspetti iconografici,

contestualizzazione architettonica e interconnessioni nel Mediterraneo orientale

1. Introduzione

Con la ricostruzione del palazzo di Knossos e degli altri centri palaziali, a partire dal 1700 a. C., ai maggiori eventi architettonici si accompagna lo sviluppo e la diffusione della pittura attraverso delle modalità del tutto differenti rispetto alle epoche precedenti. Tale fenomeno ebbe una diffusione molto capillare coinvolgendo le decorazioni dei palazzi e di abitazioni private e semiprivate.

La pittura d’epoca neopalaziale apre a nuove prospettive mediante l’adozione di un lessico innovativo. La rappre-sentazione di scene più complesse, le quali includono paesaggi, personaggi e dettagli architettonici, corrisponde alla volontà di mostrare dei possibili programmi iconografici destinati a promuovere gli aspetti più emblematici della società minoica1.

La scoperta di numerosi frammenti pittorici nel sito di Knossos e in molti altri siti minoici cretesi, ha incrementato lo sviluppo di una serie di studi incentrati sugli aspetti tecnici, iconografici, architettonici e sulle interconnessioni con altre te-stimonianze rinvenute in alcuni siti del Mediterraneo orientale.

Le problematiche connesse con lo studio e l’indagine delle pitture minoiche spesso però risultano di difficile interpretazione e risoluzione; ciò è dovuto per lo più a una

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mondo egeo

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molteplicità di fattori dei quali cerchiamo di analizzare brevemente i punti più rilevanti.

Fin dalle prime scoperte uno dei principali problemi fu lo stato in cui vennero rinvenuti i frammenti pittorici. I successivi problemi di conservazione hanno rappresentato alcune delle principali difficoltà per uno studio più approfondito di tali testimonianze archeologiche.

Anche la questione cronologica continua a rappresentare un problema di non facile risoluzione. Molti frammenti, infatti, sebbene rinvenuti all’interno degli strati di distruzione degli edifici che decoravano, spesso non sono stati datati con precisione. Questo ci fa desumere quindi che non sempre è semplice capire se tali frammenti sono da attribuire al periodo di costruzione, o a una successiva ristrutturazione di una determinata struttura.

Sebbene gli studiosi che si sono occupati e che continuano a occuparsi di questa materia siano molti, a oggi, su alcuni aspetti, non vi è un’omogeneità bibliografica che ci consenta di affrontare la questione in modo preciso e puntuale. Fra le opere di maggior rilievo va sicuramente citata “Aegean Painting in the Bronze Age”, di Sara A. Immerwahr, che ha avuto il merito di offrire una visione d’insieme delle testimonianze pittoriche dell’area egea, combinando l’aspetto tecnico con quello storico-artistico e iconografico.

Inoltre ci sono ancora altre problematiche connesse con gli aspetti tecnici della pittura minoica dovute alla giustificata incapacità di individuare una tecnica d’esecuzione specifica. Nella fattispecie i metodi d’analisi più antichi sono ormai superati e i risultati possono essere presi in considerazione con cautela poiché spesso sono avulsi dal contesto materiale e archeologico generale.

Ciò che viene proposto di seguito è un tentativo preli-minare di inquadrare il fenomeno da più punti di vista affron-tando un’indagine che racchiude i lineamenti iconografici, ar-

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la pittura minoica d’epoca neopalaziale

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chitettonici e le interconnessioni nel Mediterraneo orientale della produzione pittorica del TM.

2. Il periodo neopalaziale e la rinascenza della pittura

minoica. I principali motivi iconografici

Nel suo volume “Tradition and Innovation, Essays in Minoan Art”, Gisela Walberg postula l’esistenza di due fattori essenziali nello sviluppo storico di una determinata forma artistica: tradizione innovazione2. Questi concetti intendono un rapporto di osmosi fra i primi esempi pittorici sviluppatisi in epoca protopalaziale e i sorprendenti risultati che invece hanno trovato ampio spazio sulle pareti di palazzi e abitazioni private in epoca neopalaziale.

Confrontando la gamma dei motivi iconografici delle fasi MM con quelli delle fasi TM notiamo che c’è una forte sproporzione in termini quantitativi a favore di quest’ultima fase. Le cause di questa disparità risiedono molto probabilmente in un modo nuovo di intendere l’arte che appare relazionata sempre di più alle funzioni cultuali, pubbliche e private degli spazi. L’innovazione, dunque, favorisce la nascita di una forma artistica ispirata all’osservazione della natura mista al sentimento religioso trasposto in arte.

A questo punto però è necessario fare una precisazione. Se infatti per quanto riguarda i motivi naturalistici abbiamo dei riferimenti più o meno rintracciabili nella realtà, per ciò che riguarda l’aspetto religioso ci sono delle problematiche che ancora non sono state risolte. È possibile individuare una o più divinità all’interno delle immagini processionali? Si può parlare di una figura centrale attorno alla quale ruotavano tali atti processionali? Sebbene i tentativi di fornire una spiegazione a tali quesiti siano stati molti3 non possiamo individuare con pre-cisione le divinità – se di divinità si tratta – presenti in queste scene4.

Tentando di stilare una mappa di alcuni fra i motivi iconografici più significativi possiamo partire individuando tre

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categorie principali:

- Scene di natura, paesistiche e d’altro tipo5, senza la presenza di figure umane.

- Figure umane a scala naturale o ridotta, fra le quali inseriamo anche i rilievi in stucco.

- Affreschi miniaturistici con figure che vanno dai 6 ai 10 cm ca. d’altezza.

L’originalità della pittura minoica può essere individuata

proprio nelle raffigurazioni delle figure umane (a miniatura o scala maggiore) che costituiscono un elemento di novità nell’ambito della pittura egea, raggiungendo, attraverso le figurazioni miniaturistiche (fig. 1), livelli molto alti.

Tali rappresentazioni costituiscono inoltre una fonte molto preziosa per l’identificazione dei motivi iconografici poiché spesso fermano, in una sola scena, diversi dettagli della società minoica circa gli aspetti pubblici e privati. Ciò avviene attraverso la presentazione di un gran numero di personaggi; è il caso delle folle nelle quali si notano, per esempio dettagli come abiti, motivi vegetali ed elementi architettonici o decorativi (fig. 1).

Fin qui abbiamo visto quali possono essere le categorie semantiche della pittura minoica neopalziale, ma il discorso può definirsi completo soltanto con un’analisi più approfondita che punti all’individuazione delle singole categorie iconografiche. In particolare ho ritenuto opportuno schematizzarle in questo modo:

- Figure umane - Rappresentazioni di animali - Elementi naturalistici - Elementi decorativi tessili È un lavoro reso possibile dal sezionamento delle scene

facendo attenzione all’aspetto e all’assetto originario di queste,

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la pittura minoica d’epoca neopalaziale

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cercando di filtrare, ove possibile, i vari interventi di restauro. Di seguito cercheremo di proporre alcuni casi specifici

che si riferiscono alle categorie iconografiche sopra elencate. A differenza dagli affreschi naturalistici, i quali

conservano delle piccole tracce nell’esperienza artistica del periodo protopalaziale, la riproduzione di figure umane sembra faccia la sua comparsa soltanto in epoca neopalaziale6. Tale manifestazione è parallela all’intenso programma decorativo che investe i palazzi e le abitazioni private in questo periodo, costituendo la prima fase della pittura murale fino all’eruzione del vulcano di Thera7.

Uno degli stilemi riferibili a questa categoria è il tipico assetto processionale che appare sovente nelle testimonianze da Knossos e dagli altri siti cretesi. L’esempio di Tylissos8 è fra i più esplicativi e le ricomposizioni dei frammenti rinvenuti nell’ambiente 17 della Casa A (fig. 2) mostrano chiaramente dei personaggi impegnati nello svolgimento di una processione. È stato possibile ricostruire la struttura generale dell’affresco, seppur in modo frammentario (fig. 3). In questo modo si è potuto definire una zona mediana con un gruppo di figure maschili, su fondo rosso scuro, che trasportano dei vasi d’argilla; nella zona superiore, invece, compare un gruppo di figure femminili che sembra accompagnare la processione il cui fulcro è posizionato nella zona mediana. In effetti se analizziamo e confrontiamo le molteplici scene processionali presenti sui frammenti pittorici di alcuni siti minoici, ci accorgiamo che c’è un linguaggio artistico comune. I personaggi, difatti, rispondono a una ripetitività incentrata intorno alla scena principale che è il fulcro e, allo stesso tempo, il punto d’arrivo del corteo. Abbiamo così delle figure stanti, dipinte nel momento in cui avanzano, caratterizzate in modo particolare dagli oggetti che recano fra le mani. Per quanto riguarda questo particolare tipo iconografico abbiamo più possibilità di confronto poiché tali rappresentazioni, durante il

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Bronzo Tardo, erano molto diffuse in area egea9. C’è un altro dato che mette in relazione molte rappresentazioni processionali in quest’area e riguarda il sesso dei partecipanti. Si è notato infatti che in molti casi la presenza di figure femminili è maggiore rispetto a quelle maschili; come infatti afferma Blakolmer10, il ruolo delle donne durante tali processioni era molto importante e non era limitato al trasporto dei doni o dei paraphernalia, ma è da considerarsi fondamentale per lo svolgimento delle azioni rituali e liturgiche11.

La presenza di figure animali risulta importante per decifrare il significato delle rappresentazioni e i dati in nostro possesso ci consentono di suddividere queste figure in due gruppi. Il primo racchiude essenzialmente i volatili, mentre il secondo animali impiegati, nella gran parte dei casi, nel corso di azioni rituali.

Il Caravanserai di Knossos ospitava una delle rappre-sentazioni faunistiche più vivide. In questa struttura a sud del palazzo di Knossos originariamente vi era un lungo fregio che correva sulle tre pareti del cosiddetto padiglione principale (fig. 4) 12. Il tema del fregio è costituito da una serie di uccelli riconosciuti come pernici e upupa, disposti per gruppi – ne sono stati individuati tre – immersi in un vivace sfondo naturalistico.

I frammenti mostrano una resa dei dettagli molto accurata per quanto riguarda il piumaggio e i particolari anatomici. Un paragone può essere istituito con quelli provenienti dalla Casa degli Affreschi con la differenza, però, che questi ultimi sono stati dipinti mentre subivano un attacco da parte di alcune scimmie13.

Al secondo gruppo appartengono invece le scene con tori (fig. 5). In questo caso il primo dato da analizzare è rappresentato dal fatto che i frammenti di pittura murale con rappresentazione di questi animali sono stati ritrovati a Creta, soltanto nel Palazzo di Knossos14.

Il toro era considerato un animale sacro presso i minoici e

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le sue rappresentazioni, spesso insieme alle figure umane, ci sono pervenute soltanto in scene a carattere liturgico e rituale15. La splendida testa di toro rappresentata sulle pareti dell’entrata nord del Palazzo di Knossos e la testa in steatite rinvenuta nel Piccolo Palazzo sempre a Knossos, costituiscono due singolari testimonianze del significato che assunse questo animale nell’ insediamento di Knossos nel II millennio a. C.16.

La resa degli elementi naturalistici copre la parte più corposa della nostra mappa dei motivi icnografici e nella letteratura archeologica il problema è stato affrontato da diversi punti d’indagine. I più caratterizzanti affrontano la questione analizzando la corrispondenza fra le rappresentazioni pittoriche e la realtà. Da un lato abbiamo una fedele riproduzione delle specie che potevano realmente esistere in epoca minoica, dall’altro una sovrapposizione di convenzioni formali e di motivi astratti, che si è andata sviluppando sempre con maggiore insistenza. Nel primo caso quindi possiamo parlare di uno stile “naturalistico”17, mentre nel secondo caso di un’elaborazione delle immagini più pittorializzata18 e stilizzata.

L’analisi di questa categoria iconografica segue la classificazione per specie vegetali19, qui descriviamo due fra le specie maggiormente rappresentate nella pittura neopalaziale: i fiori di croco20, le cui raffigurazioni più significative provengono dalla Casa degli Affreschi a Knossos e dal Vano 14 della Villa di Haghia Triada, e i gigli.

L’ampia diffusione dell’iconografia del croco è da attribuire al suo uso cultuale, alle proprietà terapeutiche che esso possedeva e forse anche al fatto che era una fonte utilizzata per la produzione (dallo stamio) di un pigmento giallo21. Nella classica iconografia minoica esso è rappresentato con tre petali dai quali spuntano gli stami (fig. 6).

Il cosiddetto Crocus Panel ritrovato nella Casa degli Affreschi e identificato da Evans22, mostra una serie di ciuffetti di fiori di croco adagiati su uno sfondo arancione. In questa

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scena la resa dei fiori è stata ottenuta attraverso un processo di stilizzazione che risponde ai presupposti teorici dei quali abbiamo accennato precedentemente. Tale resa è stata poi ripetuta in tutti i ciuffetti presenti nel pannello.

La rappresentazione dei fiori di giglio appare più fedele alla realtà rispetto all’esempio dei croci. Quantitativamente abbiamo un numero minore di scene con questa specie e, a Creta23, una delle testimonianze più rilevanti è l’affresco proveniente dalla Villa di Amnissos (fig. 7). Alcuni studiosi identificano questi gigli con la specie del “Madonna lily”, Lilium candidum24, caratteristico per il colore bianco dei suoi boccioli. I frammenti pittorici di Amnissos in effetti seguono questa classificazione per molti elementi, a cominciare dal colore che viene rispettato con l’uso di un pigmento bianco; anche la forma è fedele alla realtà con uno stelo longilineo e la classica struttura “a tromba” della specie Lilium candidum. Unica eccezione è la rappresentazione dei petali che sembrano maggiormente avvicinabili ad un’altra specie, quella del Lilium chalcedonicum25. Abbiamo quindi degli elementi di ibridazione nelle raffigurazioni di questa specie e alcuni studiosi hanno interpretato questo dato come il risultato di un metodo volto, come già detto, a un uso dei colori che tenesse conto non solo dell’elemento reale, ma anche del rapporto del soggetto con lo sfondo26.

Come ultima categoria esaminiamo alcuni particolari decorativi, quelli tessili, che trovano nella pittura murale e in modo diverso sulla ceramica, il loro unico riflesso. In generale per il Bronzo Antico cretese non abbiamo testimonianze dirette di indumenti e quindi ci possiamo basare soltanto sugli affreschi, sulle statuine e sui sigilli per comprendere quali fossero le trame decorative27.

È evidente che, in pittura, il loro completo sviluppo è da ascrivere all’epoca neopalaziale, contemporaneamente all’incre-mento della produzione pittorica murale. Non mancano tuttavia

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la pittura minoica d’epoca neopalaziale

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delle testimonianze riferibili all’epoca dei primi palazzi, legate però alle decorazioni vascolari in stile Kamares28.

Una delle caratteristiche principali delle decorazioni con motivi tessili è la ripetitività dei motivi. È probabile che le superfici degli indumenti venissero campite con l’aiuto di una griglia.

Lo studio attento di queste decorazioni ha permesso di formulare alcune distinzioni e suddivisioni di carattere generale.

Fra le categorizzazioni dei motivi tessili più diffusi proponiamo quella elaborata da A. Marcar29:

- Motivi semplici e comuni ripetuti in piccole aree dei vestiti (bande e orli).

- Motivi geometrici usati come ornamenti principali e ripetuti al fine di creare una trama decorativa su una porzione più ampia.

- Motivi maggiormente elaborati per ottenere combina-zioni più complesse.

- Motivi simbolici che possono essere individuati anche su altri supporti.

Un’osservazione interessante può essere fatta riguardo ai

contesti iconografici in cui compaiono questi vestiti. L’ambientazione liturgica sembra fosse l’occasione principale e, ancora una volta, vediamo che la matrice sacra assume un ruolo preponderante per l’ispirazione di gran parte delle pitture minoiche. La porzione maggiore di motivi tessili è stata identificata sui resti pittorici dal palazzo di Knossos, ma interessanti scoperte provengono anche dai contesti di Tylissos e Pseira30.

A Knossos le trame decorative si leggono chiaramente sugli abiti di alcune figure femminili. Una delle scene più note è il pannello delle cosiddette Ladies in blu (fig. 8). L’indumento in questione è la giacchetta che caratterizza molte scene con la presenza di figure femminili. Questo tipo d’indumento mostra

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mondo egeo

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quasi sempre lo stesso stile di suddivisione in due o più aree: una principale costituita dalla manica e un’altra rappresentata dagli orli solitamente campiti in maniera differente.

Per quanto riguarda le maniche delle Ladies in blu possiamo individuare un motivo a squame inserite a loro volta in un fitto reticolo di linee. Per gli orli, invece, abbiamo un duplice motivo: nella parte rivolta verso i seni, c’è un motivo a zig-zag e nella parte opposta un motivo spiraliforme.

3. La contestualizzazione architettonica delle decorazioni

parietali

Il rapporto pittura – architettura, relazionato soprattutto alle nuove testimonianze architettoniche d’epoca neopalaziale, acquisisce un nuovo significato mostrando una connessione più stretta fra la decorazione murale e il contesto architettonico31.

Il trattamento delle superfici murarie è il risultato di una lunga tradizione di studi ed elaborazioni di modelli architettonici, fortemente consolidata e conosciuta dagli “architetti” e dagli artisti-artigiani minoici. Tali modelli costituivano delle vere e proprie linee guida che aiutavano i costruttori, e coloro che provvedevano alle decorazioni, a trovare le giuste soluzioni per le problematiche che potevano presentarsi a seconda dei casi32. Questo trattamento era parte dei modelli insieme, per esempio, all’elaborazione del sistema d’entrata e della distribuzione degli ambienti. Le stanze che dovevano essere dipinte erano identificate già dai primi momenti della costruzione di un edificio e la loro funzione era definitivamente rinsaldata dalla stesura delle pitture. Anche in questo caso però ci sono molte difficoltà per una contestualizzazione delle testimonianze pittoriche che possa risultare attendibile. Nella maggior parte dei siti, infatti, la conservazione degli ambienti non è mai intera, fatta eccezione per alcuni ambienti ad Amnissos e Haghia Triada emerge che è alquanto complesso restituire la collocazione originaria delle

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la pittura minoica d’epoca neopalaziale

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pitture. Differente è invece il caso di Thera che presenta un eccezionale grado di conservazione; proprio il confronto con Akrotiri ha aiutato gli studiosi a formulare delle ipotesi sulla contestualizzazione architettonica e sulla ricostruzione dei sistemi decorativi negli ambienti di palazzi, ville e case minoiche.

Alla luce di quanto affermato è evidente che la chiave d’interpretazione del fenomeno pittorico consiste quindi nel rapporto con l’unità parietale considerata nelle sue molteplici componenti (porte, finestre, nicchie, architravi) 33. Il pittore in questo caso non poteva trascurare tali fattori che in parte lo lasciavano comunque libero di adottare le soluzioni giunte fino a noi34.

La parete poteva essere suddivisa così in ulteriori unità decorative e il compito della decorazione era proprio di sottolineare o ignorare tali unità. Questo lavoro era fatto considerando altri due fattori: la disposizione sullo stesso piano delle figure e dei temi di uno stesso motivo iconografico e il mantenimento di un tema omogeneo seguendo un piano orizzontale.

In questo senso solo dagli anni ’70 si è affrontato il rapporto tra i decori e l’ambiente architettonico, con un ritardo dovuto presumibilmente al carattere frammentario dei reperti pittorici pervenutici. Cameron fu il primo ad affrontare la questione e riuscì a distinguere a Creta tre diversi sistemi decorativi35. Un primo metodo prevedeva la stesura di una scena “a parete intera”. Tale scena poteva essere delimitata, in alto e in basso, da una cornice e da uno zoccolo. Un secondo standard prevedeva invece l’elaborazione di una o più scene che correvano ad altezza d’uomo e, infine, fra gli espedienti decorativi più diffusi, vi era la stesura di un fregio alto 30-40 cm. ca. che si sviluppava nella parte più alta della parete, fra l’architrave e il soffitto36. I presupposti teorici di questa ripartizione hanno trovato numerosi riscontri con le evidenze

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archeologiche e osservando così tali testimonianze, affidandoci anche a quelle più integre provenienti da Thera, possiamo definire alcuni standard strutturali che rientrano nel rapporto pittura-architettura. Uno di questi è rappresentato dall’illu-sorietà di alcune decorazioni in rapporto alla sottostruttura architettonica. La simulazione degli elementi architettonici è infatti una delle pratiche più antiche della decorazione parietale e lo scopo principale era di imitare materiali e tecniche per accrescere l’effetto architettonico e “prospettico” degli am-bienti. Tutti gli elementi erano rappresentati in scala rispetto alla struttura cui appartenevano e spesso fungevano da contorno di una determinata scena dipinta37. Affronteremo qui il pro-blema analizzando i maggiori costituenti architettonici relazio-nabili alle decorazioni38:

- Le bande - I fregi - Il dado Le bande decorative orizzontali per esempio hanno una

lunga tradizione nello scenario della pittura egea. Spesso sono costituite da una fascia che può essere monocroma o decorata con più motivi, conferendo all’intero apparato decorativo una maggiore razionalità e omogeneità. Questa particolare forma decorativa oltre ad avere uno scopo ornamentale era anche funzionale visto il suo impiego come copertura pittorica delle architravi.

La decorazione a fregio di solito proponeva un unico motivo ripetuto più volte il quale assumeva così una funzione prevalentemente decorativa richiamando il tema portante dell’ambiente nel quale era inserito.

Il dado, o zoccolo, rappresenta l’espediente decorativo più incisivo rispetto alla simulazione degli elementi architettonici. Già a partire dall’epoca protopalaziale era adope-rato per imitare le venature dei materiali da costruzione più

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pregiati e dal MM III diventa un vero e proprio clichet decorativo, reso attraverso l’elaborazione di pannelli che riproducevano lastre di gesso o alabastro39.

Nella Casa degli affreschi a Knossos, in un contesto databile al LM IA, il discreto stato di conservazione di una porzione di decorazione parietale ha permesso di osservare il trattamento architettonico e la decorazione della parete (fig. 9): osservandola dal basso, notiamo la presenza di un dado nero seguito da tre corsi intervallati da bande rosse che imitano la muratura, poi un’altra banda gialla a imitazione di una trave con venature e, infine, ancora una banda bianca a venature nere a imitazione di una pietra tagliata.

Per fornire una visione abbastanza completa del fenomeno è opportuno accennare anche a un altro aspetto della decorazione degli ambienti: i piani pavimentali.

La decorazione pavimentale a carattere pittorico fu una caratteristica dell’epoca protopalaziale, ma nell’epoca dei nuovi palazzi lasciò il posto all’uso di lastre di vari materiali (alabastro, scisto blu, steatite, ardesia) usate per la realizzazione della pavimentazione delle stanze più importanti40. Gli ambienti di minore rilevanza come i magazzini, le stanze di servizio o di passaggio, erano decorati con motivi e materiali più comuni41. Anche in questo caso dunque le decorazioni erano strettamente legate alle funzioni degli ambienti, rafforzando l’idea di un rapporto molto stretto con l’architettura.

L’analisi stilata fino a questo punto fa emergere il rigore e l’organizzazione con cui la sintesi pittura-architettura era concepita.

Alcuni studiosi hanno ritenuto opportuno fornire maggiori spiegazioni adottando dei modelli geometrici. È il caso di Palyvou42, secondo il quale la pittura egea in generale e quella cretese, risponderebbero a dei severi criteri di organizza-zione e suddivisione della parete e dell’intero ambiente. Tale suddivisione era ottenuta mediante un sistema di griglie, verifi-

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cato anche per l’epoca dei primi palazzi, che permetteva di ripartire le pareti e i piani pavimentali secondo criteri geometrici ai quali si potevano poi facilmente applicare gli schemi decorativi di cui abbiamo parlato.

I dati presi in considerazione ci consentono quindi di parlare di vere e proprie convenzioni artistiche attraverso le quali la parete era suddivisa in unità funzionali a seconda dei diversi tipi di decorazioni. Non dobbiamo dimenticare però che questa organizzazione va messa in stretto rapporto allo sviluppo architettonico d’epoca neopalaziale dei vari ambienti, per i quali la pittura divenne un’utilissima sovrastruttura di complemento.

4. La produzione pittorica come “merce di scambio”. Interconnessioni nel Mediterraneo orientale

Le scoperte archeologiche hanno dimostrato come, a partire già dal III millennio a. C., i contatti fra diverse aree del bacino orientale del Mediterraneo si intensificarono. In questo contesto dobbiamo focalizzare la nostra attenzione soprattutto su un’economia basata su scambi, a breve e lungo raggio, di materia prime, ma anche di prodotti artistici con un forte valore simbolico e ideologico43. Questi prodotti entravano nel tessuto sociale di una determinata popolazione contribuendo alla creazione di un linguaggio, nel nostro caso artistico, comune. Il quadro generale di questa situazione è identificabile attraverso una serie di evidenze delle quali possiamo tracciare i contorni seguendo le linee analitiche proposte da A. Bernard Knapp44:

- Alcuni frammenti di affreschi mostrano una vegeta-zione che può essere riferibile a diverse aree del Mediterraneo.

- La pratica di alcuni reggenti degli stati vicinorientali di inviare i propri figli o i loro eredi presso la corte amarniana in Egitto45.

- Numerosi frammenti pittorici rinvenuti presso il palazzo di Tell el-Dabca in Egitto presentano molte affinità con i temi minoici e cicladici.

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Questi sono solo alcuni dei numerosi aspetti che hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo dei contatti in quest’area del Mediterraneo, ma costituiscono utili coordinate per esaminare una fitta rete di rapporti imbastita proprio intorno al fenomeno pittorico.

I grandi centri abitati e i palazzi di questo periodo sono dei nuclei di trasmissione e di scambi e quasi sicuramente essi permisero la diffusione, insieme agli oggetti d’uso più comune, dei “prodotti iconografici”.

La pittura, come una delle maggiori espressioni artistiche fu infatti veicolo di precisi messaggi da parte dei reggenti ed era rivolta alle popolazioni e a chiunque si trovava ad osservarli sulle strutture architettoniche.

Gli scambi in genere presuppongono un grado di mobilità che spinge i detentori di una determinata tecnica, o di un pro-dotto, a spostarsi ed esportare le proprie conoscenze insieme ai manufatti46. In questo discorso dobbiamo inserire anche la pro-duzione pittorica la quale oltrepassò le esperienze regiona-listiche proprio grazie alla mobilità degli artisti-artigiani.

La circolazione interregionale dei pittori ha contribuito alla creazione di un linguaggio comune, o di una koinè47, non privo però di tendenze locali attraverso le quali l’iconografia fu espressione delle esigenze propagandistiche, religiose, culturali e sociali. Uno degli effetti che si manifestò fu lo sviluppo di alcune divergenze espressive fra i palazzi cretesi, gli insedia-menti cicladici e i centri vicinorientali.

Tuttavia appare sorprendente vedere come in questa fase vi sia un incremento dei temi iconografici che sono facilmente assimilati e standardizzati, conservando i propri caratteri “sovranazionali”. Questi scambi sono rintracciabili per esempio fra Creta e l’Egitto, una delle reti più fitte in cui uomini e merci costituirono il trait d’union principale 48.

Alcuni temi, si osservino le figure che portano dei doni, rappresentano una chiara influenza dell’arte egiziana su quella

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minoica. In Egitto, infatti, tale tema è attestato già a partire dall’Antico Regno.

Ma qual è il quadro geografico generale di riferimento? La costruzione dei secondi palazzi ha incrementato la

produzione artistica e gli scambi con gli altri siti dell’egeo e del vicinoriente. Creta si inserì a pieno titolo nella circolazione delle merci e di prodotti “non materiali” come l’iconografia e le tecniche pittoriche.

Al suo apice, nel LM IA49, la produzione pittorica murale si diffuse nelle Cicladi (Akrotiri a Thera, Phylakopi a Milo e Ayia Irini a Kea), sulle isole del Dodecaneso (Ialysos/Trianda a Rodi, Serraglio a Kos), nell’area sud-est dell’Asia Minore (Mileto), probabilmente nella Grecia continentale sotto l’influ-enza micenea, nell’area siro - palestinese e in Egitto.

La situazione che si è delineata fin qui è inquadrabile in un network di scambi50, segnato da diversi confini, in cui i contatti furono molto intensi (fig. 10).

5. Il caso di Ayia Irini

Una delle reti più importanti per lo studio comparativo della pittura è costituita dall’asse Creta-Cicladi. In particolare le isole di Thera, Kea e Milos hanno restituito prove consistenti per istituire dei paragoni con le testimonianze minoiche51. In questo studio abbiamo scelto di presentare un caso emblematico per illustrare tali analogie: l’insediamento di Ayia Irini (fig. 11). Situato sull’isola di Kea, fu abitato, con poche interruzioni, dal Bronzo Antico fino alle prime fasi del Bronzo Tardo e sviluppò una forte tendenza al commercio e agli scambi con la Grecia continentale, le Cicladi e Creta52. La cronologia del sito è segnata principalmente da una prima distruzione, dovuta probabilmente a un terremoto, nel LM IB. Un altro evento distruttivo è databile alla fine del LH III A1. I detriti riferibili alla distruzione del LM IB al momento dello scavo rivelarono, oltre alla terra, pietre da costruzione, frammenti ceramici e

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oggetti di varia natura caduti dai piani superiori e molti frammenti di intonaco dipinto. Ciò che è stato trovato probabilmente è soltanto una piccola parte degli apparati decorativi che in origine ornavano gli ambienti della cittadella di Ayia Irini durante le prime fasi del Bronzo Tardo53.

Sebbene gli affreschi di Ayia Irini presentino molte correlazioni con quelli cretesi non mancano delle differenze sostanziali.

In primo luogo le analisi di laboratorio54 condotte su alcuni campioni hanno stabilito che si tratta di pittura su calce con l’uso di pigmenti ricavati dall’ocra, come il rosso e il giallo, dal carbone, come il nero ed è accertata la presenza del blu egizio55. Furono eseguiti secondo la tecnica del buon fresco, fatta eccezione per alcune zone, dove l’esigenza di sovrapporre altri colori quando la superficie era ormai asciutta ha richiesto l’uso della tecnica a secco. Si tratta quindi di tecniche miste riscontrabili anche nella pittura minoica e della Grecia continentale.

Dai confronti con gli altri materiali rinvenuti negli stessi contesti si è potuto osservare che gli affreschi furono eseguiti con molta probabilità durante le primissime fasi del LM IB; alla fine di questo periodo subirono, insieme agli edifici, gli eventi distruttivi che sconvolsero l’intero insediamento56.

La ricomposizione e lo studio dei singoli frammenti ha permesso agli studiosi di riconoscere alcuni motivi iconografici con rappresentazioni di:

- Volatili - Delfini - Affreschi miniaturistici di varia natura In tutti e tre i casi abbiamo forti analogie con gli esempi

cretesi e la cronologia ci fornisce un dato molto utile per confrontare gli aspetti tecnici, stilistici e iconografici.

Il cosiddetto Blu Bird Fresco (Figg. 12-13) fu scoperto

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nella stanza 31 della Casa A. Il deposito nel quale si trovava la maggior parte dei frammenti pittorici era formato da terra, pietre cadute dai piani superiori, frammenti ceramici (LM IB/LH II) e vasi in pietra57. In questa scena sono stati riconosciuti alcuni uccelli, di colore blu, adagiati su un suolo sabbioso. Gli uccelli sono stati dipinti con un blu molto luminoso, con un cerchietto giallo ocra più piccolo per le pupille e uno esterno più largo, rosso, per il contorno degli occhi.

Il becco invece è composto da una forma triangolare che però è visibile soltanto in alcuni frammenti58. Per decorare il collo e il petto dei volatili sono stati usati invece piccoli puntini rossi. Lo sfondo, senza ulteriori motivi decorativi, è interamente costituito da una superficie giallo ocra.

I volatili sono dipinti in varie pose: uno ha la testa infilata fra le piume, un altro è rivolto all’indietro mentre il terzo è piegato con la testa verso il basso. Come si può vedere da alcuni frammenti furono dipinti anche degli uccelli in volo59.

La parte superiore della composizione è formata da una banda principale blu e da una più stretta bianca; sono separate dallo sfondo giallo e da linee impresse nell’intonaco. La porzione inferiore invece è caratterizzata soltanto dalla sabbia60, dipinta con una serie di puntini rossi su sfondo neutro, senza alcuna linea di demarcazione o banda. Sui frammenti che si sono conservati, sono stati riconosciuti circa 17 volatili ai quali corrispondono però solo sedici teste61.

Questo fregio presenta alcune analogie con delle scene provenienti da Creta. La più immediata è con la composizione della Stanza E della Casa degli Affreschi e con il fregio dell’upupa e delle pernici dal Caravanserai a Knossos (fig. 4). Ci sono però anche alcune differenze che riguardano essenzialmente l’uso diverso dei colori dei dettagli e il fatto che per gli esempi minoici abbiamo una ricca presenza di elementi naturalistici posti sullo sfondo, mentre ciò ad Ayia Irini non

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avviene. L’unica indicazione paesaggistica è fornita infatti dalla sabbia.

Un’altra serie di piccoli frammenti, in quantità minore rispetto al Blu Bird Fresco, fu rinvenuta nella stanza VII della Casa J (fig. 11).

Furono recuperati sul piano pavimentale dell’ambiente insieme a della ceramica databile al LM IB / LH II62. La scena è composta da una serie di delfini, oggi possiamo osservarne soltanto sei esemplari, che nuotano verso destra (fig. 14). I colori usati per dipingere questi mammiferi sono il blu, il giallo ocra e il rosso; ogni delfino è caratterizzato da una fascia, posta lungo il fianco, di colore differente rispetto al corpo. Questo particolare richiama quello più noto dell’affresco dei delfini proveniente dal Megaron della Regina a Knossos (fig. 15). In quest’ultimo caso però la striscia era curvilinea rispetto alla maggiore geometricità dell’esempio di Kea.

Sicuramente il motivo iconografico e lo stile riflettono l’esempio di Knossos. L’affresco di Ayia Irini, però, sembra avere dei lineamenti più plastici e naturalistici; questa ipotesi è suggerita soprattutto dalla disposizione e dal movimento dei delfini leggibili sui frammenti superstiti.

Una delle scoperte più importanti, ugualmente utile per un confronto con la pittura minoica, è stata fatta nell’area del Bastione nord-est. Qui infatti furono scoperti dei frammenti di affreschi miniaturistici con scene di facciate architettoniche (fig. 16), figure di personaggi maschili e femminili, cervi, cani e cavalli. Probabilmente appartenevano a un’unica composizione che ritraeva uno scorcio collinare di una cittadella63. Le figure umane, cinquanta uomini e sei donne circa, ricalcano lo stile classico delle rappresentazioni miniaturistiche minoiche. Gli uomini (fig. 17a) sono stati dipinti con la caratteristica carnagione rossa, ma hanno dei tratti somatici molto diversi da quelli dei personaggi minoici: il profilo è più marcato e il naso e il mento appaiono molto più pronunciati. Le donne invece

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hanno dei profili più sinuosi e acconciature più elaborate. Non ci sono figure intere e tutti i personaggi sono dipinti su uno sfondo con tonalità fra il marrone e il rossiccio. Alcuni personaggi recano fra le mani dei doni (fig. 17b) ed è probabile che fosse stato riprodotto un contesto processionale sacro. A corroborare questa ipotesi vi è anche la particolare gestualità di una figura che porta le mani sul viso atteggiandosi nella tipica posizione minoica (canto sacro ?).

Sembra chiaro che il contesto cicladico di Kea offre delle caratteristiche riconducibili a dei workshop locali dei quali K. Abramovitz64 ha illustrato le linee essenziali:

• Forme e contesti semplificati. • Nessun elemento decorativo per gli sfondi. • Eliminazione dei dettagli naturalistici di contorno. • Riduzione delle stilizzazioni delle forme. Tenendo in considerazione questi punti possiamo con-

cludere affermando che le testimonianze di Ayia Irini ci aiutano a comprendere la tradizione artistica cicladica nei suoi aspetti basilari e soprattutto nella sua pertinenza rispetto al contesto geografico in cui si è sviluppata. Dobbiamo sicuramente am-mettere un’influenza minoica rispetto ai temi e alle iconografie, che in ogni caso non spiega da sola la stupenda e affascinante fioritura delle pitture in questo e in altri contesti cicladici du-rante il Bronzo Tardo.

6. Conclusioni

Lo studio della produzione pittorica minoica in epoca neopalaziale s’inserisce in quel filone d’indagine volto a una conoscenza sempre maggiore del Bronzo Tardo nel Mediterraneo orientale. Gli approcci, non sempre scientificamente corretti, delle prime fasi di scavo, hanno spinto gli studiosi a numerose revisioni di alcune testimonianze. Nel corso degli anni questo

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settore è diventato sempre più multidisciplinare e i tentativi di analizzarlo da più punti di vista hanno dato e continuano a dare i loro frutti.

Abbiamo visto come l’analisi iconografica, da sola, non esaurisca le problematiche connesse con questo fenomeno. Sol-tanto con la contestualizzazione delle singole evidenze è possi-bile sciogliere i molti quesiti che ancora non hanno una risposta.

In questo contributo l’attenzione è stata posta anche sulla contestualizzazione architettonica e delle interconnessioni; nel primo caso si è potuto vedere che questa manifestazione arti-stica può essere compresa a pieno solo se relazionata alle strutture – che purtroppo mancano in gran parte – per le quali era stato concepito questo nuovo metodo decorativo.

Nel caso delle interconnessioni, invece, risulta viepiù utile inquadrare le testimonianze pittoriche in un’ottica regio-nale, interregionale e sovranazionale.

L’implementazione delle tecniche, del patrimonio icono-grafico e delle cognizioni architettoniche fu possibile, infatti, solo grazie all’intensa mobilità di uomini e merci che, durante il Bronzo Tardo, raggiunse uno dei picchi più alti.

I riferimenti e le analogie con la produzione pittorica cretese possono essere molti, ma soltanto con un’analisi comparativa molto più capillare si possono ricomporre preziosi tasselli per una definizione più ampia e articolata della pittura egea.

1 Poursat 2008, p. 176. 2 Cf. Walberg 1986, p. 1. 3 Cf. Cameron 1987; Immerwahr 1983; Blakolmer 2008 . 4 Il problema dell’individuazione delle divinità nell’ico-

nografia egea è molto complesso. Tale questione è stata affrontata recentemente, in modo più preciso e sistematico, in Blakomer 2009, pp. 21-61.

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5 La scelta di inserire anche la dicitura “d’altro tipo” è dettata

dalla necessità di analizzare tutti quei frammenti con decorazioni architettoniche o con

motivi che fungevano da cornici per le scene principali. 6 Immerwahr 1990, p. 50. 7 Cf. Immerwahr 1990, p. 50. 8 Cf. Shaw 1972, pp. 171-188. 9 Cf. Blakolmer 2008, Pl. LIII. 3-6, Pl. LIV. 7-9. 10Cf. Blakolmer 2008, pp. 260-261: “The presence of women

involved in Aegean procession scenes suggests already per se that they were certainly not simple ‘professional’ carriers of cargo, but their selection was based on their gender for symbolic and ritual reasons.” Sulla stessa linea cf. anche Marinatos 1989, p. 37: “Although the procession included some women, it is the men who carried objects, if we judge from the surviving fragments.”

11 Se infatti vediamo alcune ricostruzioni fatte da Evans notiamo che nelle pitture del Corridoio delle Processioni a Knossos la donna è posta al centro del corte processionale, cf Evans, PM II, p. 719, Fig. 450. Per un confronto con le altre popolazioni del bacino orientale del Mediterraneo circa il ruolo delle donne, vd. anche Marinatos 1989.

12 Il fregio fu restaurato grazie all’operato di È. Gillieron il quale fu presente fin dal primo momento della scoperta. Fu possibile così restaurare il fregio per una lunghezza di 2,85 m ricostruendo tre distinti gruppi di animali.

13 Evely 1999, p. 110. 14 Scene con rappresentazioni di tori sono presenti anche sul

lato B del sarcofago di Haghia Triada e su alcuni sarcofagi da Armenoi.

15 Evely 1999, p. 107. 16 Cf. Catalogo della mostra The Bull in the Mediterranean

World (Mythes and Cult). 17 Le teorie basate soprattutto sui concetti di “naturalismo” ed

“essenzialismo” nella pittura minoica sono espresse in Warren 2000, pp. 364-380.

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18 Warren 2000, pp. 364-5. 19 Bisogna dire che l’identificazione della varie specie risulta

alquanto problematica. Le rappresentazioni vegetali nell’arte minoica sono numerose e per una panoramica generale delle specie più rappresentate vd. Cerceau 1985 e Morgan 1988.

20 Per un ulteriore confronto delle rappresentazioni pittoriche minoiche con la flora mediterranea vd. Schönfelder and Schönfelder 1996, pp. 274-5.

21 Come motivo iconografico il croco apparve già nel MM sviluppandosi soprattutto come motivo stilizzato, cf. Militello 1998, p. 268.

22 Cf. Warren 2000, p. 365; Chapin and Shaw 2006, Fig. 3; Cameron 1968, Fig. 6.

23 Per quanto concerne Thera abbiamo le rappresentazioni dei gigli rossi del cosiddetto Spring Fresco proveniente dalla Delta Room 2.

24 Warren 2000, p. 373. 25 Quest’ultima specie è stata identificata nei dipinti di Thera. 26 Cf. Warren 2000, p. 373. 27 I dettagli decorativi tessili sono stati utili anche per

stabilire alcune cronologie. In particolare M. Cameron datò l’affresco della grande processione di Knossos al periodo dell’occupazione micenea sulla base dei motivi decorativi dei vestiti, molto vicini a quelli identificati sulla ceramica decorata con lo Stile di Palazzo di questo periodo. Cf. Marcar 2004, p. 225.

28 Marcar 2004, p. 226. 29 Marcar 2004, pp. 229-230. 30 Per il sito di Pseira cf. Shaw 1998, mentre per Tylissos cf.

Shaw 1972. 31 Niemeier 1992, p.97. 32 Palyvou 2005, p. 156. 33 Militello 1998, p. 161. 34 Palyvou 2000, p. 413. 35 Militello 1998, p. 162. 36 Cf. Militello 1998, p. 162. 37 Cf. Palyvou 2005, p. 166 38 La trattazione dei “falsi elementi strutturali” è stata

affrontata negli studi di S. A. Immerwahr.

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Cf. Immerwahr 1990, pp. 141ss. ; Palyvou 2000. 39 Per quanto riguarda la trattazione di bande, fregi e zoccoli,

S. Immerwahr richiama anche i contesti continentali dei palazzi micenei, cf. Immerwahr 1990, p. 145.

40 Palyvou 2000, p. 417. 41 Hirsch 1977, pp. 7ss. 42 Palyvou 2005, pp. 159ss. 43 Knapp 1998, p. 196. 44 Cf. Knapp 1998, p. 197. 45 I figli di alcuni reggenti degli stati levantini che erano

inviati in Egitto spesso avevano il compito di rinforzare i rapporti fra i vari sovrani con matrimoni interdinastici. I membri della classe politica dirigente andavano in Egitto anche per apprendere l’arte del comando al fine di ricoprire importanti posizioni di potere una volta rientrati nel loro paese d‘origine; cf. Knapp 1998, p. 197.

46 Evans, per la prima volta, introdusse il concetto di “artista itinerante” riferendosi soprattutto alle pitture del palazzo di Knossos che presentavano forti similitudini con quelle dei palazzi di Tirinto, Micene e Orcomeno. Allo stesso modo egli credeva che l’affresco dei pesci volanti di Phylakopi fosse opera, eseguita direttamente sul posto, di un artista proveniente da Knossos, cf. Boulotis 2000, p. 847.

47 Cf. Boulotis 2000, p. 847. 48 Secondo alcuni studiosi alcune fra le evidenze più

importanti per quanto riguarda le influenze fra Creta e l’Egitto, sono rappresentate dalle pitture del Vano 14 della Villa di Haghia Triada, cf. Boulotis 2000, p. 847.

49 Boulotis 2000, p. 845. 50 I rinvenimenti di alcuni relitti di navi da spedizione come

quelle a Capo Gelidonya e Ulu Burun, sono la chiara testimonianza di una fitta rete di scambi e interconnessioni fra l’area levantina e quella egea.

51 Per una lettura più attenta dei programmi pittorici e delle possibili influenze riferite alle Cicaldi, vd. Morgan 1990.

52 Negli strati di distruzione databili al LM IB sono stati rinvenuti numerosi frammenti ceramici importati da Creta, cf. Coleman 1973, p. 284.

53 Coleman 1973, p. 284.

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54 Le analisi sono state condotte dal Conservation Center of

the Institute of Fine Arts at New York University. Cf. Coleman 1973, p. 286 nota 6.

55 Coleman 1973, p. 286. 56 Coleman 1973, p. 286. 57 Cf. Coleman 1973, p. 287. 58 Cf. Coleman 1973, p. 287, frammento No. 9. 59 Su un frammento si vede la testa di un uccello che tocca la

parte superiore della cornice del fregio. In questo caso si tratta quasi sicuramente di un uccello in volo, cf. Coleman 1973, p. 289 No. 3.

60 Coleman 1973, Pl. 54c. 61 Cf. Coleman 1973, p. 291. 62 Cf. Coleman 1973, p. 294. 63 Cf. Abramovitz 1980, p. 57. 64 Cf. Abramovitz 1980, pp. 69-70.

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284

fig. 2 - pianta dell’insediamento di Tylissos

(Driessen and Macdonald 1997)

fig. 1

Knossos,

dettaglio

dell’

affresco

miniaturistico

del

cosiddetto

Temple fresco

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la pittura minoica d’epoca neopalaziale

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fig. 3

disegno ricostruttivo

dell’affresco

miniaturistico

da Tylissos

(Shaw 1972,

fig. 13)

fig. 4

Knossos, caravanserai

ricostruzione

di una porzione

del fregio delle pernici

e degli upupa

fig. 5 - Knossos, pannello ricostruttivo

dell’affresco col salto del toro

fig. 6 - Knossos, Casa degli

Affreschi, disegno di un

frammento con rappresen-

tazione di fiori di croco

(Cameron 1968)

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fig. 8 – Knossos, L’affresco delle

Ladies in blu

fig. 7 - Amnissos, ricomposizione

dell’affresco dei fiori di giglio

fig. 9 - Knossos, Casa degli Affreschi. Elementi architettonici e decorazione di

un angolo della stanza H

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la pittura minoica d’epoca neopalaziale

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fig. 10 - mappa dell’area egea con l’individuazione dei principali network di

scambi (Berg 1999)

fig. 11 - pianta generale dell’insediamento di Ayia Irini con le indicazioni dei

principali rinvenimenti pittorici (Immerwahr 1990)

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fig. 12 - Ayia Irini,

frammento pittorico

con rappresentazione di volatile

(Coleman 1973)

fig 13

ricostruzione della

porzione centrale

dell’affresco degli uccelli

da Ayia Irini

(Coleman 1973)

fig. 14

Ayia Irini

possibile

ricostruzione

dell’affresco

dei delfini

(Coleman 1973)

fig. 15

Knossos,

Megaron

della regina,

ricostruzione

dell’affresco

dei delfini

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la pittura minoica d’epoca neopalaziale

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fig. 16

disegno

ricostruttivo di

un edificio

(facciata),

dettaglio degli

affreschi

miniaturistici

da Kea

(Morgan 1990,

Fig. 1)

a

b

figg. 17 a-b

Ayia Irini

frammenti pittorici

con rappresentazione

di figure umane.

In particolare i frr. 59

e 60 mostrano delle

figure maschili con la

bocca aperta

(cantavano?) e le

braccia alzate.

I frr. 62 e 63 mostrano

invece i dettagli dei

vestiti che erano

indossati durante le

cerimonie sacre.

L’abito del fr. no. 63

richiama un altro

vestito dipinto sul

Sarcofago di Haghia

Triada

(Abramovitz 1980)

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serena di tonto

settlement patterns in the Mesara plain during the neolithic period*

Introduction

The Mesara plain (fig. 1), in the southern part of Crete, is bounded by the Mt. Ida massif to the north and to the south by the Libyan sea and the Asterousia range, that separates the plain from the sea; besides it is delimited on the western side by the sea and on the eastern by the pass through the North of Crete1. This region represents one of the best geographically defined zone of the entire island and since the Early Minoan period has been considered an area distinct from the rest of Crete for the spreading of some distinctive elements, like the concentration of the tholos tomb type and the presence of peculiar cultural and funerary practices2. Recently the concept of region, regarded as one of the high-ranking analytic unit in the archaeological research, has been deepened by M. Relaki for the Pre-palatial period, but also for the end of the Neolithic, with great regard to the Mesara zone3.

It has been argued that the region can not be considered a priori as a distinctive socio-political unit; it has been described as the place where the communities carried out some communal practices emphasizing their belonging to a wider ‘network of relevance’. Therefore regions have to be considered not as mere geographically distinct areas, but as ‘structures of belonging’,

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defined primarily by the nature and the intensity of the interactions between the populations.

At present the data concerning the Neolithic period from the Mesara are rather scanty. Besides Phaistos, the Neolithic settlements excavated are very few, and the greater part of the data at our disposal comes from the excavations of Minoan structures, that have provided also Neolithic materials, and from the surveys carried out in this zone since the ’60.

Our knowledge of this period is, additionally, biased by the not much exhaustive publications of the greater part of these excavations.

Chronological background

The Neolithic in Crete was for sure a long and structured period. It has always been considered independent from the Greek Neolithic, because of a difference in the occupational and growing patterns and in the material culture4; for a long time, it even appeared to be exclusively functional to the comprehension of the Minoan period. For these reasons and for the scantiness of the available data and publications, Crete has gone through a long isolation period in the outline of the Aegean Neolithic, so that the island was rarely, or only marginally, mentioned in the syntheses on the Greek Neolithic.

Anyway in recent years some scholars have given a significant impulse to the study of the Neolithic period with their researches.

Since the first excavations on the island at the beginning of the XX century, Neolithic remains were identified in the settlements, that would become the most important and remarkable for the study of the Minoan Period, i.e. Knossos and Phaistos.

The stratigraphical sequence of Knossos appeared the most complete for this period. The site, on the Kephala hill in the northern part of Crete, seemed to be settled from the VII to

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settlement patterns in the mesara plain

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the IV millennium B.C. The sequence was soon fixed and subdivided in phases by Mackenzie and A. Evans, the first excavators of the site, and then adjusted by Furness and essentially corroborated by the excavation of J. Evans in the ’60-’705.

In the first occupational phase, known as Aceramic, the pottery production was not yet documented. The Neolithic period was divided on the base of the pottery in Early I, II (6500/6400-4400 BC), Middle (4500/4400-4000 BC) and Late (4000-3600 BC)6.

Afterwards A. Evans introduced the sub- Neolithic in the sequence, as a very short and transitional phase through the Early Bronze Age at Knossos7.

At Phaistos the things appeared immediately different, since there were no signs of occupation as much old as the one in Knossos; furthermore the pottery could not be compared with the pottery sequence of the northern site. In order to explain the reasons of the differences between the two sites, L. Pernier, the first Italian excavator of the Mesara site, claimed that the phaistian Neolithic has to be placed in a later part of the Neolithic period and that it went into the Protominoan (EM), that began lately and slowly in the southern part of Crete8. This assumption led to an ever-increasing isolation of the region, sharpened by D. Levi’s attempt to rewrite the chronological sequence of the Minoan Civilisation, with a great contraction of the period’s length. Levi wanted primarily overcome the idea of a delayed growth of the southern part of the island and the cnossiocentric tendency that biased all the Minoan sequences of the island. He, moreover, decided to label Chalcolithic the last phase of the phaistian Neolithic, causing a greater seclusion with the other parts of the island.

The contribution of L. Vagnetti, at this stage of the research, was fundamental. She assigned all the phaistian materials to the Final Neolithic9 and identified several sites on

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Crete, belonging to this phase and presenting materials not comparable with the Knossian one10. The recovery of some FN materials at Knossos seemed to carry new data to solve the problem11, but the mixed nature of the deposits left unresolved the question of the slower transition to the EM at Phaistos.

Only in recent times P. Tomkins has recognized the presence of a FN phase at Knossos. This phase has appeared to be very long and it has been subdivided in 5 sub-phases (FN IA and B – IV)12. It has to be notes that this new chronological sequence is not the product of the study of newly excavated materials or contexts, but of a restudy and reassessment of the materials of the J. Evans’ excavations and its recognition and definition goes to the detriment of the duration of the other phases, that have been reduced in their length and drawn back in the Neolithic sequence13.

This interesting new chronological sequence has the merit to create a stronger link between Crete and the entire Aegean, but implies also some problems, as it alters all the chronological sequences of the Cretan settlements, whose pottery has been dated so far through the comparison with the Knossian materials.

In this work it will be used the traditional sequence, with some mentions to this new chronology and to the possible problems related to its use.

The Neolithic in the Mesara plain

The western part of the Mesara plain seems to have been settled for the first time between the MN and the LN. The oldest pottery fragments were recovered during the excavation of the Minoan Villa at Kannia, near Gortyn-Mitropolis. These materials have been dated traditionally to the MN/LN, for the presence of the characteristic pottery with rippled decoration14. Following the Tomkins’ sequence they should be dted to the FN IA/B 15. In any case they are the first evidence of the occupation

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settlement patterns in the mesara plain

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of the region during the Neolithic period, and, in spite of their scantiness they witness the Mesara plain has already been visited or settled in that period.

Furthermore other sites, not more visible today, could have been settled since the MN. It’s not possible, however, to understand with certainty whether the scantiness of the oldest evidences is the product of a real limited occupation of the area or it is biased by the scarce visibility of the Neolithic sites in the plain due to the presence of alluvium deposits that have recovered the area during the EM. Watrous has claimed that this distribution patterns could be rather reliable for the presence of some Neolithic settlements on Palaeoxeralf soils that should be dated before the deposition of the alluvium. This could suggest that the oldest sites were really scanty and that their distribution pattern would not be fortuitous, but it would reflect a purposeful choice of the ancient people16.

Undoubtedly the FN is the best attested phase in the Mesara, since all the known evidences date back to this period. It’s important, nevertheless, to keep in mind the synchronic and the diachronic dimensions of the settlements, as the FN is a long – lasting period and therefore it’s not very likely that all the sites were settled simultaneously.

Although the number of the FN sites in the region is remarkable, our comprehension of the settlement dynamics is always biased by the scarcity of the remains and of the publications. The best evidences for this period come from only three excavations (Phaistos, Miamou cave, Kaloi Limenes) (fig. 2), from the Neolithic fragments retrieved by chance in Minoan excavations (Gortyn Acropolis and Mitropolis) (fig. 2), and from the surveys carried out in the last decades (Western Mesara, Kommos area, Asterousia range) (fig. 3).

Phaistos is without doubt the best investigated site of the

area, but also the longest lived and the most rich in architectural

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and cultural remains. The excavations began in 1901 thanks to F. Halbherr and L. Pernier17, and they were continued, after the Second World War, in the ’50-’60 by D. Levi in seventeen campaigns18. In recent times, V. La Rosa resumed the excavations (1994, 2000-02, 2004) in order to clarify some inconsistencies of the past excavations. The recovery of materials and structures belonging to the Neolithic period has brought new data to the research and it has allowed a resumption of the problems concerning the FN19.

The phaistian settlement presents two occupational stages datable to the FN20. These two phases are distinguishable both from the stratigraphies, as two or more superimposed levels were identified in the investigated trenches, and from the material point of view, since new pottery wares appear in the latest part of the period that represent a link with the EM production.

The architectural remains are few probably because of the levelling works on the hill for the construction of the Minoan Palace or maybe for the perishable nature of the construction materials. A lot of traces of burnt timber, identified during the excavations, could belong to wooden houses. Some hearths and beaten or small rock floors could be another indication of dwelling units.

The presence of FN materials in several trenches, opened all around the hill, proves that the settlement was quite ample, mostly in the central and western part.

In both phases the people lived on the hill and carried out numerous daily activities, related with the transformation of food (testified by querns, pestles, and animal bones), the pottery production (huge quantities of different wares pottery, fragments of rocks used as temper), the fabrication of stone and bone implements, the weaving manufacture (spindle whorls and loom weights) and maybe the manufacturing of other products, like the leather (maybe witnessed by the presence of bone

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settlement patterns in the mesara plain

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needles). The phaistian population performed also some peculiar

activities of ritual nature, testified by the recovering of several unusual vases for the consumption of drinks (bowls with wide spouts, bottles and jugs) and of large quantities of animal bones located near outdoor hearths21.

Some FN remains were found also at the foot of the hill, in the Minoan quarter of Chalara.

One of the first excavations in the area of the Mesara, and

in Crete as well, was conducted in the Grotto at Miamou, in the Asterousia range, at the end of the XIX century22. A. Taramelli, who came with F. Halbherr in those years to explore the area of Lebena, had the chance to see some entire vases recovered during the construction of a private house placed near the cave. He was permitted to do a sounding in the cave, where he detected two Neolithic levels23, characterized by remains of several cooking areas, with charcoal, burnt lenses and big quantities of animal bones, some of which worked to make tools. Inside the cave there were moreover scraps of stone manufacturing and pottery fragments, both coarse and finer. Taramelli concluded that the cave was inhabited for long time by ‘Troglodytes’, for the primitive nature of the remains, and that they moved outside only thanks to the progress of civilisation24. The Grotto at Miamou has been dated to the FN by L. Vagnetti – P. Belli and to the LN/FN by K. Manteli25.

The vestiges in this cave seem to substantiate the possibility that some human groups would exploit the pasture lands on the mountains to feed their livestock during some periods of the year. The remains of hearths, bones, pottery, tools belong in all probability to different visitations of the cave and they hint to a periodical26 rather than an uninterrupted27 occupation. Tomkins has ascribed the materials of Miamou to the EM I, but it’s more likely that the Grotto was already

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inhabited in the FN and it was used also later on. Some pottery fragments can be tightly compared with the phaistian ones28.

In recent times another Neolithic site was excavated in

the Asterousia range at Kala Selia / Kaloi Limenes29. A. Vasilakis identified this site thanks to an exploration of the area that allowed identifying pottery fragments, together with stone tools, near the little tholos tomb at Megaloi Skinoi and in the site of Stou Apothamennou tou Lakkou30.

The excavations conducted at Kala Selia brought to light some walls, in bad conditions, constituted only by one row of foundation stones. These walls shaped the plan of a rectangular two-room dwelling. The greater part of the findings consisted of big and small stone tools, coarse vases sometimes burnished, datable to the FN for the comparison with Phaistos; it is not clear, however, how long this house has been inhabited and in which phase of the FN. While the excavator considered this dwelling an isolate farmstead, whose inhabitants practised farming, other scholars have supposed that it could be rather a temporary maybe periodical installation, chiefly for the absence of spring water in the surrounding area31.

The Neolithic site on the Acropolis of Ayios Ioannis at

Gortyn was identified during the excavations of the Greek Temple of Athena32. The findings share several similarities with the phaistian ones. The recovery of fragments datable to both the FN phases of Phaistos let assert that the site was populated for a quite long period or was re-occupied at least periodically.

In the vicinity the site of Gortyn – Mitropolis was still occupied, but it’s not possible to state if in a continuous way or after a period of abandonment. Some fragments datable to the last phase of the FN33, found together with the other materials (MN/LN), allow assuming that the site was inhabited at the end of the FN and probably in the passage through the EM period34.

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settlement patterns in the mesara plain

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Other FN materials have been collected during the excavation of the Minoan tholos tomb of Lebena-Yerokambos II 35 and of Trypiti A36. Moreover under the foundation layers of the tholos tomb at Ayia Kiriaki, some Neolithic fragments and lithic tools were located in an undisturbed stratum. For the excavators these goods, which can be compared with the findings from Phaistos and Kala Selia, hint to the presence of an occupation of this area in FN37.

FN pottery has been identified as well in several parts of the Minoan harbour of Kommos38.

Other information on the FN sites of the Mesara plain

come, as said, from the surveys; but it concerns only not stratified remains, often datable just in generic way to the FN or to the FN/EM I.

One of the first surveys in the region was conducted in the Ayiopharango39 valley, on the south side of the Asterousia range, in ’70. The purpose of the authors was to clarify the archaeological importance of the area and to identify the road that through the Mesara reached the sea. In several sites were collected materials, labelled sub-Neolithic.

The survey of the Western Mesara40, carried out in ’80, but fully published only in recent years, pointed to a better understanding of the area around the Phaistos Palace. Eight FN sites have been documented and it has been confirmed the absence of older sites in the region. One of these settlements, placed in the vicinity of the Kamilari41 tholos tomb, probably was very large in size (120 x 30 m). A place for working chipped stone and flint was situated at the foot of the phaistian hill.

Approximately in the same period it was also conducted a

survey of the Kommos area. At first no Neolithic finds were identified along the road from Phaistos toward the sea42. Only

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afterwards the FN materials were, in some cases, distinguished from the EM ones and it has been possible to identify at least three FN short –lived installations on low hills43.

In 2004 a survey has been carried out in the area north of the pre-palatial necropolis of Moni Odighitria (Asterousia), in order to identify installations contemporary with the tombs. Only preliminary information has been so far published about the works conducted by the 23rd Ephorate (A. Vasilakis) and the BSA (K. Branigan). It has been reported the presence of FN/EM pottery, together with some architectural structures, on the summit and along the slopes of the Ayios Andonis hill 44.

To sum up the results of the above-mentioned surveys, the Neolithic sites individuated in the Mesara plain are three in the Kommos Area (FN) and eight in the western part of the plain (FN); some probable installations, moreover, have been mentioned in the Asterousia range (FN/EM I), in the Ayiopharango valley (FN/EM I), and at Ayia Kiriaki (FN/EM I).

Some considerations on the Neolithic settlement patterns in the Mesara region

The Neolithic sites mentioned so far are placed mainly on the top of low hills and on their slopes, but also in caves and in the plain45. In the recent years the settlement patterns of the Mesara and of the entire island have been subject of an intense debate between scholars.

The exponential growth of the number of settlements in the FN period and the decision to locate them mostly on hills has been interpreted in several ways by different scholars.

One of the first explanations for the location of Phaistos and other settlements on the hill and not in the plain was the possible intensification of rainfalls during the last phases of the Neolithic and the impracticality of the flooded plain. At present, however, this theory seems inadequate to clarify the shifting of a great number of sites, and other scholars think that the

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population of the uplands has been made possible by the improvement and not a worsening of the climate46. The drying trend, maybe followed by colder, wetter and uncertain climatic conditions, testified by the pollen cores47, available for Crete, does not permit to assert with certainty that there were so significant or sudden climate changes in FN to cause a radical change in settlement patterns48.

Other scholars have conjectured that the predilection for the seasonal occupation of the uplands should be connected with the diffusion of pastoralism and with the intensive exploitation of the pasture lands at disposal49. It has been even suggested the possibility of two poles settlement: a permanent one in plain and a seasonal one with flimsy installations or in cave to graze the livestock50.

Recently some scholars have seen the change in settlement patterns as the consequence of a troubled period caused by the conflicts between the inhabitants of neighbouring settlements or for the arrival of newcomers on the island. K. Nowicki has argued that the inaccessible sites were inhabited at first by the local populations fearing the newcomers and then by new populations arrived on the island to defend themselves from the locals51.

For other high-located sites, at last, it has been supposed a ritual or cultic function52

One should keep in mind, however, that it is not possible

to find a univocal explanation for the changes occurred in all the Neolithic sites of Crete, each one with different morphological and climatic characteristics. It would be better to adopt these explanations only for the sites that present the necessary traits and not try to extend the interpretation to all the sites, lacking also the necessary support of the data.

For example, no one of the above-mentioned hypotheses can be ascribed to Phaistos, that it’s neither a seasonal site

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connected with the pasture nor a refugee site. Moreover the presence of some sites in the plain, like

Chalara (at the foot of the phaistian hill) or Gortyn – Mitropolis, could attest that the location of sites on high places was not connected with defensive or climatic reasons.

The analysis of the evidence presented so far reveals the

very ephemeral nature of the Neolithic settlements in the Mesara and confirm the hypothesis that the great part were only seasonal or short-lived installations used by the inhabitants in order to carry on some practices, like farming.

Their location don’t seem to favour a position to the detriment of another and the features of the settled places are varied, plausibly according to the needs of the inhabitants for the resources’ exploitation of the area. It’s very likely that the settlements of the Mesara plain were characterized by a great mobility and shifting of the populations, which deserted their locations for other installations, after the exhaustion of all the resources53.

This interesting suggestion urges us to use caution speaking of the settlement distribution and of the exponential growth of sites in the last phases of the Neolithic, as it probable that all these sites were not occupied at the same time.

The subsistence of the populations, that inhabited the

plain, was probably assured from the presence since the IV Millennium, of graminaceous plants (wheat, oats, barley), fruit shrubs, lentils, and maybe also wild grape (Vitis), as indicated by the pollen analysis on the Ayia Galini core54.

The Mesara, already in Neolithic period, could have had a high-production potential and indubitably little groups of farmers carried out agriculture and pasture on a small scale, in fertile and well-irrigated soils, not very far from the settlements, using essentially simple tools produced by them.

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The analysis of the ancient soils of the Mesara has showed that, during the Neolithic, the areas between Ayios Ioannis and Kommos, on the S-W slopes of the hill of Phaistos, and the zone toward Timbaki, on the N-W side, were the most favourable for the agriculture; whereas the areas between Petrokephali and Phaistos, on the S-E slopes, was characterized by a poor soil and could be used for the pasture of livestock (fig. 4)55.

So while the great part of the mentioned sites could have

allowed the seasonal exploitation of the resources, Phaistos, once again, can not be compared with the other sites, for the quantity and quality of its remains, and especially for the continuity of the occupation.

Phaistos has been recently considered a site characterized by short periods of settling alternate with abandonment, witnessed by sterile layers of accumulation present in the excavated trenches. Also according to the differences with the other sites, Phaistos would represent a regional focus56 for the populations of the region, which, even if characterized by seasonal dwellings, would feel the need of having a communal space where people could meet periodically and integrate themselves. Phaistos would have been a particular place where these people performed some peculiar practices to strengthen their relationships and to reinforce the consciousness of belonging to a wider group.

Certainly no one can doubt that Phaistos was a unicum in the entire Mesara, owing to the settlement size extended on great part of the hill and its duration for two FN sub-phases, but also for the quantity of artefacts gathered in the excavations. In no one of the above-mentioned sites it has been found the same mass of pottery fragments pertaining to several wares and forms, but also of stone and bone tools and objects, spindle whorls and a massive volume of animal bones.

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Moreover the black burnished vases encrusted with red ochre and the red slipped and burnished ones were exclusive artefacts of Phaistos. In addition, the numerous phaistian pottery forms related to the consumption of liquids (jugs, bowls with spout, bottles) are totally absent in the other site of the plain, also in Gortyn – Acropolis that presents, as said, a lot of similarities with Phaistos.

In conclusion, it is very likely that at Phaistos the population performed unusual events, perhaps of ritual nature. The execution of these ‘ceremonies’, however, is not sufficient to exclude a continuous occupation of the site, since the identification of several areas where domestic and manufacturing activities were performed points to a stable occupation of the area57. The stratigraphies of some excavated trenches show that a consistent part of the settlement was settled in a continuous and permanent way and, for that reason, the short abandonment of some sectors can be due to the periodical usage of some areas only for peculiar activities, or could be the result of a partial shifting inside the settlement, a temporary movement of the population for some needs not easy to figure out.

These acts of consumption could have been intra-community episodes of commensality involving the members of competing households in order to ensure the survival of the community. Otherwise they could have been intercommunity acts of hospitality involving members of other communities to mobilize obligations of mutual help with neighbouring households, or with successful households from far afield, as to obtain food or raw materials not locally available (like copper)58.

Anyway, even if Phaistos played a prominent role for the seasonal sites of the region, as we saw, there are no doubts that the site was continuously inhabited during the FN and through the EM period.

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The extent of the site and the perception of its importance, in addition to the undoubted advantages of the place, could have been a certain stimulus for the populations in going on living in the same site until the foundation of the Minoan Palace on the phaistian hill.

* The data presented in this article have been partially

collected during the research for my Phd on the Phaistian Neolithic Period at the University of Udine, and in part during the preliminary work for the study of the Grotto of Miamou, generously financed by Instap.

1 The Mesara plain extends for 54 km E-W and 6-9 km N-S and measures ca 362 km2. Watrous et al. 2004, pp. 33 ss.

2 See Branigan 1970. 3 Relaki 2004, pp. 173 ss. 4 See, for example, the complex and coherent settlement

patterns of the high – density regions, like Thessaly, in Greece. NEOLITHIC CULTURE, pp. 49 ss.

5 Mackenzie (1903) examined in short time the pottery from Knossos and subdivided the Neolithic in three broad phases, Early, Middle and Late. Then A. Evans used this chronological sequence as grid for the study of the structures and of the settlement (Evans 1921, 1928).

6 From now onwards in the text the following abbreviation will be adopted: EN (Early Neolithic), MN (Middle Neolithic), LN (Late Neolithic) and FN (Final Neolithic), EM (Early Minoan).

7 Evans 1921, p. 38. This label, not well defined by the scholar, was used primarily to place all the sites with pottery materials, incomparable with the Knossos ones, in the chronological sequence.

8 Pernier 1935, pp. 107-108. 9 Renfrew first used the term Final Neolithic to label the

transitional period between the Neolithic and the Bronze Age. He identified this phase thanks to the materials from several Greek sites, like Emborio (Chios), Sitagroi (Macedonia), Eutresis (Eubea), Otzaki

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(Thessaly) and Kephala (Kea). In Crete he noted a strong continuity between the Neolithic and the EM, despite the scantiness of secure data, for the superimposition of the EM structures on the Neolithic remains and the successive levelling works in the places where arose the Minoan palaces. Anyway he recognizes as FN materials the remains from the Stratum I at Knossos, Phaistos, Partira, Eileithyia and Phourni. Renfrew 1972, p. 68 ss.

10 Vagnetti 1972-73; Vagnetti – Belli 1978. 11 Evans 1971. 12 Tomkins 2007. 13 According to this new Neolithic sequence the

corresponding absolute dates are the following: Early Neolithic (c.6500/6400 – c.5900); Middle Neolithic (c.5900 – c.5300); Late Neolithic I (c.5300 – c.4900); Late Neolithic II (c.4900 – c.4500/4400); Final Neolithic IA (c.4500/4400 – c.4200); Final Neolithic IB (c.4200 – c.3900); Final Neolithic II (c.3900 – c.3600); Final Neolithic III (c.3600 – c.3300); Final Neolithic IV (c.3300 – c.3000). Tomkins 2007, p. 12, tab. 1.1.

14 Vagnetti 1973, pp. 1 ss. 15 Tomkins 2007, p. 33 ss. 16 Relaki 2003, p. 126; Watrous et al. 1993, p. 204. 17 Pernier 1935. 18 Levi 1976. 19 La Rosa 1998-2000, 2002, 2004; Di Tonto 2004, 2008. 20 These two phases, identified by Vagnetti, has been labelled

‘Livello superiore’ and ‘Livello inferiore’ (Vagnetti 1972-73, pp. 48 ss.). If we consider the new chronology proposed by Tomkins they could be equivalent to the FN III and IV of the Cnossian sequence.

21 For more details on these subjects see Todaro- Di Tonto 2008 and Di Tonto (in press)

22 Taramelli 1897 and 1899. 23 The excavator recognized in the cave two Neolithic

occupational stages, while a third layer was interpreted as an EM sepulchral deposit.

24 Tarameli 1897, p. 307-308. 25 Vagnetti-Belli 1978, pp. 134 ss.; Manteli 1990, p. 438. 26 Blackman – Branigan 1977, p. 67.

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27 Taramelli 1897, pp. 295, 307 28 See for example Taramelli 1897, figg. 10, 13, 16. 29 Vasilakis 1987. 30 Vasilakis 1989-90. The author dates the materials from

these sites to the LN; nevertheless the description and the comparisons with pottery from other sites, in which Phaistos, seem to point to a FN date.

31 Relaki 2003, p. 121. 32 Vagnetti 1973. 33 I would like to thank N. Cucuzza for showing me the

photos of some Neolithic fragments that he individuated during the study of the materials from the Minoan villa of Kannia. Moreover the consent to study these materials has been given to me by the Director of the Italian School, E. Greco.

34 Between the findings of Mitropolis, there is a fragment of Partira ware that can be dated to the transition through the EM I (Vagnetti 1973, fig. 1, 21; Tomkins 2007, pp. 46 ss.)

35 Alexiou 1961, Alexiou - Warren 2004. 36 Alexiou 1967, p. 484. 37 Blackman – Branigan 1975, 1977 e 1982. 38 Betancourt 1990 pp. 25-26; 57-63; 141-142. The author

argues that the settlement was seasonal rather than permanent. The scanty and fragmentary remains can be compared with the materials form Phaistos, with which surely shared the chronological and cultural horizon.

39 Blackman – Branigan 1977. 40 The survey was totally published in Watrous et al. 2004,

but the preliminary results were already available in Watrous et al. 1993.

41 Around the Kamilari tholos, La Rosa picked up, in ’70, some black burnished fragments very similar with those from Phaistos (Vagnetti – Belli 1978, p. 134, nota 30).

42 Hope Simpson 1983. 43 Hope Simpson et al. 1995, pp. 354-5, 360, 373-4. 44 Whitley 2004, p. 82. 45 Watrous et al. 2004, pp. 228-230.

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46 Following the hypothesis of an increasing of the rainfalls at

the end of the Neolithic postulated by P. Faure (1964), Vagnetti (1972-73, pp. 132 ss.) supposed that the Mesara plain was not pleasant to live in during the FN because of its insufficient permeability. On the contrary Moody (1987), in her studies on Western Crete, argued that the reasons of the settlement shifting were the demographic growth, the climate improvement, and tectonic movement that made the cave insecure.

47 Watrous et al. 2004; Bottema 1980. 48 The climate changes between the Neolithic and the EM do

not seem to be the primary reason of the erosions and of the alluvial depositions, which changed the appearance of Mesara in the EM. Pope 2004.

49 Branigan 1999; Votokopoulos 2000. 50 Manteli 1990. 51 Nowicki 2002. 52 See, for example, the site L23 in the Ziros region (Branigan

1998, p. 58), or the site of Atsipades Korakis in the Ayios Vasilios valley (Morris – Batten 2000); contra Nowicki 2002, pp. 25-26 e 47-48, considered the two places as FN II refugee sites.

53 Relaki 2003, p .128 ss. 54 Bottema 1980. 55 Watrous et al. 2004, pp. 61 ss. 56 Relaki 2004, pp. 176 ss. 57 Di Tonto (in press). 58 For more details see Todaro – Di Tonto 2008, p. 192.

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settlement patterns in the mesara plain

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fig. 1

fig. 2

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fig. 3

fig. 4

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arianna rizio

evidence of destruction from the Peloponnese during the late helladic period

an archaeological domestic perspective

The reflections presented in this article are based on research carried out for my Ph.D. on the landscape of the Peloponnese (Rizio 2007) both from the point of view of the settlements and the housing, at the conclusion of which, an updated and updatable catalogue was produced on the displays of known setttlements attributable to the Late Bronze Age.

Obviously from research covering such a vast area, it was and is possible to extract an enormous quantity of differing data concerning the Late Helladic Period. With this brief summary, I wanted to attract attention to an aspect of the dwellings from the Mycenaean era, arising from this analysis: such as, the presence of human skeletons found inside the buildings subsequent to destruction probably caused by earthquakes. The hypothesis of an earthquake as the cause of destruction which has involved Mycenaean palaces at the end of the Bronze Age has been rather refuted at least up until the end of the first half of the last century (French 1996, p. 51) mainly because of the fact that all too often archeologists adopt this attitude in order to explain, as in the case of deus ex machina, the silence of archaeological data. A circumspect approach which relates archaeological facts deriving from main palatial sites of the Argolid region to data of a geoseismic nature, could shed new light on Klaus Kilian’s

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theory: the palatial centres had been involved in a series of tremors occurring within a short space of time.

The context and the issues

The Peloponnese cover three large geological areas: the western zone, which comprises the rather narrow coastal strip along the Ionian Sea; the central zone which includes Arcadia, Laconia and Crete; and lastly the eastern stretch whose centre is situated in the Parnassus-Giona mountains. It consists of, as you will notice, an extremely sensitive territory – from a seismic point of view – a characteristic which certainly influences the way of life and the territorial organisation of the dwellings, as much today as in the past.

Unfortunately in the epigraphic sources from the Mycenaean era seems to be no mention of earthquakes, even in the case of Pylos tablets where reference is made to moments of particular emergency, as for example, in the widespread requisition of bronze in Messenia (Sacconi 1986).

Written sources in Linear B discovered in Peloponnesian palatial contexts, indeed for the most part, date from the time of the destruction, which was probably a direct result of an earthquake at the end of the LH IIIB. We are not able to establish whether this collapse happened over an extended period of time or as a result of multiple earthquakes, to which a series of concomitant causes have been added (we should remember that current dating is fundamentally based on ceramics and allows a tolerance of 10/20 years).

Despite the enormous gaps in the documentation, through a combinaton of archeological data deriving from private dwellings and data of a geoseismic nature, we are encouraged to reconsider a hypothesis of a serial destruction which happened over a fifty year period provoked by a series of earthquakes or “storms”.

The archeological horizons of the Mycenaean era in the

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Peloponnese reflect the geological complexity of the territory, in the sense that the various archeological phases of the Late Helladic period, as defined by its pottery, seem to differentiate themselves on a regional level. Furthermore, these variations are determined likewise by the complexity of their geological fronts. It is easy to imagine that the various geological fronts have been affected in different ways by seismic events which have occurred on the Peloponnese peninsular.

The Argolid region presents a completely different situation compared with other areas od the Peloponnese, as we will see subsequently, due to the number of statements and amount of data: indeed, it would appear to be a fairly well known region either because of the presence of large palatial centers or because consequently it has been widely explored when compared to other Peloponnese regions, like Elis and Arcadia, which offer a much more limited amount of documentation relative to the Mycenaean period especially with regard to the settlements and the housing.

The Argolid, on the contrary, from a variety of aspects, presents a complex and particular situation.

Given the impossibility of developing here a detailed discussion relative to the peculiarity of the settlements’ layout, we will limit ourselves to the settlements where elements have been discovered which highlight destruction: human skeletons and repairs to the dwellings, assuming that the data are chronologically referrable to mid XIIIth century BC (c. 1250 BC).

Let’s start with the “capital” Mycenae: here subsequent to destruction most probably caused by an earthquake in various parts of the city, from the 60s in the last century onwards, George Mylonas’ excavations have brought to light human skeletons, whose last actions seem to have been those of attempted flight from collapsing buildings.

Often, in fact, these skeletons are covered in matter, caught in a running position and near to the threshold of the

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building. This is the case of the victims discovered inside the house called “Plakès” (fig.1) excavated under Spyros Iakovidis’ direction in 1975 (Mylonas 1975, pp. 158-161; Iakovidis-French 2003, p. 49): on the groundfloor of the house attributable to the LH IIIB 2 were the bodies of four people, three adults with the body of a child crushed beneath them. The remnants of bone show traces of cranal fractures caused directly by the collapse of the building.

The destruction in this case is not accompanied by any form of fire (in contrast to the context in the majority of houses) and in certain locations, the house has undergone subsequent repairs, even if the building does not seem to have been inhabited. On a terrace, immediately adjacent to that upon which the house called “Plakès” is built, there is another building, not yet excavated but noted only for recognition purposes (Iakovidis-French 2003, p. 47): the future excavation of this area could probably tell us more about this area of the settlement.

Previously in 1962 George Mylonas dedicated himself to excavating the inhabited area located on the hill (to the southwestern area of the citadel of Mycenae) noted under the name of Panaghia because of a small church dedicated to the Virgin (fig. 2 ). In 1932, the area had already been investigated by A.J.B. Wace, regarding the northerly facing side of the hill, whilst during the sixties, the excavations were conducted by George Mylonas and Ioane Mylonas-Shear, who is dedicating a monograph to this group of buildings (Mylonas-Shear 1987).

The horizon of destruction in this area would seem to be contemporary to that of the area upon which the “Plakès” bulding was built or the LH IIIB 2.

The excavated structures on the hill, except for the House of Lead, are in a good state of preservation, so much so that some of the brickwork has been preserved up to a height of 1.5m. The houses built in the TE IIIA (Mylonas-Shear 1987, p.

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1) on the hill were still in use up until the end of the TE IIIB, when a fire, probably caused by an earthquake, brought about the destruction of the buildings, parts of which, were not rebuilt.

Inside the building conventionally defined as Panaghia House I (fig. 3), the skeleton of a woman over the threshold joining rooms 3 and 5 was discovered: from her position we can deduce that she was running when she was buried under a pile of falling stones (Mylonas-Shear 1987, pp. 15-26; French 1996, p. 51). Building I was never rebuilt, in contrast to what happened in the Panaghia House II complex, which, except for a few storerooms (11 and 12), was repaired after the collapse caused by an earthquake (Mylonas-Shear 1987, p. 33).

The neighbouring town Tiryns has also given up remants of human bone, not only from burial context: in fact it concerns human skeletons buried under collapsed housewalls, tumbled by an earthquake (Kilian 1996, p. 63).

Based on the most recent geomorphologic surveys (Zagger 1993), Tiryns’s configuration appears to be that of a real and proper “fortified castle on the sea”, at the mouth of a waterway, surrounded at its base by a real and proper portal urban nucleus, whose layout, based upon the few archaeological traces which have come to light so far, could be hypothesised only, but not defined by its peculiar characteristics (Marazzi 2008, p. 487). E. Zangger’s surveys demonstrated the enormous contribution that archaeological studies can offer by adopting a multi-disciplined approach, as in the case of the collaboration between analyses of a geoseismic and sedimentary nature with the archaeological ones. Examples of this are the recent studies of geological and biological character in different areas of the Peloponnese as Elis and Corinthia (Kraft 2005; Vött et al. 2011a; Hadler-Willershäuser-Ntageretsis-Vött-Mattern 2011; Vött et al. 2011b).

Klaus Kilian pointed out that all the changes in Mycenaean pottery styles in Tiryns correspond to major

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earthquakes (fig. 4). As we will see subsequently, his point of view could collimate with the storms theory proposed by Amos Nur, a professor of Geophysics at Stanford University.

He shows that “when a map of earthquake occurrence is superimposed on a map of the sites destroyed in the Late Bronze Age, there is a very close correspondence. It can be demonstrated that such major earthquakes often occur in groups, known as “sequences” or “storms”, in which one large quake is followed days, months, or even years later by others elsewhere on the now-weakened fault line”.

Let’s analyse the archaeological data: the skeletons of a woman and a child buried under fallen walls were found in the so called Unterburg on the inside of Building X (Kilian 1996, p. 65), their deaths having been attributed to an initial destruction of the building in the LH IIIB (c. 1300-1260 BC).

In the nearby citadel of Midea, the collapse of the installation is dated at the end of the LH IIIB2 (Åström-Demakopoulou 1996, p. 37) at a time that could have been shortly after the one that caused the destruction which involved Mycenae and Tiryns. Also here, in one of the rooms in the East Gate, inside the citadel, the skeleton was found of a girl with a fractured skull, caused directly by falling walls (Åström-Demakopoulou 1996, p. 39) in the context of the LH IIIB2; but the signs of a possible earthquake are also seen in curved and distorted walls, as in the two centres of Mycenae and Tiryns, as mentioned before.

In the other Peloponnese regions, as far as we know,

there are no other findings of human skeletons in domestic surroundings, discounting, of course, traditionally buried corpses. Due to gaps in documentation concerning such areas, we are therefore not able to define if this lack of evidence is casual or not. There is certainly no lack of it in important centres like Menelaion and the surrounding areas (Aetòs hill) in

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Laconia or in Messenia (Pylos) given that building repairs are evident after the TE IIIB and probably subsequent to some seismic activity.

On the southern side of the Aetòs hill H.Catling excavated a building at the beginning of the eighties in the last century, which had the layout of the so called “megaroid” type, installed on two terraces (Catling 1981). They were reinforced in a rather rudimentary way, using pebbles from the Eurotas river. The inhabitants in the LH IIIB period, may have been alarmed by some seismic activity, as also happened in Mycenae (French 1996, p. 51).

It’s easy to imagine that the intensity of the tremors could have differed depending on the areas, however the western zone of the Peloponnese, which belongs geologically to a distinct geological band, probably only marginally experienced the earthquake, which lead to the destruction in the palatial centres of the Eastern Peloponnese.

In Achaea and in the North-West Peloponnese there doesn’t seem to be any evidence of repairs due to damage caused by earthquakes; here, on the contrary, we witness the birth of a culturally florid western koiné.(Rizio 2011).

Conclusions

I’d like to conclude by recalling the necessity of a collaboration between scholars of various disciplines in order to take research forward in the most comprehensive way.

It is only recently that earth scientists and archaeologists have come together to formally address the evidence for earthquakes and their significance in archaeological remains and resolve the disagreements over the role that earthquakes could have played in ancient societies.

The auspice expressed in this regard by E.Guidoboni from Bologna University, who underlined in an article from 1996, the necessity of comparing archeology and historical

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seismology (Guidoboni 1996, p. 7), was welcomed a few years later by the archaeologist Eric Cline and by the geophysicist Amos Nur, who, in a joint study relative to the Mediterranean area, came to interesting conclusions which seem to collimate with archeological data to which we have previously referred.

They suppose that “[...] the oft-denigrated suggestion that major earthquakes took place in the Aegean and Eastern Mediterranean areas during the late 13th and early 12th centuries must be reconsidered. A new study of earthquakes occurring in the Aegean and Eastern Mediterranean region during the 20th century, utilizing data recorded since the invention of seismic tracking devices, shows that this area is criss-crossed with major fault lines and that numerous temblors of magnitude 6·5 (enough to destroy modern buildings, let alone those of antiquity) occur frequently. It can be demonstrated that such major earthquakes often occur in groups, known as ‘‘sequences’’ or ‘‘storms’’, in which one large quake is followed days, months, or even years later by others elsewhere on the now-weakened fault line. When a map of the areas in the Aegean and Eastern Mediterranean region affected (i.e. shaken) by 20th century earthquakes of magnitude 6·5 and greater and with an intensity of VII or greater is overlaid on Robert Drews’ map of sites destroyed in these same regions during the so-called ‘‘Catastrophe’’ near the end of the Late Bronze Age, it is readily apparent that virtually all of these LBA sites lie within the affected (‘‘high-shaking’’) areas. While the evidence is not conclusive, based on these new data we would suggest that an ‘‘earthquake storm’’ may have occurred in the Late Bronze Age Aegean and Eastern Mediterranean during the years 1225–1175. This ‘‘storm’’may have interacted with the other forces at work in these areas c. 1200 and merits consideration by archaeologists and prehistorians.” (Nur - Cline 2000, p. 43).

Further to numerous earthquakes which shook Greece between the 80s and 90s during the last century, the recent

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earthquake in L’Aquila, Abruzzo, in Italy 2009, seems to confirm the theory of earthquake storms: the main tremor was preceded and followed by a series of low level tremors.

We can hypothesise that similar circumstances with repeated tremors of varying magnitude might have occurred in the North-East Peloponnese – preluding to the decline of the mycenaean palatial civilisation.

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fig. 1 - plan of the “Plakes” House (after Iakovidis 1975, fig.2, p.159).

fig. 2 - plan of the Citadel Area at Mycenae (after French 1996, fig.1, p.52).

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evidence of destruction from the peloponnese

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fig. 3

plan of the Panaghia House I

(after Hiesel 1990, fig. 43, p. 122).

fig. 4 - the floruit phases of Mycenaean pottery from LH IIIA to LH IIIC

earlyTiryns in relation to building construction (after Kilian 1996, fig. 8).

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MEDITERRANEO TUTELA E CONSERVAZIONE

DEI BENI CULTURALI

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stefano bartone

il problema del golfo della Sirte e del patrimonio archeologico sommerso,

i crimini contro i beni culturali e l’azione UNESCO

1. Cronistoria dei rapporti Italia - Libia

Nel 1969, con l’avvento al potere di Muammar Gheddafi, i rapporti italo-libici entrano in una profonda crisi. Infatti, neanche un anno dopo gli italiani furono cacciati dalla Libia e le loro proprietà confiscate nonostante il Trattato del 1956, concluso con il governo monarchico allora al potere, concedesse ampie garanzie a riguardo.

Il Trattato regolava anche le questioni successorie tra i due Stati, in attuazione della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 15 dicembre 1950.

Anche nel periodo di “buon vicinato” è rimasta insoluta l’antica controversia tra Italia e Libia sulla delimitazione delle frontiere marittime.

L’Italia ha più volte dichiarato di non riconoscere la validità della linea retta di 307 miglia marine, adottata dalla Libia per chiudere il Golfo della Sirte in modo non conforme al diritto internazionale. Tale scelta “anomala” della Libia deriva dal considerare questo golfo come baia storica, con tutte le limitazioni annesse.

La Libia, pro domo sua, ha in sostanza attribuito a sé una zona esclusiva di pesca di ben 62 miglia, calcolata non a partire dalla linea di costa ma dalla linea di chiusura del Golfo della

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Sirte, il che significa un’estensione decisamente maggiore. Pertanto, se si tiene conto che la linea di “confine” e di “sovranità” tracciata dalla Libia è al di sotto della linea mediana con l’Italia, il nostro governo non può contestarne la legittimità, ma può solo contestare la rivendicazione del Golfo della Sirte come baia storica.

Infatti, secondo la definizione data dalla Corte Internazionale di Giustizia, le acque storiche sono “quelle acque che si trattano comunemente come acque interne, mentre non avrebbero questo carattere in assenza di un titolo storico”; Vale a dire che, considerando il Golfo della Sirte come baia storica, la Libia può ritenerla soggetta alla sua sovranità sotto tutti i punti di vista. Pretesa, da sempre contestata non solo dall’Italia ma da quasi tutti gli stati mediterranei e soprattutto dagli Stati Uniti d’America.

Le limitazioni alla navigazione e alle attività connesse, all’interno del golfo della Sirte, hanno avuto ripercussioni anche sulle questioni attinenti ai beni culturali. Di fatto, anche i siti archeologici sommersi sono rimasti inconoscibili dalla maggioranza dei tecnici mondiali, il che ha causato un danno sia dal punto di vista della mancata conoscenza e annessione al patrimonio culturale-storico dell’umanità, sia dal punto di vista della conservazione dei siti subacquei esposti a maggiore deterioramento.

L’annoso problema della pesca e quindi i connessi problemi di navigazione e quindi anche di eventuale recupero e conservazione di reperti archeologici sommersi, sembrava aver trovato uno spiraglio di soluzione con il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione del 30 agosto 2008.

Nel suddetto trattato del 2008, un punto fondamentale, che merita di essere commentato è l’art. 6 relativo al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nell’Art. 6 c’è l’impegno ad agire, pur se nel rispetto delle rispettive legislazioni, nel raggiungimento degli obiettivi e dei principi

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della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Una disposizione che impegna ad agire in conformità con la Dichiarazioni Universale, anche se non è uno strumento giuridicamente vincolante per chi Stato, a differenza con l’ Italia, non abbia una regolamentazione costituzionale internazionalistica.

Da evidenziare nel Trattato del 2008, sono le “iniziative speciali” che il Trattato afferma espressamente essere disposte “a beneficio del popolo libico”; tali iniziative comprendono, tra l’altro, la restituzione di reperti archeologici trasferiti in Italia in epoca coloniale (sul punto si richiama la clamorosa restituzione alla Libia della Venere di Cirene, rinvenuta in epoca coloniale).

La parte più interessante sotto il profilo della tutela dei beni culturali è quella relativa al partenariato, destinato a promuovere relazioni speciali tra i due paesi. Tranne qualche eccezione, si tratta in buona parte di norme programmatiche prevedenti la cooperazione in molteplici settori culturali e scientifici.

Questo percorso, culminato con il Trattato del 2008, è stato lungo e tortuoso, infatti la Libia, accusata di aver provocato la strage nei cieli di Lockerbie, per lungo periodo si trovò in isolamento internazionale essendo stata classificata dagli Usa come stato sostenitore del terrorismo internazionale, e quindi oggetto di sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Successivamente, anche per merito dell’opera diplomatica italiana, e in virtù del risarcimento dato dalla Libia alle famiglie parenti delle vittime della strage di Lockerbie, il Consiglio di Sicurezza, che aveva decretato severe sanzioni (embargo) a partire dal 1992, le ha revocate nel 2003, così pure le sanzioni comminate dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti furono poi cancellate nel 2004.

Vi è da dire che la necessità degli approvvigionamenti energetici da parte italiana fece sì che, neanche negli anni bui

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del terrorismo internazionale e delle sanzioni contro la Libia, i rapporti con l’Italia si sono mai interrotti.

2. Attuali rapporti Italia - Libia

A seguito degli accadimenti bellici, figli della cosi detta “Primavera Araba”, la Libia ha visto mutare in pochi mesi il suo regime, culminato con l’uccisione del dittatore Gheddafi; gli accadimenti sanguinosi che hanno accompagnato il doloroso risveglio della popolazione libica rappresentano altresì un momento di pericolo per l’immenso patrimonio archeologico e storico della Libia.

Oggi è più che mai necessario rilanciare la collaborazione tra Italia e Libia per la valorizzazione e la salvaguardia dei siti e delle testimonianze archeologiche libiche, che rappresentano un documento unico delle civiltà e della storia del mediterraneo. Purtroppo, si è avuta notizia di numerosi danni al patrimonio archeologico, provocati dai bombardamenti, dai furti, che sono tuttora difficili da accertare e ripristinare. E’ stata messa in pericolo la straordinaria bellezza e l’importanza archeologica, storica e culturale di località antiche come Apollonia, Cirene, e i siti archeologici di Leptis Magna e Ghadames che sono parte del patrimonio identitario e culturale delle popolazioni della Libia e di tutta l’area mediterranea. La necessità di preservare questo immenso patrimonio, di cui parte, come l’area archeologica di Leptis Magna, inserita nel patrimonio dell’UNESCO, ha spinto Irina Bukova (dal 2009 direttore generale dell’organizzazione) a lanciare appelli sulla tragicità dei bombardamenti interessanti aree di interesse archeologico e su i saccheggi e traffici illegali del patrimonio culturale del paese.

In questo periodo di transizione, il direttore generale dell’UNESCO ha potuto solo offrire l’assistenza dell’UNESCO nelle attività di verifica dei danni subiti dai siti libici e nella preparazione di piani per la loro tutela. Interessamento

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dell’UNESCO ha riguardato anche la sparizione del Tesoro di Bengasi, conservato nei depositi della Banca Commerciale Nazionale, tesoro che consiste in una raccolta di reperti preziosi recuperati dagli archeologi italiani sin dal 1910. Il tesoro è formato prevalentemente da monete in bronzo, argento e oro e piccole statue in terracotta, reperti che erano stati trasferiti in Italia nel 1939 e restituiti alla Libia nel 1961 in virtù degli accordi bilaterali Italia-Libia. In questo contesto di collaborazione tra tecnici (archeologi), a invocare l’aiuto internazionale è stato proprio l’ archeologo Fadel Alì Mohammed richiedendo l’intervento soprattutto delle autorità italiane. Si ricorda, sul punto, che sono numerose le spedizioni archeologiche italiane attive in Libia che sono rimaste bloccate lungamente per gli avvenimenti bellici e post bellici, e che attualmente stanno riallacciando i rapporti con i nuovi rappresentanti del neonato governo di transizione libico.

In questo quadro l’UNESCO ha approntato sia mezzi necessari alla prevenzione del traffico di opere d'arte, sia strumenti di protezione dei musei, puntando soprattutto al rafforzamento delle istituzioni culturali, in un paese che, ritrovata la sua libertà e sovranità, sta cercando con grande sforzo di recuperare i valori storici e artistici che hanno contraddistinto quella regione nel corso dei millenni.

L’ambito di manovra dell’UNESCO è stato fattivo ma ristretto, poiché naturalmente postergato dalle istituzioni internazionali rispetto ai primari obbiettivi di tutela umanitaria, della popolazione libica.

Questo contesto, come in altri caratterizzati da uno stato di guerra civile, le convenzioni internazionali attraverso le quali gli Stati hanno inteso obbligarsi per assegnare un regime uniforme ai beni culturali, promosse e favorite dalle Organizzazioni internazionali per la tutela dei beni culturali e la loro restituzione in caso di trafugamento, non hanno avuto piena attuazione. Anche se ormai è generalizzata la convinzione che, i

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beni culturali rappresentando l’essenza e l’eredità storico-culturale di un popolo, debbano conseguire una tutela piena, purtroppo le convenzioni diplomatiche, sebbene animate da un reale spirito di cooperazione, non hanno evidentemente prodotto i risultati di tutela desiderati.

Ancora in questo attuale contesto bellico sono scarsi i riferimenti normativi internazionali che permettano un reale intervento dell’UNESCO a salvaguardia del patrimonio culturale dell’umanità, dovendosi applicare regole vetuste ( ma dalle intese larghe) come i soli strumenti di tutela quali: l’applicazione della Convenzione UNESCO del 1970 che si propone di impedire la illecita importazione, esportazione e trasferimento dei beni culturali; oppure, altro caposaldo invocato dall’UNESCO a tutela del patrimonio Libico, il rispetto del primo Protocollo allegato alla Convenzione dell’Aja del 1984, in cui il trafugamento e la distruzione dei beni culturali sono inquadrati tra i crimini di guerra.

Va ricordato, che il problema annoso che si prospetta negli scenari di guerra, è quello di proteggere i siti archeologici o le singole opere, cosa che è avvenuta più che altro con norme palliative, che - in virtù dell’ art. 56 del Regolamento annesso alla II Convenzione di codificazione sulle leggi e i costumi delle guerre terrestri adottata all’Aja in data 29.7.1899 e ratificata anche dall’Italia con R.D.L. n. 504 del 9.12.1900 e art. 46 del Regolamento annesso alla IV Convenzione di codificazione del 18.10.1907, secondo quanto già anticipato nella Dichiarazione di Bruxelles del 1874 sulle norme e consuetudini di guerra, art. VIII, (principio richiamato anche dalla Convenzione dell'Aja del 14 maggio 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, ratificata con L. 7 febbraio 1958, n. 279 e relativo Protocollo) - prevedevano che una volta venuta meno l’esigenza di conservazione e tutela del reperto da parte della forza bellica straniera, insorgesse l’obbligo di restituzione del reperto stesso.

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Troverebbe applicazione la norma di diritto internazionale consuetudinario, generalmente recepita nei trattati di pace conclusi dopo la prima guerra mondiale, che sancisce il “principio di ricostituzione dei singoli patrimoni culturali (nazionali)” prelevati in occasione di guerre terrestri.

Purtroppo, anche successivamente alla morte di Gheddafi e l’instaurazione di un nuovo governo di transizione, i vecchi problemi di confini marittimi tra Italia e Libia continuano ad esistere. Così, continuano ad essere sequestrati i pescherecci italiani che operano nel golfo della Sirte, nel novembre 2011 il peschereccio di Mazara del Vallo Twenty Two, fermato da una motovedetta libica perché navigava in acque considerate dalle autorità libiche “territoriali”, veniva dirottato verso Tripoli.

Il problema della pesca nelle acque tra l’Italia e la Libia è stato quindi riportato all’attenzione delle nuove autorità di Tripoli con le quali sarà necessario stabilire un’intensa ed ampia cooperazione per risolvere definitivamente la questione nell’ambito dell’Unione europea, l’unica competente a stabilire il contenuto dell’accordo di pesca, sebbene non lo sia per quanto riguarda le delimitazioni dei confini marittimi che rimangono materia statale.

Proprio in tale ottica, in data 10.02.2012, una delegazione del Parlamento Europeo si è recata a Tripoli, per la prima volta dopo la caduta del regime, per prendere contatti con il governo di transizione e affrontare soprattutto i temi inerenti alla Pesca, alla navigazione, alle forniture energetiche, e quant’altro scaturente dall’emergenza e necessità del particolare periodo attuale. Si auspica che in questo contesto, vengano lambiti anche altri meritevoli e indispensabili ambiti, quali quelli della ricerca archeologica; ambiti giuridicamente connessi e di indispensabile congiunta soluzione per realizzarsi un’efficiente cooperazione nella ricerca e tutela dei beni culturali sommersi.

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valeria patrizia li vigni*

l’opera dei pupi siciliani patrimonio immateriale orale dell’umanità

Il nostro Patrimonio, secondo la più moderna chiave di

lettura, riguarda ogni prodotto dell’uomo nella società dai tempi più remoti ad oggi. Pertanto il Patrimonio è l’insieme dei beni archeologici, etno-antropologici ma anche il patrimonio naturalistico, che varia in base alle condizioni ambientali.

Patrimonio è un sito archeologico, un monumento insieme al bagaglio di tradizioni lavorative, alle feste religiose, ai canti, alle favole, alle poesie, al teatro, alla danza e ad ogni azione dell’uomo volta a celebrare un evento.

Quando l’UNESCO, il 18 maggio 2001, ha proclamato l’Opera dei Pupi capolavoro del Patrimonio Immateriale e Orale dell’Umanità puntava a focalizzare l’attenzione su un patrimonio di rappresentazioni trasmesse da determinate scuole siciliane e in parte legate al sapere degli ultimi opranti.

L’obbiettivo generale è di avviare una campagna di tutela nei confronti di un patrimonio culturale maggiormente a rischio perché frutto di una trasmissione orale da generazioni.

Pertanto il nostro compito prioritario è salvaguardare i capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità, per evitarne la scomparsa, in quanto espressioni della cultura immateriale del mondo, affiancandoli alla cultura materiale

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(come è avvenuto per taluni siti della Sicilia dichiarati patrimo-nio dell’umanità).

Analizzando alcuni capolavori del patrimonio imma-teriale dell’umanità verifichiamo che essi rappresentano antiche tradizioni che di solito non hanno una codificazione “scritta”, ma sono tramandate oralmente da padre in figlio.

Il progetto europeo di recupero della tradizione orale

avviato dalla Regione Siciliana tramite l’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, ha portato alla realizzazione del Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia dove sono identificate, classificate, salvaguardate e promosse le Eredità Immateriali della Sicilia, è recuperata l’eredità culturale trasmessa, fino ai nostri giorni, di generazione in generazione, per non compromettere i ricordi della vita quotidiana della nostra Isola a rischio di estinzione, come i riti, le feste, i canti, le attività ludiche e artigianali, etc.

II R.E.I. ha applicato gli orientamenti più innovativi delle

politiche culturali internazionali e l’avvio del progetto siciliano ha rappresentato la prima implementazione in Europa della Convenzione UNESCO del 17 ottobre 2003, il cui messaggio epistemologico indica che:

l’eredità culturale dell’umanità è costituita dall’insieme dei beni materiali ed immateriali, che vengono posti finalmente sullo stesso piano di dignità culturale, scientifica, politica ed economica rispetto ai Beni istituzionalmente considerati patrimonio.

Quindi un tempio greco, una tonnara plurisecolare, un canto popolare, un luogo dei miti o degli eventi, un sapere produttivo millenario (tecniche produttive, prodotti tipici, pro-cedimenti produttivi, persino sintetizzati da una ricetta) contribuiscono pariteticamente a formare il nostro Patrimonio.

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La Regione Sicilia ha realizzato quattro libri dove elencare celebrazioni, saperi, espressioni e i tesori umani viventi ispirati alla Convenzione UNESCO:

1 - Il libro delle celebrazioni (riti,feste religiose e pagane, rievocazioni storiche)

2 - Il libro dei saperi (recupero delle tecniche e riclassificazione globale dei saperi produttivi)

3 - Il libro delle espressioni (spazi culturali e mezzi espressivi)

4 - Il libro dei tesori umani viventi (uomini detentori di saperi unici) Tali beni elencati sono tutelati dalla conoscenza e dalla

dovuta attenzione che meritano. Un caso a parte è l’Opera dei Pupi, che è stata rico-

nosciuta dall’UNESCO il 18.5.2001 capolavoro del patrimonio immateriale e orale dell’Umanità e rientra, a pieno titolo, nel Libro delle ESPRESSIONI del R.E.I. del nostro Assessorato, tra le espressioni artistiche letterarie, musicali, plastiche, visive, sceniche, etc., simbolo di un modo di sentire e di essere di un determinato gruppo sociale o comunità.

Analizziamo nel dettaglio il Teatro dell’Opera dei Pupi e le differenze strutturali tra i Pupi che in Sicilia, in base alla collocazione geografica, presentano differenze sostanziali.

Pupo (dal latino pupus, i, che significa bambinello) è la caratteristica marionetta armata di quel teatro epico popolare che venne probabilmente dalla Spagna di Don Chisciotte, e che operò a Napoli e a Roma, ma soprattutto in Sicilia dove trovò, dalla prima metà dell’800, il suo massimo sviluppo.

I pupi sono espressione “splendente” di quello spirito epico, eroico e cavalleresco che trae ispirazione dalla Chanson de geste medievale, dai grandi poemi del Boiardo (Orlando

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Innamorato) e dall’Ariosto (Orlando furioso), e da una tradizione letteraria, musicale, figurativa, e in particolare teatral popolare, che ha caratterizzato lo sviluppo di un’educazione sentimentale e di una visione etica e poetica del mondo.

Il Pitrè li porta in Mostra, in quanto oltre a comprenderne il valore di documento, li ritiene veicolo comunicativo di quella storia che, nata altrove, aveva trovato in Sicilia non solo un proprio alveo di diffusione ma una propria facies espressiva.

- Pupi siamo signor Fifì’ - Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare santo Dio! Essere nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo! Quel pupo che può essere o che si crede di essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentare fuori. A quattr’occhi non è contento nessuno della sua parte, ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri no! Dagli altri lo vuole rispettato!

(Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli) Secondo Pirandello “siamo tutti pupi” (marionette,

burattini, maschere, ombre), “animati – stando alla Bhagavad Gita – dall’onnipotente Spirito divino che è nel cuore di tutti gli esseri e tutti agita al ritmo incalzante del tempo, col potere della meraviglia”.

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L’Opera dei pupi rimarrebbe incomprensibile senza la forza espressiva della tradizione orale che si esplicita attraverso il segno grafico (i cartelloni), la gestualità (le movenze dei paladini), l’oralità (i testi rielaborati e recitati), i suoni (il rumore delle armi, il tumulto delle battaglie realizzato con la martellante cadenza dei tacchi delle scarpe dell’oprante sulle tavole di legno del teatro).

È importante distinguere le differenze tra burattino,

marionetta e pupo. Il burattino è animato dal basso, direttamente da pollice,

indice, medio della mano o da asticelle. La marionetta è animata dall’alto, esclusivamente per

mezzo di fili. Il pupo è anch’esso animato dall’alto, ma, al posto dei

fili, ha due sottili aste di metallo per muovere la testa e il braccio destro.

Alcuni autori che si sono occupati dei pupi siciliani, affascinati dal ricordo dei marionettisti siracusani, che al tempo di Socrate esercitavano il loro mestiere perfino ad Atene, supposero che da essi derivasse l’arte dei moderni opranti siciliani.

Il ritrovamento di una marionetta nel sito preistorico di Mursia a Pantelleria testimonia l’uso in tempi remoti di queste speciali forme di rappresentazione teatrale.

Nella Grecia classica Ateneo di Naucrati cita nei Deipnosophistai l’esistenza di un marionettista chiamato Potino, mentre Diodoro Siculo parla del principe Antioco di Cizico come di un gran collezionista di marionette, finemente e riccamente decorate di materiali preziosi.

Ma il teatro delle marionette si ritrova con varie caratteristiche tecniche e tematiche in tutto il mondo, fin da tempi antichissimi. Sia in Oriente che nell’area mediterranea se ne trovano lontane testimonianze.

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Aristotele parla di figure mosse per mezzo di fili che danno vita alla testa, agli occhi, alla bocca e alle membra.

Nel Banchetto di Callia di Senofonte, uno degli invitati è un marionettista siracusano che discute con Socrate della propria arte.

Roma ereditò dalla Grecia questa forma teatrale come il resto d’Italia, dove marionette e marionettisti ebbero una grande diffusione in tutte le epoche; esse sono state esportate poi in tutta Europa (secc. XVI-XIX).

Dal ’700 si diffuse l’uso, tra le famiglie aristocratiche d’Italia, di possedere teatri di tal genere che rappresentavano soggetti sia sacri che profani (Li Gotti 1959).

I burattini ebbero una maggiore diffusione a livello popolare. Il castelletto portatile veniva montato estempo-raneamente nelle piazze per nascondere il burattinaio. I burattini inglesi furono importati dall’Italia fra il 1400 e il 1500.

Ricordiamo Punch, di cui Samuel Pepys ricorda la prima rappresentazione a Londra nel 1662: è una trasformazione del Pulcinella italiano come il Kasperle austriaco, il Guignol francese e il Cristobal Polichinela spagnolo.

In Spagna, nel Cinquecento, il celebre matematico Torriani costruiva fantocci animati per distrarre l’imperatore Carlo V e si trovavano burattinai ambulanti, in gran parte italiani, in tutte le feste di villaggio.

Il Villabianca, nei primi dell’800, (col. XXIV, pag. 94) segnala a Palermo in Piazza Marina spettacoli popolari di “pupilli” ma non si sa se fossero marionette o burattini. In quanto per noi la parola pupo sta ad indicare sia la marionetta siciliana (mossa dall’alto con bacchette e fili) che burattini, bambole e ogni genere di fantoccio.

Per il Medioevo l’unica indicazione è in una miniatura di un manoscritto francese del sec. XIV, nella quale si vede un teatro di burattini raffiguranti guerrieri in armatura, in particolare Carlomagno che trova Orlando e i paladini morti a

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Roncisvalle; in alto, sullo sfondo, lo squartamento di Gano (miniatura, Parigi, Bibliothèque Nationale).

Alla fine del Cinquecento spettacoli di marionette cavalleresche si rappresentavano in Spagna. Don Chisciotte assiste a uno spettacolo di marionette di soggetto carolingio tratto dal romance carolingio Don Gaifero (come si evince dall’illustrazione di Gustavo Doré).

In considerazione che l’Italia meridionale e le Fiandre sono state entrambe nel ’500 domini della Spagna, si potrebbe pensare ad una comune origine spagnola dei pupi dell’Italia meridionale e di quelli del Belgio che hanno in comune il repertorio cavalleresco, tanto più che i burattini spagnoli furono portati a Napoli nel 1646 in occasione delle feste per l’insediamento del vicerè spagnolo Rodriguez Ponce de Leon, duca d’Arcos (Lo Presti 1927, pp. 35-36).

Questa suggestiva ipotesi, tuttavia, non è sicura. Forse, come si è sostenuto, le marionette di soggetto cavalleresco furono portate a Liegi da Alessandro Ferdinando Pompeo Conti (Castelvecchio, Lucca), il quale si stabilì in quella città nel 1854 e fondò il suo teatro Marionetes d’amon Con’ti.

Successivamente, il testimone passò a Mr. Gilles Henne. Come ricordano Giuseppe Pitré, Pio Rajna e Piron, nel

secolo scorso, spettacoli cavallereschi a puntate con marionette sono attestati in Sicilia, a Napoli, a Roma, a Modena, in Belgio (a Liegi) e nel Nord della Francia.

In Sicilia, l’Opra ha indubbiamente avuto il più grande e duraturo successo e, seguendo le correnti dell’emigrazione, è giunta in altri continenti: a Tunisi, a Buenos Aires, a New York.

Merita particolare attenzione, in questo vasto scenario dell’Opera, la Collezione Stanley Marcus, visitabile nella città di Austin, Texas, che comprende un gruppo di 60 marionette (di stile palermitano, databili attorno al 1860) dell’Opera dei Pupi, facenti parte della collezione italiana, acquistata a Palermo dallo stesso Marcus e donata, nel 1965, al Centro di ricerca per gli

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studi umanistici dell’Università di Austin (Humanities Research Center University Texas).

L’Opera dei Pupi considerata, per anni, teatro minore, è dotata di un suggestivo e significativo materiale scenico.

Il corredo della dotazione deve comprendere un centinaio di pupi e marionette manovrate dall’alto con bacchette rigide e fili.

Di questi: metà devono essere paladini armati e l’altra composta da re, regine, notabili, dame, animali fantastici, draghi, cavalli alati, angeli, giganti, fate, etc.

Per costruire un pupo occorre un mese e diverse sono le tecniche di realizzazione.

Ogni puparo ha i suoi segreti e i suoi strumenti del me-stiere, che custodisce gelosamente nel proprio ambito familiare.

Esistono differenze strutturali e formali tra i pupi palermitani e catanesi.

La lavorazione artigianale del pupo palermitano è rimasta identica da generazioni.

Per la costruzione dei corpi, delle teste e per gli animali si usano diverse essenze legnose quali faggio, noce, tiglio e cipresso.

Tra i costruttori opranti ancora in attività ricordiamo la famiglia Cuticchio, dove si è distinto Mimmo per l’innovazione che ha portato nel teatro, l’introduzione dell’oprante nella scena, i pupi a contatto con il pubblico (superando il divario storicamente esistente), l’introduzione nel repertorio dei classici greci, della lirica e la messa in scena di nuovi racconti letterari ed episodi fondamentali per le scoperte archeologiche.

L’ossatura è suddivisa in due piedi, due gambe, due cosce, un busto, una mano estesa e l’altra a pugno o doppie mani, legate tra di loro con il filo di ferro. Le misure dell’ossatura variano dai 45 cm. per i ragazzi e per gli angeli, ai 62-63 cm per i paggi misti e soldati; si arriva ai 56 cm per i cavalieri ed ai 70 cm per i giganti. I metalli usati per l’armatura sono l’alpacca o l’ottone con arabeschi in rame.

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Il pupo palermitano viene mosso dai lati del palcoscenico ed il puparo, coperto dalle quinte laterali, poggia i piedi dove poggiano i piedi i pupi. Il palcoscenico ha sei quinte laterali, tre per lato, e ogni quinta può ospitare un puparo, dunque a manovrare possono esserci fino a sei pupari. Nella scena del Don Giovanni gli opranti entrano nella scena a contatto con il pubblico.

Tra gli opranti e costruttori di pupi a Catania, si annovera la famiglia Napoli che ha saputo trasmettere l’arte dell’Opra, nella sua interezza, ai propri familiari.

Pippo Napoli, il capostipite, aveva appreso fondamenti e tecniche di questa particolare forma di artigianato dagli antichi maestri ramaioli che nei primi decenni del ’900 sbalzavano le armature dei pupi da teatro, alti fino a m 1,30.

Fiorenzo Napoli ha appreso dallo zio Pippo le regole dell’arte dell’Opera dei Pupi e le ha ulteriormente perfezionate attraverso una ricerca che gli ha consentito di abbinare raffinate lavorazioni di oreficeria alle tradizionali tecniche di sbalzo con palo e puntiddi.

Questo patrimonio di conoscenze è stato raccolto da Davide Napoli, che oggi, insieme a suo padre Fiorenzo, costruisce le armature. Collaborano in bottega anche Alessandro Napoli, per l’imbottitura e la foderatura dei busti, e Agnese Torrisi Napoli per la realizzazione dei costumi.

Il Pupo di tipo catanese, diffuso in tutta la Sicilia

Orientale, è alto in media m 1,30 e pesa 25/30 Kg. Proprio per il suo peso e la sua statura ha bisogno di

essere mosso dall’alto ed è per questo che i pupari catanesi hanno ideato una struttura di palcoscenico particolare.

Il pupo catanese non piega le ginocchia, è rigido ed ha un’andatura marziale.

Sia i paladini che gli altri guerrieri portano sempre la spada in pugno; rare volte abbassano la visiera, il

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combattimento inizia con una messa in guardia, poi i due guerrieri passano alla battaglia.

Ogni manovratore può muovere un solo pupo alla volta. Il puparo (impresario, paraturi, costruttore dei pupi,

cartellonista e manovratore) a volte si avvaleva di propri fedeli collaboratori, per lo più di familiari, per evitare fughe di notizie.

Tra le competenze necessarie per realizzare uno spettacolo sono indispensabili:

� il paraturi che dà voce ai diversi pupi, cambiandola e modulandola;

� il maniaturi che li fa muovere con maestria ed eleganza;

� il pruituri che porge il pupo giusto al momento giusto per l’ingresso in scena. Inoltre, cura la disposizione dei pupi negli appinnitura (paladini a destra, saraceni a sinistra) in modo da non sbagliare al momento di porgere il pupo;

� le donne che realizzano e ricamano gli abiti; � i bimbi, impegnati a suonare il pianino.

A Palermo, nella famiglia Cuticchio, Pina Patti Cuticchio (Palermo, 1984), solerte collaboratrice del marito, era impe-gnata nella vestizione dei pupi e nella pittura di scene e cartelloni.

Ancora oggi sopravvivono alcuni pupari che cercano di mantenere viva la tradizione, proponendo le rappresentazioni in maniera tradizionale o innovativa, talvolta con una vera e propria rassegna teatrale.

Tra le storiche famiglie di pupari si ricordano: Cuticchio, Argento, Mancuso e Greco di Palermo; Canino di Cinisi; Crimi, Trombetta e Napoli di Catania; Pennisi, Macrì e Grasso di Acireale; Profeta di Licata; Vaccaro-Mauceri di Siracusa.

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Giacomo Cuticchio fu il capostipite parlermitano del-l’Opera dei Pupi.

Il puparo curava lo spettacolo, le sceneggiature, i pupi, e

con un timbro di voce particolare riusciva a dare suggestioni, ardore e pathos alle scene epiche rappresentate. I pupari, pur essendo molto spesso analfabeti, conoscevano a memoria opere come la Chanson de Roland, la Gerusalemme Liberata, l’ Orlando Innamorato e l’Orlando Furioso.

Ogni pupo rappresentava tipicamente un paladino, caratterizzato per la corazza ed il mantello, e gli spettatori usavano parteggiare per l’uno o per l’altro creando delle vere e proprie competizioni tra gruppi.

Generalmente si contrapponevano, fra tutti, i sostenitori delle due figure più amate:

Orlando e Rinaldo; altre figure di rilievo: Carlo Magno, Angelica, Gano di Maganza (il traditore), i Saracini, Rodo-monte, Mambrino, Ferraù, Agramante, Marsilio, Agricane, etc.

Ogni puparo ha i suoi trucchi e tecniche sceniche ed il

proprio repertorio, spesso personalizzato, del quale è molto geloso e che rivela – il più tardi possibile – ai suoi aiutanti, di solito appartenenti alla sua famiglia, ma lavora sempre nel rispetto della ormai secolare tradizione.

Durante gli spettacoli il puparo usa spesso un linguaggio letterario particolare arricchito da alcune frasi dialettali ed i suoi spettacoli sono accompagnati dalla musica (originariamente eseguita da musicanti e, successivamente, da un organetto).

Essere un bravo puparo non significa soltanto essere un bravo artigiano, ma anche un bravo attore, visto che egli ha il compito di animare i Pupi e di dar loro la voce. Non a caso, da alcune famiglie celebri sono nati degli indimenticabili attori siciliani come Giovanni Grasso e Angelo Musco.

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La particolarità di uno spettacolo dei Pupi è che spesso la recitazione dei maestri pupari è a soggetto, sempre nel rispetto della sceneggiatura, collegata alla tradizione, e la rappresen-tazione può anche durare alcune ore. Spesso la rappresentazione si chiudeva con la farsa, uno spettacolo di marionette di tono licenzioso e buffo, con temi tratti dai personaggi delle tradizioni favolistiche siciliane allo scopo di smorzare le tensioni sviluppate tra i gruppi nel corso della rappresentazione.

A volte i pupari, per trasmettere contenuti non graditi alle autorità, si servivano di un gergo (comune ai malavitosi) detto baccagghiu (baccaglio).

In merito alle varie tematiche trattate nell’Opra dei Pupi, riprendiamo le fila della “Storia dei Paladini”: la rappre-sentazione consta anche di elementi importanti, a partire dalla messa in scena di alcuni eventi importanti come il tradimento, i rapporti tra Re e Vassalli e le varie contrapposizioni tra Bene e Male come l’opposizione lealtà-slealtà, il rispetto o meno delle regole sociali, l’opposizione classica tra Cristiani e Saraceni, ed anche di alcune tematiche importanti come quelle riguardanti la sfera politica, quella amorosa, quella familiare e quella sovrannaturale.

Spesso erano gli stessi pupari come Giuseppe Argento di

Palermo che preparavano i cartelloni o nella fattispecie face-vano ricorso ai pittori di carri.

Famosi e bravissimi cartellonisti palermitani furono: Nicolò Rinaldi detto Faraone, Nunzio Coppolone e Giovanni Di Cristina.

I cartelloni erano tramandati da padre in figlio per cui ogni puparo ne aveva sempre pronti moltissimi per le varie necessità di scena.

Dopo il 1950 questi quadri furono dipinti su tela di cotone e le fonti iconografiche dalle quali discendono i disegni e i tratti figurativi di questi cartelloni sono da attestare alla

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diffusione della Soria d’Italia tramite riviste settimanali e dai classici di Ludovico Ariosto, etc.

Il problema comunque s’inquadra in una ricerca decorativa che tiene conto degli esempi offerti da una vasta produzione di stampe e immagini popolaresche. Un unico filo li legava ai pittori di masciddara (gli scacchi dei carretti), agli opranti e ai cantastorie, sia per la materia narrativa, sia per la forte vis espressiva dei tratti, delle parole, dei messaggi di rimando.

Materia narrativa trasformata in comunicazione che, nel mettere in campo tutte le tecniche di una operosità e di un patrimonio tradizionale, si trasformava in strumento di informazione e ricomposizione sociale su temi e valori della propria appartenenza.

Attraverso le immagini il popolo vedeva scorrere le vicende epiche come in un notiziario, in un quotidiano, in un libro di storia che chiariva e giustificava l’importanza delle tematiche raffigurate nei laterali del carretto. Basti pensare alla presentazione dell’Opera dei Pupi attraverso gli scacchi dei cartelli che avevano la funzione di raccontare la progressione della storia come lo scorrere dei fotogrammi di una pellicola cinematografica.

I cartelloni erano appositamente dipinti dagli stessi mae-stri pupari, o dai familiari o facendo ricorso ai pittori di carri.

A Palermo, tra il 1920 e il 1950, si adoperavano dei cartelloni di carta da imballaggio dipinti a tempera, larghi 2 m e lunghi 3 o 4 m, suddivisi in scacchi (come quello usato dai cantastorie), nei quali erano illustrati i momenti salienti degli episodi, che dovevano essere rappresentati nell’Opra.

I riquadri variavano da un minimo di sei, per gli avvisi ordinari, ad un massimo di dodici per gli avvenimenti più importanti del ciclo, come per la rappresentazione della Rotta di Roncisvalle.

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A Catania, i cartelloni, realizzati nello stesso modo di quelli palermitani, proponevano un solo grande riquadro con il quale si reclamizzava la scena madre e centrale dello spettacolo di ogni giorno.

La rappresentazione dell’Opra era pubblicizzata, nei pressi del Teatro, da suggestivi e spettacolari manifesti / car-telloni, sapientemente realizzati dagli stessi pupari / pittori, coadiuvati dai propri familiari o dai pittori di carri.

Pitré descrive la partecipazione emotiva del pubblico:

“Lungamente aspettata, questa rappresentazione è la più clamorosa e la più interessante. Quindi giorni prima, … la si annuncia … Dell’annunzio si impradronisce il piccolo pubblico, e ne parla dentro e fuori del teatro; e se ne preoccupa.

L’oprante ne discorre un po’ … agli affezionati che gli fanno ressa prima della solita rappresentazione … è per loro crudele il veder morire tutti gli eroi che essi hanno seguiti per lunghi mesi … nelle loro imprese guerresche, palpitando e gioendo con essi e per essi …”.

La sala del teatro dell’area palermitana presenta un’am-piezza inferiore rispetto a quella catanese e il suo boccascena reca decorazioni molto ricche che simulano i panneggi, mentre in quello catanese i panneggi sono reali.

Il teatro catanese è molto più grande e può arrivare anche a 10 m di lunghezza, esso in genere si preparava all’interno di magazzini o scuderie.

Il Puparo, come già detto, è l’artista-artigiano vero fulcro

dell’Opra dei Pupi. Alle sue dipendenze lavorano almeno due aiutanti-ap-

prendisti e spesso opera con la collaborazione del fabbro-ferraio (per la realizzazione delle armature dei pupi), del pittore (per la realizzazione dell’indispensabile cartellone suddiviso in riquadri ed avente lo scopo di rappresentare gli avvenimenti principali dello spettacolo; il lavoro del pittore, inoltre, è

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indispensabile per realizzare le scenografie, decorare il teatro, etc.) e dello scrittore di dispense (dal suo lavoro il puparo trarrà i suoi copioni).

Ruoli determinanti per tale forma espressiva erano quelli dei “Cantàri“, dei “Cantastorie” e dei “Cuntastorie”, da ri-cordare per il merito di divulgare le avventure cavalleresche attraverso il “Cuntu” (racconto).

Tali artisti eseguivano a puntate le varie avventure degli eroi cavallereschi, schema che poi sarà riprodotto dall’Opra, ed è provato che già a partire dall’inizio del 1800 il loro repertorio comprendeva anche “I Reali” e una “Storia di Orlando e Rinaldo”, per poi aggiornarsi con le cronache del momento.

Lo stile pittorico dei cartelli era fortemente condizionato dalla funzione che essi dovevano assolvere, cioè raccontare la storia, attraverso i cartelloni esposti sulla strada.

Quelli palermitani, di solito cm 1,30 x 1,50 e h. m 2, sono divisi in riquadri (scacchi) e dipinti su tela a tempera, mescolata con colla animale per consentire di conservare il cartello arrotolato intorno a uno dei due bastoni fissati alle estremità del supporto che preserva la pittura.

Il pittore, nello spazio riservato a ogni scacco, con poche pennellate veloci e un’ambientazione scenica essenziale, illustrava l’episodio puntando su particolari salienti, di facile presa emotiva, utilizzando colori vivaci.

Il “Cantastorie” era l’artista-girovago che tratta il tema epico attraverso il canto.

Il “Cuntastorie” eseguiva gli stessi temi attraverso la semplice declamazione, affidandosi all’arte della parola, utiliz-zando una particolare metrica, imparando tutte le regole della narrazione.

All’inizio furono i cantastorie a tramandare “le storie” at-traverso racconti.

Il racconto popolare, in particolare, dell’epica caval-leresca franco-normanna, utilizzò – a partire dal XIX sec. – il

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pupo già conosciuto rivestendolo di fogge che si rifacevano alla iconografia cinquecentesca.

Gli eroi paladini rappresentati nel teatro dei pupi, uni-tamente alla esaltazione dei valori morali di cui sono campioni, mettono in risalto il confronto tra la civiltà europea ed islamica, del cui urto la Sicilia è stata teatro; per questi valori i paladini lottano e muoiono, rimanendo cosi nella cultura popolare tra il mito e la storia vera.

“Il cuntu è preceduto dal gesto del segno della croce, al quale l’uditorio divotamente si scopre, dura un paio d’ore compresa qualche breve pausa, tanto per prendere il contatore lena e riposo. In questi brevi intervalli, senza scendere dalla sua tribuna, egli lascia di essere quel che è, fiuta qualche pizzico di quello che gli esibisce qualcuno de’ vicini e attacca conversazione sopra un passaggio della storia in corso…”.

Il cantastorie siciliano “recita tutto a mente, quasi sempre senza aver letto mai un libro, essendo egli ignaro perfino dell’alfabeto …” (G. Pitré).

Il Pitrè così trascrive: “Il racconto di Rinaldo dev’essere recitato sempre a un modo, con le medesime pause, con la medesima cantilena, con una declamazione spesso concitata, più spesso affannosa, intenzionalmente oratoria: talora lenta, alcuna volta mutata d’improvviso in discorso familiare e rapido.

Testa, braccia, gambe, tutto deve prender parte al racconto: la mimica essendo parte essenziale del lavoro del narratore.

Sopra una specie di predella … o palcoscenico … il cantastorie coi movimenti degli occhi, della bocca, delle braccia, de’ piedi conduce i suoi personaggi, li presenta, li fa parlare come ragion vuole; ne ripete per punto e per virgola i discorsi, ne declama le arringhe; fa schierare in battaglia i soldati, li fa venire a zuffa agitando violentemente le mani e pestando coi piedi come se si trattasse di zuffa vera e reale”.

Il Pitré continua: “In tanta concitazione, egli dà un passo addietro, un altro in avanti, levando in alto, quanto più alto può,

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i pugni chiusi e slungando e piegando convulsamente le braccia. Il bollore cresce: gli occhi dell’oratore si spalancano, le nari si dilatano per la frequenza del respiro, che sempre più concitata fa la parola.

I piedi alternativamente battono il suolo, che pel vuoto che c’è sotto rintrona; alternansi i movimenti di va e vieni delle braccia, e, tra mozze parole e tronchi accenti, muore chi ha da morire, e il racconto, monotono sempre, ritorna calmo come se nessuno fosse morto, come se duecento, quattrocento uditori non fossero stati sospesi, palpitanti, crudelmente incerti dell’esito della pugna, pendendo dalle labbra dell’infocato narratore.

Questa si chiama, popolarmente parlando, arte vera: e questa comprende, e vuole il popolo adulto”.

Tra i cantori ricordiamo gli Orbi e ciechi, gli aedi, di

omerica memoria, la cui cecità era considerata un dono divino. A Palermo, fino agli anni ’60, come raccontava il

cantastorie palermitano Fortunato Giordano, i cantastorie erano solitamente ciechi e, dietro ricompensa, si esibivano a cantare storie sacre presso le case dei parrocciani, persone devote che li chiamavano per ascoltare le loro cantate, cioè le novene dedi-cate ai santi o all’Immacolata o quella di Natale.

Il Villabianca ricorda che nel ’700 il repertorio dei cunta-storie includeva anche storie cavalleresche.

Vigo, Salomone Marino e Pitré ricordano che tra il loro repertorio si attestano anche fatti di cronaca.

Il Pitré dice che essi solevano accompagnare lo spet-tacolo dell’opera dei pupi “prima che i pupari decidessero di sostituirli con un più economico organetto”.

Va il merito a Mimmo Cuticchio di aver inserito inno-vative espressioni, attraverso la messa in scena del gran duello come summa di elementi criticamente rivisitati in funzione di una lettura moderna del testo tradizionale.

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È una innovazione rispetto alle strutture narrative dell’opera, dove il linguaggio scenico si arricchisce di lati spettacolari e lo svolgimento della storia, tramandata dalla tradizione, è concentrata sugli episodi più significativi dal punto di vista scenografico.

“Questa flessibilità del tessuto drammaturgico ha consentito all’opera di sopravvivere alla scomparsa della propria committenza … Rinnovamento indotto dalle mutate condizioni socio-culturali, ma che dimostra la capacità dell’opera dei pupi di plasmare nuove soluzioni e nuovi stimoli senza negare la propria identità”.

Come evidenzia il R.E.I., tali SAPERI, cioè “le tecniche

di produzione, le materie prime impiegate e i processi produttivi che identificano un particolare prodotto legato alla storia e alle tradizioni antiche di un gruppo sociale o una località (es.: prodotti di artigianato artistico, oggetti, prodotti enoga-stronomici, etc.)”, rappresentano la cultura immateriale che si concretizza nei manufatti, che hanno la prerogativa di essere riconosciuti come un momento significativo dell’identità culturale della collettività. In questa categoria rientra a pieno titolo la realizzazione del pupo siciliano, a cui il puparo dà anima, voce, identifica un personaggio storico (cavalleresco o altro), gli conferisce l’essenza umana, culturale e spirituale, con il tentativo – oggi più che mai – di sottrarlo a quelle false interpretazioni che lo associano a mero simbolo folklorico.

L’Opera dei Pupi di Mimmo Cuticchio, riconosciuta dall’UNESCO patrimonio immateriale dell’Umanità, rientra a pieno titolo – nel Libro delle ESPRESSIONI del REI del nostro Assessorato – tra le espressioni artistiche letterarie, musicali, plastiche, visive, sceniche, etc., simbolo di un modo di sentire e di essere di un determinato gruppo sociale o comunità.

Il maestro Mimmo Cuticchio – emblema della trasmis-sione orale del cunto e della tradizione teatrale dell’Opera dei

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Pupi – grazie alla sua costante dedizione, ha saputo recuperare queste tradizioni dall’oblio, tutelandole, rivitalizzandole e valorizzandole, avvicinando il pubblico al patrimonio teatrale, artistico, poetico e spettacolare, facendo prevalere la valenza culturale, anziché quella folkloristica e/o turistica, facendo riscoprire l’identità culturale di una comunità e di un territorio.

L’Opera dei Pupi, dalla sua nascita fino agli anni ’50, sia in Sicilia che in alcune nazioni europee, si è affermata come forma di aggregazione sociale e mezzo di acculturazione.

La gente semplice, per la maggior parte analfabeta, aveva la possibilità, attraverso i cunti e le rappresentazioni dell’Opera, di acculturarsi mediante l’apprendimento e la conoscenza di fatti di cronaca a loro contemporanei, di opere letterarie (mediante trame sintetiche dei capolavori della letteratura, italiana ed estera, portate in scena o “cuntate”); di avvenimenti storici (fatti reali e fedeli alla storia o episodi storici fusi con quelli fantastici, tratti dalla letteratura epica-cavalleresca); di uomini, cose e luoghi lontani (a volte inventati); ma, in particolare, ha permesso allo spettatore – erudito o no – di interrogarsi sui propri sentimenti, di guardarsi interiormente, di confrontarsi con l’eroe o con l’antieroe, con gli aspetti nobili e spregevoli dell’essere umano.

L’Opra dei Pupi, e contestualmente la tradizione orale dei

cuntisti e dei cantastorie, dopo aver attraversato un periodo di oblio, mettendo a rischio uno spaccato di vita teatrale popolare, talune forme artistiche tradizionali e antichi mestieri vitali fino agli anni ’50, rivive oggi grazie all’entusiasmante impegno dei pupari – figli dei pupari storici –, di sensibili uomini di cultura, letterati e di estimatori che, rendendosi conto che l’immane “capolavoro artistico tradizionale” creato, ed ereditato, dai loro predecessori, stava per cadere nell’oblio, hanno pensato bene di recuperarlo dall’abbandono, salvaguardandolo e rivitalizzan-dolo, per offrirlo alle nuove generazioni e all’universo culturale.

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L’UNESCO l’ha consacrata tra i capolavori del patrimonio immateriale e orale dell’umanità, considerandola un tesoro culturale da recuperare, proteggere e vivificare, per restituirla nella sua globalità tradizionale ed artistica al mondo intero. È con questi sentimenti di speranza che i nuovi pupari, cuntisti, cantastorie, gli artigiani tradizionali, infervorati dall’idea di poter riutilizzare gli “antichi ferri del mestiere” vogliono trasmettere alle nuove generazioni, mediante appositi Laboratori, le attività lavorative che ruotano intorno all’Opra, dalla riproposizione della tradizione orale dei cuntisti e dei cantastorie e degli spettacoli teatrali, alla pittura di scene e cartelli, alla realizzazione dei costumi, allo sbalzo dei metalli delle armature, all’intaglio del legno per i corpi, etc., con l’intento di far rivivere il patrimonio orale tradizionale e l’Opra, pur apportando una innovativa spettacolarizzazione, non solo per conquistare un nuovo pubblico, ma anche con l’obiettivo di trovare, al di là del contesto tradizionale, una nuova forma di aggregazione culturale, infondendo nei giovani sentimenti di sensibilità verso questo prezioso patrimonio.

Oggi, piccole e grandi città, più o meno famose, nel

rispetto del recupero, tutela e valorizzazione del patrimonio orale tradizionale e dell’Opera, in tutti gli aspetti produttivi e nelle forme artistiche ad essa afferenti, inseriscono – in apposite rassegne o festival internazionali – le rappresentazioni del cuntu e dell’Opra, riscontrando particolare attenzione da parte dell’intera comunità internazionale.

* Questo contributo si è avvalso della collaborazione di Maria

Alfonsa Lo Grasso.

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claudio mocchegiani carpano

archeologia in acqua dalla conoscenza alla tutela

Negli ultimi decenni, lo sviluppo della tecnologia ha

permesso all’uomo di effettuare indagini sempre più accurate nell’acqua e nelle profondità marine, al punto che è apparso in tutta la sua grandiosa complessità il territorio sommerso ricco di beni archeologici.

La necessità dell’archeologia di intervenire con metodi scientifici per lo studio, lo scavo, la documentazione, il recupe-ro e il restauro, hanno fatto emergere la necessità di formazione di operatori tecnici e scientifici, che potessero intervenire per ogni operazione in acqua in modo analogo a come è prassi ope-rare in ogni cantiere di scavo archeologico a terra .

Ogni intervento su un sito archeologico prevede la presenza di varie figure professionali direttamente impegnate nella direzione e conduzione dello scavo; per la stessa necessità dell’impostazione di un rigoroso lavoro in acqua, sono, per la moderna attività archeologica in acqua, indispensabili, arche-ologi, disegnatori, fotografi, restauratori nonché geologi e altre professionalità scientifiche e che siano abilitati all’immersione subacquea ottenuta attraverso corsi specifici .

Deve essere quindi l’archeologo subacqueo (laurea in archeologia più brevetto d’immersione) ad organizzare e dirige-re il cantiere, avvalendosi anche di operatori subacquei addetti alla sicurezza.

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A fronte di queste necessità della ricerca scientifica in acqua e della formazione degli operatori, sono intervenute numerose Università italiane, che hanno attivato insegnamenti di archeologia subacquea e in alcuni casi attività di formazione in acqua.

Da quanto sopra, emerge la necessità di uniformare a li-vello internazionale le tecniche e le metodologie di intervento sui siti archeologici dove, è più che evidente, si dovranno applicare in acqua le tecniche dell’archeologia, tenendo presente la diversità dell’ambiente in cui si opera e la necessità di poter usufruire di archeologi e tecnici specializzati. Le difficoltà del recupero di un legno sommerso, ad esempio, esigono la presenza di un restauratore che dovrà intervenire direttamente sul reperto in acqua, predisponendo contestual-mente a terra, gli idonei mezzi per il primo intervento fina-lizzato ad una corretta conservazione. Nello stesso modo l’uti-lizzo della “sorbona” (aspiratore ad aria) unico mezzo per lo scavo in acqua, dovrà essere compito dell’archeologo che è in grado di valutare le stratificazioni e di conseguenza regolare il flusso e la potenza di aspirazione.

Un’importante iniziativa nel settore della formazione degli archeologi subacquei è stata realizzata nel 2008 dallo STAS del Ministero per i Beni e li Attività Culturali che, su richiesta del Consejo de Monumentos Nacionales del Cile, per interessamento dell’Istituto Italo - Latino Americano che ha or-ganizzato un corso teorico-pratico a Santiago del Cile di archeologia in acqua e restauro dei reperti sommersi.

Più di recente la Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e il Centro di Coordinamento delle Prospezioni Archeologiche di Roma (CCPAS) hanno effettuato numerose ricognizioni in Libia (Cirenaica 2007/2008) su siti sommersi in collaborazione con le autorità scientifiche locali anche al fine di organizzare succes-sivamente corsi di formazione per il personale archeologo.

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archeologia in acqua

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Per affrontare il problema della tutela del patrimonio ar-cheologico sommerso, non si possono non fare alcune consi-derazioni generali relative agli interventi dello Stato italiano in materia di tutela e organizzazione degli organi preposti al con-trollo e alla difesa dei beni culturali.

Se, come abbiamo visto, per il lavoro archeologico è indispensabile la presenza dell’archeologo e la sua equipe in acqua, è altrettanto importante, per effettuare una completa opera di salvaguardia, essere supportati da una precisa normativa di legge idonea a regolamentare questa nuova frontiera della ricerca.

Per questo motivo il fattore “conoscenza” di ciò che si intende tutelare, è elemento base che ha condizionato la limitata normativa di legge necessaria per rendere incisiva l’attività dei funzionari preposti a tali attività .

La necessità di un'organizzazione a livello nazionale del più ampio settore dei beni culturali, si avvertì nel 1875 con l’istituzione di una Direzione Centrale degli Scavi e dei Musei, struttura minima inserita nell’ambito del Ministero della Pubblica Istruzione, quasi a sottolineare il limitato interesse del settore, a fronte però della parziale conoscenza della reale consistenza dell’immenso patrimonio culturale nella Nazione.

Sempre nell’ambito dello stesso Ministero, solo nel 1881, il ministro Guido Baccelli intuì la necessità di una più ampia articolazione del settore con l’istituzione della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, creando le Soprintendenze specializzate; ai Monumenti, all’Archeologia, alle Gallerie. La sensibilità per il settore dei beni culturali iniziava attraverso il lavoro di studiosi e specialisti sempre più preparati e formati da strutture universitarie moderne.

Probabilmente l’esperienza del recupero delle due navi di Nemi, avvenuto tra il 1928 e il 1932 tra lo stupore e l’ammi-razione del mondo intero, contribuì notevolmente all’affina-mento di metodologie di scavo, recupero, restauro e musea-lizzazione e a far emergere l’esigenza di disposizioni di legge

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che potessero regolamentare i vari e diretti aspetti della tutela, specialmente in campo archeologico, dove regnava ancora un anarchico approccio all’antico, di scavatori irregolari e grandi collezionisti promotori di scavi personali.

Solo nel 1939 si predispose anche il riordino delle Soprintendenze Archeologiche, definendo il compito di tutela degli interessi archeologici nazionali, regolamentando, tra l’altro, le attività di scavo nelle circoscrizioni territoriali.

Una svolta epocale fu rappresentata dall’emanazione della Legge del 1° giugno 1939, n, 1089 “Tutela delle cose di interesse artistico e storico”, pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’8 agosto 1939, n. 184, e che sostituiva le norme di un primo Regio Decreto in materia del 30 gennaio del 1913.

Nel dispositivo, articolato il otto Capi e 73 articoli, si affrontava in maniera esaustiva e approfondita il problema della tutela del patrimonio culturale della nazione, dotando di precise normative di riferimento per le attività di preservazione e studio i funzionari archeologi e gli addetti delle Forze dell’Ordine preposti alla prevenzione e alla repressione dei reati in questo settore.

In particolare (Capo I, art, 1-10 “Disposizioni Generali”), venivano individuati e definiti i beni sottoposti a tutela:

“1. Sono soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi:

a. le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà;

b. le cose di interesse numismatico; c. i manoscritti, ecc ……”.

Venivano stabilite, tra l’altro, disposizioni per la conservazione, l’integrità e sicurezza delle cose (Capo II, artt. 11-12), sull’esportazione ed importazione (Capo IV, artt.35-42) e sull’alienazione e gli altri modi di trasmissione delle cose (Capo III, artt. 23-34).

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Il Capo V, relativo alla disciplina dei ritrovamenti e delle scoperte, rappresentava un importante pronunciamento a favore di una più attenta e oculata tutela dei beni archeologici, dettando disposizioni precise sui ritrovamenti fortuiti, sulle autorizzazioni di scavo e su gli eventuali indennizzi a scopritori casuali e a proprietari di terreni a “ rischio” archeologico.

L’archeologia in acqua doveva ancora nascere e la “conoscenza” del patrimonio archeologico sommerso inizierà solo nel primo dopoguerra grazie alla lungimiranza dell’archeologo Nino Lamboglia, il lavoro di centinaia di volontari, l’attività dei primi archeologi subacquei delle Soprintendenze, fino ad approdare ad un grande progetto di censimento nazionale delle migliaia di siti sommersi (Archeomar) promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali che sta fornendo importanti e inediti dati sull’immenso patrimonio archeologico conservato nei mari italiani.

L’applicazione delle normative predisposte dalla legge del 1939 ha regolato l’attività di tutela svolto dalle Soprin-tendenze Archeologiche affiancate dalle Forze dell’Ordine, fino al 2004 con la Pubblicazione della cd. Legge Urbani, che è una rielaborazione e un aggiornamento della precedente normativa.

Resta il problema generale dell’applicazione di parte delle normative previste per le scoperte fortuite e le ricerche archeologiche in ambiente acquatico (mari, laghi, fiumi), territori sommersi di proprietà demaniale che conservano resti archeologici mobili o immobili in particolare condizioni di giacitura, conservazione e di diverse tipologie.

La non “conoscenza” del patrimonio sommerso ha previsto, nelle disposizioni di legge, sempre situazioni di terra; in acqua, le norme spesso rischiano di favorire le attività dei cercatori di tesori che, prelevando, ad es., un'anfora da un contesto di un relitto, e motivando l’operazione come atto di tutela, recano grave danno a un contesto archeologico che

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dovrebbe rimanere inalterato fino all’intervento degli archeologi subacquei.

Gli articoli della Legge 10891 predisposti per la tutela dei rinvenimenti archeologici e che sono naturalmente applicati anche per quelli subacquei, restano di ambigua interpretazione per i siti sommersi dove è invece necessario segnalare la scoperta e non alterare minimamente lo stato dei siti. In particolare l’interpretazione dell’art.48 del Capo V ha con-sentito, almeno per il passato, il potenziamento delle raccolte dei subacquei sportivi e dei circoli sub.

Dal 1986 l’attività di coordinamento effettuata dal Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (STAS), attraverso un capillare coinvolgimento e formazione delle unità nautiche e subacquee delle Forze dell’Ordine, ha contribuito a ridurre questo “malvezzo legalizzato”. Per altro verso è dove-roso ricordare anche l’attività didattica delle varie Associazioni che rilasciano brevetti sub, e che nel programma spesso prevedono lezioni di archeologia mirate alla conoscenza delle problematiche e alla sensibilizzazione per la tutela del comune patrimonio subacqueo.

Del resto ancora nel 1964 quando venne istituita (Atti Commissione Franceschini –“Per la salvezza dei beni culturali in Italia”, Casa editrice Colombo – Roma 1967) una “… Commissione … per la tutela e la valorizzazione del Patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio … incaricata di condurre un’indagine sulle condizioni attuali e sulle esigenze da soddisfare per una sempre più efficace opera di tutela e valorizzazione del nostro Patrimonio …”, tra gli argomenti del lavoro pubblicati in tre volumi di circa 3000 pagine, non viene mai considerato quello dell’archeologia subacquea.

Dobbiamo a questo punto segnalare un paradosso della

normativa che prevede l’attività dei funzionari archeologi sul territorio di loro competenza.

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Come si sa, il Paese è suddiviso in aree di competenza delle singole Soprintendenze Archeologiche che predispongono una organizzazione interna di incarichi sul territorio attribuiti ai vari funzionari; secondo la Legge sono “territorio demaniale dello Stato: la terra ferma, il mare e i fondali fino alle 12 miglia marine (di recente fino a 24,) i laghi e i loro fondali e i fiumi e i loro alvei”.

Come precedentemente riferito, resti e siti archeologici sono stati individuati negli ultimi anni nel mare: relitti e aree edificate sommerse; nei laghi: villaggi palafitticoli e piroghe; nei fiumi: relitti e strutture portuali, al punto che possiamo parlare di un immenso patrimonio archeologico sommerso quasi pari per importanza a quello di terra .

Dal punto di vista legislativo non esiste differenza tra territorio emerso e sommerso e quindi i funzionari archeologi hanno, oltre che il diritto, il dovere di intervenire correttamente, scientificamente e direttamente (l’attività archeologica di tutela non può essere delegata) su ogni segnalazione, scavo o recupero. Oggi, però, nonostante la conoscenza della reale consistenza del patrimonio sommerso, non esiste alcuna norma legislativa che autorizzi, chi per Legge sia obbligato a intervenire e a svolgere un lavoro scientifico in immersione nell’ambito delle attività di ufficio, essendo però tutelato da disposizioni specifiche con relative equiparazioni con i sommozzatori che operano per conto dello Stato (Vigili del Fuoco, Carabinieri, Finanzieri, Polizia di Stato, Guardia Costiera ecc ).

In effetti i vari Ministri che si sono avvicendati alla direzione del Ministero per i beni e le Attività Culturali hanno avviato decine di iniziative per la regolamentazione e l’organizzazione dell’attività archeologica subacquea che spesso sono “evaporate” con l’avvicendamento dei Governi. Ad esempio sono decine i disegni di legge presentati che preve-devano un'organizzazione dell’attività di ricerca e tutela attra-

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verso la creazione di una struttura autonoma per l’archeologia subacquea e la formazione dei quadri e il loro riconoscimento legislativo, che non hanno avuto seguito pur essendo approdati al vaglio della Commissione Cultura della Camera.

Unica nota positiva, che doveva essere interlocutoria in attesa di una disposizione di legge mai avvenuta, è stata l’iniziativa nel 1995 della Direzione per i Beni Archeologici che, attraverso il Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (istituito nel 1986), ha organizzato per i dipendenti delle Soprintendenze due corsi: uno per archeologi e tecnici (disegnatori, fotografi, ecc.) e uno per restauratori, volti a verificare la capacità di effettuare immersioni scientifiche. Il personale che superò le prove pratiche e teoriche, venne abilitato con un decreto Dirigenziale a effettuare per motivi di servizio immersioni subacquee, avendo generalmente l’apporto logistico dei subacquei dell’Arma dei Carabinieri , della Guardia di Finanza, della Polizia di Stato , dei Vigili del Fuoco e della Guardia Costiera.

Questa fondamentale iniziativa ha reso possibile, pur nell’inadeguatezza di fondi e mezzi, l’attività di controllo e scavo dei siti sommersi svolto dalle Soprintendenze Archeologiche a partire dal 1995. Resta l’improrogabile necessità dell’istituzione a livello nazionale di una struttura operativa di coordinamento, diretta da archeologi subacquei, in grado, come del resto è positiva realtà di molti stati mediterranei, di operare scientificamente e di poter applicare con certezza le leggi di tutela.

Tanta superficialità e non particolare attenzione ai problemi della cultura, a causa anche della non conoscenza dei problemi, è documentata dal fatto che l’attuale Ministero per i Beni e le Attività Culturali è stato istituito grazie all’inte-ressamento del ministro Spadolini soltanto nel 1975 (legge 29 gennaio 1975, n. 5) a sostituzione della precedente Direzione, operativa nell’ambito del Ministero della Pubblica Istruzione.

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A seguito delle abilitazioni del personale archeologo e per interessamento dello STAS, con decreto Ministeriale del 12 luglio 1989, il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e il Ministero della Marina Mercantile emanarono “Disposizioni per la tutela delle aree marine di interesse storico,artistico o archeologico” che coinvolgevano l’attività di polizia giudiziaria del personale delle Capitanerie di porto attraverso la Guardia Costiera e le unità subacquee anche a supporto delle iniziative di intervento archeologico subacqueo, del personale abilitato all’immersione delle Soprintendenze archeologiche . Tra le operazioni previste era (art. 3) anche una serie di norme sul riconoscimento dei brevetti degli operatori dipendenti ai fini della iscrizione nel registro di cui all’art .68 del codice della navigazione.

Questa nuova collaborazione tra Guardia Costiera, STAS e Soprintendenze è stata di estrema utilità per operazioni di vigilanza e prevenzione in aree marine ad alto rischio e di conseguenza i controlli effettuati dalla Guardia Costiera lungo le coste italiane assumevano anche una nuova valenza ar-cheologica a fronte di attività di immersioni illegali su siti a rischio archeologico.

L’art. 5 forniva un primo ed efficace strumento di tutela in collaborazione con una struttura operativa preposta alla vigilanza in mare2.

Un grosso contributo alla regolarizzazione e alla pianificazione della tutela dei beni culturali è stata l’istituzione di un comando Carabinieri alle dirette dipendenze del Ministro, il TPA, nel marzo 1992, (D.M. 5 marzo 1992 – Istituzione del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico).

All’articolo 3 sono delineate le attività del nucleo “I Carabinieri per la tutela del patrimonio artistico, nelle materie demandate alla potestà del Ministero per i beni culturali e ambientali svolgono altresì attività di prevenzione e repressione per quanto attiene alla tutela e alla salvaguardia del patri-

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monio storico, artistico, culturale ed ambientale nonché il recupero dei beni culturali, del materiale scientifico e didattico inerente ai beni stessi e svolgono ogni attività che il Ministero ritenga necessaria per l’assolvimento delle funzioni attribui-tegli dalla legge” .

L’esistenza di personale dell’Arma altamente specia-lizzato nel settore dei beni culturali, ha reso possibile una collaborazione indispensabile, tra la struttura operativa del Ministero, il Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea , e i subacquei e le unità navali dei Carabinieri, che sono intervenuti con gli archeologi del ministero in migliaia di operazioni di recupero, vigilanza e scavo rendendo così possibile una veloce e capillare attività su tutto il territorio nazionale a favore del lavoro istituzionale delle Soprintendenze.

Non sono quantificabili gli interventi di emergenza su siti archeologici sommersi dove era necessaria una rapida ope-ratività logistica, ma anche un attenta vigilanza del territorio a fronte di tentativi di attività di clandestini. Ai fini di una migliore informazione del personale subacqueo dell’Arma, lo STAS ha organizzato a Procida nel 1997 un “Corso di pronto intervento in archeologia subacquea per i sommozzatori dell’Arma dei Carabinieri”.

Più di recente anche la Guardia di Finanza ha potenziato il settore della tutela dei beni culturali predisponendo il Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico del Nucleo Polizia Tributaria di Roma, che ha raggiunto risultati di eccellenza. Già da molti anni le unità navali della Guardia di Finanza e i nuclei di sommozzatori, hanno operato in collaborazione con il Ministero per attività di controllo costiero e in alto mare; va ricordata una grande operazione simultanea di controlli in mare “Operazione Ipotesi”, che si svolse nell’agosto del 1987 e vide coinvolte in un solo giorno 20 unità navali, 6 elicotteri, 500 militari e 20 archeologi. Con questa operazione simultanea sono stati controllati in un sol giorno i circa 8000 chilometri di costa

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marina e sono stati effettuate decine di fermi e segnalazioni di attività di clandestini. Su ogni unità navale era imbarcato un archeologo; il pattugliamento della costa laziale portò alla scoperta di un vero e proprio cantiere archeologico subacqueo clandestino presso l’isola di Ventotene.

Dal 4 al 7 giugno 2001, lo STAS in collaborazione con il CCPAS di Roma, ha organizzato, a Gaeta, presso la Scuola del Mare, il “I Corso Nazionale per la tutela dei beni culturali sommersi per operatori della Guardia di Finanza” al quale hanno partecipato undici sommozzatori militari.

Nel 2004 venne pubblicato un decreto legislativo (D.L. 22 gennaio 2004, n. 42 recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) con il giusto obiettivo di modificare i criteri della tutela alla luce dei molteplici avvenimenti successivi all’emanazione della legge del 1939, al mutato e delicato rapporto con il territorio a fronte delle grandi trasformazione ambientali e al grande numero di nuove tipologie di testimonianze culturali .

Ma l’aggiornamento della nuova normativa di tutela non ha acquisito nessun nuovo elemento per aumentare o raffinare gli strumenti di tutela dei beni culturali sommersi.

Osservando le nuove norme e i nuovi soggetti a tutela scopriamo:

Parte Seconda, art. 10, 4.i Beni Culturali “le navi e i gal-leggianti aventi interesse artistico, storico o etnoantropologico”;

Parte Seconda, art. 11, 1.g Beni di specifiche disposizioni di tutela, “i mezzi di trasporto aventi più di 75 anni, di cui agli articoli 65 e 67, comma 2”;

Parte Seconda, art. 11, 1.i Beni di specifiche disposizioni di tutela, “le vestigia individuate dalla vigente normativa in materia di tutela del patrimonio storico della prima guerra mondiale, di cui all’articolo 50, comma 2”.

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L’interpretazione di questi articoli prevede quindi la possibilità di tutela di tutti i mezzi militari impiegati durante la I guerra mondiale, molti dei quali si conservano in mare o nei laghi (unità navali, sommergibili, aerei, ecc), che sono stati spesso obiettivo di subacquei senza scrupoli alla ricerca di trofei storici. Si potrà inoltre intervenire per tutelare vecchie imbarcazioni tipiche regionali che in passato sono state demolite senza scrupoli, depauperando la documentazione storica sulla marineria italiana.

Per quanto riguarda le scoperte fortuite l’argomento è trattato nella Parte Seconda, art. 90, ed è articolato su quattro commi (poche le differenze con la legge del 1939, si poteva, per una maggiore azione di tutela, eliminare il comma 2 )3.

Sarà sempre la “non conoscenza” del problema a limitare le aree sommerse al solo mare?

Il legislatore del 2004 è forse stato condizionato dai grandi eventi sottomarini, dai bronzi di Riace al Satiro di Mazzara del Vallo, dimenticando o “non conoscendo”, come abbiamo già rilevato, le peculiarità archeologiche di laghi e fiumi i cui fondali sono peraltro di proprietà demaniale.

Di ben altro spessore nei contenuti e nelle disposizioni è, come vedremo, il testo della Convenzione UNESCO per la tutela dei beni culturali sommersi.

Nella nuova legge del 2004, ricordata anche come Codice Urbani, è quindi inserito un nuovo articolo riguardante, per la prima volta, problemi di rinvenimenti e ricerche archeologiche in mare.

Negli ultimi anni, potendo disporre di mezzi idonei per le esplorazioni in alti fondali, dove per altro lo stato di conservazione dei relitti è eccellente, gruppi di ricercatori hanno iniziato, in acque internazionali, ricerche mirate all’indi-viduazione di resti navali al fine di recuperarne il prezioso contenuto archeologico. Nel Mediterraneo in prossimità delle coste italiane e con complicità varie, è intervenuto il geologo

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Ballard, noto ricercatore di tesori, che seguendo un'improbabile rotta tra Cartagine e Roma, ha individuato vari relitti attraverso l’uso di un sommergibile-laboratorio e di diversi rov, effettuando quindi numerosi recuperi di oggetti archeologici. Naturalmente queste operazioni dovevano essere concordate con le autorità scientifiche dei due paesi (Italia e Tunisia) perché in ogni caso i resti archeologici appartengono alla storia e alla cultura delle nazioni interessate, che ne avrebbero curato il restauro e principalmente la conservazione.

Allo stato non è noto conoscere con certezza il numero reale dei reperti archeologici raccolti sui fondali e decontestualizzati, forse in musei o collezioni private in varie parti del mondo. Lo scalpore suscitato da questa e altre operazioni “clandestine”, ha visto in primo piano il mondo accademico internazionale che ha posto la questione all’UNESCO, sicché, attraverso una serie di riunioni a Parigi con tutti i rappresentanti mondiali della cultura, si è arrivati alla formulazione di un'apposita Convenzione per la tutela del Patrimonio Culturale Subacqueo.

Parte Seconda, art. 94: Convenzione UNESCO: “1, gli oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali

della zona di mare estesa dodici miglia marine a partire dal limite esterno del mare territoriale sono tutelati ai sensi delle “Regole relative agli interventi sul patrimonio culturale subacqueo2 allegate alla Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, adottata a Parigi il 2 novembre 2001”.

L’approvazione della Convenzione UNESCO è indiscuti-bilmente un successo della cultura e dell’archeologia subacquea e il risultato del lavoro di decine di esperti archeologi subacquei in rappresentanza di tutti gli stati del mondo, che si sono confrontati contribuendo con la loro esperienza a stilare un protocollo di lavoro articolato in trentasei regole di notevole caratura.

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A conferma di ciò si riportano alla nota 4 alcune regole particolarmente illuminanti4.

Da queste poche, ma significative, regole della Con-venzione UNESCO, emerge il risultato del lavoro di esperti nel settore e non è necessario alcun commento se non quello che il Governo italiano, principale promotore dell’iniziativa sollecitata dal mondo accademico , ha tardato vari anni, ancora una volta, prima di ratificare la Convenzione e contribuire quindi a renderla operativa almeno in area mediterranea.

Resta pur sempre un problema di “non conoscenza” delle problematiche archeologiche subacquee le cui normative sono generalmente gestite da burocrati.

Oggi il Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea, istituito nel 1986 dal Direttore Generale prof: Francesco Sisinni, la cui attività è stata ratificata da decreti dei Ministri Bono Parrino e Andreotti, prima struttura operativa nazionale di coordinamento e promozione a disposizione delle Soprin-tendenze Archeologiche, non esiste più perché stravolto e neutralizzato dalle logiche della riorganizzazione realizzate negli ultimi anni dal Ministero per i Beni e Attività Culturali.

Per la ricerca archeologica subacquea in Italia assistiamo alla politica del gambero! Speriamo in un futuro di conoscenza e sensibilità reale.

1 Legge n. 1089 del 1939 - capo V art .48: “- Chiunque scopra fortuitamente cose mobili o immobili di cui all’1 deve farne immediata denuncia all’autorità competente e provvedere alla conservazione temporanea di esse, lasciandole nelle condizioni e nel luogo in cui sono state rinvenute. Ove si tratti di cose mobili di cui non si possa garantire altrimenti assicurare la custodia, lo scopritore

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ha facoltà di rimuoverle per meglio garantire la sicurezza e la conservazione sino alla visita della autorità competente, e, ove occorra, di chiedere l’ausilio della forza pubblica. Agli stessi obblighi è soggetto ogni detentore delle cose scoperte fortuitamente. Le eventuali spese sostenute per la custodia e rimozione sono rimborsate dal Ministero per l’educazione nazionale” .

2 D.M. 12 luglio 1989, art. 5: “Il Ministro della marina

mercantile detterà disposizioni perché i titolari di attività economiche svolgentesi in mare, soggette a concessioni od autorizzazioni amministrative, siano richiamati al dovere di segnalare al servizio di Guardia Costiera della competente Capitaneria di Porto e alle autorità operanti in mare in funzione di polizia, nonché al Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio Centrale, Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea, comportamenti a loro conoscenza anche solo potenzialmente causativi di danno al patrimonio pubblico storico-artistico sommerso, nonché consistenti nel danneggiamento o nel furto dei relativi beni” .

3 Art. 90, Scoperte fortuite, 1: “Chi scopre fortuitamente cose immobili o mobili indicate nell’artico 10, ne fa denuncia entro ventiquattro ore al soprintendente o al sindaco ovvero all’autorità di pubblica sicurezza e provvede alla conservazione temporanea di esse, lasciandole nelle condizioni e nel luogo in cui sono state rinvenute. 2. ove si tratti di cose mobili delle quali non si possa altrimenti assicurare la custodia, lo scopritore ha facoltà di rimuoverle per meglio garantire la sicurezza e la conservazione sino alla visita dell’autorità competente e, ove occorra, di chiedere l’ausilio della forza pubblica. 3. Agli obblighi di conservazione e custodia previsti nei commi 1 e 2 è soggetto ogni detentore di cose scoperte fortuitamente. 4. le spese sostenute per la custodia e rimozione sono rimborsate dal Ministero” .

Art. 91, Appartenenza e qualificazione delle cose ritrovate, comma 1: “Le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato e a seconda che siano immobili o mobili,

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fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile, ai sensi degli articoli 822 e 826 del codice civile”.

4 Regola 4 “Le attività sul patrimonio culturale subacqueo devono impiegare tecniche e metodi di ricognizione non distruttivi, da preferire al recupero degli oggetti. Se lo scavo e il recupero sono necessari per scopi di studio scientifico o per la messa in sicurezza del patrimonio culturale subacqueo, metodi e tecniche usati devono essere i meno distruttivi possibile e contribuire alla conservazione dei resti”.

Regola 22 “le attività sul patrimonio culturale subacqueo possono essere condotte solamente sotto la direzione e il controllo, e nella costante presenza, di un archeologo subacqueo qualificato con competenza scientifica idonea alla natura del progetto” .

Regola 23 “Tutti i componenti dell’équipe incaricata del progetto debbono possedere qualifiche professionali ed una comprovata competenza in rapporto al loro incarico” .

Regola 24 “Il programma di conservazione deve provvedere al trattamento dei resti archeologici durante l’intervento sul patrimonio culturale subacqueo, nel corso del trasporto e a lungo termine. La conservazione deve essere condotta secondo gli standard professionali correnti” .

Regola 28 “Deve essere preparato un piano di sicurezza adeguato ad assicurare l’incolumità e il benessere dei componenti del progetto e di terzi ; esso deve essere conforme ad ogni prescrizione normativa e professionale in vigore” .

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sebastiano tusa

Aspetti etico-giuridici nella ricerca archeologica subacquea

Se si pensa all'estensione dei mari si capisce che essi sono stati e sono ancora oggi i depositari di una fetta estremamente importante del grande patrimonio che ci è stato tramandato sia sotto il profilo quantitativo che, soprattutto, qualitativo dato che esso può fornire elementi di conoscenza e di godimento del tutto particolari ed eccezionali.

Oggi l'archeologia subacquea ha fatto enormi passi in avanti da quando, nel dopoguerra, l'uso degli autorespiratori è diventato possibile. Da allora si contano a decine gli esempi di iniziative, ricognizioni e ricerche effettuate in più parti del mondo. I risultati sono incoraggianti e l'attuale momento di grande interesse verso questo settore della ricerca storica lo dimostra.

Quello che vogliamo ribadire, per sgombrare subito il campo da facili, anche se legittimi entusiasmi, è che di ricerca storica si tratta. Lo dimostra il fatto che, al di là della spetta-colarità del recupero, oggi corredato di alta tecnologia, i risultati più significativi di quasi un quarantennio di ricerche si sono avuti nell'avanzamento della conoscenza storica dell'antichità. Storia intesa sia come aggiunta di tasselli sconosciuti ai quadri esistenti, sia come capacità di approfondire la conoscenza di determinati periodi e aspetti della vita dell’uomo.

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Oggi le grandi possibilità che la tecnologia sviluppatasi nel campo delle ricerche ed attività oceanografiche offre può essere messa a disposizione della ricerca archeologica, anche senza grossi interventi finanziari, ma soltanto grazie ad un coordinamento maggiore tra settori scientifici diversi ancora distanti ed aree d'intervento privato che hanno sviluppato grande esperienza al riguardo.

Riteniamo che vi sia una certa urgenza di operare in questo settore con serietà e competenza, ma anche con incisività e determinazione, poiché questo patrimonio sommerso non è una fonte inesauribile o rinnovabile, ma è sottoposto ad un degrado continuo che si incrementa in progressione quasi geometrica. La diffusione della pesca sportiva e la sempre più diffusa capacità di immersione, nonché l'incremento di interventi di ingegneria idraulica dal forte impatto ambientale, e la pesca industriale (strascico) spesso distruttiva, determinano, infatti, grandi sconvolgimenti, distruzioni e depauperamenti in questo grande museo subacqueo.

La Sicilia, come ogni isola che si rispetti, per di più

situata nel più ricco tra i mari del mondo, è, dagli inizi, saltata a pieno titolo sulla ribalta dell'archeologia subacquea. Lo sviluppo costiero dell'isola e la presenza di arcipelaghi limitrofi la avvantaggia come potenziale area egemone nel settore in questione. Ed in effetti la breve storia di ricerche e scoperte fortuite registrate nelle acque siciliane ne costituisce una chiara riprova.

Anni di attività e di esperienza sono stati valorizzati con la creazione da parte della Regione Siciliana della Soprin-tendenza del Mare Gruppo d’Indagine Archeologica Subacquea Sicilia che costituisce un organo centrale di ricerca che agisce nei mari isolani con competenza esclusiva.

È, comunque, da tempo ormai che la tutela dei beni archeologici sommersi, soprattutto quelli marini, è oggetto di

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particolare attenzione da parte delle istituzioni preposte alla tutela e delle forze dell’ordine. Ciò in virtù di un sempre mag-giore interesse scientifico verso le testimonianze provenienti dal mare, ma anche per l’oggettiva mole di trafugamenti che si sono sempre più incrementati in seguito alla diffusione degli sport subacquei al livello di massa.

Un indubbio progresso nella didattica subacquea ha portato alla volgarizzazione delle tecniche di apprendimento con il risultato che se fino agli anni ’70 era necessario un corso di diversi mesi per acquisire i rudimenti dell’immersione con autorespiratore, successivamente sono bastati, e bastano, soltanto sette giorni per essere in grado di indossare ed usare l’attrezzatura necessaria per raggiungere almeno i venti metri di profondità.

Non è necessario indugiare sui pro e contro di questa rivoluzione nell’andar per mare, ma è indubbio che tutto ciò ha provocato un aumento vertiginoso del rischio per la salvaguardia del nostro patrimonio subacqueo soprattutto marino.

Ne deduce che il rischio trafugamento, a differenza di quanto avviene per i beni archeologici terrestri, non è tanto legato al fenomeno delle criminalità organizzata che depreda sistematicamente (o tenta di depredare) le vaste concentrazioni necropolari del meridione o intraprende vere e proprie sistematiche attività di scavo illegale, o furti in depositi e musei già esistenti.

L’emorragia di beni archeologici sommersi è dovuta soprattutto ad un diffuso e pessimo costume che ingenera, anche in soggetti non particolarmente adusi al crimine, anzi spesso tra la cosiddetta area dei benpensanti, l’abitudine a pensare che il prelevamento di una o più anfore da un relitto non sia un crimine, bensì una debolezza giustificabile sia dalla gran quantità di reperti esistenti nei nostri mari, sia dall’apparente disinteresse delle istituzioni verso questo patrimonio. Tale

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mentalità si è lungamente basata sull’errato concetto che ogni reperto giacente sul fondo del mare dovesse essere necessariamente prelevato. Oggi si è ampiamente diffusa, invece, la corretta impostazione della necessità di lasciare il più possibile intatti i contesti permettendo ai reperti di non abbandonare il loro luogo di originaria giacitura. In tal senso s’indirizzano anche i principi ispiratori della convenzione UNESCO del 2001.

È purtroppo ancora diffusa la mentalità che il reperto che si trova al fondo del mare stia in quel posto non per scelta ragionata di chi ha la responsabilità della tutela e della ricerca, bensì per incuria. È nostro compito, pertanto, lavorare affinché tale mentalità cambi e, così come per la natura, si diffondano mentalità e costume che portino a pensare che così come è più bello ed istruttivo guardare un fiore nel suo contesto, piuttosto che in un vaso, ancorché di Murano, o ammirare le evoluzioni di un falco tra le rupi piuttosto che in una voliera, anche, nel nostro campo, è più istruttivo ed entusiasmante osservare un’anfora nel suo relitto piuttosto che su un freddo tripode di museo o peggio di un salotto signorile.

Tuttavia, anche se le depredazioni del patrimonio archeologico subacqueo costituiscono un fenomeno diffuso riconducibile in massima parte non ad attività criminale organizzata, bensì ad un diffuso malcostume, è bene avere presente, al fine di non sottovalutare il problema, che spesso, soprattutto nelle zone ad alto valore turistico, proprio in virtù del malcostume di cui sopra, è sorto un mercato di anfore ed ancore che si articola sulla richiesta dei singoli villeggianti residenti con seconda casa ai subacquei locali di pochi scrupoli di procurargli il pezzo archeologico subacqueo necessario per definire con un tocco di storia e di mare l’arredo estivo. Addirittura già in fase di progettazione spesso il pezzo archeologico subacqueo viene allocato, e quindi procurato, per il futuro arredo. Si tratta di un vero e proprio furto su

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commissione che seppur non raggiunge dimensioni eccessive costituisce un fenomeno pericoloso da non sottovalutare ed anzi da contrastare.

Infine una terza categoria di furto del patrimonio archeologico subacqueo è costituito da vere e proprie spedizioni effettuate soprattutto da gruppi non nazionali mediante vere e proprie crociere finalizzate da parte di natanti di grosse dimensioni aventi natura di imbarcazioni da diporto. Risulta che, soprattutto nelle zone costiere più difficili da controllare, siano stati effettuati dei veri e propri recuperi archeologici subacquei da parte di gruppi specializzati ed attrezzati che, talora, si sono anche camuffati da archeologi professionisti in missione autorizzata agli occhi della locale marineria e diportistica. Tale tipologia di depredazione si inquadra nel più generale fenomeno dei cosiddetti “treasure hunters” che ha altrove le sue più eclatanti manifestazioni (Antille, Carabi etc.), ma che nel Mediterraneo è da sempre presente e che spesso viene alimentato da cospicui finanziamenti anche istituzionali esteri, come nel famoso caso “Ballard”. Questo fenomeno generalmente si rivolge alle acque internazionali ove l’attuale mancanza di normativa impedisce ogni intervento da parte dei paesi rivieraschi, tuttavia spesso è presente anche in acque territoriali e, soprattutto, può essere indirettamente contrastato nel momento in cui l’imbarcazione si appoggia a qualche approdo nazionale.

Al fine di contrastare quanto succintamente espresso è ovviamente necessario attivare un’azione repressiva forte basata sul controllo delle attività d’immersione nelle zone a rischio archeologico, nonché sul controllo attivo di banchina e dei natanti sospetti.

Tale azione repressiva deve basarsi necessariamente, per essere veramente efficace e non eccessivamente dispendiosa, su due elementi di fondamentale necessità.

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Da un lato è indispensabile che le strutture istituzional-mente preposte alla tutela elaborino delle dettagliate mappe riservate contenenti il posizionamento dei reperti e delle aree a rischio archeologico subacqueo da fornire alle forze dell’ordine onde potere effettuare un controllo capillare del mare.

Dall’altra è necessario che anche per questa attività si realizzi un coordinamento tra le varie forze che agiscono in mare onde evitare sovrapposizioni e aggravi inutili nell’impiego delle risorse sia umane, che strumentali che economiche.

Ma siamo tutti coscienti che la sola tutela repressiva non basti a contrastare un fenomeno così radicalmente diffuso.

Purtroppo i dati che affluiscono dimostrano che anche in presenza di tutela repressiva attiva il fenomeno stenta a scomparire. Pertanto ritengo che sia necessario agire anche mediante un tipo di controllo che possa prevenire il fenomeno e che si basi da un lato su una capillare attività informativa ed educativa, dall’altro su un controllo diretto, intensivo ed attivo del mare. Per quanto attiene al primo aspetto di questa strategia non è necessario dilungarsi eccessivamente poiché i mezzi mediatici ed informativi sono talmente tanti che il discorso ci porterebbe molto lontano. Voglio solo ribadire che in questa azione informativa un grosso ruolo lo devono svolgere le associazioni del volontariato culturale, la scuola e le strutture ricettive. Ma anche le associazioni nazionali ed internazionali che raggruppano i subacquei come Fipsas, Padi e Nase.

Per il secondo aspetto abbiamo già intrapreso una strada che si sta mostrando efficace, basata sull’affidamento control-lato della custodia, nonché della eventuale fruizione di aree, relitti o singoli reperti giacenti sul fondo del mare a persone di provata fiducia mediante il sistema dell’assuntoria di custodia a titolo oneroso per la pubblica amministrazione o talvolta anche gratuita. Anche se a titolo oneroso tale sistema di controllo costa qualche milione l’anno e, pertanto, risulta ininfluente ai fini di bilancio. Ovviamente tale sistema diventa efficace

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quanto più oculata sia la scelta di chi deve effettuare tale cu-stodia. In genere abbiamo selezionato i personaggi in questione cercando di valutarne l’onestà, la credibilità e l’autorevolezza nell’ambito del loro territorio. Ma abbiamo anche cercato di valutare l’interesse specifico di tali personaggi nel mante-nimento dell’integrità dei contesti archeologici subacquei. In tal senso gli esponenti di spicco dei vari club diving sparsi sul territorio risultano di grande aiuto poiché sono sempre loro a pretendere l’integrità dei contesti funzionale all’ottimizzazione della loro offerta di turismo subacqueo. L’integrazione tra interesse delle istituzioni, e, quindi, della collettività, a tutelare il patrimonio archeologico subacqueo ed interesse a preservare una risorsa ed un’occasione di lavoro da parte dei gestori delle attività connesse con il turismo marino (sia essi diving, che albergatori, che operatori nautici) è risultata e risulterà sempre più vincente in futuro. Oggi il turismo subacqueo è in netta ascesa pur essendo un fenomeno di nicchia. Ed in questo campo quello rivolto alla fruizione delle valenze archeologiche subacquee risulta in netto incremento. Pertanto è possibile il connubio tra istituzioni ed imprenditoria proprio nel campo della tutela quale elemento strategicamente importante per entrambi gli ambiti.

In tal senso abbiamo sperimentato già quanto detto sia a Ustica che a Levanzo che a Pantelleria ed i risultati risultano soddisfacenti. Infatti anche se il triste fenomeno del tentativo di furto è stato anche in queste realtà registrato, tuttavia è stato subito individuato e neutralizzato ritrovando immediatamente i reperti appena decontestualizzati e, quindi, ricollocandoli al loro posto, o individuando e segnalando alle forze dell’ordine movimenti ed attività sospette. Responsabilizzare chi da queste risorse del mare deriva il proprio sostentamento è stato e sarà, a mio avviso, una scelta strategicamente vincente.

Al fine di contrastare tale inquietante fenomeno di depredazioni sistematiche è, pertanto, necessario equilibrare

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l’intervento repressivo con quello preventivo cercando di stimolare alla tutela quelle forze sane e quegli operatori del mare che effettivamente hanno l’interesse alla tutela. In questo campo la marineria ha un grande ruolo non tanto perché direttamente interessata alla tutela storico-archeologica, quanto perché evidenti fattori di orgoglio di categoria e di conoscenza secolare del mare ne fanno un soggetto che, opportunamente stimolato, può diventare determinante per la salvaguardia del patrimonio in questione.

Abbiamo iniziato un lento, ma incisivo e fruttuoso, percorso di avvicinamento con le marineria giungendo a rompere quel muro di diffidenza che per decenni passati ha prodotto la riluttanza e l’ostilità verso le istituzioni della tutela. Tale lavoro di paziente tessitura di un dialogo con la marineria ha portato alla segnalazione di importanti relitti che hanno costituito oggetto di attenzione da parte delle istituzioni e che hanno anche prodotto un grande risultato nel campo dell’accre-scimento del patrimonio dello stato. Pensiamo, ad esempio, al relitto medievale di San Vito lo Capo, trovato per la segna-lazione di un pescatore locale, o al relitto di Punta Galera di Favignana segnalatoci analogamente da locali addetti alla pesca.

Ma in tale quadro sono da mettere anche in conto le consegne spontanee effettuate da alcuni pescatori mazaresi di vario materiale anforaceo e, soprattutto, dei grandi bronzi che sono stati ampiamente pubblicizzati recentemente come il satiro, la zampa di elefante ed il calderone bronzeo consegnati dal capitano Francesco Adragna. Questi avvenimenti hanno dimostrato che è cambiato l’atteggiamento della marineria nei confronti delle istituzioni. Ma l’equilibrio raggiunto è precario poiché la marineria si aspetta che quanto consegnato possa costituire effettivamente occasione di visita attraverso adeguate esposizioni museali che possano costituire un contributo all’arricchimento dell’offerta didattica e turistica delle zone in questione. E si aspetta anche che non si instauri un clima di

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sospetto che la criminalizzi, come è successo in seguito ad alcune uscite giornalistiche che hanno adombrato l’esistenza di attività criminose alla base di questi rinvenimenti.

Il ritrovamento di reperti archeologici all’interno delle acque sottoposte alla giurisdizione dello Stato è già da tempo oggetto di apposita disciplina normativa, come previsto dalla Legge 1/06/1939 N. 1089, al cui articolo n. 3 viene data facoltà al Ministro per i beni e le attività culturali di eseguire ricerche archeologiche o in genere opere per il ritrovamento di beni che presentano interesse storico, archeologico o etnografico, in qualunque parte del territorio della Repubblica Italiana. Questa normativa è da considerarsi applicabile anche ai ritrovamenti avvenuti nelle acque interne e nelle acque territoriali. Le direttive d’azione per l’applicazione della legge del 1939 sono contenute nel Decreto Interministeriale 12 luglio 1989, contenente “Disposizioni per la tutela delle aree marine di interesse storico, artistico e archeologico”.

Il problema dei reperti archeologici sommersi assume importanza nel momento in cui il recupero dei reperti avviene in acque internazionali, non potendosi in quest’ambito applicare la singola normativa dei vari Stati. La ratifica della “Convenzione di Montego Bay” ha segnato il primo passo verso la chiusura del deficit normativo internazionale. La ratifica ha permesso la fissazione di nuove regole tra gli stati, quali la creazione di una Zona contigua marittima fino a 24 miglia dalla costa, all’interno della quale la Convenzione attribuisce allo stato il potere terri-toriale costiero per quanto riguarda il suo patrimonio culturale. La rimozione senza autorizzazione di reperti archeologici in quest’area costituisce una violazione del territorio dello stato, come previsto dall’articolo n. 33 della Convenzione.

Tuttavia il problema del rinvenimento di oggetti d’inte-resse storico-archeologico da parte di natanti italiani al di fuori delle 24 miglia di competenza nazionale era stato già risolto in Italia grazie alla sentenza di Cassazione che chiuse la lunga

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diatriba sulla proprietà della già ricordata statua di bronzo fenicia rinvenuta nel 1955 dal motopesca di Sciacca Angelina Madre. Quella sentenza rimane ancora oggi esemplare per la definizione della condizione giuridica dei reperti archeologici trovati in mare extraterritoriale. In assenza di prove certe circa la zona di rinvenimento il giudice, in virtù dell’art. 4 del codice della navigazione, giudicando le reti estensioni del natante, stabilì che una volta venuto in contatto con imbarcazione battente bandiera italiana, il reperto fosse da sottoporre alla legge nazionale (l’allora 1089 del 1939) e, quindi, di proprietà dello Stato. Quella brillante ed esaustiva sentenza continua ancora oggi a fare giurisprudenza assicurando allo Stato la possibilità di recuperare tesori reali e scientifici.

Tuttavia il problema è continuato a essere oggetto di at-tenzione in seguito alle scoperte periodicamente compiute nei mari circostanti la Sicilia sottolineando i rischi di depredazioni o distruzioni ad opera dei vari “predoni” del mare o, più semplicemente, per l’azione “inconsapevole” delle reti a strascico.

Quelle preoccupazioni fecero breccia nelle politiche nazionali europee dando l’avvio alla lunga istruttoria che portò nel 2001 alla promulgazione del trattato internazionale UNESCO sulla protezione del patrimonio storico e culturale subacqueo mondiale. Si tratta di uno strumento giuridico universale con alti standard protettivi e ottime qualità normative e metodologiche. Attraverso questo importante strumento si regola giuridicamente una materia finora confusamente trattata e, soprattutto, si colma un vuoto normativo che ha permesso gli indiscriminati saccheggi degli ultimi anni, anche se le norme in materia di rinvenimenti in acque extraterritoriali sono da taluni giudicate non incisive e cogenti. Tuttavia la convenzione contiene aspetti notevolmente innovativi come lo stimolo a vedere la ricerca e la gestione del patrimonio culturale subacqueo, soprattutto in acque extraterritoriali, come

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un’attività regolata in regime di cooperazione internazionale, così come la raccomandazione di evitare il più possibile il prelievo di oggetti dai contesti originari stimolando la creazione di parchi ed itinerari archeologici subacquei, che la Sicilia e l’Australia hanno già realizzato.

Ribadisce, infine, il principio che ogni attività di ricerca sul patrimonio culturale subacqueo deve essere condotta da specialisti del settore e non da improvvisati ricercatori, nonché che il patrimonio culturale subacqueo non può essere oggetto di speculazioni commerciali.

Conseguenza di questi fatti narrati fu la nascita della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana (17 settembre 2004) che, unica in Italia, ha operato perseguendo le principali finalità che le competono come definito nella sua legge istitutiva. Pertanto la ricerca, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale subacqueo che insiste nei mari della regione sono state i principali ed esclusivi compiti che sono stati portati avanti compatibilmente con i mezzi e il personale disponibile. Nonostante la tradizione di questi studi e di queste ricerche sia, in Italia, molto legata alla definizione di “archeologia subacquea”, con quello che ne deriva al livello di ambito d’intervento, è, ormai, abbastanza diffuso il concetto che con tale termine debba intendersi non soltanto ciò che tradizionalmente è stato trattato come tale (evidenze e relitti databili all’evo antico o tutt’al più al medioevo), bensì tutto ciò che si trova sul fondo del mare (o al di sotto) che abbia un valore storico e/o culturale e/o artistico etc.

Tale definizione ha anche trovato la sua legittimazione giuridica nel D.L. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che ha accorpato la normativa vigente in materia attribuendo anche ai natanti moderni dignità di tutela e, soprattutto, attribuendo ai principi della Conven-zione UNESCO sulla Protezione del Patrimonio Culturale Sommerso (2001), ratificata dal Parlamento ed entrata in vigore

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anche per l’Italia l’8 aprile del 2010, valore applicativo anche nel territorio nazionale. Ciò significa che oggi è preferibile parlare di “Patrimonio Culturale Sommerso” piuttosto che di “Archeologia Subacquea” poiché si attribuisce a tutto ciò che si conserva nelle acque, sia interne sia marine, un potenziale valore tale da necessitare di tecniche e metodologie d’intervento proprie dell’archeologia.

È sulla base di tali convinzioni e principi che l’attività della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana si è rivolta verso tutte quelle testimonianze, anche moderne, che ab-biano un valore storico e/o culturale e/o artistico indipen-dentemente dalle epoche di appartenenza operando nel rispetto dei criteri di scientificità, compatibilmente con le situazioni di emergenza riscontrabili, sanciti proprio nel capitolo definito ”Annesso” alla Convenzione UNESCO sulla Protezione del Patrimonio Culturale Sommerso.

Da quanto suesposto è chiaro che la ricerca, la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico e archeologico sommerso sono aspetti di una medesima strategia che non vanno separati. Anzi il coordinamento e, soprattutto, l’equilibrio tra le varie azioni è la chiave per garantire il successo di ogni corretta iniziativa volta a tutelare il grande scrigno del mare per noi e per le generazioni future. La salvaguardia e, soprattutto, la garanzia della sopravvivenza delle qualità educative del messaggio di storia e di cultura che emana dalle acque non sono atti che possono essere lasciati all’improvvisazione o possono scaturire da principi egoistici meramente commerciali o scientifici. Soltanto la cooperazione tra diversi specialisti e istituzioni e soprattutto una solida base di principi volti al soddisfacimento d’interessi collettivi deve ispirare la nostra linea di condotta pena la perdita di una delle più consistenti legittimazioni alla nostra stessa esistenza di abitanti di questo pianeta per tre quarti costituito da acqua.

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Nel breve volgere della storia dell’archeologia subacquea come scienza, cioè dagli anni ’50 del secolo appena finito, a oggi, la parola “recupero” è stata a lungo intrinsecamente legata a ogni pratica che comportasse lo studio, l’analisi e la fruizione di beni, relitti e architetture sommerse. Ciò rispondeva a un costume diffuso fino all’avvento delle moderne tecniche d’immersione che hanno “democratizzato” l’andare per mare e nel mare allargando in curva esponenziale il numero di coloro che possono agevolmente raggiungere le profondità marine, seppur limitate.

Oggi la situazione è notevolmente mutata per una sviluppata sensibilità verso le testimonianze del passato che, sia in terra sia in mare, si tende a non decontestualizzare. Una visione squisitamente antropologica del bene archeologico, agevolata e amplificata da una lettura processualista dei fenomeni storico-archeologici, ci impone di non scomporre i contesti che la storia ed il tempo ci hanno preservato uniti. Pertanto è costume e mentalità diffusa tentare di lasciare il più possibile i materiali nei contesti originari laddove ciò sia possibile per inesistenza di problemi di tutela e conservazione.

Il mare non sfugge a questa logica. Anzi il trattato UNESCO per la protezione del patrimonio culturale sommerso ci raccomanda proprio di evitare il più possibile il prelievo di oggetti dal fondo del mare. Il mare deve essere visto, pertanto, come un grande museo diffuso ove le testimonianze dell’uomo del passato convivono e vanno lette senza alterarne il contesto originario di giacitura.

È proprio in virtù di questi principi che da anni abbiamo intrapreso in Sicilia il costume di lasciare i reperti in mare.

Il primo parco archeologico subacqueo in Sicilia fu realizzato nel 1990 dopo il rinvenimento di decine di reperti archeologici durante la rassegna di attività subacquee organizzata dall’Azienda del Turismo di Palermo. La peculiarità del sito era la presenza di numerose ancore di epoche diverse,

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principalmente romane, musealizzate in situ a una profondità tra gli 8 e i 24 metri, collegate da cime guida e dotate di cartellini esplicativi.

Da quell’intervento si è fatta molta strada talché oggi molteplici sono gli itinerari archeologici subacquei già realizzati. Oggi in Sicilia ce ne sono tanti creati dalla Soprintendenza del Mare e gestiti in collaborazione con i tanti diving clubs locali. Ricordiamo, alle Isole Egadi, gli itinerari di Capo Grosso, luogo d’ancoraggio della flotta romana prima dell’attacco alle navi cartaginesi del 10 marzo 241 a.C. e presso il relitto romano di Cala Minnola, dove ad una profondità di 30 metri giacciono un centinaio di anfore del carico, del tipo Dressel 1 b. Per proteggere il sito e permettere al pubblico dei non subacquei di ammirarne le caratteristiche, da luglio 2006 è attivo un sistema di telecontrollo basato su quattro telecamere subacquee posizionate intorno al sito e una telecamera esterna. Il telecontrollo è realizzato mediante telecamere digitali ad alta risoluzione scafandrate e connesse a cavi di alimentazione e di trasmissione. I cavi a fibra ottica sono direttamente collegati a un impianto di trasmissione dati posto su un traliccio che invia i segnali video mediante due parabole poste a Levanzo (trasmet-titore) e all’isola di Favignana (ricevitore).

A Marettimo è stato realizzato, a Cala Spalmatore, un itinerario sul relitto di una nave settecentesca, probabilmente pirata, con 8 cannoni ad una profondità di 18 metri.

A Pantelleria, presso Cala Gadir, dove esistono consi-stenti tracce di almeno due relitti di navi onerarie del III - II sec. a.C., è stato realizzato un itinerario vistabile anch’esso dotato di sistema di telecontrollo visibile anche sul sito web della Soprintendenza del Mare.

Sempre a Pantelleria, presso Punta Limarsi e Punta Tre Pietre, sono stati realizzati altri due itinerari che danno l’idea di luoghi di ancoraggio data la presenza di grande concentrazione di ancore antiche e moderne in pietra ed in metallo. A Cala

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Tramontana è stato realizzato un itinerario, dove si nota la presenza di resti del carico di un relitto databile intorno al III sec. a.C.

A Ustica, presso Punta Falconiera, è visitabile un itinerario sui 30 metri di profondità dove si possono ammirare un’ancora di ferro a quattro marre molto concrezionata, un ceppo d’ancora mobile in piombo con fori distali di epoca classica e una contromarra anch’essa in piombo di epoca romana, un’imponente ancora bizantina a due marre ricurve e vari frammenti di anfore. Nelle pareti rocciose si possono ammirare la fauna e la flora marina, madrepore di vario tipo tra cui la leptopsammia pruvoti e le incrostazioni di astroides calycularis che hanno colonizzato massicciamente questi scogli.

Presso l'isola di Basiluzzo, non lontano da Panarea, si può visitare l’impianto di una peschiera oggi sommersa e ammirare spugne, madrepore di vario tipo, incrostazioni di astroides calycularis e di ricci di mare che hanno colonizzato l’ambiente e le strutture murarie sommerse e il tipico fenomeno eoliano delle fumarole subacquee.

Uno dei più entusiasmanti itinerari subacquei si trova a Filicudi, presso Capo Graziano, dove si sono accumulate le tracce di oltre dieci naufragi compresi tra l’epoca preistorica e gli ultimi anni del secolo scorso. A una profondità tra i 35 e i 45 metri è possibile osservare le anfore del relitto “Roghi” del primo quarto del II sec. a.C.

Anche presso la suggestiva Tonnara di Scopello, in pros-simità dei Faraglioni, è stato realizzato un percorso subacqueo che consente la visione di diverse tipologie di anfore.

A Cefalù, in località Cala Kalura, si può ammirare un’antica struttura portuale artificiale di epoca bizantina per una lunghezza di circa di 50 metri e una larghezza di 15 ad una profondità tra i 2 e i 6 metri.

Diventano, pertanto, fondamentali l’educazione, la pre-venzione e il controllo. Ovviamente il turismo subacqueo si

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rivolge ai vari aspetti del potenziale godimento del mare che vanno dal gusto intrinseco per l’immersione, alla passione per la fotografia, per la semplice osservazione di fauna e flora, sempre meno alla pesca e sempre più all’archeologia dei relitti e dei siti subacquei. La creazione di veri e propri parchi archeologici subacquei sia sotto forma d’itinerari lineari (percorsi guidati attraverso singoli reperti) che di areali sottoposti a tutela e controllo e, naturalmente, fruibili anche per una visita non specialistica, è una delle forme più semplici della valorizza-zione e fruizione del patrimonio marino.

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viola vascello

l’appartenenza allo stato dei beni archeologici e la notifica di culturalità

La tutela del “patrimonio storico e artistico della

Nazione” rientra nei compiti costituzionali della Repubblica Italiana (art.9 Cost.), e da siffatta dimensione di valenza costituzionale del valore protetto e da proteggere ne deriva che la legislazione di tutela dei beni culturali, in particolare dei beni archeologici, è informata al presupposto fondamentale della appartenenza allo Stato dei beni archeologici e storici che vengano rinvenuti.

Gli istituti civilistici dell'occupazione e dell'invenzione, quali modi di acquisto della proprietà (artt. 923 e 929 c.c.), di cui è applicazione la disciplina del “tesoro” scoperto (art. 932 c.c.), sono derogati in considerazione della peculiarità degli oggetti. L'art. 826 co.2 Cod. Civ. assegna al patrimonio indisponibile dello Stato “le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo”. Successivamente l'art. 88 Dlgs. 29.10.1999 n. 490, Testo Unico dei. beni culturali, ha disposto che “ le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico”, da chiunque e in qualunque modo ritrovati, appartengono allo Stato. Attualmente, l'art. 91 Dlgs. 22.1.2004 n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio (che all’art. 184 ha abrogato il Dlgs. 490 del 1999), dispone

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l’appartenenza al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato delle cose, a seconda se immobili o mobili, di cui all’art. 10, cioè “che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” .

Il problema è il riconoscimento dell’“interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico” da attribuire al bene scoperto o ancor più se il mancato riconoscimento impedisca il sorgere dell’obbligo di tutela e appartenenza allo Stato.

Il riconoscimento, in gergo è detto “notifica”, è previsto per le sole cose di proprietà privata, al fine di assoggettarle alle limitazioni e agli obblighi della legislazione di tutela (art. 3 1. 1089/39; art. 5 Dlgs. 490/99; art. 15 Dlgs. 42/04).

Il presupposto per la tutela è che si tratti di cose in cui l’interesse culturale sia “particolarmente importante”, ovvero, ai fini dell’assoggettamento alla tutela, non basta la mera appartenenza alle categorie storica, artistica, archeologica. Questo dato obiettivo è invece sufficiente, ove il bene sia di proprietà pubblica, a far scattare, tra l’altro, l’obbligo dei legali rappresentanti degli enti alla compilazione degli speciali elenchi (art. 4 1. 1089/39; art. 5 d.lgs. 490/99: tuttavia con effetti ricognitivi, non costitutivi).

La teorica del rapporto mancato riconoscimento-mancato assoggettamento agli obblighi di tutela è stata recisa dalla Corte di Cassazione – Prima Sezione Civile con la sentenza n. 2995 del 10.2.2006.

La massima recita “che le cose per il conseguimento delle quali il Ministero per i beni culturali ha agito in giudizio, non siano state notificate, non significa né che le stesse non abbiano valore culturale, né che esse non appartengano al patrimonio pubblico”.

Anzi per la Suprema Corte, afferma: la notifica depone per la proprietà privata del bene, mentre per l’assoggettamento delle cosa alla proprietà pubblica (il che avviene, per i beni archeologici, al momento del loro rinvenimento) è sufficiente la

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l’appartenenza allo stato dei beni archeologici

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presenza nell’oggetto dell’interesse storico, artistico, archeologico, anche semplice, o generico, abbia questo costituito o meno oggetto di accertamento. Questo spiega perché, prima di determinarsi a procedere alla rivendicazione delle cose, lo Stato non operi formali riconoscimenti dell’interesse culturale (la notifica dei beni in possesso di privati cittadini, da parte dell’amministrazione potrebbe significare, anzi, una presunzione di proprietà privata), e nemmeno può trarsi argomento dalla remota conoscenza della detenzione privata delle cose, circa la non rilevanza dell’interesse, attesa l’imprescrittibilità della rei vindicatio.

Va osservato, con riferimento al recente Codice dei beni

culturali, di cui al DLgsl. 42/04, che le esigenze di conoscenza del patrimonio pubblico al fine di una sua miglior tutela, e di certezza delle situazioni proprietarie, hanno convinto negli ultimi anni della necessità, da un lato, di dare impulso alla catalogazione dei beni (vedi, tra l’altro, la 1. 19.4.1990 n. 84 e l’art. 17 del Codice), dall’altro di procedere alla verifica dell’interesse culturale dei beni storico-artistici, anche di proprietà pubblica (art. 12, comma 3, Codice). Resta però ineludibile il principio fondamentale per cui, fino al compimento della verifica di “culturalità” (qualora questa dovesse avere esito negativo), le cose sono comunque sottoposte alla legislazione di tutela (art. 12, comma 1), e che la verifica concernente i beni di proprietà pubblica, non si estrinseca in una formale “dichiarazione” (art. 13, comma 2, Codice Urbani).

La mancata “notifica” dei beni non dimostra che il bene non appartiene al patrimonio pubblico, anzi, dimostra il contrario. Il che significa che per gli altri beni, non “notificati”, è stata ritenuta l’esistenza dell’interesse culturale, in misura tale da determinarne l’appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato.

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In una precedente sentenza del 1.12.2004 n. 22501, la Corte di Cassazione si era pronunciata sulla diversa questione della sindacabilità del giudizio relativo all’interesse culturale degli oggetti, formulato dalla Soprintendenza, ma la questione invece successivamente esaminata dalla Suprema Corte viene diversamente impostata nei suoi presupposti teorici.

Per la teoria c.d. “dell’interesse qualificato” sarebbe necessario un quid pluris (secondo una teoria garantista occorrerebbe, addirittura, un pregio artistico) per determinare l’interesse archeologico del bene rispetto alla mera appartenenza di un bene alla categoria degli oggetti archeologici, in quanto reperiti nel sottosuolo. Ma detta teoria va verificata sia alla luce del testo normativo, sia in connessione alle regole ed agli scopi della disciplina archeologica: per via del richiamo normativo a nozioni di dominio delle discipline extragiuridiche.

La stessa definizione di culturalità, secondo la dottrina tradizionale, si presenta problematica, atteso che l’ordinamento non ne offre una qualifica unitaria e riassuntiva e che lo stesso riferimento della legge, alle “testimonianze materiali aventi valore di civiltà” (art. 2, comma 2, Codice Urbani), non si presenta come nozione giuridicamente valida, ma laminale, ovvero una nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio contenuto, che viceversa deve esser definito mediante il rinvio a discipline non giuridiche.

All’espressione “cose che presentano interesse” non va assegnato valore diverso da quello, più chiaramente esplicato nella lett. a) dell’art. 1 (“cose che interessano”), di una generica “presa in considerazione” dell’oggetto da parte delle varie branche delle discipline umanistiche.

In particolare, per gli oggetti archeologici di nuova scoperta, la dizione categorica dell’art. 44 (“le cose ritrovate appartengono allo Stato”) non lascia adito a distinzioni suggerite dal grado di interesse del bene riportato alla luce. Ed è

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una formula che, a scanso di equivoci, la legge ripete a sigillo di ogni possibile circostanza in cui avvenga il ritrovamento, non solo a seguito di ricerche effettuate dal Ministero, ma anche su concessione (art. 46, Primo comma 1-1089/39), su autorizzazione (art. 47, 3° comma), o fortuitamente (art. 49, 1° comma): il Testo Unico lo prevede complessivamente nell’art. 88, il Codice Urbani nell’art. 91.

L’attribuzione ai privati delle cose scoperte, in luogo dell’indennità di occupazione, o come premio per il ritrovamento (art. 89, comma 4, T.U.; art. 92 Codice, che prevede, come alternativa rimessa alla scelta dell’interessato, una detrazione d’imposta), integra in ogni caso un trasferimento dallo Stato, che è in via assoluta il riservatario della proprietà dell’oggetto archeologico, indipendentemente dal rilievo storico e dal pregio artistico.

La tematica del dibattito sulla culturalità delle singole componenti il patrimonio storico-artistico si è incentrata sull’individuazione di un valore immanente al supporto materiale della cosa, la cui necessità di tutela trascenderebbe il regime proprietario del bene.

La presenza di tale valore non comporta che il medesimo debba comunque esser sottoposto ad una valutazione del pregio, secondo una variabilità insita nel mutamento dei gusti e dei modelli di riferimento. Una valutazione di questo tipo si confà, nelle categorie esemplificative menzionate dall’art. 1, ai soli beni artistici, con l’avvertenza comunque che la variabilità della valutazione estetica non esclude una rilevanza dell’opera nella ricostruzione storicistica dei gusti epocali.

La concezione del bene culturale ha conosciuto, a partire dalla Commissione d’indagine per la tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico, insediata con l. 26 aprile 1964 n. 310 (nota come Commissione Franceschini dal nome del Presidente), un iter unitario che, in luogo della pluralità delle “cose d’arte”, ha individuato una categoria concettuale unitaria,

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tesa ad accomunare tutti i beni “aventi riferimento alla storia della civiltà”.

Non si possono, tuttavia, perdere di vista le peculiarità proprie di ogni settore culturale. La stessa Commissione Franceschini ammette l’esistenza di esigenze differenti, proprie di ognuna delle categorie di beni elencate dall’art. 1 l. 1089/39. Alla cosa d’interesse archeologico non può darsi altro connotato, se non di appartenere al passato e provenire dal sottosuolo, in questo da comprendersi il sommerso, il subacqueo, poiché niente può essere trascurato nell’ottica ricostruttiva delle civiltà antiche. Per ogni area archeologica è indispensabile per lo studioso la conoscenza di tutti gli oggetti provenienti dal sottosuolo, singolarmente e nella reciproca connessione. Non è solo importante assicurare alla conservazione un determinato oggetto, nella sua integrità, quanto conoscerne la provenienza ed il contesto.

Scopo dell’archeologia è di ricostruire la storia dei popoli, e della storia fanno parte non solo la vita e gli ambienti delle classi dominanti, ma anche la vita di tutti i giorni delle popolazioni antiche, e la vita quotidiana non si può immaginare se non con anche le componenti povere, con le suppellettili semplici, pur prive di valore estetico.

Un possibile modo di acquisto della proprietà da dimostrare da parte del privato, oltre al rilascio di beni in natura quale premio per il rinvenimento, al proprietario e allo scopritore, che va provato dall’interessato attraverso l’esibizione del verbale di ripartizione degli oggetti, che viene consegnato in originale (artt. 95, 113 e 119 r.d. 30.1.1913 n. 363, regolamento per l’esecuzione delle leggi relative alle antichità e belle arti), potrebbe esser costituito dalla disponibilità del bene da parte del privato già in epoca anteriore alla prima legislazione di tutela dei beni culturali (legge 20.6.1909 n. 364), con cui venne configurata la proprietà statale dei beni archeologici oggetto di rinvenimento.

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La Corte di Cassazione Civile ha ritenuto, con sentenza del 2.10.1995, n. 10335, che nell’azione di rivendica di beni archeologici promossa dall’amministrazione statale, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, non è fatto costitutivo negativo del diritto azionato, ma fatto impeditivo che deve essere provato da chi l’eccepisce: dal complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archeologiche, ed il relativo regime di appartenenza.

Principio generale e praesumptio iuris è la proprietà statale delle cose d’interesse archeologico, e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti, onde qualora l’amministrazione intenda rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti privati, incombe al possessore l’onere della prova sia della scoperta sia dell’acquisizione anteriormente all’entrata in vigore della legge 364 del 1909, a partire dalla quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato.

Una circostanza eccezionale che sia idonea a vincere la presunzione deve darsene la prova dal privato (Cass. 26.2.1985, n. 1672; 22.1.192, n. 709; 13.8.1992, n. 11149; 18.4.1995, n. 4337).

Spetterà al privato ragionevolmente - dato il tempo trascorso, ormai, dal 1909 - addurre di aver ricevuto il bene a titolo derivativo, per successione ereditaria, e dare compiuta dimostrazione sia sotto il profilo della ricomprensione del bene nell’asse ereditario, sia del ritrovamento in epoca anteriore alla Legge 364 del 1909. In caso poi di acquisto lecito ( art. 55 T.U. beni culturali, e ora art. 54 Codice Urbani) da chi legittimamente possedeva il bene dovrà analogamente darsi dimostrazione. I beni culturali infatti sono destinati alla pubblica fruizione (art. 98 e ss. T.U. beni culturali, in relazione all’art. 9 Cost.: ora art. 102 Codice Urbani), e l’ordinamento non ne consente, se non in casi eccezionali, e a determinate

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condizioni, la proprietà privata a scopi di collezionismo, che corrisponde ad un uso privato esclusivo (Cass. 28.8.2002, n. 12608).

Sotto il profilo strettamente penale ( con evidenti annessi risvolti di natura civile ), è da menzionare l’ultima pronuncia della CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III, 08/03/2011 n. 8988, che per quanto concerne il Reato di impossessamento illecito di beni culturali, nell’affrontare il tema della, avvenuta o meno, verifica di “Culturalità” dei beni, ovvero nell’esistenza del Provvedimento formale che attesti la “Culturalità”, afferma che per l’impossessamento illecito di oggetti appartenenti allo Stato, non è necessario che gli stessi siano qualificati come tali da un formale provvedimento della pubblica amministrazione, essendo sufficiente la desumibilità della sua natura culturale dalle stesse caratteristiche dell’oggetto, non essendo richiesto neppure un particolare pregio, (sullo stesso punto anche: Cass. sez.3 2003/47922; Cass. sez,.3, 2001/45814; Cass. sez.3 2001/42291; Cass. sez.3 n.39109/2006). Non occorre quindi alcun provvedimento formale che dichiari l’interesse artistico, storico, archeologico e etnoantropologico delle cose di cui il privato sia stato trovato in possesso. Ed è quindi sufficiente “un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria (richiamando sul punto la Cass. pen. sez.3 n.35226 del 28.6.2007 ).

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del paesaggio, Napoli 2007.

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Regolamenti, leggi complementari, convenzioni internazionali, Napoli 2006.

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Napoli, Università degli Studî Suor Orsola Benincasa - ottobre 2012